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AGGIORNAMENTO AL 30.01.2014 |
ã |
"Tira
brutta aria" anche per i Segretari Comunali ... |
SEGRETARI COMUNALI:
L’Autorità Nazionale AntiCorruzione approva la
rimozione del Segretario Comunale di Rovato (BS). Il
Sindaco: “ORA CHI CI HA DIFFAMATO NE DOVRA’
RISPONDERE” (17.12.2013 - link a
www.leganordrovato.org). |
SEGRETARI COMUNALI:
Rovato, «Caro Segretario Lei è licenziato…» (15.11.2013
- link a www.quibrescia.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Lodi, il sindaco Uggetti insiste: "I segretari
comunali? Uno spreco" (10.11.2013 -
link a www.ilgiorno.it). |
UTILITA' |
VARI: Che
differenza c’è tra una Legge, un Decreto, un Decreto
Legislativo e un'Ordinanza? Cosa accade in caso di
conflitto? Lo Speciale di BibLus-net.
In Italia molto spesso accade che alcune questioni vengano
trattate da diversi provvedimenti normativi (leggi, decreti
legge, decreti legislativi, decreti ministeriali, circolari,
etc.) che si susseguono spesso in maniera caotica.
Ingegneri, architetti, geometri e imprese, ma anche le
stesse P.A., sono costretti a districarsi tra numerosi
provvedimenti di varia natura, nonostante i frequenti
tentativi del Legislatore di razionalizzare e coordinare
tutte le disposizioni in un Testo Unico (es. T.U.
sull’Edilizia, T.U. sulla Sicurezza, T.U. sui Beni
Culturali, etc.).
Tutti i provvedimenti normativi hanno un preciso ordine
gerarchico, la cui conoscenza può semplificare la vita
professionale di tutti i tecnici.
In questo speciale cerchiamo di fare chiarezza sui diversi
provvedimenti normativi, chiarendo per ciascuno di essi, chi
può emetterli, quando possono essere emessi, la natura
vincolante e numerosi altri aspetti, come ad esempio il
conflitto tra 2 provvedimenti.
In appendice, un utile glossario e il testo integrale della
Costituzione della Repubblica italiana
(23.01.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Macchine
in edilizia, come usarle correttamente al fine di prevenire
gli infortuni sui cantieri. Il manuale completo Inail-CPT di
Torino.
Utilizzare le macchine in edilizia in maniera corretta è un
requisito fondamentale per la sicurezza sui cantieri.
In questo articolo proponiamo un’interessante pubblicazione
a cura di Inail e CPT di Torino rivolta agli utilizzatori
delle macchine e agli addetti alla salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro (datori di lavoro, dirigenti, preposti per
la sicurezza, RSPP e ASPP).
Il documento contiene oltre 60 rilievi di macchine usate in
edilizia, con apposite schede contenenti i dati principali,
corredate da foto e relativo libretto di istruzioni d’uso,
utile per conoscerne le specifiche peculiarità.
La prima parte del manuale, di carattere più generale, è
costituita da 3 capitoli riguardanti: gli obblighi normativi
previsti, le caratteristiche di sicurezza che le macchine
hanno e l’impianto elettrico di cui sono dotate.
Nella seconda parte, ci sono le schede relative alle
macchine raggruppate in 4 categorie:
●
apparecchi di sollevamento
●
macchine semoventi
●
macchine trasportabili
●
utensili
Per ogni attrezzatura sono forniti la descrizione, gli
elementi costituenti, i dispositivi di sicurezza, i
dispositivi di comando e di controllo, i fattori di rischio,
le istruzioni per l’uso e i riferimenti normativi
(23.01.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Protezione
dai fulmini, la guida completa per la valutazione dei rischi
con esempi pratici.
I fulmini sono originati da enormi differenze di potenziale
che si generano all’interno delle nubi temporalesche,
denominate cumulonembi. La differenza di potenziale che si
viene a creare è causata dall’accumulo di cariche tra le
diverse zone della nube. Quando la differenza di potenziale
arriva a milioni di Volt, si genera una gigantesca scarica
elettrica, il fulmine appunto, che riequilibra il sistema.
I fulmini che si scaricano al suolo costituiscono una
piccola percentuale della totalità fulmini (circa il 10%),
ma sono quelli che hanno il maggiore impatto sull’incolumità
delle persone e delle strutture.
La valutazione nei luoghi di lavoro del rischio di
fulminazione da scariche atmosferiche, come richiesto dal
D.Lgs. 81/2008, deve essere eseguita con la norma tecnica
CEI EN 62305-2, in vigore dal primo marzo 2013.
In questo articolo proponiamo un’interessante pubblicazione
dell’Inail, intitolata “Protezione contro i fulmini”,
che illustra le procedure per una corretta valutazione del
rischio e l’individuazione di appropriate misure di
protezione da adottare.
La guida risulta utile in generale a tutti i tecnici per
approfondire le proprie conoscenze in materia, ma
soprattutto a coloro che si occupano di sicurezza nei luoghi
di lavoro.
Essa è così strutturata:
►
normativa per gli impianti di protezione contro i fulmini
►
metodologia per la valutazione dei rischi
►
definizione dei termini, dei simboli e delle abbreviazioni
►
gestione del rischio
►
impianti di protezione contro i fulmini
►
esempio concreto di valutazione del rischio
(23.01.2014 - link a www.acca.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Al R.U.P. non spetta l'incentivo se l'attività di
progettazione è data all'esterno dell'ente.
Il diritto ad ottenere il compenso
incentivante di cui all’art. 92 D.lgs. n. 163/2006 è
ancorato alla circostanza che la redazione dell’atto di
progettazione sia avvenuta all’interno dell’ente.
Qualora sia avvenuta all’esterno, essa non è idonea a far
sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti
degli uffici tecnici dell’ente, né, tantomeno, in capo al
responsabile unico del procedimento.
---------------
Il Comune intende procedere alla modifica del regolamento
nella parte relativa alle modalità di erogazione del fondo
incentivante della progettazione interna di cui agli artt.
90 e ss. Del D.lgs. n. 163/2006 nel caso in cui la
progettazione venga affidata all’esterno, non essendo tale
parte del regolamento sufficientemente chiara.
In particolare, l’Ente riconoscerebbe al solo r.u.p. una
percentuale del fondo in parola variabile dal 15 al 25 per
cento, in relazione alla complessità dell’opera, dando
facoltà al medesimo di riconoscere ad eventuali
collaboratori (tecnici o amministrativi) una percentuale
fino al 5% da prelevarsi sulla quota già destinata al r.u.p..
Si chiede se tale modifica del regolamento sia in linea con
le norme e la giurisprudenza in materia.
...
Nella specie, la richiesta di parere attiene alle spese per
il personale sotto il determinato profilo degli incentivi
per le progettazioni, in relazione al quale la Sezione ha
già dato indicazioni di carattere generale, che pare
opportuno qui di seguito richiamare.
Per la ripartizione degli incentivi alla progettazione
spettanti ai dipendenti delle stazioni appaltanti, l’art.
92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006 dispone che una somma
non superiore al due per cento dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione “è ripartita, per ogni singola opera
o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché' tra i loro collaboratori”.
Il fondo incentivante, dunque, è ripartito tra i vari aventi
diritto secondo le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
adottato dall'amministrazione. Le modalità di ripartizione
del fondo, pertanto, oltre ad attenere alle scelte
discrezionali dell’amministrazione, ovviamente nei limiti
tracciati dal dettato legislativo, devono essere oggetto di
contrattazione collettiva e solo successivamente
confluiscono nel regolamento.
La richiesta di parere pone lo specifico quesito se sia
possibile corrispondere l’incentivo ivi disciplinato al
responsabile del procedimento, e, quindi, ai vari
collaboratori, in caso in cui la progettazione venga
affidata all’esterno.
Come ricordato, la Sezione si è già pronunciata sulla
questione con specifico riguardo all’attività di
pianificazione (art. 92, comma 6), esprimendo principi che
possono valere anche per l’attività di progettazione (art.
92, comma 5) (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290).
La norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto sia
avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici
dell’ente.
Con specifico riferimento alla figura del responsabile del
procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi
normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli
regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del
citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006,
partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente
sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla
realizzazione di opere pubbliche.
Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla
ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5
dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in
ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo
svolgimento interno dell’attività di progettazione.
In sostanza, qualora l’attività venga
svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia
titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni
del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione
dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra
specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto
del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso
per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi
compiti e doveri d’ufficio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 19.12.2013 n. 434). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U.
29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo
del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la
legge di conversione 29.01.2014, n. 5,
recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU,
l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»". |
ENTI LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 28.01.2014,
"Determinazione della distanza dai luoghi sensibili per
la nuova collocazione di apparecchi per il gioco d’azzardo
lecito (ai sensi dell’articolo 5, comma 1 della l.r. 21.10.2013, n. 8 “Norme per la prevenzione e il
trattamento del gioco d’azzardo patologico”)"
(deliberazione
G.R. 24.01.2014 n. 1274). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2014, "Modalità
di applicazione in Regione Lombardia del decreto
ministeriale 29.02.2012 “Misure di emergenza per la
prevenzione, il controllo e l’eradicazione del cancro
colorato causato da Ceratocystis fimbriata”"
(decreto
D.U.O. 22.01.2014 n. 330). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G.U. 27.01.2014 n. 21 "Definizioni e ambito di
applicazione dei pagamenti mediante carte di debito" (D.M.
24.01.2014). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
24.01.2014 n. 19 "Regolamento concernente la revisione
delle modalità di determinazione e i campi di applicazione
dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)" (D.P.C.M.
05.12.2013 n. 159). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21
gennaio 2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.12.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 20.01.2014 n. 5). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2014,
"Modifica del d.d.s. 06.12.2013, n. 11674. Proroga dei
termini di adozione della gestione amministrativa e tecnica
in modalità informatizzata della procedura di autorizzazione
unica (AU) per la costruzione, installazione ed esercizio di
impianti di produzione di energia elettrica alimentati da
fonti rinnovabili di cui al punto 3.5 della d.g.r. 3298/2012" (decreto
D.S. 17.01.2014 n. 215). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
23.01.2014 n. 18, suppl. ord. n. 8, "Criteri ambientali
minimi per l’acquisto di lampade a scarica ad alta intensità
e moduli led per illuminazione pubblica, per l’acquisto di
apparecchi di illuminazione per illuminazione pubblica e per
l’affidamento del servizio di progettazione di impianti di
illuminazione pubblica - aggiornamento 2013" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 23.12.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aggiornamento delle disposizioni relative
all’esercizio, controllo, manutenzione e
ispezione degli impianti termici (ANCE Bergamo,
circolare 24.01.2014 n. 28). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di organo competente ad adottare il piano
triennale di prevenzione della corruzione negli enti locali
(Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche,
delibera 22.01.2014 n. 12/2014). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
competenze professionali - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 21
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 16.01.2014 n. 5/2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Legge 09.08.2013, n. 98 - Misure per la
semplificazione amministrativa. Indennizzo da ritardo nella
conclusione del procedimento amministrativo (Prefettura
di Avellino,
nota 15.01.2014 n. 672 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Informativa sull'adozione del piano triennale di prevenzione
della corruzione (ANCI, gennaio 2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Meale,
Accordo procedimentale e atto
negoziale paritetico: un problema di giurisdizione
(tratto da www.ipsoa.it - Urbanistica e appalti n.
11/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
I modi di acquisto della proprietà a titolo originario: 1)
Usucapione; 2) Occupazione; 3) Invenzione; 4) Accessione; 5)
Unione e Commistione; 6) Specificazione (22.01.2014
- tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
L’Accessione (22.01.2014 - tratto da http://renatodisa.com). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
La risoluzione (25.03.2013 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Il possesso, l’usucapione e le azioni a tutela (18.02.2013
- tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
L’usucapione (18.02.2013 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Il possesso (18.02.2013 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le azioni a difesa della proprietà – rivendicazione –
negatoria – regolamento di confini – apposizione dei termini
(13.09.2012 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Il diritto di superficie (29.05.2012 - tratto da
http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
La comunione (23.08.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
L'usufrutto, l'uso e l'abitazione (16.06.2011 -
tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le servitù prediali (22.04.2011 - tratto da
http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le Luci e Vedute (24.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss., c.c.
(03.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. D'Isa,
Le immissioni (01.01.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
QUESITI & PARERI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Personale degli enti locali. Incentivo di cui all'art. 11
della l.r. 14/2002.
Gli incentivi di cui all'art. 11 della
l.r. 14/2002 non possono essere riconosciuti al RUP nominato
con incarico esterno di prestazione occasionale, anche se
dipendente di altra amministrazione, in quanto la norma fa
esclusivo riferimento ai dipendenti, cioè personale 'in
servizio' presso l'ente procedente.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità, o
meno, di liquidare a dipendente di altra amministrazione,
incaricato temporaneamente delle funzioni di RUP,
l'incentivo previsto dall'art. 11 della l.r. 14/2002.
Com'è noto, il comma 1 della norma citata stabilisce che una
somma non superiore all'1 per cento dell'importo posto a
base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'art. 8, comma 6,
della medesima legge, è ripartita, per ogni singola opera o
lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del
procedimento, gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra quanti, tecnici e amministrativi, hanno
collaborato alla realizzazione dell'opera.
La disposizione precisa inoltre che la percentuale
effettiva, nel limite massimo dell'1 per cento, comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione [1],
da ripartirsi esclusivamente tra i dipendenti, e le relative
modalità di erogazione sono stabilite dal regolamento in
rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare.
Il successivo comma 2 dell'articolo in esame specifica
altresì che le quote parti delle somme corrispondenti a
prestazioni che non sono svolte dai dipendenti, in quanto
affidate a personale esterno, costituiscono economie.
La riportata norma prevede, in sostanza, che una somma,
quantificata in relazione all'entità dell'opera o del lavoro
da eseguire (quale risulta dall'importo 'posto a base di
gara'), sia ripartita tra determinati soggetti,
dipendenti della stazione appaltante che, con la loro
attività professionale, consentono la concreta realizzazione
della specifica opera o lavoro.
L'art. 5, comma 8, della stessa legge regionale n. 14 del
2002, dispone che, qualora le professionalità interne siano
insufficienti in rapporto ai lavori programmati,
l'amministrazione può nominare responsabile unico del
procedimento un professionista esterno ovvero un dipendente
di altra amministrazione.
Premesso un tanto, si osserva, al di là del chiaro tenore
della norma che fa riferimento esclusivamente ai 'dipendenti'
dell'ente, che la Corte dei conti [2]
ha rimarcato, tra le condizioni che deve rispettare il
regolamento interno per l'attribuzione dell'incentivo in
esame, la possibilità di procedere all'erogazione ai soli
dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati
dalla previsione legislativa, in maniera conforme alle
responsabilità attribuite. Infatti, per espressa previsione,
sono devolute in economia le quote corrispondenti a
prestazioni non svolte dai dipendenti dell'amministrazione,
ma affidate a personale esterno all'organico dell'ente.
Dalla documentazione trasmessa dall'Ente istante, emerge che
il dipendente di altro Comune ha svolto le funzioni di
Responsabile Unico del Procedimento dei lavori pubblici a
seguito dell'affidamento di un incarico di prestazione
autonoma e occasionale, previa corresponsione di un
determinato compenso, concordato tra le parti.
Si è precisato, a tal proposito, che la remunerazione per le
prestazioni professionali rese ad un ente pubblico a titolo
occasionale (anche nell'ipotesi in cui siano rese da 'prestatore'
a sua volta dipendente di altra P.A.) non può rientrare nel
compenso per la progettazione interna, in quanto tale
incentivo è esplicitamente previsto per le sole attività
rese dal personale 'in servizio' presso l'Ente
pubblico procedente [3].
---------------
[1] Testo così modificato dall'art. 4, comma 3, della
l.r. 23/2013 (Legge finanziaria 2014).
[2] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, n.
72/2013/PAR.
[3] Cfr. QUESITO-2008-001-2459C, consultabile in:
www.venetoappalti.it/normativa- Quesiti Osservatorio (29.01.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Compatibilità tra la carica di presidente e l'incarico di
direttore generale o dirigente di società partecipata
pubblica.
Secondo la CIVIT, affinché si possa
configurare l'incompatibilità tra l'incarico dirigenziale in
un ente di diritto privato in controllo pubblico e
l'assunzione della carica di presidente nel medesimo ente,
ai sensi dell'articolo 12, comma 1, del d.lgs. n. 39/2013,
il generico riferimento al 'presidente' deve essere
integrato con la previsione della titolarità di 'deleghe
gestionali dirette' (ai sensi della lettera e) dell'art. 1,
comma 2, del d.lgs. 39/2013), come può essere desunto
dall'abbinamento, nella previsione normativa, della carica
di presidente con quella di amministratore delegato.
Il Consigliere comunale chiede di conoscere se un medesimo
soggetto possa rivestire contemporaneamente la carica di
presidente di società a partecipazione pubblica e quella di
direttore generale o dirigente della medesima società o se
sussistano cause di incompatibilità.
Esaminato il quadro normativo di riferimento e sentito il
Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Per quanto riguarda il caso prospettato dal Consigliere è
necessario verificare l'eventuale sussistenza di talune
delle cause di incompatibilità previste dall'art. 12 del
d.lgs. 08.04.2013, n. 39 [1],
con particolare riferimento alle cariche negli enti di
diritto privato in controllo pubblico, tra i quali pare
potersi annoverare la società a partecipazione pubblica in
argomento.
La questione è stata affrontata dalla Commissione
indipendente per la Valutazione la Trasparenza e l'Integrità
delle amministrazioni (Civit) nella delibera n. 47/2013.
In particolare, con riferimento al comma 1 del summenzionato
articolo 12, il quale dispone, per quanto qui d'interesse,
che gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, negli
enti di diritto privato in controllo pubblico, sono
incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso
dell'incarico, delle cariche di presidente e amministratore
delegato, nello stesso ente che ha conferito l'incarico, la
Civit ha ritenuto che il generico riferimento al 'presidente'
debba essere integrato con la previsione della titolarità di
'deleghe gestionali dirette' (ai sensi della lettera
e) dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 39/2013), come può
essere desunto, del resto, dall'abbinamento, nella
previsione normativa, della carica di presidente con quella
di amministratore delegato.
Pertanto, qualora al presidente della partecipata in
commento non siano attribuite deleghe gestionali dirette,
non si ritiene possa determinarsi la situazione di
incompatibilità prevista dalla norma in esame.
Altra questione concerne l'interpretazione della lettera c)
del comma 4 dell'art. 12 del d.lgs. n. 39/2013 che contempla
l'incompatibilità tra l'incarico dirigenziale
[2] e
l'assunzione della carica di componente di organi di
indirizzo negli enti di diritto privato in controllo
pubblico [3].
Sul piano della ricostruzione del sistema, alla Civit sembra
evidente che la carica di 'componente di organi di
indirizzo negli enti di diritto privato in controllo
pubblico' ivi prevista 'coincide con la carica di
presidente con delega e di amministratore delegato.'.
Quanto alle residuali valutazioni circa la compatibilità,
nell'ambito del diritto societario, tra il ruolo di
presidente e quello di direttore generale/dirigente
conferiti ad uno stesso soggetto, si rappresenta che lo
scrivente Ufficio è competente ad esprimersi in ordine a
questioni afferenti l'ordinamento pubblico, cui non è
riconducibile il diritto societario.
---------------
[1] Recante: 'Disposizioni in materia di inconferibilità
e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo
pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della
legge 06.11.2012, n. 190.'.
[2] Nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e
negli enti di diritto privato in controllo pubblico di
livello provinciale o comunale.
[3] 'da parte della regione, nonché di province, comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme
associative tra comuni aventi la medesima popolazione della
stessa regione' (21.01.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Verifica dell'offerta anomala, intervento del giudice solo
in casi ''straordinari''.
L'esame delle giustificazioni presentate
dal soggetto che e' tenuto a dimostrare la non anomalia
dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità
tecnica dell'Amministrazione.
Soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di
errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di
valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice
può intervenire, restando per il resto la capacità di
giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità.
Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di una società
che contestava l’aggiudicazione dell’appalto ad una
cooperativa che , secondo il suo parere, aveva presentato
una offerta anomala; i giudici amministrativi del Consiglio
di Stato, tuttavia, condividono la conclusione a cui è
pervenuto il TAR il quale ha sostenuto che se il
procedimento di verifica dell’anomalia, condotto
dall’Amministrazione appaltante con il dovuto scrupolo
istruttorio, è sfociato in un giudizio non manifestamente
illogico né irragionevole sull’attendibilità dell’offerta
nel suo complesso, l’aggiudicazione è da intendersi
pienamente legittima.
Il caso
Una stazione appaltante aveva indetto una procedura aperta
per l’affidamento, secondo il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, del servizio di
preparazione, confezionamento ed eventuale trasporto dei
pasti per gli utenti dei servizi socio-assistenziali da essa
gestiti, per la durata di tre anni e con possibilità di
proroga per un ulteriore anno alle medesime condizioni.
Alla gara partecipavano diverse ditte; alcune di queste
venivano escluse e rimanevano in gara una SPA ed una
cooperativa specializzata nel settore.
La stazione appaltante procedeva all’aggiudicazione
definitiva nei confronti della cooperativa; a fronte della
determinazione di aggiudicazione la SPA, seconda
classificata, procedeva al ricorso sostenendo principalmente
che l’offerta della ditta aggiudicataria doveva essere
esclusa dalla gara, perché ritenuta anomala. Il TAR,
tuttavia, dopo l’esame del ricorso lo rigettava nel merito;
la società ricorreva al Consiglio di Stato.
L’analisi dei giudici amministrativi di
secondo grado
Il Consiglio di Stato osserva come il giudice di prime cure
abbia opportunamente anteposto, alla disamina degli
specifici rilievi della società ricorrente, un richiamo ai
principi di elaborazione giurisprudenziale in tema di
sindacato sulla verifica di anomalia delle offerte.
Per i giudici di Palazzo Spada da una parte si assiste al
fatto che la verifica della congruità di un'offerta ha
natura globale e sintetica, riguardando l’attendibilità
della medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità
a fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione
dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto
la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica;
dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può
sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede
di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della
relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la
stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera
propria della discrezionalità della Pubblica
Amministrazione.
La giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato ha
precisato che il giudizio di verifica della congruità di
un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e
sintetica, vertendo sulla serietà, o meno, dell'offerta nel
suo insieme.
L'attendibilità dell’offerta deve , cioè, essere valutata
nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci
di prezzo ritenute incongrue, avulse dall’incidenza che
potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme:
questo, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio
di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la
loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero
l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici
strutturali di carente affidabilità.
Quali le anomalie dell’offerta contestate
dalla società ricorrente
Nel ricorso la società evidenzia, in merito all’ipotizzata
anomalia dell’offerta della ditta aggiudicataria, che tale
l’offerta economica avrebbe dovuto essere giudicata anomala
per il fatto che era stato omesso di indicare e
quantificare, nelle giustificazioni presentate in seno al
procedimento di verifica della stessa offerta, la voce
relativa alle “spese generali”.
I giudici di prime cure, tuttavia, hanno ritenuto che la
mancata indicazione delle spese generali non costituisse,
nel caso concreto, un elemento idoneo ad inficiare la
valutazione della Commissione di complessiva attendibilità
dell’offerta dell’aggiudicataria, facendo principalmente
notare che:
- la società aveva dettagliatamente indicato in sede di
giustificazione tutti gli elementi di costo dell’offerta
praticata, con riferimento sia al costo del personale , sia
al costo di gestione;
- le limitate dimensioni dell’aggiudicataria facevano
ragionevolmente presumere un’incidenza modesta delle spese
generali.
Per i giudici di Palazzo Spada le “osservazioni” del
TAR sono pienamente coerenti con gli orientamenti
giurisprudenziali del Consiglio di Stato.
La seconda contestazione relativa all’anomalia dell’offerta,
riguarda il numero di addetti che l’aggiudicataria prevede
di utilizzare, per il servizio.
In riferimento alle contestazioni della società ricorrente
il Consiglio di Stato evidenzia che la legge di gara non
fissava un numero minimo di addetti, limitandosi a
prescrivere che il servizio fosse gestito dall’appaltatore
con “personale in numero sufficiente”; ed ha aggiunto
che il relativo dato rilevava, ai sensi dell’art. 12 del
disciplinare di gara, ai fini dell’attribuzione del
punteggio relativo al momento della “composizione del
team proposto per lo svolgimento del servizio”, aspetto
in relazione al quale, l’aggiudicataria aveva indicato 4
addetti e conseguito complessivamente 12,5 punti, sul
massimo di 15 previsti.
Il TAR ha poi osservato che i dubbi sollevati dalla
Commissione circa la sufficienza di soli quattro addetti a
gestire il servizio erano stati superati dai chiarimenti
forniti dall’interessata in sede di verifica di anomalia, “alla
luce della caratteristiche tecniche del centro cottura
(tecnologicamente avanzato), delle competenze professionali
del team proposto e della natura del servizio appaltato
(relativamente semplice, contemplando solo la preparazione
dei pasti, non anche la consegna ed il trasporto degli
stessi) e all’organizzazione dello stesso (incentrato su un
unico centro di cottura, più agevole da gestire anche con
poco personale in luogo di più centri di cottura sparsi sul
territorio).”.
Un'altra contestazione, nel ricorso al Consiglio di Stato,
riguardava il fatto che la ditta aggiudicataria avesse
previsto nella propria offerta tecnica che talune
prestazioni proprie del servizio affidato, incluse quelle
relative alla preparazione dei pasti e alla sanificazione
del centro cottura, sarebbero state svolte anche da
volontari non retribuiti, con ciò violando sia l’art. 25 del
capitolato d’appalto (concernente l’obbligo di gestire il
servizio con “proprio personale, professionalmente
qualificato e costantemente aggiornato e addestrato”),
sia la L. 266/1991, sulle attività di volontariato.
Su tale aspetto, tuttavia, il giudice di prime cure ha
rilevato che era stato proprio il disciplinare di gara ad
ammettere il possibile impiego di volontari, in aggiunta al
lavoro degli operatori professionali, vedendo in ciò un
possibile “arricchimento del progetto” e, inoltre, che
l’aggiudicataria aveva previsto, sì, la possibilità di
avvalersi di personale volontario ad integrazione del
personale retribuito stabilmente assunto, ma in sede di
valutazione per tale voce dell’offerta aveva conseguito zero
punti.
Il TAR ha ritenuto che, poiché la presenza di volontari nel
progetto dell’aggiudicataria non aveva avuto influenza sulla
valutazione della sua offerta, e quindi sull’esito della
gara, la critica non poteva che risultare recessiva.
Le conclusioni del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato condivide la conclusione a cui è
arrivata la sentenza del TAR e, cioè, che il procedimento di
verifica dell’anomalia, condotto dall’Amministrazione
appaltante con il dovuto scrupolo istruttorio, è sfociato in
un giudizio non manifestamente illogico né irragionevole
sull’attendibilità dell’offerta nel suo complesso.
Il ricorso è, pertanto, respinto; per la complessità della
materia , tuttavia , vi sono validi motivi per giustificare
la compensazioni tra le parti delle spese processuali
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 17.01.2014 n. 162 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
3 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 nel definire gli interventi
edilizi, annovera nella categoria di “nuova costruzione” le
strutture la cui realizzazione comporti la trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio, categoria specificata
dall’elaborazione giurisprudenziale in senso sia strutturale
(con valorizzazione dello stabile ancoraggio al suolo), sia
funzionale (con accento sulla idoneità alla soddisfazione di
esigenze non meramente temporanee).
Nella fattispecie in esame, i manufatti considerati (ndr:
manufatti non ancorati al suolo, e precisamente da serra
costituita da intelaiatura metallica coperta in materiale
plastico, struttura metallica scoperta, ovvero in struttura
metallica in “adiacenza” al fabbricato in muratura oggetto
del diniego di condono, con copertura in telo plastico e
gabbia metallica con copertura in telo) non assumono nessuna
delle caratteristiche proprie delle “costruzioni”: non sono,
infatti, infissi al suolo, ma solamente appoggiati o
aderenti alle opere in muratura; sono destinati ad assolvere
funzioni non ben definite, ornamentali ovvero di supporto
all’attività agricola, in ogni caso non specificate negli
atti impugnati in primo grado: la circostanza, enfatizzata
in giudizio dall’Amministrazione, che tali manufatti
esistano fin dal 2009 non costituisce elemento per dedurne
la non temporaneità dell’utilizzo, sia perché le ordinanze
di demolizione si basano su accertamenti svolti nello stesso
anno, sia perché tale elemento deve essere dedotto da
elementi strutturali e funzionali delle caratteristiche
costruttive dell’opera considerata, che nella fattispecie
non depongono in tal senso.
Gli interventi considerati, che sfuggono alla definizione
edilizia viceversa loro impressa dall’Amministrazione, ove
la loro permanenza sia giudicata incompatibile con interessi
pubblici espressi sul territorio, ad esempio sotto l’aspetto
del decoro dell’abitato, devono quindi essere valutati
dall’Amministrazione sotto aspetti diversi, che ne
valorizzino la facile amovibilità, ma non possono essere
oggetto di provvedimenti propri della repressione degli
abusi edilizi, poiché non costituiscono “costruzioni”, nel
senso sopra precisato.
---------------
E' illegittimo il diniego di proroga,
richiesta dagli interessati per ottemperare alla demolizione
delle opere il cui condono è stato legittimamente rifiutato
dall’Amministrazione, poiché le circostanze rappresentate
nelle istanze non sono state adeguatamente valutate
dall’Amministrazione (la quale ha fondato il diniego sulla
non eccezionalità dei manufatti e delle conseguenti
operazioni di demolizione).
Le ragioni dei ricorrenti in primo grado, infatti, non si
esaurivano nella complessità delle operazioni, ma erano
anche attinenti alla vicenda giudiziale sopra tratteggiata,
con particolare riferimento alla necessità di attendere la
decisione del Consiglio di Stato sul giudizio cautelare
avverso le sentenze del 2009 di reiezione del condono,
all’epoca non ancora proposto.
Su tali aspetti la risposta dell’Amministrazione è stata del
tutto silente.
I) Le vicende portate all’attenzione del Tar, i
provvedimenti che la riguardano e le sentenze impugnate sono
del tutto simili, ed è pertanto opportuno disporre la
riunione degli appelli, al fine di un’unica decisione.
Le ordinanze di demolizione (nn. 43, 44 e 45 del febbraio
2010) sono relative ad opere abusive per le quali il Comune
di Desio aveva negato la sanatoria edilizia, e sono state
emanate dopo che il Tar aveva respinto i ricorsi proposti
dagli interessati per talune opere, con sentenze del
20.02.2009 la cui efficacia è stata confermata dal Consiglio
di Stato con ordinanze del 29.07.2010.
Con ordinanze cautelari del 26.05.2010 il Tar ha respinto le
domande di sospensiva per le opere già oggetto di diniego di
condono, e l’ha accolta per gli interventi edilizi diversi
da questi, in quanto non soggetti ad obbligo di titolo
edilizio. I ricorrenti chiedevano quindi al Comune la
proroga del termine per ottemperare all’ordine di
demolizione, ma, con i provvedimenti oggetto dei ricorsi di
primo grado, l’Amministrazione ha opposto un diniego,
procedendo poi all’accertamento dell’inottemperanza
all’ordine.
II) Le sentenze impugnate hanno respinto i ricorsi
relativamente all’ingiunzione di demolizione delle opere già
ritenute dalle precedenti sentenze insuscettibili di condono
per mancanza di prova del loro completamento entro il
31.03.2003, mentre l’ha accolto per i restanti manufatti,
per la cui realizzazione non ha ritenuto necessario il
previo titolo edilizio (punti n. 5 e da 7 a 11
dell’ingiunzione n. 45 del 09.02.2010; punti da 3 a 6
dell’ingiunzione n. 44 del 07.02.2010, interventi ricondotti
dal Tar a semplici pergolati formati da intelaiatura
metallica scoperta; punti 2 e 3 dell’ingiunzione n. 43 del
09.02.2010, consistenti in una struttura metallica
realizzata in adiacenza al fabbricato in muratura e in una
gabbia metallica con copertura in telo), in quanto strutture
precarie e semplicemente appoggiate al suolo, come tali
facilmente amovibili.
Il Tar ha poi accolto i motivi aggiunti ai ricorsi, volti a
contestare il diniego di proroga per le operazioni di
demolizione, rilevando che la richiesta avanzata dagli
interessati era ragionevole e motivata dalle ordinanze
cautelari di parziale accoglimento e dall’intenzione, da
questi rappresentata, di proporre appello avverso le
sentenze del 2009, sopra ricordate, mentre la risposta del
Comune si limitava a confermare il termine di legge per
ottemperare. Di conseguenza, il primo giudice ha annullato
anche gli atti successivi all’accertamento
dell’inottemperanza, tenuto anche conto che la superficie da
acquisire al patrimonio comunale risultava determinata
mediante il computo anche delle opere per le quali era stata
concessa la misura cautelare con le ordinanze del
26.05.2010.
...
Gli appelli sono infondati.
a) Con riguardo alla natura delle opere, va ricordato che
l’ambito del presente giudizio riguarda quelle diverse dagli
interventi edilizi per i quali il Comune aveva negato, con
provvedimenti ritenuti legittimi dal Tar, il condono
edilizio chiesto dagli interessati.
Tali opere consistono in manufatti non ancorati al suolo, e
precisamente da serra costituita da intelaiatura metallica
coperta in materiale plastico (punto n. 5 dell’ingiunzione
al ricorrente Cocciolo), struttura metallica scoperta (nn.
da 7 a 11 dell’ingiunzione al ricorrente Cocciolo, nn. da 3
a 6 dell’ingiunzione al ricorrente Sansone), ovvero in
struttura metallica in “adiacenza” al fabbricato in
muratura oggetto del diniego di condono, con copertura in
telo plastico e gabbia metallica con copertura in telo (nn.
2 e 3 dell’ingiunzione al ricorrente Cristoforo).
Come è confermato dalla documentazione, anche fotografica,
versata in atti, trattasi di opere non definibili intermini
di “costruzioni”, non solo e non tanto perché
facilmente amovibili, ma anche perché non qualificabili come
strutture edilizie.
L’art. 3 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 nel definire gli
interventi edilizi, annovera nella categoria di “nuova
costruzione” le strutture la cui realizzazione comporti
la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio,
categoria specificata dall’elaborazione giurisprudenziale in
senso sia strutturale (con valorizzazione dello stabile
ancoraggio al suolo), sia funzionale (con accento sulla
idoneità alla soddisfazione di esigenze non meramente
temporanee).
Nella fattispecie in esame, i manufatti considerati non
assumono nessuna delle caratteristiche proprie delle “costruzioni”:
non sono, infatti, infissi al suolo, ma solamente appoggiati
o aderenti alle opere in muratura; sono destinati ad
assolvere funzioni non ben definite, ornamentali ovvero di
supporto all’attività agricola, in ogni caso non specificate
negli atti impugnati in primo grado: la circostanza,
enfatizzata in giudizio dall’Amministrazione, che tali
manufatti esistano fin dal 2009 non costituisce elemento per
dedurne la non temporaneità dell’utilizzo, sia perché le
ordinanze di demolizione si basano su accertamenti svolti
nello stesso anno, sia perché tale elemento deve essere
dedotto da elementi strutturali e funzionali delle
caratteristiche costruttive dell’opera considerata, che
nella fattispecie non depongono in tal senso.
Gli interventi considerati, che sfuggono alla definizione
edilizia viceversa loro impressa dall’Amministrazione, ove
la loro permanenza sia giudicata incompatibile con interessi
pubblici espressi sul territorio, ad esempio sotto l’aspetto
del decoro dell’abitato, devono quindi essere valutati
dall’Amministrazione sotto aspetti diversi, che ne
valorizzino la facile amovibilità, ma non possono essere
oggetto di provvedimenti propri della repressione degli
abusi edilizi, poiché non costituiscono “costruzioni”,
nel senso sopra precisato.
b) Con riguardo al diniego di proroga, richiesta dagli
interessati per ottemperare alla demolizione delle opere il
cui condono è stato legittimamente rifiutato
dall’Amministrazione, la sentenza impugnata merita conferma,
poiché le circostanze rappresentate nelle istanze non sono
state adeguatamente valutate dall’Amministrazione (la quale
ha fondato il diniego sulla non eccezionalità dei manufatti
e delle conseguenti operazioni di demolizione).
Le ragioni dei ricorrenti in primo grado, infatti, non si
esaurivano nella complessità delle operazioni, ma erano
anche attinenti alla vicenda giudiziale sopra tratteggiata,
con particolare riferimento alla necessità di attendere la
decisione del Consiglio di Stato sul giudizio cautelare
avverso le sentenze del 2009 di reiezione del condono,
all’epoca non ancora proposto.
Su tali aspetti la risposta dell’Amministrazione è stata del
tutto silente (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.01.2014 n. 149 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 35, comma 12, della l. 28.02.1985, n. 47 e
succ. modifiche, prevede che la domanda di sanatoria si
intende accolta decorso il termine di 24 mesi dalla
presentazione della domanda o, per le opere costruite su
area vincolata, decorso il termine di 24 mesi dalla
emissione del parere previsto dal primo comma dell’art. 32
della stessa legge.
Quanto alla necessità di acquisire il suddetto parere anche
per opere realizzate prima della imposizione del vincolo,
l’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 20 del 22.07.1999
in ordine alla portata dell’art. 32, ha precisato che “in
mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato
normativo ad essa debba darsi soluzione alla stregua dei
principi generali in materia di azione amministrativa,
tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli
interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione
legislativa di cui si tratta”, concludendo nel senso che
poiché la ratio che sottende l’art. 32, è la cura del
pubblico interesse che “ha come sua qualità essenziale la
legalità…ne consegue che la pubblica amministrazione, sulla
quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante
l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener
conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e
delle qualificazioni giuridiche che essa impone. La
disposizione di portata generale di cui all’art. 32, comma
1, relativa ai vincoli che appongono limiti alla
edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi,
cosicché essa deve interpretarsi nel senso che l’obbligo di
pronuncia da parte dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al
momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria,
a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo. E
appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde
alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità con il
vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Alla stregua dell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria
citata va riconosciuto l’obbligo dell’amministrazione di
tener conto ai fini del rilascio della concessione in
sanatoria di tutti i vincoli esistenti al momento dell’esame
della domanda.
L’appello è fondato e va accolto.
Il TAR ha ritenuto che sull’istanza di sanatoria si
sarebbe formato il c.d. “silenzio-assenso”, essendo decorso
il termine di 24 mesi previsto dall’art. 35, comma 12, della
l. n. 431 del 1985 e perché il vincolo di area golenale
sarebbe stato imposto in epoca successiva alla realizzazione
dell’opera abusiva e, quindi, ininfluente ai fini del
condono (“…l’opera abusiva è stata realizzata prima
dell’imposizione del vincolo ai sensi della l. n. 431 del
1985 (legge Galasso). L’art. 32 della l. n. 47 del 1985,
infatti è stato interpretato dall’art. 2, comma 44, della
legge n. 662 del 1996 (legge finanziaria 1997), nel senso
che il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla
tutela del vincolo, anche quello imposto dal decreto legge
27.06.1985 n. 312, convertito in legge 431 del 1985, non
va acquisito qualora l’opera abusiva sia stata realizzata
anteriormente al vincolo stesso, come nel caso in esame”).
Il percorso logico giuridico del giudice di primo grado
non può essere condiviso.
L’art. 35, comma 12, della l. 28.02.1985, n. 47 e succ.
modifiche, prevede che la domanda di sanatoria si intende
accolta decorso il termine di 24 mesi dalla presentazione
della domanda o, per le opere costruite su area vincolata,
decorso il termine di 24 mesi dalla emissione del parere
previsto dal primo comma dell’art. 32 della stessa legge.
Quanto alla necessità di acquisire il suddetto parere anche
per opere realizzate prima della imposizione del vincolo,
l’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 20 del 22.07.1999 in ordine alla portata dell’art. 32 (in termini fra le
tante, Sez. V, n. 3234 del 2013; 5553 del 2012), ha
precisato che “in mancanza di indicazioni univoche
desumibili dal dato normativo ad essa debba darsi soluzione
alla stregua dei principi generali in materia di azione
amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita
dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione
della disposizione legislativa di cui si tratta”,
concludendo nel senso che poiché la ratio che sottende
l’art. 32, è la cura del pubblico interesse che “ha come sua
qualità essenziale la legalità…ne consegue che la pubblica
amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost.
incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve
necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede,
della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che
essa impone. La disposizione di portata generale di cui
all’art. 32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono
limiti alla edificazione, non reca alcuna deroga a questi
principi, cosicché essa deve interpretarsi nel senso che
l’obbligo di pronuncia da parte dell’Autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del
vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall’epoca di introduzione del
vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione
corrisponde alla esigenza di vagliare l’attuale
compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati
abusivamente”.
Alla stregua dell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria
citata va riconosciuto l’obbligo dell’amministrazione di
tener conto ai fini del rilascio della concessione in
sanatoria di tutti i vincoli esistenti al momento dell’esame
della domanda.
Conseguentemente, nella fattispecie in esame, non può
ritenersi formato il silenzio assenso di cui all’art. 35
della l. n. 47 del 1985, atteso che il termine di 24 mesi
non poteva decorrere dalla presentazione dell’istanza ma
dalla acquisizione del parere di cui al combinato disposto
del primo e del terzo comma dell’art. 32 della stessa legge,
essendo la zona soggetta a vincolo paesaggistico imposto
dalla l. n. 431 del 1985
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6281 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base agli artt.
216-217 t.u. sanitario (r.d. 27.07.1934, n. 1265), non
modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n.
616 e dall'art. 32, comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta
al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria
competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed
endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o
meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie
cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà
potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante
l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi
carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli,
rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di
animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u.
sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad un'impresa,
che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di
presentare un progetto preordinato ad eliminare un temuto
pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione
l'impianto entro un dato termine, anche sulla scorta del
parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente,
senza che ciò implichi di per sé alcun difetto di
motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il
Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con
l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità, per
effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente
riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le
esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili
dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio, gli art. 216
e 217 r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi
poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo
da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di
specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione
dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla
giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere
cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di
animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che
produce, può essere oggetto di catalogazione come industria
insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto,
industriali per la quantità dei capi e per il ciclo
produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto
che, in generale, l'allevamento di animali è considerato
dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria
insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art.
216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque
essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da
abitazioni.
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento
giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la
nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata
per i grandi allevamenti che forniscono all’industria
alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti
alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di
bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla
rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla
propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita
la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di
rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla
competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo
stesso appellante in memoria), per consentire una
conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le
esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e
natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e
compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA
n. 01654/2000, resa tra le parti, concernente chiusura
stalla per bovini.
...
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, con la
sentenza n. 1654 dell’11.12.2000, ha respinto il
ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento
dell’ordinanza 26.09.1998 con la quale era stata
ordinata l’immediata chiusura della stalla per bovini
ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente,
che la circostanza che l’immobile adibito a stalla (ed a
magazzino) fosse stato realizzato quando la destinazione
della zona era agricola e che solo nel 1980 il piano di
fabbricazione aveva reso possibile un’edificabilità di tipo
residenziale non poteva costituire motivo per giustificare
la gestione di una stalla di bovini, di una porcilaia e di
un letamaio a stretto ridosso di altre abitazioni, poiché
l’allevamento di bestiame rappresenta di per sé attività
potenzialmente pericolosa per la salute pubblica ed è
ricompresa nell’elenco delle industrie o lavorazioni
insalubri di prima classe di cui all’art. 216 R.D. 27.07.1934, n. 1265 (e classificazione decreto del Ministero della
Sanità 05.09.1994 che ha sostituito il D.M. 19.11.1981).
Pertanto, per il TAR, indipendentemente dall’essere
localizzate o meno in zona agricola, dette industrie
insalubri, in forza dell’art. 216 T.U.L.S., devono essere
tenute lontane dalle abitazioni e pertinente era, dunque, il
richiamo nel provvedimento all’art. 30 del regolamento
comunale d’igiene che si conforma ad una fonte d’ordine
sopraordinata.
Infine, per il TAR, non si poteva pretendere che
l’Amministrazione attendesse il verificarsi di una
situazione di danno concreto per la salute pubblica, essendo
sufficiente, per configurare il presupposto dell’urgenza,
una situazione di pericolo non fronteggiabile adeguatamente
e tempestivamente con misure ordinarie; tale situazione di
pericolo era, nella specie, obiettivamente esistente ed era
stata attestata dall’A.U.S.L. n. 10 nelle relazioni
richiamate nell'atto impugnato.
...
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo
Consiglio, in base agli artt. 216-217 t.u. sanitario (r.d.
27.07.1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi
dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n. 616 e dall'art. 32,
comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta al Sindaco,
all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il
cui parere tecnico ha funzione consultiva ed
endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o
meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie
cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà
potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante
l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi
carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli,
rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di
animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u.
sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad
un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta
"insalubre", di presentare un progetto preordinato ad
eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di
mettere in funzione l'impianto entro un dato termine, anche
sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura
sanitaria competente, senza che ciò implichi di per sé alcun
difetto di motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il
Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con
l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità, per
effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente
riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le
esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili
dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio (Consiglio di
Stato, sez. V, 19.04.2005, n. 1794), gli art. 216 e 217
r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi
poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo
da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di
specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione
dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla
giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere
cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di
animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che
produce, può essere oggetto di catalogazione come industria
insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto,
industriali per la quantità dei capi e per il ciclo
produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto
che, in generale, l'allevamento di animali è considerato
dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria
insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art.
216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve
comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da
abitazioni (cfr., anche, Consiglio di Stato, sez. V, 17.04.2002, n. 2008).
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento
giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la
nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata
per i grandi allevamenti che forniscono all’industria
alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti
alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di
bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla
rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla
propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita
la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di
rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla
competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo
stesso appellante in memoria), per consentire una
conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le
esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e
natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e
compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
Tali prescrizioni, che sono state il frutto di un’attività
amministrativa posteriore agli atti oggetto del presente
giudizio, non possono ritenersi inficianti di questi ultimi,
poiché logicamente e ragionevolmente il Comune ha in primis
disposto in via cautelare la chiusura della stalla per
bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di
Seppio di Pioraco, a tutela della salute e sulla base di
un’idonea istruttoria (parere della competente struttura
sanitaria); in seconda battuta, esaurita l’impellenza
cautelativa, ha emanato una serie di atti successivi per
consentire comunque il mantenimento dell’attività agricola,
in modo soddisfacente per le parti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6264 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La pronunzia di decadenza del permesso a
costruire riceve puntuale disciplina all’art. 15, comma 2,
del d.lgs. n. 380 del 2001 (t.u. delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente
vincolato all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione.
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in
via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine
prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del
contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero
la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della
porzione di territorio interessata, che può, in progressione
di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di
pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus
aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per
tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti
strettamente prefigurati dalla disciplina di legge
(violazione del dato temporale dell’inizio e completamento
dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da
giustificazione, del titolare del permesso di costruire a
realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario
ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli
non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia
della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del
titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art.
15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse
previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
La pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve puntuale
disciplina all’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 380 del 2001
(t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente
vincolato all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974 del 23.02.2012; n. 2915 del 2012).
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in
via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine
prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del
contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero
la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della
porzione di territorio interessata, che può, in progressione
di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di
pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus
aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per
tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti
strettamente prefigurati dalla disciplina di legge
(violazione del dato temporale dell’inizio e completamento
dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da
giustificazione, del titolare del permesso di costruire a
realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario
ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli
non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia
della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del
titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art.
15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse
previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di
Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.04.2013 n. 1870 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Sono
illegittimi l’atto di revoca
dell’aggiudicazione e la nuova aggiudicazione a favore della
controinteressata in quanto del tutto privi di motivazione.
Neppure dagli ulteriori atti depositati è possibile
ricostruire le ragioni che hanno spinto all’amministrazione
ad annullare la gara e quali siano state le difformità dal
bando che siano state contestate alla ricorrente. Né a tal
fine è possibile tenere conto di dichiarazioni provenienti
dalla controinteressata, in quanto la decisione di ritirare
e di assegnare ex novo la gara proviene
dall’amministrazione, la quale doveva valutare la fondatezza
delle rimostranze mosse nei confronti della prima
aggiudicazione ed esplicitare le ragioni per le quali vi
aderiva.
Non esiste poi nessun verbale di gara o di apertura delle
buste per cui non è possibile ricostruire in modo
sufficientemente completo l’attività svolta
dall’amministrazione.
---------------
Nell’ipotesi di rimozione in autotutela di una procedura di
gara, l’avviso di avvio del relativo procedimento assume
carattere di obbligatorietà ove l’esercizio di tale potere
implichi valutazioni discrezionali, come nel caso di specie
ove è stata fatta applicazione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
L’avviso deve ritenersi superfluo solo a fronte di un
provvedimento basato su presupposti verificabili in modo
immediato ed univoco, per i quali difatti le esigenze di
garanzia e trasparenza, sottese a tale adempimento, recedono
a favore dei criteri di economicità e speditezza dell’azione
amministrativa.
La ricorrente già aggiudicataria di procedura di
gara per l'affidamento dei servizi assicurativi degli alunni
e del personale per l'anno scolastico 2013 impugna l’atto di
revoca dell’aggiudicazione e la nuova aggiudicazione a
favore della controinteressata.
A tal fine presenta i seguenti motivi di ricorso: a)
Violazione degli artt. 21 della legge n. 241/1990 per
difetto di motivazione dell’atto di autotutela; b)
Violazione dell’art. 21-nonies della legge 241/1990 per
mancanza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela; c)
Violazione dell’art. 7 legge 241 /1990 per mancata
comunicazione di avvio del procedimento di autotutela; d) in
via subordinata violazione di legge per errata attribuzione
dei punteggi. Violazione del bando di gara e dei criteri di
attribuzione dei punteggi ivi stabiliti.
La difesa dello Stato ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 26.03.2013 la causa è stata
trattenuta dal Collegio per la decisione.
Il ricorso è fondato.
Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono fondati in
quanto dall’esame degli atti risulta chiaramente che sia
l’atto di revoca dell’aggiudicazione, quanto la successiva
aggiudicazione sono del tutto privi di motivazione.
Neppure
dagli ulteriori atti depositati è possibile ricostruire le
ragioni che hanno spinto all’amministrazione ad annullare la
gara e quali siano state le difformità dal bando che siano
state contestate alla ricorrente. Né a tal fine è possibile
tenere conto di dichiarazioni provenienti dalla controinteressata, in quanto la decisione di ritirare e di
assegnare ex novo la gara proviene dall’amministrazione, la
quale doveva valutare la fondatezza delle rimostranze mosse
nei confronti della prima aggiudicazione ed esplicitare le
ragioni per le quali vi aderiva.
Non esiste poi nessun verbale di gara o di apertura delle
buste per cui non è possibile ricostruire in modo
sufficientemente completo l’attività svolta
dall’amministrazione.
Anche il terzo motivo di ricorso è fondato in quanto
nell’ipotesi di rimozione in autotutela di una procedura di
gara, l’avviso di avvio del relativo procedimento assume
carattere di obbligatorietà ove l’esercizio di tale potere
implichi valutazioni discrezionali, come nel caso di specie
ove è stata fatta applicazione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (ex plurimis TAR Lazio-Roma - Sezione I-Bis, Sentenza 23.10.2006 n. 10900).
L’avviso deve ritenersi superfluo solo a fronte di un
provvedimento basato su presupposti verificabili in modo
immediato ed univoco, per i quali difatti le esigenze di
garanzia e trasparenza, sottese a tale adempimento, recedono
a favore dei criteri di economicità e speditezza dell’azione
amministrativa.
Poiché tali presupposti non sussistono, era obbligo
dell’amministrazione comunicare alle parti l’avvio di un
procedimento di annullamento della gara ed acquisire le loro
valutazioni prima di provvedere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.03.2013 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche la
presentazione delle offerte va effettuata in scrupolosa
osservanza del bando e della lettera d'invito e la stazione
appaltante non può legittimamente disattendere le predette
prescrizioni, non avendo alcuna discrezionalità al riguardo.
Pertanto, qualora il bando commini espressamente
l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate
violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa
ed incondizionata esecuzione a tale previsione, senza alcuna
possibilità di valutare la rilevanza dell'inadempimento,
l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura
selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella
lex specialis, alla cui osservanza l'Amministrazione si è
autovincolata al momento dell'adozione del bando.
--------------
L’impresa che non ha partecipato o è stata legittimamente
esclusa dalla procedura di gara non ha la legittimazione ad
impugnare il successivo provvedimento di aggiudicazione.
Infatti, anche l'eventuale interesse pratico alla
rinnovazione della gara non dimostra la titolarità di una
posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso,
poiché tale aspettativa non si distingue da quella che
potrebbe vantare qualsiasi operatore del settore, che aspiri
a partecipare ad una futura selezione; la capacità di questo
dato empirico di influire significativamente sulla
legittimazione al ricorso risulta ulteriormente circoscritta
quando l'interesse in questione non si collega in modo
immediato ed evidente con un determinato bene della vita (la
concreta probabilità di ottenere l'appalto), ma si atteggia
come mera prospettiva della ripetizione del procedimento.
Come ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, infatti, nelle gare
pubbliche la presentazione delle offerte va effettuata in
scrupolosa osservanza del bando e della lettera d'invito e
la stazione appaltante non può legittimamente disattendere
le predette prescrizioni, non avendo alcuna discrezionalità
al riguardo; pertanto, qualora il bando commini
espressamente l'esclusione obbligatoria in conseguenza di
determinate violazioni, la stazione appaltante è tenuta a
dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione,
senza alcuna possibilità di valutare la rilevanza
dell'inadempimento, l'incidenza di questo sulla regolarità
della procedura selettiva e la congruità della sanzione
contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza
l'Amministrazione si è autovincolata al momento
dell'adozione del bando (cfr., ex multis, Consiglio di
Stato, sez. V, 14.12.2011, n. 6546).
---------------
Come è noto,
infatti, il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n.
4 ha specificato che l’impresa che non ha partecipato o è
stata legittimamente esclusa dalla procedura di gara non ha
la legittimazione ad impugnare il successivo provvedimento
di aggiudicazione.
Infatti, anche l'eventuale interesse pratico alla
rinnovazione della gara non dimostra la titolarità di una
posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso,
poiché tale aspettativa non si distingue da quella che
potrebbe vantare qualsiasi operatore del settore, che aspiri
a partecipare ad una futura selezione; la capacità di questo
dato empirico di influire significativamente sulla
legittimazione al ricorso risulta ulteriormente circoscritta
quando l'interesse in questione non si collega in modo
immediato ed evidente con un determinato bene della vita (la
concreta probabilità di ottenere l'appalto), ma si atteggia
come mera prospettiva della ripetizione del procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Circa la sussistenza di
un obbligo giuridico di verbalizzazione delle modalità di
conservazione e di custodia delle buste contenenti le
offerte, ha visto la giurisprudenza amministrativa
apparentemente dividersi su due differenti orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, più rigoroso, seguito
dalla sentenza del TAR qui impugnata, l’omessa menzione nei
verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela
dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti
le offerte determina, di per sé, l’illegittimità delle
operazioni di gara, a prescindere dalla mancata
dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del
loro contenuto.
In base ad un secondo indirizzo, più attento agli
effetti sostanziali di tale omessa verbalizzazione, tale
omissione non costituisce di per sé motivo dì illegittimità
dell’attività svolta dalla Commissione a meno che non
vengano addotti elementi concreti e specifici tali da far
ritenere probabile o quanto meno possibile la sostituzione
delle buste, la manomissione delle offerte o altro fatto
rilevante ai fini della regolarità della procedura.
Come ha, tuttavia, ben messo in luce la parte appellante,
tale contrasto giurisprudenziale risulta apprezzabile
soltanto sul piano della mera ricognizione dei principi
risultanti dalle massime delle relative pronunce, poiché ad
un esame approfondito, che tenga conto della situazione di
fatto concreta e peculiare che ha caratterizzato le diverse
controversie oggetto di sindacato giudiziale, per tale
specifico aspetto risulta evidente che nella assoluta
prevalenza delle statuizioni giudiziarie la fattispecie
concreta presentava comunque degli aspetti peculiari tali da
poter destare un ragionevole sospetto circa un’avvenuta
manomissione dei documenti di gara o, comunque, il rischio
concreto che tale manomissione potesse avvenire.
In altre parole, soltanto nella considerazione, molto spesso
non esplicitata nell’ambito della massima delle relative
pronunce, dell’esistenza di eventi anomali o anormali
rispetto alla regolarità della procedura che rendano
particolarmente avvertite le esigenze di integrità e
segretezza delle offerte, la giurisprudenza più rigorista e
formalista ha richiesto in astratto e senza bisogno di
dimostrazioni specifiche, la sussistenza di una
verbalizzazione puntuale circa l’adozione delle cautele
impiegate dall’Amministrazione o dalla commissione per la
custodia dei plichi.
Come ha, infatti, chiarito recentemente questo Consiglio, la
pubblica amministrazione (P.A.) nelle gare di appalto ha la
piena disponibilità e l’integrale responsabilità della
conservazione degli atti di gara, cui in corso del
procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto
quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, D.lgs. n. 163/2006,
spettando alla P.A. stessa, ma solo a fronte di una seria e
non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa
l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il
diritto d’accesso, di dare idonea contezza dell’efficacia
dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine
dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede
privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che, pertanto, devono essere quantomeno allegate
per dimostrare l’interesse non emulativo alla custodia dei
plichi possono riassumersi (quasi tipizzarsi):
nell’eccessiva durata delle operazioni di gara; ovvero
nell’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta
tecnica ed economica; ovvero nella sottrazione di un
documento di gara ad opera di ignoti o per la presenza di
circostanziati elementi indiziari e sintomatici di una
possibile manomissione dei documenti di gara.
Pertanto, in presenza del generale obbligo di custodia dei
documenti di una gara pubblica da parte della stazione
appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto
con l’adozione delle ordinarie.
Rileva il Collegio che la questione centrale
proposta nell’atto d’appello, ovvero la sussistenza di un
obbligo giuridico di verbalizzazione delle modalità di
conservazione e di custodia delle buste contenenti le
offerte, ha visto la giurisprudenza amministrativa
apparentemente dividersi su due differenti orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, più rigoroso, seguito dalla
sentenza del TAR qui impugnata, l’omessa menzione nei
verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela
dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti
le offerte determina, di per sé, l’illegittimità delle
operazioni di gara, a prescindere dalla mancata
dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del
loro contenuto (cfr., ad es., Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2012, n. 1862).
In base ad un secondo indirizzo, più attento agli effetti
sostanziali di tale omessa verbalizzazione, tale omissione
non costituisce di per sé motivo dì illegittimità
dell’attività svolta dalla Commissione a meno che non
vengano addotti elementi concreti e specifici tali da far
ritenere probabile o quanto meno possibile la sostituzione
delle buste, la manomissione delle offerte o altro fatto
rilevante ai fini della regolarità della procedura (cfr.,
Consiglio di Stato, Sez. V, 18.10.2011, n. 5579 e, più
di recente, Consiglio di Stato, Sez. III, 14.01.2013,
n. 145).
Come ha, tuttavia, ben messo in luce la parte appellante,
tale contrasto giurisprudenziale risulta apprezzabile
soltanto sul piano della mera ricognizione dei principi
risultanti dalle massime delle relative pronunce, poiché ad
un esame approfondito, che tenga conto della situazione di
fatto concreta e peculiare che ha caratterizzato le diverse
controversie oggetto di sindacato giudiziale, per tale
specifico aspetto risulta evidente che nella assoluta
prevalenza delle statuizioni giudiziarie la fattispecie
concreta presentava comunque degli aspetti peculiari tali da
poter destare un ragionevole sospetto circa un’avvenuta
manomissione dei documenti di gara o, comunque, il rischio
concreto che tale manomissione potesse avvenire.
In altre parole, soltanto nella considerazione, molto spesso
non esplicitata nell’ambito della massima delle relative
pronunce, dell’esistenza di eventi anomali o anormali
rispetto alla regolarità della procedura che rendano
particolarmente avvertite le esigenze di integrità e
segretezza delle offerte, la giurisprudenza più rigorista e
formalista ha richiesto in astratto e senza bisogno di
dimostrazioni specifiche, la sussistenza di una
verbalizzazione puntuale circa l’adozione delle cautele
impiegate dall’Amministrazione o dalla commissione per la
custodia dei plichi.
Come ha, infatti, chiarito recentemente questo Consiglio
(Consiglio di Stato, Sez. III, 05.02.2013, n. 688), la
pubblica amministrazione (P.A.) nelle gare di appalto ha la
piena disponibilità e l’integrale responsabilità della
conservazione degli atti di gara, cui in corso del
procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto
quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, D.lgs. n. 163/2006,
spettando alla P.A. stessa, ma solo a fronte di una seria e
non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa
l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il
diritto d’accesso, di dare idonea contezza dell’efficacia
dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine
dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede
privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che, pertanto, devono essere quantomeno allegate
per dimostrare l’interesse non emulativo alla custodia dei
plichi possono riassumersi (quasi tipizzarsi):
nell’eccessiva durata delle operazioni di gara (è proprio il
caso che la sentenza di questo Consiglio, Sez. V, n.
1617/2011, invocata dal TAR a sostegno della decisione qui
impugnata, ha affrontato in relazione ad un’attività
valutativa che, nel suo complesso, si è protratta per oltre
17 mesi); ovvero nell’inversione dell’ordine di valutazione
tra offerta tecnica ed economica (Consiglio di Stato, Sez.
V, n. 1862/2012); ovvero nella sottrazione di un documento
di gara ad opera di ignoti o per la presenza di
circostanziati elementi indiziari e sintomatici di una
possibile manomissione dei documenti di gara (Consiglio di
Stato, Sez. VI, n. 4487/2011).
Pertanto, in presenza del generale obbligo di custodia dei
documenti di una gara pubblica da parte della stazione
appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto
con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione
degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità
ed integrità dei relativi plichi.
In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste
contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente
custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto
alcun elemento concreto, quali in generale anomalie
nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte
a far ritenere che si possa essere verificata la sottrazione
o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle
offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità
della procedura
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1815 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il bene giuridico
protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le
caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o
solo la tutela dell’interesse al rispetto della
pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo del territorio
da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi
comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi
di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono
elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione
un’area non urbanizzata.
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del
presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è
sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti, giustificandosi l’adozione del provvedimento
repressivo anche a fronte della dimostrazione della
sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci
sopraddetti.
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia
il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto
sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla
realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può
concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della
lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non
equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla
natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo
edificatorio.
Rileva in proposito la Sezione che, secondo la condivisibile
giurisprudenza formatasi in materia, il bene giuridico
protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le
caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o
solo la tutela dell’interesse al rispetto della
pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela
dell’interesse all’effettività del controllo del territorio
da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi
comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento
lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi
di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono
elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi
oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione
un’area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n.
1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del
presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è
sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un
terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la
necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20.10.2004, n.
6810), giustificandosi l’adozione del provvedimento
repressivo anche a fronte della dimostrazione della
sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci
sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n.
3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia
il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto
sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla
realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può
concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della
lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non
equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla
natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di
urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo
edificatorio (Consiglio Stato, Sezione IV, 11.09.2006, n.
6060) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1809 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In ordine ai requisiti che deve avere un'opera
edilizia per essere considerata precaria, possono essere
ipotizzati in astratto due criteri discretivi:
1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò
che non è stabilmente infisso al suolo;
2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò
che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare
la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui
un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo,
ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata
per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare
del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia e che possono
essere oggetto di domanda di condono in caso di
realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non
meramente occasionale, come impianti per attività produttive
all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria" di un
manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore,
ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale
di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo
sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto
smontabile e/o non infisso al suolo.
Va premesso che gli abusi edilizi condonabili vengono individuati di
volta in volta dalla legge istitutiva, che può allargare
oppure restringere le ipotesi a sua insindacabile
discrezione, -ovviamente nel rispetto dei principi
costituzionali- sulla base delle mutevoli esigenze fiscali,
che normalmente costituiscono la ragione della scelta del
legislatore.
L'esame nell'ammissibilità della domanda di condono
edilizio, nonché l'individuazione della sanzione da
infliggere per l'abuso edilizio commesso, costituiscono
valutazioni di natura tecnico-discrezionale di competenza
esclusiva dell'autorità amministrativa (Consiglio Stato,
sez. V, 27.04.1990, n. 397) che attengono anche alla
qualificazione degli interventi posti in essere.
In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per
essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in
astratto due criteri discretivi:
1) criterio strutturale, in
virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso
al suolo;
2) il criterio funzionale, in virtù del quale è
precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza
temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare
la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui
un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo,
ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata
per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare
del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia e che possono
essere oggetto di domanda di condono in caso di
realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non
meramente occasionale, come impianti per attività produttive
all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria"
di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca
destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente
di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1776 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
la più recente giurisprudenza, cui il Collegio aderisce, il
bilanciamento degli interessi coinvolti dalla pianificazione
generale impone una più rigida interpretazione delle
condizioni dell’azione, ponendo forti limiti alla
configurabilità dell’interesse cd. strumentale
all’impugnazione dello strumento urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse
al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a
una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza
che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale
interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
I ricorrenti contestano la procedura svolta, ai
fini dell’approvazione del P.G.T..
In particolare, gli stessi eccepiscono che sono stati
modificati i perimetri degli ambiti di trasformazione; così,
per quanto attiene a quello che interessa la proprietà dei
ricorrenti, è stata inserita, all’interno del precedente
ambito 2.8, una nuova area non contigua che prima faceva
parte di un autonomo ambito di trasformazione indicato come
2.9; per l’ambito di trasformazione non viene più previsto
un p.i.i., ma più genericamente un piano attuativo; è stata
modificata la tabella che prevede i dati urbanistici-edilizi
dei vari ambiti di trasformazione; è stata inserita la nuova
categoria della residenza convenzionata.
Ebbene, con particolare riguardo a tale motivo, che fa
leva sulla violazione delle norme procedimentali in materia
di formazione del P.G.T., il Collegio deve ribadirne
l’inammissibilità per difetto di interesse, posto che,
secondo la più recente giurisprudenza, cui il Collegio
aderisce, il bilanciamento degli interessi coinvolti dalla
pianificazione generale impone una più rigida
interpretazione delle condizioni dell’azione, ponendo forti
limiti alla configurabilità dell’interesse cd. strumentale
all’impugnazione dello strumento urbanistico. Ciò, sul
presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso
non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore
pianificazione dei suoli di propria spettanza che, in quanto
tale, non si differenzia dall’eguale interesse che quisque
de populo potrebbe nutrire (cfr. Consiglio di Stato sez. IV
12.01.2011 n. 133; id. 29.12.2010, n. 9537; id.
12.10.2010 n. 7439; 13.07.2010 n. 4542; 06.05.2010 n. 2629;
sez. V, 07.09.2009, n. 5244; sez. IV, 22.12.2007, n. 6613; TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2012 n.
297; id., 24.11.2011, n. 2901).
Nel caso di specie, innanzitutto non è dimostrato che,
nel passaggio dal piano adottato a quello approvato, siano
state apportate modifiche sostanziali al piano nel suo
complesso: in particolare, l’esame delle tavole allegate non
dimostra un effettivo stravolgimento dell’impianto
originario del piano, né l’introduzione della possibilità di
ricorso all’edilizia convenzionata, la previsione di un
generico piano attuativo in luogo di un p.i.i., ovvero la
specificazione di criteri urbanistico-edilizi configurano
modifiche dotate di peculiare carattere di innovatività.
Inoltre non è contestato il dato secondo cui la
zonizzazione che ha interessato l’area di proprietà dei
ricorrenti sia stata modificata in senso migliorativo per
questi ultimi, in quanto dall’originaria destinazione a standards, si è passati (in melius)
alla prevista edificabilità dell’area, pur se previa
adozione di un piano attuativo, il che esclude la
sussistenza dell’interesse degli istanti a ricorrere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Nel
caso in cui si tratti di asservire per la prima volta
all’edificazione, mediante la costruzione di uno o più
fabbricati, aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente
richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente
aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria– appare indiscussa la
necessità del piano esecutivo (piano di lottizzazione o
piano particolareggiato) dovendo essere rispettata la
cadenza, in ordine successivo, dell’approvazione del piano
regolatore generale e della realizzazione dello strumento
urbanistico d’attuazione, al fine di garantisce una
pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del
territorio dal punto di vista urbanistico. Diversamente,
l’integrità d’origine del territorio sarebbe sostanzialmente
vulnerata.
Per contro, nei casi nei quali la zona risulti totalmente
urbanizzata, attraverso la realizzazione delle opere e dei
servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della
collettività –quali strade, spazi di sosta, fognature, reti
di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia
elettrica, scuole, etc.– lo strumento urbanistico esecutivo
non deve ritenersi più necessario.
Con
riferimento al secondo motivo, volto a contestare la scelta
dell’amministrazione di subordinare l’edificazione dell’area
ad un precedente piano attuativo, ferma restando la natura
discrezionale dell’atto pianificatorio, oggetto di
impugnazione, il sindacato sulla ragionevolezza di tale
scelta procede attraverso la rigorosa prova delle
circostanze di fatto su cui la pianificazione urbanistica
interviene.
Così, nel caso in cui si tratti di asservire per la
prima volta all’edificazione, mediante la costruzione di uno
o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate –che
obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col
preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria– appare
indiscussa la necessità del piano esecutivo (piano di
lottizzazione o piano particolareggiato) dovendo essere
rispettata la cadenza, in ordine successivo,
dell’approvazione del piano regolatore generale e della
realizzazione dello strumento urbanistico d’attuazione, al
fine di garantisce una pianificazione razionale e ordinata
del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista
urbanistico. (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20.05.1980 n. 18 e 06.12.1992 n. 12; V Sezione, 13.11.1990 n. 776;
06.04.1991
n. 446 e 07.01.1999 n. 1; TAR Campania, IV Sezione, 02.03.2000
n. 596). Diversamente, l’integrità d’origine del territorio
sarebbe sostanzialmente vulnerata.
Per contro, nei casi nei quali la zona risulti
totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione delle
opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni
della collettività –quali strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e
dell’energia elettrica, scuole, etc.– lo strumento
urbanistico esecutivo non deve ritenersi più necessario
(cfr., per tutte, TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000
n. 1819).
Tuttavia, il Collegio ritiene che nel caso di specie il
vizio denunciato non sia stato supportato da idonea
documentazione probatoria, incombendo al ricorrente
medesimo, che ciò non ha fatto, offrire almeno un principio
di prova a sostegno dell’irragionevolezza della suddetta
previsione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici
commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in
luogo di locali residenziali configurano modifiche della
destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, l’amministrazione ha escluso che l’intervento
possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria",
proprio in considerazione della previsione di una modifica
della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a
condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche
delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui
le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla
manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui
all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i
mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere
edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata
alla luce dei principi fondamentali della materia “governo
del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie
di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001
(C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
Con il provvedimento prot. n. 7842 del 28.8.2011 e con il
provvedimento prot. n. 7838 del 28.02.2011 il Comune
di Gallarate ha rigettato, rispettivamente, l’istanza di
autorizzazione paesaggistica e l’istanza di permesso di
costruire presentate dal sig. C.Z., ritenendo che
l’intervento edilizio proposto, poiché prevede un cambio di
destinazione d'uso e l’esecuzione di opere non qualificabili
quale manutenzione straordinaria, si ponga in contrasto con
il piano di governo del territorio, adottato con
deliberazione del Consiglio Comunale n. 57 del 04.10.2010 ed
ha quindi disposto l’applicazione delle misure di
salvaguardia, ai sensi dell’art. 13, c. 12, l. reg.
Lombardia n. 12/2005.
In particolare, l’amministrazione ha ravvisato un contrasto
con l’art. 71 del piano delle regole, norma che, negli
ambiti territoriali a trasformazione urbanistica, in
pendenza della approvazione dei piani attuativi o degli atti
di programmazione negoziata, consente unicamente interventi
di conservazione degli edifici esistenti sino alla
manutenzione straordinaria come definita dall’art. 27, c. 1,
lett. b), (e, nella versione definitiva, sino alla
ristrutturazione), senza modifica della destinazione d'uso.
...
L’art. 71 del piano delle regole è chiaro nel
vietare modificazioni della destinazione d'uso nelle more
della approvazione dei piani attuativi.
Nel caso di specie, la realizzazione di mutamenti della
destinazione d'uso è chiaramente evincibile dalla
descrizione delle opere, contenuta nell’istanza di permesso
di costruire e dalle tavole ad essa allegate.
Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che si tratti di
meri “spostamenti di usi esistenti”: la trasformazione di un
magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la
previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali
residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso
rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, inoltre, l’amministrazione ha escluso che
l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione
straordinaria", proprio in considerazione della previsione
di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni
dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a
condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche
delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui
le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla
manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui
all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i
mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere
edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata
alla luce dei principi fondamentali della materia “governo
del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie
di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001
(C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
In ogni caso, nella fattispecie oggetto del presente
giudizio, la qualificazione dell’intervento non assume
rilievo decisivo (la nuova versione dell’art. 71 del piano
delle regole consente, invero, anche gli interventi di
ristrutturazione edilizia): ciò che rileva è, piuttosto, la
realizzazione di mutamenti di destinazione d'uso,
chiaramente vietata dal piano di governo del territorio.
Poiché, quindi, l’intervento edilizio in questione prevede
un mutamento di destinazione d'uso, esso si pone in
contrasto con l’art. 71 del piano delle regole del p.g.t.:
legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha dato
applicazione alle misure di salvaguardia ed ha sospeso ogni
determinazione sulla domanda di permesso di costruire,
conformemente alla previsione di cui all’art. 36, l. reg.
Lombardia n. 12/2005.
Il provvedimento non è viziato da difetto di motivazione,
indicando chiaramente nel cambio di destinazione d'uso la
ragione per la quale le opere non sono qualificabili quale
manutenzione straordinaria e si pongono in contrasto con le
previsioni del p.g.t. adottato.
Non sussiste parimenti la violazione dell’art. 38, l. reg.
Lombardia n. 12/2005: la norma pone in capo al responsabile
del procedimento la facoltà di richiedere modifiche, ma solo
nel caso in cui queste siano di modesta entità, circostanza
che non ricorre nel caso di specie.
Né è causa di illegittimità del provvedimento impugnato la
richiesta di integrazioni documentali sugli aspetti
paesaggistici del progetto, necessaria stante l’inclusione
del Comune di Gallarate nel Piano Lombardo del Ticino.
Non è poi configurabile il vizio di eccesso di potere -per
contraddittorietà rispetto ai precedenti atti comunali
assunti nel corso del procedimento- il quale presuppone
l’esercizio di un potere discrezionale, nella specie
insussistente.
In considerazione della natura vincolata del potere
esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del
provvedimento impugnato, le lamentate violazioni degli artt.
10-bis, 7 della l. n. 241/1990 e degli artt. 36 e 37, l.
Regione Lombardia n. 12/2005 (poiché il provvedimento prot.
7837 del 28.2.2011 sarebbe stato sottoscritto dal
funzionario responsabile del procedimento e non dal
dirigente capo del servizio), anche ove fondate, non
causerebbero l’annullamento del provvedimento impugnato,
così come previsto all’art. 21-octies, l. n. 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.03.2013 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 447/1995 non
va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza
contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene
pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale
ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò
perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle
amministrazioni comunali, la presenza di una accertata
situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sé
una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è
offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile
al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria
Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano
la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del
Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n.
447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue
pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è
leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore
pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e
attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la
facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni
dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi
consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato
dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla
normativa in materia di attività produttive, laddove fissa
le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di
tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione
distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto
di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di
natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi
vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico,
dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è
volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di
primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di
cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della
l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni
dannose in questione.
---------------
Se è vero è che l'istituto dell'ordinanza contingibile e
urgente, con la quale è consentito fronteggiare le
situazioni di emergenza anche al prezzo del sacrificio
temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente
tutelate, non può essere impiegato per conferire un assetto
stabile e definitivo agli interessi coinvolti, questo non
significa che i provvedimenti contingibili debbano
considerarsi automaticamente illegittimi solo perché
sprovvisti di un termine finale di durata o di efficacia.
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale
possono essere reputate legittime, quando, come nel caso che
occupa, siano razionalmente collegate alla concreta
situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione
di fatto.
Osserva la Sezione che il TAR, richiamati al riguardo
l’art. 15, comma 1, della l.r. n. 13/2001 e l'art. 9, comma
1, della L. n. 447/1995, ha ritenuto che questa norma non
può essere riduttivamente intesa come una mera riproduzione,
nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela
dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza
contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal
nostro ordinamento giuridico al Sindaco in materia di sanità
ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere
logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare
significato che assume all'interno di una normativa dettata
allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al
fenomeno dell'inquinamento acustico, che è stato ritenuto
sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità
di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace
strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, comma 1, della
citata l. n. 447/1995.
Ha quindi affermato che la tutela della salute pubblica non
presuppone necessariamente che la situazione di pericolo
involga l'intera collettività, ben potendo richiedersi
tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di
una singola famiglia (o anche di una sola persona) e che non
può essere certamente reputato ordinario strumento di
intervento (sul piano amministrativo) la facoltà
riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le
immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
La Sezione condivide la tesi fatta propria dal primo
Giudice, che il potere di cui al richiamato art. 9 della l.
n. 447/1995 non va riduttivamente ricondotto al generale
potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di
sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere
qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento
acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a
disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di
una accertata situazione di inquinamento acustico
rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica,
anche se in concreto è offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile
al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria
Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano
la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del
Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n.
447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue
pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è
leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore
pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e
attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la
facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni
dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi
consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato
dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla
normativa in materia di attività produttive, laddove fissa
le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di
tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione
distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto
di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di
natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi
vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico,
dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è
volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di
primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di
cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della
l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni
dannose in questione.
---------------
Con il motivo in esame è
stato anche dedotto che contraddittoriamente il TAR ha da
un lato riconosciuto la sussistenza del potere sindacale di
emettere una ordinanza contingibile ed urgente allo scopo di
realizzare un immediato ed efficace contrasto
all’inquinamento acustico e dall’altro ha affermato la
legittimità della impugnata ordinanza che ha invitato il
trasgressore solo ad individuare generiche misure da
adottarsi per il futuro, senza neppure indicare un termine a
pena di decadenza entro il quale le stesse dovessero essere
adottate.
Osserva in proposito la Sezione che con l’ordinanza n.
20 del 2009 impugnata è stato intimato la legale
rappresentante della attuale appellante di provvedere entro
30 giorni dal ricevimento della stessa, e comunque
compatibilmente con i tempi necessari all’ottenimento di
tutti gli eventuali nulla osta od autorizzazioni previste
dalla vigente normativa, a realizzare gli interventi
opportuni per garantire che le emissioni acustiche fossero
conformi ai valori limite previsti dal d.P.C.M. 14.11.1997.
Detto provvedimento non conteneva quindi solo un generico
invito ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento
acustico per il futuro senza indicazione di un termine di
decadenza, atteso che non contraddittoriamente, ma in logica
contemperazione dell’interesse pubblico alla eliminazione
dell'inquinamento acustico con i vincoli di legge imposti al
privato per poter effettuare interventi edilizi sulla
proprietà, ha concesso che il termine, perentorio e non
decadenziale, assegnato per l’incombente fosse dilatabile
sino al conseguimento degli indispensabili titoli edilizi.
Aggiungasi che se è vero è che l'istituto dell'ordinanza
contingibile e urgente, con la quale è consentito
fronteggiare le situazioni di emergenza anche al prezzo del
sacrificio temporaneo di posizioni individuali
costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per
conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi
coinvolti, questo non significa che i provvedimenti
contingibili debbano considerarsi automaticamente
illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di
durata o di efficacia (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011,
n. 3922 e 13.08.2007, n. 4448).
Sicché anche misure non
definite nel loro limite temporale possono essere reputate
legittime, quando, come nel caso che occupa, siano
razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo
accertata rapportata alla situazione di fatto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 21.01.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste responsabilità risarcitoria della P.A.
laddove abbia illegittimamente rilasciato il titolo
abilitativo edilizio, successivamente annullato,
allorquando chi ne abbia chiesto il rilascio ha
presentando un progetto non conforme alla normativa
edilizia e urbanistica.
Se
è innegabile la responsabilità verso i terzi per i danni
provocati da un’opera illegittimamente realizzata
dall’operatore e illegittimamente assentita dalla P.A., non
si ritiene -comunque- che possa configurarsi una
responsabilità risarcitoria della P.A., per le conseguenze
dannose derivanti dall’annullamento di un titolo ad
aedificandum, nei confronti di chi ne abbia chiesto il
rilascio presentando un progetto non conforme alla normativa
edilizia e urbanistica.
A ciò osta il principio di autoresponsabilità che informa
sia l’art. 1227 del codice civile, che esclude il
risarcimento dei danni riconducibili al concorso del fatto
colposo del creditore, sia l’art. 50 del codice penale, il
quale, se nel campo penale esclude la punibilità di chi lede
un diritto col consenso della persona che può validamente
disporne, nella sfera dei diritti privati -ed in materia di
responsabilità aquiliana- comporta l’esclusione della
antigiuridicità dell'atto lesivo per effetto del consenso
del titolare, ove il consenso sia stato validamente prestato
ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile.
Chi presenta un progetto edilizio, avvalendosi per giunta
dell’opera di qualificati professionisti, ha per primo
l’onere di verificarne la conformità alla normativa vigente,
e non può pretendere di addossare all’Amministrazione, che
non abbia rilevato profili di contrasto con la normativa di
settore, gli effetti dannosi, risentiti in proprio, da lui
stesso voluti.
Il ricorso, cui resiste il Comune, è infondato.
Il danno che la ricorrente assume di avere subito è
riconducibile ad un’iniziativa imprenditoriale concepita e
posta in essere dalla medesima a suo rischio e sotto la
propria responsabilità.
La concessione edilizia venne rilasciata dal Comune su
istanza della ricorrente e su progetto redatto dalla
medesima.
Se è innegabile la responsabilità verso i terzi per i danni
provocati da un’opera illegittimamente realizzata
dall’operatore e illegittimamente assentita dalla P.A., non
ritiene il Collegio che possa configurarsi una
responsabilità risarcitoria della P.A., per le conseguenze
dannose derivanti dall’annullamento di un titolo ad
aedificandum, nei confronti di chi ne abbia chiesto il
rilascio presentando un progetto non conforme alla normativa
edilizia e urbanistica.
A ciò osta il principio di autoresponsabilità che informa
sia l’art. 1227 del codice civile, che esclude il
risarcimento dei danni riconducibili al concorso del fatto
colposo del creditore, sia l’art. 50 del codice penale, il
quale, se nel campo penale esclude la punibilità di chi lede
un diritto col consenso della persona che può validamente
disporne, nella sfera dei diritti privati -ed in materia di
responsabilità aquiliana- comporta l’esclusione della
antigiuridicità dell'atto lesivo per effetto del consenso
del titolare, ove il consenso sia stato validamente prestato
ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile (cfr. Cass.
civ. 3^, 24.02.1997 n. 1682).
Chi presenta un progetto edilizio, avvalendosi per giunta
dell’opera di qualificati professionisti, ha per primo
l’onere di verificarne la conformità alla normativa vigente,
e non può pretendere di addossare all’Amministrazione, che
non abbia rilevato profili di contrasto con la normativa di
settore, gli effetti dannosi, risentiti in proprio, da lui
stesso voluti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.12.2005 n. 5004). |
Ed il Consiglio di Stato conferma la sentenza del
TAR ... |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Circa la
richiesta risarcitoria, avanzata in primo grado,
avente per oggetto la lesione giuridica
dell’interesse legittimo dell’odierno appellante in
relazione al potere amministrativo illegittimamente
esercitato. Si verte, in definitiva, in uno di quei
casi di danno da provvedimento illegittimo
favorevole.
L’odierna appellante, infatti, invoca il
risarcimento dei danni cagionati dall’adozione di un
provvedimento satisfattivo della propria istanza
procedimentale, ma illegittimo e per questo caducato
in sede giurisdizionale con sentenza divenuta
definitiva.
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA–MILANO, SEZIONE II, n. 5004/2005, resa tra le parti,
concernente risarcimento danni a seguito di annullamento
concessione edilizia.
...
Occorre, quindi, ribadire che la richiesta risarcitoria
avanzata in primo grado ha ad oggetto la lesione giuridica
dell’interesse legittimo dell’odierno appellante in
relazione al potere amministrativo illegittimamente
esercitato. Si verte, in definitiva, in uno di quei casi di
danno da provvedimento illegittimo favorevole. L’odierna
appellante, infatti, invoca il risarcimento dei danni
cagionati dall’adozione di un provvedimento satisfattivo
della propria istanza procedimentale, ma illegittimo e per
questo caducato in sede giurisdizionale con sentenza
divenuta definitiva.
In assenza di accertamento in merito alla spettanza del
bene della vita oggetto della concessione non vi è lesione
dell’interesse pretensivo fatto valere dalla società.
Pertanto, il presente appello deve essere respinto.
Nel percorso di valutazione del danno da lesione di
interesse legittimo imputato a provvedimento illegittimo in
assenza di una disciplina specifica occorre seguire le
coordinate tipiche dell’illecito aquiliano. Pertanto, il
primo passo da compiere è quello di verificare se si sia in
presenza di un danno non jure e contra jus.
È noto, infatti,
che nel passaggio dall’art. 1151 del codice civile del 1865
all’art. 2043 del codice civile del 1942 l’ingiustizia non
qualifica più il fatto ma il danno, risultando abbandonata
un’ottica improntata unicamente sul carattere sanzionatorio
della responsabilità extracontrattuale. Ciò nonostante già
nell’impero della vecchia disciplina, l’esegesi
giurisprudenziale dominante richiedeva che il fatto ingiusto
fosse altresì lesivo di una posizione giuridica soggettiva
aliunde sancita.
Con il passaggio al nuovo paradigma
normativo appare chiaro che: a) si abbandona l’idea della
centralità della funzione sanzionatoria dell’illecito aquiliano; b) si fa strada l’idea dell’atipicità dei fatti
illeciti; c) si inaugura il dibattito verso il
riconoscimento di danni non più meramente patrimoniali; d)
si sposta l’attenzione dal danneggiante al danneggiato.
Venendo più da vicino alla nozione di danno attualmente
vigente deve rammentarsi come si contrappongano due
impostazioni.
Secondo la prima il danno è ingiusto se non è
giustificato, ossia se è prodotto in assenza di
autorizzazione, quale può essere l’esercizio di un diritto o
nel nostro caso l’esercizio legittimo di un potere
amministrativo. Secondo quest’impostazione l’art. 2043 c.c.,
paradigma di riferimento anche nell’odierna controversia,
rappresenta un sistema autosufficiente nel quale il
danneggiante sopporta qualsiasi conseguenza negativa si
verifichi nella sfera patrimoniale del danneggiato.
Seguendo
questa via interpretativa sono risarcibili anche i danni
economici puri. Pertanto, in assenza di una norma autorizzatrice il danno è valutato, calcolando la differenza
tra l’ammontare del patrimonio del danneggiato prima e dopo
il fatto illecito. Quest’approccio ha avuto certamente il
merito di contribuire a risarcire il danno rispetto a fatti
illeciti nei quali non appariva come immediatamente
definibile la posizione giuridica incisa. Nasce in questo
modo l’ambiguo danno all’integrità del patrimonio,
utilizzato dalla Suprema Corte di Cassazione nel noto caso
De Chirico.
Quest’impostazione appare, però, non meritevole
di condivisione e già superata in relazione al danno dal
lesione di interesse legittimo dalla stessa Corte di
Cassazione nella celebre sentenza n. 500/1999. A ben vedere,
infatti, il “danno” non può essere sine jure, sembrando più
consono utilizzare tale locuzione per il “fatto”, potendo
quest’ultimo risultare o meno autorizzato. Pertanto, per non
tradire la chiara indicazione legislativa l’ingiustizia
dovrà anche essere riferita al “danno”, che dovrà
presentarsi come contra jus, avendosi in questo modo un
doppio giudizio sia sulla condotta del danneggiante che
sulla lesione di un bene giuridico del danneggiato.
Una
simile scelta rassicura anche in ordine alla limitazione del
potere creativo del Giudice, che troverà nel paradigma
dell’art. 2043 c.c. non una clausola generale, ma una norma
generale, nel senso che a fronte dell’atipicità dei fatti
non jure, dovrà rintracciare comunque un danno contra jus,
che sarà comunque tipico, poiché la risarcibilità resterà
ancorata alla presenza di una posizione giuridica soggettiva
precedentemente riconosciuta dall’ordinamento. Una simile
opzione interpretativa del resto avvicina l’ordinamento
italiano a quello tedesco ed a quello francese, che pur
partendo da paradigmi normativi speculari, si caratterizzano
per un diritto vivente che percorre traiettorie convergenti.
Così l’impostazione fortemente atipica che caratterizza
l’esperienza francese è stata delimitata
dall’interpretazione pretoria che ritiene necessaria la
lesione di un interesse giuridicamente tutelato. Mentre
l’impostazione fortemente tipizzata seguita all’interno
dell’ordinamento tedesco è stata superata dalla
giurisprudenza, forzando il dato letterale, per ammettere il
risarcimento di danni diversi da quelli espressamente
enumerati.
Esatte queste premesse la richiesta risarcitoria della
Società appellante non può essere accolta, perché il
riscontro della pretesa in esame supera solo il primo
sbarramento legato all’ingiustizia del danno, ossia quello
legato alla presenza di un danno (rectius, un fatto) non
jure. Infatti, è stato appurato con sentenza irrevocabile
che il potere amministrativo è stato utilizzato in modo
illegittimo. L’amministrazione, pertanto, ha posto in essere
una condotta non autorizzata.
È il secondo passo, invece, a
non poter essere compiuto. Non si apprezza nella
controversia in esame la lesione dell’interesse legittimo
dell’appellante. Infatti, proprio la sentenza invocata da
quest’ultimo per provare il fatto ingiusto ha accertato
l’assenza di un danno ingiusto, perché all’originario
ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo. Tanto che
l’amministrazione, qualora avesse posto in essere una
condotta jure avrebbe dovuto respingere l’istanza di
concessione edilizia.
Si tratta, in definitiva, di una
conclusione che appare in linea con la direttrice tracciata
dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 6596/2011, che
fa derivare l’assenza di giurisdizione del g.a. dinanzi ad
una richiesta risarcitoria per un danno derivato al
destinatario di un provvedimento illegittimo favorevole,
dalla circostanza che il rimprovero mosso
all’amministrazione da parte dell’odierno ricorrente, non ha
ad oggetto l’esercizio illegittimo del potere, consumato in
suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse
sostanziale, ma la condotta colposa, consistita nell'avere
orientato l’odierna appellante verso comportamenti
negoziali, che, altrimenti, non avrebbe tenuto.
Non è, in
definitiva, riscontrabile nella fattispecie la lesione
dell’interesse legittimo azionato dall’odierno appellante.
Le suddette considerazioni consentono di tralasciare la
delicata questione inerente l’esegesi dell’art. 1227 c.c.,
giacché si tratta di un passo ancora successivo, che si
sarebbe dovuto compiere solo qualora si fosse riconosciuta
la sussistenza di un danno non jure e contra jus. Non
appare, infatti, utile operare un accertamento sulla valenza
causale del comportamento del creditore-danneggiante,
qualora si accerti che difetta in capo a quest’ultimo la
lesione della posizione giuridica azionata.
Il presente appello deve, pertanto, essere respinto e la
disciplina delle spese deve ispirarsi al principio della
soccombenza nei sensi indicati in motivazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 183 - link a
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LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL
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Oggetto: Legge di stabilità 2014 – n. 147 del 27.12.2013.
Principali misure di natura fiscale di interesse per il
settore edile (ANCE Bergamo,
circolare 17.01.2014 n. 23). |
VARI:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale: anno
2014 (ANCE Bergamo,
circolare 17.01.2014 n. 21). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: DM 143/2013 - Regolamento recante determinazione
dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di
affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi
all'architettura ed all'ingegneria (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 14.01.2014 n. 313). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Quesiti interpretativi urgenti in merito all'art. 17-bis
della legge n. 90 del 03.08.2013 (Ministero
dello Sviluppo Economico,
nota 18.12.2013 n. 24957 di prot. -
tratto da www.acca.it).
---------------
Caldaia e scarico a parete, ecco i chiarimenti del Ministero.
Il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) in risposta a
un quesito posto fornisce chiarimenti sulle caldaie che
possono essere installate in deroga all’obbligo di
evacuazione dei prodotti della combustione con sbocco sopra
il tetto.
Inoltre, precisa che (in base all’art. 5, comma 9-ter del
D.P.R. 412/1993) i generatori di calore che sono stati
installati successivamente al 31.08.2013 devono possedere le
seguenti caratteristiche:
●
un rendimento termico utile maggiore o uguale a 90+2log (Pn),
in corrispondenza di un carico termico pari al 100% della
potenza termica utile nominale;
●
appartenere alla classe 4 o 5, secondo la classificazione
relativa alle emissioni di NOx indicata dalla norma UNI EN
297, UNI EN 483 e UNI EN 15502 (16.01.2014 -
Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 18.12.2013 n. 24957 di prot. - link a
www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
18.01.2014 n. 14 "Riduzione degli obiettivi programmatici
del patto di stabilità interno per l’anno 2013 delle
province e dei comuni con popolazione superiore a 1.000
abitanti, in attuazione dell’articolo 1, comma 122, della
legge 13.12.2010, n. 220" (Ministero dell'Economia
e delle Finanze,
decreto 30.10.2013). |
APPALTI SERVIZI: G.U.
17.01.2014 n. 13 "Criteri ambientali minimi per
l’affidamento del servizio di gestione del verde pubblico,
per acquisto di Ammendanti - aggiornamento 2013, acquisto di
piante ornamentali e impianti di irrigazione (Allegato 1) e
forniture di attrezzature elettriche ed elettroniche
d’ufficio - aggiornamento 2013 (Allegato 2)" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 13.12.2013). |
APPALTI:
Mercoledì 15.01.2014 il Parlamento europeo, in seduta
plenaria ha approvato tre nuove direttive e precisamente
quelle relative ad appalti pubblici e servizi in
sostituzione delle due direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE e
la nuovissima direttiva concessioni.
Alleghiamo alla presente notizia le tre direttive nel testo
approvato dal Parlamento europeo, precisando che si tratta:
●
della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sugli
appalti pubblici (COM (2011) 896 def.) che
sostituirà la Direttiva 2004/18/CE;
●
della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali (COM (2011) 895 def.) che sostituirà la
direttiva 2004/17/CE;
●
della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione (COM (2011)
897 def.).
I prossimi passaggi saranno quelli dell’approvazione da
parte del Consiglio dei Ministri Ue, che rappresenta gli
stati membri, e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale dell’Unione europea. E’ presumibile, quindi, che
tutto si concluda entro il prossimo mese di febbraio e che
gli Stati membri saranno, quindi, obbligati, nei successivi
24 mesi a recepire le nuove disposizioni nella legislazione
nazionale.
Si profila, quindi, un nuovo e pesante intervento sul Codice
dei Contratti e sul Regolamento.
Sul sito del parlamento Europeo viene precisato che le nuove
direttive in materia di appalti pubblici e concessioni
garantiranno una qualità e un rapporto qualità-prezzo
migliori. Sarà inoltre più facile per le piccole e medie
imprese presentare offerte mentre le nuove regole contengono
disposizioni più severe in materia di subappalto.
Le nuove direttive modificano le norme attuali sugli appalti
pubblici comunitari e per la prima volta, sono stabilite
norme comuni UE in materia di contratti di concessione
(commento tratto da www.lavoripubblici.it). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Chiarimenti
in ordine al regime giuridico degli attestati di prestazione
energetica con riferimento ai contratti di vendita, agli
atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai
nuovi contratti di locazione (Camera dei Deputati,
question-time del 15.01.2014,
interrogazione n. 3-00557 del Deputato Manfred
Schullian).
---------------
Si legga l'interrogazione e la relativa risposta a pag.
68. |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Incarichi di studio e
consulenza.
In materia di spesa per incarichi di
studio e consulenza, gli enti locali della Regione Friuli
Venezia Giulia applicano le disposizioni statali, in
particolare, per gli anni 2014 e 2015, il disposto di cui
all'art. 1, commi 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito
in l. 125/2013, come avvalorato dall'intervenuta
abrogazione, ai sensi della legge finanziaria regionale per
il 2014, dell'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, nonché
dell'art. 14, comma 11, lett. c), della l.r. 27/2012.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al conferimento di
un incarico di studio e consulenza. In particolare, l'Ente
si è posto la questione attinente al limite di spesa
previsto dal legislatore nazionale nel d.l. 101/2013, art.
1, comma 5.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprime quanto segue.
Il comma 5 del citato art. 1, come modificato dalla legge di
conversione 30.10.2013, n. 125, prevede che la spesa annua
per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa
a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici
dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'ISTAT, non può essere
superiore, per l'anno 2014 all'80 per cento del limite di
spesa per l'anno 2013 e, per l'anno 2015, al 75 per cento
dell'anno 2014 così come determinato dall'applicazione delle
disposizioni di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010,
convertito con modificazioni in l.122/2010. Secondo
quest'ultima previsione, a decorrere dall'anno 2011 la spesa
annua per studi ed incarichi di consulenza non può essere
superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009.
Si ritiene che la normativa statale in argomento sia
applicabile alle amministrazioni locali della Regione Friuli
Venezia Giulia, anche alla luce dell'intervenuta abrogazione
delle norme regionali disciplinanti la materia.
Al riguardo si rileva che l'art. 12, comma 10, della l.r.
22/2010 (finanziaria 2011), stabiliva che il rispetto delle
disposizioni di principio che prevedono il contenimento di
alcune componenti di spesa, previste da alcune norme del
d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, tra le quali anche
l'art. 6, comma 7 richiamato, concernente la spesa per gli
incarichi in oggetto, 'è garantito per gli enti locali
della Regione Friuli Venezia Giulia con il conseguimento
degli obiettivi in materia di coordinamento della finanza
pubblica contenuti nell'art. 12 della legge regionale
30.12.2008, n. 17 (Legge finanziaria 2009) e successive
modifiche'.
In particolare, l'art. 12, comma 19, lett. b-bis, della
citata l.r. 17/2008, prevedeva che, in caso di mancato
raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità, gli
enti nell'esercizio successivo 'non possono sostenere
spese per studi e incarichi di consulenza, incluse quelle
relative a studi e incarichi di consulenza relativi a
pubblici dipendenti, (...) in misura superiore al 50 per
cento della media delle spese sostenute allo stesso titolo
nel triennio precedente'.
Al riguardo si precisa che il comma 19 in argomento, che,
secondo quanto previsto dalla l.r. 22/2010, trovava
applicazione per gli enti locali della Regione in luogo
dell'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010, è stato
successivamente abrogato dall'art. 14, comma 27, della l.r.
27/2012.
Peraltro il contenuto del comma 19 era stato riprodotto dal
medesimo articolo 14, al comma 11, lett. c).
Da ultimo è intervenuto l'art. 14, comma 22, della legge
regionale 27.12.2013, n. 23 (Legge finanziaria 2014)
[1], che
ha abrogato sia la disposizione di cui al richiamato art.
12, comma 10, della l.r. 22/2010, sia la disposizione di cui
all'art. 14, comma 11, lett. c), della L.R. 27/2012.
Pertanto, anche per gli enti locali della Regione Friuli
Venezia Giulia, per gli anni 2014 e 2015, trova applicazione
il disposto di cui all'art. 1, comma 5 e 5-bis, del d.l.
101/2013, convertito in l. 125/2013.
Atteso che, ai sensi del comma 9 dell'art. 1, del d.l.
101/2013, le disposizioni del medesimo articolo
'costituiscono norme di diretta attuazione dell'articolo 97
della Costituzione, nonché principi di coordinamento della
finanza pubblica ai sensi dell'articolo 117, terzo comma,
della Costituzione, il legislatore regionale ha ritenuto di
procedere all'abrogazione di norme non più coerenti con il
quadro normativo statale, nel frattempo delineatosi, in
vista di addivenire alla redazione di una disciplina
organica in materia di contenimento della spesa.
---------------
[1] Pubblicata nel supplemento ordinario n. 1 del 07.01.2014 al B.U.R. n. 1 del 02.01.2014 (13.01.2014
-
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INCARICHI PROFESSIONALI:
Personale degli enti locali. Incarichi di studio e
consulenza.
In materia di spesa per incarichi di
studio e consulenza, gli enti locali della Regione Friuli
Venezia Giulia applicano le disposizioni statali, in
particolare, per gli anni 2014 e 2015, il disposto di cui
all'art. 1, commi 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito
in l. 125/2013, come avvalorato dall'intervenuta
abrogazione, ai sensi della legge finanziaria regionale per
il 2014, dell'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, nonché
dell'art. 14, comma 11, lett. c), della l.r. 27/2012.
Il Comune, in ordine alle limitazioni di spesa per il
conferimento di incarichi di studio e consulenza, si è posto
la questione dell'applicabilità, agli enti locali del Friuli
Venezia Giulia, delle disposizioni previste dal legislatore
nazionale nel decreto legge 31.08.2013, n. 101, art. 1,
commi 5, 5-bis e 6. L'Ente chiede inoltre se, con
riferimento alla locuzione 'spese sostenute' a tale titolo,
vadano considerate le spese impegnate o quelle
effettivamente liquidate.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprime quanto segue.
Il comma 5 del citato art. 1, come modificato dalla legge di
conversione 30.10.2013, n. 125, prevede che la spesa annua
per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa
a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici
dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'ISTAT, non può essere
superiore, per l'anno 2014 all'80 per cento del limite di
spesa per l'anno 2013 e, per l'anno 2015, al 75 per cento
dell'anno 2014 così come determinato dall'applicazione delle
disposizioni di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010,
convertito con modificazioni in l. 122/2010. Secondo
quest'ultima previsione, a decorrere dall'anno 2011 la spesa
annua per studi ed incarichi di consulenza non può essere
superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009.
Si ritiene che la normativa statale in argomento sia
applicabile alle amministrazioni locali della Regione Friuli
Venezia Giulia, anche alla luce dell'intervenuta abrogazione
delle norme regionali disciplinanti la materia.
Al riguardo si rileva che l'art. 12, comma 10, della l.r.
22/2010 (finanziaria 2011), stabiliva che il rispetto delle
disposizioni di principio che prevedono il contenimento di
alcune componenti di spesa, previste da alcune norme del
d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, tra le quali anche
l'art. 6, comma 7 richiamato, concernente la spesa per gli
incarichi in oggetto, 'è garantito per gli enti locali
della Regione Friuli Venezia Giulia con il conseguimento
degli obiettivi in materia di coordinamento della finanza
pubblica contenuti nell'art. 12 della legge regionale
30.12.2008, n. 17 (Legge finanziaria 2009) e successive
modifiche'.
In particolare, l'art. 12, comma 19, lett. b-bis, della
citata l.r. 17/2008, prevedeva che, in caso di mancato
raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità, gli
enti nell'esercizio successivo 'non possono sostenere
spese per studi e incarichi di consulenza, incluse quelle
relative a studi e incarichi di consulenza relativi a
pubblici dipendenti, (...) in misura superiore al 50 per
cento della media delle spese sostenute allo stesso titolo
nel triennio precedente'.
Al riguardo si precisa che il comma 19 in argomento, che,
secondo quanto previsto dalla l.r. 22/2010, trovava
applicazione per gli enti locali della Regione in luogo
dell'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010, è stato
successivamente abrogato dall'art. 14, comma 27, della l.r.
27/2012.
Peraltro il contenuto del comma 19 era stato riprodotto dal
medesimo articolo 14, al comma 11, lett. c).
Da ultimo è intervenuto l'art. 14, comma 22, della legge
regionale 27.12.2013, n. 23 (Legge finanziaria 2014)
[1], che
ha abrogato sia la disposizione di cui al richiamato art.
12, comma 10, della l.r. 22/2010, sia la disposizione di cui
all'art. 14, comma 11, lett. c), della L.R. 27/2012.
Pertanto, anche per gli enti locali della Regione Friuli
Venezia Giulia, per gli anni 2014 e 2015, trova applicazione
il disposto di cui all'art. 1, comma 5 e 5-bis, del d.l.
101/2013, convertito in l. 125/2013.
Atteso che, ai sensi del comma 9 dell'art. 1, del d.l.
101/2013, le disposizioni del medesimo articolo 'costituiscono
norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della
Costituzione, nonché principi di coordinamento della finanza
pubblica ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione', il legislatore regionale ha ritenuto di
procedere all'abrogazione di norme non più coerenti con il
quadro normativo statale, nel frattempo delineatosi, in
vista di addivenire alla redazione di una disciplina
organica in materia di contenimento della spesa.
In relazione, infine, al quesito attinente alla locuzione 'spese
sostenute', si ritiene che la medesima vada interpretata
nel senso di spesa impegnata, considerato che i bilanci
degli enti locali sono redatti in termini di competenza
[2].
---------------
[1] Pubblicata nel supplemento ordinario n. 1 del
07.01.2014 al B.U.R. n. 1 del 02.01.2014.
[2] Si segnala, al riguardo, che nella circolare n. 2/2013
del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, in
relazione alle norme di contenimento della spesa, ivi prese
in esame, si è chiarito che «ai fini della quantificazione
dei limiti massimi di spesa introdotti dalle norme di
contenimento di seguito richiamate, laddove si fa
riferimento alla 'spesa sostenuta' in un determinato
esercizio, deve intendersi tale la spesa impegnata
nell'esercizio di competenza e non anche le somme erogate
nel predetto esercizio ma di pertinenza di esercizi
pregressi». Si ritiene, pertanto, che tale interpretazione
debba coerentemente valere anche in relazione alla
disposizione di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 101/2013
(13.01.2014 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla possibilità di rilascio di permesso di
costruire per realizzare una struttura commerciale
all'interno della fascia di rispetto cimiteriale ridotta -
Comune di Sezze (Regione Lazio,
parere 08.01.2014 n.
72675 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'interpretazione del d.P.R. 139/2010,
allegato 1, punto 38, concernente l'occupazione temporanea
del suolo soggetta ad autorizzazione paesaggistica
semplificata - Quesito all'Ufficio Legislativo del MIBACT (Regione Lazio,
parere 08.01.2014 n.
6976 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritto di accesso dei consiglieri comunali ad atti di
polizia giudiziaria e dell'anagrafe.
In relazione alla richiesta di accesso a
particolari atti, quali gli atti dell'anagrafe, dello stato
civile (ad es. estratti di atti di matrimonio) o le liste
elettorali, il Garante per la protezione dei dati personali
ha ritenuto che il diritto di accesso dei consiglieri deve
essere comunque coordinato con la speciale disciplina che
attiene a tali atti e che resta soggetta a specifiche
disposizioni.
L'accesso dei consiglieri comunali è consentito anche quando
si tratti di dati sensibili, ma soltanto se indispensabile
per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo
politico e di sindacato ispettivo, restando ferma la
necessità che i dati così acquisiti siano utilizzati per le
sole finalità connesse all'esercizio del mandato.
Per quanto concerne l'accesso agli atti di polizia
giudiziaria sussiste, in generale, un divieto di ostensione
degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e
dalla polizia giudiziaria.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al diritto di
accesso di un consigliere comunale, con particolare
riferimento all'esibizione e al rilascio di copia di atti di
polizia giudiziaria, di natura personale e atti relativi
all'anagrafe.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
La disciplina di riferimento si trova nell'articolo 43,
comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il
quale prevede che 'i consiglieri comunali e provinciali
hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi specificatamente determinati
dalla legge.'
Esiste una consolidata giurisprudenza sulla questione, che
riconosce ai consiglieri comunali un incondizionato diritto
di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato.
Un tanto al fine di permettere loro di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Di conseguenza, sul consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di
accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta
una sorta di controllo dell'ente, attraverso i proprio
uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale
[1].
La norma sul diritto di accesso dei consiglieri comunali si
pone, pertanto, come speciale e trasversale rispetto alle
disposizioni relative alla non accessibilità di determinate
categorie di documenti, tanto che tale diritto non incontra
alcuna limitazione derivante dalla natura riservata delle
informazioni richieste, posto che il consigliere è vincolato
all'osservanza del segreto.
Tuttavia, pur trattandosi di un diritto di accesso più ampio
rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei
cittadini, l'esercizio dello stesso deve sempre essere
strumentale all'attività istituzionale svolta dal
consigliere e i dati acquisiti devono essere utilizzati per
le sole finalità collegate all'esercizio del mandato.
Ne discende che il consigliere non può utilizzare le
informazioni e i documenti richiesti per fini privati o
comunque diversi da quelli istituzionali, non può avvalersi
del diritto di accesso al solo scopo di realizzare strategie
ostruzionistiche, con istanze ripetute, che a causa del loro
numero possano tradursi in un aggravio, se non nella
paralisi, del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte.
Si osserva che, per quanto concerne la questione
dell'accesso al protocollo comunale, la giurisprudenza
ritiene 'il registro di protocollo generale
dell'amministrazione locale pienamente riconducibile alle
categorie dei documenti suscettibili di accesso, in quanto
idoneo a fornire notizie e informazioni utili
all'espletamento del mandato dei consiglieri comunali, non
essendo ammissibile imporre loro di specificare in anticipo
l'oggetto degli atti che intendono visionare, giacché
trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre
solo in conseguenza dell'accesso'. [2]
Ciascun ente locale, nell'esercizio della propria potestà
regolamentare, disciplina specificamente le modalità
concrete di esercizio del diritto di accesso da parte dei
consiglieri. E' opportuno che tali disposizioni perseguano
quale fine ultimo il contemperamento delle esigenze di
funzionalità dell'amministrazione -che può regolare
l'esercizio di tale accesso, stabilendo, per esempio, le
giornate, le fasce orarie, le modalità di estrazione delle
copie- con la garanzia del diritto di accesso del
consigliere comunale, che non può mai essere reso
ingiustificatamente difficoltoso dalle stesse prescrizioni.
Si ribadisce, ad ogni modo, che generalmente il diritto del
consigliere comunale non incontra alcuna limitazione
derivante dalla natura riservata delle informazioni
richieste, posto che il consigliere è vincolato
all'osservanza del segreto e al divieto di divulgare i dati
personali dei quali è venuto a conoscenza.
Peraltro, con specifico riferimento alla richiesta di
accesso a particolari atti, quali gli atti dell'anagrafe,
dello stato civile (ad es. estratti di atti di matrimonio) o
le liste elettorali, si osserva che il Garante per la
protezione dei dati personali ha ritenuto che il diritto di
accesso dei consiglieri deve essere comunque 'coordinato
con la speciale disciplina che attiene agli atti anagrafici,
allo stato civile e alle liste elettorali, e che resta
soggetta a specifiche disposizioni.'
[3].
Il Garante ha evidenziato che l'accesso da parte dei
consiglieri comunali è consentito anche qualora si tratti di
dati sensibili [4],
ma soltanto se indispensabile per lo svolgimento della
funzione di controllo, di indirizzo politico e di sindacato
ispettivo, restando ferma la necessità che i dati così
acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse
all'esercizio del mandato.
Il Garante si è pronunciato, inoltre, affermando che Comuni
e Province devono permettere l'accesso ai dati personali
effettivamente utili nel rispetto dei principi enunciati
all'articolo 11, comma 1, lett. d), del decreto legislativo
196/2003, secondo il quale ciascuna amministrazione deve
identificare e rendere pubblici, secondo i rispettivi
ordinamenti, i dati nell'osservanza dei criteri di
essenzialità, pertinenza e compatibilità con le finalità
perseguite. [5]
Al riguardo, si segnala che il Garante ha, anche
recentemente, affermato che 'l'amministrazione
destinataria dell'istanza, cui spetta entrare nel merito
della valutazione della richiesta -eventualmente sindacabile
dal giudice amministrativo- essendo l'unico soggetto
competente ad accertare l'ampia e qualificata posizione di
pretesa del consigliere all'ottenimento delle informazioni
ratione officii, è tenuta a rispettare i principi di
pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati e,
quando la richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la
loro indispensabilità, consentendo nei singoli casi
l'accesso alle sole informazioni che risultano
indispensabili per lo svolgimento del mandato (artt. 11 e 12
del Codice)' [6].
Per quanto concerne l'accesso agli atti di polizia
giudiziaria, si osserva che in generale sussiste un divieto
di ostensione degli atti d'indagine compiuti dal pubblico
ministero e dalla polizia giudiziaria, come disciplinato
nell'articolo 329 'Obbligo del segreto' del c.p.p..
Si fa, comunque, rilevare che una recente sentenza del
Consiglio di Stato ha ulteriormente specificato quanto
segue: 'Non ogni denuncia di reato presentata dalla
pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria
costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e
come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è
presentata dalla p.a. nell'esercizio delle proprie funzioni
amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione
dell'articolo 329 del c.p.p.; tuttavia se la p.a. che
trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non
lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività
amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificatamente attribuite dall'ordinamento, si
è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'articolo 329 c.p.p. e
conseguentemente sottratti all'accesso...[7]'.
---------------
[1] TAR Salerno, sez. II, del 04/06/2013, n. 1234; TAR
Salerno, sez. I, del 19/12/2011, n. 2042; TAR Trento sez. I,
del 07/05/2009, n. 143; TAR Torino, sez. II, del 04/12/2006,
n. 3324.
[2] TAR Parma, 26/01/2006, n. 28; TAR L'Aquila, 16/12/2004,
n. 1100; TAR Milano, sez. I. 26/05/2004, n. 1762.
[3] Cfr. il parere del 20.05.1998. Anche nel successivo
parere del 09.06.1998, il Garante ha affermato che 'Resta
fermo l'obbligo del segreto nei soli casi espressamente
previsti dalla legge, come, ad esempio, nel settore delle
indagini penali per ciò che riguarda la segretezza della
corrispondenza e delle conversazioni, così come per i limiti
contenuti nelle leggi sugli atti anagrafici, lo stato civile
e le liste elettorali.'. Al riguardo, si riporta, per la
parte d'interesse, l'art. 177 del d.lgs. 196/2003: "Art. 177
(Disciplina anagrafica, dello stato civile e delle liste
elettorali).
1. Il comune può utilizzare gli elenchi di cui all'articolo
34, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
30.05.1989, n. 223, per esclusivo uso di pubblica utilità
anche in caso di applicazione della disciplina in materia di
comunicazione istituzionale.
(omissis)
3. Il rilascio degli estratti degli atti dello stato civile
di cui all'articolo 107 del decreto del Presidente della
Repubblica 03.11.2000, n. 396 è consentito solo ai soggetti
cui l'atto si riferisce, oppure su motivata istanza
comprovante l'interesse personale e concreto del richiedente
a fini di tutela di una situazione giuridicamente rilevante,
ovvero decorsi settanta anni dalla formazione dell'atto.
(omissis)
5. Nell'articolo 51 del decreto del Presidente della
Repubblica 20.03.1967, n. 223, il quinto comma è sostituto
dal seguente: "Le liste elettorali possono essere rilasciate
in copia per finalità di applicazione della disciplina in
materia di elettorato attivo e passivo, di studio, di
ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere
socio-assistenziale o per il perseguimento di un interesse
collettivo o diffuso.".
[4] Ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. d), del d.lgs.
196/2003, sono tali 'i dati personali idonei a rivelare
l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche,
l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od
organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o
sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale'.
[5] Cfr. parere del Garante per la protezione dei dati
personali 08.02.2001, in cui si precisa inoltre che tali
dati non possono essere usati per scopi di propaganda
elettorale.
[6] Cfr. parere del 25.07.2013.
[7] Consiglio di Stato, Sezione VI, del 29/01/2013, n. 547
(08.01.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
INCOMPATIBILITÀ/
Decadenza con garanzie.
Va dato tempo per rimuovere le cause ostative.
Il consiglio deve assicurare il diritto di difesa
L'organo consiliare di un ente è competente a valutare
l'incompatibilità a carico di un consigliere comunale, ai
sensi dell'art. 67-quater, comma 11, del dl 22/06/2012, n.
83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto
2012, n. 134, considerato che il comune in questione non
rientra tra quelli individuati con decreto del commissario
delegato ai sensi del dpcm del 6 aprile 2009?
Nel caso di specie è applicabile l'art. 67-quater, comma 11,
del dl 22/06/2012, n. 83, convertito, con modificazioni,
dalla legge 07.08.2012, n. 134, tenuto conto di quanto
previsto dall'art. 1, comma 3, del dl 29/10/2009, n. 39,
convertito con modificazioni, dalla legge 24/06/2009, n. 77,
laddove dispone che i finanziamenti possono anche
interessare beni localizzati al di fuori dei comuni del
cosiddetto «cratere», in presenza di un nesso di casualità
diretto tra danno subito e evento sismico, comprovato da
apposita perizia giurata.
In conformità al principio
generale secondo cui ogni organo collegiale delibera sulla
regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti,
l'effettiva verifica della presenza di una causa ostativa
all'espletamento del mandato va compiuta con la procedura
consiliare prevista dall'art. 69 del dlgs 18/08/2000, n. 267,
che garantisce il corretto contraddittorio tra organo e
amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del
diritto alla difesa e la possibilità di rimuovere entro un
congruo termine la causa d'incompatibilità contestata.
Avverso le delibere consiliari che pronunciano la decadenza
di un amministratore è ammesso, ai sensi del comma 5
dell'art. 69 citato, ricorso giurisdizionale al tribunale
competente per territorio.
Nella fattispecie, il consiglio
comunale ha adottato una delibera che non risulta essere
stata impugnata dall'interessato. Quanto alle presunte
incompatibilità del sindaco e di un assessore dell'ente, nel
richiamare il principio cui si è fatto cenno in precedenza,
si soggiunge che la decadenza delle relative funzioni può
essere promossa, ai sensi dell'art. 70 del dlgs 18/08/2000,
n. 267, da qualsiasi cittadino elettore del comune o da
chiunque altro vi abbia interesse davanti al tribunale
civile
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Spese legali.
È possibile rimborsare spese e competenze legali relative
alla difesa in un procedimento penale presso il tribunale
ordinario nonché davanti al tribunale penale, in
composizione collegiale, di diversi ex amministratori dei un
comune, tutti imputati nel medesimo procedimento per atti
compiuti nell'esercizio del proprio mandato e assolti con
sentenza passata in giudicato?
Nell'ordinamento vigente non si rinvengono norme che
prevedono la possibilità di rimborsare agli amministratori
locali le spese legali sostenute per giudizi instaurati in
relazione a fatti asseritamente posti in essere
nell'esercizio delle proprie funzioni.
In passato, parte della giurisprudenza aveva ritenuto di
poter estendere in via analogica agli amministratori locali
la normativa che consente tale rimborso per i dipendenti
degli enti locali, sulla base dell'avverarsi di alcuni
presupposti, quali la sussistenza di una connessione con i
compiti d'ufficio dei fatti oggetto del processo penale, la
mancanza di conflitto di interessi con l'amministrazione di
appartenenza, nonché la conclusione del processo penale con
una sentenza di assoluzione.
Secondo indirizzi ermeneutici più recenti, la possibilità di
tale ricorso all'analogia nella materia in questione è
preclusa. La Corte dei conti, con la più recente sentenza n.
165 del 15/10/2012, ha confermato tale orientamento,
ritenendo anche non condivisibile la tesi
dell'applicabilità, con il ricorso al procedimento
analogico, dell'art. 1720 del codice civile nella parte in
cui dispone che «il mandante deve inoltre risarcire i danni
che il mandatario ha subito a causa dell'incarico»
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI: Corte conti: i municipi devono risparmiare almeno il 20%.
Nuovi enti strumentali solo riducendo i costi.
Gli enti locali non possono costituire nuovi enti
strumentali, né aderire ad enti già costituiti, se non
garantiscono una riduzione dei costi almeno pari al 20%. Per
gli enti che in passato non abbiano sostenuto spese
analoghe, il divieto è assoluto.
Lo ha affermato la Corte dei Conti, Sez.
controllo Umbria, nel
parere
21.11.2013 n. 129, chiarendo la
portata dell'art. 9, comma 1 e 6, del dl 95/2012.
La prima
disposizione ha previsto che «al fine di assicurare il
coordinamento e il conseguimento degli obiettivi di finanza
pubblica, il contenimento della spesa e il migliore
svolgimento delle funzioni amministrative, le regioni, le
province e i comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso,
assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in
misura non inferiore al 20%, enti, agenzie e organismi
comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che
esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali
o (altre) funzioni amministrative». Ai sensi del comma 6,
invece, «è fatto divieto agli enti locali di istituire enti,
agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi
natura giuridica, che esercitino una o più funzioni
fondamentali e funzioni amministrative loro conferite».
In precedenza, su tale disciplina si era pronunciata la
Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 236/2013 ne ha
fornito un'interpretazione costituzionalmente orientata
ritenendo legittimo il divieto di cui al comma 6 solo se
teleologicamente connesso agli obiettivi di riduzione della
spesa di cui al precedente comma 1. Ne deriva che il divieto
di istituire nuovi enti strumentali opera solo nei limiti
della necessaria riduzione del 20% dei costi relativi al
loro funzionamento, così che se, complessivamente, le spese
restano al di sotto dell'80% dei precedenti oneri
finanziari, esso non opera.
In questa prospettiva, restava incerta la situazione degli
enti che non abbiano, in passato, sostenuto spese del
genere. Il parere dei giudici contabili umbri risolve i
dubbi sostenendo che in tali casi non è consentita né la
costituzione di nuovi organismi né l'adesione a entità già
esistenti. Diversamente, gli oneri, quand'anche di modesta
consistenza, si configurerebbero come del tutto nuovi e
quindi, nel rapporto percentuale con quelli precedenti,
finirebbero per avere il valore assoluto del 100%, violando
la lettera e lo scopo delle norme citate.
Si tratta di una lettura assai più restrittiva di quella
fornita dalla Corte dei conti rispetto ad altre norme di
analogo tenore. Per esempio, la sezione regionale di
controllo per la Lombardia (parere n. 227/2011), chiamata a
pronunciarsi sull'art. 6, comma 7, del dl 78/2010, che ha
limitato la spesa per consulenze al 20% di quella fatta
registrare da ciascun ente nel 2009, ha affermato che,
laddove in tale anno la spesa fosse stata pari a 0, è
necessario riferirsi a un diverso parametro di riferimento
(nel caso di specie individuato nella spesa strettamente
necessaria per gli incarichi assolutamente necessari).
Ciò in quanto il legislatore non ha inteso vietare agli enti
locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando
ne ricorrono i presupposti di legge e sarebbe scorretto
penalizzare proprio le amministrazioni che in passato ne
hanno contenuto il numero. Analoghe argomentazioni sembrano
valere anche per le norme oggetto del parere in commento,
per cui pare auspicabile un ripensamento da parte della
magistratura contabile
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Formazione. Via libera agli sforamenti.
L'anticorruzione evita i tetti di spesa.
La centralità
della formazione nell'ambito delle procedure volte a
prevenire la corruzione e l'illegalità nella Pubblica
amministrazione consente agli enti di derogare dal vincolo
di spesa ordinariamente previsti.
Si trattava di capire se,
anche in tema di anticorruzione, si dovesse applicare
l'articolo 6, comma 13, del Dl. 78/2010, per il quale il
budget destinato annualmente alla formazione non può
superare il 50% della spesa 2009.
Sul punto, gli
orientamenti delle Corte dei Conti regionali ritenevano la
norma immediatamente applicabile a meno che si trattasse di
un'attività formativa richiesta ex lege e, quindi, avulsa
dal potere discrezionale dell'ente (Friuli Venezia Giulia,
delibera n. 106/2012, e Lombardia, delibera n. 116/2011).
Riprendendo queste posizioni, la sezione dell'Emilia
Romagna, con il
parere 20.11.2013 n. 276, ricostruisce il
contesto nel quale si inserisce la disciplina
anticorruzione.
Gli adempimenti in materia prevedono numerosi momenti
formativi. Un primo obbligo è stabilito in capo al
responsabile dell'anticorruzione nella predisposizione del
piano triennale. È previsto, infatti, che, entro il 31
gennaio di ogni anno il responsabile definisca procedure
appropriate per selezionare e formare i dipendenti che
operano nei settori a più alto rischio. Inoltre devono
essere identificati programmi rivolti a tutti i dipendenti
sui temi dell'etica e della legalità. Il doppio livello di
intervento è confermato nel piano nazionale. Infine, anche
per quanto riguarda il codice di comportamento, le Pa sono
obbligate a organizzare percorsi formativi volti alla
conoscenza e alla corretta applicazione.
Ritornando al piano nazionale, quel documento evidenzia come
il coinvolgimento di tutta la struttura rappresenta un
elemento imprescindibile per ridurre il rischio che
l'illecito sia commesso inconsapevolmente e per
precostituire le basi necessarie all'attuazione di un
secondo pilastro della norma, vale a dire la rotazione del
personale.
Il quadro delineato non può che portare alla conclusione
della obbligatorietà della formazione in tema di
anticorruzione. Obbligatorietà che non solo trova conferma
nelle responsabilità dirigenziali in caso di comportamenti
omissivi su questo aspetto, ma che gioca un ruolo
determinante quando sia accertato, con sentenza passata in
giudicato, un reato in materia di corruzione. In questa
fattispecie, il responsabile anticorruzione potrà
discolparsi solo se dimostra di aver adempiuto agli obblighi
formativi, oltre all'aver adottato il piano triennale e aver
vigilato sull'applicazione dello stesso.
Concludendo, la formazione in campo anticorruzione, essendo
obbligatoria e non discrezionale, non viene intaccata dal
limite previsto dall'articolo 6, comma 13, del Dl 78/2010.
In modo analogo, sono escluse le spese di formazione
inerenti la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare (articolo Il Sole 24 Ore del
09.12.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Non
può essere corrisposta l'indennità di fine mandato al
Sindaco che ha rinunciato all’indennità di funzione.
Il Comune di Musile di Piave con la nota indicata in
epigrafe, chiede il parere di questa Corte sull'ambito di
applicazione dell'art. 6, comma 12, del decreto legge
31.05.2010, n. 78, convertito in legge con la legge
30.07.2010, n. 122, recante: "Misure urgenti in materia
di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”.
Il Sindaco nella suddetta richiesta di parere premette che ”a
seguito dell'elezione alla carica di deputato avvenuta nel
maggio 2008, (…) formalizzava la rinuncia alla indennità di
funzione spettanti come Sindaco ai sensi dell'art. 82 del
D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (Tuel).
Ciò nonostante l'art. 83 del Tuel sancisca espressamente il
divieto di cumulo delle indennità unicamente nel caso di
cariche incompatibili, e non è questo il caso dato che il
Comune di Musile ha una popolazione inferiore ai 20.000
abitanti (precisamente abitanti 11.578).
A tal fine ricorda che L'art. 82, comma 8, lett. f), del
citato Tuel, stabilisce altresì, tra i criteri da rispettare
nella determinazione dell'indennità di funzione in parola,
la previsione dell'integrazione dell'indennità dei Sindaci,
a fine mandato, con una somma pari ad una indennità mensile
spettante per ciascun anno di mandato”.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede il parere di questa
Corte circa “la possibilità da parte del Sindaco di
percepire alla fine del mandato, la relativa indennità, pur
avendo rinunciato all'indennità di funzione a seguito
dell’elezione a parlamentare della Repubblica”.
...
Nel caso di specie, il parere richiesto concerne la
corresponsione di un’indennità di fine mandato nel caso di
avvenuta rinuncia alla percezione dell’indennità di
funzione, con evidenti riflessi sul piano contabile e
finanziario dell’ente.
La Sezione richiama preliminarmente il testo della norma
invocata (art. 82 del TUEL), che così recita: ”La misura
delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza di cui
al presente articolo è determinata, senza maggiori oneri a
carico del bilancio dello Stato, con decreto del Ministro
dell’interno, di concerto con il Ministro del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica, ai sensi
dell’art. 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400,
sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali nel
rispetto dei seguenti criteri: (…) lett. f) a fine mandato,
l’indennità dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia è
integrata con una somma pari ad un’indennità mensile
spettante per 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto
per periodi inferiori all’anno”.
L’articolo 10 del Decreto del Ministro dell’Interno n. 119
del 04.04.2000 riprende quanto già previsto nella norma
appena citata del TUEL, precisando ulteriormente che tale
importo è proporzionalmente ridotto per periodi inferiori
all'anno.
Già dal tenore testuale del comma 8, lett. f), del più volte
citato art. 82 che parla espressamente di “integrazione
dell'indennità dei sindaci e dei presidenti di provincia, a
fine mandato, con una somma pari a una indennità mensile,
spettante per ciascun anno di mandato” si ricava che la
disposizione fa esplicito riferimento alla indennità
effettivamente corrisposta. La circolare del Ministero
dell’interno 05.06.2000, n. 5/2000, ha al riguardo
confermato che detta indennità di fine mandato, spettante a
sindaci e presidenti di provincia, va commisurata al
compenso “effettivamente corrisposto”, ferma restando
la riduzione proporzionale per periodi inferiori all'anno;
ed anzi, in caso di rielezione del Sindaco, va corrisposta
alla fine del primo mandato (Parere 09/02/2009 prot. n.
15900 /TU/82 del Ministero dell’Interno) a valere sul
bilancio dell’esercizio nel quale si verifica la
conclusione, prevedendo il necessario adeguamento dello
stanziamento relativo alle indennità di funzione.
Della stessa norma peraltro è stata esaminata anche la
portata sul piano sostanziale, deducendo parimenti che le
disposizioni appena richiamate non prevedono la
corresponsione, a fine mandato, di un’autonoma e diversa
indennità, bensì di una mera integrazione all’indennità di
funzione eventualmente percepita.
La giurisprudenza di questa Corte, in linea con la
ricostruzione sin qui operata, ha affermato che tale
interpretazione sarebbe sostenuta, oltre che dalla lettera
della norma, dal criterio dettato per la computazione
dell’integrazione medesima sopra riferito, deducendo altresì
che la rinuncia all’indennità di funzione per la carica di
sindaco (o di presidente di provincia) comporta
automaticamente la rinuncia all’integrazione della stessa a
fine mandato, integrazione che, del resto, per la sua stessa
computazione, presuppone la corresponsione di un’indennità
di funzione cui parametrarla (Sezione di controllo per il
Piemonte, del. n. 15/2009).
Le suaccennate conclusioni,
da cui questo Collegio non intende discostarsi e che vanno
interpretate alla luce di un recente, accentuato sfavore per
le spese della politica, del quale questa Sezione si è fatta
interprete con le delibere n. 283/2012/PAR del 24/04/2012 e
435/2012/PAR del 03/07/2012, sono nel senso
che non possa essere corrisposta l'indennità di fine mandato
al Sindaco che abbia rinunciato all’indennità di funzione
(cfr. in questo senso anche Sez. Piemonte, n. 282/2011/SRCPIE/PAR)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 12.09.2012 n. 585). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le situazioni
ipotizzabili in tema di mobilità sono 3:
1) se la copertura dei posti resi vacanti dalla procedura di
mobilità in uscita avviene mediante il recupero delle unità
di personale con mobilità in entrata, l’operazione non
incontra alcun limite di natura finanziaria ed è
perfettamente legittima;
2) se la copertura avviene mediante assunzioni di personale
dall’esterno, occorre preliminarmente verificare se la
mobilità in uscita è avvenuta o meno verso ente soggetto a
disciplina limitativa delle assunzioni:
2A) nel primo caso (neutralità finanziaria), la mobilità non
determina una cessazione per il comune che, pertanto, non
potrà tenerne conto in relazione all’art. 1, comma 562,
legge n. 296/2006 (assunzioni nel limite delle cessazioni di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente
intervenute nel precedente anno);
2B) in caso di mobilità in uscita verso ente non soggetto a
limiti assunzionali, si configurerà una vera e propria
cessazione dal servizio equiparabile ad un collocamento a
riposo ed in quanto tale rilevante ai sensi dell’art. 1,
comma 562, legge n. 296/2006 (quanto all’interpretazione
dell’inciso “anno precedente” come limite temporale di
rilevanza delle cessazioni, si veda il parere n. 258 del
31.05.2012).
In tutti i casi sopra esposti, è comunque sempre necessario
che l’ente ricevente:
a) rispetti il parametro del rapporto tra spesa di personale
e spesa corrente ai sensi dell’art. 76, comma 7, d.l.
112/2008, come sostituito dall’art. 14, comma 9, del D.L. n.
78/2010;
b) rispetti il limite alla complessiva spesa del personale
(che non deve superare –per gli enti non soggetti al PSI–
quella del 2008);
c) risulti in linea con le regole dettate dal Patto di
Stabilità interno.
---------------
Il sindaco del comune di Valdidentro, con nota n. 3533 del
13.06.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un
parere in tema di mobilità in entrata.
In particolare, il Sindaco del comune di Valdidentro (4.076
abitanti), precisava di aver concesso, nel 2005 e nel 2006,
due mobilità verso enti soggetti alle medesime limitazioni
in materia di assunzioni.
Chiedeva, quindi, se fosse possibile procedere alla
copertura dei due posti rimasti vacanti recuperando le
mobilità in uscita attraverso l’istituto della mobilità in
entrata.
Chiedeva, inoltre, quale fosse “l’anno di decorrenza
che consente il recupero della mobilità” e “se le
mobilità in uscita possono essere coperte nel medesimo anno
in cui si verificano oppure occorre attendere l'anno
successivo come per le cessazioni”.
...
La questione in esame concerne la possibilità o meno, per il
comune di Valdidentro, ente non soggetto alle regole del
Patto di Stabilità, di procedere a due assunzioni mediante
procedure di mobilità a fronte di due analoghe procedure in
uscita avvenute negli anni 2005 e 2006.
Presupposto di tale richiesta è che le mobilità in uscita
riguardassero personale assunto a tempo indeterminato
transitato ad ente soggetto alla medesima disciplina
limitativa delle assunzioni.
Il rapporto tra l’istituto della mobilità
volontaria e la normativa limitativa delle assunzioni trova
compiuta disciplina nell’articolo 1, comma 47 della legge
30.12.2004 n. 311 a mente del quale “in vigenza di
disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle
assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono
consentiti trasferimenti per mobilità, anche
intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al
regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle
dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano
rispettato il patto di stabilità interno per l’anno
precedente”.
La norma, che riguarda gli enti sottoposti a vincoli
assunzionali, configura la mobilità come una possibilità di
reclutamento di personale in deroga ai limiti normativamente
previsti.
Tale norma è stata oggetto di ripetute pronunce della
Sezione: in tema di procedure di mobilità, ed in particolare
sulla neutralità finanziaria delle stesse in relazione ai
vincoli assunzionali per i comuni non soggetti al Patto di
Stabilità, la Sezione si è pronunciata con numerosi
precedenti, ai quali è opportuno rinviare per i profili di
carattere generale che disciplinano la materia (tra gli
altri, si vedano i pareri nn. 123/2010, 443/2010, 521/2010,
524/2010, 79/2011, 80/2011, 115/2011, 149/2011, 314/2011,
429/2011).
Le stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, in sede di
controllo, hanno concluso, nella deliberazione n. 59/CONTR/10
del 06.12.2010, che “relativamente agli
enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno,
nei confronti dei quali operano i vincoli in materia di
assunzione previsti dall’articolo 1, comma 562, della legge
n. 296 del 2006, le cessioni per mobilità volontaria possono
essere considerate come equiparabili a quelle intervenute
per collocamento a riposo nella sola ipotesi in cui l’ente
ricevente non sia a sua volta sottoposto a vincoli
assunzionali”.
Tale conclusione è avvalorata dall’affermazione, contenuta
nella deliberazione n. 53/2010 delle stesse Sezioni Riunite,
che “l’obiettivo della neutralità finanziaria si può
conseguire, a livello di comparto, quando entrambi gli enti
locali sono soggetti a vincoli di assunzione (o, meglio
ancora, sono in regola con le prescrizioni del patto)”.
Da tali pronunce, argomentando a contrario, deriva che ai
fini della disciplina limitativa delle assunzioni per il
personale -in caso di enti entrambi sottoposti a limiti alla
facoltà di procedere a nuovi reclutamenti- il trasferimento
in mobilità, per l’ente di origine, non costituisce “cessazione”
legittimante assunzioni sul mercato del lavoro esterno alla
pubblica amministrazione e che, dall’altro lato, non
costituiscono “assunzioni”, per l’ente destinatario,
gli ingressi di personale in mobilità.
Naturalmente, come precisato dalla Sezione (vedi il parere
n. 123/2010), “è pur sempre necessario
che l’ente presso il quale il dipendente sarà chiamato a
prestare servizio sia nelle condizioni di poter assumere
personale aggiuntivo (in relazione al rispetto delle regole
del Patto di Stabilità o al rapporto tra spesa di personale
e spesa corrente). Per altro verso, il comune dal quale il
personale viene trasferito potrà procedere a nuove
assunzioni ovvero ad acquisire personale in mobilità solo se
ciò è consentito dai parametri per esso fissati, tenendo
presente che l’onere del personale in uscita non dovrà
essere inserito nel computo della spesa relativa”.
Ancora, nel parere n. 521/2010 è stato precisato che né la
normativa sulla mobilità disciplinata dal d.lgs. n. 165 del
2001, né la disciplina sulla finanza pubblica che ha
introdotto particolari limitazioni alla spesa di personale
hanno limitato la possibilità di ricorrere a mobilità
all’interno di categorie di enti che debbono applicare le
stesse regole di finanza pubblica: la mobilità, pertanto,
può essere attuata anche fra enti che debbono rispondere a
limiti differenziati purché a conclusione dell’operazione
non vi sia stata alcuna variazione nella consistenza
numerica e nell’ammontare della spesa di personale.
Sempre in merito alle condizioni per ritenere sussistente la
neutralità delle mobilità tra enti, il Dipartimento della
Funzione pubblica con circolare n. 4/2008 e con parere n.
13731 del 19.03.2010, ha precisato che “la
mobilità, pur rappresentando sempre uno strumento
finanziariamente da privilegiare, si configura in termini di
neutralità di spesa solo se si svolge tra amministrazioni
entrambe sottoposte a vincoli in materia di assunzioni a
tempo indeterminato. In tal caso non si qualifica come
assunzione da parte dell’amministrazione ricevente. Ne
discende che non è computabile come cessazione, sotto
l’aspetto finanziario, da parte dell’amministrazione cedente”.
Inoltre, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti,
con deliberazione n. 21 del 09.11.2009 ha chiarito che “la
mobilità di personale in uscita, comporta che, a seguito del
trasferimento, il rapporto di lavoro prosegue con un altro
datore di lavoro per cui l’amministrazione cedente può solo
beneficiare, in termini di risparmio di spesa, dell’avvenuta
cessazione del contratto (…), spesa che rimane inalterata in
termini globali nell’ambito dell’intero settore pubblico”
e che “corrisponde ad un principio di
carattere generale che per effettiva cessazione debba
intendersi il collocamento di un soggetto al di fuori del
circuito di lavoro, con conseguente venire meno della
remunerazione, caratteristica che non si attaglia al
fenomeno della mobilità”.
In conseguenza, al fine di procedere a
nuove assunzioni (nella fattispecie, in enti non soggetti al
patto di stabilità), “l’art. 1, comma 562, della legge n.
296 del 2007 è da interpretare nel senso che nel novero
delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato
complessivamente intervenute nell’anno precedente non siano
da comprendere quelle derivanti da trasferimenti per
mobilità”.
Naturalmente, l’illustrata esclusione dal novero delle
cessazioni di lavoro di quelle derivanti da trasferimento
per mobilità –in caso di neutralità finanziaria– deve essere
riconducibile esclusivamente ai casi in cui si intenda
procedere alla relativa sostituzione con una nuova
assunzione dall’esterno e quindi con un aumento numerico del
personale e del complessivo onere: la sostituzione con una
corrispondente mobilità in entrata non genera alcuna
variazione della spesa pubblica complessiva (parere n.
524/2010).
Pertanto, riassumendo quanto esposto, le
situazioni ipotizzabili in tema di mobilità sono 3:
1) se la copertura dei posti resi vacanti dalla procedura di
mobilità in uscita avviene mediante il recupero delle unità
di personale con mobilità in entrata, l’operazione non
incontra alcun limite di natura finanziaria ed è
perfettamente legittima;
2) se la copertura avviene mediante assunzioni di personale
dall’esterno, occorre preliminarmente verificare se la
mobilità in uscita è avvenuta o meno verso ente soggetto a
disciplina limitativa delle assunzioni:
2A) nel primo caso (neutralità finanziaria), la mobilità non
determina una cessazione per il comune che, pertanto, non
potrà tenerne conto in relazione all’art. 1, comma 562,
legge n. 296/2006 (assunzioni nel limite delle cessazioni di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente
intervenute nel precedente anno);
2B) in caso di mobilità in uscita verso ente non soggetto a
limiti assunzionali, si configurerà una vera e propria
cessazione dal servizio equiparabile ad un collocamento a
riposo ed in quanto tale rilevante ai sensi dell’art. 1,
comma 562, legge n. 296/2006 (quanto all’interpretazione
dell’inciso “anno precedente” come limite temporale
di rilevanza delle cessazioni, si veda il parere n. 258 del
31.05.2012).
In tutti i casi sopra esposti, è comunque
sempre necessario che l’ente ricevente:
a) rispetti il parametro del rapporto tra spesa di personale
e spesa corrente ai sensi dell’art. 76, comma 7, d.l.
112/2008, come sostituito dall’art. 14, comma 9, del D.L. n.
78/2010;
b) rispetti il limite alla complessiva spesa del personale
(che non deve superare –per gli enti non soggetti al PSI–
quella del 2008);
c) risulti in linea con le regole dettate dal Patto di
Stabilità interno.
Tutto ciò premesso, il Comune istante valuterà se la
situazione conseguente alla definizione delle procedure di
mobilità, e la posizione degli enti coinvolti rispetto alle
regole del patto di stabilità ed ai vincoli assunzionali e
di spesa, siano o meno conformi ai parametri indicati,
assumendo le conseguenti scelte gestionali di sua competenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.06.2012 n. 304). |
NEWS |
SICUREZZA LAVORO: Per il settore degli spettacoli le regole sui cantieri
mobili. Sicurezza. Un decreto ministeriale sarà emanato
entro il 31 dicembre.
Entro il
prossimo 31 dicembre il ministero del Lavoro dovrà emanare
un decreto che consentirà di estendere le regole in tema di
cantieri mobili previste dal Testo Unico sicurezza sul
lavoro ai palchi utilizzati negli spettacoli musicali e
negli eventi teatrali, cinematografici e fieristici.
Come noto, i palchi non sono ponteggi fissi e, per questo
motivo, non sono soggetti alle norme di sicurezza relative a
tali strutture. Prima che fosse approvato il cosiddetto
Decreto del fare (Dl 69/2013, convertito con la legge 98/2013),
anche le norme sui cantieri mobili e temporanei contenute
nel Testo Unico erano di dubbia applicazione. Tale
situazione si traduceva in procedure alquanto farraginose e
inefficaci: per montare un palco, erano sufficienti la
comunicazione al Comune di competenza e la predisposizione
di una relazione tecnica.
Il Decreto del fare ha sbloccato tale situazione, estendendo
anche gli eventi musicali, teatrali, cinematografici e
fieristici la normativa sui cantieri mobili, ma la novità
sarà operativa solo dopo l'emanazione del decreto
ministeriale sopra ricordato.
Tale decreto dovrà individuare quali delle attività connesse
al montaggio e allo smontaggio dei palchi saranno soggette
alle misure di sicurezza già operanti per i cantieri
temporanei e mobili. Secondo le prime indiscrezioni, il
decreto sembra destinato a non fare distinzioni tra attività
escluse ed attività incluse, optando quindi per un ambito di
applicazione molto ampio delle norme sui cantieri mobili.
A prescindere dai possibili contenuto del decreto, tuttavia,
il problema della sicurezza nello spettacolo richiede uno
sforzo che va oltre la semplice modifica delle regole. Come
è stato messo in evidenza ieri nel convegno promosso a
Trieste da una serie di enti pubblici (Comune di Trieste,
Regione Friuli Venezia Giulia, Inail, Ass Triestina, Inail)
e organizzato in memoria di Francesco Pinna, il giovane
morto a Trieste per il crollo del palco che stava
collaborando a costruire, la prevenzione dei rischi per i
lavoratori addetti al montaggio e allo smontaggio dei palchi
per gli spettacoli non è soltanto un problema normativo.
Diversi relatori intervenuti al convegno hanno sottolineato
la necessità di adottare modelli organizzativi e produttivi
meno frammentati di quelli attuali. Gli spettacoli musicali
sono oggi realizzati mediante la partecipazione di un numero
molto elevato di imprese; non è raro che nello stesso luogo
di lavoro siano compresenti decine e decine di datori di
lavoro diversi, con personale assunto mediante tipologie
contrattuali altrettanto differenti. Questa situazione non
aiuta la prevenzione dei rischi, in quanto rende difficile
il coordinamento delle misure e l'individuazione delle
responsabilità, spesso parcellizzate in un numero troppo
alto di soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del
14.12.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, debutta il fotovoltaico.
Rifiuti elettrici. Il Cdm ha varato ieri lo schema di
decreto legislativo.
Quasi pronto
il nuovo sistema legislativo per la gestione dei Raee
(rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche)
destinato a sostituire l'attuale Dlgs 151/2005.
Ieri,
infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima
lettura, lo schema di decreto legislativo per l'attuazione
della direttiva 2012/19/Ue. Ora il testo sarà sottoposto
all'esame della Conferenza unificata Stato-Regioni e delle
competenti commissioni parlamentari.
Il testo nazionale, al pari della direttiva, estende e
chiarisce il campo di applicazione; innalza gli obiettivi di
raccolta, recupero e riutilizzo; frena le spedizioni
all'estero. La qualificazione degli impianti di trattamento
resta, però, un punto delicato perché non sembra essere
compiutamente affrontato; infatti, pur richiedendo
l'iscrizione degli impianti al centro di coordinamento Raee,
il testo non riconosce a tale Centro adeguati poteri per la
verifica periodica né chiarisce quali siano i requisiti da
rispettare.
Fino al 14.08.2018 vige un periodo transitorio e il
decreto si applica alle apparecchiature elettriche ed
elettroniche (Aee) indicate nell'allegato I (si aggiungono,
tra poche altre, i pannelli fotovoltaici, ma restano molto
simili a quelle finora previste dal Dlgs 151/2005), con
alcune esclusioni (per esempio il materiale bellico e le
lampade a incandescenza). Dal 15.08.2018, invece, il
campo di applicazione si apre e la disciplina si applica a
tutte le Aee (classificate in sei categorie nell'allegato
III), con poche esclusioni (per esempio i dispositivi medici
se infetti). Il campo di applicazione potrebbe cambiare
ancora perché entro il 14.08.2015, la Commissione Ue lo
riesaminerà.
La raccolta prevede almeno 4 chili/abitante fino al 31.12.2015 ed entro il
01.01.2019 dovrà raggiungere
il 65%/anno delle Aee immesse sul mercato nei tre anni
precedenti oppure l'85% dei Raee prodotti in Italia. Per
recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo gli
obiettivi variano in base alle categorie di Raee e ai
periodi (transitorio e a regime) e sono compresi tra il 50 e
l'85%.
Per ridurre al minimo lo smaltimento dei Raee misti con
altri rifiuti nei cassonetti, i centri di raccolta comunale
accettano gratuitamente i Raee portati dai cittadini, dai
distributori e dai gestori dei centri di assistenza tecnica,
purché prodotti nel territorio ove è ubicato il centro di
raccolta, a meno di apposita convenzione con il Comune. Per
i punti vendita di grande superficie (di almeno 400 mq),
all'obbligo di ritiro del Raee nel caso di acquisto di un'Aee
nuova, si aggiunge quello di ritiro di Raee di piccolissime
dimensioni, anche senza acquisto del nuovo ("uno contro
zero"). Si tratta di Raee con dimensioni esterne non
superiori a 25 cm.
Per arginare la piaga delle esportazioni nei Paesi in via di
sviluppo di Raee "mascherati" da Aee usate, l'allegato VI
reca i requisiti minimi che il possessore deve dimostrare;
in difetto, si presume che si tratti di un tentativo di
esportazione illegale di Raee (si deroga in caso di accordo
di trasferimento tra imprese di Aee difettose da restituire
o riparare). Le spese per analisi, ispezioni e deposito di
Aee usate sospettate di essere Raee possono essere poste a
carico dei produttori, dei Sistemi collettivi o di chi
organizza la spedizione (articolo Il Sole 24 Ore del
14.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Subappaltatori pagati da chi fa l'appalto.
Una norma del decreto sviluppo
sblocca i cantieri. Expo: riassegnazioni di fondi per 165 mln.
Per non bloccare i cantieri, negli appalti pubblici i
subappaltatori potranno essere pagati direttamente dalla
stazione appaltante in caso di particolare urgenza e in
pendenza di una procedura di concordato preventivo; per
l'Expo 2015 previste revoche e riassegnazioni per 165
milioni; niente Iva sui project della Tem e della
Pedemontana.
Sono questi alcuni dei punti più rilevanti del
decreto-legge «Destinazione Italia», approvato ieri dal
Consiglio dei ministri, relativi agli appalti pubblici e
all'Expo 2015.
Prosecuzione degli appalti e pagamento subappaltatori. Lo
schema di decreto-legge affronta le problematiche derivanti
dalle crisi aziendali che toccano sempre più imprese di
costruzioni e le inevitabili conseguenze rispetto alla
prosecuzione degli appalti in corso. In particolare, per
consentire il completamento dell'esecuzione del contratto di
appalto e per condizioni di particolare urgenza, viene
stabilito che la stazione appaltante –anche in deroga al
bando di gara– possa procedere al pagamento diretto dei
corrispettivi ai subappaltatori e ai cottimisti per quanto
da essi eseguito.
Inoltre si prevede che nella pendenza di
una procedura di concordato preventivo, la stazione
appaltante possa pagare distintamente l'appaltatore
principale e i subappaltatori, secondo le istruzioni
impartite dal Tribunale competente, in modo da salvaguardare
sia la parità di condizione tra i creditori dell'appaltatore
in crisi aziendale, sia la prosecuzione dell'appalto. Ciò,
ovviamente, laddove il bando non abbia già previsto il
pagamento diretto dei subappaltatori o dei cottimisti. Si
estende, infine, il regime di svicolo delle garanzie di
buona esecuzione previsto dall'articolo 237-bis del codice
degli appalti anche ai settori «speciali» (acqua, energia e
trasporti) e anche per i contratti in essere.
Expo 2015. Il provvedimento interviene prevedendo meccanismi
di revoca e rassegnazione di fondi per ottimizzare l'impiego
delle risorse disponibili. Per quel che riguarda le somme
oggetto della revoca delle assegnazioni disposte dal Cipe,
complessivamente pari a 165,390 milioni, vengono destinate
prioritariamente, per 53,2 milioni, a opere di connessione
indispensabili per lo svolgimento dell'Expo 2015, al cui
finanziamento vengono anche destinati ulteriori 42,8 milioni
per l'anno 2013 (per un ammontare complessivo di 96 milioni)
a valere sul fondo di cui all'articolo 18, comma 1, del
decreto legge n. 69/2013, già assegnati dal Cipe con
delibera del 09.11.2013 alla linea M4 della
metropolitana di Milano e ritenuti non necessari
nell'immediato.
A quest'ultimo intervento vengono
contestualmente destinati 42,8 milioni a valere sulle
risorse derivanti dalle revoche, al fine di mantenere
inalterato l'ammontare complessivo del contributo assegnato
dal Cipe in attuazione dell'articolo 18, comma 3, del
decreto legge n. 69/2013. Quarantacinque milioni vengono
indirizzati ad interventi per l'accessibilità ferroviaria
dell'aeroporto di Malpensa. Infine si prevede che le risorse
residuali derivanti dalle revoche siano destinate a
interventi immediatamente cantierabili finalizzati al
miglioramento della competitività dei porti italiani e al
trasferimento ferroviario e modale all'interno dei sistemi
portuali. Molto importante, in prospettiva, è l'estensione
(dal 2008 al 2010) dell'arco temporale del termine entro il
quale deve essere avvenuta l'assegnazione delle risorse da
parte del Cipe, con ciò amplia il plafond delle risorse che
possono essere revocate e riutilizzate per opere
immediatamente cantierabili.
Una norma specifica riguarda
poi la chiusura del closing finanziario e la prosecuzione
dei lavori in corso relativi alla Tangenziale esterna est di
Milano e alla Pedemontana Veneta. La norma chiarisce infatti
che i contributi di 330 milioni e di 370 milioni stanziati
per le due opere, strettamente necessari per garantire
l'equilibrio economico-finanziario e la prosecuzione dei
cantieri dei due progetti, non siano assoggettabili a Iva,
come previsto dai piani economico-finanziari
(articolo ItaliaOggi del
14.12.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI: Appalti, arrivano i parametri.
Fissati i corrispettivi a base di gara dei servizi
professionali. Via libera della
Corte dei conti al decreto. Torna la liquidazione
forfettaria delle spese.
Via libera della Corte dei conti ai nuovi parametri per i
servizi professionali di ingegneria e architettura. Dal
prossimo anno quindi si cambia e le stazioni appaltanti
finalmente avranno riferimenti certi per determinare
l'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti
pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Dopo la
registrazione della Corte dei conti che ne ha accertato la
sostenibilità dal punto finanziario, infatti, il decreto
ministeriale (giustizia di concerto con infrastrutture) che
determina «i corrispettivi a base di gara per gli
affidamenti di contratti di servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria» è pronto per essere
pubblicato a giorni in Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un
provvedimento dall'elaborazione complessa ma necessario,
dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/2012)
aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando le
stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e
per stimare, di conseguenza, l'importo economicamente più
corretto per le procedure di affidamento professionale.
Proprio per sanare tale criticità il governo era intervenuto
con un ulteriore decreto stabilendo che per determinare i
corrispettivi da porre a base di gara si sarebbero applicati
i parametri individuati appunto con un decreto che avrebbe
definito anche «le classificazioni delle prestazioni
professionali relative ai predetti servizi». Il
provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto
stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali
(140/2012) prevedendo anche la classificazione dei servizi
professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e
del grado di complessità. Il compenso sarà infatti
determinato dalla somma dei prodotti tra il costo delle
singole categorie che compongono l'opera, la sua specificità
e la complessità delle prestazioni.
Torna poi la
liquidazione forfettaria delle spese che secondo il
provvedimento è determinato secondo percentuali standard
degli oneri sostenuti dal professionista. Tra le modifiche
introdotte dopo l'approvazione del Consiglio di stato quella
che specifica che «il corrispettivo non deve» (e non più
«non può») determinare un importo a base di gara superiore a
quello derivante dall'applicazione delle tariffe
professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del
medesimo decreto-legge. Nulla viene detto, invece, su chi
deve controllare che il corrispettivo non determini importi
a base d'asta superiori a quello derivanti dall'applicazione
del vecchie tariffe (dm 04/04/2001 e legge 143/1949).
Il Cds
infatti (condividendo la richiesta del Consiglio superiore
dei lavori pubblici e dell'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici) aveva chiesto al ministero della
giustizia di inserire un passaggio per affermare la
competenza della stazione appaltante sulla verifica del
rispetto del vincolo tariffario. Ma questo secondo i piani
alti di Via Arenula avrebbe rappresentato un'inutile
complicazione burocratica, con un aggravio di costi
(articolo ItaliaOggi del
14.12.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pos obbligatorio. Anzi no.
Necessario un decreto attuativo, che non c'è.
Da Bankitalia i chiarimenti sull'adempimento in
vigore fra pochi giorni.
Anche se arrivasse l'apposito decreto con le disposizioni
attuative entro il 01.01.2014, i professionisti
potranno tranquillamente continuare a incassare i compensi
tramite bonifico bancario in base a un accordo con il
cliente. L'articolo 15 del decreto legge 179/2012, infatti,
non introduce a partire dal prossimo anno un obbligo di
utilizzo di strumenti di pagamento elettronico a carico del
pagatore, bensì solo un obbligo di accettazione della carta
di debito a carico del venditore di beni e servizi.
È quanto
chiarisce Banca d'Italia in risposta alla lettera di Federarchitetti inviata qualche settimana fa.
In questi ultimi mesi, molte sono state le iniziative contro
la norma varata dall'allora Governo Monti: dalla Fondazione
studi dei consulenti del lavoro che per prima ha messo in
luce l'inapplicabilità dell'obbligo senza il decreto del
ministero dello sviluppo economico a Inarsind (altro
sindacato di architetti e ingegneri) che ha invitato i suoi
iscritti a non dotarsi di Pos in studio, passando per la
protesta telematica di un gruppo di professionisti che su
Facebook sta riscuotendo molti consensi.
Tutti d'accordo che si tratta di un regalo alle banche,
considerando la commissione da pagare su ogni transazione e
il canone per l'utilizzo dello strumento di pagamento
elettronico. Premette Bankitalia che «la finalità della
norma è quella di favorire una più efficace azione di
contrasto a fenomeni di illecito in campo finanziario e
fiscale». Quanto ai costi dell'operazione, la Banca centrale
cerca di smorzare le polemiche di questi mesi spiegando che
«il mercato delle soluzioni Pos offre prodotti sempre più
avanzati e diversificati sotto il profilo sia tecnologico
sia tariffario. Soluzioni innovative sono disponibili per
l'accettazione di pagamenti anche al di fuori dei
tradizionali punti vendita, ad esempio attraverso l'utilizzo
di dispositivi mobili collegabili a computer, smartphone o
tablet, con formule tariffarie spesso a misura delle diverse
categorie di clientela».
Tuttavia resta fondamentale l'emanazione del provvedimento
attuativo dell'articolo 15 del dl 179/2012 di cui al momento
non c'è traccia. «Abbiamo una produzione normativa
ballerina», denuncia il presidente di Federarchitetti
Paolo Grassi, «che ci fa perdere solo del tempo. Si
poteva già chiarire tutto nella norma primaria, invece no.
Così oggi ci ritroviamo un obbligo che è semplicemente un
intralcio inutile». «Il problema non è la
tracciabilità dei pagamenti», aggiunge Rosario De Luca,
presidente del centro studi dei consulenti del lavoro, «bensì
il fatto che si impone ai professionisti di fare un regalo
alle banche di circa due miliardi di euro. Se lo Stato
ritiene necessario questo adempimento noi siamo disponibili
a farlo, purché sia per noi a costo zero»
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Housing sociale, largo agli aumenti di cubatura
Possibile un incremento di cubatura del 20% delle superfici
per interventi edilizi di housing sociale; previsti anche
cambi di destinazione d'uso e deroghe urbanistiche anche su
interventi in corso.
E' quanto prevede la norma che il
Ministero delle infrastrutture ha aggiunto al decreto-legge
sull'housing sociale (vedi Italia Oggi del 05.12.2013),
che dovrebbe essere portato all'esame del Consiglio dei
Ministri del 20 dicembre, dopo un passaggio in Conferenza
Unificata. Le novità dell'articolo aggiuntivo hanno lo scopo
in primo luogo di ridurre il disagio abitativo di cui
soffrono molti nuclei familiari svantaggiati, ma anche di
favorire l'aumento dell'offerta di immobili in locazione a
canone sociale, il contenimento del consumo del suolo, il
risparmio energetico e le politiche urbane di rigenerazione
delle aree per il tramite dello sviluppo dell'housing
sociale.
Proprio la nozione di alloggio sociale, aggiornata rispetto
a quella attuale, è centrale nella nuova norma, che
definisce tale l'immobile di edilizia residenziale sociale o
di edilizia residenziale pubblica sociale, da affittare in
via permanente a soggetti appartenenti a categorie
svantaggiate; l'alloggio destinato alla locazione a fini
sociali per almeno 15 anni, all'edilizia universitaria
convenzionata, alla locazione con patto di futura vendita
(ma la locazione deve essere di almeno otto anni), nonché
alla proprietà. Le norme contenute nell'articolo aggiuntivo
predisposto dal Ministero delle infrastrutture costituiranno
principi fondamentali di riferimento per il legislatore
regionale che entro novanta giorni dovranno a loro volta
definire i requisiti di accesso negli immobili e i parametri
di riferimento dei canoni.
Fra gli interventi attuabili in base alla norma vengono
espressamente citati: la ristrutturazione edilizia, il
restauro o risanamento conservativo, la manutenzione
straordinaria; la sostituzione del patrimonio edilizio e la
totale demolizione e la ricostruzione con modifica di sagoma
nei limiti previsti dall'articolo 30 della legge 98/2013;
l'ampliamento della superficie complessiva in misura non
superiore al 20% di quella esistente o assentita con
incremento graduato in relazione agli obiettivi di
contenimento energetico e ad altri parametri che saranno le
amministrazioni comunali a definire (sostenibilità
ambientale e sociale).
Fra gli interventi figurano anche le variazioni di
destinazione d'uso anche senza opere e la creazione di
servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza,
al commercio di prossimità, sempre nel limite del 20% della
superficie complessiva comunque ammessa. Dovranno essere
effettuate verifiche di sostenibilità economica dei progetti
di recupero, riuso o sostituzione edilizia e le superfici in
incremento potranno essere cedute o trasferite su altre aree
di proprietà pubblica o privata.
Le operazioni previste dalla norma si attueranno sul
patrimonio edilizio esistente, compresi gli immobili “non
ultimati” e sugli interventi “non ancora avviati ma
provvisti di titolo abilitativo rilasciati entro il
31.10.2013, o regolati da convenzioni urbanistiche stipulate
entro la stessa data e vigenti al momento di entrata in
vigore del decreto-legge". Sono esclusi gli interventi
su edifici abusivi, o ubicati nei centri storici o in aree
di in edificabilità assoluta. Tutti questi interventi
potranno essere effettuati in 14 città metropolitane:
Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma,
Bari, Napoli, Trieste, Cagliari, Catania, Messina e Palermo
e tutti i comuni inclusi nelle rispettive province
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
SEGRETARI COMUNALI: Province, segretari in bilico.
Assieme ai dg cesseranno dagli incarichi il 30 settembre.
Un emendamento al ddl Delrio contraddice l'intesa con i
sindacati sui posti di lavoro.
Sono dei segretari comunali e dei direttori generali delle
province assorbite dalle città metropolitane le prime teste
che salteranno.
La commissione affari costituzionali della camera ha
presentato un emendamento che va in direzione fortemente
contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale
provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro
Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati,
caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato
escludendo proprio l'Upi, cioè le province.
E gli effetti cominciano a vedersi.
L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl
Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore
della provincia, in carica alla data di entrata in vigore
della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi
incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita
del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro
messa a disposizione della struttura operante presso il
Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque
complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti
negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo
indietro» per i segretari è evidente.
Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di
incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la
scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa
del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene
nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti
prolungare anche fino al 2015.
Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono
buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della
provincia soppressa mantiene la posizione giuridica ed
economica in godimento all'atto del trasferimento alla città
metropolitana, con riferimento alle voci fisse e
continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile,
legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva
preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla.
L'emendamento impone alle città metropolitane di
riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del
personale, modificando il trattamento accessorio «in
relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città
metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che
subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali,
sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di
molto.
Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la
Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province
non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di
contenere la spesa è agire sul costo del personale.
La revisione organizzativa è il presupposto per consentire
alle città metropolitane di agire esattamente su questa
leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà
il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere
particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al
trattamento del personale provinciale che sarà trasferito
dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali
potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul
trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali,
dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il
contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non
riesce a garantire
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Sospensione del Durc quando scade il «vecchio».
La certificazione può sopravvivere all'accertamento degli
illeciti. Lavoro. I chiarimenti del
ministero in risposta a un quesito dei consulenti.
L'eventuale
sospensione del documento unico di regolarità contributiva (Durc)
e quindi dei benefici normativi ed economici in forza di una
causa ostativa al suo rilascio, opererà necessariamente a
far data dalla scadenza di un eventuale Durc (della durata
di 120 giorni) rilasciato in precedenza per la stessa
finalità.
È quanto afferma il ministero del Lavoro con l'interpello
11.12.2013 n. 33/2013 in risposta alla richiesta di chiarimenti
formulata dall'Ordine dei consulenti del lavoro circa la
corretta individuazione dell'arco temporale di riferimento
di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative
indicate nell'allegato A del decreto del ministero del
Lavoro del 24.10.2007.
L'articolo 9 del decreto stabilisce che la violazione, da
parte del datore di lavoro o del dirigente delle
disposizioni penali e amministrative in materia di tutela
delle condizioni di lavoro indicate nell'allegato A al
decreto, accertata con provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali definitivi, è causa ostativa al rilascio del
Durc per i periodi indicati. La richiamata causa ostativa
non sussiste, invece, qualora il procedimento penale sia
estinto a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi
degli articoli 20 e seguenti del Dlgs n. 758/1994 e
dall'articolo 15 del Dlgs n. 124/2004 ovvero di oblazione
(articoli 162 e 162-bis C.p.).
L'allegato A, nell'individuare le violazioni che determinano
il mancato rilascio del Durc, stabilisce anche i rispettivi
periodi di non rilascio del documento. Tali periodi variano
da un minimo 3 mesi per le violazioni in materia di riposi
giornalieri e settimanali, a un massimo di 24 mesi per le
omissioni dolose delle misure di sicurezza.
Una volta esaurito il periodo di «non rilascio del Durc»,
l'impresa potrà evidentemente tornare a godere dei benefici
normativi e contributivi, ivi compresi quei benefici di cui
è ancora è ancora possibile fruire in quanto non legati a
particolari vincoli temporali.
Così ad esempio sarà possibile usufruire di eventuali
benefici legati alla corresponsione di premi di risultato,
il cui termine per l'effettiva erogazione sia liberamente
scelto dal datore e, quindi, non soggetto a decadenze,
ricada in un periodo di assenza di una causa ostativa al
rilascio del Durc.
Non sarà invece possibile fruire per tutto il periodo di non
rilascio del Durc di benefici concernenti, ad esempio,
l'abbattimento degli oneri contributivi nei confronti
dell'Inps nel caso in cui gli stessi vengano assolti in base
a scadenze legali mensili. In tal caso la regolarità
contributiva deve sussistere con riferimento al mese di
erogazione ovvero al periodo temporale all'interno del quale
si colloca l'erogazione prevista dalla normativa di
riferimento che, per ciascun periodo, legittima il datore a
fruire dell'agevolazione (articolo Il Sole 24 Ore del
12.12.2013). |
TRIBUTI: Imprese edili, Imu più leggera.
Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero.
Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione
riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese
edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i
l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale
la stessa procede a interventi di incisivo recupero.
A stabilirlo è la
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF
della Direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero
dell'economia e delle finanze che interviene per la prima
volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta
municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo
comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale
destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero
è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi
rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa
costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di
incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere
c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta,
dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli
edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi
edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di
risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione
edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione
urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto
urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un
insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la
modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione
che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione
edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di
interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett.
c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è
costituita dal valore dell'area, la quale è considerata
fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2
del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del
fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione
dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione
ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato
costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque
utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il
legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i
fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi
considerati, ai fini della determinazione della base
imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione
dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero
rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione
introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a
partire dalla data di ultimazione dei lavori di
ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma
2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013
non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30
giugno
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Durc negato, c'è la franchigia.
Durante lo stop fino a scadenza vale il vecchio documento.
Il ministero del lavoro chiarisce in
un interpello gli effetti delle cause ostative al rilascio.
Stop al Durc, ma con franchigia. In caso di violazioni che
comportano la pena del mancato rilascio del Durc per un
determinato periodo di tempo (variabile dai 3 ai 24 mesi),
l'impresa non può per tutto questo periodo fruire dei
benefici normativi e contributivi (per esempio, sgravi su
assunzioni incentivate).
Tuttavia, se l'impresa è già in possesso di un Durc, lo stop
dei benefici opererà dalla scadenza del periodo di validità
del predetto Durc (120 giorni dal rilascio).
Lo precisa, tra
l'altro, il ministero del lavoro nell'interpello
11.12.2013 n. 33/2013.
Durc e cause ostative. I chiarimenti sono stati chiesti dal
Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro
che ha presentato istanza per sapere la corretta
interpretazione del dm 24.10.2007 (disciplina del Durc)
in merito all'individuazione dell'arco temporale di
riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause
ostative, elencate nella tabella A allegato al predetto
decreto.
La predetta tabella contiene la previsione di una serie di
violazioni (sicurezza lavoro, orario lavoro, omicidio,
lesioni colpose ecc.) in presenza delle quali il datore di
lavoro che le ha commesse è punito con il divieto del
rilascio del Durc al fine di godere dei benefici «normativi
e contributivi» per un determinato periodo di tempo, che va
dal minimo di 3 al massimo di 24 mesi.
Tali periodi di
«pena», spiega il ministero, decorrono dal momento in cui
gli illeciti che ne costituiscono il presupposto sono
definitivamente accertati. Ossia quando le violazioni sono
state accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con
ordinanza ingiunzione non impugnata. Invece non c'è pena
perché non si perfeziona il presupposto della causa
ostativa, qualora intervenga l'estinzione delle violazioni
attraverso la procedura della prescrizione obbligatoria
ovvero, per il caso di violazioni amministrative, attraverso
il pagamento in misura ridotta (ex art. 16 della legge). Il
datore di lavoro che sia destinatario di tale pena potrà
riprendere a godere dei benefici solo una volta esaurito il
periodo di non rilascio del Durc.
La «franchigia» del decreto Fare. Il dl n. 69/2013
(convertito dalla legge n. 98/2013) stabilisce che «ai fini
della fruizione dei benefici normativi e contributivi in
materia di lavoro e legislazione sociale e per finanziamenti
e sovvenzioni previsti dalla normativa dell'Unione europea,
statale e regionale, il documento unico di regolarità
contributiva (Durc) ha validità di 120 giorni dalla data del
rilascio».
La nuova disposizione, secondo il ministero,
comporta che l'eventuale sospensione del Durc e, quindi, dei
benefici «normativi e contributivi» in forza di una causa
ostativa al suo rilascio, opera necessariamente a far data
dalla scadenza dei 120 giorni di un eventuale documento
unico rilasciato in precedenza ovviamente per la stessa
finalità (franchigia).
Controlli a campione nelle p.a. Infine, il ministero precisa
che la disciplina delle cause ostative al rilascio del Durc
si applica anche per i documenti acquisiti d'ufficio dalle
pubbliche amministrazioni procedenti le quali, «ai fini
dell'ammissione delle imprese di tutti i settori ad
agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate
alla realizzazione di investimenti produttivi, (...) anche
per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati
dell'intervento interessato sono tenute a verificare, in
sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità
contributiva del beneficiario, acquisendo d'ufficio il Durc».
In tal caso, aggiunge il ministero, le predette
amministrazioni dovrebbero attivare i controlli,
eventualmente a campione, in merito alla presentazione alle
competenti direzioni territoriali del lavoro (dtl) delle
autocertificazioni relative alla non commissione degli
illeciti ostativi al rilascio del Durc
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori specialistici a rischio contenzioso.
Subito il decreto.
Risolvere con un decreto legge, da varare già nel prossimo
Consiglio dei ministri, il nodo della qualificazione
obbligatoria nelle categorie specialistiche, cancellata dal
parere del Consiglio di Stato reso operativo dal Dpr
30.10.2013.
Al ministero delle Infrastrutture premono per una soluzione
immediata, capace di sterilizzare da subito gli effetti del
decreto andato in Gazzetta lo scorso 29 novembre. Il
provvedimento autorizza le imprese qualificate a eseguire le
attività di maggior valore all'interno di un'opera pubblica
a realizzare direttamente tutti gli altri lavori
accessori anche in assenza di una specifica competenza. Una
sorta di impresa «factotum». ... (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Le province si trasformano in città metropolitane.
Le province uscite dalla porta, rientrano dalla finestra
sotto la veste di città metropolitane.
L'aula della camera
ha approvato ieri un emendamento al ddl Delrio proposto
dalla commissione affari costituzionali, che fa proliferare
di improvviso il numero delle città metropolitane. Si
prevede, infatti, che nelle province che sulla base
dell'ultimo censimento, hanno una popolazione residente
superiore a un milione di abitanti, possono essere
costituite ulteriori città metropolitane. Al momento le
province interessate sarebbero Bergamo, Brescia e Salerno.
Ma ce ne sono altre, la cui popolazione è vicina al limite
del milione di abitanti, che potrebbero presto essere
coinvolte, come Padova, Verona e Caserta. La condizione è
che l'iniziativa sia assunta dal comune capoluogo della
provincia e da altri comuni che complessivamente
rappresentino almeno 500 mila abitanti della provincia
medesima. Dette città metropolitane subentrano alle province
esistenti.
Altra disposizione, non ancora approvata ma in
dirittura, è quella per cui saranno dei segretari comunali e
dei direttori generali delle province assorbite dalle città
metropolitane le prime teste che salteranno. La commissione
affari costituzionali ha presentato un altro emendamento che
va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul
rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si
era sperticato il ministro per gli affari regionali Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati,
caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato
escludendo proprio l'Upi, cioè le province. L'emendamento
all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede
che «il segretario provinciale e il direttore della
provincia, in carica alla data di entrata in vigore della
presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi
incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari
non si tratta necessariamente della perdita del posto di
lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a
disposizione della struttura operante presso il Viminale e
dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di
ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti
locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per
i segretari è evidente. Per quanto concerne i direttori
generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo
determinato, sicché la scadenza è in qualche modo
connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di
certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei
rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al
2015. Ma anche per il restante personale provinciale non ci
sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti
della provincia soppressa mantengono la posizione giuridica
ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla
città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e
continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile,
legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva
preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla.
L'emendamento impone alle città metropolitane di
riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del
personale, modificando il trattamento accessorio «in
relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita
non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha
ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per
tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti
organizzativi non possono cambiare di molto. Sembra chiaro
il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei
conti, che in effetti dal riordino delle province non
deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di
contenere la spesa è agire sul costo del personale. La
revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle
città metropolitane di agire esattamente su questa leva,
contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il
sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere
particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al
trattamento del personale provinciale che sarà trasferito
dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno
ancora a maggior ragione incidere negativamente sul
trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali,
dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il
contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non
riesce a garantire
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2013
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Mediazione, mai senza legale.
Avvocato obbligatorio anche quando è facoltativa.
I chiarimenti in una circolare del Cnf: procedimenti ammessi
al gratuito patrocinio.
È sempre obbligatoria l'assistenza dell'avvocato in
mediazione. Sia nei casi in cui il procedimento è condizione
di procedibilità, sia quando la mediazione è facoltativa. E
non ci sono ostacoli per l'ammissione dei procedimenti al
patrocinio a spese dello stato.
Lo afferma il Consiglio
nazionale forense, che ha inviato venerdì scorso agli
organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi,
una circolare (n. 25-C-2013) con alcuni chiarimenti sulla
procedura di mediazione alla luce delle nuove norme
introdotte con il decreto del Fare (decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito dalla legge
09.08.2013, n. 98).
Adottando quindi, sull'assistenza tecnica degli avvocati,
un'interpretazione diversa rispetto al ministero della
giustizia, che nella circolare diramata settimana scorsa (si
veda ItaliaOggi del 3 dicembre scorso) afferma esattamente
l'opposto. E cioè che «l'assistenza dell'avvocato è
obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi di mediazione
obbligatoria (ivi compresa quella disposta dal giudice ex
art. 5, comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione
facoltativa». Ma entriamo nel dettaglio.
L'assistenza tecnica. Il Consiglio nazionale forense ha
inviato ai 122 organismi di mediazione istituiti presso gli
ordini forensi una circolare con una serie di faq sulla
nuova mediazione obbligatoria. Affrontando, tra l'altro, il
tema dell'assistenza tecnica dell'avvocato.
Sul punto, il Cnf afferma che «il tenore letterale dell'art. 5, comma 1-bis, dlgs 28/2010 introdotto dal dl 69/2013, conv. con
modif. in l. 98/2013, stabilisce un obbligo di assistenza
tecnica della parte in mediazione, dalla cui inosservanza
deriverebbe l'impossibilità di considerare espletata la
condizione di procedibilità di cui al comma 1-bis dell'art.
5 dlgs 28». Tale obbligo, sempre secondo il Cnf, «sembra
riguardare ogni “modello” di mediazione, atteso che il testo
normativo non fa distinzioni al riguardo».
In questo senso,
il Consiglio nazionale richiama l'art. 8, 1° comma,
modificato dall'intervento normativo del 2013, dove è
disposto che: «al primo incontro e agli incontri successivi,
fino al termine della procedura, le parti devono partecipare
con l'assistenza dell'avvocato. Durante il primo incontro il
mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di
svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello
stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati
a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di
mediazione e, nel caso positivo, procede con lo
svolgimento».
Viceversa, per il ministero della giustizia,
l'assistenza dell'avvocato non è obbligatoria nelle ipotesi
di mediazione facoltativa perché «il nuovo testo dell'art.
12, comma 1, espressamente configura l'assistenza legale
delle parti in mediazione come meramente eventuale (“ove
tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da
un avvocato_”)».
Gli altri chiarimenti. Le faq, inoltre, sciolgono i dubbi
sul gratuito patrocinio, affermando che «nessun ostacolo
dovrebbe sussistere nell'ammettere la possibilità di
accedere ai benefici previsti dalla disciplina relativa al
patrocinio a spese dello stato per i non abbienti,
indipendentemente dal quanto disposto dal nuovo art. 17,
comma 5-bis», ma in piena corrispondenza «alla direttiva Legal aid che ammette al beneficio anche le spese legali
sostenute nel corso di procedure stragiudiziali».
Chiarimenti, da parte del Cnf, anche in merito «alla
individuazione dell'organismo di mediazione territorialmente
competente e alle conseguenze di una eventuale incompetenza,
che sarà comunque sempre sanata se le parti hanno raggiunto
l'accordo conciliativo».
Molta attenzione è posta inoltre al primo incontro, ritenuto
un passaggio importante da curare nei particolari. Così le
faq suggeriscono agli organismi di conciliazione «di inviare
alle parti una lettera di convocazione che chiarisca
l'importanza della partecipazione personale delle parti e le
conseguenze legislative nel caso di assenza senza
giustificato motivo e quali siano le spese dovute (quelle di
avvio e quelle vive documentate); specifichi che il primo
incontro può essere svolto on-line ove il regolamento
dell'Organismo lo preveda». Dal punto di vista operativo si
segnala l'opportunità di stilare un verbale all'esito del
primo incontro, sia che esso sia positivo che negativo. Nel
secondo caso, infatti, avverte la faq, il verbale costituirà
titolo per dimostrare l'assolvimento della condizione di
procedibilità.
Le faq, infine, trattano della novità introdotta dal decreto
del fare, relativa all'accordo conciliativo in cui le parti
danno atto che si è verificata l'usucapione di un immobile.
Esso può essere trascritto dopo l'autentica del notaio ma
gli avvocati devono attestare che l'accordo non sia
contrario all'ordine pubblico e norme imperative. Tale
attestazione è necessaria per dotare l'accordo di efficacia
esecutiva
(articolo ItaliaOggi del
10.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mediazione si paga sempre. Spese di avvio
dovute anche in caso di mancato accordo.
Gli effetti delle indicazioni del Mingiustizia sull'istituto
rinnovato. Quota da dividere.
Costi calmierati per la mediazione obbligatoria e anche per
quella disposta dal giudice in corso di causa. Ma sono
sempre dovute le spese di avvio del procedimento, anche
quando si conclude con un nulla di fatto al primo incontro;
in questo caso sono abbuonati solo i compensi del mediatore.
Sono queste alcune delle risposte del ministero della
giustizia, fornite con la circolare 27.11.2013 n. 168322
di prot., che illustra le novità in materia di
mediazione apportate dal decreto legge 69/2013 ... (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
straordinario a 360°. Platea di beneficiari fino al terzo
grado di parentela. Come cambia la
disciplina dopo la sentenza della Consulta che amplia gli
aventi diritto.
Più ampia la platea di beneficiari del congedo
straordinario. Comprende infatti i parenti e gli affini
entro il terzo grado conviventi della persona con grave
disabilità.
La novità, stabilità dalla sentenza n. 203/2013 della Corte
costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità dell'art.
42, comma 5, del dlgs n. 151/2001 (T.u. maternità), è stata
spiegata dall'Inps (circolare n. 159/2013) che, peraltro, ha
avvitato il riesame delle richieste di permesso presentate e
rigettate in virtù del precedente divieto entro il termine
di prescrizione della relativa indennità (vale a dire entro
un anno dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario.
Il congedo straordinario, disciplinato dal citato art. 42
del T.u. maternità, spetta per un massimo di due anni
nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto
disabile da assistere. Quest'ultimo, in particolare, deve
essere «soggetto con handicap in situazione di gravità»,
ossia deve trattarsi di un familiare portatore di handicap
(è tale colui che presenta una minorazione fisica, psichica
o sensoriale, stabilizzata o progressiva, causa di
difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio
sociale o di emarginazione) e l'handicap deve essere «grave»
(l'handicap assume connotazione di gravità se la
minorazione, singola o plurima, ha ridotto l'autonomia
personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario
un intervento assistenziale permanente, continuativo e
globale nella sfera individuale o in quella di relazione).
Durante tutto il periodo di fruizione del congedo il
lavoratore ha diritto all'indennità pari all'ultima
retribuzione e il periodo è coperto da contribuzione
figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano
però fino a un importo massimo di euro 46.836 per il congedo
di durata annuale (valore per l'anno 2013). Il tetto in
particolare rappresenta il limite massimo complessivo annuo
dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo
straordinario, ripartito cioè fra l'indennità economica e
l'accredito figurativo. Nello specifico il tetto massimo
annuo, pari a 46.835,93 euro, riguarda un importo massimo
annuo di indennità di 35.215,00 euro e un importo massimo
giornaliero dell'indennità di euro 96,48. La misura della
retribuzione figurativa massima di riferimento è pari alla
stessa indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore
settimanale massimo di euro 677,21 e una retribuzione
figurativa massima giornaliera di 96,48 euro (Inps circolare
n. 59/2013).
Soggetti aventi diritto.
Il congedo spetta ai lavoratori dipendenti anche se a tempo
determinato (tali lavoratori possono essere anche stranieri,
apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel
territorio nazionale). Qui è però intervenuta la Corte
costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42 nella parte in cui, in assenza
di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona
disabile in situazione di gravità, non include nel novero
dei soggetti legittimati a fruire del congedo il parente o
l'affine entro il terzo grado convivente della persona
disabile grave. Alla luce della sentenza, l'Inps ha spiegato
che il congedo è riconosciuto a seguenti familiari ovvero
affini entro il terzo grado convivente del disabile grave,
secondo il seguente ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile,
in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge
convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il
coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano
mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel
caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e
figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o
invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del
disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i
genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle
conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quando il congedo non spetta.
Il congedo straordinario non spetta ai lavoratori addetti ai
servizi domestici e familiari; ai lavoratori a domicilio; ai
lavoratori agricoli giornalieri; in caso di contratto di
lavoro part-time verticale, durante le pause contrattuali;
quando la persona handicappata da assistere sia ricoverata a
tempo pieno (fino al 10.08.2011; dal giorno seguente,
invece, per garantire un'assistenza reale, il congedo può
essere fruito anche se la persona disabile è ricoverata a
tempo pieno e qualora i sanitari della struttura ne
attestino l'esigenza); nelle stesse giornate di fruizione
dei permessi retribuiti ex articolo 33 della legge n.
104/1992.
I requisiti.
Ai fini della sussistenza del diritto al congedo
straordinario deve essere accertata la presenza dei seguenti
requisiti: situazione di handicap grave; rapporto di lavoro
in essere; mancanza di ricovero a tempo pieno.
La situazione di gravità dell'handicap (primo requisito) è
accertata dalla competente Asl (ai sensi dell'art. 3, commi
1 e 3, della legge n. 104/1992), mediante le commissioni
mediche. Qualora tale commissione non si pronunci entro 90
giorni dalla presentazione della domanda, gli accertamenti
possono essere effettuati, in via provvisoria, da un medico
specialista nella patologia denunciata, in servizio presso
l'unità sanitaria locale da cui è assistito l'interessato.
L'accertamento provvisorio produce effetto fino
all'emissione dell'accertamento definitivo da parte della
commissione.
Il congedo straordinario spetta a chi abbia un rapporto di
lavoro in essere, con prestazione di attività lavorativa
(secondo requisito). Durante la fruizione del congedo poi
vige il divieto di svolgere alcun tipo di attività
lavorativa. Lo spirito e la finalità della legge escludono
che il beneficio possa essere riconosciuto se la persona da
assistere presti, a sua volta, attività lavorativa nel
periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi
diritto. Ciò va inteso nel senso che il disabile può essere
titolare di rapporto di lavoro, tuttavia non deve prestare
concretamente l'attività lavorativa nel periodo di fruizione
del congedo da parte degli aventi diritto.
Terzo requisito per il diritto al congedo è la circostanza
che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno. Per
ricovero a tempo pieno s'intende quello, per le intere 24
ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o
private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
L'Inps ha precisato che le fanno eccezione: l'interruzione
del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in
situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura
che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente
certificate; il ricovero a tempo pieno di un disabile in
situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o
con prognosi infausta a breve termine; il ricovero a tempo
pieno di un minore con disabilità in situazione di gravità
per il quale risulti documentato dai sanitari della
struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di
un genitore o di un familiare, ipotesi già prevista per i
bambini fino a tre anni di età.
Infine, quarto requisito è della convivenza previsto come
necessario qualora a richiedere il congedo è il coniuge, i
fratelli/sorelle o il figlio del disabile grave. Per
convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla
residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale,
non potendo ritenersi conciliabile con la predetta necessità
la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio
speciale (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.12.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Con la sentenza n. 20 del 1999, l’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, dopo aver passato in
rassegna i contrastanti orientamenti all’epoca emersi in
sede giurisprudenziale, ha rilevato come il vincolo
paesaggistico su un’area, ancorché sopravvenuto
all’intervento edilizio, non possa restare senza conseguenze
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi
sussistente l’onere procedimentale di acquisire il
prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo, tale valutazione essendo funzionale all’esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità dei manufatti realizzati
abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene
compendiato nel vincolo.
L’appello è infondato e va respinto.
La causa ripropone la vexata quaestio della disciplina
giuridica applicabile alle aree gravate da un regime
vincolistico, sul piano della tutela dei valori
paesaggistici, sopravvenuto rispetto all’ intervento
edilizio, già eseguito ed oggetto di domanda di sanatoria.
La questione pone due distinte problematiche
interpretative:
a) se la sopravvenienza del vincolo imponga,
nel procedimento di sanatoria non ancora concluso, il
coinvolgimento dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo stesso;
b) se detta Autorità, in presenza di un
vincolo sopravvenuto a contenuto assolutamente preclusivo
dell’intervento, sia tenuta a far valere semplicemente il
carattere ostativo del nuovo regime vincolistico ovvero se
debba compiere una valutazione più ampia e articolata, che
tenga conto della compatibilità in concreto dell’intervento
già realizzato in rapporto al vincolo sopravvenuto.
Il giudice di primo grado ha ritenuto, in via
assorbente, che nel caso qui dato, in cui l’area è stata
ricompresa nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di
Diano, ed assoggettata conseguentemente alle relative
prescrizioni, in epoca successiva alla edificazione del
fabbricato da sanare (avvenuta nel 1982), non ci fosse
spazio per lo stesso intervento dell’Ente parco, e ciò in
quanto la reintroduzione (ad opera dell’art. 32, comma 43,
d.l. cit.) dell’obbligo di interpellare l’autorità preposta
alla tutela del vincolo anche nel caso di sopravvenuta
imposizione del vincolo non troverebbe applicazione nelle
ipotesi di domande di sanatoria già presentate ( ai sensi
del comma 43-bis dello stesso art. 32 d.l. n. 269/2003).
La soluzione del Tar non appare tuttavia condivisibile sul
piano motivazionale.
In particolare, non convince la tesi secondo cui la
soluzione del caso concreto, in ordine al coinvolgimento o
meno dell’autorità preposta alla tutela del vincolo nel
procedimento di sanatoria edilizia, possa fondarsi sulla
scelta della normativa da applicare ratione temporis.
In disparte il rilievo che anche l’applicazione della regola
tempus regit actum avrebbe imposto di fare riferimento, a
regolazione della fattispecie, all’art. 32 della legge n. 47
del 1985 nella sua originaria formulazione (e non in quella
successivamente modificata dalla legge n. 662 del 1996),
posto che nel caso qui in esame l’abuso edilizio risale al
1982 e la domanda di condono risulta presentata nel 1986, il
Collegio rileva, in ogni caso, che anche in base alla
pregressa disciplina della legge sul condono era controversa
la rilevanza dei vincoli sopravvenuti nei procedimenti di
sanatoria edilizia.
Con la già richiamata sentenza n. 20 del 1999, l’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, dopo aver passato in
rassegna i contrastanti orientamenti all’epoca emersi in
sede giurisprudenziale, ha rilevato come il vincolo
paesaggistico su un’area, ancorché sopravvenuto
all’intervento edilizio, non possa restare senza conseguenze
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi
sussistente l’onere procedimentale di acquisire il
prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo, tale valutazione essendo funzionale all’esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità dei manufatti realizzati
abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene
compendiato nel vincolo.
Il Collegio ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi
da tale condivisibile orientamento anche nella fattispecie
in esame in cui le particolari ragioni di tutela
paesaggistica consistono nella disciplina speciale adottata
per l’area in oggetto dall’Ente parco.
Non par dubbio, infatti, che anche nel caso di specie, in
cui l’area ove si trova l’immobile oggetto di domanda di
sanatoria è assoggettata alle particolari prescrizioni del
Piano del parco adottato nel 2010, l’Ente appellante avrebbe
dovuto essere coinvolto (contrariamente a quanto ritenuto
dal Tribunale di primo grado) nel procedimento di sanatoria
dell’abuso edilizio, ai fini del rilascio del prescritto
parere. Non si vede, infatti, come un provvedimento di
sanatoria di un immobile che ricade in un’area rientrante
nei confini di un Parco nazionale possa prescindere, nel
momento in cui viene reso, dal previo pare dell’Ente
preposto alla tutela dell’area sottoposta alle speciali
prescrizioni di tutela.
Per questa parte va pertanto riformata, nella sola
motivazione, la sentenza impugnata, laddove in particolare
la stessa ha ravvisato la insussistenza, nella fattispecie
data, dello stesso potere dell’Ente parco di rilasciare il
prescritto parere (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.01.2014 n. 231 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il carattere permanente
degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non
spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi
stessi: in ragione del principio di legalità, infatti, la
sanatoria degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti
dalla legge e nessuna disposizione di legge attribuisce al
decorso del tempo un rilievo ostativo all'emanazione dei
dovuti atti repressivi, la cui mancata emanazione, al
contrario, implica a seconda dei casi responsabilità penali,
disciplinari e contabili.
Pertanto, nel caso di specie, il decorso di un lungo lasso
di tempo non può aver ingenerato nell’appellante alcun
“ragionevole affidamento” in merito alla permanenza delle
opere abusive di cui è causa.
Analogamente il Collegio ritiene che l’assenza di una previa
comparazione dell’interesse pubblico sotteso alla
demolizione con quello del privato non può viziare il
provvedimento comunale impugnato.
Tali assunti risultano, peraltro, confermati da una
consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa
ragioni per discostarsi, secondo cui “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi costituisce atto dovuto
della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio
di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento
dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle
fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta
che il provvedimento sanzionatorio non richiede una
particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera
realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è
in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del
manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il
medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli
interventi legislativi succedutisi nel tempo”.
Il motivo è infondato.
Osserva il Collegio che, in base ad una consolidata
giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non ravvisa
ragioni per discostarsi, il carattere permanente degli abusi
edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna
efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi (ex multis: Cons. di Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702):
in ragione del principio di legalità, infatti, la sanatoria
degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti dalla
legge e nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso
del tempo un rilievo ostativo all'emanazione dei dovuti atti
repressivi, la cui mancata emanazione, al contrario, implica
a seconda dei casi responsabilità penali, disciplinari e
contabili.
Pertanto, nel caso di specie, il decorso di un lungo lasso
di tempo non può aver ingenerato nell’appellante alcun
“ragionevole affidamento” in merito alla permanenza delle
opere abusive di cui è causa.
Analogamente il Collegio ritiene che l’assenza di una previa
comparazione dell’interesse pubblico sotteso alla
demolizione con quello del privato non può viziare il
provvedimento comunale impugnato.
Tali assunti risultano, peraltro, confermati da una
consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa
ragioni per discostarsi, secondo cui “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi costituisce atto dovuto
della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio
di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento
dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle
fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta
che il provvedimento sanzionatorio non richiede una
particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera
realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del
manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il
medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli
interventi legislativi succedutisi nel tempo” (Cons. di
Stato, Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403).
Per quanto concerne l’ulteriore censura presentata
dall’appellante con la memoria del 14.11.2013 -relativa alla circostanza che la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato escluderebbe la necessità della previa
concessione edilizia per interventi analoghi a quello di cui
è causa- il Collegio osserva che tale censura risulta
inammissibile, in quanto presentata in violazione del primo
comma dell’art. 104 c.p.a., a norma del quale “nel giudizio
di appello non possono essere prodotte nuove domande […] né
nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio”.
Peraltro, anche prescindendo dal suesposto rilievo, il
Collegio osserva che detta censura risulta comunque
infondata.
La risalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
citata dell’appellante, infatti, è stata superata dai
successivi orientamenti giurisprudenziali del medesimo
Consiglio, peraltro condivisi dal Collegio, secondo cui “i
tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni debbono essere
valutate come strutture edilizie soggette a permesso di
costruire […]” (Cons. di Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n.
4910).
Orbene, nel caso di specie, trattandosi -come emerge dalle
schede tecniche in atti- di una struttura di circa 12 metri
d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di
“rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto
essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la
conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo
profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal
Comune di Sarnonico (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.01.2014 n. 225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La valutazione operata dall’amministrazione
appaltante circa la congruità delle offerte costituisce
espressione tipica della discrezionalità tecnica che, come
tale, sfugge al sindacato giurisdizionale, salvo che non sia
macroscopicamente inficiata da arbitrarietà,
irragionevolezza, irrazionalità ovvero travisamento dei
fatti.
Sempre in tema di verifica delle offerte sospette di
anomalia, è stato affermato che tale verifica è finalizzata
non sono in astratto all’apprezzamento della serietà e
dell’affidabilità dell’offerta, ma anche a garantire in
concreto, secondo un giudizio di ragionevolezza fondato
sull’id quod plerumque accidit”, l’effettiva, corretta ed
utile esecuzione dei lavori o fornitura di beni e servizi,
facendo in modo che gli appalto siano affidati ad un prezzo
che consenta un adeguato margine di guadagno per l’impresa
aggiudicataria, “…nella convinzione che le acquisizioni in
perdita portino gli affidatari ad una negligente esecuzione,
oltre ad un probabile contenzioso; infatti, il consentire la
presentazione di offerte senza adeguato utile finirebbe con
l’alterare il sistema di libera concorrenza del mercato,
permettendo la sopravvivenza alle sole imprese fornite di
maggiori risorse economiche, che possono consentirsi
contratti in perdita".
E’ noto che la valutazione operata
dall’amministrazione appaltante circa la congruità delle
offerte costituisce espressione tipica della discrezionalità
tecnica che, come tale, sfugge al sindacato giurisdizionale,
salvo che non sia macroscopicamente inficiata da
arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero
travisamento dei fatti (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 26.09.2013, n. 4761; 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 26.06.2012, n. 3737).
Sempre in tema di verifica delle offerte sospette di
anomalia, è stato affermato che tale verifica è finalizzata
non sono in astratto all’apprezzamento della serietà e
dell’affidabilità dell’offerta, ma anche a garantire in
concreto, secondo un giudizio di ragionevolezza fondato
sull’id quod plerumque accidit”, l’effettiva,
corretta ed utile esecuzione dei lavori o fornitura di beni
e servizi, facendo in modo che gli appalto siano affidati ad
un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per
l’impresa aggiudicataria, “…nella convinzione che le
acquisizioni in perdita portino gli affidatari ad una
negligente esecuzione, oltre ad un probabile contenzioso;
infatti, il consentire la presentazione di offerte senza
adeguato utile finirebbe con l’alterare il sistema di libera
concorrenza del mercato, permettendo la sopravvivenza alle
sole imprese fornite di maggiori risorse economiche, che
possono consentirsi contratti in perdita (cfr. fra le tante,
Cons. Stato, sez. V, 18.02.2003, n. 863)” (Cons. Stato,
sez. V, 15.04.2013, n. 2063) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza del Consiglio di Stato
ha, chiaramente, delineato i principi
cardine attorno ai quali ruota la regola dell’anonimato
nelle prove scritte per i pubblici concorsi a garanzia del
superiore principio di imparzialità dell’azione
amministrativa, individuando nell’idoneità del segno di
riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due
elementi che devono essere riscontrati per giungere a
ritenere che si sia in presenza di un’effettiva violazione
della regola dell’anonimato.
Quanto alla prima delle due condizioni, l’idoneità del
segno di riconoscimento, è stato precisato che: “In sede di
concorso a posti di pubblico impiego con esami scritti, al
fine del rispetto della regola dell'anonimato, ciò che
rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore
dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente
riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a
fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando
la particolarità riscontrata assuma un carattere
oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle
ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di
elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a
nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli
componenti di essa siano stati o meno in condizione di
riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato”.
Quanto alla seconda delle due condizioni questa stessa
Sezione ha
escluso che possa operare un automatismo tra astratta
possibilità di riconoscimento e violazione della regola
dell’anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in
modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere
riconoscibile il proprio elaborato.
---------------
La giurisprudenza del Consiglio di Stato
con numerose pronunce ha, chiaramente, delineato i principi
cardine attorno ai quali ruota la regola dell’anonimato
nelle prove scritte per i pubblici concorsi a garanzia del
superiore principio di imparzialità dell’azione
amministrativa, individuando nell’idoneità del segno di
riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due
elementi che devono essere riscontrati per giungere a
ritenere che si sia in presenza di un’effettiva violazione
della regola dell’anonimato.
Quanto alla prima delle due condizioni, l’idoneità del
segno di riconoscimento, è stato precisato che: “In sede di
concorso a posti di pubblico impiego con esami scritti, al
fine del rispetto della regola dell'anonimato, ciò che
rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore
dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente
riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a
fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando
la particolarità riscontrata assuma un carattere
oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle
ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di
elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a
nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli
componenti di essa siano stati o meno in condizione di
riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato” (Cons.
St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso
Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV, 20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione
pare non sussistere, perché il nome di fantasia utilizzato,
una sola volta, richiama quello di un celebre collega
architetto, nell’ambito di una simulazione pratica di un
atto tipico di quella professione.
Quanto alla seconda delle due condizioni questa stessa
Sezione (cfr. Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n. 2025) ha
escluso che possa operare un automatismo tra astratta
possibilità di riconoscimento e violazione della regola
dell’anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in
modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere
riconoscibile il proprio elaborato.
Nella fattispecie,
appare evidente come difetti anche questo ulteriore
requisito. Del resto nella prima prova, che è quella nella
quale è stato redatto il citato verbale di somma urgenza,
l’odierno appellante ha riportato una valutazione identica a
quella dell’originario ricorrente.
Non può, quindi, contrariamente a quanto affermato dal primo
Giudice, ritenersi che sia stata violata la regola
dell’anonimato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il diritto d’accesso del
consigliere comunale, così come previsto dall’art. 43 T.U.
267/2000, può riguardare gli uffici comunali, le aziende
speciali e le società di gestione di servizi pubblici in cui
il Comune abbia partecipazione totalitaria oppure
maggioritaria, ma non può investire attività di altri
soggetti o enti, soprattutto di natura privata le cui
attività sono coperte innanzitutto dal diritto alla
riservatezza, nel caso di specie non può che essere limitato
alla richiesta agli organi di direzione del Comune –Sindaco
e Giunta– di esercitare i poteri riservati alle minoranze
azionarie dal codice civile.
- Vista la domanda di accesso presentata ai
sensi dell’art. 43 T.U. n. 267/2000 dal consigliere comunale
di Bellaria Igea Marina M.C. avente ad oggetto un
rendiconto analitico dettagliato relativo i progetti di
eventi turistici per gli anni 2010 e 2011 che la Società
Verdeblù aveva realizzato con l’ausilio di un contributo
economico del Comune, unicamente a documentazione contabile
(fatture) emesse da tale Società partecipata al 20% dallo
stesso Comune di Bellaria Igea Marina;
-
Visto il ricorso al TAR dell’Emilia Romagna proposto dal
C. avverso il silenzio dei due soggetti accolto con
sentenza n. 169 del 04.03.2013, la quale ha affermato che
l’interessato, nella sua qualità di lieve comunale chiamato
a tutelare in via generale i diritti derivanti dalla sua
posizione volta alla conoscenza di atti che riguardino le
attività comunali, aveva pieno titolo all’ostensione del
libro giornale dell’impresa, mentre non poteva essere
accolta la domanda concernente le fatture, vista la sua
estrema genericità;
-
Visto l’appello proposto dal Comune e l’appello incidentale
autonomo dalla Srl Verdeblù in cui si sostiene l’erroneità
della sentenza del TAR, poiché se l’art. 8 dello statuto
comunale di Bellaria colloca ai fini fondamentali dell’ente
il turismo e prevede il diritto di accesso dei consiglieri
sugli atti delle società partecipate, ciò deve riguardare
gli enti dipendenti delle società partecipate in quota
maggioritaria o totalitaria e che svolgano funzioni
strumentali a quelle proprie degli enti locali, come ad
esempio servizi pubblici erogati direttamente in favore dei
cittadini e non tanto società imprenditoriali formate
maggioritariamente da associazioni di albergatori,
commercianti, artigiani ed operatori di spiaggia attive in
un campo come quello della promozione turistica che non può
essere ritenuto alla stregua di un servizio pubblico locale,
ciò sia per le indagini esplorative concernenti le attività
in generale;
-
Considerato che le tesi sostenute dagli appellanti appaiono
convincenti, poiché la Srl Verdeblù deve essere considerata
un soggetto privato, data la consistenza quantitativa della
partecipazione azionaria del Comune e la natura degli altri
soci, associazione di albergatori, commercianti
concessionari di spiagge ed altri imprenditori turistici e
visto che la stessa Srl, sebbene si occupi di un’attività
come la promozione del turismo che è fondamentale per il
Comune di Bellaria Igea Marina, non può essere definita
strumentale per l’esercizio di un servizio pubblico, inteso
questo nel senso classico di prestazioni essenziali fornite
da una collettività indistinta di utenti;
-
Ritenuto che le modificazioni intervenute in materia con la
L. 06.11.2012 n. 190 e con il D.L. 21.06.2013 n. 69
convertito nella L. 09.08.2013 n. 98 non si applicano
alla controversia in esame, visto che l’istanza del C.
risale al settembre 2012;
-
Considerato perciò che il diritto d’accesso del consigliere
comunale, così come previsto dall’art. 43 T.U. 267/2000, può
riguardare gli uffici comunali, le aziende speciali e le
società di gestione di servizi pubblici in cui il Comune
abbia partecipazione totalitaria oppure maggioritaria, ma
non può investire attività di altri soggetti o enti,
soprattutto di natura privata le cui attività sono coperte
innanzitutto dal diritto alla riservatezza, nel caso di
specie non può che essere limitato alla richiesta agli
organi di direzione del Comune –Sindaco e Giunta– di
esercitare i poteri riservati alle minoranze azionarie dal
codice civile;
- Visto perciò che gli appelli devono essere accolti con il
conseguente rigetto del ricorso di primo grado con la
compensazione delle spese di giudizio tra le parti, data la
peculiarità del caso (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
La comunicazione dell'avvio del procedimento non
è una mera formalità ma lo strumento attraverso il quale è
garantita la collaborazione del privato che deve essere
posto nelle condizioni di esporre le ragioni a tutela dei
propri interessi, particolarmente laddove il provvedimento
dell'amministrazione riguardi, oltre il profilo economico,
anche quello professionale.
Tuttavia la censura è infondata, atteso che la comunicazione
di avvio del procedimento amministrativo, prevista dal
richiamato art. 7 della legge n. 241/1990, è da ritenersi
necessaria solo quando la stessa sia idonea ad apportare un
qualche arricchimento a seguito della partecipazione del
destinatario del provvedimento, ma in mancanza di siffatta
utilità l'obbligo della comunicazione viene meno.
E infatti, ove si verta in ipotesi di instaurazione di un
procedimento disciplinare, al dipendente interessato deve
essere data comunicazione dell'avvio del procedimento per
consentire allo stesso, non solo di conoscere i relativi
atti, ma altresì di svolgere adeguatamente le proprie
difese.
Nel caso di specie, invece, concernente l'adozione di un
provvedimento di natura cautelare, consistente nella
sospensione del dipendente dal servizio, perché rinviato a
giudizio per fatti riconducibili alla propria attività, la
partecipazione dell'interessato al procedimento de quo non
avrebbe potuto comunque apportare alcun elemento nuovo,
posto che l'instaurazione del procedimento derivava dal
fatto, oggettivo ed incontrovertibile, dell'essere stato il
ricorrente assoggettato ad un procedimento penale per un
determinato titolo di reato, con la conseguente necessità,
una volta verificati i presupposti, di emanare il
provvedimento cautelare di sospensione, poi impugnato.
---------------
La valutazione dell'amministrazione, in materia di
sospensione cautelare facoltativa del dipendente pubblico,
costituisce una tipica manifestazione del suo potere
discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo solo
ove risulti manifestamente irragionevole e non comporta la
necessità di esporre le ragioni per le quali i fatti
contestati al dipendente devono considerarsi particolarmente
gravi, potendo tale giudizio essere implicito nella gravità
del reato a lui imputato, nella posizione d'impiego
rivestita dal dipendente, nella commissione del reato in
occasione o a causa del servizio, con la conseguente
impossibilità di consentirne la prosecuzione.
In concreto l'unica motivazione richiesta per il
provvedimento di sospensione facoltativa consiste
nell'esternare il pregiudizio che subirebbe
l'amministrazione dalla permanenza in servizio del
dipendente, non occorrendo esporre analiticamente gli
episodi illeciti addebitati ma dovendosi, al contrario,
evitare la pubblicizzazione di tali fatti che costituiscono
oggetto d'accertamento da parte dell'a.g.o..
Con il primo motivo di censura
l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza di primo
grado laddove il Tribunale ha ritenuto che non sia stato
violato l'art. 7 della legge n. 241 del 07.08.1990.
Sul punto, oggetto del contendere è stabilire se
l'Amministrazione era da ritenersi esonerata o meno,
dall'osservanza delle previsioni della legge sul
procedimento amministrativo.
Non vi sono motivi per dissentire, sul piano dei principi,
da quanto sostenuto dall'appellante, che cioè la
comunicazione dell'avvio del procedimento non è una mera
formalità ma lo strumento attraverso il quale è garantita la
collaborazione del privato che deve essere posto nelle
condizioni di esporre le ragioni a tutela dei propri
interessi, particolarmente laddove il provvedimento
dell'amministrazione riguardi, oltre il profilo economico,
anche quello professionale.
Tuttavia la censura è infondata, atteso che la comunicazione
di avvio del procedimento amministrativo, prevista dal
richiamato art. 7 della legge n. 241/1990, è da ritenersi
necessaria solo quando la stessa sia idonea ad apportare un
qualche arricchimento a seguito della partecipazione del
destinatario del provvedimento, ma in mancanza di siffatta
utilità l'obbligo della comunicazione viene meno (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 19.03.1996, n. 283).
E infatti, ove si verta in ipotesi di instaurazione di un
procedimento disciplinare, al dipendente interessato deve
essere data comunicazione dell'avvio del procedimento per
consentire allo stesso, non solo di conoscere i relativi
atti, ma altresì di svolgere adeguatamente le proprie difese
(Cons. Stato, sez. IV, 03.02.2006, n. 456). Nel caso di
specie, invece, concernente l'adozione di un provvedimento
di natura cautelare, consistente nella sospensione del
dipendente dal servizio, perché rinviato a giudizio per
fatti riconducibili alla propria attività, la partecipazione
dell'interessato al procedimento de quo non avrebbe potuto
comunque apportare alcun elemento nuovo, posto che
l'instaurazione del procedimento derivava dal fatto,
oggettivo ed incontrovertibile, dell'essere stato il
ricorrente assoggettato ad un procedimento penale per un
determinato titolo di reato, con la conseguente necessità,
una volta verificati i presupposti, di emanare il
provvedimento cautelare di sospensione, poi impugnato.
D'altro canto, occorre pure considerare che nel caso in
esame le esigenze di celerità e tempestività con cui
occorreva allontanare il ricorrente dal posto di lavoro, in
relazione all'accusa di reati attinenti ai compiti di
istituto, imponevano di intervenire con urgenza, dispensando
l'amministrazione dal procedere alla previa comunicazione
dell'avvio del procedimento di sospensione.
---------------
Con il secondo
motivo di censura l'appellante lamenta l'erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice ha
ritenuto che il provvedimento del consiglio di
amministrazione n. 421/1 del 1997 di allontanamento dal
servizio, risultava "adeguatamente e logicamente motivato"
con riferimento alle ipotesi di reati a lui contestati
dall'autorità giudiziaria.
L'appellante sostiene che l'amministrazione non avrebbe
effettuato alcun esame istruttorio in ordine alla
sussistenza effettiva delle esigenze cautelari, valutazione
che dovrebbe svolgersi con specifico riferimento al buon
andamento interno dell’ufficio e all'organizzazione
amministrativa.
Nel caso di specie, a parere dell'appellante, mancherebbero
tutti gli elementi di pregiudizio che giustificherebbero il
suo allontanamento dal servizio.
Anche tale censura è infondata atteso che, come evidenziato
dal TAR, il provvedimento dell'amministrazione
originariamente impugnato "risulta adeguatamente e
logicamente motivato, con il riferimento alle ipotesi di
reato contestate all'arch. Vella".
L'Amministrazione ha dato puntuale conto che i fatti
contestati al ricorrente, si riferivano alle funzioni svolte
dal medesimo in qualità di componente della commissione
tecnico-consultiva e di direttore dell'ufficio tecnico
dell'allora I.A.C.P. di Vercelli, funzioni tutte
direttamente collegate, dunque, al rapporto di lavoro ed "ha
specificatamente motivato in ordine all'avvenuto
intaccamento del vincolo fiduciario, di cui, invece, deve
sempre caratterizzarsi il rapporto di collaborazione tra
l'Ente ed i propri dipendenti, a maggior ragione quando
questi ultimi ricoprono funzioni dirigenziali, …. con
conseguente ritenuto pericolo, ove fossero proseguite le
prestazioni lavorative da parte del predetto funzionario,
per la credibilità nello svolgimento delle tipiche attività
dell'Agenzia".
Verificatisi tali presupposti, non può che osservarsi che,
per costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la
valutazione dell'amministrazione, in materia di sospensione
cautelare facoltativa del dipendente pubblico, costituisce
una tipica manifestazione del suo potere discrezionale,
sindacabile dal giudice amministrativo solo ove risulti
manifestamente irragionevole e non comporta la necessità di
esporre le ragioni per le quali i fatti contestati al
dipendente devono considerarsi particolarmente gravi,
potendo tale giudizio essere implicito nella gravità del
reato a lui imputato, nella posizione d'impiego rivestita
dal dipendente, nella commissione del reato in occasione o a
causa del servizio, con la conseguente impossibilità di
consentirne la prosecuzione.
In concreto l'unica motivazione richiesta per il
provvedimento di sospensione facoltativa consiste
nell'esternare il pregiudizio che subirebbe
l'amministrazione dalla permanenza in servizio del
dipendente, non occorrendo esporre analiticamente gli
episodi illeciti addebitati ma dovendosi, al contrario,
evitare la pubblicizzazione di tali fatti che costituiscono
oggetto d'accertamento da parte dell'a.g.o. (Cons. Stato,
sez. V, 15.11.2012, n. 5774)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 194 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Poiché il
legale rappresentante non ha sottoscritto l’offerta, la sua
esclusione si appalesa legittima.
L’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
al comma 1-bis recita: “la stazione appaltante esclude i
candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché
nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette
prescrizioni sono comunque nulle”.
La norma, quindi, espressamente include la sottoscrizione
fra gli elementi essenziali dell’offerta, ed altrettanto
espressamente dispone che la sua mancanza determina
l’esclusione del concorrente dalla gara.
L’univoco enunciato della norma impone di ritenere che il
legislatore, nel risolvere il bilanciamento tra “favor
partecipationis” ed esigenza di chiarezza nell’espressione
della volontà delle parti, abbia dato la prevalenza a tale
ultima esigenza, disponendo –appunto– l’esclusione delle
offerte prive di sottoscrizione.
Il legislatore, in altri termini, ha ritenuto la
sottoscrizione elemento necessario dell’offerta, la cui
mancanza rende dubbia la sua riferibilità al partecipante
alla gara; di conseguenza ha sancito la nullità dell’offerta
che, in quanto non sottoscritta, pone un elemento di
incertezza circa la possibilità di concludere il contratto.
E’ noto, infatti, che secondo la costante giurisprudenza del
giudice amministrativo, la sottoscrizione dell’offerta si
configura come lo strumento mediante il quale l’autore fa
propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a
renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla
manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la
funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e
insostituibilità dell’offerta e costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo
formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa
riconnettere gli effetti dell’offerta come dichiarazione di
volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
L’espressa comminatoria di nullità impedisce poi di seguire
il ragionamento dell’appellante, volto a dimostrare che
l’offerta non sottoscritta risultava ad essa riferibile in
base ad altri elementi.
L’appello è infondato; il Collegio prescinde
quindi dall’esame delle questioni di ammissibilità proposte
dalle parti resistenti.
L’appellante è stata esclusa dalla gara di cui al paragrafo
1 che precede non avendo sottoscritto la propria offerta.
Contesta il relativo provvedimento, nonché la sentenza con
la quale il primo giudice ha respinto l’impugnazione,
affermando che la sua volontà di formulare la proposta
contrattuale consacrata nell’offerta risulta con chiarezza
dalla sottoscrizione e dalle sigle apposte in diversi
documenti, predisposti per la partecipazione alla gara, e
che la normativa di gara, che impone appunto la
sottoscrizione dell’offerta, deve essere dichiarata nulla
per violazione dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n.
163.
La tesi non può essere condivisa.
L’invocato art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, al
comma 1-bis recita: “la stazione appaltante esclude i
candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché
nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette
prescrizioni sono comunque nulle”.
La norma quindi espressamente include la sottoscrizione fra
gli elementi essenziali dell’offerta, ed altrettanto
espressamente dispone che la sua mancanza determina
l’esclusione del concorrente dalla gara.
L’univoco enunciato della norma impone di ritenere che il
legislatore, nel risolvere il bilanciamento tra “favor partecipationis” ed esigenza di chiarezza nell’espressione
della volontà delle parti, abbia dato la prevalenza a tale
ultima esigenza, disponendo –appunto– l’esclusione delle
offerte prive di sottoscrizione.
Il legislatore, in altri termini, ha ritenuto la
sottoscrizione elemento necessario dell’offerta, la cui
mancanza rende dubbia la sua riferibilità al partecipante
alla gara; di conseguenza ha sancito la nullità dell’offerta
che, in quanto non sottoscritta, pone un elemento di
incertezza circa la possibilità di concludere il contratto.
E’ noto, infatti, che secondo la costante giurisprudenza del
giudice amministrativo, la sottoscrizione dell’offerta si
configura come lo strumento mediante il quale l’autore fa
propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a
renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla
manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la
funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e
insostituibilità dell’offerta e costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo
formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa
riconnettere gli effetti dell’offerta come dichiarazione di
volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
L’espressa comminatoria di nullità impedisce poi di seguire
il ragionamento dell’appellante, volto a dimostrare che
l’offerta non sottoscritta risultava ad essa riferibile in
base ad altri elementi.
Atteso che nel caso di specie è pacifico, in punto di fatto,
che il legale rappresentante dell’appellante non ha
sottoscritto l’offerta, la sua esclusione si appalesa
legittima.
In conclusione, l’appello principale deve essere
respinto, mentre deve essere dichiarato improcedibile
l’appello incidentale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 174 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della
domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi
edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei
provvedimenti conseguenti, così che gli atti repressivi
dell'abuso, adottati in precedenza, perdono efficacia, con
conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività
dell'opera provocato dalla domanda di sanatoria comporta la
formazione ex se di un nuovo provvedimento che, se di
rigetto, supera il precedente provvedimento sanzionatorio e
deve essere nuovamente impugnato.
Tanto premesso, questa Sezione ritiene di doversi
conformare al consolidato indirizzo giurisprudenziale,
secondo il quale la presentazione della domanda di rilascio
di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al
Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti
conseguenti, così che gli atti repressivi dell'abuso,
adottati in precedenza, perdono efficacia, con conseguente
improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera
provocato dalla domanda di sanatoria comporta la formazione
ex se di un nuovo provvedimento che, se di rigetto, supera
il precedente provvedimento sanzionatorio e deve essere
nuovamente impugnato (Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2012,
n. 2185; 16.09.2011, n. 5228; 12.05.2010, n.
2844) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La correttezza contributiva e fiscale è richiesta
dalla legge alle imprese partecipanti alle selezioni per
l'aggiudicazione degli appalti pubblici come requisito
indispensabile, ancor prima che per la stipulazione del
contratto, per la stessa partecipazione alla procedura. Da
qui la necessità che già in sede, appunto, di gara venga
documentata la titolarità del requisito.
Non vi è poi dubbio che la sussistenza del requisito della
regolarità contributiva debba essere verificata con
riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione
delle offerte. A nulla può quindi rilevare una
regolarizzazione solo successiva della posizione
contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso
dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in
alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto
dell’irregolarità ai fini della singola gara. Deve pertanto
escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto
retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della
scadenza del termine di pagamento, circostanza che può
rilevare sul piano dei soggetti del rapporto obbligatorio ma
non anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
Infine, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha dato atto
che il requisito della regolarità fiscale può dirsi
sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per
la presentazione della domanda di partecipazione alla gara,
l’istanza di rateizzazione sia stata non solo presentata, ma
anche accolta, con l’adozione del relativo provvedimento
costitutivo, con la conseguenza che non è ammissibile la
partecipazione alla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. g, del Codice dei contratti pubblici, del soggetto
che, al momento della scadenza del termine di presentazione
della domanda, non abbia conseguito tale provvedimento.
Su un piano generale, è appena il caso di
ricordare che la correttezza contributiva e fiscale è
richiesta dalla legge alle imprese partecipanti alle
selezioni per l'aggiudicazione degli appalti pubblici come
requisito indispensabile, ancor prima che per la
stipulazione del contratto, per la stessa partecipazione
alla procedura (cfr. C.d.S., IV, 27.12.2004, n. 8215; VI, 04.08.2009, n. 4905). Da qui la necessità che già in
sede, appunto, di gara venga documentata la titolarità del
requisito.
Non vi è poi dubbio che la sussistenza del requisito della
regolarità contributiva debba essere verificata con
riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione
delle offerte. A nulla può quindi rilevare una
regolarizzazione solo successiva della posizione
contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso
dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in
alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto
dell’irregolarità ai fini della singola gara. Deve pertanto
escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto
retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della
scadenza del termine di pagamento (cfr. C.d.S., IV, 12.03.2009 n. 1458; VI, 11.08.2009, n. 4928;
06.04.2010, n.
1934; 05.07.2010, n. 4243), circostanza che può rilevare
sul piano dei soggetti del rapporto obbligatorio ma non
anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
Infine, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha dato atto
che il requisito della regolarità fiscale può dirsi
sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per
la presentazione della domanda di partecipazione alla gara,
l’istanza di rateizzazione sia stata non solo presentata, ma
anche accolta, con l’adozione del relativo provvedimento
costitutivo, con la conseguenza che non è ammissibile la
partecipazione alla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. g, del Codice dei contratti pubblici, del soggetto
che, al momento della scadenza del termine di presentazione
della domanda, non abbia conseguito tale provvedimento (Ad.Pl.
n. 20 del 20.08.2013; cfr. anche Ad. Pl. n. 15 del 05.06.2013; VI, 29.01.2013, n. 531; V, 18.11.2011,
n. 6084)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 169 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 48 del Codice dei contratti pubblici
prevede che, quando le dichiarazioni contenute nella domanda
di partecipazione o nell’offerta circa il possesso dei
requisiti di capacità non siano state comprovate dalla
documentazione all’uopo presentata, e per ciò stesso, “le
stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente
dalla gara, alla escussione della relativa cauzione
provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità”.
Con il che si rende evidente che le predette misure
discendenti dall’esclusione si rivelano strettamente
vincolate e consequenziali alla verifica dell’omissione di
cui si tratta, e prive di qualsivoglia contenuto
discrezionale. La giurisprudenza prevalente è difatti
attestata nel senso che l’incameramento della cauzione
provvisoria sia una conseguenza sanzionatoria automatica del
provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di
alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli
casi concreti.
L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, inoltre, ha
riconosciuto che la possibilità di incamerare la cauzione
provvisoria può trarre fondamento anche dall'art. 75, comma
6, d.lgs. n. 163 del 2006, che riguarda tutte le ipotesi di
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario, intendendosi per “fatto dell'affidatario”
qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e
dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di
requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti
generali di cui all'art. 38 dello stesso Codice.
Quanto
all’escussione della cauzione, la Sezione osserva che le
deduzioni di parte, notevolmente scarne sul punto
(agitandosi le sole critiche sopra esposte al paragr. 1 e di
seguito già confutate), non sono idonee ex se a far
escludere l’avvenuta integrazione dei presupposti per
l’incameramento della cauzione provvisoria.
D’altra parte, non è inutile ricordare che l’art. 48 del
Codice dei contratti pubblici prevede che, quando le
dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o
nell’offerta circa il possesso dei requisiti di capacità non
siano state comprovate dalla documentazione all’uopo
presentata, e per ciò stesso, “le stazioni appaltanti
procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, alla
escussione della relativa cauzione provvisoria e alla
segnalazione del fatto all’Autorità”. Con il che si rende
evidente che le predette misure discendenti dall’esclusione
si rivelano strettamente vincolate e consequenziali alla
verifica dell’omissione di cui si tratta, e prive di
qualsivoglia contenuto discrezionale. La giurisprudenza
prevalente è difatti attestata nel senso che l’incameramento
della cauzione provvisoria sia una conseguenza sanzionatoria
automatica del provvedimento di esclusione, come tale non
suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con
riguardo ai singoli casi concreti (v. C.d.S., V, 01.10.2010, n. 7263, 18.04.2012, n. 2232, e 10.09.2012,
n. 4778; nello stesso senso v. anche, tra le altre, IV, 16.02.2012, n. 810; 24.05.2013, n. 2832; VI, 27.12.2006, n. 7948; III, 16.03.2012, n. 1471).
L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (04.05.2012, n. 8),
inoltre, ha riconosciuto che la possibilità di incamerare la
cauzione provvisoria può trarre fondamento anche dall'art.
75, comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006, che riguarda tutte le
ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell'affidatario, intendendosi per “fatto
dell'affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a
lui riconducibile, e dunque non solo il rifiuto di stipulare
o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di
requisiti generali di cui all'art. 38 dello stesso Codice
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 169 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il primo Giudice ha
richiamato i principi
di elaborazione giurisprudenziale in tema di sindacato sulla
verifica di anomalia delle offerte. Da un lato, quello per
cui la verifica della congruità di un'offerta ha natura
globale e sintetica, vertendo sull’attendibilità della
medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità a
fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione
dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto
la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica; dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può
sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede
di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della
relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la
stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera
propria della discrezionalità della Pubblica
Amministrazione.
In maniera più articolata, le principali acquisizioni
giurisprudenziali che connotano il sindacato giudiziale
attivabile in questa materia possono essere così
sintetizzate.
►
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici,
l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è
tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda
che rientra nella discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di
macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di
valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi
o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità
può intervenire, restando per il resto la capacità di
giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità.
► La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso
che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di
anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il
Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni
compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro
logicità e ragionevolezza e della congruità
dell'istruttoria, mentre non possa invece operare
autonomamente la verifica della congruità dell'offerta
presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la
sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico-
formulato dall'organo amministrativo cui la legge
attribuisce la tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo,
il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..
► E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto per cui il
giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed
analitica ove si concluda in senso sfavorevole
all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della
verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare
per relationem con riferimento alle giustificazioni
presentate dal concorrente (sempre che a loro volta
adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi
contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli
specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa
evincere che la valutazione tecnico-discrezionale
dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole,
ovvero basata su fatti erronei o travisati.
►
Viene precisato, infine, che il giudizio di verifica della
congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura
globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta
va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento
alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse
dall’incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme:
questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di
inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro
importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera
operazione economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici
strutturali di carente affidabilità.
L’appello è infondato.
Il primo Giudice ha opportunamente anteposto alla disamina
degli specifici rilievi della SODEXO un richiamo ai principi
di elaborazione giurisprudenziale in tema di sindacato sulla
verifica di anomalia delle offerte. Da un lato, quello per
cui la verifica della congruità di un'offerta ha natura
globale e sintetica, vertendo sull’attendibilità della
medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità a
fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione
dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto
la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica; dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può
sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede
di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della
relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la
stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera
propria della discrezionalità della Pubblica
Amministrazione.
In maniera più articolata, le principali acquisizioni
giurisprudenziali che connotano il sindacato giudiziale
attivabile in questa materia possono essere così
sintetizzate.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici,
l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è
tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda
che rientra nella discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di
macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di
valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi
o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità
può intervenire, restando per il resto la capacità di
giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità (C.d.S., Ad. Pl., 29.11.2012, n. 36; V, 26.09.2013, n. 4761; 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148; 22.02.2011, n. 1090).
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso
che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di
anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il
Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni
compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro
logicità e ragionevolezza e della congruità
dell'istruttoria, mentre non possa invece operare
autonomamente la verifica della congruità dell'offerta
presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la
sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico-
formulato dall'organo amministrativo cui la legge
attribuisce la tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo,
il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A. (C.d.S., IV, 27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n. 7631).
E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto per cui il
giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed
analitica ove si concluda in senso sfavorevole
all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della
verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare
per relationem con riferimento alle giustificazioni
presentate dal concorrente (sempre che a loro volta
adeguate). Di conseguenza, in questa seconda evenienza
incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di
individuare gli specifici elementi da cui il Giudice
amministrativo possa evincere che la valutazione
tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata
manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei
o travisati (VI, 03.11.2010, n. 7759; V, 22.02.2011, n. 1090; 23.11.2010, n. 8148).
Viene precisato, infine, che il giudizio di verifica della
congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura
globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta
va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento
alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse
dall’incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme (Ad.Pl. n. 36/2012 cit.; V, 14.06.2013,
n. 3314; 01.10.2010, n. 7262; 11.03.2010 n. 1414; IV,
22.03.2013, n. 1633; III, 14.02.2012, n. 710):
questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di
inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro
importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera
operazione economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici
strutturali di carente affidabilità (V, 15.11.2012, n.
5703; 28.10.2010, n. 7631).
I principi appena ricordati conducono linearmente alla
reiezione delle doglianze di parte ricorrente (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2014 n. 162 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto
dalla legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio
generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un
sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di
celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i
principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della
funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse
legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell’attività amministrativa, ed un rapporto di
strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui
si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve,
peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse.
In linea generale, si osserva che, anche
recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto
di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla
legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio
generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un
sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di
celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i
principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della
funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto
legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve
esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto
che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in
un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma
comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi
con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al
buon andamento dell’attività amministrativa, ed un rapporto
di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di
cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve,
peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse (per tutte Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.01.2014 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
giurisprudenza consolidata ha delineato tre differenti tipi di informative
prefettizie:
- quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs.
08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b) del d.P.R. n.
252/1998);
- quelle relative ad eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva
discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7,
lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
- quelle “supplementari” (o
atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una
valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione
destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies,
del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla
legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della
legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso
la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un
ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in
ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la
conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia
ostativa prescinde dal concreto accertamento di
responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano
degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole
convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento
mafioso”.
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della
valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione
mafiosa e della conseguente adozione della informativa
ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova
della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente
dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed
indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza.
Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia
gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale
sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di
manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione
deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine
alla sussistenza degli elementi dai quali possa
ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione
mafiosa.
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno
strumento, con funzione spiccatamente cautelare e
preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata,
che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che
inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni
mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di
responsabilità penali.
---------------
Se in caso di informativa prefettizia c.d. “atipica”
l’efficacia interdittiva può conseguire a seguito di una
valutazione autonoma e discrezionale dell’Amministrazione
destinataria, nel caso di informativa c.d. “tipica”,
diversamente, l’efficacia interdittiva discende direttamente
dalla valutazione del Prefetto, con la conseguenza che alla
Amministrazione destinataria non residua alcun potere di
decisione, derivando l’effetto preclusivo direttamente
dall’atto del Prefetto, con conseguente autonoma capacità
lesiva.
Come noto, alla luce della normativa
applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame
(oggi abrogata –ma sostanzialmente riprodotta- dal D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, recante Codice delle leggi antimafia
e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in
materia di documentazione antimafia a norma degli articoli 1
e 2 della legge 13.08.2010, n. 136), la giurisprudenza
consolidata ha delineato tre differenti tipi di informative
prefettizie:
- quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs.
08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b) del d.P.R. n.
252/1998);
- quelle relative ad eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva
discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7,
lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
- quelle “supplementari” (o
atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una
valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione
destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies,
del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla
legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della
legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso
la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un
ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in
ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la
conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia
ostativa prescinde dal concreto accertamento di
responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano
degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole
convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento
mafioso” (a titolo esemplificativo, in ordine a tali
consolidati principi, si segnala Consiglio di Stato, sez. III, 19.01.2012, n. 245, id, sez. VI, 15.06.2011,
n. 3647; id, 08.06.2009, n. 3491; id, 19.06.2009, n.
4132; id 14.04.2009, n. 2276; id 27.01.2009, n.
510; id, sez. V, 26.11.2008, n., 5846; id, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958; id, sez. V, 27.05.2008, n. 2512; id, sez. IV, 16.03.2004, n. 2783.).
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della
valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione
mafiosa e della conseguente adozione della informativa
ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova
della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente
dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed
indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza
(cit. sez. VI, 08.06.2009, n. 3491). Relativamente a
detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed
autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede
giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o
irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere
sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli
elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il
tentativo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di Stato, sez. IV,
02.10.2006, n. 5753).
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno
strumento, con funzione spiccatamente cautelare e
preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata,
che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che
inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni
mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di
responsabilità penali.
---------------
Come sopra già
precisato, se in caso di informativa prefettizia c.d.
“atipica” l’efficacia interdittiva può conseguire a seguito
di una valutazione autonoma e discrezionale
dell’Amministrazione destinataria, nel caso di informativa
c.d. “tipica”, diversamente, l’efficacia interdittiva
discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, con la
conseguenza che alla Amministrazione destinataria non
residua alcun potere di decisione, derivando l’effetto
preclusivo direttamente dall’atto del Prefetto, con
conseguente autonoma capacità lesiva (questo Tribunale, sez.
I, 25.03.2013, n. 323; Consiglio di Stato, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958).
Alla autonoma capacità lesiva,
consegue, come è evidente, l’immediata impugnabilità
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.01.2014 n. 85 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: L’art.
43 d.lgs. 267/2000, nella sua chiarezza espositiva, è
ispirato alla ratio di garantire ai rappresentanti del corpo
elettorale l’accesso ai documenti e alle informazioni utili
all’espletamento del loro mandato (munus publicum) anche al
fine di permettere e di valutare, con piena cognizione, la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione,
e di esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del consiglio, onde promuovere, anche nell’ambito
del consiglio stesso, le iniziative (interrogazioni,
interpellanze, mozioni, ordini del giorno, deliberazioni)
che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale: si configura come peculiare espressione del
principio democratico dell’autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
I documenti e le informazioni possono essere frutto di
un’attività istruttoria degli uffici al fine di relazionare
su una determinata “materia o affare”, con la conseguenza
che tale diritto può anche consistere nella pretesa che gli
uffici dell’Amministrazione, interpellati al riguardo,
eseguano elaborazioni dei dati e delle informazioni in loro
possesso in evidente contrapposizione al divieto di
elaborazione previsto dalla L. n. 241/1990.
Va osservato, inoltre, che il limite di natura organizzativa
non può essere eccepito dall’Amministrazione a ragione del
diniego dell’accesso, proprio perché la “difficoltà
organizzativa” rientra tra quelli adempimenti a carico di
ogni Amministrazione pubblica e quindi ogni singola
struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari
all’assolvimento dei loro compiti.
Il ricorrente è consigliere comunale di
opposizione al Comune di San Nicola Arcella e ricopre tale
carica dal maggio 2011.
In data 27/11/2012 e 22/01/2013, il ricorrente, ex art. 43
D.Lgs. n. 267/2000, in occasione della convocazione del
Consiglio Comunale, inoltrava al responsabile del servizio
tributi dell'ente, istanze finalizzate ad ottenere il
"dettaglio degli sgravi operati nell'anno 2012; se
prontamente disponibile, dettaglio analitico dei residui
attivi relativi agli anni 2002 e 2006 di cui alla risorsa
1.01.00.10; se prontamente disponibile, dettaglio analitico
dei residui attivi relativi agli anni 1998, 2002, 2004, 2005
e 2006 di cui alla risorsa 1.02.00.70."; nonché la "lista di
carico (con dettaglio minimo di: soggetto passivo, indirizzo
del luogo della fornitura e importo) servizio idrico
integrato anno 2009; lista di carico (con dettaglio minimo
del soggetto passivo, indirizzo del luogo della fornitura e
importo) servizio idrico integrato Anno 2010; dettaglio
analitico dei residui attivi relativi agli anni dal 2007 al
2011 compresi, all'anno 2012 se disponibile”.
Su entrambe le richieste si formava il silenzio diniego non
impugnato dal ricorrente.
In data 16/07/2013 il ricorrente, ex art. 43 D.Lgs.
267/2000, inoltrava al responsabile dell'ufficio tributi
istanza finalizzata ad ottenere una pluralità di
informazioni articolata negli otto punti di seguito
riportati:
1. lista degli sgravi, annullamenti e note di credito
riferite al S.I.I., operati nell'anno 2012 e nel I semestre
2013. Il dettaglio dovrà riportare l'indicazione minima del
soggetto passivo, il motivo del provvedimento (errata
imposizione, imposta già pagata, ecc.) e l'importo;
2. lista degli accertamenti (ICI, IMU, TARSU, SII, TOSAP)
effettuati nell'anno 2012 e nel primo semestre 2013. Il
dettaglio dovrà riportare l'indicazione minima del soggetto
accertato, la natura delle motivazioni su cui fonda
l'accertamento e l'importo accertato;
3. dettaglio analitico dei residui attivi degli anni 2002 e
2006 di cui alla risorsa 1.01.00.10 del bilancio;
4. dettaglio analitico dei residui attivi relativi agli anni
1998, 2002, 2004, e dal 2005 al 2011 di cui alla risorsa
1.02.00.70 del bilancio;
5. lista di carico del servizio idrico integrato riferita
agli anni 2009, 2010, 2011 e 2012;
6. minuta di ruolo TARSU riferita agli anni 2010, 2011 e
2012;
7. elenco dei ricorsi alla C.T., delle richieste di
annullamento, sgravi e correzioni, reclamo o istanza
inerente materia di tributi, pervenuti a codesto ufficio
nell'anno 2012 e nel primo semestre 2013. 8.l'accesso al
programma di gestione dei tributi e l'accesso alla nuova
banca dati mediante la creazione di un nuovo utente proietto
da password e con diritti di sola lettura.
In data 14/08/2013, con protocollo n. 5673, veniva emesso
provvedimento di diniego con riferimento ai punti dal n. 1
al n. 7 perché "... è operazione alquanto impegnativa"; in
merito al punto 8 e limitatamente alla nuova banca dati
perché, con richiamo all'art. 26, comma 3, del regolamento
comunale, essa è assimilabile ad un documento futuro e come
tale non ostensibile "la banca dati è in fase di
elaborazione. Quando sarà formalmente approvata sarà messa a
sua disposizione".
Avverso tale provvedimento insorgeva il ricorrente
chiedendone l’annullamento.
Si costituiva in giudizio l’amministrazione resistente
chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio del 19.12.2013 la causa
veniva trattenuta in decisione.
Il ricorso è parzialmente fondato.
L’istanza di accesso proposta in data 16.07.2013 dal
ricorrente, nella parte in cui ha ad oggetto i medesimi atti
e documenti oggetto delle due precedenti istanze
(rispettivamente presentate in data 27/11/2012 e
22/01/2013), costituisce il tentativo di reiterare le
medesime precedenti istanze di accesso al solo fine di
riaprire il termine di impugnazione del silenzio previsto
dall’art. 25 L. n. 241/1990 che, per giurisprudenza pacifica,
è un termine decadenziale.
Non è consentito, infatti, superare il regime decadenziale
previsto dall'art. 25, L. n. 241 del 1990 e dall’art. 116
c.p.a., reiterando l'istanza di accesso a fronte della
mancata impugnazione del silenzio serbato
dall'Amministrazione sulla prima istanza di accesso, in
specie allorché la nuova domanda non sia giustificata da
circostanze nuove (TAR Lazio Roma, sez. I, 04.01.2012
n.63; Consiglio Stato, sez. VI, 30.07.2009, n. 4810).
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso
ai documenti amministrativi, nonostante la qualificazione
dell'accesso come diritto, deriva l'inammissibilità del
ricorso per mancata tempestiva impugnazione del diniego o
del silenzio nel termine di trenta giorni (art. 116 c.p.a.)
e l'impossibilità di reiterare la medesima istanza se non è
stata contestata giudizialmente la precedente risposta
negativa; sicché una nuova istanza di accesso può ritenersi
ammissibile solo per fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non
rappresentati nell'originaria istanza, ciò che non ricorre
nel caso di specie.
Conseguentemente, il ricorso limitatamente ai documenti e
atti già in precedenza richiesti, (sub. 1 fino al 2012; sub
3), sub 4) fini al 2006; sub 5) fino al 2010), deve essere
dichiarato inammissibile.
Per i documenti e atti richiesti per la prima volta con
l’istanza datata 16.07.2013, invece, il ricorso è
fondato.
L’art. 43 d.lgs. 267/2000, nella sua chiarezza espositiva, è
ispirato alla ratio di garantire ai rappresentanti del corpo
elettorale l’accesso ai documenti e alle informazioni utili
all’espletamento del loro mandato (munus publicum) anche al
fine di permettere e di valutare, con piena cognizione, la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione,
e di esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del consiglio, onde promuovere, anche nell’ambito
del consiglio stesso, le iniziative (interrogazioni,
interpellanze, mozioni, ordini del giorno, deliberazioni)
che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale: si configura come peculiare espressione del
principio democratico dell’autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
I documenti e le informazioni possono essere frutto di
un’attività istruttoria degli uffici al fine di relazionare
su una determinata “materia o affare”, con la conseguenza
che tale diritto può anche consistere nella pretesa che gli
uffici dell’Amministrazione, interpellati al riguardo,
eseguano elaborazioni dei dati e delle informazioni in loro
possesso (Cons. Stato, sez. V, 02.09.2005, n. 4471) in
evidente contrapposizione al divieto di elaborazione
previsto dalla L. n. 241/1990.
Va osservato, inoltre, che il limite di natura organizzativa
non può essere eccepito dall’Amministrazione a ragione del
diniego dell’accesso, proprio perché la “difficoltà
organizzativa” rientra tra quelli adempimenti a carico di
ogni Amministrazione pubblica e quindi ogni singola
struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari
all’assolvimento dei loro compiti (Cons. Stato, sez. V,
sentenza n. 2716/2004).
Il ricorso, pertanto, nei limiti precisati, deve essere
accolto e per l’effetto deve essere annullato il diniego
impugnato.
L’amministrazione resistente dovrà pertanto consentire al
ricorrente di estrarre copia dei documenti richiesti entro
il termine di trenta giorni
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.01.2014 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I provvedimenti
concernenti speciali forme di contenimento e di abbattimento
delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o
totale di determinate attività, in materia di servizi
pubblici essenziali, sono riservati esclusivamente al
Presidente del Consiglio dei Ministri, e ciò all’evidente
scopo di uniformare l’azione amministrativa alle enucleate
peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici
essenziali.
In tali ipotesi, venendo in rilievo concorrenti interessi di
rilievo pubblicistico inerenti a servizi pubblici
essenziali, la sede di composizione del conflitto non può
essere individuata nel livello territoriale comunale,
neppure ai fini dell’emanazione di provvedimenti
contingibili e urgenti, ma si sposta inevitabilmente ad un
livello più elevato.
Il trasporto ferroviario è qualificato come “servizio
pubblico essenziale” dall’art. 1 comma 2, lett. b), L.
12.06.1990 n. 146. Ne consegue che in tale specifica
materia, eventuali provvedimenti contingibili e urgenti
concernenti il contenimento e l’abbattimento delle emissioni
sonore derivanti dal trasporto ferroviario sono di
competenza del Presidente del Consiglio, e non del Sindaco.
Ne consegue ulteriormente che l’atto impugnato,
nell’ordinare alla società ricorrente di porre in essere
misure urgenti di mitigazione del rumore ferroviario, è
palesemente viziato da incompetenza e da difetto di
attribuzione, essendo stato adottato dal Sindaco invece che
dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
L’art. 9, comma 1, della L. 26.10.1995 n.
447 (“Legge quadro sull’inquinamento acustico”), prevede che
“Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità
di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco,
il presidente della provincia, il presidente della giunta
regionale dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, il
prefetto, il Ministro dell'ambiente, secondo quanto
previsto, e il Presidente del Consiglio dei ministri,
nell'ambito delle rispettive competenze, con provvedimento
motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali
forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni
sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di
determinate attività”.
La stessa norma precisa, peraltro, che “Nel caso di
servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata
esclusivamente al Presidente del Consiglio dei ministri”.
In forza di quest’ultima disposizione, è consolidato in
giurisprudenza l’orientamento secondo cui i provvedimenti
concernenti speciali forme di contenimento e di abbattimento
delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o
totale di determinate attività, in materia di servizi
pubblici essenziali, sono riservati esclusivamente al
Presidente del Consiglio dei Ministri, e ciò all’evidente
scopo di uniformare l’azione amministrativa alle enucleate
peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici
essenziali (TAR L’Aquila, sez. I, 10.01.2013, n. 8; TAR
Perugia, sez. I, 22.12.2011, n. 411 e 11.11.2008
n. 722; TAR Firenze sez. II, 15.03.2002, n. 494;
Consiglio di Stato, sez. V, 09.02.2001, n. 580).
In tali ipotesi, venendo in rilievo concorrenti
interessi di rilievo pubblicistico inerenti a servizi
pubblici essenziali, la sede di composizione del conflitto
non può essere individuata nel livello territoriale
comunale, neppure ai fini dell’emanazione di provvedimenti contingibili e urgenti, ma si sposta inevitabilmente ad un
livello più elevato.
Il trasporto ferroviario è qualificato come “servizio
pubblico essenziale” dall’art. 1 comma 2, lett. b), L. 12.06.1990 n. 146. Ne consegue che in tale specifica
materia, eventuali provvedimenti contingibili e urgenti
concernenti il contenimento e l’abbattimento delle emissioni
sonore derivanti dal trasporto ferroviario sono di
competenza del Presidente del Consiglio, e non del Sindaco.
Ne consegue ulteriormente che l’atto impugnato,
nell’ordinare alla società ricorrente di porre in essere
misure urgenti di mitigazione del rumore ferroviario, è
palesemente viziato da incompetenza e da difetto di
attribuzione, essendo stato adottato dal Sindaco invece che
dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le stesse misure di mitigazione indicate in via
esemplificativa dal Sindaco nella nota difensiva prodotta in
giudizio (“diminuire la velocità all’entrata e all’uscita
delle stazioni, ovvero in presenza di nuclei urbani,
soprattutto in orario notturno...”) rendono ancora più
evidente l’incidenza di tali misure sulle modalità di
gestione del servizio pubblico di trasporto, con effetti
interferenziali non riducibili al solo territorio comunale
ma estensibili all’intera rete di trasporto nazionale: da
cui la necessità, avvertita dal legislatore, di attribuire
ogni potere in merito ad una Autorità sovraordinata e
centrale.
Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso è fondato e
va accolto, con il conseguente annullamento dell’ordinanza
sindacale impugnata e l’assorbimento delle ulteriori censure
dedotte
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.01.2014 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti
abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che
alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la
concessione in sanatoria.
Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla
scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del
suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per
evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere
(anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo.
La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd.
"espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n.
2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo
previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche
se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno
lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento
dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere
generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che
espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)-
quello per cui il proprietario non può trarre beneficio
alcuno dalla sua attività illecita.
---------------
Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento
giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in
nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato,
secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar)
che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile ("la
nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui
all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi
della concessione edilizia dell' immobile oggetto della
compravendita, ovvero degli estremi della domanda di
concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela
dell'affidamento sanzionando specificamente la sola
violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al
fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di
conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli
accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il
confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante
dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di
concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza
della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto
dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla
concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla
oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che
sia demolito;
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che
si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il
manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il
proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi
modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da
potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati,
fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n.
47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: "il
carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del
2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non
spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi
stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione
giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto
occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza
non può integrare una inammissibile “interversione” tale da
far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.
Ciò posto, il Collegio richiama, in proposito,
il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass.
civ. Sez. I Sent., 14.12.2007, n. 26260) di recente ribadito
dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 18.07.2013,
n. 17604) secondo il quale
“in tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti
abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che
alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la
concessione in sanatoria. Per essi, quindi, la liquidazione
non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo
dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma
sulla sola area, per evitare che l'abusività degli
insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad
accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale
anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata"
previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il
necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e
indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi
speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste
proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile
abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile
dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr.
art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il
proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua
attività illecita" (Cass. nn. 17881/2004; 26260/ 2009;
4206/2011; Sez. Un. n. 9341/2003).
---------------
Il manufatto
edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non
può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso,
almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il
consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in
re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile (ex aliis, arg. Cass. civ. Sez. II, 05.10.2012, n. 17028: “la
nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui
all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi
della concessione edilizia dell' immobile oggetto della
compravendita, ovvero degli estremi della domanda di
concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela
dell'affidamento sanzionando specificamente la sola
violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al
fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di
conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli
accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il
confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante
dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di
concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza
della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto
dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla
concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di
regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del
rispetto delle norme urbanistiche.”);
-
la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla
oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che
sia demolito (ex aliis ancora di recente Cass. pen. Sez.
III Sent., 29.03.2007, n. 22853);
-
esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si
versa in stato di irregolarità, posto che invece, il
manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il
proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi
modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da
potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati,
fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n.
47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: si veda
ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651 “il
carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del
2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non
spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi
stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione
giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta
sopravvenienza non può integrare una inammissibile
“interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che
certamente non lo era.
L’illecito sopravvenuto, in altre parole, non vale a
trasformare in diritto necessitante riparazione ciò che tale
non era; che tale non era sotto il profilo oggettivo; che
non rilevava in nessun senso per l’ordinamento giuridico.
A maggiore chiarificazione, si ricorrerà ad un esempio: la
eventualità di accordare il risarcimento del danno per la
(illegittima, certamente, ciò non può negarsi) demolizione
di immobili abusivamente edificati e non ancora sanati,
equivarrebbe ad ipotizzare la possibilità che colui il quale
si sia indebitamente impossessato di un portafogli altrui
(art. 624 cp) ove a propria volta derubato, possa chiedere
il risarcimento del danno al (secondo) ladro (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel nostro ordinamento,
non è ammissibile l'autonoma categoria di danno
esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non
remunerative della persona, atteso che, ove in essa si
ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di
interessi della persona di rango costituzionale, ovvero
derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi
dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a
Costituzione.
Pertanto, la liquidazione di una ulteriore posta di danno
comporterebbe una duplicazione risarcitoria. Ove nel danno
esistenziale si intenda includere pregiudizi non lesivi di
diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe
del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono
irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c..
---------------
Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non
suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie.
Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili,
come quello alla salute, il risarcimento dovrà essere
commisurato al peggioramento della qualità della vita
effettivamente dimostrato dalla vittima, mentre non trova
più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o
sofferenza d'animo, il quale perciò non rientra tra le
conseguenze dannose che possano formare oggetto di prova.
---------------
Nel giudizio amministrativo, vige il generale principio
processualistico di cui all’art. 2697 c.c. in base al quale
incombe sulla parte attrice l’onere di indicare e dimostrare
specificamente i fatti posti a fondamento della pretesa
azionata. Tale principio -che subisce un’attenuazione
nell’ipotesi in cui il giudizio verta su interessi
legittimi, per effetto dell’intermediazione del
provvedimento amministrativo- trova piena applicazione in
sede di giurisdizione esclusiva in cui si verte di diritti
soggettivi.
Nel processo amministrativo, nei casi di giurisdizione
esclusiva, ove si facciano valere pretese patrimoniali, il
principio dell’onere della prova si applica nella sua
pienezza, non essendo consentito al Giudice di supplire
all’attività istruttoria delle parti, per lo meno quando,
come appunto accade nel caso all’esame, nessuna situazione
di inferiorità sia dedotta dal ricorrente, né sia in
concreto ravvisabile, in ordine alla disponibilità del
materiale documentale necessario per provare i fatti
allegati) esso però è stato ignorato da parte appellante che
non ha assolto all’onere probatorio a se spettante.
Resta da
vagliare l’argomento (motivo n. 12) relativo al mancato
riconoscimento del danno non patrimoniale e quello (13)
relativo alla liquidazione delle spese del procedimento.
Quanto al primo, il Tar ha evidenziato l’assoluto difetto di
prova ed allegazione da parte del ricorrente in chiave
applicativa dell’art. 2059 cc.
Il quadro dal quale il Collegio non intende discostarsi è
quello scolpito nella recente, condivisibile, decisione
della Sezione (Cons. Stato Sez. IV, 05.09.2013, n. 4464)
secondo la quale “nel nostro ordinamento, non è ammissibile
l'autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale
pregiudizio alle attività non remunerative della persona,
atteso che, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi
scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango
costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono
già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato
in modo conforme a Costituzione. Pertanto, la liquidazione
di una ulteriore posta di danno comporterebbe una
duplicazione risarcitoria. Ove nel danno esistenziale si
intenda includere pregiudizi non lesivi di diritti
inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto
illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili,
in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c.”.
Rammenta in proposito il Collegio che condivisibile recente
giurisprudenza ha affermato che Cass. civ. Sez. VI - 3
Ordinanza, 14.05.2013, n. 11514 (rv. 626652) “il danno non
patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di
divisioni in ulteriori sottocategorie. Pertanto, in presenza
di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla
salute, il risarcimento dovrà essere commisurato al
peggioramento della qualità della vita effettivamente
dimostrato dalla vittima, mentre non trova più spazio la
risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza
d'animo, il quale perciò non rientra tra le conseguenze
dannose che possano formare oggetto di prova.”.
Non si nega che anche un evento non incidente su un bene
personalissimo quale la salute possa provocare un
pregiudizio non patrimoniale nei termini sopra intesi.
Ciò che si nega è invece, in armonia alla consolidata
giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. III,
19.07.2013, n. 3943 “nel giudizio amministrativo spetta al
ricorrente, che assume di aver subito un danno dall'adozione
di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento
della P.A., l'onere della prova, secondo il principio
generale fissato dall'art. 2697 c.c. non potendo a tanto
supplire il soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di
prove che sono nella piena disponibilità della parte”) e
civile (ex aliis Cass. civ. Sez. lavoro, 18.07.2013, n.
17585) che detto danno sfugga all’ordinario criterio di
riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 cc e possa
integralmente desumersi da presunzioni a loro volta soltanto labialmente affermate.
Di ciò non pare rendersi conto l’appellante che neppure in
grado d’appello ha colmato l’assoluto deficit probatorio
riscontrato in primo grado (nei limiti in cui ciò sarebbe
stato possibile ex art. 345 cpc) e continua a far
riferimento a dati “categoriali“ (il coraggio di
imprenditore dimostrato dal B., etc.) senza punto fornire
prova dell’asserito peggioramento della qualità della vita
di questi, del pretium doloris asseritamente patito, etc.
Il principio, quanto alle posizioni di diritto soggettivo
non è nuovo, né recente (ex aliis TAR Basilicata Potenza
Sez. I, 10.09.2010, n. 616: “nel giudizio amministrativo,
vige il generale principio processualistico di cui all’art.
2697 c.c. in base al quale incombe sulla parte attrice
l’onere di indicare e dimostrare specificamente i fatti
posti a fondamento della pretesa azionata. Tale principio -che subisce un’attenuazione nell’ipotesi in cui il giudizio
verta su interessi legittimi, per effetto
dell’intermediazione del provvedimento amministrativo- trova
piena applicazione in sede di giurisdizione esclusiva in cui
si verte di diritti soggettivi”; -Cons. Stato Sez. III,
14.12.2011, n. 6573- “nel processo amministrativo, nei
casi di giurisdizione esclusiva, ove si facciano valere
pretese patrimoniali, il principio dell’onere della prova si
applica nella sua pienezza, non essendo consentito al
Giudice di supplire all’attività istruttoria delle parti,
per lo meno quando, come appunto accade nel caso all’esame,
nessuna situazione di inferiorità sia dedotta dal
ricorrente, né sia in concreto ravvisabile, in ordine alla
disponibilità del materiale documentale necessario per
provare i fatti allegati) esso però è stato ignorato da
parte appellante che non ha assolto all’onere probatorio a
se spettante"
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'azione
di risarcimento conseguente all'annullamento in sede
giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la
valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce
dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della
gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione,
secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse
all' organo amministrativo nonché delle condizioni concrete
in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il
risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del
giudice della legittimità.
Si premette che il Collegio condivide
quanto a più riprese affermato dalla a giurisprudenza
amministrativa secondo cui “l'azione di risarcimento
conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un
provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che
inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle
violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'
ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo
amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha
operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una
conseguenza automatica della pronuncia del giudice della
legittimità.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01.10.2007, n.
5052).
Nel caso di specie non vi sono censure sotto tal profilo –che comunque rileva ai fini dell’an della concedibilità del
risarcimento– il che esonera il Collegio da un partito esame
della fattispecie e lo legittima ad affermare, per incidens,
che avuto riguardo allo svolgimento della vicenda, ed in
relazione alle carenze riscontrate nella variante e ribadite
sia dal Tar che da questo Giudice d’appello con statuizione
regiudicata, sussiste certamente il detto requisito
legittimante.
Ciò premesso, l’appellante aveva chiesto il titolo
abilitativo; venne adottata una variante impeditiva; essa
precludeva la realizzazione di quanto ipotizzato (il dato è
incontestabile); avverso la stessa, in quanto immediatamente
lesiva, venne proposto ricorso giurisdizionale (non già il
25.03.2011, come inesattamente affermato dalla difesa del
Comune, ma) nel 2008; detta scelta non appare neppure
dilatoria ma, anzi, pur potendosi attendere la definitiva
approvazione della variante, la ditta ebbe ad attivarsi giurisdizionalmente.
Il Collegio ben conosce l’orientamento di autorevole
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato Sez. V,
12.02.2013, n. 799 “in tema di responsabilità civile della
P.A. l'omessa impugnazione di un atto amministrativo lesivo
può rilevare unicamente ai fini del riconoscimento o della
quantificazione del danno, quale comportamento
–rispettivamente- determinante o meramente concausale del
pregiudizio subito, ai sensi e per gli effetti dell'art.
1227 c.c.”) in punto di applicabilità dell’art. 1227 cc con
riferimento alla omessa attivazione in sede giurisdizionale
del danneggiato.
E sono note le critiche che ad esso ha mosso qualificata
dottrina –muovendo dalla interpretazione che di tale art.
1227 cc ha costantemente reso la giurisprudenza civile di
legittimità-.
Tuttavia non ha luogo nel caso di specie ad immorare su
detta tematica per una troncante ragione: avuto riguardo
all’andamento processuale ed alla scansione temporale
siccome sinteticamente riassunta nessun addebito può
muoversi alla richiedente ditta in proposito e ciò in
disparte la circostanza che essa, addirittura, ebbe a
versare le somme (€ 17.561.00) dovute all’Amministrazione a
titolo di onere concessorio (somme che, certamente, dovranno
comunque essere restituite)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2014 n. 45 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
E' ormai consolidato in
giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di
un’opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero
legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di
legge, non è di per sé in grado di determinare il
trasferimento della proprietà del bene a favore della
Amministrazione.
Deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che
riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla
irreversibile trasformazione del fondo che ad essa consegue
effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma
specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la
suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato
integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo
d’acquisto..
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio
giuridico, o ad un decreto espropriativo adottato all’esito
di un rinnovato procedimento di pubblica utilità, ovvero, se
del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001, può precludere la restituzione del bene: di guisa
che, in assenza di un tale atto, è obbligo primario della
Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
quest’ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o
della disponibilità fondo, potendo invece agire per la
restituzione di esso e per il risarcimento del danno
conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo
di occupazione illegittima.
---------------
La persistente occupazione dei terreni di proprietà del
ricorrente in assenza di un valido titolo idoneo a
trasferirne la proprietà alla P.A. (decreto di esproprio,
cessione volontaria, atto di acquisizione ex art. 42-bis)
configura un illecito permanente che obbliga la P.A. alla
restituito in integrum, oltre che al risarcimento del danno
per il mancato godimento dei beni durante il periodo di
occupazione illegittima.
La restituito in integrum non può essere paralizzata dalla
presenza dell’opera pubblica, la quale non dà titolo per
opporre l’eccessiva onerosità della rimozione delle opere
nel frattempo realizzate né per invocare il principio di cui
al comma 2 dell’art. 2933 cod. civ.: infatti l’eccessiva
onerosità di cui all’art. 2058 cod. civ. non è opponibile
nelle azioni intese a far valere un diritto reale, il cui
carattere assoluto non lascia margini a modalità di
reintegrazione diverse da quella in forma specifica, salva
diversa volontà del titolare.
La Pubblica Amministrazione è tenuta a far cessare tale
occupazione illecita in una delle forme attualmente previste
dall’ordinamento (restituzione e risarcimento del danno;
accordo col privato proprietario; decreto di acquisizione ex
art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), anche perché la persistente
occupazione abusiva non fa che aggravare l’entità del
risarcimento del danno che l’Amministrazione sarà
necessariamente chiamata a pagare al privato proprietario, e
quindi, correlativamente, anche la consistenza del danno
erariale causato da tale comportamento illecito.
Questa Sezione ha già avuto modo di
rilevare che è ormai consolidato in giurisprudenza il
principio per cui la realizzazione di un’opera pubblica su
fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente
occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di
per sé in grado di determinare il trasferimento della
proprietà del bene a favore della Amministrazione.
Deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento
che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed
alla irreversibile trasformazione del fondo che ad essa
consegue effetti preclusivi o limitativi della tutela in
forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che
la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente
occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a
titolo d’acquisto (TAR Piemonte, sez. I, 10.05.2013, n.
607; TAR Piemonte, sez. I, 30.08.2012 n. 985).
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere
fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la
richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata
ad ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall’opera pubblica (TAR Piemonte, sez. I, sentenze
citate).
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un
formale atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un
negozio giuridico, o ad un decreto espropriativo adottato
all’esito di un rinnovato procedimento di pubblica utilità,
ovvero, se del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis
D.P.R. 327/2001, può precludere la restituzione del bene: di
guisa che, in assenza di un tale atto, è obbligo primario
della Amministrazione quello di restituire il fondo
illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di
quest’ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un
risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o
della disponibilità fondo, potendo invece agire per la
restituzione di esso e per il risarcimento del danno
conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo
di occupazione illegittima.
Ciò posto, va rilevato che nel caso sottoposto
all’attenzione del collegio non risulta che gli enti
resistenti e la parte ricorrente siano addivenuti alla
sottoscrizione di un accordo per la cessione volontaria
della proprietà dei terreni in questione, né risulta che la
procedura espropriativa sia stata rinnovata e conclusa con
un decreto di esproprio, né infine consta che gli enti
procedenti abbiano acquisito la proprietà dei fondi con
decreto ex art. 43 D.P.R. 327/2001 (ora non più applicabile
per effetto della declaratoria di incostituzionalità della
norma pronunciata con sentenza della Corte Costituzionale n.
293/2010) ovvero ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001, introdotto
con D.L. 98/2011.
Di conseguenza, fatta applicazione dei principi esposti
al precedente paragrafo, il collegio ritiene infondata e
respinge la domanda risarcitoria da “occupazione appropriativa” formulata con il ricorso introduttivo,
perdurando il diritto di proprietà che la ricorrente vanta
sui fondi occupati per la realizzazione dell’opera pubblica.
Peraltro, l’occupazione del terreno della ricorrente da
parte della Pubblica Amministrazione perdura attualmente per
effetto della realizzazione dell’infrastruttura stradale, e
costituisce un fatto illecito permanente, a fronte del quale
l’interessata è tuttora in condizione e nei termini per
proporre le opportune azioni di restituzione e di
risarcimento del danno per il periodo di occupazione
illegittima (decorrente, quest’ultimo, dalla data di
scadenza del periodo di occupazione legittima stabilito nel
decreto di occupazione d’urgenza).
Tali azioni non possono essere esaminate nel presente
giudizio:
- in primo luogo perché non sono state proposte dalla
ricorrente, sicché ogni eventuale decisione del giudice su
tali domande dovrebbe necessariamente fondarsi su un
inammissibile stravolgimento del thema decidendum, così come
definito dal petitum e dalla causa petendi della domanda
effettivamente proposta in giudizio dalla ricorrente;
- in secondo luogo perché, quanto ai profili restitutori,
non è affatto certo che un’eventuale domanda in tal senso
potrebbe oggi essere accolta nei confronti degli odierni
convenuti, nessuno dei quali sembra attualmente nel possesso
o nella detenzione del bene di cui si controverte (secondo
le non contestate deduzioni della difesa comunale, la
gestione delle strade realizzate sul terreno di proprietà
della ricorrente sembrerebbe essere passata prima alla
Regione Piemonte, e attualmente alle Provincie di Novara e
del VCO).
Nel contempo, peraltro, va anche considerato che la
persistente occupazione dei terreni di proprietà del
ricorrente in assenza di un valido titolo idoneo a
trasferirne la proprietà alla P.A. (decreto di esproprio,
cessione volontaria, atto di acquisizione ex art. 42-bis)
configura un illecito permanente che obbliga la P.A. alla restituito in integrum, oltre che al risarcimento del danno
per il mancato godimento dei beni durante il periodo di
occupazione illegittima.
La restituito in integrum non può essere paralizzata
dalla presenza dell’opera pubblica, la quale non dà titolo
per opporre l’eccessiva onerosità della rimozione delle
opere nel frattempo realizzate né per invocare il principio
di cui al comma 2 dell’art. 2933 cod. civ.: infatti
l’eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 cod. civ. non è
opponibile nelle azioni intese a far valere un diritto
reale, il cui carattere assoluto non lascia margini a
modalità di reintegrazione diverse da quella in forma
specifica, salva diversa volontà del titolare (TAR Piemonte,
sez. I. 30.08.2012, n. 985; Cass. Civ. sez. II n.
2359/2012).
La Pubblica Amministrazione è tenuta a far cessare tale
occupazione illecita in una delle forme attualmente previste
dall’ordinamento (restituzione e risarcimento del danno;
accordo col privato proprietario; decreto di acquisizione ex
art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), anche perché la persistente
occupazione abusiva non fa che aggravare l’entità del
risarcimento del danno che l’Amministrazione sarà
necessariamente chiamata a pagare al privato proprietario, e
quindi, correlativamente, anche la consistenza del danno
erariale causato da tale comportamento illecito.
Allo stato non è chiaro chi detenga attualmente il
terreno: da quanto è emerso in giudizio, sembrerebbe di
comprendere le Province di Novara e del VCO.
Pertanto, la presente sentenza sarà comunicata dalla
Segreteria di questo TAR anche alle Province di Novara e del
VCO affinché provvedano, nel caso in cui detengano il
terreno di proprietà della ricorrente in qualità di gestori
(di distinte porzioni) della strada realizzata sullo stesso,
ad adottare le opportune iniziative volte a far cessare
l’illecita occupazione del terreno medesimo.
In relazione ai profili di danno erariale allo stato
già insiti nella vicenda esaminata, copia della presente
sentenza sarà trasmessa anche alla Procura regionale della
Corte dei Conti, per quanto di competenza.
Conclusivamente, sulla scorta di tali considerazioni e con
le predette puntualizzazioni, il ricorso va respinto, salva
la facoltà della ricorrente di introdurre autonomo giudizio
nei confronti degli aventi titolo per la restituzione del
bene e per il risarcimento del danno per il periodo di
occupazione illegittima
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.01.2014 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La destinazione impressa ad aree a “servizi di
standard”, di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce un
vincolo preordinato all'esproprio in quanto, a differenza
del vincolo conformativo, comporta l'inedificabilità del
suolo o, comunque, incide in maniera significativa e per un
tempo irragionevole sulla proprietà dell'interessato.
I ricorrenti impugnano gli atti indicati in
epigrafe limitatamente alla parte in cui hanno confermato la
destinazione a standards di una porzione dell’area di loro
proprietà, mentre non contestano la residua parte degli
stessi provvedimenti relativa al ripristino della
destinazione agricola della restante porzione dell’area.
I ricorrenti agiscono, pertanto, a tutela dell’interesse
sostanziale a conseguire l’eliminazione del vincolo
preordinato all’esproprio impresso dagli atti impugnati su
una porzione del terreno di loro proprietà.
La destinazione impressa ad aree a “servizi di standard”, di
cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce un vincolo
preordinato all'esproprio in quanto, a differenza del
vincolo conformativo, comporta l'inedificabilità del suolo
o, comunque, incide in maniera significativa e per un tempo
irragionevole sulla proprietà dell'interessato (da ultimo,
TAR Latina, sez. I, 28.10.2013 n. 810; conf. TAR
Napoli, Sez. VII, 14.01.2011, n. 181; TAR Milano,
Sez. II, 21.10.2009, n. 4787)
Sennonché, nel caso di specie tale vincolo non esiste più,
essendo decaduto sin dal 2005 ai sensi dell’art. 9 del
d.p.r. n. 327/2001 (nonché del previgente art. 2 della l. n.
1187/1968). L’art. 9 del d.p.r. 327/2001 prevede che “Il
vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque
anni. Entro tale termine, può essere emanato il
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera (comma 2). Se non è tempestivamente
dichiarata la pubblica utilità dell'opera, il vincolo
preordinato all'esproprio decade e trova applicazione la
disciplina dettata dall'articolo 9 del testo unico in
materia edilizia approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380 (comma 3). Il vincolo
preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere
motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei
procedimenti previsti nel comma 1 e tenendo conto delle
esigenze di soddisfacimento degli standard” (comma 4).
La difesa comunale ha dato atto che il vincolo a standard,
introdotto il 12.06.2000 con l’atto di approvazione
regionale della Variante n. 4 al PRGI di Oleggio, è decaduto
ex lege non essendo stato reiterato alla sua scadenza
quinquennale, né avendo il Comune avviato la procedura
ablatoria; anche lo stato dei luoghi è rimasto immutato
rispetto alla situazione preesistente all’adozione degli
atti impugnati.
Ne consegue che i ricorrenti non hanno evidentemente
più interesse a chiedere l’eliminazione di un vincolo che è
già decaduto ipso iure. E dal momento che l’intero ricorso
si fonda sull’interesse dei ricorrenti ad ottenere
l’eliminazione del predetto vincolo, ne consegue
ulteriormente che il gravame, non più sorretto da tale
interesse, va dichiarato improcedibile
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.01.2014 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che tra
gli interventi di “manutenzione straordinaria”, assoggettati
a regime autorizzativo e non concessorio, rientrino anche
quelli consistenti della “demolizione e fedele ricostruzione
di un fabbricato preesistente”, in quanto la realizzazione
del nuovo fabbricato, siccome identico al preesistente, non
introduce alcun elemento di novità nel tessuto urbanistico.
Il ricorso è infondato e va respinto.
Dagli atti versati in giudizio si evince che la società
ricorrente è subentrata in data 31.05.1999 nella concessione
edilizia già rilasciata dal Comune di Novara ad altro
operatore per -tra l’altro- la ristrutturazione e
l’ampliamento di un fabbricato esistente in fregio a via
Morandi, denominato corpo “B”. Durante i lavori di scavo la
società ricorrente avrebbe riscontrato alcune gravi
patologie nel terreno di fondazione, che nel corso dei
lavori avrebbero determinato crolli e cedimenti di alcune
strutture, tanto che la ricorrente avrebbe ritenuto
“necessaria un’opera di demolizione e ricostruzione”.
Ultimati i lavori di demolizione e ricostruzione, la
ricorrente ha formulato istanza di concessione in variante
o, in subordine, di concessione in sanatoria. Il Comune ha
accolto l’istanza di sanatoria invitando l’interessata al
pagamento a titolo di oblazione della somma di £
228.232.560, “come previsto dall’art. 13 della Legge n. 47
del 28.02.1985”. La ricorrente ha contestato tale
quantificazione, pur provvedendo ugualmente al pagamento
richiesto con riserva di rivalsa (parziale).
Ciò posto, va osservato che l’art. 13, comma 3, della L.
28.02.1985 n. 47 dispone che “Il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato al pagamento, a
titolo di oblazione, del
contributo di concessione in misura doppia, ovvero, nei soli
casi di gratuità della concessione a norma di legge, in
misura pari a quella prevista dagli articoli 3, 5, 6 e 10
della legge 28.01.1977, n. 10”.
Tra gli interventi soggetti a concessione gratuita vi
sono quelli di “manutenzione straordinaria” di cui all’art.
9, lettera c), della L. 28.01.1977, n. 10.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che tra gli
interventi di “manutenzione straordinaria”, assoggettati a
regime autorizzativo e non concessorio, rientrino anche
quelli consistenti della “demolizione e fedele ricostruzione
di un fabbricato preesistente”, in quanto la realizzazione
del nuovo fabbricato, siccome identico al preesistente, non
introduce alcun elemento di novità nel tessuto urbanistico.
La tesi di parte ricorrente si ricollega, e prende
spunto, proprio da tale giurisprudenza.
Secondo la ricorrente, erroneamente l’amministrazione
avrebbe quantificato l’importo dell’oblazione in misura pari
al doppio del contributo di concessione, dal momento che
l’intervento realizzato, consistendo nella “demolizione e
fedele ricostruzione” dell’edificio preesistente, sarebbe
riconducibile alla categoria degli interventi di
“manutenzione straordinaria” soggetti a concessione gratuita
ex art. 9, lettera c), della L. 28.01.1977, n. 10, e come tali
assoggettati al pagamento dell’oblazione ragguagliata al
contributo di concessione in misura ordinaria, secondo
quanto previsto dalla norma appena citata.
Osserva il collegio che tale prospettazione è
infondata, in quanto poggia su un presupposto di fatto -quello secondo cui l’intervento realizzato consisterebbe
nella “demolizione e fedele ricostruzione” dell’edificio
preesistente– che appare smentito documentalmente.
In particolare:
- nella stessa relazione tecnica allegata dalla ricorrente
alla propria istanza di concessione in variante, redatta dal
geom. Z. e dall’ing. F., si fa espresso
riferimento “ad una nuova definizione dei materiali di
facciata ed una diversa disposizione interna dei locali e
delle scale”; si afferma che “si sono leggermente ingranditi
i balconi al piano dei giardini privati e, al fine di
contenere i volumi riscaldati degli alloggi, si sono ridotte
le altezze utili interne”; soprattutto si ammette che “Per
quanto concerne la struttura…le varianti sono state
sostanziali…”;
- nella concessione in variante e sanatoria n. 5940 del 06.04.2001, si fa riferimento, relativamente al corpo di
fabbrica “B”, a “modifiche del piano interrato,
all’eliminazione di un corpo di fabbrica interno, alla
diversa sistemazione delle aree scoperte di Via Rosmini 24 e
Via Morandi 3-5”;
- nella planimetria prodotta in giudizio dalla difesa
comunale (doc. 4), non contestata dalla difesa di parte
ricorrente, si evidenzia graficamente anche la diversità
della sagoma dell’edificio realizzato rispetto a quella
dell’edificio originariamente progettato e oggetto della
concessione iniziale del 1999.
E’ dunque documentale che non si sia trattato di una
“fedele ricostruzione” del fabbricato previsto dal progetto
inizialmente assentito dal Comune, e tanto meno di una
fedele ricostruzione del fabbricato preesistente.
Si è trattato, invece, di una ristrutturazione c.d.
“pesante”, se non addirittura di una “nuova costruzione”,
realizzata con la demolizione dell’edificio preesistente e
l’edificazione di un organismo edilizio nuovo e diverso,
almeno in parte, da quello originario.
Ne consegue che l’intervento non può essere annoverato
tra quelli di manutenzione straordinaria di cui all’art. 9,
lettera c), della L. n. 10/1977 assoggettati a concessione
gratuita. Ne consegue ulteriormente che il rilascio della
concessione in sanatoria è stata correttamente sottoposta al
pagamento dell’oblazione in misura pari al doppio del
contributo di costruzione, secondo quanto previsto dall’art.
13, comma 3, della L. n. 47/1985.
Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso va respinto
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.01.2014 n. 40 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Gli
architetti hanno la competenza esclusiva sugli edifici
storici.
E’ quanto statuito dal
Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 09.01.2014 n. 21.
In Italia le professioni di ingegnere e di architetto sono
disciplinate dal Regio Decreto 2537/1925.
L’art. 52 del decreto assegna la competenza per le opere di
edilizia civile sia agli ingegneri che agli architetti.
La Corte di giustizia dell’UE ha chiarito che
la direttiva europea 85/384/CEE non impone allo
Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e
in ingegneria civile su un piano di perfetta parità per
quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in
Italia né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una
normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori
riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico
sottoposti a vincolo
(in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/2006, cit.).
Successivamente la Corte ha chiarito che “quando
si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato
membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt.
10 e 11, lett. g)- né il principio della parità di
trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce,
in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di
architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli
architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili
vincolati appartenenti al patrimonio artistico”.
L’esame della normativa comunitaria rende chiaro che
l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti –per così
dire– ‘a regìme’ è consentita solo ai professionisti
i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione
tipico della professione di architetto.
Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3,
individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi
formativi nazionali devono possedere affinché i
professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano
plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che
consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al
mutuo riconoscimento e alla libera circolazione.
Esaminando il contenuto minimo obbligatorio che la direttiva
europea impone affinché un determinato percorso di
formazione sia incluso fra quelli che consentono di invocare
il mutuo riconoscimento, ci si rende conto che tali
requisiti sono pienamente compatibili con il consolidato
orientamento del CdS il quale ha ritenuto del tutto congrua
e non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo
52 del R.D. 2537 del 1925.
La giurisprudenza del CdS ha giustificato dal punto di vista
sistematico la richiamata, parziale riserva sul rilievo
secondo cui “per quanto nel corso di
studi degli ingegneri civili non manchino approfondimenti
significativi nel settore dell’architettura, al
professionista architetto si riconosce generalmente una
maggiore capacità, frutto di maggiori studi e
approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano
storico e di un più marcato approccio umanistico alla
professione, di penetrare le problematiche e le sottese
valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di
rilevanza artistica”
(in tal senso, da ultimo, la stessa ordinanza di rimessione
di questa Sezione n. 386/2012, dinanzi richiamata).
Con le motivazioni di sopra riportate il Consiglio di Stato
ha respinto il ricorso in appello n. 2527/2009 proposto
dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia,
Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno avente ad
oggetto controversie insorte in ordine alla legittimità di
determinazioni amministrative consistite essenzialmente
nell’escludere professionisti italiani appartenenti alla
categoria degli ingegneri dal conferimento in Italia di
incarichi afferenti la direzione di lavori da eseguirsi su
immobili di interesse storico-artistico (commento tratto da
www.tecnici24.ilsole24ore.com).
---------------
Giunge alla decisione del Collegio il
ricorso in appello proposto dal Ministero per i beni e le
attività culturali avverso la sentenza del TAR del Veneto
con cui è stato accolto il ricorso proposto dall’Ingegner
Mosconi e dall’Ordine degli Ingegneri di Verona e provincia
e per l’effetto –previa disapplicazione delle disposizioni
di cui all’articolo 52 del r.d. 2537 del 23.10.1925
(‘Approvazione del regolamento per le professioni
d’ingegnere e di architetto’)- è stato disposto
l’annullamento del provvedimento con cui la competente
Soprintendenza aveva negato il subentro dell’Ingegner
Mosconi nella direzione di alcuni lavori da realizzarsi su
un immobile sottoposto a vincolo ai sensi del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490 (‘Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997,
n. 352’ – in seguito: decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42 -).
Giunge, altresì, alla decisione del Collegio il ricorso
proposto da sette Ordini degli ingegneri della Regione
Veneto avverso la sentenza del TAR del Veneto con cui è
stato respinto il ricorso da essi proposto avverso il bando
e il disciplinare di gara per l’affidamento del servizio di
direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione dei lavori di restauro e recupero
funzionale di alcuni immobili sottoposti a vincolo ai sensi
del richiamato decreto legislativo n. 490 del 1999.
Va disposta anzitutto la riunione dei ricorsi in appello
di cui in epigrafe atteso che gli stessi, supponendo la
soluzione di analoghe questioni giuridiche, meritano di
essere trattati congiuntamente per essere definiti con
un’unica sentenza.
Nel merito, il ricorso n. 6736/2008 –proposto dal
Ministero per i beni e le attività culturali– deve essere
accolto, mentre deve essere respinto il ricorso n. 2527/2009
–proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del
Veneto-.
Giova premettere che la questione della complessiva
compatibilità de iure communitario della parziale riserva di
cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 è stata
scrutinata da questo Giudice di appello attraverso un filone
giurisprudenziale ormai consolidato (e le cui conclusioni
sono qui condivise) il quale è giunto a soluzioni
sostanzialmente condivise circa l’insussistenza di profili
di incompatibilità con i pertinenti dettami del diritto
dell’Unione europea (ex multis: Sez. VI, 16.05.2006, n.
2776; id., VI, 11.09.2006, n. 5239; id., VI, 24.10.2006, n. 6343).
Con la presente decisione, quindi, ci si domanderà in
particolare se le conclusioni cui il richiamato orientamento
è sino ad oggi pervenuto possano essere in qualche misura
revocate in dubbio in considerazione del paventato rischio
che le disposizioni di cui al richiamato articolo 52 possano
determinare, in danno degli Ingegneri italiani, un fenomeno
di ‘reverse discrimination’ –o discriminazione alla
rovescia– (un fenomeno, quest’ultimo, noto alla normativa e
alla giurisprudenza nazionale e in relazione al quale il
Legislatore ha da ultimo approntato un rimedio generale di
tutela preventiva attraverso l’adozione dell’articolo 53
della l. 24.12.2012, n. 234 –sul punto, v. infra-).
Tanto premesso sotto l’aspetto generale, si svolgeranno qui
di seguito alcune considerazioni utili a delimitare il campo
d’indagine della presente decisione.
Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione
dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva, la
giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente
osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la
totalità degli interventi concernenti gli immobili di
interesse storico e artistico deve essere affidata alla
specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti
di intervento di edilizia civile che riguardino scelte
culturali connesse alla maggiore preparazione accademica
conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e
risanamento degli immobili di interesse storico e
artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere
civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali
e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile
vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11.09.2006, n. 5239).
Il che, come è evidente, sortisce di per sé l’effetto di
ridurre grandemente la portata di un eventuale effetto di
‘reverse discrimination’ (effetto che, comunque –e per le
ragioni che nel prosieguo si esporranno– non è comunque nel
caso di specie configurabile).
Ed infatti, nonostante alcune enfatizzazioni sul punto
contenute nelle difese delle parti in causa, la presente
controversia non involge la generale questione della
delimitazione oggettiva delle professioni di architetto e di
ingegnere (si tratta di una questione che, allo stato
attuale di evoluzione dell’ordinamento comunitario, non
conosce misure di armonizzazione al livello UE, né
interventi di ravvicinamento delle legislazioni), né le
condizioni di accesso a tali professioni.
Allo stesso modo, la presente controversia non riguarda la
più o meno integrale assimilazione fra i due ambiti
professionali al livello comunitario o nazionale, ma
concerne (anche all’esito delle indicazioni interpretative
fornite dalla Corte di giustizia) la ben più limitata
questione relativa al se la previsione di cui al più volte
richiamato articolo 52 determini una ‘discriminazione alla
rovescia’ in danno dell’ingegnere italiano nei confronti
dell’ingegnere di un qualunque altro Paese dell’Unione
europea e in relazione ad alcune soltanto delle attività che
l’architetto può esercitare in relazione alle opere ed
interventi che presentano rilevante carattere artistico o
che riguardano beni di interesse storico e culturale (ci si
riferisce alle sole opere di edilizia civile, con esclusione
dell’ampio novero degli interventi inerenti la c.d. ‘parte
tecnica’).
Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della
parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52,
la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta
dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di
giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le
disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il
reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri
titoli del settore dell'architettura e comportante misure
destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di
stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo
trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in
alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di
architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio
delle attività professionali nel campo dell’architettura.
Al riguardo, la stessa Corte di Giustizia ha chiarito che la
direttiva 85/384/CEE non si propone di disciplinare le
condizioni di accesso alla professione di architetto, né di
definire la natura delle attività svolte da chi esercita
tale professione. In particolare, dal nono “considerando” di
tale direttiva risulta che il suo articolo 1, n. 2, non
intende fornire una definizione giuridica delle attività del
settore dell’architettura.
Spetta, piuttosto, alla normativa nazionale dello Stato
membro ospitante individuare le attività che ricadono in
tale settore.
Al contrario, la direttiva 85/384/CEE ha ad oggetto
solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati
membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli
rispondenti a determinati requisiti qualitativi e
quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di
agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento
e di libera prestazione di servizi per le attività del
settore dell’architettura, come emerge dal secondo
“considerando” della medesima direttiva.
Tale direttiva prevede, inoltre, un regime transitorio
diretto, in particolare, a preservare i diritti acquisiti
dai possessori di titoli già rilasciati dagli Stati membri
anche qualora tali titoli non soddisfino i detti requisiti
minimi.
Inoltre (come chiarito dalla medesima Corte di giustizia),
sebbene l’art. 11, lett. g), della direttiva 85/384
menzioni, per l’Italia, i diplomi di “laurea in
architettura” e di “laurea in ingegneria” come titoli che
beneficiano del regime transitorio previsto dall’art. 10 di
tale direttiva, ciò è solo al fine di assicurare il
riconoscimento di tali diplomi da parte degli altri Stati
membri, e non allo scopo di armonizzare, nello Stato membro
interessato, i diritti conferiti da tali diplomi per quanto
riguarda l’accesso alle attività di architetto (in tal
senso, l’ordinanza della Corte 05.04.2004 in causa
C-3/02, resa nell’ambito di un rinvio pregiudiziale
sollevato dal TAR del Veneto nell’ambito del ricorso di
primo grado n. 1994/2001 –Mosconi Alessandro e altri-).
In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte
richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i
diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile
indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per
quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in
Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una
normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori
riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico
sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent.
5239/2006, cit.).
La Corte di giustizia (la quale –come si è detto in
precedenza– è stata adita per ben due volte nel corso della
presente vicenda contenziosa ai sensi dell’articolo 234 del TCE –in seguito: articolo 267 del TFUE-) ha reso
statuizioni che risultano determinanti al fine di delimitare
e definire la controversia nel suo complesso.
Con la prima di tali decisioni (si tratta
dell’ordinanza in data 05.04.2004 sul ricorso C-3/02,
resa sull’ordinanza di rimessione del TAR del Veneto n.
4236/2001) la Corte ha chiarito:
- che l’articolo 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925
non è ex se incompatibile con la direttiva comunitaria
85/384/CEE, in quanto (come si è già anticipato)
quest’ultima non si propone di disciplinare le condizioni di
accesso alla professione di architetto né di definire la
natura delle attività svolte da chi esercita tale
professione, ma soltanto di garantire “il reciproco
riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi,
dei certificati e degli altri titoli rispondenti a
determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in
materia di formazione allo scopo di agevolare l'esercizio
effettivo del diritto di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi per le attività del settore
dell'architettura”;
- che la richiamata direttiva non obbliga in alcun modo gli
Stati membri a porre i diplomi di laurea in architettura ed
in ingegneria civile (con particolare riguardo a quelli
indicati all'articolo 11) su un piano di perfetta parità ai
fini dell'accesso alla professione di architetto in Italia,
ma, in coerenza con il principio di non discriminazione tra
Stati membri, impone soltanto di non escludere da tale
accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma
di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un
altro Stato membro, laddove tuttavia (e si tratta di un
chiarimento determinante ai fini della presente decisione)
tale titolo risulti abilitante –in base alla normativa di
quello Stato membro– all’esercizio di attività nel settore
dell’architettura (e nel prosieguo della presente decisione
si vedrà che tale possibilità non può essere ammessa in modo
indiscriminato ai professionisti ingegneri, ma solo al
ricorrere di alcune tassative condizioni);
- che la direttiva 85/384/CEE non trova in definitiva
applicazione in relazione alla fattispecie di causa, poiché
le relative disposizioni non impongono in alcun modo
all’Italia di non escludere gli ingegneri civili che hanno
conseguito in Italia il proprio titolo dall’attività di cui
all’articolo 52, comma 2, del R.D. 2537 del 1925 (ma le
impongono soltanto di non escludere –nella logica del mutuo
riconoscimento e della libera circolazione che caratterizza
la direttiva in parola- gli ingegneri civili o possessori
di analoghi titoli conseguiti in altri Stati membri al
ricorrere delle condizioni dinanzi richiamate).
Sotto tale aspetto, la Corte ha svolto una considerazione
che ha in seguito assunto un rilievo dirimente nella
complessiva economia del giudizio, laddove ha affermato che
“è vero che, come sostiene la Commissione, ne può derivare
una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri
civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non
hanno accesso, in tale Stato membro, all'attività di cui
all'art. 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925, mentre
tale accesso non può essere negato alle persone in possesso
di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo
rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia
menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della
direttiva 85/384/CEE o in quello di cui all’art.11 della
detta direttiva. 53. Tuttavia, dalla giurisprudenza della
Corte emerge che, quando si tratta di una situazione
puramente interna come quella di cui alla causa principale,
il principio della parità di trattamento sancito dal diritto
comunitario non può essere fatto valere. In una situazione
del genere spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia
una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del
caso, decidere come essa debba essere eliminata (…)”.
Di conseguenza, la Corte ha concluso nel senso che “quando
si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato
membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt.
10 e 11, lett. g) -né il principio della parità di
trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce,
in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di
architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli
architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili
vincolati appartenenti al patrimonio artistico”.
Con la seconda delle richiamate decisioni (si tratta
della sentenza della quinta sezione del 21.02.2013 sul
ricorso C-111/12, resa sull’ordinanza di rimessione del
Consiglio di Stato n. 386/2012) la Corte ha dovuto
pronunziarsi su un’ulteriore ipotesi ricostruttiva
prospettata da questo Consiglio di Stato in sede di
ordinanza di rimessione.
In particolare, questo Giudice di appello (mosso
dall’evidente intento di rinvenire una sintesi fra –da un
lato- l’obbligo di matrice comunitaria di operare il mutuo
riconoscimento delle professionalità straniere coperte dalle
previsioni della direttiva 85/384/CEE e –dall’altro-
l’esigenza di prevenire i richiamati, possibili fenomeni di
‘reverse discrimination’) aveva ipotizzato un sistema
applicativo volto a temperare entrambe le richiamate
esigenze.
Segnatamente, con l’ordinanza di rimessione n. 386/2012
questo Consiglio aveva ipotizzato l’introduzione (invero, ex
novo) di una prassi applicativa consistente nel sottoporre
anche i professionisti provenienti da altri Paesi membri
dell’UE (e ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo
all’esercizio delle attività rientranti nel settore
dell’architettura), a una specifica ed ulteriore verifica di
idoneità professionale (in tutto simile a quelle svolta nei
confronti dei professionisti italiani in sede di esame di
abilitazione alla professione di architetto) ai limitati
fini dell’accesso alle attività professionali contemplate
nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n
2357 del 1925.
Come si è anticipato in narrativa, la Corte di giustizia non
ha condiviso l’ipotesi formulata da questo Consiglio di
Stato e ha concluso nel senso che gli articoli 10 e 11 della
direttiva 85/384/CEE devono essere interpretati nel senso
che essi ostano ad una normativa nazionale (rectius: a una
prassi applicativa, quale quella ipotizzata in sede di
ordinanza di rimessione) secondo cui persone in possesso di
un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato
membro ospitante (titolo, questo, abilitante all’esercizio
di attività nel settore dell’architettura ed espressamente
menzionato al citato articolo 11), possono svolgere, in
quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di
interesse artistico solamente qualora dimostrino,
eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della
loro idoneità professionale, di possedere particolari
qualifiche nel settore dei beni culturali.
In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi
pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana
rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione
alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché
ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non
includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito
sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame –punto 34 della motivazione-).
Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e
chiarire ulteriormente i contorni applicativi della
normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente,
degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli
7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire
a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro
conoscitivo più completo per definire il giudizio –ad esso
solo demandato in via esclusiva– relativo alla sussistenza
o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla
rovescia.
Ebbene, impostati in tal modo i termini concettuali della
questione, il Collegio ritiene che l’esame degli atti di
causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale
non palesino i paventati profili di discriminazione alla
rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale
(nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel
ricorso n. 2527/2009, condivisa dal TAR del Veneto con la
sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e
irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività
professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di
interesse storico e artistico) le quali –al contrario–
sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli
Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea.
Al riguardo si osserva in primo luogo che la richiamata
sentenza n. 3630/2007 sembra essere incorsa in una
semplificazione eccessiva dei termini della questione
laddove (indotta forse dalle abili prospettazioni di parte)
ha descritto un quadro normativo e applicativo non
coincidente con quello effettivamente riscontrabile.
Secondo il TAR, in particolare, sussisterebbe una
‘evidente’ disparità di trattamento ai danni degli ingegneri
civili italiani (pag. 9 della motivazione) in quanto, di
fatto, a tutti gli ingegneri civili italiani sarebbero
indiscriminatamente vietate tutte le attività riconducibili
all’articolo 52, cit., mentre –al contrario– a tutti gli
ingegneri civili di altri Paesi dell’Unione l’esercizio di
quelle stesse attività sarebbe indiscriminatamente
consentito.
Secondo i primi Giudici, in particolare, “nel momento
in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile
laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria
dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma
interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un
parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della
norma interna contrastante con quella europea”.
Al riguardo i primi Giudici proseguono affermando che “è
evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli
ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i
quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti
europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare,
diversamente da questi ultimi, l’attività professionale
riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta
l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando
causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto
comunitario, va risolta con la disapplicazione della
disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti
applicativi”.
Al riguardo si osserva:
- che, come più volte chiarito, nello stato attuale di
evoluzione del diritto comunitario, la disciplina
sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri
non costituisce oggetto di armonizzazione, né di
ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo
stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di
accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta
esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10
della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit.
avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano
comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”;
- che lo stesso passaggio dell’ordinanza della Corte di
giustizia del 05.04.2004 il quale ha ipotizzato la
sussistenza nell’ordinamento italiano di un’ipotesi di
‘reverse discrimination’ in danno dell’ingegnere civile
italiano e in favore di ogni altro ingegnere di altri Paesi
UE, non ha in alcun modo affermato la sicura sussistenza di
una siffatta discriminazione, ma ne ha soltanto ipotizzato
la possibilità, al ricorrere di taluni presupposti
soggettivi e oggettivi, la cui ricorrenza dovrà essere
scrutinata dal Giudice nazionale del rinvio. In particolare,
con la decisione dell’aprile 2004, la Corte ha affermato che
tale ipotesi potrebbe verificarsi nella sola ipotesi in cui
il possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo
analogo rilasciato da altro Paese dell’UE fosse
espressamente menzionato negli elenchi redatti –per così
dire: - ‘a regìme’ ai sensi dell’articolo 7 della direttiva
85/384/CEE, ovvero nello speciale elenco transitorio di cui
agli articoli 10 e 11 della medesima direttiva e laddove
analoga possibilità fosse esclusa nei confronti di un
professionista italiano in possesso dei medesimi requisiti.
Tuttavia, è del tutto determinante osservare che
(contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza
n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli
ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009)
non tutti i
diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile
rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono
l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie
della professione di architetto.
Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria
(e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva
85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi
nazionali predisposti –per così dire– ‘a regìme’ ai sensi
del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti
i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione
tipico della professione di architetto.
Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3,
individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi
formativi nazionali devono possedere affinché i
professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano
plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che
consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al
mutuo riconoscimento e alla libera circolazione (diritto in
quale rappresenta, a ben vedere, l’ubi consistam del
complesso sistema delineato dalla medesima direttiva
85/384/CEE).
Ma, se solo ci si sofferma ad esaminare il contenuto minimo
obbligatorio che la direttiva in questione impone affinché
un determinato percorso di formazione sia incluso fra quelli
che consentono di invocare il richiamato mutuo
riconoscimento, ci si rende conto che tali requisiti sono
pienamente compatibili con il consolidato orientamento di
questo Consiglio il quale ha ritenuto del tutto congrua e
non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo 52
del R.D. 2537 del 1925.
Come è noto, infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio
ha giustificato dal punto di vista sistematico la
richiamata, parziale riserva sul rilievo secondo cui “per
quanto nel corso di studi degli ingegneri civili non
manchino approfondimenti significativi nel settore
dell’architettura, al professionista architetto si riconosce
generalmente una maggiore capacità, frutto di maggiori studi
e approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul
piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla
professione, di penetrare le problematiche e le sottese
valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di
rilevanza artistica” (in tal senso, da ultimo, la stessa
ordinanza di rimessione di questa Sezione n. 386/2012,
dinanzi richiamata).
Ebbene, l’approccio in questione risulta del tutto
compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva
85/384/CEE la quale (al di là della coincidenza
nominalistica dei titoli professionali di riferimento –‘architetto’ piuttosto che ‘ingegnere’-) ammette
l’esercizio in regìme di mutuo riconoscimento e di libera
circolazione delle attività tipiche della professione di
architetto a condizione che il professionista in questione
possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui
contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di
carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via
necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel
settore dei beni storici e di interesse culturale.
Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in
modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso
formativo che legittima un professionista ad invocare il
regìme di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività
tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della
storia e delle teorie dell’architettura nonché delle arti,
tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una
conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono
influire sulla qualità della concezione architettonica”.
Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione
secondo l’approccio sostanzialistico proprio
dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni
puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in
tutto coincidente con quello fatto proprio dalla
giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato.
Concludendo sul punto:
- non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario
riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi UE diversi
dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani)
l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della
professione di architetto (fra cui –ai fini che qui
rilevano– le attività afferenti le opere di edilizia civile
che presentano rilevante carattere artistico, ovvero
relative ad immobili di interesse storico e artistico);
- al contrario, in base alla pertinente normativa UE,
l’esercizio di tali attività –in regìme di mutuo
riconoscimento- sarà consentito ai soli professionisti i
quali (al di là del nomen iuris del titolo professionale
posseduto) possano vantare un percorso formativo
adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività
tipiche della professione di architetto. Come si è visto,
l’articolo 3 della direttiva 85/384/CEE include in modo
espresso gli studi della storia e delle teorie
dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze
umane fra quelli che integrano il bagaglio culturale minimo
e necessario perché un professionista possa svolgere in
regìme di mutuo riconoscimento le richiamate attività
(anche) in relazione ai beni di interesse storico e
culturale;
- quindi, anche ad ammettere che un professionista non
italiano con il titolo professionale di ingegnere sia
legittimato sulla base della normativa del Paese di origine
o di provenienza a svolgere attività rientranti fra quelle
esercitate abitualmente col titolo professionale di
architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex se una
discriminazione ‘alla rovescia’ in danno dell’ingegnere
civile italiano. Ed infatti, sulla base della direttiva
85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non
sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere nel
Paese di origine o di provenienza, bensì) in quanto tale
professionista non italiano avrà seguito un percorso
formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività
abitualmente esercitate con il titolo professionale di
architetto;
- allo stesso modo, la sussistenza dei richiamati profili di
‘discriminazione alla rovescia’ è da escludere alla luce
dell’articolo 11, lettera g), della direttiva 85/384/CEE,
cit. Ed infatti, in base a tale disposizione, i soggetti che
abbiano conseguito in Italia il diploma di laurea in
ingegneria nel settore della costruzione civile rilasciati
da Università o da istituti politecnici possono nondimeno
esercitare le attività tipiche degli architetti (ivi
comprese quelle di cui al più volte richiamato articolo 52)
a condizione che abbiano altresì conseguito il diploma di
abilitazione all'esercizio indipendente di una professione
nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della
Pubblica Istruzione a seguito del superamento dell'esame di
Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della
professione (in tal modo conseguendo il titolo di ‘dott.
Ing. architetto’ o di ‘dott. Ing. in ingegneria civile’);
- conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema
normativo nazionale di parziale riserva in favore degli
architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D.
2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri
italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’
richiamato dalla sentenza del TAR del Veneto n. 3630/2007
e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di
giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da
parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre –secondo quanto statuito dalla medesima Corte– di
controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente
in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34).
E il richiamato (e meramente paventato) effetto di
‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di
cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto
riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di
cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia
per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui
all’articolo 7 della medesima direttiva.
Per quanto concerne, infatti, il particolare sistema
(transitorio e derogatorio) di cui agli articoli 10 e 11
della direttiva 85/384/CEE, è noto che il primo di tali
articoli ha previsto la possibilità per ciascuno degli Stati
membri di individuare taluni diplomi, certificati e altri
titoli del settore dell’architettura da ammettere sin da
subito al regìme di mutuo riconoscimento, anche a
prescindere dalla piena rispondenza ai requisiti minimi di
formazione di cui all’articolo 3 della medesima direttiva.
Il successivo articolo 11 ha, quindi, individuato per
ciascuno degli Stati membri tali diplomi, certificati ed
altri titoli da ammettere immediatamente al richiamato
regìme di mutuo riconoscimento (per l’Italia, tale regìme di
immediata ammissione ha riguardato:
a) i diplomi di ‘laurea
in architettura’ rilasciati dalle università, dagli istituti
politecnici e dagli istituti superiori di architettura di
Venezia e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di
abilitazione all'esercizio indipendente della professione di
architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica
Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con
successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di
Stato che abilita all'esercizio indipendente della
professione di architetto (dott. architetto);
b) i diplomi
di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione
civile rilasciati dalle università e dagli istituti
politecnici, accompagnati dal diploma di abilitazione
all'esercizio indipendente di una professione nel settore
dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica
Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con
successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di
Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della
professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in
ingegneria civile)).
Ebbene, in relazione a tale periodo transitorio, non è dato
individuare i paventati profili di ‘discriminazione alla
rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani, laddove
si consideri:
- che, esaminando gli elenchi delle professioni ammesse
dagli altri Stati membri al regìme di immediata applicazione
al mutuo riconoscimento, non è dato rinvenire pressoché
alcun caso di professioni che, anche dal punto di vista del
nomen iuris, si discostino dal tipico ambito della
professione di architetto, fino a coincidere con il tipico
ambito della professione di ingegnere.
Le uniche eccezioni a
questa regola sostanzialmente generalizzata sono
rappresentate:
a) dal caso belga dei diplomi di ‘ingegnere civile-architetto’ e di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati
dalle facoltà di scienze applicate delle università e dal
politecnico di Mons;
b) dal caso portoghese del diploma di
genio civile (licenciatura em engenharia civil) rilasciato
dall'Istituto superiore tecnico dell'Università tecnica di
Lisbona;
c) dai casi greci dei diplomi di
‘ingegnere-architetto’ rilasciati da alcuni Istituti di
formazione e dei diplomi di ‘ingegnere-ingegnere civile’
rilasciati dal Metsovion Polytechnion di Atene (in ambo i
casi, peraltro, a condizione che il possesso dei richiamati
diplomi si accompagni a un attestato rilasciato dalla Camera
tecnica di Grecia e conferente il diritto di esercitare le
attività nel settore dell’architettura).
Si tratta, però, di
eccezioni talmente puntuali e limitate da non poter essere
assunte (nella richiamata ottica di carattere
sostanzialistico) quali indizi dell’esistenza di un
effettivo fenomeno di ‘reverse discrimination’ in danno
degli ingegneri civili italiani e in favore di una platea
indiscriminata o quanto meno significativa di ingegneri di
altri Paesi dell’Unione europea;
- che, paradossalmente, esaminando gli elenchi nazionali di
cui al richiamato articolo 11, è proprio il caso italiano
dei professionisti in possesso del diploma di ‘laurea in
ingegneria’ nel settore della costruzione civile (e
nondimeno abilitati per il diritto italiano al’esercizio di
una professione indipendente di una professione nel settore
dell’architettura) a presentare (al pari dei richiamati casi
belgi, portoghesi e greci) possibili profili di vantaggio in
favore dei professionisti nazionali, con potenziali effetti distorsivi in danno degli ingegneri di altri Paesi dell’UE
la cui normativa nazionale di riferimento non consenta agli
ingegneri di conseguire una analoga abilitazione;
- che, in ogni caso, anche a voler ammettere (il che –per
le ragioni appena esaminate– non è) che la disciplina
transitoria e derogatoria di cui ai richiamati articoli 10 e
11 consenta in talune ipotesi a un limitato numero di
ingegneri di alcuni Paesi dell’UE di svolgere in regìme di
mutuo riconoscimento (e quindi anche in Italia) talune
attività nel settore dell’architettura sui beni di interesse
storico e culturale (attività tipicamente sottratte agli
ingegneri italiani); ebbene, anche in questo caso, non si
individuerebbero ragioni sufficienti per ritenere la
sussistenza di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in
danno degli ingegneri italiani, sì da indurre alla
generalizzata disapplicazione della previsione di cui
all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
Al riguardo si
osserva che non appare metodologicamente corretto assumere
quale parametro stabile di valutazione, nell’ambito di un
giudizio volto a stabilire se una discriminazione vi sia
oppure no, talune situazioni per definizione transitorie ed
eccezionali (quali quelle contemplate dagli articoli 10 e 11
della più volte richiamata direttiva del 1985).
E’ evidente al riguardo che, laddove si accedesse alla
soluzione qui non condivisa, si perverrebbe alla
inammissibile conseguenza per cui le situazioni e i dettami
propri di una fase transitoria (assunti quali impropri
parametri stabili di comparazione) costituirebbero essi
stessi un ostacolo definitivo e insormontabile per la piena
entrata a regìme di un sistema di mutuo riconoscimento
basato, invece, sull’oggettiva valutazione di un determinato
livello quali-quantitativo di formazione propedeutica
all’esercizio della professione di architetto.
Per quanto concerne, poi, il sistema –per così dire– ‘a regìme’ delineato dall’articolo 7 della direttiva
85/384/CEE, l’assenza dei richiamati profili di
‘discriminazione alla rovescia’ emerge con tanto maggiore
evidenza laddove si consideri:
- che l’iscrizione di una categoria di professionisti
nell’ambito degli elenchi nazionali ‘a regime’ di cui
all’articolo 7 della direttiva presuppone che il rilascio
dei relativi diplomi, certificati o titoli faccia seguito a
percorsi formativi i cui contenuti minimi e necessari siano
conformi alle previsioni di cui all’articolo 3 della
direttiva (e si è detto in precedenza che tali percorsi
formativi devono comprendere in via necessaria un’adeguata
conoscenza della storia e delle tecniche dell’architettura,
nonché delle belle arti e delle scienze umane –ossia, di
quel complesso di discipline umanistiche che caratterizzano
il bagaglio culturale tipico dell’architetto e il cui
possesso giustifica la parziale riserva professionale di cui
al più volte richiamato articolo 52-);
- che, anche ad ammettere che un professionista di Paese
dell’UE in possesso del titolo di ingegnere possa essere
incluso negli elenchi di cui all’articolo 7, cit. (e sia,
quindi, ammesso ad esercitare in Italia le attività tipiche
dell’architetto anche in relazione ai beni di interesse
storico ed artistico), ciò non costituirà di per sé una
discriminazione in danno dell’ingegnere italiano (nei cui
confronti l’esercizio di quelle stesse attività resta
tipicamente escluso). E infatti, l’inclusione di quella
particolare tipologia di ingegnere UE nell’ambito degli
elenchi di cui all’articolo 7, cit. dimostrerà ex se che
quel professionista ha seguito un percorso formativo idoneo
(anche nei campi della storia e delle tecniche
dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze
umane) tale da giustificare in modo pieno l’esercizio da
parte di quel professionista ingegnere (e al di là delle
limitazioni recate dal nomen iuris della qualifica
professionale posseduta) delle attività abitualmente
esercitate con il titolo professionale di architetto (ivi
comprese quindi, ai fini che qui rilevano, le opere di
edilizia che presentano rilevante carattere artistico e il
ripristino degli edifici di cui alla legge 20.06.1909,
n, 364).
Anche sotto tale aspetto, quindi, deve essere esclusa la
sussistenza della paventata ipotesi di ‘discriminazione alla
rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani.
Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in appello n.
6736/2008 proposto dal Ministero per i beni e le attività
culturali deve essere accolto e per l’effetto, in riforma
della sentenza di primo grado, deve essere respinto il
ricorso di primo grado proposto dall’ingegner Alessandro
Mosconi e dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia
e recante il n. 1994/2001.
Per le medesime ragioni il ricorso in appello n.
2527/2009 proposto dagli Ordini degli ingegneri delle
province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona,
Rovigo e Belluno, deve essere respinto, con conseguente
conferma della sentenza del TAR n. 3651/2008 la quale ha
sancito la legittimità degli atti e delle determinazioni
amministrative le quali avevano escluso gli ingegneri
dall’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei
lavori di restauro e di recuperi funzionale di un immobile
di interesse storico e artistico.
Per quanto riguarda, in particolare, il ricorso in
appello n. 2527/2009 il Collegio deve ora esaminare i motivi
di appello ulteriori e diversi rispetto a quelli inerenti la
portata applicativa del più volte richiamato articolo 52 del
R.D. 2537 del 1925.
In primo luogo si osserva che non può essere accolto
il motivo di appello con cui (reiterando un analogo motivo
di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal
TAR) si è osservato che i servizi messi a gara con gli
atti impugnati in primo grado non rientrano a pieno titolo
nell’ambito di quelli per i quali opera la riserva parziale
in favore degli architetti di cui al medesimo articolo 52,
avendo essi ad oggetto ‘la parte tecnica’ delle lavorazioni
(la quale, ai sensi del medesimo articolo 52, può essere
demandata tanto all’architetto, quanto all’ingegnere).
Il motivo in questione non può essere condiviso, dovendo –al contrario– trovare puntuale conferma in parte qua la
sentenza appellata, la quale ha affermato che l’attività di
direzione dei lavori per il restauro di Palazzo Contarini
del Bovolo in Venezia – San Marco 4299 implica con ogni
evidenza scelte connesse “al restauro, al risanamento e al
recupero funzionale dell’immobile, per la cui attuazione
ottimale è conferente l’intervento dell’architetto in
ragione dell’indubbia preminenza della sua professionalità
nell’ambito delle belle arti, nel mentre risultano -con
altrettanta evidenza– del tutto residuali le ulteriori
lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti
nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Al riguardo si osserva che, anche a voler enfatizzare la
previsione di cui all’ultima parte del secondo comma
dell’articolo 52, cit. (secondo cui la parte tecnica delle
opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere
artistico e il restauro e ripristino degli edifici di
interesse storico e artistico “ne può essere compiuta tanto
dall’architetto quanto dall’ingegnere”), non può ritenersi
che le attività relative al servizio di direzione dei lavori
e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei
lavori all’origine dei fatti di causa possano farsi
rientrare fra quelle relative alla sola ‘parte tecnica’.
Al riguardo si osserva che, secondo un condiviso
orientamento, la parziale riserva di cui al più volte
richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli
interventi concernenti immobili di interesse storico e
artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di
edilizia civile che implichino scelte culturali connesse
alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli
architetti nell’ambito delle attività di restauro e
risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili
(si richiama ancora una volta, al riguardo, la sentenza di
questo Consiglio n. 5239 del 2006).
Tuttavia (e si tratta di una notazione dirimente ai fini
della presente decisione) non può negarsi che la richiamata
riserva operasse in relazione alle attività all’origine di
fatti di causa, il cui contenuto essenziale e certamente
prevalente riguardava –appunto- scelte connesse al
restauro, al risanamento e al recupero funzionale di un
immobile sottoposto a vincolo storico-artistico, sì da
giustificare certamente sotto il profilo sistematico e
funzionale la richiamata riserva.
Non può, pertanto, essere condivisa la tesi degli Ordini
appellanti secondo cui l’attività di direzione dei lavori
nel caso di specie potesse essere ricondotta alle attività
di mero rilievo tecnico, in quanto tali esercitabili anche
dai professionisti ingegneri.
Né può essere condiviso l’argomento secondo cui, a ben
vedere, l’attività di direzione dei lavori coinciderebbe ex
se con la nozione di ‘parte tecnica’ delle attività e delle
lavorazioni, atteso che: i) di tale coincidenza non è traccia
alcuna nell’ambito della normativa di riferimento; ii)
laddove si accedesse a tale opzione interpretativa, di
fatto, si priverebbe di senso compiuto la stessa
individuazione di una ‘parte tecnica’ (intesa quale
componente di una più ampia serie di attività) facendola
coincidere, di fatto, con il più ampio e onnicomprensivo
novero delle attività relative alla direzione dei lavori.
Ma la sentenza in epigrafe è altresì meritevole di conferma
laddove ha osservato che gli atti della lex specialis
impugnati in primo grado, lungi dall’aver irragionevolmente
compresso le prerogative dei professionisti ingegneri, ne
hanno –al contrario– tenuto in adeguata considerazione le
peculiarità.
Ciò, in quanto la medesima lex specialis ha previsto
l’istituzione di un organo collegiale di direzione dei
lavori composto –fra gli altri– da un direttore operativo
per gli impianti (ruolo, questo, che avrebbe certamente
potuto essere ricoperto da un ingegnere), da un direttore
operativo per le strutture e da un direttore operativo
restauratore di beni culturali.
Neppure può essere condiviso il secondo motivo di
appello, con il quale (reiterando un analogo motivo di
doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal
TAR) si è lamentata la contraddittorietà intrinseca che
sussisterebbe fra:
- (da un lato), gli atti impugnati in primo grado, con cui
sono state precluse agli ingegneri le attività di direzione
dei lavori e coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione dei richiamati lavori di restauro e recupero
funzionale e
- (dall’altro) un diverso bando di gara, indetto dalla
medesima amministrazione e relativo al medesimo immobile
vincolato, con cui è stata –al contrario– consentita agli
ingegneri la partecipazione (insieme agli architetti) alla
gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei
lavori.
Al riguardo giova premettere (e si tratta di notazione
dirimente ai fini del decidere) che, quand’anche il
richiamato profilo di contraddittorietà fosse in concreto
sussistente, ciò non sortirebbe l’effetto di consentire agli
ingegneri la partecipazione alla gara per l’affidamento del
servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della
sicurezza (si tratta di attività che, per le ragioni dinanzi
richiamate, sono state legittimamente precluse agli
ingegneri in coerente applicazione dell’articolo 52 del R.D.
2537 del 1925).
Al contrario, l’eventuale accoglimento del richiamato motivo
potrebbe al più sortire l’unico effetto di palesare
l’illegittimità delle determinazioni con cui
l’amministrazione ha ammesso gli ingegneri a partecipare
alla gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei
lavori.
Il che palesa altresì rilevanti dubbi in ordine alla
sussistenza di un effettivo interesse in capo agli Ordini
professionali appellanti alla proposizione del motivo di
appello in esame.
Ma, anche a prescindere da tale assorbente rilievo, si
osserva che la sentenza in epigrafe risulta comunque
meritevole di conferma laddove ha osservato che, nel caso in
esame, le scelte anche di dettaglio relative agli interventi
di restauro, risanamento e recupero funzionale dell’immobile
erano state effettuate in sede di stesura del progetto
definitivo (progetto, quest’ultimo, che era stato peraltro
approvato dalla competente Soprintendenza per i Beni
architettonici e dalla Commissione per la salvaguardia di
Venezia).
Ne consegue che –come condivisibilmente osservato dai primi
Giudici– la stesura del progetto definitivo coincideva di
fatto, nel caso in esame, con la mera ingegnerizzazione del
progetto definitivo, in tal modo giustificando che la
relativa attività potesse essere demandata anche ad
ingegneri, senza contrasto alcuno con la previsione di cui
all’articolo 52 del più volte richiamato R.D. n. 2537 del
1925.
Né può essere condiviso l’ulteriore motivo al riguardo
profuso dagli Ordini appellanti (motivo che risulta basato
su una sorte di argomento a fortiori, in base al quale:
i)
se viene legittimamente demandata agli ingegneri un’attività
puramente tecnica quale quella propria della progettazione
esecutiva,
ii) a maggior ragione non potrà essere negata
agli ingegneri l’effettuazione di un’attività –quella di
direzione dei lavori– “più tecnica rispetto alla
progettazione vera e propria” –pag. 19 dell’atto di appello-).
E’ evidente al riguardo che l’argomento in questione si
fonda sull’assiomatica affermazione secondo cui, appunto,
l’attività di direzione dei lavori risulterebbe “più
tecnica” rispetto a quella di mera progettazione ed
ingegnerizzazione. Si tratta di un’affermazione il cui
carattere indimostrato non può evidentemente essere assunto
a parametro di giudizio.
Infine, non può trovare accoglimento il terzo motivo
di appello, con il quale (reiterando ancora una volta un
motivo di doglianza già articolato in primo grado e
disatteso dal TAR) si è lamentata l’illegittimità della
scelta di riservare agli architetti anche il ruolo di
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione.
Secondo gli Ordini appellanti, la sentenza in epigrafe si
sarebbe inammissibilmente limitata a motivare la reiezione
in parte qua del ricorso sulla base dell’articolo 127 del
d.P.R. 21.12.1999, n. 554 (il quale al comma 1, primo
periodo, stabilisce che “le funzioni del coordinatore per
l’esecuzione dei lavori previsti dalla vigente normativa
sulla sicurezza nei cantieri sono svolte dal direttore dei
lavori”).
Tuttavia, i primi Giudici avrebbero omesso di tenere in
considerazione la previsione di cui all’articolo 10 della
legge 14.08.1996, n. 494 il quale ammette –inter alios–
gli ingegneri a svolgere i compiti tipici del coordinatore
per l’esecuzione dei lavori.
Il motivo in esame non può trovare accoglimento in
considerazione dell’evidente carattere di specialità che
caratterizza la previsione di cui all’articolo 127 del
d.P.R. 554 del 1999 (ora: articolo 152 del d.P.R. 207 del
2010) rispetto all’articolo 10 del decreto legislativo 494
del 1996.
Ed infatti, premesso che la vicenda di causa resta governata
dalle pregresse disposizioni di cui al richiamato articolo
127, cit., è pacifico che tale disposizione imponesse la
coincidenza soggettiva fra il direttore dei lavori e il
coordinatore per l’esecuzione dei lavori (fatta salva
l’ipotesi in cui il direttore dei lavori designato fosse
privo dei requisiti previsti per svolgere altresì i compiti
tipici del coordinatore per l’esecuzione dei lavori –ma sul
punto non è stata sollevata contestazione alcuna in corso di
causa-).
Tuttavia, nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie e
per le ragioni dinanzi esaminate) i compiti di direttore dei
lavori fossero riservate a un professionista architetto, del
tutto legittimamente l’amministrazione aggiudicatrice
avrebbe potuto (rectius: dovuto) riservare a quest’ultimo
anche le funzioni di coordinatore per l’esecuzione dei
lavori (scil.: sempre che il professionista in questione
fosse altresì munito dei prescritti requisiti).
Anche sotto questo aspetti, quindi, il ricorso in appello n.
2527/2009 deve essere respinto.
Conclusivamente, il ricorso in appello n. 6736/2008
proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali
deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della
sentenza di primo grado, deve essere respinto il ricorso di
primo grado proposto dall’ingegner Alessandro Mosconi e
dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia e recante
il n. 1994/2001.
Per le medesime ragioni il ricorso in appello n. 2527/2009
proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di
Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno,
deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L.R. Lombardia 12/2005: la scadenza del termine per
l'approvazione dei PGT non comporta la decadenza dei titoli
edilizi non avviati.
Il TAR Lombardia-Milano interpreta
l'articolo 25, c. 1, della legge regionale n. 12/2005
nell'ottica del principio di ragionevolezza, affermando che
il decorso del termine per l'approvazione (allora il
31.12.2012, oggi il 30.06.2014) dei P.G.T. imponga non la
decadenza (art. 15 T.U.E.D.), bensì la sospensione dei
titoli edilizi privi di inizio lavori.
Con la
sentenza 24.07.2013 n. 1943 e la
sentenza 03.01.2014 n. 2 il TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, interviene sulla questione dell'efficacia della
disposizione contenuta nel comma 1 dell'articolo 25 della
L.R. 12/2005 secondo cui "1. Gli strumenti urbanistici
comunali vigenti conservano efficacia fino all’approvazione
del PGT e comunque non oltre la data del 30.06.2014 [...]".
Tutto ruota, ovviamente, sulla nozione di "perdita di
efficacia" che, se tradizionalmente definita come
l'idoneità di un atto a produrre effetti giuridici (Virga,
1997), non significa di per sé decadenza, istituto che
produce l'estinzione di un rapporto, non di un atto
(Santaniello, 1962), ma unicamente incapacità dell'atto di
produrre effetti.
In una accezione letterale l'espressione ^perdita di
efficacia^ significa la mera sospensione degli effetti
dello strumento urbanistico in essere, che rimarrebbe
vigente in attesa del nuovo. Le conseguenze pratiche di una
simile opzione, conforme al testo di legge e alla teoria
generale del diritto, corrispondono alla paralisi dello
strumento urbanistico.
In una interpretazione logica, che operi avendo presente lo
scopo che il legislatore sembra essersi prefisso con la
norma, la medesima espressione potrebbe tuttavia valere a
configurare la perdita di efficacia come sinonimo di
decadenza. In tal senso si esprimeva la D.G. Territorio in
un verbale della Commissione consiliare Territorio del
29.07.2010.
La rara dottrina che ha commentato l'articolo 25 o non si è
espressa (G. Inzaghi, 2005) o ha sostenuto la tesi della
applicabilità dell'art. 9 del TUED (G. Leo, 2005).
In questo scenario si calano le decisioni del TAR Lombardia,
ad avviso del quale la disposizione in questione impone non
la decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi
rilasciati ma privi di inizio lavori. Il decorso del termine
indicato dall'articolo 25 per l'approvazione non equivale,
afferma il TAR, a fattispecie ostativa ex 15 D.P.R.
380/2001, a norma del quale: "4. Il permesso decade con
l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche,
salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati
entro il termine di tre anni dalla data di inizio.".
Si tratta, si afferma: "di un’interpretazione del dettato
legislativo regionale rispettosa del canone di
ragionevolezza che –ex art. 3 della Costituzione– deve
sempre accompagnare l’esercizio della funzione legislativa,
anche da parte delle Regioni (sulla rilevanza della
“ragionevolezza”, quale parametro costituzionale, si veda,
fra le decisioni più recenti: Corte Costituzionale,
27.06.2013, n. 160).".
A sostegno della tesi cita il TAR la
circolare 19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL
21.06.2013, n. 25), con cui la Regione Lombardia ha
stabilito che possono essere riattivate le istanze di
intervento presentate entro il 31.12.2012 ma non definite
per effetto della pregressa disciplina restrittiva, sicché
le novità della LR 1/2013 finiscono per avere un effetto
sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Giova in ultimo ricordare che la questione interpretativa
dei menzionati commi dell’art. 25 della LR 12/2005 ha perso
parzialmente rilevanza, visto che la stessa Regione
Lombardia, con legge regionale 04.06.2013, n. 1, ha
espressamente abrogato i commi in questione (cfr. l’art. 2,
comma 2°, della legge), fissando un nuovo termine per
l’approvazione del PGT per i Comuni rimasti ancora inerti,
al 30.06.2014.
Poiché, tuttavia, il dettato del comma 1 è rimasto il
medesimo ("Gli strumenti urbanistici comunali vigenti
conservano efficacia ..."), la soluzione offerta dal TAR
è utile per la nuova scadenza
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Per le commissioni «Pa» non si applicano tariffe.
Cassazione. La collaborazione dei
professionisti.
Incarichi a
ingegneri e avvocati liberi da tariffe, qualora si tratti di
partecipazioni a commissioni tecniche.
Lo sottolinea la
sentenza 13.12.2013 n. 27919 della Corte di Cassazione,
Sez. I civile, decidendo una lite sorta più di dieci anni or sono, quando
ancora vigevano i minimi tariffari (legge 223/2006).
I professionisti invocavano l'inderogabilità delle tariffe
minime (articolo 24 della legge 794/1942), ma la sentenza
esclude l'applicabilità di tale inderogabilità in quanto il
loro incarico era stato affidato all'interno di una
commissione tecnica (di gara, di concorso) e quindi non era
equiparabile a una prestazione professionale. Si trattava –osserva la Corte- di un'attività atipica, diluita
all'interno di un organo rappresentativo di più
professionalità. In altri termini, nell'organo collegiale
non si distinguevano i singoli contributi, e ciò ha impedito
di isolare una singola attività professionale. In questi
casi, quindi, il compenso per l'avvocato e per l'ingegnere
va valutato in relazione alla partecipazione all'organo
collegiale, e non come somma di specifici, singoli
contributi professionali.
Anche quando le tariffe erano inderogabili, cioè prima della
legge 223/2006, secondo la Corte avvocati e ingegneri non
potevano invocare il rispetto dei minimi, perché tali limiti
erano previsti solo per le prestazioni tipizzate (giudiziali
ed extragiudiziali per avvocati) ed esclusive della
professione (per gli ingegneri).
Il principio è valido ancor oggi, perché regola i casi in
cui a professionisti collegiati vengono affidati incarichi
atipici: così quando a un avvocato si chiede attività
generica di studio o ricerca nel campo giuridico, esclude
l'applicabilità' delle tariffe (Cassazione 7438/1994),
mentre per ingegneri e architetti vi è un orientamento che
sottopone a contribuzione previdenziale sia le attività che
richiedono competenze tecniche (Cassazione 5827/2013), sia i
compensi percepiti quale amministratore di società. Di
recente, poi, vi sono segnali a livello comunitario
favorevoli all'applicazione delle tariffe minime (Corte di
giustizia Ue 12.12.2013 in causa C-327/12), sicché il
settore è ancora alla ricerca di punti fermi.
Il caso deciso dalla Cassazione con la sentenza 27919/2013
applica le leggi del tempo della controversia, e cioè una
normativa che vedeva nei minimi tariffari l'esigenza di
tutelare il decoro dei professionisti, collegando tale
decoro alle prestazioni tipiche. Inoltre, per gli ingegneri,
all'epoca si distingueva tra incarichi conferiti da una
pubblica amministrazione e quelli di un privato, in quanto
solo per questi ultimi valeva il limite previsto dai minimi
tariffari. Appunto perché la partecipazione dell'avvocato a
una commissione non era ritenuta un'attività tipica (non
esigendo una difesa tecnica in giudizio), e l'ingegnere non
poteva vantare un incarico conferito da un privato (ma da
una pubblica amministrazione), nessuno dei due
professionisti ha potuto ancorare le proprie pretese a
tariffe professionali (articolo Il Sole 24 Ore del
14.12.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., legittimo il blocco delle carriere.
È costituzionalmente legittimo il blocco delle progressioni
di carriera, comunque denominate.
Lo ha stabilito la Corte
costituzionale, con la sentenza 12.12.2013 n. 304,
che ha respinto la questione di legittimità costituzionale
sollevata in merito all'articolo 9, comma 21, del dl
78/2010, convertito in legge 122/2010. Si tratta della norma
che impedisce di consentire ai dipendenti pubblici sia di
ottenere incrementi economici (progressioni orizzontali o
«scatti» di carriera), sia avanzamenti di grado, mediante la
partecipazione a concorsi pubblici con riserva di posti, che
a decorrere dall'entrata in vigore del dlgs 150/2009 hanno
soppiantato quelle che un tempo erano definite «progressioni
verticali».
Il ricorso presentato evidenziava una possibile
incostituzionalità degli effetti del congelamento delle
retribuzioni, derivante anche dal blocco degli avanzamenti
di carriera: infatti, si porrebbe in essere un trattamento
differente tra dipendenti, in ragione del casuale evento
della decorrenza del blocco degli avanzamenti, così da
creare differenti trattamenti economici anche a parità di
anzianità di servizio.
La Consulta ha spiegato che questa eventualità non lede le
disposizioni di cui agli articoli 3 e 36 della Costituzione:
è ben possibile che vi siano trattamenti differenziati anche
a parità di inquadramento e mansioni. Lo dimostra la
conclamata illegittimità costituzionale e conseguente
eliminazione dall'ordinamento giuridico di istituti di
«galleggiamento», che permettono la perequazione verso
l'alto dei trattamenti economici.
La sentenza dà atto, ancora, che l'articolo 9, comma 21, non
lede l'ordinamento costituzionale, nonostante impedisca
avanzamenti economici o di carriera solo per i dipendenti
pubblici.
Infatti la misura normativa è giustificata «dall'esigenza
di assicurare la coerente attuazione della finalità di
temporanea «cristallizzazione» del trattamento economico dei
dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di
contenimento della spesa pubblica», considerando, per
altro, che esiste una limitazione nel tempo al sacrificio
richiesto ai dipendenti pubblici
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Vincere la causa non ridà l'appalto.
Non si può cambiare esecutore perché nelle opere strategiche
i tempi vanno rispettati. Giustizia
amministrativa. Sentenza del Tar Lombardia
sull'aggiudicazione dei lavori relativi all'autostrada
Pedemontana.
Un nuovo
tratto autostradale la cui realizzazione è contesa tra due
raggruppamenti di imprese, un'aggiudicazione dell'appalto
non coerente al bando di gara, 20 milioni di euro di danni
da risarcire.
Sono questi gli elementi e l'esito di una
corposa ed innovativa sentenza del TAR Lombardia-Milano -
Sez. III (sentenza
03.12.2013 n. 2681).
L'originalità sta soprattutto nel
fatto che in pratica i giudici hanno dato torto a tutti i
contendenti. Anche a quello al quale hanno riconosciuto una
parte di ragione.
L'autostrada è la Pedemontana Dalmine-Como-Varese,
dichiarata infrastruttura strategica per la sua importanza
nella congestionata rete di trasporti lombarda e posta in
gara nel 2010 (con lavori oggi in corso). I contendenti sono
consorzi tra le più qualificate imprese del settore. Il
risarcimento record è stato posto a carico della
concessionaria (Pedemontana Lombarda spa), che ha
aggiudicato l'appalto in maniera erronea.
Il progetto dell'impresa cui è stato aggiudicato l'appalto è
stato giudicato difforme da quello che avrebbe dovuto essere
presentato, ma i giudici del Tar esprimono la considerazione
secondo cui ormai non si può più sostituire. L'impresa
seconda classificata, pur avendo ingiustamente perso una
gara da 230 milioni, si vede riconosciuto circa l'1% di tale
importo (un decimo di quanto pretendeva). Inoltre, adesso il
concessionario, avendo scelto un progetto più oneroso per
circa 120 milioni di euro rispetto a quello originariamente
previsto, rischia responsabilità penali ed erariali: i
magistrati amministrativi hanno deciso di trasmettere una
copia degli atti alla Procura della Repubblica di Milano e
alla Corte dei conti.
La decisione del Tar è originale: affida ad un consulente
tecnico (di estrazione universitaria) la verifica dei
progetti, accettandone le conclusioni critiche verso ambedue
i contendenti. L'impresa che si è aggiudicata la gara aveva
presentato un'offerta sostanzialmente difforme dal bando,
che invece non prevedeva fossero apportate varianti. Ma
anche l'altro partecipante aveva presentato un'offerta
progettuale innovativa (in particolare per il ponte sul
fiume Adda), con "fasi critiche" da risolvere in sede
esecutiva e quindi un'elevata probabilità di dover ricorrere
a varianti.
Facendo proprie le conclusioni della ponderosa verifica
tecnica che avevano affidato ai consulenti d'ufficio scelti
da loro, i magistrati del Tar di Milano hanno ribaltato
l'esito di gara, promuovendo il secondo classificato. Ma la
sostituzione effettiva dell'aggiudicatario dei lavori non è
avvenuta: un'opera che sia stata dichiarata strategica non
può essere interrotta, perché va conclusa nei tempi e
modalità risultanti dalla gara. Per tenere indenne il
consorzio ingiustamente scavalcato, non rimaneva che
accordare un risarcimento danni, così il Tar ha posto
innovativi principi.
L'utile d'impresa (10% di 230 milioni) è stato ridotto
calcolandolo sul prezzo offerto (cioè con ribasso del 32%,
sui 230 milioni); è stato poi ancora ridotto al 4%, a causa
di un elevato rischio d'impresa (l'opera è comunque
problematica) ed ancora al 2% perché macchinari e maestranze
avrebbero potuto essere impiegate in altre attività.
Il danno "curriculare" (composto dai pregiudizi riportato
all'immagine dell'impresa, al suo grado di affinamento
tecnico e alla sua esperienza) è stato anch'esso ridotto,
dal 3% del valore dell'appalto all'1,5% in quanto le imprese
concorrenti erano già tutte espressione dei massimi livelli
di qualità.
Al termine di questi calcoli, l'importo a carico della
Pedemontana è stato comunque fissato dai giudici in oltre 20
milioni di euro, che la società concessionaria dell'opera
dovrà ora versare al consorzio sconfitto in gara ma
vincitore nelle aule. Tutto ciò sempre che in appello (grado
di giudizio al quale certamente si arriverà) il verdetto non
sia ribaltato. E sempre che la magistratuta penale e quella
contabile non aggiungano altri capitoli alla vicenda (articolo Il Sole 24 Ore del
12.12.2013 - tratto da www.centroctudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatti precari: a quali condizioni sono esenti da titolo
edilizio.
Non richiedono licenza edilizia solo
quei manufatti che, per la destinazione d'uso cui sono
finalizzati oltre che per le loro particolari
caratteristiche, possono considerarsi provvisori, di uso
temporaneo e destinati alla rimozione dopo l'uso (es.
baracca per l'impianto e la conduzione di cantiere edile,
capannone eretto in un bosco per il ricovero temporaneo di
attrezzi, ecc.).
Il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la
sentenza 02.12.2013 n. 2333 è tornato sul tema dei
manufatti precari, precisando quando possono essere ritenuti
tali e pertanto essere edificati e mantenuti senza uno
specifico titolo edilizio.
In tal senso il TAR ha infatti precisato che ai sensi
dell'art. 1 della legge 28.01.1977, n. 10 (ora art. 10
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 T.U. delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia), è soggetta
a concessione edilizia ogni attività che comporti la
trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di
opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed
edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano qualche
rilievo ambientale ed estetico anche solo funzionale.
In particolare, la concessione edilizia è necessaria anche
quando si intende realizzare un intervento sul territorio
con perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale
posto sul suolo (fra le tante, Consiglio Stato, sez. V,
21.10.2003, n. 6519; TAR Sicilia, sez. I, 08.07.2002, n.
1936; sez. III, 15.02.2006, n. 394, 10.12.2012, n. 2600).
In tal senso, secondo il TAR, la precarietà delle strutture
può essere riscontrata nella contemporanea presenza di due
requisiti (uno strutturale e l’altro funzionale):
a) l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica
del territorio e non deve essere costituita da intelaiature
infisse al suolo (C.G.A., 09.12.2008, n. 955), né deve
essere chiusa in alcun lato (cfr., fra le tante, C.G.A.
19.10.2009, n. 923; TAR Sicilia, sez. III, 14.12.2009, n.
1913; 10.11.2011, n. 2085; sez. II, 26.07.2011, n. 1481);
b) inoltre, occorre avere riguardo alla destinazione d'uso
dell'opera; sicché una struttura destinata a dare una
utilità prolungata nel tempo (nella fattispecie, correlata
–come sopra evidenziato- a esigenze continuative connesse
all’attività d’impresa) non può considerarsi precaria (C.G.A.
20.01.2008, n. 28).
Ne deriva, che nel caso specifico esaminato dal TAR con la
sentenza in commento, un box metallico (ancorato su base di
cemento), per la sua stessa destinazione (ricovero di
apparecchiature elettriche relative a una adiacente, antenna
radio) non può ritenersi diretto a soddisfare bisogni
contingenti, bensì esigenze aziendali di carattere duraturo,
funzionali all’esercizio di emittenti radiofoniche, pertanto
non vi è dubbio circa la necessità di richiedere ed ottenere
un titolo concessorio, trattandosi, appunto di
trasformazione permanente del territorio (in tal senso, TAR
Sicilia, sez. II, 03.04.2012, n. 676) (tratto da e link a
http://studiospallino.blogspot). |
CONDOMINIO:
Vizi «noti» anche senza perizia. Gravi difetti
dell'opera commissionata in appalto.
Il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, prevista
dall'articolo 1667, comma 3, del Codice civile, nel caso di
opere realizzate in appalto e affette da vizi occulti o non
conoscibili, perché non apparenti all'esterno, decorre dalla
scoperta dei vizi, che è da ritenersi acquisita dal giorno
in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi. E
la conoscenza dei vizi si può ritenere comunque acquisita
quando al committente sono stati comunicati in qualsiasi
modo, senza che sia necessaria una verifica tecnica dei vizi
stessi.
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione, Sez. III
civile, con la
sentenza 22.11.2013 n. 26233, ha respinto il ricorso
presentato da un condominio che aveva citato in giudizio
l'impresa cui furono commissionati i lavori, perché fosse
dichiarato risolto il contratto d'appalto del 22.06.1993 per
grave inadempimento del convenuto e perché fossero accertati
i gravi difetti dell'opera commissionata in appalto, siccome
causati dalla cattiva e superficiale esecuzione del lavori.
Ma il tribunale dichiarò il condominio decaduto dall'azione,
in base all'articolo 1667 del Codice civile, con sentenza
poi confermata dalla Corte d'appello. ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Guerra ai piccioni, fai-da-te ko.
L'ordinanza adottata dal sindaco di un paese, che per
ragioni di salute pubblica autorizzava i cacciatori ad
abbattere tutti i piccioni presenti nel territorio comunale,
destava l'ira delle associazioni animaliste e anticaccia che
rivolgendosi al giudice ne ottenevano l'annullamento.
Tanto è accaduto in un paese della provincia di Ferrara
dove il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con
sentenza
21.11.2013 n.
765, ha precisato che quand'anche un ordine di
tale fatta fosse stato legittimo, non avrebbe potuto
autorizzare indistintamente tutti i cacciatori
all'abbattimento di tale specie di volatili stante
l'evidente contrasto con la disciplina della legge n. 157
del 1992 che, in materia di tutela della fauna selvatica e
controllo del cosiddetto prelievo venatorio, all'art. 19
prevede la possibilità per le regioni di disporre per motivi
di interesse pubblico, come soluzione estrema, un piano di
abbattimento della fauna selvatica autorizzando a ciò le
guardie venatorie dipendenti dell'amministrazione
provinciale che all'occorrenza possono avvalersi anche dei
proprietari o dei conduttori dei fondi interessati dai
predetti piani di abbattimento, purché gli stessi siano in
possesso dell'apposita licenza di caccia.
Altro aspetto di interesse della sentenza amministrativa
citata concerne i limiti all'esercizio da parte del sindaco
di quei poteri straordinari cosiddetti extra ordinem (ossia
al di fuori dell'ordinamento giuridico) diretti a
fronteggiare eventi congiunturali che mettono in pericolo la
salute pubblica, allorché non sia possibile intervenire con
i normali rimedi previsti dall'ordinamento giuridico.
L'ordinanza sindacale impugnata, invero, è espressione di
quei poteri, ma ai fini della sua legittimità avrebbe dovuto
spiegare gli effettivi pericoli per la salute pubblica
derivanti dalla presenza dei piccioni nel territorio
comunale, specificando il numero complessivo dei volatili
presenti e quello ritenuto eccessivo, quindi da abbattere,
chiarendo infine il perché dell'impossibilità di
fronteggiare tali pericoli ricorrendo all'esercizio dei
normali strumenti previsti dalla normativa regionale e
nazionale
(articolo ItaliaOggi Sette del
09.12.2013). |
ENTI LOCALI: Non scatta la sanzione con il cartello fantasma.
Il cartello di divieto di sosta è solo il mezzo con cui si
porta a conoscenza degli utenti un provvedimento in materia
di traffico ma in caso di ricorso spetta all'amministrazione
comunale dimostrare la legittimità dell'imposizione sottesa.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
l'ordinanza
15.11.2013 n. 25771.
Un automobilista
sanzionato dai carabinieri per divieto di sosta ha proposto
ricorso con successo al giudice di pace evidenziando la
mancanza sul retro del segnale del numero dell'ordinanza
comunale. Contro questa determinazione, confermata in sede
d'appello, il ministero dell'interno ha proposto ricorso in
Cassazione.
A parere degli ermellini il tribunale avrebbe
dovuto ritenere sussistente la violazione stradale solo se
fosse stata fornita la prova della legittimità
dell'apposizione del cartello.
In buona sostanza non basta
dire che manca il timbro per annullare la multa. Occorre
dimostrare che manca l'ordinanza oppure è viziata
(articolo ItaliaOggi Sette del
09.12.2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Competenze professionali dei geometri: limiti e
rimedi al travalicamento.
Il Tribunale di Lecce, Sez. distaccata di Maglie, con la
sentenza 12.11.2013 n. 3571 ha
dichiarato la nullità del contratto di
prestazione d’opera avente ad oggetto prestazioni
progettuali di un opificio industriale poste in essere da un
geometra, condannando quest’ultimo alla restituzione degli
acconti versati in esecuzione del contratto nullo,
dichiarando altresì l’inammissibilità e, comunque,
l’infondatezza della domanda di arricchimento senza causa.
La questione nasce a seguito di un decreto ingiuntivo
azionato dal geometra, sulla base di un incarico
professionale, al fine di ottenere il compenso per
prestazioni progettuali attinenti la progettazione di due
capannoni industriali oltre struttura su due livelli, da
realizzarsi previa mutazione di destinazione d’uso di
immobile e seguendo la pratica di cui al D.P.R. n. 447/1998.
Avverso tale decreto di ingiunzione la società opponente ha
presentato opposizione, deducendo la nullità del contratto
per la violazione delle competenze proprie dei geometri.
Parte opponente ha altresì dedotto che il contratto è stato
concluso con dolo e ne ha chiesto l'annullamento, chiedendo,
in ogni caso la restituzione delle somme versate in
esecuzione di un contratto nullo e/o annullabile.
Venendo al merito della vicenda, si rappresenta che la
società opponente ha eccepito la nullità dell'incarico
conferito al geometra, in quanto lo stesso sarebbe stato
chiamato ad eseguire prestazioni che esulano dalla
competenza specifica della categoria di appartenenza, ai
sensi dell’art. 16, R.D. n. 274/1929.
Ebbene, accogliendo le tesi difensive della società
opponente il Giudice, richiamando un consolidato
orientamento della Suprema Corte di Cassazione, ha rilevato
che “Il progetto redatto da un geometra in materia
riservata alla competenza professionale degli ingegneri è
illegittimo, a nulla rilevando che sia stato controfirmato
da un ingegnere, o che un ingegnere esegua i calcoli del
cemento armato e diriga le relative opere, perché è il
professionista competente che deve essere, altresì, titolare
della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità.
Ne consegue che, nella suddetta ipotesi, il rapporto tra il
geometra ed il cliente è radicalmente nullo ed al primo non
spetta alcun compenso per l'opera svolta, ai sensi dell'art.
2231 cod. civ.”.
Meritevoli di accoglimento sono state, altresì le deduzioni
di parte opponente circa la non modesta entità dell’opera
progettata. Ed invero, il Tribunale di Lecce ha chiarito che
“il criterio per accertare se una costruzione sia da
considerare modesta -e quindi se la sua progettazione
rientri nella competenza professionale dei geometri, ai
sensi dell'art. 16, letto m), del r.d. 11.02.1929, n. 274-
consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la
progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le
capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non
è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo
anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza
di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla legge 02.02.1974, n. 64, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei
geometri”.
Orbene, il Giudice del foro leccese ha rappresentato che nel
corso di causa “è emerso che l'opera di progettazione del
geom. XXX ha riguardato un edificio di 11.639,62 me,
rispetto a due capannoni industriali e ad una costruzione su
due livelli”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato che “la
cubatura dell'opera (11.639,62), la complessità della
progettazione, il numero di piani (due fuori terra) ed il
valore economico dell'operazione (è la stessa parte opposta
ad affermare che il terreno ha avuto un incremento del
1000%, per arrivare a 300.000,00€) inducono a ritenere che
la costruzione in cemento armato sia tutt'altro che modesta”.
Alla luce dei principi e della giurisprudenza richiamata, il
Tribunale salentino ha dichiarato la nullità dell'opera
prestata dal geometra opposto.
In conseguenza della nullità del contratto d’opera è stata,
altresì, ordinata la restituzione delle somme versate dalla
Società opponente al geometra opposto.
Infine, deve rilevarsi la declaratoria dell’inammissibilità
dell’azione di arricchimento senza causa proposta da parte
opposta e, comunque, la sua infondatezza nel merito “posto
che la giurisprudenza esclude espressamente che nel caso di
specie il geometra possa presentare domanda ai sensi
dell'art. 2041 c.c.”.
La sentenza in commento non fa altro che ribadire una prassi
ormai arcinota quanto illegale dei tecnici non laureati, i
quali si arrogano competenze al di fuori del loro ambito di
operatività con seri rischi per la sicurezza e per la
pubblica incolumità (tratto da www.altalex.com). |
PATRIMONIO: Buche in strada costose.
Appaltatore dei lavori sempre responsabile.
Cassazione: non rileva che le risorse della p.a.
siano insufficienti.
La società che accetti le condizioni contrattuali
dell'appalto dettate dall'amministrazione si assume la
responsabilità per tutte le conseguenze dannose che possano
derivare a terzi in esecuzione dei lavori, e ciò anche
laddove le risorse messe a disposizione dalla stazione
appaltante risultino inadeguate o insufficienti.
Lo ha stabilito la IV Sez. penale della Corte di
Cassazione con la
sentenza
16.10.2013 n. 42498.
Nel caso concreto il comune di Roma ha affidato a una
società la manutenzione ordinaria, la sorveglianza e
l'intervento sulla grande viabilità del territorio romano.
Durante i lavori è accaduto che un ciclista, percorrendo uno
dei viali sotto manutenzione, si sia imbattuto in una buca
profonda quasi venti centimetri, cadendo rovinosamente a
terra e riportando diverse lesioni.
Dell'incidente è stato chiamato a rispondere
l'amministratore unico della società appaltatrice,
sottoposto a procedimento penale innanzi al giudice di pace
per il reato di lesioni colpose. L'accusa mossa nei suoi
confronti dalla procura è stata quella di aver adempiuto
negligentemente agli obblighi nascenti dall'appalto,
omettendo la dovuta vigilanza sui pericoli nascenti
dall'incarico posto che la buca da cui era scaturito
l'incidente del ciclista non era stata segnalata né erano
state apprestate misure impeditive al verificarsi di eventi
dannosi del tipo di quello accaduto.
All'esito del processo di primo grado il giudice ha ritenuto
fondata la tesi della procura, di conseguenza condannando
l'imputato alla pena della multa assieme al risarcimento dei
danni patiti della parte civile. Della stessa opinione è
stato il tribunale monocratico, adito in appello dai
difensore dell'amministratore unico: per entrambi i giudici
di merito, infatti, la responsabilità dell'imputato derivava
dal non aver lo stesso adempiuto agli obblighi contrattuali
di vigilanza, da effettuarsi 24 ore su 24, e di immediata
eliminazione o segnalazione dei pericoli rilevati sulle
strade.
La decisione del giudice di secondo grado è stata impugnata
in sede di legittimità: alla Suprema corte è stato chiesto
l'annullamento della decisione muovendo dall'asserita
erroneità dei precedenti verdetti di condanna che male
avrebbero rinvenuto i limiti della posizione di garanzia
gravante sui gestori della società appaltatrice: la difesa
ha argomentato la propria tesi osservando come nel
capitolato d'appalto fosse prevista la facoltà della
stazione appaltante di procedere a indagini per verificare
l'esatta esecuzione dei lavori e imporre sanzioni in caso di
mancato rispetto degli obblighi, contestazioni e sanzioni
che non ricorrevano affatto nel caso di specie. D'altra
parte, la difesa ha insistito nel sostenere come i mezzi
destinati dal comune all'attività di sorveglianza del
territorio fossero minimi, tanto che la società appaltatrice
si era trovata costretta a lavorare con una sola squadra di
sorveglianza ogni cinque municipi (ossia per uno spazio di
circa 800 km per ciascuna squadra): da qui il richiamo alla
regola generale, in materia di responsabilità per colpa,
secondo cui non è sufficiente l'oggettiva inosservanza della
regola cautelare di condotta, poiché occorre non di meno che
questa sia soggettivamente imputabile al soggetto agente.
Ebbene, i giudici romani, nel rigettare completamente il
ricorso presentato, hanno risposto a entrambe le censure nei
seguenti termini. Con riferimento alla mancata contestazione
di violazioni degli obblighi da parte dell'amministrazione
comunale, è stato osservato come siffatto profilo non
potesse assumere alcun rilievo poiché si trattava di
circostanze avulse dall'attestazione o meno, in sede penale,
del pieno rispetto, da parte della società, degli obblighi
nascenti dal contratto di appalto né potevano risultare
utili ai fini dell'esonero dell'imputato da ogni
responsabilità.
Analogamente, è stata rigettata la contestazione relativa
alla mancanza di fondi destinati all'attività di
sorveglianza: sul punto, gli ermellini hanno evidenziato
come «l'impossibilità di gestire adeguatamente il
territorio per l'insufficienza del corrispettivo previsto
nell'appalto, non autorizzava certo l'imputata a non
rispettare gli obblighi assunti e a fornire un servizio
assolutamente inadeguato, bensì la obbligava a segnalare al
committente l'impossibilità di garantire il servizio stesso
e di concordare possibili diverse soluzioni». Lambendo i
confini della «colpa per assunzione», dunque, la
Corte capitolina ha redarguito l'imputato sottolineando
come, peraltro, «nulla» lo avesse obbligato a
sottoscrivere il contratto di appalto o, comunque, ad
accontentarsi di corrispettivi inadeguati alla rilevanza
degli impegni che avrebbe dovuto assumere (articolo ItaliaOggi Sette del
09.12.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 15.01.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sullo svolgimento, in modo continuativo sin dal
2007, dell'attività istituzionale dell'ente
(supporto all'ufficio tecnico comunale per
l'evasione di pratiche edilizie) affidata ad un
tecnico esterno.
Occorre indicare quali sono in linea generale i
presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi
esterni” (presupposti di carattere sostanziale e
procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello
svolgimento dell’attività di controllo attribuitale
dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp.
(modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi
sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008)
qualifica <<come presupposti di legittimità
tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza
contabile necessari per il ricorso ad incarichi di
collaborazione o di studio>> e cioè:
1) La
rispondenza dell’incarico agli obiettivi
dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già
chiarito che <<il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge o previste dal programma approvate dal Consiglio
dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000>>.
2)
L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione,
della figura professionale idonea allo svolgimento
dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale
ricognizione.
3) L’indicazione
specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento
dell’incarico.
4) L’indicazione della
durata dell’incarico.
5) La
proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e
l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare
che <<il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando
ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89
del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione
autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel
regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per
taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite
massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti
territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di
conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite>>.
6) Il
requisito della “comprovata specializzazione universitaria”:
le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte
con personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale,
occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a
esperti “di particolare e comprovata specializzazione
universitaria”.
7)
Obbligo di motivazione della determina con cui viene
affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti
hanno già ricordato che <<l’atto di incarico deve contenere
tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti
per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in
particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico,
modalità di determinazione del corrispettivo e del suo
pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento
del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro
indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo
dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere di incarico>>.
8) La
valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei
conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno
ribadito che le disposizioni della legge 311/2004
(finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo
interno di revisione, non sono state né abrogate
esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono
incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente,
pertanto tale obbligo permane.
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione
riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità
nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla
gestione di pertinenza della magistratura contabile.
L’intervento del revisore contabile è necessario quale
titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di
raccordo con gli organi di controllo esterno.
9) L’obbligo di
seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione. Di fatto, però,
la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato
che <<l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di
collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata>>.
10) L’obbligo
pubblicazione degli elenchi sul sito web.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127,
art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni
(anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori
esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è
previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i
relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare
erogato.
---------------
L'amministrazione comunale deve attenersi
all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte
dei Conti secondo cui: “fermo restando il limite
della spesa storica riferito al 2004, gli enti non
sottoposti alle regole del patto di stabilità
possono procedere, ai sensi del combinato disposto
dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge
27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e
dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008,
all’instaurazione in via temporanea ed occasionale
di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma anche se non vi siano
state corrispondenti cessazioni di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma abbiano carattere
temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione
del personale e di una riorganizzazione degli uffici
in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili
venga assicurato, prioritariamente e a regime,
mediante la previsione in organico di adeguato e
qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non
costituisca occasione di elusione dei limiti di
spesa previsti in tema di contenimento di spesa
pubblica, ed in particolare di incarichi di
consulenza”.
Dunque, questa Sezione rileva che la criticità
denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di
dipendente con una professionalità idonea a svolgere
le funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere
affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in
materia di spesa per il personale e violando le
norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi
professionali (art. 7 TUPI).
Piuttosto, l’ente locale dovrebbe attivarsi per
valutare se attraverso lo strumento della gestione
in forma associata con altri comuni possa svolgere
la funzione de qua senza incappare nelle violazioni
di legge sin qui evidenziate.
---------------
Nel corso dell’esame del questionario inviato dal Comune di
Porto Valtravaglia in merito al consuntivo per l’anno 2011,
il Magistrato Istruttore, avviata un’indagine sul
mancato rispetto dei vincoli finanziari posto dall’art. 6
D.L. n. 78/2010 (riduzione dell’80% della spesa sostenuta
nell’anno 2009 per studi e consulenze), rilevava che <<dalla
documentazione allegata emerge che il geom. C. svolge, in
modo continuativo sin dal 2007, attività istituzionale
dell'ente (supporto all'ufficio tecnico comunale per
l'evasione di pratiche edilizie)>>.
Sulla scorta di detto rilievo, dunque, il Magistrato
Istruttore chiedeva all'ente locale di chiarire se la spesa
sostenuta fosse stata <<computata in quella per il
personale e se per il "rinnovo" dell'incarico per l'anno
2011>> fosse stata espletata <<una nuova procedura
compartiva rispetto a quella che risulta dalla determina n.
37 del 26.02.2007 per il triennio 2007-2009>>.
Il revisore dei conti comunicava che <<la spesa del
professionista non è stata computata tra le spese del
personale ma non allo scopo di eludere il vincolo di spesa
che è rispettato anche includendo l’intero costo del
professionista>>. Il revisore, inoltre, aggiunge che <<per
l’assegnazione dell’incarico al professionista C.C. per
l’anno 2011 non è stata espletata la procedura comparativa>>.
Il Magistrato Istruttore, sulla scorta della risposta del
revisore, chiedeva al Presidente della Sezione di convocare
in adunanza l’ente locale per l’esame collegiale della
vicenda.
Prima dell’adunanza l’ente locale inviava memoria in cui
confermava il mancato espletamento di procedura comparativa
in sede di affidamento dell’incarico anche per l’anno 2012
al medesimo professionista. Aggiungeva, però, che per l’anno
2012 la spesa sostenuta per l’incarico era stata computata
in quella per il personale. La mancata acquisizione del
parere del revisore e il mancato invio della determina alla
Corte ai sensi dell’art. 1, comma 173, l. n. 266/2005
venivano ascritti ad “una mera dimenticanza”.
All’adunanza del 05.06.2013 sono intervenuti in
rappresentanza del Comune di Porto Valtravaglia il Sindaco,
il Segretario comunale, il Responsabile del Servizio
Finanziario e il Responsabile dell’ufficio tecnico.
...
Le recenti novelle legislative che hanno
inciso sulla disciplina degli atti di affidamento delle
consulenze da parte degli enti locali sono accomunate da un
unico principio ispiratore: l’amministrazione deve svolgere
le sue funzioni con la propria organizzazione e il proprio
personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di
collaborazione con <<soggetti esterni è consentito solo
nei casi previsti dalla legge, od in relazione ad eventi
straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica
esistente>>
(in questo senso, si veda la sentenza della Corte Conti, II
sez. app., del 20.03.2006).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle
collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il legislatore
ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai
fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le
disposizioni di cui agli artt. 34 della legge 27.12.2002, n.
289, 3 della legge 24.12.2003, n. 350 e 1, commi 9 e 11, del
d.l. 12.07.2004, n. 168, convertito con legge 30.07.2004, n.
191 (sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo
1, commi 11 e 42, della legge 30.12.2004, n. 311)
con l’introduzione di fattispecie tipizzate di
illecito amministrativo contabile, per cui la violazione del
disposto normativo <<… costituisce illecito disciplinare
e determina responsabilità erariale>>.
Da ultimo, poi, si richiama la lettera dell’art. 6, comma 7,
del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che
recita: <<al fine di valorizzare le
professionalità interne alle amministrazioni a decorrere
dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di
consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di
consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle
pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1
della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità
indipendenti, escluse le università, gli enti e le
fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli
incarichi di studio e di consulenza connessi ai processi di
privatizzazione e alla regolamentazione del settore
finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di
quella sostenuta nell’anno 2009. L’affidamento di incarichi
in assenza dei presupposti di cui al presente comma
costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità
erariale>>.
In questo quadro normativo va contestualizzata la funzione
di controllo esercitata dalle sezioni regionali della Corte
dei Conti sugli atti di affidamento di consulenze esterne;
funzione che la magistratura contabile svolge su due
livelli, ovvero su quello più generale che investe
l’esercizio della potestà regolamentare dell’ente locale
conferente, nonché su quello più specifico che attiene la
singola determina di affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale della Corte dei
Conti sui regolamenti adottati dagli Enti locali per
l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei
Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli
enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3
della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n.
244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L.
25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma
56 recita che <<con il regolamento di
cui all'articolo 89 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, sono fissati, in conformità a quanto stabilito dalle
disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per
l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che
si applicano a tutte le tipologie di prestazioni. La
violazione delle disposizioni regolamentari richiamate
costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità
erariale. Il limite massimo della spesa annua per incarichi
di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli
enti territoriali>>.
Il successivo comma 57, poi, sancisce che <<le
disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono
trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo
della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro
adozione>>.
Questa Sezione con le deliberazioni
37/2008, 224/2008 e 37/2009 ha individuato alcuni principi
che devono informare le disposizioni regolamentari in
materia (si vedano
anche le più recenti, Lombardia/715/2010/REG del 30.06.2010
e Lombardia/967/2010/REG del 22.10.2010).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione
si incentra sulla singola determina di affidamento di
incarico esterno di cui si è detto in premessa;
conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di
carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere
per qualificare come conforme alla disciplina la determina
in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole
determine di affidamento di incarichi a soggetti esterni
alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n.266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione. La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti locali a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che <<l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere>>
(Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che un utilizzo improprio delle
collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è
fonte di responsabilità. Questo principio -affermato dalla
giurisprudenza contabile in materia di conferimento di
incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto
proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della
legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27,
della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo
7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto
che il ricorso a contratti di
collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento
di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come
lavoratori subordinati è causa di responsabilità
amministrativa per il dirigente che ha stipulato i
contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla
disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito
dall’amministrazione comunale di Cardano al Campo,
occorre indicare quali sono in linea generale i
presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi
esterni” (presupposti di carattere sostanziale e
procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello
svolgimento dell’attività di controllo attribuitale
dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7
T.U. Pubb. Imp.
(modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi
sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008)
qualifica <<come presupposti di legittimità tutti
i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile
necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di
studio>> (Sez.
Contr. Reg. Lombardia, delib. n. 224/2008):
1) La
rispondenza dell’incarico agli obiettivi
dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già
chiarito che <<il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge o previste dal programma approvate dal Consiglio
dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000>>
(Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009, nonché Sez. Reg.
Lombardia, n. 244/2008).
2)
L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione,
della figura professionale idonea allo svolgimento
dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale
ricognizione.
3)
L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell’incarico.
4)
L’indicazione della durata dell’incarico.
5) La
proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e
l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare
che <<il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008,
unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui
all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di
collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di
individuare nel regolamento il livello massimo di spesa
sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la
fissazione del limite massimo annuale nel bilancio
preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario
accertare in sede di conferimento degli incarichi
l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il
rispetto del suo limite>> (Sez. contr. Reg. Lombardia,
n. 37/2009).
6) Il
requisito della “comprovata specializzazione
universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non
possono far fronte con personale in servizio, possono
conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro
autonomo professionale, occasionale o di collaborazione
coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e
comprovata specializzazione universitaria”.
7)
Obbligo di motivazione della determina con cui viene
affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delib. n. 6/2005)
hanno già ricordato che <<l’atto di incarico deve
contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi
previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed
in particolare oggetto della prestazione, durata
dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo
e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del
raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è
peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo
dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere di incarico>> (Sez.
contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
8) La
valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei
conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno
ribadito che le disposizioni della legge 311/2004
(finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo
interno di revisione, non sono state né abrogate
esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono
incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente,
pertanto tale obbligo permane (Corte Conti, sez. reg. contr.
Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del 14.05.2009; Corte
Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par.
del 23.04.2010; contra, ma con affermazione apodittica,
delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione
riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità
nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla
gestione di pertinenza della magistratura contabile.
L’intervento del revisore contabile è necessario quale
titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di
raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti,
sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del
23.04.2010; Sez. Contr. Reg. Piemonte, parere n. 23 del
18.03.2010).
9)
L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla
maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato
che <<l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di
collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica
amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata>> (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
10)
L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127,
art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni
(anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori
esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è
previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i
relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti
percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare
erogato.
III) Profili di non conformità a legge della determina di
affidamento di incarico oggetto della presente
deliberazione.
La determina del responsabile dell’area tecnico-manutentiva
del Comune di Porto Valtravaglia n. 10, del 17.02.2011,
avente per oggetto il conferimento di <<tutte le attività
in materia di edilizia privata ed in particolare
l'istruttoria, la gestione e il controllo delle pratiche
edilizie>>, presenta sia vizi sostanziali sia vizi
procedimentali; dunque il Comune di Porto Valtravaglia,
contravvenendo ai principi in precedenza esposti, ha fatto
ricorso all’istituto della collaborazione professionale
esterna in violazione di norme di legge.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa
deliberazione, il Comune di Porto Valtravaglia ha violato le
seguenti norme di legge:
1) violazione del comma 173 dell’art. 1, della legge n. 266/2005
(legge finanziaria per il 2006) che impone agli enti locali
l’obbligo di acquisire il parere del revisore dei conti e,
quando l’atto di spesa supera la spesa annua di cinquemila
euro, di trasmettere l’affidamento dell’incarico di studio o
di consulenza alla sezione regionale di controllo
territorialmente competente.
La violazione della norma che impone l’obbligo di invio alla
Corte dei Conti dell’atto di spesa è riscontrabile
documentalmente (infatti, solo dopo specifica richiesta
istruttoria del Magistrato Istruttore, l’amministrazione di
Porto Valtravaglia ha comunicato di aver conferito
l’incarico di collaborazione professionale). Come emerge
dalla determina di affidamento in esame “la relativa
spesa complessiva di € 24.910,08=, IVA e CIPAG 4% compresi”
è stata “impegnata ed imputata all'intervento 1010603,
capitolo 5010370” del Bilancio di previsione 2011.
Altresì riscontrabile documentalmente è la mancata
acquisizione del parere del revisore dei conti (per la
necessità della sua acquisizione si rimanda a quanto detto
al n. 8 del paragrafo II della presente motivazione).
2) violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di
procedure comparative per l’affidamento dell’incarico
esterno.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza
amministrativa un adempimento essenziale per la legittima
attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n.
494/2007). Infatti, <<l'affidamento di incarichi di
consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti
esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere
dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa
adeguatamente pubblicizzata>> (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
Il revisore ha affermato che <<per l’assegnazione
dell’incarico al professionista C.C. per l’anno
2011 non è stata espletata la procedura comparativa>>.
In sede di adunanza è stato accertato che anche l’incarico
affidato nel corso del 2012 è avvenuto in violazione di
detta regola.
In proposito questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che
impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere
dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative
eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità
della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta
urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della
consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un
evento eccezionale”). Dunque, poiché nel caso di specie
non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere
eccezionale, questa Sezione ritiene che il Comune di Porto
Valtravaglia, avendo proceduto all’affidamento diretto
dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI
che impone l’espletamento di una procedura comparativa per
la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
3) Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata
dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate
esternamente.
La durata del rapporto intercorso tra il Comune di Porto
Valtravaglia e il geom. C. (ovvero, primo incarico
triennale dal 2007 al 2010 e successivi incarichi annuali
nel 2011 e nel 2013) non risponde ai principi più volte
ribaditi dalla Magistratura contabile (ex multis
Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del
Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n.
SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 e la delibera n. 24/2011)
secondo cui la durata dei contratti di collaborazione (ex
art. 7, c. 6, del d.lgs. n.165/2001) devono avere <<natura
temporanea, in quanto conferiti allo scopo di sopperire ad
esigenze di carattere temporaneo per le quali
l’amministrazione non possa oggettivamente fare ricorso alle
risorse umane e professionali presenti al suo interno. Al
riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente
in materia considera l’incarico di collaborazione coordinata
e continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a
fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione
committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di
completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente
all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute
all’interno di uno specifico progetto>>.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve essere
collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è
stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento.
La <<proroga si configura, essenzialmente, come
spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque,
come una sorta di ultra-attività del contratto originario>>
(delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 cit.).
Chiarito che è manifestamente illegittimo l’incarico
professionale “protratto per anni”, si osserva che
nel caso di specie questa Sezione formula dubbi sulla
possibilità di qualificare l’incarico de quo come contratto
co.co.co. a progetto. Infatti, <<la necessità di
ricorrere ad un incarico di collaborazione di tipo
coordinato e continuativo, invero, deve costituire un
rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari,
per le quali l’Amministrazione necessiti dell’apporto di
specifiche competenze professionali esterne, in quanto non
rinvenibili al suo interno>> (Sezione Centrale del
controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle
Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV
del 13.01.2012).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di
eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con
professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una
esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne
consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso
all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo
svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale
che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa
esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di
assunzione, <<con conseguente elusione delle disposizioni
in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche
amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di
personale>> (Sezione Centrale del controllo di
legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni
dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012).
D’altra parte, nel corso dell’istruttoria è emerso che c’è
un dipendente assegnato al funzionamento dell’ufficio
tecnico comunale, anche se in convenzione con il Comune di
Grantola.
Si aggiunga che la spesa per l’incarico de quo, non è
stata inserita nelle spese per il personale per l’anno 2011.
In conclusione, l’amministrazione comunale
deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della
Corte dei Conti
(delibera n. 20 del 04.04.2011) secondo cui: “fermo
restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli
enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità
possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi
557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296
(legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del
d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed
occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa o per programma anche se non vi siano state
corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di
un’adeguata programmazione del personale e di una
riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga
assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la
previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca
occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema
di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di
incarichi di consulenza”.
Dunque, questa Sezione rileva che la
criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza
di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le
funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata
eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa
per il personale e violando le norme sull’affidamento
all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
Piuttosto, l’ente locale dovrebbe attivarsi per valutare se
attraverso lo strumento della gestione in forma associata
con altri comuni possa svolgere la funzione de qua
senza incappare nelle violazioni di legge sin qui
evidenziate
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.06.2013 n. 243). |
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(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Semplificazione
dei criteri tecnici per la redazione della documentazione di
previsione d’impatto acustico dei circoli privati e pubblici
esercizi. Modifica ed integrazione dell’allegato alla
deliberazione di Giunta regionale 08.03.2002, n. VII/8313"
(deliberazione
G.R. 10.01.2014 n. 1217). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Aggiornamento
della disciplina regionale per l’efficienza e la
certificazione energetica degli edifici e criteri per il
riconoscimento della funzione bioclimatica delle serre e
delle logge, al fine di equipararle a volumi tecnici" (deliberazione
G.R. 10.01.2014 n. 1216). |
AMBIENTE-ECOLOGIA- LLAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Adozione
del piano regionale della mobilità ciclistica (articoli 1 e
2 della l.r. 7/2009 “Interventi per favorire lo sviluppo
della mobilità ciclistica”) e presa d’atto dei relativi
documenti previsti dalla procedura di valutazione ambientale
strategica/valutazione di incidenza" (deliberazione
G.R. 10.01.2014 n. 1214). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Direzione
generale Ambiente, energia e sviluppo sostenibile - Terzo
aggiornamento dell’elenco degli idonei alla nomina a
direttore di Parco regionale (art. 22-quater della l.r.
86/1983)" (decreto
D.U.O. 07.01.2014 n. 18). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
14.01.2014 n. 10 "Regolamento recante i criteri tecnici
per l’identificazione dei corpi idrici artificiali e
fortemente modificati per le acque fluviali e lacustri, per
la modifica delle norme tecniche del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale,
predisposto ai sensi dell’articolo 75, comma 3, del medesimo
decreto legislativo" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 27.11.2013 n. 156). |
ENTI
LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
13.01.2014 n. 9, suppl. ord. n. 4, "Ripubblicazione
del testo della legge 27.12.2013, n. 147, recante:
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014).»,
corredato delle relative note (Legge pubblicata nel
Supplemento ordinario n. 87 alla Gazzetta Ufficiale n. 302
del 27.12.2013)". |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Risparmi dalle indennità.
La sostituzione dei gettoni deve ridurre i costi.
Il Viminale dà ragione ai commissari di un ente in dissesto
finanziario.
È possibile trasformare il gettone di presenza in indennità
di funzione a favore di un consigliere comunale?
Nel caso di specie, ai sensi delle disposizioni dettate al
tempo dall'art. 82, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il consiglio comunale di un ente, con
atto del 2007, aveva deliberato di fissare l'indennità di
funzione dei consiglieri comunali nella misura stabilita
nella conferenza dei capigruppo. Successivamente a tale
nota, dal settore affari generali, sono state adottate due
determinazioni, la prima per la trasmissione del menzionato
atto al servizio finanziario, e la seconda con la quale
viene preso atto dell'impegno economico per il pagamento
della suddetta indennità.
Ai consiglieri comunali interessati non è mai stata
corrisposta l'indennità di cui trattasi e, alcuni di questi
hanno chiesto alla commissione straordinaria di liquidazione
nominata e seguito dalla dichiarazione di dissesto del
comune, l'ammissione alla massa passiva del presunto credito
indennitario, al netto dei gettoni liquidati.
La commissione straordinaria, con atto del 2013, ha
deliberato l'esclusione dalla massa passiva e, a seguito di
tale esclusione, i consiglieri interessati hanno chiesto un
riesame della questione rappresentata.
L'art. 82, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, nel testo vigente prima di essere soppresso
dall'art. 2, comma 25, della legge n. 244 del 2007,
disponeva che gli statuti e i regolamenti degli enti
potevano prevedere che all'interessato competesse, a
richiesta, la trasformazione del gettone di presenza in una
indennità di funzione, sempre che tale regime di indennità
comportasse per l'ente pari o minori oneri finanziari. Il
regime di indennità di funzione per i consiglieri prevedeva
l'applicazione di detrazioni dalle indennità in caso di non
giustificata assenza dalle sedute degli organi collegiali.
Nel periodo della vigenza della norma, l'Amministrazione
dell'Interno, formulando note interpretative circa le
modalità da seguire per la quantificazione della spesa
relativa alle indennità trasformate, rilevava, in
particolare, la necessità che venisse imprescindibilmente
rispettato quanto disposto dal comma 4 dell'art. 82 in
ordine all'applicazione del regime indennitario che, in
luogo di quello del gettone di presenza, avrebbe dovuto
comportare per l'ente «pari o minori oneri finanziari»;
evidenziava, quindi, che la disciplina statutaria e
regolamentare dell'indennità dovesse essere in grado di
garantire che la spesa, che l'ente avrebbe sostenuto
corrispondendo a tutti i consiglieri il gettone di presenza
in relazione alla effettiva partecipazione alle sedute, non
fosse travalicata applicando il regime indennitario.
Questa facoltà, al tempo attribuita all'organo
amministrativo, attese le avvertite esigenze di contenimento
dei costi è stata abrogata dalla citata legge, n. 244 del
2007, secondo la linea di contenimento che ha caratterizzato
anche i successivi interventi del legislatore sul
complessivo impianto normativo concernente il sistema delle
indennità.
La richiesta di riesame della delibera commissariale del
2013, i cui contenuti sono in linea con gli orientamenti
espressi da questo Dicastero, deve essere valutata dallo
stesso organo che ha emesso l'atto presupposto, tenuto conto
che il comune in questione si trova in dissesto finanziario,
secondo i principi di buon andamento e contenimento della
spesa che devono improntare l'azione degli amministratori
locali (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI -
EDILIZIA PRIVATA: 1)–
Non può escludersi la generale ammissibilità di mezzi di
adempimento diversi dal pagamento nel caso di transazioni
commerciali tra ente locale e privati, originate da
contratti di servizi e forniture, ai sensi dell’art. 2,
comma 4, del “Codice degli appalti pubblici” (D.Lgs.vo n.
163/2006). (In questo senso, è stato ritenuto che la
disposizione ex art. 35, comma 3-bis, del D.L. n. 1/2012,
sia applicabile anche agli EE.LL.).
La compensazione dei crediti commerciali non prescritti,
certi, liquidi ed esigibili, con debiti tributari, trova le
limitazioni contenute nelle specifiche norme in materia, non
derogabili, che la ammettono su istanza del creditore o su
sua specifica richiesta.
---------------
2)- Nel caso della procedura di riequilibrio pluriennale non
si rinvengono indicazioni specifiche, quali quelle
prescritte per la procedura di dissesto, che impongano una
particolare procedura di pagamento dei debiti, che possano
essere ricondotte al principio della “par condicio
creditorum”. (Nel parere si segnala, comunque, la
disposizione contenuta all’art. 6 del D.L. n. 35/2013, che
può fornire indicazioni di carattere generale e, dunque, non
circoscritto alle sola ipotesi del riequilibrio pluriennale,
sul corretto criterio di pagamento dei debiti delle
pubbliche amministrazioni).
---------------
3)- Allo stato attuale della legislazione e fino a tutto il
2014, l’utilizzo delle risorse rivenienti dalle concessioni
edilizie e dalle sanzioni previste dal DPR n. 380/2001,
fermo il presupposto che le spese non siano consolidate e
ripetitive e che l’entrata sia accertata sulla base degli
introiti effettivi, nel rispetto dei principi di sana
gestione, continua a essere disciplinato nel modo previsto
dalla legge n. 244/2007, ancora non trovando applicazione il
nuovo vincolo di destinazione impresso dall’art. 4 comma 3,
della legge n. 228 del 24/12/2012.
Permane pertanto la possibilità di utilizzare, per la quota
del 50%, le entrate rivenienti nei contributi per permesso
di costruzione per la pulizia delle strade e per
fronteggiare il debito fuori bilancio dell’Ente nei
confronti di creditori che abbiano effettuato interventi per
l’emergenza neve e per la manutenzione delle strade
comunali.
---------------
Con la nota in epigrafe il Commissario Straordinario del
Comune di San Fele, dopo aver premesso che l’Ente ha
adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale,
pone i seguenti quesiti:
I-
con riferimento alle norme in materia di compensazione di
crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili,
maturati al 31.12.2012 nei confronti dei Comuni, si chiede
se anche l’Ente possa legittimamente avvalersi di tale
facoltà nei rapporti con i privati, anche allo scopo di
prevenire danni da ritardo nei pagamenti ai propri creditori;
I.1-
se, nel caso di risposta affermativa, sia corretto
approvare preventivamente un atto di indirizzo/direttiva di
Giunta per i responsabili dei settori e degli uffici;
II-
se vi sono, e quali sono, le corrette azioni da
intraprendere per non violare il principio della par
condicio creditorum nell’attuazione della procedura di
riequilibrio finanziario pluriennale;
III-
se le entrate derivanti dai contributi per permesso di
costruzione possano legittimamente essere destinate a
fronteggiare il debito dell’Ente nei confronti di creditori
che abbiano effettuato interventi per l’emergenza neve e per
la manutenzione delle strade comunali (prestazioni di
servizi).
...
(... segue) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 27.11.2013 n. 123). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
tema di riconoscimento di debiti fuori bilancio deve
ritenersi che la dizione “sentenze esecutive” di cui alla
lett. a) del primo comma dell’art. 194 del TUEL possa
ricomprendere i provvedimenti giudiziari esecutivi da cui
derivino debiti pecuniari e, conseguentemente, i decreti
ingiuntivi esecutivi.
---------------
Con nota prot. n. 4057 del 21.11.2013 il Sindaco del comune
di Campomaggiore, dopo aver premesso che l’Ente, «… con
deliberazione di Giunta Comunale del 2001, al fine di dotare
l'Amministrazione Comunale di una specifica ed alta
professionalità in campo legale, sia per fornire un supporto
consulenziale legale e sia per la redazione di pareri su
casi legali e amministrativi, deliberava di affidare a
professionista esterno l'espletamento delle suddette
attività per un periodo di dodici mesi, con tacito rinnovo,
e approvava relativa bozza di convenzione, sottoscritta
dall'allora Sindaco pro tempore e dal professionista esterno»,
ha rappresentato che «…è stato notificato al Comune di
Campomaggiore decreto ingiuntivo da parte del professionista
per il credito, a suo dire, vantato in forza della
convenzione suddetta».
Con la stessa nota, dopo essere stato tra l’altro
specificato che «… il Comune nei termini di legge ha
proposto opposizione al decreto ingiuntivo», che «…
nel corso del giudizio di opposizione, sebbene richiesta,
non è stata sospesa la esecuzione provvisoria del decreto
ingiuntivo» e che «… il professionista ha avviato
l’espropriazione presso terzi, oggi in corso», è
stato chiesto di conoscere l’avviso di questa Sezione
regionale di controllo «… in ordine:
1. all'obbligo di procedere al riconoscimento del debito
fuori bilancio ai sensi dell'art. 193, comma 2, del D.lgs.
267/2000 nel caso di obbligazioni pecuniarie nascenti da
decreto ingiuntivo del quale nel corso del giudizio di
opposizione, sebbene richiesta, non sia stata sospesa la
provvisoria esecuzione, atteso che lo stesso non rientra
nella categoria di cui all'art. 194, comma 1, lett. a), del
D.lgs. 267/2000;
2. all'obbligo di riconoscere il debito fuori bilancio in
presenza di eventuale ordinanza di assegnazione emessa ai
sensi dell'art. 553 c.p.p.,» (recte: 553 c.p.c.) «in
favore del creditore che procede al pignoramento presso
terzi, sebbene l'ordinanza de qua, ancorché
presupponga la necessaria verifica da parte del Giudice
dell'esecuzione dell'esistenza del titolo esecutivo e della
correttezza della quantificazione del credito operata dal
creditore in precetto, non abbia alcuna attitudine ad
acquisire valore di cosa giudicata, in quanto il Giudice
dell'esecuzione non risolve una controversia nei modi della
cognizione con una decisione che fa stato tra le parti, ma
esaurisce il suo accertamento nell'ambito della procedura
esecutiva».
Si è chiesto, infine, «… di conoscere se l'attuale
assetto legislativo consente di non riconoscere il debito
secondo la procedura di cui all'art. 193 D.lgs. 267/2000, in
pendenza di giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.p.,» (recte:
645 c.p.c.) «nel quale l'Ente potrebbe vedere riconosciute
le sue ragioni, senza arrecare danni patrimoniali all'Ente
locale».
...
L’art. 194 del D.lgs. n. 267/2000 (TUEL)
detta la disciplina regolante il riconoscimento della
legittimità dei debiti fuori bilancio, stabilendo che, in
occasione della deliberazione con cui l’Organo consiliare
effettua la ricognizione sullo stato di attuazione dei
programmi e verifica se permangono gli equilibri generali di
bilancio (art. 193, secondo comma, del TUEL), o con la
diversa periodicità prevista dai regolamenti di contabilità,
gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori
bilancio derivanti, tra l’altro, dalle sentenze esecutive,
contemplate dalla lett. a) del primo comma del predetto art.
194.
Si osserva, preliminarmente, come il legislatore non
richieda che l’accertamento recato dalla sentenza sia
connotato dalla definitività del giudicato, visto che, in
conseguenza dell’ultima formulazione dell’art. 282 del
codice di procedura civile, le sentenze di primo grado sono
provvisoriamente esecutive.
Le disposizioni recate dal predetto art. 194 sono ritenute
di carattere eccezionale e, quindi, se non ammettono il
ricorso all’analogia, per ius receptum sono
suscettibili di intepretazione estensiva.
Alcuni recenti pareri resi dalle Sezioni regionali di
controllo della Corte dei conti ai sensi dell’art. 7, comma
8, della L. n. 131/2003 hanno espresso un orientamento, da
cui questo Collegio non ritiene doversi discostare, secondo
il quale la dizione “sentenze esecutive” possa
ricomprendere i provvedimenti giudiziari esecutivi da cui
derivino debiti pecuniari e, conseguentemente, i decreti
ingiuntivi esecutivi.
È stato evidenziato che ciò che pare «…
escludere decisamente l’ipotesi che il Legislatore abbia
voluto limitare l'applicazione della disposizione
eccezionale, di cui alla lett. a) dell’art. 194, alle sole
sentenze esecutive è il carattere garantistico del
procedimento solutorio previsto dalla norma de qua, in
quanto imperniato sulla presa di conoscenza, da parte
dell’Organo Consiliare dell’Ente locale, dell’esistenza
dell’obbligazione in questione e sulla rimodulazione, da
parte di detto Organo, delle previsioni di bilancio, quale
unica e tipica procedura per la riconduzione della spesa de
qua nell’alveo della contabilità dell’Ente.
In considerazione delle particolari caratteristiche di
trasparenza contabile cui … è informato il procedimento di
cui all’art. 194, non si ha, dunque, motivo di ipotizzare
-nell’assenza di specifiche disposizioni di legge- che il
Legislatore abbia inteso ancorare il pagamento di debiti
pecuniari derivanti da altri (rispetto alle sentenze
esecutive) provvedimenti giudiziari esecutivi -quali,
appunto, i decreti ingiuntivi- all’adozione di diversi
procedimenti giuscontabili, meno garantistici o comunque più
complessi e tortuosi; così come sarebbe decisamente
paradossale sospettare che il medesimo Legislatore abbia
voluto propiziare il rinvio della “solutio” ad altro
esercizio, viste le immancabili conseguenze che ne
deriverebbero in termini di inutili lungaggini e di
lievitazione della spesa, per effetto dell’instaurazione di
procedimenti esecutivi e, comunque, per la maturazione, nel
tempo, degli accessori di legge»
(parere n. 384/2011 del 26.07.2011 della Sez. reg. contr.
per la Campania; nello stesso senso cfr. la deliberazione n.
242/2013/PAR del 25.06.2013 della Sez. reg. contr. per
l’Emilia Romagna).
Ulteriori utili indicazioni possono trarsi dal Principio
contabile n. 2 per gli Enti locali, approvato
dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti
locali il 28.11.2008, nel quale, al punto 94, trovasi
sottolineata la obbligatorietà, ove sussistano i
presupposti, dell’adozione tempestiva della procedura di
riconoscimento «… onde evitare, la formazione di
ulteriori oneri aggiuntivi a carico dell’ente come eventuali
interessi o spese di giustizia». Allo stesso punto è
stato, peraltro, evidenziato che «La mancata tempestiva
adozione degli atti amministrativi necessari è astrattamente
idonea a generare responsabilità per funzionari e/o
amministratori».
Con riferimento all’ipotesi di cui alla lettera a) del primo
comma del predetto art. 194, poi, non sussistono, in capo al
Consiglio dell’ente, margini di discrezionalità nella
delimitazione della debitoria oggetto del riconoscimento.
Nel caso di debiti derivanti da sentenza esecutiva, infatti,
il significato del provvedimento del Consiglio non è quello
di riconoscere la legittimità del debito, il cui
accertamento è effettuato aliunde in quanto riservato
alla sede giurisdizionale, ma quello di
«ricondurre
al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria
che è maturato all’esterno di esso» (punto 101).
Altra funzione della delibera consiliare
deve, in ogni caso, essere individuata nel «…
ruolo di accertamento delle cause che hanno originato
l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali
responsabilità. Del resto, questa funzione di accertamento è
rafforzata dalla previsione dell’invio agli organi di
controllo e alla Procura regionale della Corte dei conti
(art. 23, comma 5, L. 289/02) delle
delibere in esame
(in tal senso, cfr. Corte dei conti, sez. contr. Lombardia,
1/2007)»
(parere n. 15/2013 del 31.01.2013 della Sez. reg. contr. per
la Campania).
Si consideri, d’altro canto, che il Comune non potrebbe, a
tutela delle proprie finanze, ritardare oltre i termini di
legge il pagamento di quanto ingiunto con formula esecutiva,
essendo allo stesso pagamento astretto dalla necessità di
rispettare l’ordine del giudice.
Infatti, «Nel caso di sentenza esecutiva
al fine di evitare il verificarsi di conseguenze dannose per
l’ente per il mancato pagamento nei termini previsti
decorrenti dalla notifica del titolo esecutivo, la
convocazione del Consiglio per l’adozione delle misure di
riequilibrio deve essere disposta immediatamente e in ogni
caso in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini
di legge ed evitare la maturazione di oneri ulteriori a
carico del bilancio dell’ente»
(punto 103).
La necessità di regolarizzazione contabile, poi, diventa
ancor più stringente nell’ipotesi concernente pagamenti
effettuati direttamente dal Tesoriere a seguito di procedure
esecutive. In tal caso, infatti, «…l’ente deve
immediatamente provvedere al riconoscimento e finanziamento
del debito e alla regolarizzazione del pagamento avvenuto».
Ad ogni modo, «Tale procedura non costituisce …
impedimento all’attivazione delle azioni a tutela dell’ente»
(punto 95).
A tale ultimo scopo, comunque, sono rivolti anche i principi
derivanti dal punto 102, che ha stabilito quanto segue: «Il
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio
derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza
alla stessa e pertanto non esclude l’ammissibilità
dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento, pertanto,
deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori
impugnazioni ove possibili e opportune».
Al fine di assicurare la maggior tutela possibile alle casse
dell’Ente appare necessaria, in ogni caso, l’adozione da
parte dell’amministrazione comunale di tutte le possibili
misure idonee a garantire il recupero di quanto risultasse
non dovuto all’esito della definizione dei procedimenti
giurisdizionali pendenti.
Ovviamente, nel caso in cui l’esecutività della sentenza di
primo grado o la provvisoria esecutività del decreto
ingiuntivo opposto fossero sospese nel giudizio di appello o
di opposizione non sussisterebbe l’obbligo al riconoscimento
del debito fuori bilancio ai sensi della lett. a sopra
citata. In ogni caso, però, «… l’ente potrebbe
accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi
di una sana e corretta gestione finanziaria, idonee risorse
atte a garantire la copertura del debito in caso di
eventuale soccombenza» (parere n. 15/2013 della Sez.
reg. controllo per la Campania).
Anche in tal caso, però, il Consiglio comunale dovrebbe
comunque verificare se, per il rapporto sostanziale sotteso
all’azione giudiziale, sussista la riconoscibilità sulla
base di altre ipotesi previste dal primo comma dell’art. 194
citato (ad esempio alla lett. e -che contempla
l’acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 del TUEL,
nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di
pubbliche funzioni e servizi di competenza- sempre
ovviamente che non ricorra la fattispecie di cui al quarto
comma dell’art. 191 del TUEL, e quindi l’ingresso del debito
nella sfera patrimoniale dell’ente non possa verificarsi
perché il rapporto debba ritenersi instaurato tra il privato
fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che
hanno consentito la fornitura o che, per le esecuzioni
reiterate o continuative, abbiano reso possibili le singole
prestazioni)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 27.11.2013 n. 121). |
SEGRETARI COMUNALI: La responsabilità del segretario comunale in caso di danni
erariali accertati dalla Corte dei Conti.
Il Giudice
contabile può, e anzi deve, considerare incidenter tantum
eventuali corresponsabilità di soggetti che non sono parti
del giudizio, ai fini della quantificazione del danno
concretamente attribuibile ai soggetti chiamati in giudizio.
Invero, l’art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20/1994,
introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 543/1996 convertito dalla
legge n. 639/1996, stabilisce infatti: “se il fatto dannoso
è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le
singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che
vi ha preso”.
E nella fattispecie,
vanno peraltro anche considerate le presumibili
carenze nell’assistenza giuridica fornita agli
amministratori comunali, nella vicenda in esame, dal
segretario comunale.
Sul punto, va rilevato che all’epoca dei fatti in questione
le funzioni del segretario comunale erano disciplinate, in
modo non organico, dal testo unico approvato con r.d. n.
383/1934 e dal regolamento approvato con r.d. n. 297/1911,
ma anche da altre disposizioni legislative e regolamentari.
Sulla base dell’art. 59 del r.d. n. 297/1911 (il segretario
“assiste alle sedute della giunta, ha voto consultivo circa
la legalità di ogni proposta e deliberazione e redige il
verbale dell’adunanza”) e dell’art. 81 dello stesso r.d.
(“il segretario è responsabile degli adempimenti di legge
spettanti all’ufficio comunale, e della esecuzione delle
deliberazioni del Consiglio e della Giunta, in conformità
delle disposizioni del sindaco”), veniva comunque
pacificamente riconosciuta al segretario comunale anche
un’importante attività di “consulenza tecnico-giuridica”,
che nella fattispecie non risulta in effetti
convenientemente assicurata.
--------------
Nel caso di compartecipazione di più soggetti a
un'unica vicenda dannosa per un’amministrazione pubblica, la
giurisprudenza di gran lunga prevalente esclude una
responsabilità cumulativa unitaria e pertanto un
litisconsorzio necessario in applicazione dell'art. 102
c.p.c. (ex plurimis: SS.RR. n. 13/QM/2003, Prima
Sezione n. 101/2005, Seconda Sezione n. 361/2005, Terza
Sezione n. 16/2007, Appello Sicilia n. 126/2010 etc.).
Peraltro il Giudice può, e anzi deve, considerare
incidenter tantum eventuali corresponsabilità di
soggetti che non sono parti del giudizio, ai fini della
quantificazione del danno concretamente attribuibile ai
soggetti chiamati in giudizio. L’art. 1, comma 1-quater,
della legge n. 20/1994, introdotto dall’art. 3 del d.l. n.
543/1996 convertito dalla legge n. 639/1996, stabilisce
infatti: “se il fatto dannoso è causato da più persone,
la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità,
condanna ciascuno per la parte che vi ha preso”.
Nella fattispecie, la Sezione molisana ha già considerato le
possibili corresponsabilità di due assessori, addebitando al
sig. F.R. solo la terza parte del danno accertato (e
riducendo altresì ulteriormente del 10% l’importo della sua
quota di danno).
Ad avviso del Collegio, vanno peraltro anche considerate le
presumibili carenze nell’assistenza giuridica fornita agli
amministratori comunali, nella vicenda in esame, dal
segretario comunale.
Sul punto, va rilevato che all’epoca dei fatti in questione
le funzioni del segretario comunale erano disciplinate, in
modo non organico, dal testo unico approvato con r.d. n.
383/1934 e dal regolamento approvato con r.d. n. 297/1911,
ma anche da altre disposizioni legislative e regolamentari.
Sulla base dell’art. 59 del r.d. n. 297/1911 (il segretario
“assiste alle sedute della giunta, ha voto consultivo
circa la legalità di ogni proposta e deliberazione e redige
il verbale dell’adunanza”) e dell’art. 81 dello stesso
r.d. (“il segretario è responsabile degli adempimenti di
legge spettanti all’ufficio comunale, e della esecuzione
delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta, in
conformità delle disposizioni del sindaco”), veniva
comunque pacificamente riconosciuta al segretario comunale
anche un’importante attività di “consulenza
tecnico-giuridica”, che nella fattispecie non risulta in
effetti convenientemente assicurata.
Va poi anche considerata, come ulteriore concausa nella
produzione del danno o almeno ai fini di una più congrua
applicazione del potere riduttivo dell’addebito previsto
dagli artt. 52 del r.d. n. 1214/1934 e 1 della legge n.
20/1994, l’approvazione senza rilievi della deliberazione n.
165/1980 da parte del Comitato Regionale di Controllo, cui
l’art. 59 della legge n. 62/1953 attribuiva il “controllo
di legittimità” delle deliberazioni comunali (Corte dei
Conti, Sez. II giurisdiz. centrale d'appello,
sentenza 22.11.2013 n. 716). |
LAVORI PUBBLICI:
Parere - debiti fuori bilancio.
Il verificarsi di una mancata entrata,
che era stata precedentemente accertata, con conseguente
impegno della relativa spesa in conto capitale ed
aggiudicazione dei lavori, non costituisce un debito fuori
bilancio, ma determina la necessità di ripristinare
l’equilibrio finanziario del bilancio, adottando i
provvedimenti previsti dall’art. 193 Tuel.
---------------
Con nota n. 8416 in data 26.09.2013, trasmessa per
il tramite del Consiglio delle Autonomie (nota n.
30261/2013) e pervenuta in data 03.10.2013, il sindaco del
comune di Nole pone un quesito in materia di debiti fuori
bilancio.
Premesso che in data 18/12/2009 è stata stipulata una
convenzione con l’ASL T04 di Chivasso (TO) per la locazione
di un fabbricato di proprietà comunale con obbligo da parte
del comune di eseguire i lavori di ristrutturazione, il cui
costo, pari a complessivi € 1.400.000,00, sarebbe stato
parzialmente anticipato dall’ASL per € 933.000,00,
scomputandolo dal canone, e che dopo l’aggiudicazione dei
lavori l’ASL ha chiesto, a modifica della convenzione, la
riduzione degli spazi locati e la conseguente riduzione
proporzionale della quota del costo dei lavori di propria
competenza, riducendola a complessivi € 513.000,00,
l’amministrazione comunale chiede se il rifinanziamento dei
lavori, applicando l'avanzo di amministrazione per €
336.000,00, sia da considerarsi debito fuori bilancio ai
sensi dell’art. 194 del TUEL.
...
Com’è noto con il termine di “debito fuori bilancio”
si intende un’obbligazione verso terzi per il pagamento di
una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle
norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa
degli enti locali (Principio contabile n. 2, paragrafo
91). Si tratta di un fenomeno riconducibile al concetto di “sopravvenienza
passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori
dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni
dell’art. 191 Tuel e in assenza di una specifica previsione
nel bilancio di esercizio in cui i debiti si manifestano.
L’art. 194 del individua le tipologie di debiti fuori
bilancio che è possibile riconoscere, imputando l’obbligo
insorto in capo all’ente, con l’adozione di apposita
deliberazione del Consiglio.
Il primo comma della suddetta norma così testualmente
dispone: "1. Con deliberazione consiliare di cui
all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità
stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali
riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio
derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e
di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da
statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato
rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui
all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di
gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per
opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei
limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento
per l'ente, nell'àmbito dell'espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza.".
Secondo la costante giurisprudenza l’elencazione
contenuta nella predetta norma ha carattere tassativo,
sicché non è possibile riconoscere debiti fuori bilancio che
non rientrano nelle tipologie individuate (ex multis
delibera 314/2012 di questa sezione e precedenti ivi
richiamati).
Con riferimento al caso di specie, fermo restando che
questa Sezione non può che limitarsi all’esame degli aspetti
contabili e ad indicazioni di carattere generale, rimanendo
riservate alla esclusiva competenza dell’Amministrazione le
valutazioni e le decisioni del caso concreto, si osserva
che, secondo quanto riferito, al momento dell’aggiudicazione
i lavori erano stati regolarmente finanziati ed era stato
previsto in bilancio il relativo stanziamento.
Pertanto, la Sezione ritiene che non si tratti di un
debito fuori bilancio, ma del verificarsi di una mancata
entrata, che era stata precedentemente accertata, con la
conseguente necessità di ripristinare l’equilibrio
finanziario del bilancio, adottando i provvedimenti previsti
dall’art. 193 Tuel (Corte dei
Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere
12.11.2013 n. 383). |
ENTI LOCALI:
Spending review, no all’erogazione di contributi pubblici ad
associazioni che svolgono servizi per la PA.
Le
associazioni che svolgono attività a favore della
cittadinanza non rientrano nel divieto di legge, dacché
quest’ultimo si applica nel solo caso di attività prestate
direttamente alla PA.
Il
parere 07.11.2013 n. 379
della Corte dei Conti,
Sez. controllo per il Piemonte, ha il pregio di chiarire il
significato e le implicazioni di un divieto che si cela tra
le pieghe della c. spending review, e che non sempre viene
tenuto in debita considerazione dagli Enti locali,
nonostante i profili di responsabilità erariale che
l’impiego illegittimo delle risorse pubbliche può di regola
comportare per funzionari e amministratori.
Il divieto in questione è contenuto nell’art. 4, comma 6,
del DL 95/2012, convertito in legge 07.08.2012, n. 135,
ai sensi del quale gli enti di diritto privato di cui agli
articoli da 13 a 42 del codice civile (fondazioni,
associazioni, comitati e società) che forniscono servizi a
favore dell’Amministrazione, anche a titolo gratuito, non
possono ricevere contributi a carico delle finanze
pubbliche.
La norma prosegue recando numerose eccezioni che però –come
sempre– confermano la regola, stabilendo che sono esclusi
dal divieto de quo vari soggetti i quali, per natura
giuridica e attività svolta, sono ritenuti meritevoli del
beneficio di deroga, tra cui, a titolo esemplificativo, le
fondazioni istituite per promuovere lo sviluppo tecnologico,
le associazioni operanti nel campo dei servizi
socio-assistenziali e culturali, le associazioni di
promozione sociale, gli enti di volontariato e le
cooperative, le organizzazioni non governative e le
associazioni sportive dilettantistiche).
La ratio di un siffatto divieto che, a livello di territorio
locale, sembra davvero destinato a sovvertire il fragile
equilibrio tra le aggregazioni sociali e la PA, è illustrato
nella prima parte del sesto comma del suddetto art. 4, là
dove si afferma la necessità che gli Enti locali
acquisiscano i servizi di cui abbisognano “esclusivamente in
base a procedure previste dalla normativa nazionale in
conformità con la disciplina comunitaria”.
Il rigore di tale disposto deve essere comunque inquadrato
nella cornice del parere in commento, che in qualche misura
ne precisa e ne tempera la portata.
Il giudice contabile chiarisce, infatti, che le associazioni
che svolgono attività a favore della cittadinanza non
rientrano nel divieto di legge, applicandosi quest’ultimo
nel solo caso di attività prestate direttamente alla PA.
Si tratta perciò di operare, alla luce di queste
indicazioni, una disamina caso per caso, finalizzata ad
accertare i presupposti per l’erogazione di contributi e
vantaggi economici da parte degli Enti, con la
consapevolezza che le relative procedure meritano una cura
speciale, in considerazione delle finalità di pubblico
interesse che la PA deve sempre garantire, allorché gestisce
le cospicue risorse a sua disposizione (commento tratto da www.leggioggi.it).
---------------
Con la nota richiamata in epigrafe il Presidente della
Provincia di Torino ha posto alla Sezione una richiesta di
parere in merito alla corretta interpretazione dell’art. 4,
comma 6, del D.L. n. 95/2012. In particolare, la
richiesta di parere chiede chiarimenti in merito:
a) all'ammissibilità o meno di una ricostruzione della
norma che escluda dal divieto i contributi che, quand'anche
erogati ad operatori economici che abbiano prestato, o
prestino, servizi a favore della pubblica amministrazione,
costituiscano mera attuazione di una previsione legislativa
generalizzata a tutta la platea dei possibili beneficiari
ovvero a soggetti selezionati all'esito di una procedura ad
evidenza pubblica;
b) all'ammissibilità di conclusione analoga a quella che
precede possa essere adottata quando il beneficio economico
non sia previsto da una disposizione legislativa ma
costituisca l'esito di politiche attive autonomamente decise
dalla Provincia ed attuate previa l'individuazione dei
destinatari all'esito di procedure pubbliche selettive;
c) alla qualificazione, quindi, della nozione di
contributo accolta dal legislatore della norma finanziaria
del 2012 nell'ottica di definire se gli stessi siano stati
riferiti solo ai contributi assolutamente discrezionali, od
alle quote associative o statutarie ovvero facciano
riferimento a tutta la gamma delle possibili sovvenzioni al
mondo delle imprese;
d) all'individuazione dei servizi considerati dal
precetto di che trattasi nell'ottica di definire se gli
stessi siano riferiti ai soli servizi strumentali ovvero
anche a quelli rivolti all'utenza (es. servizi pubblici
locali di trasporto);
e) alla esigibilità del divieto solo nell'ipotesi in cui
l'amministrazione che eroga il beneficio coincida con quella
che si avvale della prestazione del servizio ovvero se il
divieto operi anche in assenza di tale coincidenza.
...
La richiesta di parere attiene all’interpretazione dell’art.
4, comma 6, del D.L. n. 95/2012, ai sensi del quale “a
decorrere dal 01.01.2013, le pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165
del 2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di
qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di
diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice
civile esclusivamente in base a procedure previste dalla
normativa nazionale in conformità con la disciplina
comunitaria. Gli enti di diritto privato di cui agli
articoli da 13 a 42 del codice civile, che forniscono
servizi a favore dell'amministrazione stessa, anche a titolo
gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle
finanze pubbliche. Sono escluse le fondazioni istituite con
lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l'alta
formazione tecnologica e gli enti e le associazioni operanti
nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni ed
attività culturali, dell'istruzione e della formazione, le
associazioni di promozione sociale di cui alla legge
07.12.2000, n. 383, gli enti di volontariato di cui alla
legge 11.08.1991, n. 266, le organizzazioni non governative
di cui alla legge 26.02.1987, n. 49, le cooperative sociali
di cui alla legge 08.11.1991, n. 381, le associazioni
sportive dilettantistiche di cui all'articolo 90 della legge
27.12.2002, n. 289, nonché le associazioni rappresentative,
di coordinamento o di supporto degli enti territoriali e
locali”.
In merito alla corretta applicazione della norma richiamata,
la Sezione di Controllo per la Lombardia, con il parere n.
89/2013, ha espresso il proprio avviso -condiviso da questo
Collegio- secondo cui le associazioni che
svolgono attività in favore della cittadinanza non rientrano
nel divieto di legge: quest’ultimo è riferito “agli enti
di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del
codice civile che forniscono servizi a favore
dell'amministrazione stessa anche a titolo gratuito”.
La Sezione lombarda della Corte ha osservato che
il predetto divieto di erogazione di contributi “ricomprende
l’attività prestata dai soggetti di diritto privato
menzionati dalla norma in favore dell’Amministrazione
Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece,
esclusa dal divieto di legge l’attività svolta in favore dei
cittadini, id est della “comunità amministrata”, seppur
quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali
dell’ente locale e dunque nell’interesse di quest’ultimo. Il
discrimine appare, in sostanza, legato all’individuazione
del fruitore immediato del servizio reso dall’associazione”.
Come messo in luce dalla Sezione di Controllo per la Regione
Marche nel parere n. 39/2013, con la
disposizione in esame il legislatore ha inteso obbligare le
pubbliche amministrazioni ad acquisire servizi resi da
soggetti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42
del cod. civ. soltanto mediante “procedure previste dalla
normativa nazionale in conformità con la disciplina
comunitaria”, e ha inteso riaffermare la prevalenza del
diritto dell’Unione europea con riferimento alle varie
tipologie di accordi, convenzioni, contratti, aventi come
oggetto l’acquisizione di servizi a titolo oneroso da parte
delle pubbliche amministrazioni, ribadendo la doverosa
applicazione della normativa nazionale secondo una
interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea.
La ratio della norma non attribuisce rilevanza al
profilo del principio di sussidiarietà orizzontale. Invero,
“ciò che conta è la decisione di
un’amministrazione pubblica di “acquisire a titolo oneroso
servizi di qualsiasi tipo”, ritenendo cioè tale acquisizione
conforme alle proprie finalità istituzionali e perciò
meritevole di finanziamento con proprie risorse. Una volta
che la p.a. si sia determinata in tal senso, la norma
ribadisce che qualsiasi modulo contrattuale (con
l’espressione esemplificativa “anche in base a convenzioni”)
concluso con enti di diritto privato (fondazioni,
associazioni, comitati, ma anche società, stante il richiamo
all’art. 13 cod. civ.) deve essere preceduto dalla procedura
applicabile in punto di individuazione del contraente. (…)
La disposizione contiene, quindi, un precetto attuativo del
principio di parità di trattamento degli operatori economici
che contrattano con la pubblica amministrazione nonché del
principio di buon andamento e imparzialità dell’attività
amministrativa…”
(parere n. 39/2013 cit.).
Inoltre, “nel primo periodo dell’art. 4,
comma 6, il soggetto della frase sono le amministrazioni
pubbliche, mentre nel secondo periodo lo sono gli enti di
diritto privato. La terza frase indica una serie di soggetti
che “sono esclusi”. Pur non essendo chiaro se tale
espressione si riferisca a entrambe le previsioni normative
che la precedono, è indubbio che tutti gli enti ivi indicati
possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche
anche qualora forniscano servizi alla stessa
amministrazione. La motivazione risiede nella meritevolezza
delle finalità che tali soggetti perseguono. Non pare
automatico, però, che nei confronti degli stessi enti le
pp.aa. possano pattuire tout court acquisizioni di servizi a
titolo oneroso in via diretta, e cioè in deroga al disposto
del primo periodo. Per alcune figure si rinvengono
riferimenti normativi che lo consentono (cfr. art. 5, comma
1, l. 08.11.1991, n. 381 in materia di cooperative sociali),
ma una interpretazione che escluda tutti i predetti
soggetti, per la sola appartenenza alla elencazione de quo,
dalla portata applicativa del primo periodo appare
contraddittoria con la ratio e la portata precettiva dello
stesso. In ogni caso, resta fermo che, in materia di
contributi, sovvenzioni e comunque di attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere, la disciplina in
concreto applicabile dovrà rinvenirsi anche nelle fonti
regolamentari adottate dagli enti ai sensi dell’art. 12 l.
n. 241 del 1990 nonché nelle disposizioni di cui all’art. 18
d.l. 22.06.2012, n. 83 convertito, con modificazioni, in l.
07.08.2012, n. 134”
(parere n. 39/2013 cit.).
Conclusivamente, il tenore letterale della norma e la
presenza di eccezioni al divieto di ricevere contributi a
carico delle finanze pubbliche, tassativamente elencate, non
può condurre all’introduzione di deroghe alla medesima in
via interpretativa.
L’applicabilità del precetto contenuto nell’art. 4, comma 6,
del d.l. n. 95/2012 alla specifica casistica elencata nel
quesito proveniente dal Presidente della Provincia di
Torino, richiede la valutazione delle singole fattispecie e
dei relativi puntuali contorni, anche con riferimento al
contenuto delle convenzioni tra l’ente locale e gli enti di
diritto privato interessati, non scrutinabile in termini
generali in questa sede consultiva, ma rimessa all’ente
richiedente, che a tal fine potrà fare applicazione dei
principi sopra enucleati (Corte dei Conti, Sez. controllo
Piemonte,
parere 07.11.2013 n. 379). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Con la liberalizzazione operata ex lege n.
179/1992 l’unico vincolo per la dismissione degli
immobili nelle zone Peep è il divieto di alienazione
quinquennale.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana, si è espressa sulla
richiesta di parere proveniente dal sindaco di un comune
avente a oggetto l’individuazione della disciplina
applicabile
alle alienazioni degli alloggi costruiti sulle aree Peep
(piani di
edilizia economica e popolare) prima dell’entrata in vigore
della legge n. 179 del 17.02.1992.
Invero, la legge da ultimo richiamata ha abrogato il
diciassettesimo
comma dell’art. 35 della legge n. 865 del 22.10.1971, in base al quale in seguito al trasferimento
della proprietà di tali immobili conseguiva l’obbligo di
pagamento
a favore del comune o del consorzio di comuni che
a suo tempo avevano ceduto tale area, della differenza tra
il
valore di mercato della stessa al momento dell’alienazione
e il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto.
Secondo l’indirizzo dell’ente locale che ha richiesto il
parere
il periodo di riferimento ai fini dell’individuazione della
disciplina applicabile sarebbe non già la data
dell’alienazione
del bene ma la data della stipula della convenzione di
concessione
delle aree Peep, ovvero l’unica fonte dei rapporti
giuridici fra la stessa e gli assegnatari degli alloggi. In
base a
tale orientamento ne conseguirebbero quindi l’applicazione
delle condizioni di acquisto, dei divieti di alienazione e
degli obblighi degli alienanti nei confronti del comune,
previsti
dalle convenzioni stipulate in conformità della disciplina
anteriore alla legge n. 179/1992.
L’art. 20, comma 1, della legge n. 179/1992, così come
sostituito dall’art. 3 della legge n. 85 del 28.01.1994,
stabilisce che, a decorrere dalla data di entrata in vigore
della stessa legge, gli alloggi di edilizia agevolata
“possono
essere alienati o locati, nei primi cinque anni decorrenti
dall’assegnazione
o dall’acquisto e previa autorizzazione della regione,
quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi.
Decorso tale termine, gli alloggi stessi possono essere
alienati o
locati”.
Pertanto, in assenza di norme transitorie, è stata
consentita
la libera alienabilità di tale tipo di alloggi a far data
dal
primo giorno del sesto anno dalla loro assegnazione o
acquisto. Dalla stessa data, come anche affermato dalla
Cassazione, risultano travolte “le clausole, contenute in
provvedimenti
amministrativi o in strumenti convenzionali, contrastanti
con tale regime di libera alienabilità postquinquennale
degli immobili. Infatti, le convenzioni intercorse tra enti
territoriali
e pubblici, in generale, con le cooperative di costruzione
di tali
alloggi, che si siano ispirate alle più restrittive
condizioni stabilite
nell’art. 35, legge n. 865/1971 (…) sono cadute
inesorabilmente
con l’abrogazione di tali disposizioni e con la loro
sostituzione”
da parte del nuovo regolamento liberistico (Cfr. Cass.,
sez. I, n. 26915 del 10.11.2008).
Dello stesso indirizzo risulta peraltro anche la
giurisprudenza
amministrativa, la quale ha ritenuto che in ragione
della sopravvenuta modifica operata direttamente dal
legislatore
e trattandosi di materia protetta da riserva di legge,
“deve ritenersi nulla e sostituita di diritto ai sensi degli
artt.
1339 e 1419 c.c., la clausola della convenzione attuativa
del
programma Peep che contenga una disciplina limitativa del
regime di commerciabilità degli alloggi di edilizia
residenziale
pubblica più restrittiva” (cfr. Tar Lombardia, sez. III,
sent. n.
5458 del 01.12.2003).
Ad avviso della Corte dei
conti quindi, la circostanza che la convenzione abbia data
anteriore al 1992 è del tutto irrilevante ai fini
dell’applicazione
della normativa previgente abrogata, in quanto la
nuova normativa, nel liberalizzare pressoché integralmente
le operazione di dismissione di tali beni da parte dei
proprietari
o degli assegnatari, ha sancito quale unico vincolo
quello del rispetto di un termine di mantenimento
quinquennale
in proprietà (o assegnazione), peraltro derogabile.
In base a tali considerazioni quindi, il comune non ha alcun
titolo per richiedere il pagamento della differenza di
prezzo
tra il valore di mercato dell’area al momento
dell’alienazione
e il prezzo originario di acquisizione dell’area stessa (Corte dei
Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 15.10.2013
n. 274 - tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 11-12/2013). |
APPALTI FORNITURE:
La distinzione tra passività pregresse e debiti fuori
bilancio. La corretta imputazione contabile.
La corretta modalità di
contabilizzazione di debiti per fornitura di energia
elettrica relativo a conguagli per il consumo di energia
elettrica in esercizi finanziari differenti, è per
competenza finanziaria riferibile solo all’anno delle
liquidazione degli importi.
Pertanto l’imputazione al bilancio non può che avvenire
nell’anno della comunicazione della fattura con la procedura
ordinaria di spesa (art. 191 T.U.E.L.) e, in caso di
incapienza dei capitoli, l’ente avrebbe dovuto effettuare
necessarie variazioni di bilancio, sotto il controllo e il
giudizio dell’organo deputato ad autorizzare e controllare
la spesa, vale a dire il Consiglio comunale.
Nel caso in cui, invece, al pervenimento della fattura non
sia seguito nello stesso anno regolare impegno e correlativa
formazione di residui per gli anni successivi, esso
costituirà debito fuori bilancio, riconoscibile nei termini
e alle condizioni di cui all’art. 194 TUEL.
---------------
Il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio
è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione
giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della
sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e
volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio
di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini
di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge
attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di
esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e
di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura
ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è quella di consentire a
debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa
e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori
bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o
arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano
debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per
fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della
prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di
copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile
ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché la passività pregressa si pone all’interno di
una regolare procedura di spesa, esula dalla fenomenologia
del debito fuori bilancio e costituiscono, invero, debiti la
cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di
loro manifestazione. In tali casi, lo strumento
procedimentale di spesa è costituito dalla procedura
ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla
eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le
risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
---------------
In contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in
cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri
termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra
esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un
debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono
venute a maturazione tutte le condizioni per il suo
adempimento pecuniario, in particolare se il debito è
“certo” (non contestato nell’an e/o nel quantum), liquidato
o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato nel suo
ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine). Solo la
concorrenza di queste condizioni radica la “competenza
finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare
l’ordinaria procedura di spesa (adozione del provvedimento
amministrativo; assunzione dell’impegno di spesa; presenza e
attestazione della copertura finanziaria; cfr. l’art. 191
T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti autorizzati. Tale
procedura di spesa consente non solo di dare rilevanza nel
bilancio al debito, ma costituisce il titolo per
l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica
di una posta passiva, della manifestazione finanziaria
(competenza finanziaria) e quello della competenza economica
tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale
di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza
l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente
distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito
non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa” (cioè
l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in quanto
liquidabile ed esigibile) ma di “costo” (debito, anche di
valore e non solo di valuta, sostenuto per l’acquisto dei
fattori produttivi che hanno sostenuto il ciclo annuale di
produzione). Detto in altri termini, a livello contabile, un
debito può avere una competenza annuale (economica)
disallineata rispetto alla sua manifestazione finanziaria
(competenza finanziaria), che può essere anteriore o
successiva.
---------------
Il comune in epigrafe ha avanzato una richiesta di parere
concernente la disciplina del riconoscimento di debiti fuori
bilancio ai sensi del D.lgs. 267/2000, testo unico degli
enti locali (TUEL), con riferimento alla qualificazione di
debiti per la fornitura di energia elettrica, liquidati a
conguaglio dal fornitore nell’anno corrente ma riferiti ad
anni precedenti.
Segnatamente, l’ente chiede quale sia la corretta procedura
d’imputazione a bilancio di fatture che riguardano conguagli
relativi a consumi di anni precedenti (per un importo
complessivo di € 34.502,73) dal 2008 al 2012, con le
seguenti date e importi:
- fattura del 16.03.2012 per € 10.896,06;
- fattura del 16.01.2013 per € 18.622,73;
- fattura del 28.09.2012 per € 4.983,94.
Il Sindaco pone questione circa il trattamento contabile
di debiti sorti e quindi sulla corretta procedura di
imputazione a bilancio, in particolare chiede di sapere se
le stesse fatture integrino passività pregresse ovvero
debiti fuori bilancio da riconoscere ai sensi dell’art. 194
TUEL.
...
1. Il Comune intende conoscere quale sia la corretta
modalità di contabilizzazione di debiti per fornitura di
energia elettrica che, in termini di competenza economica, è
riferibile ad esercizi precedenti, ma che, in termini di
competenza finanziaria, si sono manifestati solo
nell’esercizio in corso e in quello precedente, mediante la
liquidazione, in fattura di conguaglio, degli importi
dovuti.
Si deve ricordare che, il procedimento di
riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento
giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente
perfezionata ed esistente, all’interno della sfera
patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà
amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento
mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la
legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”,
cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente,
e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle
stesse in modo conforme all’ordinamento) e di
sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura ex
art. 194 TUEL). La funzione di tale procedura è quella di
consentire a debiti sorti al di fuori della legittima
procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella
contabilità dell’ente.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori
bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse”
o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano
debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per
fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della
prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di
copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile
ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché la passività pregressa si pone all’interno di
una regolare procedura di spesa, esula dalla fenomenologia
del debito fuori bilancio (cfr., in proposito, la recente
deliberazione di questa Sezione in merito al caso delle
prestazioni professionali, n. 441/2012/PAR) e costituiscono,
invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile
all’esercizio di loro manifestazione. In tali casi, lo
strumento procedimentale di spesa è costituito dalla
procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata
dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire
le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
2. Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della
procedura di riconoscimento e alla distinzione della
fenomenologia delle passività pregresse e dei debiti fuori
bilancio, per rispondere al quesito qui posto è opportuno
rammentare i criteri attraverso cui, in contabilità
finanziaria, i debiti assumono rilevanza e vanno imputati ai
bilanci degli enti pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio
devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che
finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione
coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano
rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che
afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di
riferimento. Solo così il bilancio potrà servire
correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in
chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva
(rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che in
contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in
cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri
termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra
esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un
debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono
venute a maturazione tutte le condizioni per il suo
adempimento pecuniario, in particolare se il debito è “certo”
(non contestato nell’an e/o nel quantum),
liquidato o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato
nel suo ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine).
Solo la concorrenza di queste condizioni radica la “competenza
finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile
attivare l’ordinaria procedura di spesa (adozione del
provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di
spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria;
cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti
autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di
dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il
titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica
di una posta passiva, della manifestazione finanziaria
(competenza finanziaria) e quello della competenza economica
tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale
di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza
l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente
distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito
non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa”
(cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in
quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo”
(debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per
l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il
ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a
livello contabile, un debito può avere una competenza
annuale (economica) disallineata rispetto alla sua
manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può
essere anteriore o successiva.
3. Tanto premesso, quando nell’anno di
competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di
spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella
contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è
la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi
eccezionali ivi tipicamente indicati.
Orbene, appare evidente che il debito in
questione, relativo a conguagli per il consumo di energia
elettrica in esercizi finanziari differenti, è per
competenza finanziaria riferibile solo all’anno delle
liquidazione degli importi; pertanto l’imputazione al
bilancio non poteva che avvenire nell’anno della
comunicazione della fattura con la procedura ordinaria di
spesa (art. 191 T.U.E.L.) e, in caso di incapienza dei
capitoli, l’ente avrebbe dovuto effettuare necessarie
variazioni di bilancio, sotto il controllo e il giudizio
dell’organo deputato ad autorizzare e controllare la spesa,
vale a dire il Consiglio comunale.
Nel caso in cui, invece, al pervenimento della fattura non
sia seguito nello stesso anno regolare impegno e correlativa
formazione di residui per gli anni successivi, esso
costituirà debito fuori bilancio, riconoscibile nei termini
e alle condizioni di cui all’art. 194 TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 22.07.2013 n. 339). |
APPALTI FORNITURE -
PATRIMONIO:
Se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni
immobili previsto dalla norma.
La
novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge
24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le
autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale
per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare
immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di
locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e
privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in
data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di
programmi e piani concernenti interventi di perequazione
socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle
eccezioni indicate, escludono in modo categorico che
ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano
ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione,
e quindi nel senso auspicato dal comune.
---------------
Il comune istante richiede chiarimenti in merito alla
corretta interpretazione dell'art. 12, comma 1-quater ss.,
del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012, n. 228.
In particolare, il comune specifica di non essere in
possesso di un idoneo magazzino dove poter sistemare i
propri mezzi e i mezzi in dotazione ai gruppo di protezione
civile e volontariato.
Tanto premesso, ed esposto di essere in trattative per
l'acquisto di una porzione di laboratorio da adibire a
magazzino, e di aver nel bilancio di previsione per l'anno
2013 copertura finanziaria per l'operazione di
compravendita, il comune richiede se sia possibile
derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto
dalla norma in commento, attesa l’indubbia convenienza
economica del prezzo richiesto dall’alienante e la
transitorietà del divieto, che potrebbe impedire il
conseguimento delle vantaggiose condizioni offerte.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98
(convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge
24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le
autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale
per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare
immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di
locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di
contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire,
a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in
sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad
avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro
applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e
privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in
data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di
programmi e piani concernenti interventi di perequazione
socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle
eccezioni indicate, escludono in modo categorico che
ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano
ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione,
e quindi nel senso auspicato dal comune (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 08.05.2013 n. 200). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili. Le leggi e le circolari dell'Agenzia non prevedono
limitazioni al residenziale
Bonus del 65% disponibile per tutti gli edifici esistenti.
Lo sconto per il risparmio energetico anche per i capannoni.
Gli interventi
finalizzati al risparmio energetico che attribuiscono, ai
fini dell'imposta sul reddito, il diritto alla detrazione
del 55% (65% per le spese sostenute dal 6 giugno scorso) non
valgono solo per gli immobili residenziali.
Inoltre, almeno per quanto concerne le persone fisiche, non
vi è alcun vincolo all'utilizzo diretto dell'unità
immobiliare su cui sono effettuati i lavori.
Nonostante la guida «Le agevolazioni fiscali per il
risparmio energetico» disponibile sul sito dell'agenzia
delle Entrate possa ingenerare più di un dubbio tra i
contribuenti, su queste due conclusioni non si possono
nutrire perplessità.
A pagina 6 della guida si legge che la «condizione
indispensabile per fruire della detrazione è che gli
interventi siano eseguiti su unità immobiliari e su edifici
(o su parti di edifici) residenziali esistenti, di qualunque
categoria catastale, anche se rurali, compresi quelli
strumentali (per l'attività d'impresa o professionale)».
Ciò che stona è l'aggettivo residenziale, che non è presente
in nessuno dei provvedimenti normativi che ha disciplinato
l'agevolazione per risparmio energetico, né negli interventi
di prassi dell'agenzia.
A esempio, secondo la circolare 36/E/2007 «l'agevolazione in
esame, a differenza di quanto previsto per la detrazione
relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia, che è
espressamente riservata ai soli edifici residenziali,
interessa i fabbricati appartenenti a qualsiasi categoria
catastale (anche rurale) compresi, quindi, quelli
strumentali», i quali, ordinariamente, non sono affatto
residenziali.
Da notare che la circolare distingue l'agevolazione del 55%
da quella del 36%, all'epoca disciplinata dall'articolo 1
della legge 449/1997, che prevedeva interventi solo su
«singole unità immobiliari residenziali». Attualmente, anche
questa affermazione deve essere rivista, poiché l'articolo
16-bis del Tuir richiede che l'immobile abbia natura
residenziale solo su alcuni e non su tutti gli interventi
agevolabili.
A ogni modo si ritiene che il testo della guida contenga un
mero refuso, che sarebbe opportuno eliminare per evitare
dubbi nei contribuenti (e magari qualche rilievo non
corretto da parte degli Uffici).
A pagina 7 della medesima guida si trova il seguente
periodo: «In ogni caso, i benefici per la riqualificazione
energetica degli immobili spettano solo a chi li utilizza.
Per esempio, una società non può fruire della detrazione per
le spese relative a immobili locati».
La prima parte della frase, limitando per ora l'attenzione
ai soggetti non imprenditori, è sicuramente errata. Anche in
questo caso la condizione citata non è presente in nessun
punto della disciplina né è mai stata richiesta
dall'Agenzia. Nessuno vieta al proprietario di detrarre
l'Irpef sui lavori effettuati in un immobile da locare,
anche nel caso limite in cui la locazione sia già in corso
all'atto dell'esecuzione dei lavori. Il fatto che le spese
agevolabili possano essere sostenute dagli inquilini o dai
comodatari, non toglie certo al proprietario la facoltà di
essere lui il soggetto che realizza (e si detrae)
l'intervento.
Qualche problema in più sorge per gli immobili posseduti in
regime d'impresa, in considerazione del fatto che l'agenzia
delle Entrate, con le risoluzioni 303/E/2008 e 340/E/2008,
ha negato l'agevolazione sia agli immobili posseduti (e
locati) dalle immobiliari di locazione che agli «immobili
merce» delle immobiliari di costruzione o di compravendita,
sostenendo che, in entrambi i casi, non si tratterebbe di
beni strumentali utilizzati direttamente dall'impresa.
Anche su questa impostazione si nutrono forti dubbi di
legittimità (si veda la norma di comportamento
dell'Associazione italiana dei dottori commercialisti
184/2012), rafforzati dal fatto che la giurisprudenza di
merito sembra piuttosto contraria a imporre esclusivamente
per via interpretativa simili limitazioni (si veda «Il
Sole-24 Ore» del 05.10.2013 e le sentenze commissioni
tributarie provinciali di Varese 21.06.2013, n. 94,
Lecco 26.03.2013, n. 54 e Como 02.07.2012, n. 109).
Comunque, quando l'immobile è del privato, non imprenditore,
non ci devono essere questioni di sorta (soprattutto dopo
sette anni di applicazione della norma) (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie a esaurimento.
Obbligo (non facoltà) di pescare dagli elenchi vigenti.
Così la circolare della Funzione pubblica sulle
norme di contrasto al precariato.
È un obbligo e non una mera facoltà assumere dipendenti a
tempo determinato, utilizzando le graduatorie vigenti
riferite a bandi di concorso per assunzioni a tempo
indeterminato.
Lo chiarisce la
circolare 21.11.2013 n. 5/2013 del Dipartimento della
funzione pubblica, in relazione al dl 101/2013, convertito
in legge 125/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per effetto della novellazione dell'articolo 36, comma 2,
del dlgs 165/2001, tale disposizione prevede che «per
prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni
pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente
articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie categorie vigenti per i
concorsi pubblici a tempo indeterminato.»
Lo scopo è chiaro: evitare il proliferare di contratti a
termine con soggetti che potrebbero poi trovarsi «precarizzati»
e formare una massa critica tale da indurre, in futuro, a
nuove ondate di stabilizzazioni. Assumendo con contratti a
tempo determinato vincitori di concorsi per posti a tempo
indeterminato evita di creare i presupposti del precariato.
Come spiega la circolare, il lavoratore chiamato a lavorare
con contratto a termine potrà poi «essere assunto con
rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di
altre procedure», una volta verificate le condizioni per
l'assunzione definitiva in ruolo.
Palazzo Vidoni spiega che la norma è «immediatamente
operativa ed efficace sulle graduatorie già in essere, anche
se la previsione non era inserita nel bando di concorso»: si
tratta, dunque, di un'ipotesi di eterointegrazione dei bandi
operante direttamente in forza di legge, che impone alle
amministrazioni di non indire concorsi per rapporti di
lavoro a tempo determinato, ovviamente per quelle categorie
e profili indicati nelle graduatorie vigenti.
La norma, aggiunge la circolare, dispone nei confronti delle
amministrazioni un vero e proprio obbligo: le
amministrazioni «piuttosto che indire procedure concorsuali
a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto,
ovviamente, dell'ordine di posizione, alle loro graduatorie
vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
La configurazione come obbligo dell'utilizzo delle
graduatorie come fonte delle assunzioni a tempo determinato,
priva le amministrazioni di discrezionalità nella scelta.
La circolare non si spinge ad affermare che l'obbligo si
estende anche all'utilizzo delle graduatorie di altre
amministrazioni, consentito dall'ultimo periodo aggiunto
all'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, da parte del dl
101/2013, ma risulta comunque evidente che laddove
un'amministrazione non disponga di una graduatoria a tempo
indeterminato alla quale attingere per assunzioni con
contratto a termine, risulti largamente opportuno avvalersi
della possibilità espressamente consentita dalla norma.
La circolare precisa che i vincitori dei concorsi a tempo
indeterminato non hanno l'obbligo di accettare l'assunzione
a termine propostagli dall'ente. In questo caso resta,
infatti, comunque salvaguardata la loro posizione nella
graduatoria, per la futura assunzione a tempo indeterminato.
Un punto non toccato dalla circolare riguarda l'eventuale
applicabilità dell'obbligo di utilizzare le graduatorie
vigenti anche per le assunzioni di dirigenti a contratto, ai
sensi del combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del
dlgs 165/2001 e dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 per gli
enti locali. Non sembra che la previsione dell'articolo 36,
comma 2, novellato, riguardi la fattispecie delle assunzioni
dei dirigenti assunti a tempo determinato per due ragioni.
In primo luogo, l'intera disciplina del dl 101/2013 non è
rivolta alle qualifiche dirigenziali, come chiarito
espressamente dall'articolo 4, comma 6. In secondo luogo, lo
scopo dell'utilizzo delle graduatorie a tempo indeterminato
per assunzioni a termine, come visto sopra, è la prevenzione
di fenomeni di precariato: ma, le assunzioni dei dirigenti a
contratto non portano mai all'insorgere di contratti
precari, come spiega la circolare stessa quando chiarisce
che gli incarichi a contratto sono disciplinati da una
normativa peculiare, tale da non creare nemmeno aspettative
di stabilizzazione in capo agli interessati.
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La mobilità prevale sulle stabilizzazioni.
La mobilità per la salvaguardia dei lavoratori pubblici in
disponibilità prevale sulle stabilizzazioni.
La circolare 5/2013 della Funzione Pubblica, che contiene
indicazioni interpretative ed operative riguardanti il dl
101/2013, convertito in legge 125/2013, interviene su un
punto estremamente delicato del sistema delle
«stabilizzazioni».
Si afferma, al punto 3.5, che «prima di avviare le procedure
di reclutamento, tanto ordinario, quanto speciale (sia a
regime, sia transitorio) e prima delle assunzioni a tempo
indeterminato, con esclusione delle procedure e delle
assunzioni relative alle categorie protette, sono
obbligatori gli adempimenti previsti dall'articolo 34-bis
del dlgs n. 165 del 2001». Al contrario, «gli adempimenti
previsti dall'articolo 30 dello stesso dlgs n. 165 del 2001
sono obbligatori solo prima di avviare le procedure di
reclutamento ordinario».
Le procedure di reclutamento «speciale», sono le
stabilizzazioni disciplinate dall'articolo 4, comma 6 e
seguenti, del dl 101/2013, mentre quelle ordinarie trovano la
propria regolamentazione nell'articolo 35, e, in
particolare, nel comma 3-bis, del dlgs 165/2001.
Il messaggio della circolare è chiaro: l'opportunità
concessa alle amministrazioni di percorrere strade
privilegiate per assumere a tempo indeterminato lavoratori
precari in possesso dei requisiti fissati dalla norma, non
può comprimere le misure di salvaguardia dalla
disoccupazione vigenti.
Le procedure di stabilizzazione consistono pur sempre in
assunzioni a tempo indeterminato. Per quanto specificamente
«finalizzate» a superare situazioni di precariato, occorre
necessariamente far precedere i bandi delle prove selettive
previste dall'articolo 4, comma 6, del dl 101, e
dall'articolo 35, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, dalla
procedura di mobilità «obbligatoria», delineata
dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, per effetto del
quale le amministrazioni che intendono assumere debbono
verificare con i centri per l'impiego delle province e con
la Funzione pubblica se vi siano dipendenti inseriti nelle
liste di disponibilità, aventi qualifica e mansione
corrispondenti alle assunzioni da effettuare.
Palazzo Vidoni conferma che risulta prevalente la tutela dei
lavoratori in esubero e a rischio di licenziamento, rispetto
alle opportunità di inserimento in pianta stabile dei
precari nei ruoli delle pubbliche amministrazioni.
Non è, invece, necessaria la mobilità «volontaria», regolata
dall'articolo 30 del dlgs 165/2001, per le procedure di
stabilizzazione «speciali». Del resto, la mobilità
volontaria confligge con lo scopo dichiarato del dl
101/2013, che è quello di valorizzare le professionalità
acquisite dai lavoratori assunti impropriamente con
contratti a tempo determinato, per regolarizzare la loro
posizione: se si facessero precedere le procedure di
stabilizzazione dalla mobilità volontaria, si vanificherebbe
totalmente l'intento di stabilizzare il precariato (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI: Proventi autovelox, enti nel caos.
Comuni in difficoltà nella ripartizione delle multe.
In assenza del decreto attuativo le
amministrazioni non sanno come procedere.
Siamo quasi a fine anno ma gli enti locali non sanno ancora
come dovranno ripartire i proventi incassati grazie
all'utilizzo dei sistemi autovelox. E in assenza del
necessario decreto ministeriale saranno guai grossi a
primavera anche per rendicontare al ministero come sono
stati spesi i soldi delle multe.
Sono queste le due emergenze formali per la polizia locale
che derivano dalla totale assenza di indicazioni in materia.
La questione nasce dalla legge n. 120 del 29.07.2010 che
ha riscritto l'art. 142 cds prevedendo che per tutte le
violazioni dei limiti di velocità accertate mediante
l'impiego di autovelox i relativi proventi devono essere
ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada
restando comunque escluse le strade in concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei
proventi ripartiti devono essere destinate alla manutenzione
e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al
potenziamento delle attività di controllo e accertamento
delle violazioni in materia di circolazione stradale,
comprese le spese relative al personale.
Le nuove disposizioni, a parere dell'Anci, sono divenute
operative il 01.01.2013 in seguito alla conversione in
legge, con modifiche, del dl n. 16 del 02.03.2012. L'art.
142, comma 12-quater del codice impone agli enti locali di
trasmettere in via informatica a Roma entro il 31 maggio di
ogni anno una relazione in cui sono indicati, con
riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei
proventi di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1,
e all'art. 142, comma 12-bis, e gli interventi realizzati a
valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri
sostenuti per ciascun intervento.
Se la relazione non viene
inviata oppure i proventi sono utilizzati in modo difforme
da quanto imposto, la percentuale dei proventi spettanti è
ridotta, con contestuale responsabilità disciplinare e per
danno erariale. Ma in assenza del tanto atteso decreto
ministeriale attuativo, si naviga a vista e si procede con
grande approssimazione. Utili riferimenti in tal senso
possono ricavarsi dalla bozza non ufficiale del decreto
ministeriale, il cui testo era stato anticipato in via
informale l'anno scorso.
Questa bozza prevede che la relazione relativa al periodo
intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno
precedente va suddivisa su tre sezioni, indicando le
informazioni generali, i proventi delle sanzioni
amministrative pecuniarie di propria spettanza di cui
all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del
codice della strada e le informazioni relative alla
destinazione dei proventi stessi.
La stessa bozza di dm prevede che sia tenuta una contabilità
separata fra i proventi in generale e quelli derivanti da
accertamenti delle violazioni dei limiti massimi di
velocità. In particolare, occorre che risulti la distinzione
a seconda che i proventi siano di intera spettanza dell'ente
locale, oppure siano soggetti a ripartizione al 50% con
l'ente proprietario della strada, oppure derivino dagli
accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri enti.
Ma le problematiche più rilevanti sembrano porsi per la
ripartizione che deve essere fatta fra l'ente da cui dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
L'art. 142, comma 12-bis del codice dispone che la
suddivisione di quanto incassato con autovelox e telelaser
non si applica alle strade in concessione; sul punto, il
ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con un
parere dell'08.05.2013, ha chiarito che l'esclusione
riguarda in particolare le strade statali a eccezione di
quelle relative alle regioni a statuto speciale e alle
province autonome. Tecnicamente, gli enti locali potrebbero
decidere di concordare autonomamente con gli altri enti le
modalità di versamento dei proventi oggetto della
suddivisione, mediante accordi o convenzioni.
Ma su questo aspetto, l'attesa che venga emanato il decreto
con le norme di dettaglio è tanto più forte in
considerazione delle rilevanti questioni di natura contabile (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuove regole sul conto termico.
Cambiano procedure e modulistica per gli enti locali.
Il Gse ha aggiornato i requisiti per gli incentivi alla
produzione di energia rinnovabile.
A pochi mesi dall'apertura dell'incentivo del conto termico,
introdotto per permettere agli enti locali di avere un
sostegno per gli interventi di riqualificazione energetica,
il Gse ritocca procedure e modulistica. Sono state infatti
aggiornate il 4 dicembre scorso le «regole applicative del
dm 28.12.2012» afferenti all'incentivazione della
produzione di energia termica da fonti rinnovabili e degli
interventi di piccole dimensioni.
Gli enti locali
interessati ad accedere al conto termico devono quindi
prendere nuovamente visione delle regole applicative e
adeguare la modulistica se non già inoltrata. Il conto
termico finanzia interventi di incremento dell'efficienza
energetica in edifici esistenti, parti degli stessi o unità
immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale,
dotati di impianto di climatizzazione. Gli interventi per i
quali è previsto un contributo sono l'isolamento termico di
superfici opache delimitanti il volume climatizzato e la
sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi
delimitanti il volume climatizzato.
Sono, anche,
finanziabili la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale esistenti, con impianti di climatizzazione
invernale utilizzanti generatori di calore a condensazione,
nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o
ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al
sole, fissi o mobili, non trasportabili. Gli enti locali
possono usufruire del conto termico anche per interventi di
piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti
rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. Il contributo
viene concesso a fronte di sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale esistenti con impianti di
climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore
elettriche o a gas, anche geotermiche.
È ammissibile la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale o di riscaldamento delle serre esistenti, con
impianti di climatizzazione invernale dotati di generatore
di calore alimentato da biomassa. L'incentivo spetta anche
per l'installazione di collettori solari termici. Gli enti
locali possono ottenere un contributo a fondo perduto
erogato tramite bonifico in due o in cinque anni, variabile
in base alla tipologia di investimento. In caso di incentivo
fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata.
L'entità dell'incentivo è variabile in base al progetto (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI: Non si paga l'Iva sui contributi erogati dalla p.a..
Con la recente circolare ministeriale n. 34/E del 21
novembre scorso, l'Agenzia delle entrate ha voluto fare
chiarezza sull'imponibilità ai fini dell'imposta sul valore
aggiunto delle somme erogate, a titolo di contributo, dalla
pubblica amministrazione.
Così l'Agenzia ha ribadito che in
particolare, dal punto di vista del trattamento tributario
ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, le erogazioni
qualificabili come contributi, in quanto mere movimentazioni
di denaro, saranno escluse dall'imposta, mentre quelle
configurabili come corrispettivi per prestazioni di servizi
o cessioni di beni rilevanti saranno assoggettate ai fini
dell'imposta in esame. In sostanza, rifacendosi ai concetti
espressi più volte dalla Corte di giustizia europea, ha
ritenuto che qualora il contributo segni la prestazione
monetaria effettuata in conseguenza del controvalore di un
servizio prestato alla controparte del rapporto giuridico,
esso ricade nella fattispecie imponibile Iva, mentre
diversamente non afferisce la sfera dell'imposta suddetta.
In sostanza, il presupposto oggettivo di applicazione
dell'Iva può essere escluso, ai sensi della normativa
comunitaria, solo qualora non si ravvisi alcuna correlazione
tra l'attività finanziata e le elargizioni di denaro. Del
resto l'Amministrazione finanziaria aveva più volte
sottolineato nelle proprie circolari, che un contributo
assume rilevanza ai fini Iva se erogato a fronte di
un'obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia
quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a
prestazioni corrispettive. In altri termini, il contributo
assume natura onerosa e configura un'operazione rilevante
agli effetti dell'Iva quando tra le parti intercorre un
rapporto giuridico sinallagmatico, nel quale il contributo
ricevuto dal beneficiario costituisce il compenso (cioè il
corrispettivo) per il servizio effettuato o per il bene
ceduto. La circolare nota pertanto che al fine di accertare
se i contributi di cui trattasi costituiscano nella sostanza
corrispettivi per prestazioni di servizi, ovvero si
configurino come mere elargizioni di somme di denaro per il
perseguimento di obiettivi di carattere generale, occorre
fare riferimento al concreto assetto degli interessi delle
parti.
La conclusione ai fini dell'imponibilità o meno del
contributo, deve quindi passare per un'analisi puntuale del
rapporto giuridico e degli atti intercorsi fra il soggetto
pubblico e il soggetto privato.
Allo scopo di indicare delle «linee guida» sulla
problematica, la circolare in commento passa in rassegna le
varie ipotesi, fornendo una panoramica abbastanza ampia sui
contributi in esame. Innanzitutto, ricorda la circolare n.
34/E, la qualificazione di una erogazione quale
corrispettivo ovvero quale contributo deve essere
individuata innanzi tutto in base a norme di legge, siano
esse specifiche o generali, nonché a norme di rango
comunitario.
Si distinguono i seguenti casi di contributi:
a) può affermarsi che l'amministrazione non operi
all'interno di un rapporto contrattuale quando le erogazioni
sono effettuate in esecuzione di norme che prevedono
l'erogazione di benefici al verificarsi di presupposti
predefiniti, come ad esempio nel caso degli aiuti di stato
automatici, ovvero in favore di particolari categorie di
soggetti (enti religiosi, associazioni ecc.);
b) è altresì agevole individuare la natura di contributo
delle erogazioni nei casi in cui l'amministrazione agisca
con riferimento all'art. 12 della legge 07/08/1990, n. 241,
contenente la disciplina dei provvedimenti amministrativi
attributivi di vantaggi economici.
Ciò avviene quando sia approvato un regolamento a contenuto
generale in relazione alla concessione dei contributi oppure
quando esista un bando per la presentazione di istanze per
la concessione dei medesimi.
La forma del procedimento amministrativo richiamato dalla
legge 241, garantisce il rispetto di regole di trasparenza e
di imparzialità;
c) altre volte, il procedimento per la erogazione di somme
risulta definito a livello comunitario ed attuato
nell'ordinamento domestico attraverso bandi o delibere di
organi pubblici (per es: il Cipe);
d) le somme erogate dai soci –ivi incluso, ovviamente, il
socio avente soggettività di diritto pubblico– in base alle
norme del codice civile, a titolo di apporti di capitale,
esposti in bilancio all'interno del patrimonio netto, non
possono essere considerate corrispettivi di prestazioni di
servizi in quanto si inseriscono nell'ambito del rapporto
associativo e pertanto non appaiono collegate ad alcuna
controprestazione da parte del beneficiario (apporti di
capitale e coperture di perdite). Sono invece contributi
inquadrabili come corrispettivi (e dunque imponibili Iva),
quando la p.a., effettui erogazioni conseguenti alla stipula
di contratti in base al codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni, concorsi al bando.
La p.a. deve attingere alle graduatorie preesistenti.
Circolare della Funzione pubblica dà le prime
istruzioni sul dl antiprecariato.
Utilizzo delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici a
tempo indeterminato anche per fare assunzioni a tempo
determinato. Le assunzioni delle categorie protette, nel
limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel
budget assunzionale. Le province possono prorogare fino al
31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato
per assicurare i servizi.
Sono alcune delle indicazioni contenute nella corposa
circolare 21.11.2013 n. 5/2013 della Funzione pubblica diffusa ieri e
avente a oggetto «Indirizzi volti a favorire il superamento
del precariato. Reclutamento speciale per il personale in
possesso dei requisiti normativi. Proroghe dei contratti.
Articolo 4 del decreto legge 31.08.2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013,
n. 125, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento
di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche
amministrazioni» e articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
La circolare firmata dal ministro
Gianpiero D'Alia punta a dettare indirizzi applicativi
univoci per un'applicazione uniforme del decreto legge in
materia di superamento del fenomeno del precariato,
rimandando a documenti di prassi successivi l'analisi di
dettaglio delle singole novità introdotte dal dl.
Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo
determinato, ferme restando le esigenze di carattere
esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che
indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono
dunque attingere alle loro graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato. In mancanza, possono
attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante
accordo, purché riguardino concorsi banditi per la copertura
di posti inerenti allo stesso profilo e categoria
professionale del soggetto da assumere. Le graduatorie
vigenti possono essere utilizzate solo a favore dei
vincitori, escluso dunque lo scorrimento per gli idonei.
Il decreto legge interviene, poi, prevedendo procedure di
reclutamento speciale transitorie volte al superamento del
fenomeno del precariato e alla riduzione dei contratti a
tempo determinato. Esse sono consentite dal 01.09.2013 al 31.12.2016, e vi si può ricorrere utilizzando
una misura non superiore al 50% delle risorse finanziarie
disponibili, a normativa vigente, per assunzioni a tempo
indeterminato. Le amministrazioni che hanno le condizioni
per operare reclutamento speciale ma non lo avviano non
possono prorogare i rapporti di lavoro del personale a tempo
determinato. L'utilizzo delle graduatorie relative ai
passaggi di area banditi anteriormente al 01.01.2010,
in applicazione della previgente disciplina normativa, è
consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e
non anche gli idonei della procedura selettiva. Si
sottolinea l'esclusione delle graduatorie relative a
concorsi non pubblici.
Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della
quota d'obbligo, non sono da computare nel budget
assunzionale e vanno garantite sia in presenza di posti
vacanti, sia in caso di soprannumerarietà.
L'avvio del reclutamento speciale, come del resto l'avvio
del reclutamento ordinario, è subordinato tra l'altro alla
disponibilità di posti in dotazione organica, all'effettiva
capacità assunzionale delle amministrazioni secondo il
relativo regime, tenuto anche conto dei vincoli di spesa e
delle situazioni di bilancio e all'effettivo fabbisogno. In
assenza, scatta un impedimento. È peraltro senz'altro
esclusa, sottolinea la circolare, la configurabilità di un
diritto soggettivo, in capo agli eventuali interessati,
all'avvio del reclutamento speciale.
In merito alle categorie di personale interessate al
reclutamento, ordinario e speciale, il documento di prassi
rimarca l'esclusione del comparto scuola e di quello delle
istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica
e musicale per i quali trova applicazione la disciplina
specifica di settore.
Poiché il ricorso alle procedure speciali di reclutamento
non può prescindere dall'adeguato accesso dall'esterno, le
amministrazioni non possono destinare più del 50% del loro
budget assunzionale per il reclutamento speciale. Prima
delle procedure di reclutamento, con esclusione delle
procedure e delle assunzioni relative alle categorie
protette, bisogna comunque avviare le procedure di mobilità.
Per meglio realizzare le finalità di superamento del
precariato e di riduzione dei contratti di lavoro a tempo
determinato, nel reclutamento speciale sono di norma
adottati bandi per assunzioni a tempo indeterminato con
contratti di lavoro a tempo parziale. I bandi dovranno
indicare la percentuale di prestazione lavorativa prevista
per l'assunzione a tempo indeterminato rispettando,
comunque, il valore minimo di part-time previsto dai
contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto.
E
sempre a proposito del reclutamento speciale, la circolare
specifica che esso non si applica al personale dirigenziale
assunto con rapporto di lavoro a tempo determinato in virtù
di disposizioni speciali che tengono conto della specifica
ed elevata professionalità di tali soggetti e di un
contingente limitato di posti. Inoltre, non si può
considerare utile, ai fini della maturazione del requisito
richiesto per partecipare alle procedure di reclutamento
speciale transitorie, l'anzianità maturata con contratti di
lavoro a tempo determinato negli uffici di diretta
collaborazione. E non possono essere considerati, ai fini
del reclutamento, i rapporti di lavoro relativi al personale
proveniente dalla gestione di appalti o di processi di
esternalizzazione della p.a.
Tra le altre prescrizioni illustrate, quella che impone la
pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche
amministrazioni, delle informazioni relative alle procedure
avviate, secondo criteri di facile accessibilità,
completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto
delle disposizioni in materia di protezione dei dati
personali.
Infine gli enti locali, relativamente ai quali è di
interesse il chiarimento secondo cui le province possono
prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo
determinato per le strette necessità connesse alle esigenze
di continuità dei servizi e nel rispetto dei vincoli
finanziari, del patto di stabilità interno e della normativa
di contenimento della spesa complessiva di personale (articolo ItaliaOggi
del 05.12.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Protocollo informatico adeguato alla Pec.
Protocollo informatico adeguato alla posta certificata.
Grazie a una modifica al dpcm 31.10.2000 per tenere
conto del nuovo contesto normativo, che prevede la
trasmissione dei documenti non solo mediante l'utilizzo
della posta elettronica, ma appunto anche attraverso la Pec
o in cooperazione applicativa basata sul Sistema pubblico di
connettività e sul Sistema pubblico di cooperazione.
Il ministro per la pubblica amministrazione e la
semplificazione Giampiero D'Alia ha firmato ieri due decreti
adottati in attuazione di alcune disposizioni del Codice
dell'amministrazione digitale, in materia di protocollazione
e conservazione dei documenti informatici.
I due decreti, spiega una nota, da tempo attesi dagli
operatori, forniscono un supporto alla digitalizzazione
dell'amministrazione pubblica che, pur adottando da tempo
gli strumenti informatici, non ha ancora adeguato i suoi
processi a modelli in grado di sfruttare in pieno le
potenzialità dei nuovi mezzi.
«Gli schemi innovano e rendono più ampio il quadro delle
regole tecniche vigenti in materia, aggiornando quelle sul
protocollo informatico e la conservazione dei documenti
elettronici, la cui introduzione risale, rispettivamente,
all'ottobre del 2000 e al febbraio 2004», si legge nella
nota.
Apportando modifiche alla deliberazione Cnipa n. 11/2004 è
stato inoltre introdotto il concetto di «sistema di
conservazione», che assicura la conservazione a norma dei
documenti elettronici e la disponibilità dei fascicoli
informatici, stabilendo le regole, le procedure, le
tecnologie e i modelli organizzativi da adottare per la
gestione di questi processi (articolo
ItaliaOggi del 04.12.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti da galera.
Bruciare i rifiuti ora è un reato.
Il Cdm vara il decreto legge per la Terra dei fuochi.
Fotografia e mappatura con conseguente blocco della
produzione agroalimentare sui terreni campani inquinati e
definizione, accanto a quelli che possono essere destinati
esclusivamente a colture diverse, dei fondi da destinare
solo a produzioni agroalimentari determinate. Introduzione
del reato di combustione illecita dei rifiuti, con pesanti
sanzioni penali a carico dei colpevoli di roghi di rifiuti
con danni all'ambiente e alla salute umana e confisca del
veicolo utilizzato per il trasporto.
Obbligo informativo da parte dell'autorità giudiziaria
nell'ambito delle indagini verso i ministeri competenti a
adottare i provvedimenti ritenuti opportuni e necessari per
la tutela dell'ambiente, della salute e della qualità della
produzione agroalimentare. Costituzione di un comitato
interministeriale prima e di una commissione poi avente il
compito di individuare e potenziare azioni e interventi di
monitoraggio e tutela nella «Terra dei fuochi».
Sono le
disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e
delle produzioni agroalimentari approvate, ieri dal
Consiglio dei ministri, nel decreto legge «Terra dei fuochi»
(si veda ItaliaOggi di ieri).
Per l'attuazione degli
interventi disciplinati nel dl sono previsti 100.000 euro
per il 2013 e 2.900.000 euro per il 2014; fondi reperiti dal
programma operativo regionale Campania 2007/13, dal piano di
azione e coesione e all'interno di misure da adottare nella
programmazione dei fondi Ue.
Entro 30 giorni dall'entrata in
vigore del decreto, Mipaaf e ministero dell'ambiente
definiranno, d'intesa col presidente della regione Campania,
le priorità di mappatura, tramite indagini tecniche e
strumenti di telerilevamento, delle aree destinate
all'agricoltura, interessate dagli effetti contaminanti di
sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante
combustione.
I risultati delle indagini e i possibili
interventi di bonifica sui terreni prioritari, dovranno
essere presentati entro 90 giorni. Nei successivi 30 saranno
indicati, con decreto i terreni che non possono essere
destinati alla produzione agroalimentare ma solo a colture
diverse e i terreni destinati a colture speciali.
Le pene previste per il nuovo reato di combustione illecita
di rifiuti (art. 256-bis dlgs 152/2006):
• Reclusione da 2 a 5 anni per chi appicca il fuoco a
rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato in
aree non autorizzate, salvo che il fatto costituisca più
grave reato.
• Reclusione da 3 a 6 anni se viene appiccato il fuoco a
rifiuti pericolosi.
• Stesse pene per chi abbandona o deposita rifiuti in
funzione del successivo abbruciamento.
• Aumento di un terzo della pena se i delitti sono commessi
nell'ambito di attività di impresa o attività organizzata.
• Pena aumentata se la combustione illecita di rifiuti
avviene in territori che al momento della condotta e nei 5
anni precedenti siano o siano stati interessati da
dichiarazioni di stato di emergenza rifiuti.
• Confisca del mezzo di trasporto utilizzato per la
commissione del reato, salvo che il veicolo appartenga a
persona estranea al reato che provi la buona fede e
l'utilizzo a sua insaputa del bene.
• Confisca dell'area su cui è commesso il reato a seguito di
sentenza di condanna se di proprietà dell'autore o del
compartecipe del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica
e ripristino dello stato dei luoghi.
• Se la combustione riguarda rifiuti vegetali provenienti da
aree verdi si applicano le sanzioni dell'art. 255 dlgs
152/2006 (articolo ItaliaOggi
del 04.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Più poteri alle grandi imprese. Strada aperta ad
aziende "factotum" anche per lavori specializzati.
Varato il Dpr che accoglie il parere del Consiglio di Stato
- Specialisti e Anie in rivolta.
Cantieri in fibrillazione dopo la pubblicazione del Dpr che
di fatto permette alle imprese generali di eseguire le
lavorazioni specialistiche, anche in assenza di
qualificazione. ... (articolo Il Sole 24 Ore del
04.12.2013
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Mini-enti, scatta l'ora della verità.
Sta per scattare l'ora della verità sulle gestioni associate
dei comuni. Oltre all'attuale legge elettorale (il
cosiddetto Porcellum), oggi la Corte costituzionale si
pronuncerà sui ricorsi delle regioni contro le norme che
hanno imposto il modello dell'unione per l'esercizio delle
funzioni fondamentali a tutti i comuni fino a 1.000
abitanti.
Si tratta dell'art. 16 del dl 138/2011 contro cui
si sono levate ben dieci regioni (Toscana, Lazio, Puglia,
Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia
e Sardegna), mentre altri cinque ricorsi (presentati da
Sardegna, Puglia, Lazio, Veneto e Campania) hanno preso di
mira l'art. 19 della spending review di Mario Monti (dl
95/2012) che ha riscritto l'art. 14 del dl 78/2010 fissando
la data del 01.01.2014 quale dead-line per l'esercizio
in forma associata di nove funzioni fondamentali su dieci
(tramite unione o convenzione). Nel frattempo, un
emendamento alla legge di stabilità, patrocinato dall'Anpci
(Associazione nazionale piccoli comuni) e presentato dai
senatori Pd Patrizia Manassero e Stefano Vaccari ha rinviato
l'appuntamento al 1° luglio, mentre nel ddl Delrio
(cosiddetto svuota province) è spuntata una proposta che
disegna una marcia di avvicinamento graduale
all'associazionismo con un primo pacchetto di funzioni da
mettere insieme entro fine giugno e altre sei entro la fine
del 2014.
Le speranze dei mini-enti di vedere le norme
sull'associazionismo obbligatorio spazzate via dalla Corte
costituzionale non sono poche. In materia c'è infatti un
precedente importante, quello sulle comunità montane salvate
dall'abrogazione nel 2009 in quanto considerate alla stregua
di enti «sub-regionali» e quindi rientranti nella competenza
residuale delle regioni.
Un intervento statale, sostengono i
ricorrenti, sarebbe dunque illegittimo perché, come
affermato dalla Consulta, la competenza esclusiva statale in
materia di legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali va riferita solo agli enti
tassativamente elencati nell'art. 114 Cost. (comuni,
province, regioni e città metropolitane) e non a enti
diversi come le unioni (articolo ItaliaOggi del
03.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Rischi di contenzioso sugli appalti pubblici.
Appalti di lavori pubblici a rischio caos e contenzioso dopo
l'annullamento delle norme del regolamento del Codice dei
contratti pubblici sulla qualificazione delle imprese
generali, oggi libere dai vincoli sul subappalto e sui
raggruppamenti obbligatori con gli specialisti; a breve è
atteso un decreto con nuove regole sulla qualificazione.
È
questo l'effetto della pubblicazione del dpr 30 ottobre
sulla gazzetta ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che ha
accolto il ricorso promosso dall'Agi (Associazione imprese
generali), dopo che il Consiglio di Stato con parere n. 3014
del 26.06.2013 si era espresso per l'annullamento di
alcune norme del dpr 207/2010.
Oggetto del ricorso erano le regole per qualificarsi a
eseguire lavorazioni specialistiche che sono state annullate
ed espunte dal regolamento del codice dei contratti pubblici
(sembrerebbe con decorrenza 30 novembre visto che il dpr non
dispone diversamente, cioè per una entrata in vigore
differita di 15 giorni): l'articolo 109, comma 2 (per quanto
attiene all'allegato A del dpr 207/2010) e l'articolo 107,
comma 2. L'effetto dell'annullamento, semplificando
questioni interpretative anche complesse, è che le imprese
generali potranno eseguire le lavorazioni specialistiche a
qualificazione obbligatoria anche se non possiedono
l'attestato di qualificazione per tali lavorazioni.
Fino al 29 novembre, invece, avevano l'obbligo di
subappaltare i lavori, oppure di associare imprese in
possesso della qualificazione per le opere specialistiche
che avrebbero svolto quelle determinate lavorazioni. È stata
cancellata anche la norma del regolamento del codice (art.
85, comma 1) sulla utilizzabilità dei lavori subappaltati
dall'impresa generale all'impresa specialistica, in
percentuali diverse a seconda della tipologia di lavorazione
(prevalente o scorporabile) e della qualificazione richiesta
(obbligatoria o no).
Questa disposizione era stata dichiarata «irragionevole» dal
Consiglio di stato, anche in relazione al suo meccanismo
applicativo non lineare; adesso, determinandosi un
sostanziale ritorno alle regole dell'abrogato dpr 34/2000,
l'impresa potrà utilizzare senza limiti quanto subappaltato
all'impresa specialistica (nella misura in cui riterrà di
avvalersi del subappalto). I problemi, adesso, si spostano
sulle stazioni appaltanti che dovranno tenere conto di
questa situazione, senza però avere riferimenti certi e,
quindi, con il rischio di determinare involontariamente un
contenzioso.
Per evitare tutto ciò da tempo i tecnici del ministero delle
infrastrutture stanno lavorando ad un nuovo dpr «ponte» che
dia certezza alle amministrazioni e ottemperi alle
indicazioni del Consiglio di stato. Trattandosi però di un
intervento che ridefinisce implicitamente l'assetto del
mercato, è evidente come la soluzione da individuare non sia
così immediata (articolo
ItaliaOggi del 03.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Entro gennaio.
Negli uffici pubblici piani anti-corruzione.
Entro la fine
di gennaio le pubbliche amministrazioni dovranno avere
concluso il lavoro di redazione dei piani anticorruzione
come richiesto dalla legge n. 190 del 20102.
Lo ha
sottolineato il ministro della Pubblica amministrazione
Gianpiero D'Alia intervenendo al convegno milanese su «Le
strategie anticorruzione tra risposta pubblica ed esperienza
privata» organizzato da Aodv (Associazione dei componenti
degli organismi di vigilanza ex decreto legislativo 231/2001).
Il ministro tuttavia ha tenuto anche a spiegare come ogni
spinta al cambiamento non sia facile in un settore pubblico
dove solo il 10% dei dipendenti ha meno di 35 anni.
Per D'Alia, inoltre, l'attivazione di un'agenda digitale
costituisce l'80% dell'effettiva attuazione della legge 190:
«si tratta di un percorso di medio periodo, fondamentale
nella lotta alla corruzione perché ci permetterebbe tre
passi in avanti importanti: controllare in tempo reale le
amministrazioni, conoscere i bisogni delle comunità e, in
generale, essere più rapidi e concreti». «Non c'è bisogno di
nuove leggi o riforme –ha aggiunto il ministro– se ne sono
fatte tantissime. Ciò che è mancato è l'attuazione, il
riscontro concreto di ciò che si è fatto. Attualmente il
nemico più grosso è costituito dalla cosiddetta opacità
pubblica amministrativà».
Il pubblico ministero, sostituto alla Procura di Milano,
Roberto Pellicano, ha, a sua volta, messo nel mirino alcuni
aspetti critici della distinzione tra corruzione pubblica e
privata, con un'attenzione particolare per il ruolo delle
banche, imprese la cui attività ha tali ricadute su
cittadini e imprese da rendere auspicabili regole di
trasparenza ancora più stringenti delle attuali. Per
Pellicano ancora, un filo rosso con il decreto 231 va
trovato nelle necessità di tutelare il mercato
dall'inquinamento di pratiche corruttive ancora troppo
diffuse (articolo Il Sole 24 Ore del
03.12.2013). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro. La Cassazione con due sentenze limita i poteri del
datore nei confronti di lavoratori in vacanza e neo-spose
Non c'è obbligo di reperibilità per il dipendente in ferie. La Cassazione
blinda il posto di lavoro per i dipendenti che sono in ferie
e per le neo spose durante il primo anno di nozze.
Con due
sentenze depositate ieri (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 03.12.2013 n. 27057 e Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 03.12.2013 n. 27055) i giudici,
spostandosi su campi diversi, annullano altrettanti
licenziamenti bollandoli come illegittimi.
Nel primo caso la
massima sanzione era stata disposta nei confronti di un
tecnico del Comune colpevole di essersi reso irreperibile
durante le ferie, ignorando l'ordine di rientrare in
servizio. Secondo il datore l'obbligo di rispondere derivava
da una precisa norma del contratto collettivo che imponeva
la reperibilità e poco importava che le comunicazioni non
fossero mai state ritirate.
Dal canto suo l'ente locale
rivendicava il diritto di revocare le ferie già concesse e
affermava il dovere del dipendente di interrompere gli "ozi"
e presentarsi in ufficio. Gli appigli legislativi per
giustificare la pretesa erano individuati nell'articolo 23
del Ccnl di comparto e nell'articolo 18 del Ccnl. Il primo,
secondo l'ente ricorrente, inseriva tra i doveri del
dipendente anche quello di «comunicare all'amministrazione
la propria residenza e, ove non coincidente, la dimora
temporanea nonché ogni successivo mutamento delle stesse».
Mentre l'articolo 18 consentirebbe al datore di interrompere
o sospendere il periodo di vacanza quando questa è già in
atto. Ma la Cassazione invita a leggere correttamente le
norme invocate.
Non c'è dubbio che il datore debba essere
informato del luogo in cui inviare le comunicazioni al suo
dipendente, ma il diritto non si estende ai periodi di
ferie, che sono un bene costituzionalmente tutelato. Esiste
poi anche un'esigenza di privacy, coniugata con l'assoluta
libertà per il lavoratore di andare dove vuole a recuperare
le sue energie psicofisiche. Impresa difficile se si è
obbligati, magari giornalmente, a sopportare lo stress di
dare le coordinate dei propri spostamenti al capo.
Decisamente male interpretato anche l'articolo 18. Anche in
questo caso è vero che il datore, per esigenze
organizzative, può modificare i periodi di ferie ma deve
farlo, con un congruo preavviso, prima che queste abbiano
inizio. La norma invocata specifica il diritto al rimborso
delle spese documentate del viaggio interrotto per motivi di
servizio, ma non fa alcun riferimento alle modalità con cui
l'interruzione può essere adottata. Al contrario la
giurisprudenza ha affermato il dovere di una comunicazione
tempestiva ed efficace prima che il lavoratore abbia fatto
le valige, momento dal quale cessa ogni obbligo di
reperibilità.
Un'altra lancia contro i licenziamenti, in questo caso
discriminatori, la Cassazione la spezza in favore delle neo
spose (sentenza 27055). Il divieto di licenziare la
lavoratrice che ha detto sì vale per l'intero anno delle
nozze. Né il licenziamento, se avviene in periodo
"sospetto", può essere giustificato da ragioni di
ristrutturazione e di ridimensionamento dell'organico,
essendo la deroga al divieto ammessa solo in caso di
cessazione dell'attività dell'azienda. La garanzia,
assicurata dalla legge 7 del 1973 ha la stessa finalità
della legge 1204/1971 che impedisce il licenziamento della
lavoratrice madre. «Si tratta di provvedimenti legislativi
che nel loro insieme -si legge nella sentenza- tendono a
rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di
passaggio "esistenziale" particolarmente importanti».
Per questo alla lavoratrice è risparmiato anche l'onere di
provare il carattere discriminatorio del licenziamento,
mentre spetta al datore dimostrare il contrario
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.12.2013). |
APPALTI SERVIZI:
Appalti. Sentenza del Consiglio di Stato.
Il codice Ateco vincola la gara.
Occorre non
sottovalutare le conseguenze connesse alle informazioni
sulla attività economica esercitata denunciata al Registro
imprese.
È questo l'avvertimento implicito dato dal
Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
02.12.2013 n. 5729.
Il caso riguarda una pubblica amministrazione che ha emanato
un bando per l'affidamento del servizio di catering e che
nella lettera di invito lo ha qualificato come «servizio di
preparazione, distribuzione del vitto». Tra le condizioni di
partecipazione, pena l'esclusione, è prevista la «iscrizione
per attività inerenti al presente affidamento pubblico nel
Registro imprese». E il certificato del registro imprese di
un concorrente riporta come attività prevalente svolta dalla
società i «servizi di ristoro mediante distribuzione
automatica di bevande e snack».
Il Consiglio di Stato ha contestato la mancanza di idoneità
professionale della società in quanto: l'attività dichiarata
prevalente dalla società non può essere compresa nella
prescrizione del bando che si riferisce a ben altro tipo di
servizio; l'attività inerente l'appalto deve essere intesa
come l'attività prevalente svolta dalla società; ai fini del
requisito professionale occorre valutare l'attività
specifica dichiarata perché si tratta di selezionare tra
imprese con esperienza nello stesso servizio; è irrilevante
l'oggetto sociale dell'impresa, anche se include il
catering, perché l'oggetto elenca le attività potenziali,
mentre si tratta di verificare le attività reali.
Nessun dubbio che l'attività principale del concorrente non
sia attinente all'oggetto dell'appalto come evidenziato
anche dai codici Ateco: quello del catering è il 56.2;
quello della somministrazione di alimenti e bevande con
distributori automatici è il 47.99.2. Non si può invece
condividere l'affermazione dei giudici sul significato
giuridico e tecnico-economico delle informazioni riguardanti
le attività economiche denunciate dagli imprenditori al
registro imprese. Nella sentenza si afferma che «soltanto»
l'attività prevalente è quella «qualificante», anzi,
«l'unica che rileva ai fini dell'iscrizione nel registro
imprese».
Si dichiara inoltre che l'attività prevalente
«individua ontologicamente la tipologia di azienda,mentre
l'attività secondaria viene inserita a fini descrittivi e di
completezza informativa». La normativa del registro imprese
(Dpr 581/1995 articoli 9 e 10) obbliga a denunciare tutte le
attività effettivamente esercitate perché solo così
l'anagrafe delle aziende è completa. Sono molto frequenti le
imprese che esercitano in più settori e che, quando il
settore è unico, curano più specializzazioni. In questi
casi, come prevede la modulistica, occorre indicare la
prevalente.
Le Camere di commercio nel 2013 hanno predisposto il sito
http:\\ateco.infocamere.it per agevolare l'individuazione
delle attività e la loro classificazione. In ogni caso, non
esiste un parametro per definire la prevalenza; potrebbe
anche non essere il fatturato se l'imprenditore intende
valorizzare determinati tipi di prodotti o servizi. Il
profilo giuridico dell'attività prevalente non è diverso da
quello delle altre, anche perché nel tempo quella prevalente
potrebbe diventare secondaria (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La Cassazione sulle sanzioni derivanti all'esito delle
impugnazioni.
La p.a. paga l'appello.
Se viene respinto la multa è obbligatoria.
Scatta la multa per l'appello respinto, in tutti i casi di
impugnazioni presentate dal 31.01.2013 (anche se il
processo in primo grado è iniziato prima). All'obbligo non
sfugge la pubblica amministrazione che propone l'appello e
poi lo perde.
Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con la sentenza
27.11.2013 n. 26566 interpreta la novità, introdotta
dall'art. 1, comma 17, della legge di stabilità per il 2013
(228/2012), che ha il chiaro scopo di disincentivare il
ricorso al secondo e al terzo grado di giudizio.
Due i problemi affrontati dalla Corte di cassazione. Il
primo attiene alla possibilità di applicare la disposizione
anche alle pubbliche amministrazioni soccombenti in appello.
Il secondo attiene alla possibilità di applicare la
disposizione ai processi di appello iniziati dopo il 31.01.2013 o se è possibile applicarla ai giudizi che, in
primo grado, hanno avuto inizio dopo il 31.01.2013.
La disposizione. L'articolo 1, comma 17, della legge di
stabilità per il 2013 ha modificato l'art. del dpr 115/2002
(Testo unico delle spese di giustizia). La norma prevede
che, quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta
integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile,
la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale.
Abbiamo una parte che, avendo perso in primo grado, intende
proporre appello. Per farlo, deve pagare un contributo
unificato per l'appello che è aumentato della metà. Se, poi,
l'appello è dichiarato inammissibile, improcedibile o è
totalmente respinto, l'appellante deve pagare di nuovo il
contributo unificato, nell'importo aumentato. Il giudice
deve, poi, dichiarare in sentenza che sussistono i
presupposti per l'applicazione della multa di soccombenza,
il cui obbligo di pagamento sorge, però, solo al momento del
deposito della sentenza. Lo stesso meccanismo vale per i
ricorsi in Cassazione, con la differenza che il contributo
unificato è raddoppiato.
Pubbliche amministrazioni. La risposta della Cassazione al
primo quesito è che anche gli enti pubblici sono tenuti al
balzello se propongono un'impugnazione e, poi, la perdono.
«La norma», spiega la Cassazione, «trova applicazione anche
quando venga rigettato il gravame di una amministrazione
pubblica». La tesi che, invece, vorrebbe escludere le
pubbliche amministrazioni invoca l'art. 158, comma 3, del
Testo unico per le spese di giustizia. La disposizione
prevede il meccanismo della prenotazione a debito, cioè le
somme non sono versate, ma solo recuperate dallo stato alla
fine del processo.
L'articolo in questione prevede che le
spese prenotate a debito e anticipate dall'erario siano
recuperate mediante iscrizione a ruolo dall'amministrazione,
insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna
dell'altra parte alla rifusione delle spese in proprio
favore. Se ne potrebbe dedurre che il contributo unificato è
dovuto solo dalla controparte soccombente condannata alle
spese e non dalla amministrazione soccombente. D'altra
parte, è anche possibile sostenere che pretendere il
contributo unificato dall'amministrazione soccombente
innescherebbe solo una partita di giro, in cui la pubblica
amministrazione condanna a pagare a se stessa.
Decorrenza. La legge di stabilità ha affermato che la norma
si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno
successivo alla data di entrata in vigore della legge. Da
notare che l'espressione usata è «processi iniziati» e non
«giudizi instaurati»: la nuova disciplina normativa, dunque,
è applicabile alle impugnazioni iniziate dal trentesimo
giorno successivo (31.01.2013) all'entrata in vigore
della legge medesima (01.01.2013) e non soltanto ai
procedimenti iniziati in primo grado da tale data.
Profili di costituzionalità. A prescindere dalla decisione
della Corte, va rilevato che la multa per la soccombenza
rende più costoso l'accesso alla giustizia e si applica
anche nei casi in cui l'impugnazione non è frutto della
volontà di trascinare il processo in lungo. Per esempio, una
parte propone appello e, nelle more del giudizio, la
Cassazione muta orientamento su una questione fondamentale,
cosicché l'appello si perde per la modifica della
giurisprudenza.
Oppure è possibile pensare al caso in cui
c'è una legge di difficile interpretazione o, ancora, al
caso paradossale in cui l'appello diventa improcedibile
perché l'appellante vi rinuncia a fronte del riconoscimento
del suo diritto da parte del suo avversario. Di fronte a
queste situazioni incolpevoli, l'applicazione della multa di
soccombenza appare sproporzionata (articolo ItaliaOggi
del 07.12.2013). |
ENTI LOCALI: Cassazione. I riflessi della sentenza sulle partecipate.
Nelle società in house manca l'assimilazione sui debiti.
Le partecipate
in house degli enti pubblici rappresentano «una longa manus
della pubblica amministrazione, al punto che l'affidamento
pubblico mediante in house contract neppure consente
veramente di configurare un rapporto contrattuale
intersoggettivo».
Lo ha stabilito la Corte di cassazione
(sezioni Unite Civili), con
sentenza
25.11.2013 n. 26283 (si
veda «Il Sole 24 Ore» del 27.11.2013).
La pronuncia della Cassazione assume un forte impatto in
ordine al rilievo dei profili di responsabilità circa
l'operato degli amministratori delle partecipate che, come
rilevato dai giudici, competono al giudizio della Corte dei
conti. Tuttavia, sono le stesse motivazioni che hanno
condotto i giudici di Piazza Cavour a tale conclusione che
potrebbero rivestire un rilievo, sotto altri profili, ancora
più significativi.
Nella sentenza si legge che «la società in house (…) non
pare invece collocarsi come un'entità posta al di fuori
dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una
articolazione interna». E ancora, citando il Consiglio di
Stato, «l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto
all'amministrazione controllante, ma deve considerarsi come
uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa». Il
tutto perché, conclude la Cassazione, nello schema
propedeutico alla costituzione e alla operatività di una
società in house, non può individuarsi una persona giuridica
cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia
possibile individuare un interesse suo proprio, diverso o
ulteriore rispetto a quello dell'ente pubblico partecipante.
Ebbene, le considerazioni espresse dai giudici di
legittimità appaiono piuttosto suggestive nel contesto dei
profili di operatività della normativa (il Dl 35/2013 e
successive integrazioni) che regola il pagamento dei debiti
della Pa.
Infatti, la normativa si applica alle Amministrazioni dello
Stato, alle Regioni, agli enti del Servizio sanitario
nazionale e agli enti locali (Comuni e Province), con
esclusione, però, delle società da questi partecipate, anche
se al 100%.
Le società in house, quindi, non sono direttamente
interessate dalle misure approvate dal Governo, anche se
possono beneficiare indirettamente delle nuove norme e, in
particolare di quelle che prevedono l'allentamento del Patto
di stabilità interno. Ad esempio, una società partecipata
che attende da mesi il trasferimento, da parte dell'ente
locale che la controlla, di fondi bloccati dal Patto di
stabilità interno, potrebbe ricevere questi fondi e, di
conseguenza, poter pagare le imprese creditrici (si veda la
risposta dell'Anci sul punto).
A ben vedere, le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte
sembrano stridere con tale preclusione.
Escludere dai provvedimenti interessati dalle norme sui
pagamenti dei debiti della Pa quelli contratti dalle società
da queste partecipate, rappresenta una forzatura
inopportuna, alla rimozione della quale si spera che il
legislatore possa rimediare al più presto (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riferimento ai citati fabbricati presuntivamente abusivi, il
ricorrente ha allegato un elemento presuntivo dotato di
sufficiente consistenza di fronte (nella fattispecie,
apposita perizia redatta da un architetto, nella quale si
attesta che, in base ai materiali utilizzati e ad alcuni
particolari costruttivi, gli edifici in muratura risalgono a
circa 80-100 anni addietro e che la tettoia sia sicuramente
risalente a ben oltre il 1967) al quale sarebbe spettato
all’amministrazione resistente offrire una prova contraria
atta a dimostrare che le opere fossero state edificate
successivamente al 1967.
In assenza di tale prova contraria, o anche di un analogo e
contrario elemento di prova, deve quindi darsi per appurata
la preesistenza delle opere al 1967, senza possibili spazi
per un’indagine istruttoria da parte di questo TAR.
Né può conferirsi rilevanza a quanto il Comune accenna nella
memoria depositata in giudizio il 30.06.2012, secondo cui,
anche ammettendo la preesistenza di uno dei due fabbricati
in muratura al 1967, sarebbero stati successivamente
realizzati degli ampliamenti non consentiti: con tale
argomentazione, infatti, l’amministrazione tenta
un’inammissibile integrazione postuma della motivazione
dell’atto impugnato, aggiungendo un elemento (quello,
appunto, del successivo ampliamento non assentito) che non
ha formato oggetto di confronto procedimentale tra le parti
e rispetto al quale è, pertanto, prematura la trattazione
nella presente sede giurisdizionale. Deve infatti ribadirsi,
sul solco della giurisprudenza amministrativa, anche di
questo TAR, che la motivazione deve sempre precedere e non
seguire l’atto amministrativo, a tutela del buon andamento
amministrativo e dell'esigenza di delimitazione del
controllo giudiziario.
L’impugnata ordinanza di demolizione, pertanto, va annullata
nella parte in cui si è riferita ai due corpi di fabbrica in
muratura ed alla tettoia, in quanto opere esistenti già
prima dell’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967 e
quindi, all’epoca, edificabili liberamente perché ubicate al
di fuori del centro abitato (in base all’allora vigente art.
31, comma 1, della legge n. 1150 del 1942), con
assorbimento, per questa parte, degli ulteriori motivi.
---------------
Il tempo trascorso dall’edificazione è tale, nella sua
oggettiva consistenza, da consolidare in capo al
proprietario –peraltro ignaro della natura abusiva
dell’opera– una legittima aspettativa in ordine
all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse
alla rimozione del manufatto: a fronte di tale situazione,
allora, il provvedimento gravato (ordine di demolizione) si
mostra carente lungo il profilo della motivazione, in quanto
non ha esplicitato le ragioni di pubblico interesse
–evidentemente diverse dal mero ripristino della legalità–
che conducevano, nella specie, al sacrificio della posizione
consolidata in capo al privato proprietario.
Il ricorso è fondato, limitatamente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione.
Con riguardo ai due corpi di fabbrica in muratura ed alla
tettoia, invero, il ricorrente ha allegato un valido
principio di prova in ordine alla loro preesistenza rispetto
all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967.
Egli ha
infatti depositato apposita perizia redatta dall’architetto R.S. (doc. n. 19), nella quale si attesta che, in
base ai materiali utilizzati e ad alcuni particolari
costruttivi, gli edifici in muratura risalgono a circa
80-100 anni addietro e che la tettoia sia sicuramente
risalente a ben oltre il 1967. In contrario
l’amministrazione non ha portato alcun elemento rilevante,
essendosi limitata ad allegare la non verosimiglianza
dell’assunto avuto riguardo, unicamente, alla documentazione
fotografica allegata al verbale di sopralluogo.
Quest’ultimo, peraltro, non contiene alcun elemento utile a
ricostruire il periodo di edificazione delle opere: in tale
occasione, infatti, il geometra comunale si è limitato a
rilevare la presenza delle opere e ad effettuare riprese
fotografiche dei luoghi, senza prendere posizione sul
problema qui rilevante.
Il Comune, nelle proprie difese, si
è poi riferito ad alcuni rilievi aerofotogrammetrici
eseguiti dalla Regione Piemonte nel 1980 dai quali
emergerebbe che, a quel tempo, esisteva solo uno dei due
corpi di fabbrica in muratura ma non anche gli altri: ma
l’assunto è contestato dalla controparte la quale ha
evidenziato (non irragionevolmente) che l’altro corpo di
fabbrica, date le sue ridotte dimensioni, non sarebbe
visibile nell’aerofotogrammetria in quanto nascosto
dall’edificio più grande (la Cascina “La Generala”)
costruito in aderenza. Insomma, si hanno solo supposizioni
tali da non assurgere ad elementi di prova e tali,
soprattutto, da non poter revocare in dubbio le conclusioni
cui è giunto il perito di parte.
Deve quindi concludersi che, con riferimento ai citati
fabbricati, il ricorrente ha allegato un elemento presuntivo
dotato di sufficiente consistenza di fronte al quale sarebbe
spettato all’amministrazione resistente offrire una prova
contraria atta a dimostrare che le opere fossero state
edificate successivamente al 1967. In assenza di tale prova
contraria, o anche di un analogo e contrario elemento di
prova, deve quindi darsi per appurata la preesistenza delle
opere al 1967, senza possibili spazi per un’indagine
istruttoria da parte di questo TAR (cfr., analogamente, TAR
Piemonte, sez. II, sent. n. 809 del 2012).
Né può conferirsi
rilevanza a quanto il Comune accenna nella memoria
depositata in giudizio il 30.06.2012, secondo cui, anche
ammettendo la preesistenza di uno dei due fabbricati in
muratura al 1967, sarebbero stati successivamente realizzati
degli ampliamenti non consentiti: con tale argomentazione,
infatti, l’amministrazione tenta un’inammissibile
integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato,
aggiungendo un elemento (quello, appunto, del successivo
ampliamento non assentito) che non ha formato oggetto di
confronto procedimentale tra le parti e rispetto al quale è,
pertanto, prematura la trattazione nella presente sede
giurisdizionale. Deve infatti ribadirsi, sul solco della
giurisprudenza amministrativa, anche di questo TAR, che la
motivazione deve sempre precedere e non seguire l’atto
amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e
dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario
(cfr., recente, TAR Piemonte, sez. I, n. 430 del 2013, e
sez. II, nn. 276, 453 e 664 del 2013).
L’impugnata ordinanza di demolizione, pertanto, va annullata
nella parte in cui si è riferita ai due corpi di fabbrica in
muratura ed alla tettoia, in quanto opere esistenti già
prima dell’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967 e
quindi, all’epoca, edificabili liberamente perché ubicate al
di fuori del centro abitato (in base all’allora vigente art.
31, comma 1, della legge n. 1150 del 1942), con
assorbimento, per questa parte, degli ulteriori motivi.
---------------
Il ricorso,
peraltro, è fondato anche con riferimento al corpo di
fabbrica in lamiera.
Nonostante sia qui pacifico che l’opera sia stata edificata
in epoca successiva al 1967 (è infatti la stessa perizia
Sapei che conferma tale dato temporale), è tuttavia anche
pacifico che essa sia risalente ad almeno 25-30 anni
addietro rispetto all’accertamento compiuto
dall’amministrazione. Si tratta, infatti, della conclusione
cui è giunto il perito di parte, in ciò non più smentito
dalle controdeduzioni dell’amministrazione.
Il tempo
trascorso dall’edificazione è tale, nella sua oggettiva
consistenza, da consolidare in capo al proprietario –peraltro ignaro della natura abusiva dell’opera– una
legittima aspettativa in ordine all’insussistenza di alcuna
ragione di pubblico interesse alla rimozione del manufatto
(cfr., per precedenti analoghi della Sezione, TAR Piemonte,
sez. II, sentt. nn. 967, 1142 e 1355 del 2012): a fronte di
tale situazione, allora, il provvedimento gravato si mostra
carente lungo il profilo della motivazione, in quanto non ha
esplicitato le ragioni di pubblico interesse –evidentemente
diverse dal mero ripristino della legalità– che conducevano,
nella specie, al sacrificio della posizione consolidata in
capo al privato proprietario
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 12.12.2013 n. 1324 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Al Tar Campania fattispecie normativamente prevista
solo in raggruppamenti.
L'avvalimento non è ingessato.
Se fallita può essere sostituita l'impresa che dà i
requisiti.
Se in un appalto pubblico una impresa si è avvalsa dei
requisiti di qualificazione di un'altra impresa, poi
fallita, è legittimo consentire la sostituzione dell'impresa
fallita con altra impresa; è invece illegittima la
risoluzione del contratto da parte della stazione
appaltante.
È quanto afferma il TAR
Campania-Napoli, Sez. III, con la
sentenza 11.11.2013 n. 5042
che affronta una fattispecie normativamente prevista
soltanto nel caso di raggruppamenti temporanei di imprese e
non in caso di utilizzo dell'«avvalimento», l'istituto che
consente a un concorrente sprovvisto di requisiti di farseli
«prestare» da un'altra impresa (la cosiddetta ausiliaria).
La vicenda riguardava un'impresa mandante di un
raggruppamento temporaneo che si era avvalsa, per il
fatturato, dei requisiti di un'altra impresa poi fallita. La
stazione appaltante non aveva accettato la sostituzione
dell'impresa ausiliaria con altra impresa (come proposto
dall'appaltatore) e aveva proceduto alla risoluzione del
contratto. Da qui il ricorso contro la risoluzione del
contratto che il Tar accoglie integralmente partendo dal
profilo del diniego di sostituzione, affrontato dal collegio
partenopee rispetto alla possibilità di un'interpretazione
analogica del comma 19 dell'articolo 37 del codice dei
contratti pubblici.
La norma del codice, infatti, stabilisce che in caso di
fallimento di uno dei mandanti, l'impresa mandataria possa
sostituirlo con altro operatore economico subentrante che
sia in possesso dei prescritti requisiti e ciò, ovviamente,
al fine di portare a termine il contratto. Non esiste però
una disciplina relativa all'istituto dell'avvalimento, ma la
sentenza afferma che si può senz'altro procedere
all'applicazione analogica: se infatti il legislatore ha
previsto la sostituzione del mandante di un raggruppamento,
che è parte diretta del contratto, non si vede per quale
ragione la si debba negare, nel silenzio della legge, per
un'impresa ausiliaria di una mandante, che resta estranea al
contratto e limita il proprio ruolo al prestito di un
requisito, con annessa obbligazione di garanzia.
Per i
giudici «non sussiste nessuna ragione giuridico-formale o
pratico-operativa per impedire la sostituzione in un
rapporto «minore» e meno intenso (quello di avvalimento tra
ausiliata e ausiliaria) quando la legge ammette la
sostituzione nel caso «maggiore» e più intenso (quello del
raggruppamento temporaneo tra imprese, tutte pro quota
direttamente obbligate alla prestazione principale)». I
giudici non ritengono che la sostituzione possa violare il
principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti
alle gare pubbliche, dal momento che in questo caso il
fallimento dell'ausiliaria è intervenuto dopo
l'aggiudicazione e non può in alcun modo alterare la par
condicio tra i concorrenti.
Se quindi è legittima la sostituzione dell'impresa
ausiliaria, negata dalla stazione appaltante, è senz'altro
illegittima la risoluzione del contratto che, pertanto,
viene annullata dalla sentenza del collegio campano (articolo ItaliaOggi
del 07.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.01.2014 |
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UTILITA' |
INCARICHI PROGETTUALI:
Assicurazione professionale: le FAQ.
In seguito alle numerose richieste pervenute sul tema
dell'assicurazione professionale, il Centro Studi del Cni ha
deciso di aprire una sezione dedicata alle FAQ. Grazie a
questa gli ingegneri potranno ottenere le risposte alle
domande più frequenti pervenuteci.
Al fine di favorire la fruizione delle informazioni, le FAQ
sono proposte per aree tematiche. Quelle che trovate in
allegato sono le prime aree. Altre saranno attivate nei
prossimi giorni.
---------------
►
FAQ - Collaboratori società di ingegneria e di
professionisti
►
FAQ - Dipendenti e collaboratori imprese private
►
FAQ - Dipendenti pubblici
►
FAQ - Soci società ingegneria, professionisti e studi
►
FAQ - Liberi professionisti (link a www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO: Testo
Unico sulla Sicurezza: disponibile l’edizione aggiornata a
dicembre 2013 del testo coordinato.
Pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali il nuovo Testo Unico sulla Sicurezza,
(Decreto Legislativo 09.04.2008 n. 81) coordinato con tutte
le modifiche integrative e correttive introdotte fino a
dicembre 2013.
Le novità di maggior rilievo presenti nel testo coordinato
nell’edizione di dicembre 2013 sono:
●
la Circolare 41 del Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali
●
la modifica all'art. 71, comma 11, introdotta dalla Legge
30.10.2013, n. 125 recante disposizioni urgenti per il
perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle
Pubbliche Amministrazioni
●
gli interpelli dal n. 8 al n. 15 del 24.10.2013
●
le correzioni ad alcuni importi delle sanzioni rivalutate
(per alcune sanzioni l’importo di 7.014, 00 Euro è stato
sostituito con 7.104,40 Euro)
●
la Nota del 27.11.2013, con oggetto: nozione di “trasferimento”
ex art. 37, comma 4, lett. b), D.Lgs. 81/2008 e s.m.i.
(09.01.2014 - link a www.acca.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
dicembre 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 13.01.2014, "Aggiornamento
tecnico della direttiva per la gestione organizzativa e
funzionale del sistema di allerta per i rischi naturali ai
fini di protezione civile (d.g.r. 8753/2008)" (decreto
D.U.O. 30.12.2013 n. 12812). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 1.01.2013, "Procedure
e modalità di accesso al finanziamento regionale delle opere
di pronto intervento attivate dai comuni e loro forme
associative, in applicazione della d.g.r. 1033/2013"
(decreto
D.U.O. 24.12.2013 n. 12775). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE
DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che
adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza
comunitaria per la regione biogeografica continentale". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE
DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che
adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza
comunitaria per la regione biogeografica alpina". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE
DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che
adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza
comunitaria per la regione biogeografica mediterranea". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina nazionale dell’attività edilizia -
Guida operativa 2013.
Sommario: 1. Premessa; 2. Lo sportello unico per l’edilizia
(SUE); 3. l’attività edilizia libera; 3.1. L’attività
edilizia totalmente libera; 3.2. L’attività edilizia libera
previa comunicazione inizio lavori; 4. L’attività edilizia
soggetta a permesso di costruire; 4.1. Caratteristiche del
permesso di costruire; 4.2. Efficacia temporale del permesso
di costruire; 4.3. Onerosità del permesso di costruire; 4.4.
Procedimento per il rilascio del permesso di costruire; 5.
L’attività edilizia soggetta a S.C.I.A. o a super-D.I.A.;
5.1. L’ambito applicativo della S.C.I.A.; 5.2 L’ambito
applicativo della super-D.I.A.; 5.3. La disciplina
applicabile alla S.C.I.A. ed alla super-D.I.A.; 5.4. La
S.C.I.A. e la super-D.I.A. e l’incidenza sulla
commerciabilità dei fabbricati; 6. La demolizione e
successiva ricostruzione; 7. La sanatoria ex lege delle
difformità marginali; 8. L’agibilità; 8.1. La funzione del
certificato di agibilità; 8.2. Il procedimento di rilascio
del certificato di agibilità; 8.3. La dichiarazione di
agibilità “parziale”; 8.4. La dichiarazione “alternativa” di
conformità ed agibilità; 8.5. Il certificato di agibilità e
riflessi sulla circolazione immobiliare; 9. Il piano
nazionale per le città; 10. Il piano casa (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio
10.01.2014 n. 893-2013/C). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Milizia,
Il comune nega legittimamente il permesso di edificare una
cantina, ma dovrà ugualmente risarcire il vignaiolo (07.01.2014
- link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Milizia,
Maremma amara per il sindaco per la ritardata autorizzazione
di un impianto a biogas: deve un maxi indennizzo alla ditta
(07.01.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Milizia,
Guerra dei cartelloni pubblicitari: quando è possibile
richiederne la rimozione per violazione del nesso di
vicinitas e degli interessi commerciali?
(07.01.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL DECRETO “DESTINAZIONE ITALIA” - LE NOVITÀ IN
MATERIA DI CERTIFICAZIONE ENERGETICA.
Il Consiglio Nazionale del Notariato ha svolto alcune brevi
prime riflessioni sulle modifiche apportate ai commi 3 e
3-bis dell'art. 6 del D.lgs. n. 192/2005 dal D.L. 23.12.2013
n. 145 (c.d. “Decreto destinazione Italia”), che
interviene nuovamente sulla disciplina in tema di
certificazione energetica, modificando le regole
sull’obbligo di dotazione e sull’obbligo di allegazione
dell’attestato di prestazione energetica (APE) (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio
30.12.2013). |
PATRIMONIO - VARI:
La tassazione dei trasferimenti immobiliari a
titolo oneroso dal 01.01.2014.
Sommario: 1. Gli atti di cui all’art. 1 della tariffa; 2. I
riflessi sulla tassazione delle cessioni soggette ad IVA; 3.
La tassazione degli acquisti della cd. prima casa; 4. I
trasferimenti a titolo oneroso dei terreni agricoli; 5. La
tassazione degli atti societari; 6. L’imposta “minima” per
gli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso; 6.1
L’imposta “minima” per alcune fattispecie particolari; 6.2
La natura dell’ammontare minimo – lo scomputo; 7. Il cd.
assorbimento degli altri tributi: le regole del comma 3
dell’art. 10; 8. La soppressione di esenzioni e
agevolazioni; 9. L’entrata in vigore della disciplina
dell’art. 10; 10. Aumento delle imposte fisse nella misura
di 200 euro: decorrenza (Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 30.12.2013 n. 1011-2013/T). |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI:
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) -
Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI,
dicembre 2013). |
APPALTI:
M. A. Sandulli,
Natura ed effetti dei pareri dell'AVCP (18.12.2013
- link a www.federalismi.it). |
ESPROPRIAZIONE:
C. Benetazzo,
Occupazione “espropriativa”, acquisizione “amministrativa”
ed usucapione come rimedio “alternativo”
all’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001:
ambito e limiti dei poteri cognitori del giudice
amministrativo (18.12.2013
- link a www.federalismi.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
D. Russo,
Nessuna immunità per i consiglieri regionali che affidano
consulenze esterne
(04.12.2013 - link a www.federalismi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
L’interesse paesaggistico dei fiumi, dei torrenti e dei
corsi d’acqua. Particolarità dei Piani Paesaggistici (29.11.2013
- link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
T. Millefiori,
Sulla definizione normativa di bosco (28.11.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il trappolone del MIBAC (commento all’art. 143 del D.Lgs. n.
42/2004 e ss.mm.ii.) (27.11.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Sull’inapplicabilità dell’art. 21-nonies della legge n.
241/1990 alla disciplina urbanistica (commento critico a TAR
Toscana, sentenza n. 1481/2013) (26.11.2013 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
La gestione abusiva dei rifiuti (art. 256, comma 1, D.Lgs.
n. 152/2006) integra un reato comune? (link a
www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 10/2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Ripristinati gli articoli del regolamento sui
contratti pubblici (DPR 207/2010) riguardanti i subappalti
delle categorie super specializzate ed i criteri di
affidamento delle categorie a qualificazione obbligatoria
(ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 14). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Riutilizzo delle terre e rocce da scavo:
circolare ARPA Lombardia e modulistica ANCE Lombardia
(ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 5). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Rifiuti: la combustione illecita è reato
(ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 4). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Canoni delle concessioni di acqua pubblica –
ANNO 2014 (ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 3). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Denuncia dei quantitativi di acqua pubblica
derivati nell’ANNO 2013 (ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 2). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Denuncia scarichi industriali in fognatura
(ANCE Bergamo,
circolare 10.01.2014 n. 1). |
APPALTI:
Oggetto: AVCPASS (Authority Virtual Company Passport) -
Le innovazioni nelle procedure di gara per l’affidamento di
lavori, servizi e forniture, dettate dalla Deliberazione
dell’AVCP n. 111/2013, in vigore da Gennaio 2014
(Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori,
circolare 08.01.2014 n. 3). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Responsabilità degli amministratori e dei funzionari degli
enti locali per transazioni illegittime su spese giudiziali.
La responsabilità degli amministratori
di un comune e del segretario comunale per l’intervenuta
parziale refusione delle spese legali in favore di un
dipendente -artefice di un patteggiamento per omicidio
colposo e poi condannato in sede civile per il risarcimento
danni in favore dei congiunti del deceduto- non è
affievolita dal fatto che la transazione con il dipendente
scaturisca da una proposta del Collegio di conciliazione
presso la Provincia Autonoma di Trento, la cui funzione era
meramente propositiva e non decisionale a differenza di
quella svolta dai convenuti amministratori, e che
determinava comunque l’importo transattivo in misura del 50%
delle spese legali, sull’evidente ed erronea premessa
-peraltro ininfluente ai fini della sussistenza del diritto
al rimborso- della corrispondente corresponsabilità della
vittima dell’incidente.
---------------
Il caso
La vicenda rimessa al vaglio dei giudici contabili trae
origine da un tragico incidente occorso in danno di un
dipendente comunale mentre prestava servizio con un collega.
Quest’ultimo, in particolare, quale autista di un autocarro,
ha parcheggiato il pesante mezzo su una strada in salita
senza apprestare le dovute cautele indicate dalla normativa
sulla circolazione stradale (attivazione del freno di
stazionamento, inserimento del rapporto di marcia più
basso, sterzamento delle ruote); all’avviata retrocessione
del mezzo ha cercato di porre rimedio l’altro dipendente
finendo, tuttavia, per essere investito dall’autocarro, con
il conseguente decesso della vittima.
In seguito alla vicenda l’autista è stato sottoposto a
procedimento penale per il reato di omicidio colposo,
culminato in una sentenza di patteggiamento resa ai sensi
dell’art. 444, c.p.p. Successivamente si è tenuto il
procedimento civile instaurato dai parenti della vittima per
ottenere il ristoro dei danni causati dalla grave perdita
familiare:
in tale frangente, si è registrato un disallineamento tra
la statuizione del giudice di prime cure -il quale ha
riconosciuto un concorso di colpa tra danneggiante e
danneggiato- e quella della Corte d’appello, secondo cui
l’autista del mezzo doveva ritenersi l’unico responsabile
dell’evento mortale.
Esauriti i procedimenti a suo carico, il dipendente ha
chiesto il rimborso delle spese legali, peritali e di
giustizia
dallo stesso sostenute ai sensi dell’art. 36 della L.R.
n. 4/1993, il quale impone all’ente la restituzione di tutte
le
somme sostenute dal dipendente nel corso di giudizi penali
o civili ove questi sia rimasto coinvolto per fatti o
cause di servizio. La norma richiamata, tuttavia, conosce
un’importante eccezione: l’obbligo di rimborso viene
meno ove siano state inflitte ‘‘condanne’’ per azioni
od omissioni commesse con dolo e colpa grave. Ed è
proprio per siffatta eccezione che la domanda di rimborso è stata a lungo rigettata dall’amministrazione, fino a
quando, adito il Giudice del lavoro, ed avviata la fase
conciliativa, il comune, con delibera della Giunta e il
successivo avvallo del Segretario comunale, ha optato
per l’adesione ad una proposta transattiva formulata
dal Collegio di conciliazione provinciale, riconoscendo
circa la metà dell’importo rivendicato dal dipendente.
L’accordo transattivo è stato tacciato di illegittimità
dal
Procuratore presso la Corte dei Conti in quanto lesivo
della disciplina in materia di rimborso delle spese
giudiziarie
sul presupposto della pregressa sentenza di patteggiamento
assieme a quella (di condanna) pronunciata in
sede civile dalla Corte territoriale, che avrebbero
confermato
l’essenza -gravemente colposa- della condotta
serbata dal dipendente come tale indegna della copertura
economica a carico dell’ente in punto spese giudiziali.
I convenuti nel giudizio contabile hanno resistito alla
richiesta
di condanna avanzata dalla Procura, eccependo
l’impossibilità, nel caso di specie, di accertare
l’elemento
soggettivo della condotta del dipendente, e ciò tanto
in sede penale -tenuta presente la ‘‘neutralità’’ della
sentenza di patteggiamento- quanto in sede civile ove,
pure, si era registrata una certa incertezza per avere il
giudice di primo grado (e solo questo) rinvenuto profili
di responsabilità colposa addebitabili alla vittima
dell’incidente.
Gli stessi convenuti hanno poi richiamato
il costante orientamento della giurisprudenza contabile
in materia di responsabilità dell’autista secondo cui deve
escludersi la responsabilità, per mancanza dell’elemento
psicologico, ove la condotta del dipendente in esame
‘‘sia pur colpevole, sia stata improntata ad una logica
di ragionevolezza’’, e l’evento si sia prodotto ‘‘anche
per l’imprudenza e la corresponsabilità della vittima’’.
Da ultimo, è stata rimarcata la convenienza, in ogni caso,
dell’accordo transattivo se comparato all’estrema incertezza
della sentenza del giudice del lavoro.
La soluzione
La Corte dei Conti, Sez. giuris. Trentino Alto
Adige-Trento, pronunciatasi con
sentenza 30.09.2013 n. 41, ha ritenuto illegittima la transazione
stipulata
in recepimento della proposta conciliativa, per l’effetto
condannando i componenti della Giunta assieme al
Segretario comunale a risarcire il danno erariale cagionato
all’ente di appartenenza.
La decisione, seppur sfavorevole nell’an, è stata
grandemente
temperata sotto il profilo del quantum. I giudici
contabili hanno, infatti, ridotto considerevolmente
l’ammontare
della somma individuata a titolo di danno erariale,
all’uopo motivando l’esercizio del potere riduttivo
sul presupposto della ‘‘peculiarità della questione’’,
connotata da un complesso di circostanze ambientali e
soggettive non trascurabili, fra tutte ‘‘la lunghissima e
dolorosa controversia’’ e la tragicità dell’incidente da
cui scaturiva lo stesso giudizio contabile. In altri
termini,
la violazione cristallizzata nella delibera in ordine
all’accordo
transattivo sarebbe stata fortemente influenzata, a
giudizio della Corte, dalla componente emotiva dei
convenuti,
fermi nel cercare una soluzione alla lite con il dipendente
quanto più ‘‘accomodata’’, anche al costo di
forzarne i presupposti legittimanti.
Problemi e prospettive
La pronuncia in commento affronta la questione riguardante
il perimetro applicativo della soluzione transattiva
allorché vi sia la necessità di farne uso per la
liquidazione
delle spese di giudizio sostenute dal dipendente pubblico
in occasione di giudizi su condotte tenute nel corso
del rapporto di servizio.
La conclusione cui
si perviene discende da una chirurgica
analisi dei dati fattuali atti alla ricostruzione
dell’elemento
soggettivo, e finalizzati a escludere o includere la
sussistenza del diritto al rimborso.
Preliminarmente è il caso di osservare come, nell’economia
della pronuncia, assuma un ruolo centrale il tema
della possibilità per i giudici contabili di porre in
essere
un giudizio sulla ragionevolezza dell’accordo transattivo.
Se, infatti, il semplice ricorso da parte
dell’amministrazione
allo strumento di composizione della lite non
pare oggetto di contestazione (a condizione -sia chiaro- che vi sia effettivamente una controversia giuridica da
comporre, la legittimazione soggettiva delle parti, la
disponibilità
dell’oggetto, unitamente ai requisiti specificatamente
riconducibili al diritto pubblico, e cioè la natura
del rapporto tra privati e pubblica amministrazione)
non altrettanto vale per quel che concerne il suo ambito
applicativo e, ancora, l’eventualità stessa che l’accordo
raggiunto sia messo in discussione.
Su quest’ultimo problema si è di recente pronunciata la
Sezione controllo della Corte dei Conti per la Regione
Piemonte, con deliberazione n. 20/2012 (pure richiamata
dalla difesa dei convenuti) ove si evidenzia come il
giudizio
di ragionevolezza non possa spingersi fino al punto
di apprezzare l’opportunità e la convenienza per l’ente
dell’accordo medesimo, di talché è sempre necessario
evitare qualsiasi forma di sovrapposizione con le scelte
gestionali di esclusiva competenza e responsabilità degli
organi dell’amministrazione: ‘‘la scelta se proseguire un
giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta
delimitazione dell’oggetto della stessa’’ -si legge nel
precedente citato- ‘‘spetta all’Amministrazione nell’ambito
dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa
e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta
a sindacato giurisdizionale’’.
La stessa Corte piemontese,
tuttavia, ha avuto cura di evidenziare come un certo
sindacato del giudice possa, di contro, dirsi ammissibile
sotto il (diverso) profilo ‘‘dell’individuazione, in linea
generale, dei limiti all’applicabilità della transazione
agli
enti pubblici’’, e tanto al fine di assicurare la
rispondenza
degli accordi ai criteri di razionalità, congruità e
prudente
apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione
amministrativa.
Sul crinale di queste premesse la Corte altoatesina ha
censurato la transazione intercorsa tra i componenti della
Giunta e il dipendente, smentendo l’impossibilità di
ricostruire l’effettiva portata dell’elemento soggettivo
della condotta causativa dell’incidente, ritenuto desumibile
con chiarezza dall’esito dei procedimenti tenutisi prima di quello contabile. E invero, con riferimento,
anzitutto,
alla valenza della sentenza di patteggiamento, è
stata rimarcata la previsione secondo cui al giudice penale
è concesso formalizzare l’accordo tra accusa e imputato
nei limiti in cui non sussistano motivi di proscioglimento
indicati all’art. 129, c.p.p.; quanto, invece, all’esito
del giudizio civile è stato sottolineata la subvalenza
della decisione emessa dal giudice di primo grado -che, come osservato sopra, ha riconosciuto la
corresponsabilità
del danneggiante e del danneggiato nella causazione
dell’evento- rispetto a quella resa dalla Corte
d’appello, ferma nel disegnare il nesso di causalità in
direzione
del solo danneggiante, senza rescissione alcuna
per via di altra causa concorrente.
Queste considerazioni hanno convinto i giudici contabili
a ritenere la delibera comunale (e, il conseguente, ‘‘bene
stare’’ del Segretario) violativa, oltre che dei doveri di
servizio, dei generali doveri di diligenza di cui agli artt.
1176, cod. civ. e 43, cod. pen., posto che i convenuti,
nelle rispettive funzioni, ben avrebbero potuto dedicare
maggiore attenzione e cautela alla ricostruzione della
vicenda
e alle (prevedibili) ripercussioni negative sul patrimonio
dell’ente. Di singolare importanza è, peraltro,
la precisazione secondo cui dette ripercussioni non potevano
in alcun modo dirsi giustificate dal fatto che il
provvedimento censurato si limitava a ratificare la proposta
conciliativa elaborata dalla Commissione provinciale.
La decisione in rassegna, in conclusione, dev’essere
collocata
nel novero degli interventi chiarificatori sulla valenza
delle transazioni concluse dalle amministrazioni
pubbliche (cfr. ex pluribus, Corte Conti, sez. Piemonte,
parere del 17.06.2010, n. 44; id., parere del 05.10.2006, n. 4; id., sez. Lombardia, parere del
05.10.2007, n. 21; id. parere del 18.03.2008, n. 14; id.,
parere
del 18.12.2009, n. 1116), e merita particolare
attenzione per la materia nella quale l’accordo è immerso,
ossia quella lavorista-conciliativa, già caratterizzata
da una certa sensibilità che discende dalla stessa
importanza
del tema di indagine
(Corte dei Conti, Sez. giurisd. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 30.09.2013 n. 41 -
commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 12/2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Debiti fuori bilancio - Fattispecie
-
L’integrazione dell’impegno originario in alcuni casi è
possibile.
Relativamente ad incarichi legali di difesa in giudizio
dell’ente, qualora fatti successivi all’originario impegno
di spesa determinino un aumento della spesa prevista
inizialmente in termini non rilevanti ma ‘‘fisiologici’’,
l’ente locale può non ricorrere alla procedura di
riconoscimento del debito fuori bilancio ma potrà procedere
ad adeguare lo stanziamento
iniziale integrando l’originario impegno
di spesa per garantire la copertura finanziaria della
parcella professionale qualora, verificata la congruità
dell’impegno originario, siano già disponibili
le risorse finanziarie a tal fine necessarie,
e l’acquisizione del servizio sia stata effettuata nel
rispetto delle procedure contabili. (1)
------------------
(1) Si tratta di questione controversa che ha trovato
soluzioni opposte nella giurisprudenza
contabile.
Hanno stabilito che è sempre necessaria la procedura di
riconoscimento del debito
fuori bilancio: sez. reg. contr. Veneto, n. 7 del 2008; sez.
reg. contr. Sardegna,
n. 2 del 2007.
Hanno ritenuto, invece, che sia possibile integrare
l’originario impegno, qualora
circostanze sopravvenute, quali ad es. la durata del
contenzioso rendano insufficiente
l’impegno originario: Sez. reg. contr. Campania, n. 9 del
2007; Sez.
reg. contr. Lombardia 05.02.2009, n. 19; 12.10.2011, n. 511; 11.07.2012, n. 322; 23.10.2012, n. 441).
Per una ricostruzione della questione in relazione alla
complessiva disciplina dei
debiti fuori bilancio: G. Astegiano, I debiti fuori
bilancio, in G. Astegiano (a cura
di), Ordinamento e gestione contabile-finanziaria degli
Enti locali, Ipsoa, 2012,
810 e segg. (Corte
dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 17.06.2013 n. 55 - commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 8-9/2013).
---------------
Il Sindaco del Comune di Ronco Scrivia chiede alla Sezione
di controllo un parere in merito alla corretta liquidazione
di compensi a favore di professionisti in conseguenza del
conferimento di incarichi legali, formulando due distinti
quesiti.
In riferimento al primo il Sindaco chiede di
sapere se le parcelle di liquidazione dell’attività
professionale del legale incaricato dall’Ente (attività
stragiudiziale e giudiziale) commissionata negli anni 2002,
2003 e 2005 possano essere liquidate secondo le previgenti
tariffe professionali anche se le relative parcelle di
liquidazione sono state emesse nell’anno 2012 a seguito
della conclusione dei contenziosi.
Con il secondo quesito il Sindaco chiede di sapere
se per la liquidazione di compensi relativi a prestazioni
professionali legali, connesse alla difesa in giudizio
dell’Ente eccedenti gli impegni contabili assunti, si debba
ricorrere alla procedura di cui all’art.194 del TUEL ossia
al previo riconoscimento di legittimità del debito fuori
bilancio ai sensi del comma 1, lettera e) o se invece sia
sufficiente, disponendo dell’intera somma richiesta,
adottare una determina dirigenziale di integrazione della
spesa e successivamente di liquidazione anche considerando
l’imprevedibile lunga durata dei contenziosi in oggetto.
Ciò anche alla luce dei diversi orientamenti osservati dalle
Sezioni regionali della Corte dei conti.
...
La fattispecie all’esame di questo Collegio concerne la
liquidazione di compensi relativi a prestazioni
professionali di natura legale eccedenti gli impegni
contabili assunti e più precisamente quale sia la corretta
procedura di liquidazione della spesa in esame. Sul punto si
sono creati due contrapposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo il primo orientamento, sostenuto
principalmente dalla Sezione di controllo lombarda, in
situazioni come quella all’esame di questo Collegio non
necessariamente occorre ricorrere alla procedura di
riconoscimento di debito fuori bilancio di cui all’art. 194,
comma 1, lett. e) del TUEL, in quanto “si
ritiene che l’impegno di spesa per prestazioni professionali
a tutela dell’ente può dirsi assunto correttamente quando in
presenza di un eventuale maggior onere (emergente
dall’imprevedibile lunga durata della causa), l’ente al fine
di garantire la copertura finanziaria procede ad adeguare lo
stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di
spesa. In altri termini, fatti successivi, non prevedibili
al momento dell’originario impegno di spesa quali il
protrarsi della durata del processo, costituiscono una
legittima causa giuridica per la spesa da sostenere e
consentono, quindi, di assumere il relativo impegno in
bilancio. In questa ipotesi, anzi, il ricorso all’istituto
del riconoscimento del debito fuori bilancio contrasterebbe
con i principi di contabilità pubblica. Ne consegue che
qualora l’importo legittimamente impegnato si riveli
insufficiente, la differenza non realizza automaticamente
una fattispecie di debito fuori bilancio, da legittimare ai
sensi dell’art. 194, co. 1, lett. e TUEL"
(Sez. reg. contr. Lombardia delibere n. 19/2009, n.
322/2012, n. 441/2012).
Secondo un diverso orientamento, sostenuto, tra le
altre, dalle Sezioni Veneto, Puglia, Sardegna,
anche in situazioni come quella in esame è
necessario ricorrere alla procedura di cui all’art. 194 del
TUEL. La liquidazione di una spesa può, infatti, avvenire ai
sensi dell’art. 184, primo comma del T.U.E.L. nei limiti
dell’impegno definitivo assunto: “ogni qualvolta si
verifichi questo scostamento tra impegno contabile assunto a
tempo debito e somma definitiva da pagare ad operazione
conclusa, si incorre in un’ipotesi di debito fuori bilancio
che introduce un elemento di imprevedibilità potenzialmente
idoneo a creare uno squilibrio nelle previsioni di spesa del
bilancio”
(Sez. reg. contr. Veneto, delibera n. 7/2008).
Pertanto “nel caso che l’importo
impegnato si riveli insufficiente, la differenza tra quanto
impegnato e quanto richiesto dalla controparte contrattuale
–a parte ogni considerazione sulla valutazione della
congruità della parcella, sulla effettiva realizzazione
delle attività fatturate e sulla corretta applicazione degli
scaglioni tariffari– costituisce debito fuori bilancio e
come tale deve essere riconosciuto dal Consiglio comunale,
ai sensi dell’art. 194 TUEL. Precisamente si tratta di
riconoscimento ai sensi della lettera e) del comma 1:
acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi
di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente,
nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza”
(Sez. reg. contr. Sardegna delibera n. 2/2007).
Entrambi gli orientamenti evidenziati hanno però una
base comune: ferma restando la necessità del rispetto delle
regole per il conferimento dell’incarico (determina a
contrarre, stipula del contratto, ecc.), in osservanza del
principi di prudenza, buona amministrazione, sana gestione
finanziaria l’Ente, nel caso di
conferimento di incarico legale, ha il dovere di acquisire
dall’avvocato un preventivo di massima che si avvicini il
più possibile alla spesa che sarà definitivamente sostenuta,
ciò al fine di quantificare correttamente l’impegno di spesa
necessario e predisporre adeguata copertura finanziaria. Ciò
pur in presenza di variabili, connaturali al tipo di
incarico in esame, che possono determinare incertezza sulla
quantificazione dell’impegno finanziario al momento
dell’ordinazione della prestazione ai sensi dell’art. 191
TUEL (lunghezza del giudizio, esito dello stesso, ecc.). In
tal modo si realizza una corretta imputazione di bilancio,
se pur non precisa nel suo ammontare definitivo, e si
salvaguarda la sana e prudente gestione finanziaria. Inoltre
si consente all’Ente, ad all’organo Consiliare, di valutare
correttamente l’utilità ed il vantaggio della prestazione
professionale.
Diversamente qualora la previsione iniziale
ed il relativo impegno siano non veritieri in quanto la
spesa preventivata si discosta in modo sensibile dalla spesa
effettivamente sostenuta (senza che ricorrano magari
situazioni eccezionali ed imprevedibili), si crea un
vulnus alla sana e prudente gestione finanziaria in
quanto, di fatto, la spesa per l’incarico legale si sottrae
alle ordinarie procedure di spesa determinando (o potendo
determinare) squilibri finanziari. In tale circostanza è
doveroso, rectius, obbligatorio ricorrere alla
procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio al fine
di ricondurre la spesa in esame all’interno della gestione
di bilancio individuando le risorse necessarie alla
copertura finanziaria, valutando l’utilità della prestazione
(lo scostamento significativo tra impegno iniziale e spesa
definitiva può anche essere sintomatico di un non corretto
ricorso all’incarico legale).
In tal senso sembrano concordare, implicitamente, entrambi
gli orientamenti giurisprudenziali sopra ricordati.
Diverso appare il caso in cui l’impegno iniziale non si
discosti significativamente dalla spesa definitiva. Come
detto la tipologia di incarico si presta ad una
determinazione della spesa non puntuale. Ciò non toglie che
una quantificazione dell’esborso finanziario impegnato il
più vicino possibile al compenso realmente fatturato dal
professionista consenta di rispettare la sana e prudente
gestione finanziaria, ricorrendo ad adeguata copertura
finanziaria della spesa senza che la fattispecie in esame si
sottragga, di fatto, alla gestione di bilancio.
Nel caso di specie viene meno l’utilità della procedura di
cui all’art. 194 del TUEL in quanto non si è in presenza di
un’acquisizione di servizio in assenza di impegno contabile
(cosa di cui si potrebbe dubitare, come già detto, qualora
vi fosse uno scostamento significativo tra impegno iniziale
e compenso definitivo), l’utilità della prestazione è stata
già valutata al momento del conferimento dell’incarico se
affidato nel rispetto delle procedure di legge (determina a
contrarre, stipula del contratto, ecc.) ed, infine, ricorre
la copertura finanziaria in quanto sono già disponibili le
risorse destinate al pagamento del compenso professionale.
Pertanto ritiene questo Collegio che,
relativamente ad incarichi legali di difesa in giudizio
dell’Ente, qualora fatti successivi all’originario impegno
di spesa determinino un aumento della spesa prevista
inizialmente in termini non rilevanti ma “fisiologici”,
l’Ente potrà procedere ad adeguare lo stanziamento iniziale
integrando l’originario impegno di spesa per garantire la
copertura finanziaria della parcella professionale qualora,
verificata la congruità dell’impegno originario, siano già
disponibili le risorse finanziarie a tal fine necessarie, e
l’acquisizione del servizio sia stata effettuata nel
rispetto delle procedure contabili. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Responsabilità degli amministratori locali per scelte
illegittime di agire in giudizio.
Il limite della insindacabilità non sussiste, e dunque non
può essere invocato dal presunto responsabile del danno,
allorché le scelte discrezionali, da cui sia derivato il
nocumento patrimoniale, siano contrarie alla legge o si
rivelino gravemente illogiche, arbitrarie, irrazionali o
contraddittorie, atteso che la predetta insindacabilità
concerne la valutazione delle scelte tra più comportamenti
legittimi attuati per il soddisfacimento dell’interesse
pubblico perseguito e non ricomprende, al contrario, le
scelte funzionalmente deviate rispetto al superiore e
basilare postulato del buon andamento dell’azione
amministrativa.
---------------
Il caso
La vicenda rimessa al vaglio dei giudici contabili trova
origine in una lite insorta tra un Comune piemontese e
un cittadino che ha contestato -con ricorso al Capo dello
Stato- la nomina a revisore contabile in favore di un terzo
professionista, sotto i profili del mancato ricorso alla
gara pubblica e del comportamento, a suo dire, ambiguo
di alcuni amministratori dell’Ente. In particolare, il
ricorrente
ha censurato -con gravi affermazioni- la procedura
di nomina, e ciò fino al punto da provocare un
certo risentimento del Sindaco.
Quest’ultimo, ritenutosi
offeso dalla espressioni utilizzate nell’atto introduttivo
del ‘‘contestatore’’, ha deciso -in accordo con la Giunta
dell’epoca- di depositare all’Autorità giudiziaria una
denuncia
per i reati di diffamazione e calunnia; parallelamente,
ha avviato un processo civile volto ad ottenere
una declaratoria di condanna al risarcimento dei danni
patiti per lesione di immagine dell’amministrazione.
Entrambi
i procedimenti, tuttavia, sono culminanti in un
nulla di fatto, le richieste del primo cittadino essendosi
imbattute nel rigetto del giudice penale (che ha disposto
l’archiviazione del caso), e di quello civile, che ha
ritenuto
prive di pregio tutte le pretese attrici.
Di contro, il dispendio di risorse pubbliche -l’Ente ha
conferito tre distinti mandati ad un legale esterno, per
una parcella complessiva di più di 8.000 euro- finalizzato
a dar fiato ad azioni giudiziarie risultate del tutto
infondate,
non è passato inosservato alla Procura Regionale
della Corte dei conti, la quale ha prontamente avviato
un procedimento per far valere la responsabilità
amministrativa
degli autori dello spreco. L’addebito mosso nei
confronti del Sindaco e degli altri componenti della
Giunta è stato quello di aver insistito arbitrariamente e
pretestuosamente alla coltivazione di azioni giudiziarie
che, già in principio, si sapevano poste in essere in
mancanza
di idonei presupposti, con l’evidente conseguenza
di aver generato un ingiustificabile danno erariale.
I convenuti, tra vari argomenti, hanno eccepito in loro
difesa la connaturata aleatorietà del giudizio in uno all’insindacabilità
piena della scelta discrezionale di intraprendere
o proseguire un’azione giudiziaria, in quanto
afferente alla sfera del merito amministrativo. E' sorta,
di conseguenza, la necessità, per i giudici contabili
investiti
della vicenda, di appurare l’ammissibilità e il perimetro
di un siffatto sindacato.
La soluzione
La Corte dei Conti, Sez. giurs. per la Regione Piemonte,
pronunciatasi con
sentenza 18.04.2013 n. 52, ha
rigettato la tesi della totale insindacabilità della scelta
degli amministratori pubblici di intraprendere un’azione
giudiziaria, per l’effetto condannando in parte qua i
convenuti al pagamento in favore del Comune della
somma sostenuta per i processi avviati pretestuosamente,
in virtù della provata sussistenza, nel caso di specie,
di tutti i profili di responsabilità
amministrativo-contabile.
Il raffronto tra costi e benefici con riferimento alla
molteplicità
dei processi, avviati dai convenuti in apparente
difesa dell’immagine dell’Ente, non lasciava alcun dubbio
-secondo i giudici- sulla diseconomicità della gestione,
complessivamente considerata, in violazione
del principio di buon andamento che, in virtù del dettato
dell’art. 97 Cost., deve ispirare ogni componente dell’agere
pubblico.
Nel merito della vicenda, peraltro, è stato escluso -in
linea
con quanto ritenuto dagli altri giudici chiamati a statuire
sul punto- il carattere offensivo delle dichiarazioni
contestate dai convenuti, e quindi la capacità stessa di
ledere l’immagine dell’amministrazione, anche tenuto
presente della (conclamata) fondatezza delle ragioni
che l’allora ricorrente faceva valere con i motivi di legittimità
contenuti nel ricorso. Ed anche a voler ritenere offensive
le affermazioni del ricorrente -hanno concluso i
giudici- le stesse avrebbero, in ogni caso, intaccato la
sfera personale del Sindaco e dei componenti della
Giunta (non essendo state rivolte direttamente all’Ente
civico) dal che l’assenza dei presupposti per agire in
giudizio
permaneva anche sotto il profilo soggettivo.
Problemi e prospettive
La pronuncia affronta il tema controverso soffermandosi, in
particolare, sui concetti di merito e discrezionalità,
valutati
in rapporto alla legittimità dell’azione amministrativa.
L’analisi muove, anzitutto, dalla dizione dell’art. 1, c. 1,
della legge n. 20/1994, secondo cui ‘‘la responsabilità
dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte
dei Conti in materia di contabilità pubblica è personale
e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo
e colpa grave’’, con la precisazione che è fatta salva
‘‘l’insindacabilità nel merito’’ delle scelte discrezionali
operate dall’organo amministrativo.
La norma -secondo i giudici della Corte dei conti- non
estromette del tutto la possibilità che le scelte, pur
discrezionali,
siano sottoposte al sindacato giurisdizionale.
Invero, essa non eliderebbe il controllo sul rispetto dei
limiti interni ed esterni alla scelta.
Sotto il primo profilo, si osserva come l’azione
amministrativa
debba sempre collegarsi al perseguimento del fine
pubblico, rendendola, in questi termini, teleologicamente
orientata ai motivi per i quali è attribuito lo stesso
esercizio del potere.
Quanto ai limiti esterni, invece, il riferimento è alla legittimità
della azione, il che implica una digressione
sui parametri da rispettare affinché la scelta possa
ritenersi,
per l’appunto, legittima: ebbene, in virtù,
dell’evoluzione
normativa stratificatasi negli anni -la più alta
rappresentazione della procedimentalizzazione dell’agire
dell’amministrazione è rappresentata dalla legge. n.
241/1990- il legislatore ha aggiunto taluni essenziali
riferimenti
che attuano -non già in un’ottica meramente
programmatica, bensì precettiva- il canone costituzionale
del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.; più
precisamente,
la legge sul procedimento amministrativo
prevede che le scelte dell’amministrazione, oltre che
imparziali
e trasparenti, siano improntate ai principi di economicità,
efficienza ed efficacia, in modo da garantire
un equilibrio tra i costi sostenuti e i benefici ottenuti.
Il precipitato di tale rafforzamento è quello per cui le
scelte che implichino un’apprezzabile sacrificio di risorse
pubbliche senza una contropartita violano non solo i
parametri di opportunità e convenienza, ma anche -e
soprattutto- parametri marcatamente legali.
Occorre altresì evidenziare come la verifica del rispetto
dei limiti esterni debba espletarsi ancor prima di quella
concernete i limiti interni. Di conseguenza, il giudice
chiamato a sindacare la scelta discrezionale
dell’amministrazione
nei limiti di quanto sopra detto dovrà, in primo
luogo, soffermarsi sull’economicità e, quindi, sulla
proporzionalità della misura adottata; laddove il primo
riscontro abbia esito positivo, è possibile appurare la
compatibilità della scelta operata al fine pubblico
indicato
dalla norma attributiva. Superato positivamente quest’ultimo
stadio di verifica, il sindacato del giudice deve
ritenersi esaurito, ed ogni ulteriore indagine intaccherebbe
inevitabilmente il merito della scelta, notoriamente
svincolato da parametri giuridici ed espressamente riservato
alla sola amministrazione.
Le coordinate sopra esposte implicano, dunque,
l’affermazione
di principio in forza del quale il limite della
insindacabilità
di cui al citato art. 1, c. 1, legge n. 20/1994
non può dirsi sussistente ove le scelte discrezionali da
cui è scaturito il nocumento patrimoniale siano in loro
contrarie
alla legge, o comunque ‘‘si rivelino gravemente illogiche,
arbitrarie, irrazionali o contraddittorie’’. L’insindacabilità
cui si riferisce la norma, infatti, attiene alla valutazione
di scelte tra più comportamenti legittimi ed attuati
per il soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito
(il sopra citato ‘‘merito’’); per cui ‘‘le scelte
funzionalmente
deviate rispetto al superiore e basilare postulato
del buon andamento dell’azione amministrativa’’ non
possono (e non devono) sfuggire al sindacato del giudice
contabile posto che in questi casi, si tratta pur sempre di
garantire la legittimità dell’azione amministrativa.
La ricostruzione svolta dalla Corte piemontese non
rappresenta,
peraltro, un caso isolato. Già in precedenza era
stato perimetrato il confine del sindacato giurisdizionale
del giudice contabile a fronte di scelte discrezionali
dell’amministrazione
poste in essere in spregio ai limiti interni
ed esterni previsti dall’ordinamento (tra le decisioni
degli organi di massima assise, si vedano, da ultimo,
Cass., Sez. Un., n. 4283/2013 nonché, nella giurisprudenza
contabile, Sez. Giur. Centr., n. 346/2008) (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte,
sentenza 18.04.2013 n. 52 -
commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 8-9/2013). |
APPALTI SERVIZI:
Responsabilità degli amministratori locali per gli
affidamenti senza procedure pubbliche.
E'
configurabile la responsabilità amministrativo-contabile
per gli amministratori degli enti locali
che violino le norme in materia di procedure ad
evidenza pubblica, cagionando un ‘‘danno alla
concorrenza’’.
---------------
Il caso
Nell’ipotesi in esame, il sindaco di un comune campano,
a seguito di ripetuti episodi di teppismo registrati sul
territorio,
ha deciso -di propria iniziativa e senza curarsi di
apprestare la relativa copertura finanziaria- di incaricare
una cooperativa del luogo, per lo svolgimento di un servizio
di vigilanza notturna, con il fine di contenere nuove
manifestazioni di violenza.
La ditta -individuata senza ricorrere a procedure ad
evidenza
pubblica- ha, peraltro, reso un servizio non soddisfacente,
col che l’Amministrazione si è vista costretta
ad interrompere bruscamente il rapporto ormai avviato.
Il comune, preso atto della sostanziale inutilità del
servizio,
si è rifiutato di adempiere alla richiesta di pagamento
del quantum di prestazione resa fino all’interruzione.
Sennonché, in seguito a una nuova diffida della cooperativa,
e l’instaurazione di un processo ordinario volto al
recupero del credito, il consiglio comunale si è deciso
a comporre la lite per mezzo di una transazione,
riconoscendo
con delibera il debito fuori bilancio corrispondente
alla sola sorta capitale del debito contratto nei confronti
della creditrice per lo svolgimento dell’incarico.
Dalla dinamica riportata è disceso un procedimento per
danno erariale a carico del sindaco, dei consiglieri e del
Segretario e responsabile economico e finanziario del
comune, tenuto innanzi alla Corte dei conti, sez. Campania,
pronunciatasi con sentenza 31.01.2013, n. 141.
L’addebito formulato nei loro confronti dalla Procura
Generale è stato duplice: da un lato, quello di aver
affidato
il servizio di vigilanza senza le consuete forme
pubblicistiche a tutela della concorrenza; dall’altro,
quello di aver affidato l’incarico senza la necessaria
copertura
finanziaria e, dunque, in violazione degli artt.
191 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000.
Da qui, la richiesta di condanna dei convenuti al pagamento,
in favore del comune stesso, della somma di euro
2.473,20, oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e
spese di giustizia. Secondo la ricostruzione dell’accusa,
detta somma -pari al 10% dell’importo pagato dal comune
a seguito dell’accordo transattivo- rappresentava
l’effettivo risparmio di spesa conseguibile laddove fosse
stata attivata una valida procedura concorrenziale.
Con riferimento alle singole posizioni, al sindaco si è
rimproverato di aver agito in prima persona comportandosi
come un privato contraente, in spregio alla normativa
in tema di contratti passivi della pubblica amministrazione
che dettano una precisa cadenza procedimentale;
ai consiglieri comunali, invece, è stata eccepita l’illegittimità
della condotta consistita nell’aver deliberato il
completo riconoscimento del debito fuori bilancio, ritenendo
che la prestazione resa dalla cooperativa fosse utile
nella sua interezza per l’ente, ancorché non fosse stata
individuata in forma scritta e nemmeno adeguatamente
pubblicizzata; da ultimo, il segretario comunale e` stato
raggiunto dall’addebito di aver espresso parere positivo
alla delibera consiliare.
La soluzione
La Corte dei conti, nel pronunciarsi sulla questione, ha
ritenuto di dover condannare solamente il sindaco,
assolvendo,
di contro, tutti gli altri convenuti.
Scrutando i vari tasselli della responsabilità
amministrativo-contabile, i giudici campani hanno rinvenuto la
responsabilità
del (solo) primo cittadino, muovendo tanto
dall’eziologia delle singole violazioni attribuite ai
convenuti,
quanto dall’elemento soggettivo soppesato secondo
precise scansioni temporali della vicenda.
In effetti, l’atteggiamento dei consiglieri e del segretario
comunale, pur giudicato dalla stessa Corte ‘‘discutibile e
grossolano’’, non è stato tale da assurgere al livello
della
‘‘grave colposità’’, sol che si consideri, come acutamente
sottolineato nella pronuncia, l’intento ultimo che aveva
indotto all’approvazione del debito fuori bilancio:
quello, cioè, di comporre una lite provocata
dall’iniziativa
(tutta arbitraria) del sindaco, incurante dei basilari
principi (non solo) di buona amministrazione, come tale
ritenuta causativa del danno per il 90% del suo ammontare.
Problemi e prospettive
Diverse le questioni affrontate dalla Corte dei conti con
la sentenza in esame.
In disparte rimangono le questioni meno spinose, tra le
quali si colloca l’individuazione, nel momento del
‘‘pagamento
della ditta privata’’, del dies a quo della prescrizione
per l’azione di responsabilità amministrativo-contabile,
come anche l’indagine in ordine alla violazione
della normativa volta all’imposizione degli impegni
contabili registrati a fronte di ogni spesa degli enti
locali,
fatto salvo, ovviamente, il disposto di cui all’art. 194,
rimasto comunque inapplicato nel caso di specie.
Merita particolare attenzione, invece, il passo
motivazionale
in ordine al delicato profilo del danno erariale sub
specie di ‘‘danno alla concorrenza’’.
Se è vero, infatti, che l’acquisizione dei beni e dei
servizi
da parte degli enti locali è legata a filo doppio con le
norme di contabilità che individuano in modo analitico
la procedura finanziaria da osservare allorché l’ente
decida
di procurarsi all’esterno una utilità della quale non
dispone, giova ancor prima tenere in debita considerazione
il peso specifico che il mancato ricorso alle procedure
ad evidenza pubblica può assumere nella genesi del
danno erariale.
Il principio della concorrenza, come acutamente osservato
dalla Corte, ‘‘deve presiedere le scelte
dell’Amministrazione
aventi ad oggetto qualsiasi commessa pubblica
di lavori, forniture e servizi’’. La lesione dei parametri
di imparzialità e buona amministrazione che si ricavano
dal principio evocato sono tali da provocare un
danno patrimoniale che concorre rectius si abbina, fin
da subito, a quello scaturente dalla mera violazione dei
canoni giuscontabilistici dovuto ad impegni assunti senza
la copertura finanziaria.
Ed invero, già in passato (Sez. giur. Lombardia, sentenza
n. 447/2006) la giurisprudenza contabile ha sostenuto
che la normativa in tema di evidenza pubblica, seppur
nata al fine di favorire l’economicità dell’azione
amministrativa,
riducendo gli sprechi della Amministrazione
e, quindi, i danni all’erario pubblico, ‘‘ha finito con il
diventare modus agendi tipico della pubblica
amministrazione,
in quanto modalità procedimentale idonea a
garantire il perseguimento non solo dei fini di economicità,
efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa,
ma altresì quelli di legalità, trasparenza e
responsabilità’’.
La stessa quantificazione del danno è incentrata, nel caso
di specie, sul valore differenziale ricavato dal raffronto
della procedura ad evidenza pubblica e l’affidamento
diretto, privo dei canoni della concorsualità. Non a caso, è ricorrente nella pronuncia il riferimento al ‘‘risparmio
di spesa che si sarebbe conseguito attivando una valida
procedura concorsuale’’; risparmio che, nello specifico,
in disaccordo rispetto alla prospettazione accusatoria, è
stato quantificato nel 5% dell’esborso sostenuto
dall’Amministrazione,
posto che si trattava di un appalto
di fornitura di servizi.
La pronuncia, che ben può essere estesa a tutte le
Amministrazione
soggette all’applicazione del Codice dei
contratti pubblici, offre una prospettiva di analisi che,
per certi versi, contribuisce ad arretrare la soglia di
responsabilità
degli amministratori pubblici, specialmente
per quelli, quali il sindaco di un comune, che godono di
maggiori poteri di iniziativa.
Si tratta di capire,
tuttavia,
entro quali limiti le violazioni della normativa a tutela
degli operatori economici possa essere estesa ai consiglieri
e al segretario comunale: stando alla sentenza in
epigrafe, dette figure parrebbero sollevati da ogni addebito
nei limiti in cui abbiano manifestato, perlomeno in
principio, un atteggiamento negativo in ordine alle stesse
violazioni; e tuttavia non può escludersi un orientamento
più rigorista della giurisprudenza, teso a sanzionare
ogni forma di sostegno, anche indiretto, di scelte
volte ad escludere i principi di imparzialità e trasparenza
dell’agere pubblico
(Corte dei Conti,
Sez. giurisd. Campania,
sentenza 31.01.2013
n. 141 -
commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 5/2013). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento di riqualificazione su immobili locati: si ha
diritto alla detrazione 55%?
Domanda
Intervento di riqualificazione su immobile (parte abitativo
e parte commerciale) posseduto da persona fisica a titolo
privato; ambedue le unità immobiliari sono locate. Si chiede
se, pur trattandosi di unità immobiliari locate, si abbia
diritto alla detrazione 55% sulle spese sostenute per la
riqualificazione energetica dell'immobile.
L'Agenzia delle Entrate di Vicenza sostiene che poiché le
unità immobiliari non sono utilizzate direttamente, in
quanto locate, non spetta la detrazione 55%, anche se
possedute a titolo personale.
Risposta
La questione è oggetto di contrasti interpretativi tra
l'Agenzia delle Entrate che ha una interpretazione
rigorosamente eccessiva della norma e la dottrina dominante.
La detrazione Irpef e Ires del 55% (65% per le spese
sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2013 o al 30.06.2014 per i
condomini) sugli interventi relativi al risparmio energetico
degli edifici può essere utilizzata da tutti i contribuenti,
a prescindere dalla tipologia di reddito di cui essi siano
titolari, a differenza del bonus del 36-50% che è dedicato
solo ai soggetti Irpef.
Nella risoluzione 340/E/2008, l'Agenzia delle Entrate ha
sostenuto che, "per un'interpretazione sistematica",
l'agevolazione è "riferibile esclusivamente agli
utilizzatori degli immobili oggetto degli interventi".
Anche il dossier dell'Agenzia delle Entrate dal titolo 'Le
agevolazioni fiscali per il risparmio energetico',
aggiornato a settembre 2013, afferma che "In ogni caso, i
benefici per la riqualificazione energetica degli immobili
spettano solo a chi li utilizza. Per esempio, una società
non può fruire della detrazione per le spese relative a
immobili locati. Questo vale anche se la società svolge
attività di locazione immobiliare, in quanto i fabbricati
concessi in affitto rappresentano l'oggetto dell'attività
d'impresa e non beni strumentali".
Autorevole dottrina sostiene, invece, che in realtà, la
norma non prevede che sia agevolato solo l'utilizzatore
finale dell'immobile, in quanto ad esempio può ottenere il
beneficio anche la persona fisica che concede a terzi
l'utilizzo dell'immobile. Anche secondo la norma di
comportamento dell'Associazione italiana dottori
commercialisti ed esperti contabili n. 184 del 10.07.2012,
la "norma non prevede alcuna eccezione né di tipo
oggettivo (unità immobiliari esistenti di qualsiasi
categoria catastale) né di tipo soggettivo (persone fisiche
e soggetti non titolari di reddito d'impresa, nonché tutti i
titolari di reddito d'impresa, inclusi società ed enti)".
Questa assenza di eccezioni oggettive o soggettive è
confermata anche dalle istruzioni al modello Unico SC.
L'associazione dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili ricorda che le Entrate, per giustificare
l'esclusione del bonus alle società immobiliari di gestione
per le unità immobiliari non utilizzate direttamente, fa
riferimento "ad una non meglio definita interpretazione
sistematica", la quale però "non appare coerente con
la caratteristica di detrazione del beneficio fiscale
previsto dalla norma, che non incide quindi sulla
quantificazione del reddito imponibile" (08.01.2014
- tratto da www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inquinamento atmosferico. Industrie insalubri: quali i
poteri del Sindaco nel valutare la tollerabilità delle
emissioni?
Domanda
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri? Può
ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la salute
pubblica?
Risposta
Sulla base di quanto disposto dagli artt. 216 e 217 del
TULLSS spetta al sindaco la valutazione della tollerabilità
o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie
classificate insalubri.
L’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo,
anche dopo l’attivazione dell’impianto industriale, e si può
estrinsecare con l’adozione cautelativa di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di
attività che presentano i caratteri di possibile
pericolosità, al fine di contemperare le esigenze di
pubblico interesse con quelle dell’attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria
classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a
condizione che l’esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure
specifiche per evitare esalazioni moleste: pertanto a
seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di
interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni,
il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e,
pertanto, la cessazione dell’attività.
Inoltre, è legittimo il provvedimento sindacale volto a
sollecitare (sulla base del parametro della “normale
tollerabilità” delle emissioni) l’elaborazione di misure
tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti
provenienti da attività produttiva, anche a prescindere da
situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano congruamente
dimostrati gli inconvenienti igienici.
La discrezionalità esercitata in questa materia è ampia:
l’art. 216 riferisce la valutazione ad un concetto (“lontananza”)
molto duttile, avuto riguardo, in particolare, alla
tipologia di industria di cui concretamente si tratta (02.01.2014
- tratto da www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Conflitto di interessi. Codice
di comportamento dei dipendenti pubblici.
L'art. 6, comma 1, del d.p.r. 62/2013
(Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), dispone
che, fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da
leggi o regolamenti, il dipendente, all'atto
dell'assegnazione all'ufficio, informa per iscritto il
dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o
indiretti, di collaborazione con soggetti privati in
qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto
negli ultimi tre anni, precisando il sussistere di
situazioni elencate in dettaglio nella norma medesima.
Pur riferendosi la norma 'all'atto dell'assegnazione
all'ufficio', tale obbligo sembrerebbe doversi estendere,
per analogia, anche ai dipendenti che risultino già
assegnatari dell'ufficio al momento dell'entrata in vigore
del codice, per evitare disparità di trattamento.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una fattispecie
riguardante la figura del Responsabile del Servizio
urbanistica/edilizia privata, in relazione alle norme
contenute nel Codice di comportamento dei dipendenti
pubblici. Il dipendente in questione ha comunicato di aver
stipulato un contratto privato per il servizio di
progettazione e direzione lavori di risanamento conservativo
e di manutenzione straordinaria di un'immobile di sua
proprietà con un architetto locale, affidando poi i lavori
ad un'impresa esecutrice, anch'essa con sede legale nel
Comune.
Preliminarmente, si osserva che esula dalle competenze dello
scrivente Servizio fornire valutazioni in concreto su
specifiche questioni sottoposte dagli enti, avendo questa
struttura come finalità la prestazione di attività di
consulenza consistente nell'indicazione del quadro
normativo, giurisprudenziale e dottrinale, in base al quale
l'amministrazione locale possa assumere le determinazioni
rientranti nella propria autonomia decisionale.
Pertanto, si rimettono alla valutazione di codesto Comune le
considerazioni che seguono, come utile contributo da cui, in
base agli elementi di fatto posseduti ed in relazione alla
concreta situazione, l'Ente potrà trarre le debite
conclusioni.
Premesso un tanto, si osserva che l'art. 54, comma 1, del
d.lgs. 165/2001 prevede che il Governo definisca un codice
di comportamento dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei
servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il
rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse
pubblico.
Il comma 5 del citato articolo dispone che ciascuna pubblica
amministrazione definisce, con procedura aperta alla
partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio
organismo indipendente di valutazione, un proprio codice di
comportamento che integra e specifica il codice di
comportamento di cui al precedente comma 1.
Assodato, pertanto, che il codice di comportamento adottato
dalle singole amministrazioni non può comunque discostarsi
da quanto enucleato dal codice di comportamento approvato
dal Governo, si osserva quanto segue.
L'art. 6, comma 1, del d.p.r. 62/2013 [1]
(Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), dispone
che, fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da
leggi o regolamenti, il dipendente, all'atto
dell'assegnazione all'ufficio, informa per iscritto il
dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o
indiretti, di collaborazione con soggetti privati in
qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto
negli ultimi tre anni, precisando il sussistere di
situazioni elencate in dettaglio nella norma medesima. La
formulazione letterale del comma 1 in esame si riferisce 'all'atto
dell'assegnazione all'ufficio', cioè ad una determinata
struttura dell'Amministrazione. Al riguardo alcuni
commentatori [2]
hanno evidenziato che, sebbene nulla sia previsto per coloro
che già sono assegnatari dell'ufficio al momento
dell'entrata in vigore del codice, anche a questi ultimi,
comunque, dovrebbe essere esteso tale obbligo, in via
analogica, per evitare disparità di trattamento. Il
legislatore ha definito inoltre un preciso arco temporale
cui riferirsi, indicando, a tal fine, gli ultimi tre anni,
nell'intento di conferire 'attualità' alla
comunicazione medesima.
Per quanto concerne poi il soggetto destinatario
dell'informazione di cui sopra, essendo l'Ente privo di
dirigenti, il medesimo sarà individuato o nel titolare di
posizione organizzativa dei rispettivi settori o, per i
titolari stessi di posizione organizzativa, nella figura del
segretario comunale. Si evidenzia infatti che, qualora sia
il titolare di posizione organizzativa a rendere
l'informazione, detta comunicazione non può essere
effettuata al sostituto che gli subentra, poiché tale
soggetto non ha competenza in ordine alla gestione del
rapporto di lavoro del titolare stesso.
Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento
all'obbligo di astensione contemplato all'art. 7 del d.p.r.
62/2013.
La predetta disposizione prevede che il dipendente si
astenga dal partecipare all'adozione di decisioni o ad
attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di
suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o
di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti
di frequentazione abituale, ovvero di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa
pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito
significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui
sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti,
associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o
dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in
cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione
decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza.
L'Ente chiede inoltre alcune delucidazioni inerenti al
contenuto dell'articolo 14, commi 2 e 3, del Codice di
comportamento in esame.
Le citate disposizioni prevedono che il dipendente non
concluda, per conto dell'amministrazione di appartenenza,
contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o
assicurazione con imprese con le quali abbia stipulato
contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel
biennio precedente, ad eccezione di quelli conclusi ai sensi
dell'articolo 1342 del codice civile [3].
Nel caso in cui l'amministrazione concluda contratti di
appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione,
con imprese con le quali il dipendente abbia concluso
contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel
biennio precedente, questi si astiene dal partecipare
all'adozione delle decisioni ed alle attività relative
all'esecuzione del contratto, redigendo verbale scritto di
tale astensione da conservare agli atti dell'ufficio.
Inoltre, il dipendente che conclude accordi o negozi ovvero
stipula contratti a titolo privato, ad eccezione di quelli
conclusi ai sensi dell'articolo 1342 del codice civile, con
persone fisiche o giuridiche private con le quali abbia
concluso, nel biennio precedente, contratti di appalto,
fornitura, servizio, finanziamento ed assicurazione, per
conto dell'amministrazione, ne informa per iscritto il
dirigente dell'ufficio.
L'Amministrazione istante chiede in particolare se, alla
luce delle richiamate norme, l'attività di istruttoria, di
procedimento (ivi compresa la procedura di gara d'appalto,
di sottoscrizione del contratto, di esecuzione del contratto
medesimo) debbano intendersi trasferite in capo ad altro
dipendente che viene autorizzato/incaricato all'assunzione
degli atti, con decreto sindacale, per le conclamate ragioni
di conflitto di interesse.
Si osserva a tal proposito che, è compito dell'Ente
prevedere, nel regolamento sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi [4]
o nel proprio codice di comportamento [5],
le misure da adottare al verificarsi delle predette
situazioni di conflitto di interesse, per consentire
comunque il prosieguo dell'attività amministrativa, in
particolare procedendo all'individuazione di altro soggetto,
che sostituisca il dipendente impossibilitato a procedere
per le su esposte ragioni.
Tale individuazione dovrà avvenire nel rispetto delle
vigenti disposizioni di legge, contrattuali e regolamentari
e il dipendente nominato quale sostituto del titolare di
posizione organizzativa sarà pertanto legittimato ad
assumere la responsabilità del procedimento e ad adottare e
firmare tutti gli atti conseguenti.
---------------
[1] Regolamento recante codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, pubblicato in G.U. Serie
Generale n. 129 del 04.06.2013.
[2] Cfr. Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici
- gruppo 24 ore - n. 7/8, luglio/agosto 2013, consultabile
in: www.contabilita-pubblica.it. Vedasi anche Bertagna,
Bozza di codice di comportamento di ente ed avvio della
procedura aperta di partecipazione, consultabile in:
www.publika.it.
[3] Si tratta di contratti conclusi mediante la
sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per
disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti
contrattuali.
[4] Cfr. parere ANCI del 19.11.2013.
[5] Cfr., ad esempio, Codice di comportamento dei dipendenti
della Regione Toscana (02.01.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Incarico direttore consortile e
limiti di età.
Per il conferimento di incarichi
dirigenziali ai sensi dell'art. 19, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001, resta fermo il limite massimo di età di anni 67,
considerando anche il biennio per il trattenimento in
servizio previsto dal d.lgs. 503/1992.
L'Ente, facendo seguito a precedenti quesiti, ha chiesto un
parere in ordine al limite massimo di età per il
conferimento dell'incarico di direttore consortile.
Si osserva, a tal proposito, che la situazione non è mutata
rispetto a quanto prospettato nel precedente parere reso da
questo Servizio [1].
L'art. 24, comma 4, del d.l. 201/2011, convertito, con
modificazioni, in l. 214/2011, non ha modificato il regime
dei limiti di età per la permanenza in servizio per i
dipendenti pubblici. Un tanto è stato confermato dal
Dipartimento della Funzione pubblica, con circolare n.
2/2012; pertanto, per i dipendenti che hanno maturato il
diritto a pensione, l'età ordinamentale (compimento del 65°
anno di età [2])
costituisce il limite non superabile (se non per il
trattenimento [3])
in presenza del quale l'amministrazione deve far cessare il
rapporto di lavoro.
Da ultimo il d.l. 101/2013 [4],
convertito in l. 125/2013, ha ulteriormente precisato che
l'art. 24, comma 4, citato 'si interpreta nel senso che
per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni
il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di
appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio e
vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge
stesso, non è modificato dall'elevazione dei requisiti
anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e
costituisce il limite non superabile, se non per il
trattenimento in servizio o per consentire all'interessato
di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove
essa non sia immediata, al raggiungimento del quale
l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro'.
Pertanto, qualora sia affidato un incarico ad ex dipendente
pubblico che abbia già compiuto il 65° anno di età, la
durata dell'incarico medesimo non potrà comunque superare il
momento del compimento del 67° anno di età, considerando
anche il biennio ulteriore previsto per il trattenimento in
servizio.
Per completezza si osserva che, a decorrere dal 01.01.2013,
solo nei confronti dei dipendenti soggetti al nuovo regime
pensionistico, come precisato dal Dipartimento della
funzione pubblica, può essere accordato il trattenimento in
servizio, ad esempio da 66 a 68 anni (salvo l'aggiornamento
del limite risultante dall'adeguamento alla speranza di
vita).
---------------
[1] Cfr. nota n. prot. 28292 del 05.09.2012.
[2] Il compimento del 70° anno di età è previsto
esclusivamente per particolari categorie (magistrati,
avvocati e procuratori dello stato, professori ordinari e
medici).
[3] Rimane salva la possibilità, prevista dal d.lgs.
503/1992, di trattenere in servizio il dipendente, in base a
valutazioni discrezionali dell'amministrazione, fino al
limite massimo del 67° anno di età.
[4] Cfr. art. 2, comma 5 (24.12.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità degli amministratori comunali ai sensi
dell'art. 63, D.Lgs. n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 2,
D.Lgs. n. 267/2000, non può ricoprire la carica di
amministratore comunale colui che come titolare,
amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento, ha parte, direttamente o indirettamente, in
servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti
nell'interesse del Comune.
Nel termine 'servizi' è ricompreso qualsiasi rapporto
intercorrente con l'ente locale che, a causa della sua
durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in
grado di determinare conflitto di interessi.
Il Comune riferisce di aver ricevuto, in qualità di Ente
gestore del Servizio sociale dei Comuni di un determinato
Ambito distrettuale, un contributo dalla Regione Friuli
Venezia Giulia per il finanziamento dello 'Sportello
promozione e supporto all'istituto dell'Amministrazione di
sostegno' (di seguito, Sportello) di cui all'art. 3,
L.R. n. 19/2010. [1]
L'Ente gestore chiede, al riguardo, se per lo svolgimento di
detta attività di sportello possa stipulare una convenzione
con una Associazione [2]
specificando che il Presidente di questa è consigliere
comunale dell'Ente e assessore provinciale e che un
consigliere della medesima Associazione è, a sua volta,
consigliere comunale dell'Ente. L'Ente rende noto, altresì,
che nella convenzione verrebbe previsto, secondo lo schema
tipo, il riconoscimento all'Associazione di un corrispettivo
che specifica essere di importo coincidente con il
finanziamento regionale.
Con la L.R. n. 19/2010 citata dianzi, il legislatore
regionale ha dettato norme per la promozione, la
valorizzazione e l'organizzazione dell'amministratore di
sostegno, quale strumento di aiuto e tutela dei soggetti
legittimati ad avvalersene (art. 1).
In particolare, l'articolato della legge regionale prevede
che la Regione promuove e sostiene l'istituzione e la
gestione, tramite i Servizi sociali dei Comuni, di uno o più
Sportelli e che l'Ente gestore del Servizio sociale dei
Comuni, mediante apposite convenzioni o protocolli d'intesa,
può affidare la gestione dello Sportello ai soggetti del
privato sociale -organismi dotati di personalità giuridica
ovvero associazioni- interessati alla protezione delle
persone prive in tutto o in parte di autonomia ed iscritti
nell'apposito Registro regionale (artt. 3 e 5).
Nel caso di specie, l'Ente istante prospetta l'ipotesi
dell'affidamento dell'attività dello Sportello ad
un'associazione, mediante convenzione, facoltà espressamente
riconosciuta dal legislatore regionale all'Ente gestore del
Servizio sociale dei Comuni.
La fattispecie in esame impone, tuttavia, di valutare il
fatto che due consiglieri comunali dell'Ente sono,
rispettivamente, l'uno Presidente e l'altro consigliere
dell'Associazione, sotto il profilo della configurabilità di
cause di incompatibilità.
Al riguardo, vengono in considerazione le previsioni di cui
all'art. 63, D.Lgs. n. 267/2000, in particolare, comma 1, n.
1) e 2), le quali, si rileva sin da subito, devono essere
lette in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da
qualsiasi applicazione analogica delle stesse, atteso che le
cause ostative all'espletamento del mandato elettivo
incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo,
alla luce della riserva di legge in materia posta dall'art.
51 della Costituzione.
L'art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, D.Lgs. n. 267/2000
[3],
prevede l'incompatibilità tra la carica di consigliere
comunale e la carica di amministratore di ente che riceva da
parte del comune, in via continuativa, una sovvenzione in
tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa
superi nell'anno il 10% delle entrate dell'ente
(sovvenzionato).
Muovendo dall'espressione testuale della norma richiamata,
che fa espresso riferimento a enti che ricevono sovvenzioni
dal comune, si formulano alcune considerazioni focalizzando
i contenuti della L.R. n. 19/2010 già, in parte, ricordati.
La L.R. n. 19/2010, prevede che: la Regione promuove e
sostiene l'istituzione e la gestione degli Sportelli tramite
i Servizi sociali dei Comuni (art. 3); l'Ente gestore del
Servizio sociale dei Comuni può affidare, mediante
convenzioni, la gestione dello sportello ai soggetti del
privato sociale, organismi dotati di personalità giuridica e
associazioni (art. 3); la Regione, in sede di prima
attuazione della legge, può prevedere interventi di sostegno
alle associazioni già operanti sul territorio per la
promozione della figura dell'amministratore di sostegno
(art. 5).
La lettura coordinata delle previsioni richiamate evidenzia
che l'Ente soggetto attivo delle sovvenzioni, per l'istituto
dell'amministratore di sostegno, è la Regione, e che
destinatari diretti delle sovvenzioni della Regione sono i
comuni/Enti gestori e, specificamente in sede di prima
attuazione della L.R. n. 19/2010, anche le Associazioni.
Nel caso in esame, l'Ente istante (Ente gestore del Servizio
sociale dei Comuni) prospetta di optare per la gestione
dello Sportello mediante affidamento dell'attività ad
un'Associazione (iscritta nel Registro regionale dei
soggetti del privato sociale) e di far coincidere l'importo
del corrispettivo con il beneficio ricevuto dalla Regione.
Una tale fattispecie non sembra, invero, ricalcare la
situazione foriera di incompatibilità descritta dall'art.
63, comma 1, n. 1, per la natura della prestazione economica
erogata dal Comune/Ente gestore all'Associazione, a titolo
di corrispettivo e non di sovvenzione. Altro è, infatti, la
natura del corrispettivo, quale remunerazione di una
prestazione [4],
altro è la natura della sovvenzione che, secondo la dottrina
e la giurisprudenza, deve consistere in un'erogazione
continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente
sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio
bilancio, le finalità in vista delle quali è stato
costituito [5].
Considerato che, nel caso di specie, la convenzione che il
Comune istante ipotizza di stipulare con l'Associazione
darebbe luogo alla nascita di rapporti contrattuali tra i
due enti, occorre accertare l'eventuale insorgenza di una
causa di incompatibilità ai sensi dell'art. 63, comma 1, n.
2), D.Lgs. n. 267/2000, secondo cui è incompatibile con la
carica di amministratore comunale 'colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento, ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni appalti nell'interesse del Comune'.
La norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona
fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore
comunale e la qualità di titolare, amministratore,
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento
di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici
economicamente rilevanti con l'ente locale, caratterizzati
da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo
interesse.
Per la sussistenza della causa di incompatibilità, devono
concorrere, quindi, due condizioni: una soggettiva, relativa
al ruolo ricoperto dall'amministratore comunale, e una
oggettiva, relativa al rapporto esistente tra l'ente locale
interessato e il soggetto che 'ha parte in servizi,
esazioni, diritti, somministrazioni o appalti,
nell'interesse di quest'ultimo'.
Nel termine 'servizi', è ricompreso qualsiasi
rapporto intercorrente con l'ente locale che, a causa della
sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate,
sia in grado di determinare conflitto di interessi. Il
contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza
elaborazione della materia, diretta a produrre una utilità,
sia essa ad esecuzione prolungata, continuativa o periodica
[6], tra
cui, pertanto, non rientrerebbero le prestazioni meramente
occasionali.
Avuto riguardo a questa accezione lata dei 'servizi',
sembra che la stessa possa interessare anche quelli che
verrebbero resi dall'Associazione nell'ambito della
Convenzione che il Comune avesse a stipulare con questa per
la gestione dello Sportello, con la conseguenza che verrebbe
a generarsi una situazione di incompatibilità tra la carica
di consigliere comunale e quelle di Presidente e consigliere
dell'Associazione, non consentita dall'art. 63, comma 1, n.
2, D.Lgs. n. 267/2000, qualora queste due ultime cariche
siano connotate da poteri di amministrazione
dell'Associazione, in base allo Statuto di questa.
---------------
[1] L.R. 16.11.2010, n. 19, recante: 'Interventi per la
promozione e la diffusione dell'amministratore di sostegno a
tutela dei soggetti deboli'.
[2] Sulla base delle disposizioni contenute nel Regolamento
attuativo della L.R. n. 19/2010, D.PReg. n. 190/2011,
recante: 'Regolamento di attuazione della legge regionale
16.11.2010, n. 19 (Interventi per la promozione e la
diffusione dell'amministratore di sostegno a tutela dei
soggetti deboli)'.
[3] D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, recante: 'Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali'.
[4] Lo schema tipo di Convenzione previsto dal DPReg. n.
190/2011, prevede, all'art. 6, tra gli impegni dell'Ente
gestore, quello di riconoscere, per lo svolgimento
dell'attività, l'importo che verrà quantificato.
[5] Cfr. nota di questo Servizio prot. n. 11683/2013.
[6] Cfr. Enrico Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale, 2000, pag. 146 e segg.
(24.12.2013 -
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Conferimento incarichi
dirigenziali. Requisiti.
Per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, ai sensi dell'art. 19,
comma 6, del d.lgs. 165/2001, la formazione universitaria
richiesta non può essere inferiore al possesso della laurea
specialistica o magistrale ovvero del diploma di laurea
conseguito secondo l'ordinamento didattico previgente al
regolamento di cui al decreto del Ministro dell'università e
della ricerca scientifica e tecnologica 03.11.1999, n. 509.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
conferire un incarico dirigenziale a dipendente appartenente
alla categoria D, in possesso di diploma di laurea di primo
livello di cui al D.M. 4 agosto 2000 e con un'anzianità di
servizio superiore a cinque anni, alla luce di quanto
disposto dall'art. 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 come
modificato, da ultimo, dall'art. 2, comma 8-quater, del d.l.
101/2013, convertito in l. 125/2013.
La norma richiamata, nel testo attuale, prevede che gli
incarichi dirigenziali a tempo determinato sono conferiti,
fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e
comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei
ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in
organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende
pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un
quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano
conseguito una particolare specializzazione professionale,
culturale e scientifica desumibile dalla formazione
universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni
scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per
almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali,
ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in
posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza,
o che provengano dai settori della ricerca, della docenza
universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati
e procuratori dello Stato.
L'ultimo periodo del comma 6 in esame precisa, nello
specifico, che la formazione universitaria richiesta dal
comma medesimo non può essere inferiore al possesso della
laurea specialistica o magistrale ovvero del diploma di
laurea conseguito secondo l'ordinamento didattico previgente
al regolamento di cui al decreto del Ministro
dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica
03.11.1999, n. 509.
Pertanto, la disposizione citata stabilisce la necessità di
possedere uno dei titoli di studio sopra esplicitati, per il
conferimento degli incarichi dirigenziali a termine. Da
siffatta formulazione deriva l'esclusione dei soggetti che
risultino in possesso della laurea triennale (L), conseguita
con il nuovo ordinamento [1].
Si osserva che tale previsione trova immediata applicazione
nei confronti degli enti locali, stante l'espressa clausola
contemplata al comma 6-ter, dell'art. 19, del d.lgs.
165/2001, ove si stabilisce che il comma 6 (ed anche il
comma 6-bis) si applicano alle amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del medesimo decreto, tra le quali
sono compresi, per l'appunto, gli enti locali.
Per completezza espositiva, con riferimento ai requisiti per
il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali a
tempo determinato, indicati all'art. 19, comma 6, in esame
[2], si
osserva che a suo tempo la Corte dei conti
[3] ha affermato
che mediante l'inserimento [4]
della congiunzione 'e' tra i requisiti relativi alla
particolare specializzazione professionale, culturale e
scientifica desumibile dalla formazione universitaria e
postuniversitaria e da pubblicazioni scientifiche, da una
parte, e le concrete esperienze lavorative maturate per
almeno un quinquennio presso amministrazioni pubbliche, in
posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza,
dall'altra, il legislatore ha inteso richiedere la
necessaria compresenza di entrambi i presupposti, titolo di
laurea [5]
ed esperienza lavorativa, per l'affidamento degli incarichi
in argomento.
---------------
[1] Cfr. Nota di lettura del d.l. 101/2013 a cura
dell'ANCI, del 14.11.2013, pag. 7 e Personale News, n. 20
del 05.11.2013, consultabile in: www.publika.it.
[2] 'persone che abbiano conseguito una particolare
specializzazione professionale, culturale e scientifica
desumibile dalla formazione universitaria e
postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da
concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un
quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi
comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni
funzionali previste per l'accesso alla dirigenza'.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione
n. 275/2010/PAR.
[4] Tale modifica è conseguita alla novella della norma in
questione operata dal d.lgs. 150/2009, mentre il testo
originario sembrava indicare i requisiti d'esperienza
lavorativa come alternativi rispetto a quelli di
specializzazione professionale, culturale, o scientifica.
[5] Ora specificato nell'attuale comma 6, dell'art. 19, del
d.lgs. 165/2001 (23.12.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei
consiglieri.
Di fronte alla richiesta di convocazione
del consiglio comunale, sottoscritta da almeno un quinto dei
consiglieri, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del D.Lgs.
267/2000, il presidente del consiglio può soltanto
accertare, sotto il profilo formale, che la stessa provenga
dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non
può sindacarne l'oggetto, atteso che spetta all'organo
consiliare la verifica della propria competenza e, quindi,
l'ammissibilità delle questioni da trattare.
Le questioni per le quali è richiesto l'inserimento
all'ordine del giorno non investono unicamente le competenze
del consiglio comunale indicate all'art. 42, comma 2, del
TUEL, ma anche quelle che costituiscono espressione
dell'attività di indirizzo e di controllo politico
amministrativo ai sensi dell'art. 42, comma 1, e che non si
concludono necessariamente con una deliberazione o con un
voto del consiglio.
Qualora i consiglieri intendano sottoporre all'approvazione
del consiglio comunale una proposta di deliberazione, la
stessa dovrà possedere i requisiti propri delle ordinarie
deliberazioni del consiglio, di regola compilate dagli
uffici.
Il Comune chiede un parere in ordine alla richiesta di
convocazione del consiglio, avanzata dal capogruppo della
minoranza consiliare, ai sensi dell'articolo 39, comma 2,
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. In
particolare chiede se:
a. la richiesta di convocazione del consiglio comunale debba
essere necessariamente sottoscritta da tutti i consiglieri
che compongono il quinto richiesto dalla norma citata;
b. se sia sufficiente un documento sottoscritto che riporti
la forma della proposta di deliberazione, indipendentemente
dal contenuto, e se tale documento debba contenere tutti gli
elementi essenziali e formali propri della proposta di
deliberazione, atteso quanto previsto dall'articolo 23,
comma 3, del Regolamento per il funzionamento del consiglio
comunale [1].
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
osservazioni.
In merito al disposto dell'articolo 39, comma 2, del decreto
legislativo 267/2000, il Ministero dell'Interno aveva
affermato in passato che, in linea di principio, le
richieste di convocazione straordinaria del consiglio
dovessero ritenersi ammissibili soltanto se finalizzate
all'assunzione di determinazioni di competenza dell'organo
consiliare e fossero, quindi, idonee a tradursi in concrete
proposte di delibere da adottare. [2]
Successivamente il medesimo Ministero si è espresso in senso
più ampio, affermando che «la dizione legislativa
questioni' e non deliberazioni o atti formali conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti
nella previsione del citato comma 2 dell'articolo 42 del
TUEL non debba necessariamente essere subordinata alla
successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio
comunale». Infatti, secondo il Ministero, la trattazione
di questioni che, pur non comprese nell'elencazione di cui
all'articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 267/2000,
attengano all'ambito del controllo rientra nella competenza
del consiglio comunale, in qualità di organo di indirizzo e
di controllo politico-amministrativo, ai sensi del comma 1
del medesimo articolo 42. [3]
Per quanto riguarda l'ammissibilità delle questioni,
sussiste, comunque un costante orientamento ministeriale,
secondo cui le istanze possono essere dichiarate
improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale
o del sindaco soltanto «qualora le richieste stesse
vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente
estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su
un oggetto illecito o impossibile», non potendo tali
soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal
prescritto quorum dei consiglieri.
Pertanto, nell'ipotesi in cui sia richiesto l'inserimento
all'ordine del giorno di argomenti non strettamente
rientranti nelle competenze del consiglio, investendo la
competenza di altri organi di governo o degli uffici, gli
stessi dovrebbero comunque essere ammessi dal presidente,
qualora si concretizzino nella generica determinazione di
atti di indirizzo o nell'espletamento di un'attività di
controllo politico, ai sensi dell'articolo 42, comma 1, del
decreto legislativo 267/2000 (ad esempio, interrogazioni,
interpellanze, mozioni, ordini del giorno, ecc.)
Il Ministero dell'Interno ha inteso recepire quanto
affermato da giurisprudenza altrettanto costante,
[4]
secondo la quale, di fronte alla richiesta di convocazione,
il presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto
il profilo formale, che la stessa provenga dal prescritto
numero di soggetti legittimati, mentre non potrà sindacarne
l'oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la
verifica della propria competenza e, quindi, l'ammissibilità
delle questioni da trattare.
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio,
destinatario della richiesta di convocazione, una
valutazione di merito circa l'ammissibilità delle questioni,
salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere
posto all'ordine del giorno, neppure su autonoma iniziativa
del presidente stesso [5].
Nello specifico di quanto richiesto, si fa presente quanto
segue.
a. La validità della richiesta da parte di un quinto dei
consiglieri ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del decreto
legislativo 267/2000 è subordinata alla sottoscrizione
dell'atto da parte dei consiglieri medesimi, non avendo
alcun valore legale la dichiarazione del capogruppo di
minoranza che la richiesta viene formulata «...anche a
nome degli altri tre membri del Gruppo...».
b. Si richiama quanto già affermato nella parte generale del
parere in ordine al consolidato orientamento secondo il
quale al presidente del consiglio o al sindaco spetta
soltanto la verifica formale che la stessa provenga dal
numero di consiglieri previsto dalla legge, mentre non può
sindacare l'oggetto delle questioni da trattare. Ne deriva
che anche qualora l'argomento non sia configurabile quale
proposta di deliberazione, al di là del nomen juris
utilizzato dai proponenti, si ritiene che possa essere fatto
rientrare negli strumenti previsti dall'articolo 22 del
Regolamento, concernente il diritto di presentare
interrogazioni, interpellanze e mozioni, e quindi
finalizzato a consentire un dibattito in seno al consiglio
in ordine a un accadimento che non può ritenersi estraneo
alla sfera degli interessi della comunità che il consiglio
comunale rappresenta, essendo rilevante piuttosto che
l'elenco degli affari da trattare sia compilato in modo da
non lasciare dubbi e incertezze sugli argomenti che devono
formare oggetto di discussione [6].
Qualora invece i consiglieri comunali intendano sottoporre
all'approvazione del consiglio comunale una proposta di
deliberazione, la stessa dovrà possedere i requisiti propri
delle ordinarie deliberazioni del consiglio, di regola
compilate dagli uffici comunali
Per quanto riguarda le proposte di deliberazione in senso
formale e sostanziale, si richiama il comma 4 dell'articolo
39 del TUEL, secondo il quale il sindaco, o il presidente
del consiglio comunale, assicura una adeguata e preventiva
informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri
delle questioni sottoposte al consiglio. In tal senso,
l'elenco degli oggetti da trattare contenuto nell'ordine del
giorno e il deposito della relativa documentazione a
disposizione dei consiglieri hanno lo scopo di rendere
edotti i medesimi degli argomenti che saranno discussi o
sottoposti alla loro attenzione.
Conseguentemente, al fine di consentire deliberazioni con la
necessaria conoscenza dei provvedimenti da adottare,
[7] è
necessario che queste siano corredate dalla documentazione
alle stesse relativa, nei giorni che precedono l'adunanza.
Si sottolinea che il regolamento sul funzionamento del
consiglio svolge, in modo particolare in questa fase, un
ruolo fondamentale in quanto nello stesso sono indicate le
modalità per definire compiutamente le condizioni essenziali
per il pieno e consapevole esercizio del mandato elettivo da
parte dei consiglieri comunali.
Per quanto riguarda, nello specifico, i pareri sulle
proposte di deliberazione concretamente formalizzate in un
documento scritto e sottoscritto dal proponente, che non
costituiscono meri atti di indirizzo, previsti dall'articolo
49 del decreto legislativo 267/2000, come sostituito
dall'articolo 3, comma 1, lettera b), del decreto legge
10.10.2012, n. 174 [8],
è stato ritenuto che, di norma, siano inseriti prima che le
proposte siano iscritte all'ordine del giorno
[9], o
comunque prima di essere sottoposte all'esame del consiglio.
Un vincolo imposto dal legislatore è, infatti, che tali
pareri di regolarità tecnica e contabile siano contenuti nel
testo del provvedimento, in modo che risulti subito evidente
e immediato il giudizio formulato dai dirigenti o dai
responsabili [10].
A conferma di un tanto, il comma 4 dell'articolo 49 prevede
che, ove la giunta o il consiglio non intendano conformarsi
ai pareri espressi dai responsabili, devono darne adeguata
motivazione nel testo della deliberazione.
In conclusione, nel richiamare la puntuale disciplina
prevista dall'articolo 53 [11]
del Regolamento citato per le questioni pregiudiziali e
sospensive, si rappresenta quanto affermato dalla
giurisprudenza [12]
in relazione al fatto che, qualunque sia il sistema che
conferisce il potere di convocazione di un'assemblea e di
formazione del relativo ordine del giorno, appartiene ai
poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale
che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non
debba essere discusso (questione pregiudiziale), ovvero se
ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva).
---------------
[1] Il comma 3 dell'articolo 23 del Regolamento recita:
«3. La richiesta di convocazione deve contenere, per ciascun
argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, in
allegato il relativo schema di deliberazione. Il suddetto
schema sarà poi sottoposto all'esame dei preventivi pareri
previsti, per quanto attiene ai responsabili dei servizi,
dall'art. 53, commi 1 e 2, della legge 142/1990, nonché, per
quanto concerne il segretario comunale, dall'attestazione
resa ai sensi dell'art. 17, comma 68, lettera c), della
legge 15.05.1997, n. 127. Qualora, poi, nella proposta di
deliberazione emergano elementi inerenti alla necessità di
provvedere, con costi a carico del comune, ad oneri
specifici di spesa, altresì necessario il parere di
regolarità contabile, reso, ai sensi dell'art. 153, comma 1,
della legge 142/1990, da parte del responsabile del servizio
finanziario.».
[2] Nota prot. n. 15900/1517/1-bis/5.1.8 del 26.11.1998.
[3] Pareri del Ministero dell'Interno 09.01.2003,
28.01.2003, 23.03.2005, reperibili sul relativo sito
internet.
[4] Sentenze TAR Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268,
citata costantemente dal Ministero anche nei pareri più
recenti; TAR Puglia 04.02.2004, n. 1022; TAR Puglia, Lecce,
sez. I, 25.07.2001, n. 4278.
[5] A titolo esemplificativo, si cita quanto espresso dal
Ministero dell'Interno con il parere del 07.11.2005
riguardante materie non espressamente di competenza del
consiglio comunale e, in particolare, l'argomento
'installazione di un ripetitore per la telefonia mobile',
nonché la citata sentenza TAR Puglia n. 1022/2004, che ha
ritenuto «legittima la questione pregiudiziale impeditiva
del passaggio in discussione di una mozione che abbia la
finalità di modificare una procedura tipizzata descritta da
legge, che incida su diritti ed interessi indisponibili
dalla stessa assemblea, sia in quanto posti a tutela dei
cittadini, sia in quanto posti a tutela delle prerogative
dei componenti dell'assemblea stessi».
[6] Cfr. Parere Ministero dell'Interno 07.11.2003.
[7] Cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 18.02.2009, n. 351.
[8] L'articolo 49, comma 1, testualmente recita: «1. Su ogni
proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al
Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica,
da parte del responsabile del servizio interessato e,
qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell'ente,
del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione».
[9] E. Maggiora, Il funzionamento del consiglio comunale e
provinciale, Milano, 2000, pagg. 111 e segg. Cfr. Parere del
Ministero dell'Interno 29.12.2013.
[10] L'elemento di novità del testo dell'articolo 49 è
costituito dal rafforzamento delle competenze del dirigente
o responsabile finanziario, che non si deve limitare a
verificare la copertura degli oneri nel bilancio dell'ente e
la correttezza della sua imputazione, dovendo il suo
giudizio estendersi alla attestazione che l'atto non
determini il maturare di condizioni di squilibrio nella
gestione delle risorse.
[11] L'articolo 53 del Regolamento recita: «1. La questione
pregiudiziale si ha quando viene richiesto che un argomento
non sia discusso, precisandone i motivi. La questione
pregiudiziale può essere posta anche prima della votazione
della deliberazione, proponendone il ritiro.
2. La questione sospensiva si ha quando viene richiesto il
rinvio della trattazione dell'argomento ad altra adunanza,
precisandone i motivi. Può essere posta anche prima della
votazione della deliberazione, richiedendo che la stessa sia
rinviata ad altra riunione.
3. Le questioni pregiudiziali e sospensive poste prima
dell'inizio della discussione di merito vengono esaminate e
poste in votazione prima di procedere all'esame
dell'argomento cui si riferiscono. Sulle relative proposte
può parlare, oltre al proponente -o ad uno di essi, nel caso
che la proposta sia stata presentata da più consiglieri- un
consigliere per ciascun gruppo, per non oltre tre minuti. Il
consiglio decide a maggioranza dei presenti, con votazione
palese.».
[12] TAR Puglia 04.02.2004, n. 1022 (21.12.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA:
In caso d’impugnazione di
strumenti urbanistici attuativi, quali piani di
lottizzazione o piani di recupero, da parte di soggetti
terzi perché non direttamente contemplati in essi, quali i
confinanti, il termine per l'impugnazione decorre
dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di
approvazione nell'albo del Comune.
Sennonché, osserva il Collegio come –essendo gli odierni ricorrenti estranei al Piano esecutivo
di Via Zini– gli stessi correttamente non abbiano ricevuto
comunicazione in forma individuale delle deliberazioni di
adozione e approvazione del predetto Piano (cfr., in tal
senso, la giurisprudenza consolidata per cui, in caso
d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi, quali
piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte di
soggetti terzi perché non direttamente contemplati in essi,
quali i confinanti, il termine per l'impugnazione decorre
dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di
approvazione nell'albo del Comune.
Così, da ultimo, Cons.
Stato, sez. IV, sent. 18.11.2013 n. 5454; id., 29.12.2010 n.
9537, id. sent. 25.07.2005 n. 3930, id. sent. 10.04.2003 n.
1910, nonché, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 9.11.2012, n.
2729)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2014 n. 64 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
valutazioni, di competenza della Soprintendenza,
costituiscono espressione di un potere non di mero
controllo, ma di amministrazione attiva –da intendere come
co-gestione del vincolo, in funzione di “estrema difesa” del
medesimo– con riferimento a qualsiasi vizio di legittimità,
riscontrabile nella concreta attività di gestione dell’ente
territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni
figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione,
difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
In tale contesto, può ritenersi che la medesima
Soprintendenza conservi margini di discrezionalità tecnica
nell’esercizio del proprio potere di riesame, ma senza per
questo potersi sostituire all’apprezzamento, rimesso
all’Autorità comunale sub-delegata.
---------------
E' illegittimo il provvedimento della Soprintendenza che ha
annullato l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal
comune, riferita ad un allargamento di 70 centimetri della
porta di ingresso di un locale adibito a deposito, per
consentirne l’utilizzo come autorimessa, laddove sono state
addotte le ragioni esposte nei seguenti termini:
“l’allargamento di una porta di ingresso…provoca la
trasformazione negativa delle valide cornici in pietra
esistenti e la modifica delle proporzioni vuoti/piani della
facciata”.
Invero, la motivazione dell’atto di annullamento impugnato
non fornisce adeguato riscontro della propria logica
ispiratrice, tenuto conto della situazione reale: una
situazione che –ove ritenuta peggiorativa e degradata
dell’assetto preesistente– non avrebbe impedito alla
Soprintendenza di operare a tutela del residuo pregio dei
luoghi, ma non senza che detto apprezzamento risultasse
percepibile (mentre va sottolineato come, al contrario, la
parte appellante affermi –senza che emergano puntuali
controdeduzioni al riguardo– l’avvenuto allargamento di
molti portali di accesso con l’assenso della stessa
Soprintendenza).
Con sentenza del Tribunale Amministrativo
Regionale per il Molise, sez. I, n. 640/12 del 22.11.2012
(che non risulta notificata), è stato respinto il ricorso n.
345 del 2006, proposto dai signori F.M. e
T.M. avverso il provvedimento n. 13855 del
15.12.2005, notificato il 14.01.2006, con il quale la
Soprintendenza ha annullato l’autorizzazione paesaggistica
n. 47 in data 11.11.2005, riferita ad un allargamento di 70
centimetri della porta di ingresso di un locale adibito a
deposito, per consentirne l’utilizzo come autorimessa.
Le ragioni espresse dalla citata Soprintendenza, risultavano
esposte nei seguenti termini: “l’allargamento di una porta
di ingresso…provoca la trasformazione negativa delle valide
cornici in pietra esistenti e la modifica delle proporzioni
vuoti/piani della facciata”.
Nella citata sentenza si riteneva pertanto che il
provvedimento impugnato fosse fornito di “adeguato ed
oggettivo supporto giustificativo”, non censurabile nel
merito in considerazione degli ampi margini di
discrezionalità tecnica attribuiti all’Amministrazione,
fatti salvi “eventuali manifesti travisamenti dei fatti o
…palesi illogicità o incongruenze”, non rilevati nel caso di
specie.
In sede di appello (n. 1787/13, notificato il 06.03.2013) si
sottolineava viceversa come la nuova apertura fosse
destinata ad essere “rifinita con il riutilizzo degli
elementi attuali del portale esistente”, con “recupero della
cornice in pietra e sostituzione dell’attuale (antiestetica)
saracinesca in metallo con un portone in legno, dello stesso
tipo di quello utilizzato sia per l’altro portone di
ingresso dei ricorrenti, sia per i portoni dell’immobile
immediatamente adiacente, in modo da rendere l’intervento
anche esteticamente più coerente con l’intero contesto
circostante”.
Veniva ulteriormente affermato (e documentato con
allegazioni fotografiche) come interventi dello stesso tipo
risultassero “assentiti e realizzati su molte altre
abitazioni”.
...
Il Collegio ritiene fondate ed assorbenti le censure di
eccesso di potere per difetto di motivazione e di
istruttoria.
Le motivazioni dell’atto di annullamento, come sopra
sintetizzate, sarebbero infatti idonee, in astratto, a
giustificare l’esercizio del potere di annullamento della
Soprintendenza –senza sconfinare in rinnovate (e, in quanto
tali, inammissibili) valutazioni di merito– se
l’autorizzazione annullata consentisse di comprendere l’iter
logico seguito dalla predetta Autorità, sulla base di un
compiuto accertamento, da parte di quest’ultima, della
natura dell’intervento edilizio autorizzato, del contesto
circostante e dei valori paesaggistici da preservare.
Deve essere infatti ricordato che le valutazioni, di
competenza della Soprintendenza, costituiscono espressione
di un potere non di mero controllo, ma di amministrazione
attiva –da intendere come co-gestione del vincolo, in
funzione di “estrema difesa” del medesimo (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437)– con riferimento a qualsiasi vizio di
legittimità, riscontrabile nella concreta attività di
gestione dell’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di
potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente
motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta:
cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001,
n. 9).
In tale contesto, può ritenersi che la medesima
Soprintendenza conservasse margini di discrezionalità
tecnica nell’esercizio del proprio potere di riesame, ma
senza per questo potersi sostituire all’apprezzamento,
rimesso all’Autorità comunale sub-delegata.
In linea di principio ben si poteva, pertanto, affermare
nell’atto impugnato che l’intervento edilizio in questione
comportasse “la realizzazione di opere non compatibili con
le imprescindibili esigenze di tutela e conservazione dei
valori paesistici…..esigenze che rappresentano la ragione
costitutiva del vincolo stesso”, di modo che la valutazione
di compatibilità –contenuta nell’autorizzazione
paesaggistica comunale– si sarebbe tradotta “in una
obiettiva deroga al vincolo stesso”, con conseguente
illegittimità della medesima.
Tale peculiare valutazione, tuttavia, doveva trovare
riscontro logico e fattuale in una corretta rappresentazione
dello stato dei luoghi, nonché nella compiuta valutazione
del progetto presentato: circostanze, quelle appena
indicate, che non trovano immediato riscontro nel caso di
specie.
La parte appellante, infatti, ha prodotto una convincente ed
abbondante documentazione fotografica, circa la sussistenza
–nell’area di cui trattasi– di portali di differenti
ampiezze, dalle caratteristiche del tutto analoghe a quelle
che la medesima parte appellante vorrebbe realizzare,
peraltro con integrale ripristino della cornice in pietra
del portale e sostituzione dell’attuale serranda metallica
con materiali più consoni, in rapporto al pregio dell’area
circostante.
Ove si consideri che il vincolo esistente riguarda non
specificamente l’immobile, su cui si vorrebbe intervenire,
ma l’intero contesto ambientale, non si vede come fosse
possibile ignorare l’esistenza di edifici, caratterizzati in
gran numero da portali di diverse dimensioni, a cui si
sarebbe adeguato il progetto da autorizzare, con
caratteristiche anche migliorative, per quanto riguarda i
materiali da utilizzare (con sostituzione del legno alla
saracinesca in metallo).
La motivazione dell’atto di annullamento impugnato, in altre
parole, non fornisce adeguato riscontro della propria logica
ispiratrice, tenuto conto della situazione reale: una
situazione che –ove ritenuta peggiorativa e degradata
dell’assetto preesistente– non avrebbe impedito alla
Soprintendenza di operare a tutela del residuo pregio dei
luoghi, ma non senza che detto apprezzamento risultasse
percepibile (mentre va sottolineato come, al contrario, la
parte appellante affermi –senza che emergano puntuali
controdeduzioni al riguardo– l’avvenuto allargamento di
molti portali di accesso con l’assenso della stessa
Soprintendenza).
Anche qualora, in ogni caso, le contraddittorietà di giudizi
di cui sopra non trovassero conferma, sarebbe comunque stato
doveroso specificare le ragioni di ritenuta immodificabilità
del singolo immobile di cui trattasi (non direttamente
oggetto di vincolo) proprio sotto il profilo del rapporto
fra pieni e vuoti delle facciate, essendo detto profilo del
tutto eterogeneo nel contesto edificatorio circostante
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2014 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il progetto dei lavori, assentito ai confinanti
controinteressati con il permesso di costruire oggetto di
impugnativa, prevede la demolizione totale dei due corpi di
fabbrica esistenti, e la costruzione di un unico fabbricato
su quattro piani e sottotetto, con piano interrato.
Resta dunque evidente come la volumetria preesistente
–distribuita su due manufatti limitrofi- venga spostata ed
accentrata, senza alcuna continuità ontologica (neanche di
sedime) rispetto allo status quo ante.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001
sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica" (nella originaria versione che precedeva la
novella ex art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002, n.
301, si argomentava di “fedele ricostruzione di un
fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime
e caratteristiche di materiali a quello preesistente”).
Pertanto, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende
la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma, nel senso che debbono essere rispettate quantomeno
le “linee essenziali” della sagoma.
Come ben puntualizzato dalla giurisprudenza amministrativa,
“è così necessaria l’identità della complessiva volumetria
del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve
occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie
utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio
diverso, coerentemente con la ratio di recupero del
patrimonio esistente (… così che…) se anche l’attuale art. 3
non contiene più il riferimento alla fedele ricostruzione ,
occorre però considerare con rigore i criteri della medesima
volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto”.
In buona sostanza, a fronte della modifica della nozione di
ristrutturazione introdotta dal D.Lgs. 301/2002, è
necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del
mantenimento della sagoma precedente, così da esigere la
conservazione delle caratteristiche fondamentali
dell’edificio preesistente, nel senso che debbono essere
presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi.
Sulla base dei suesposti principi, non può revocarsi in
dubbio che la progettazione assentita con l’impugnato titolo
edilizio attiene ad una fattispecie di nuova costruzione
(dalla demolizione dei due edifici si ricava un unico
immobile sovradimensionato), erroneamente qualificata dal
Comune come ristrutturazione edilizia, con conseguente
applicazione dei non pertinenti benefit di superficie
previsti dall’articolo 17 della locale Normativa Urbanistica
(relativo a differenti ipotesi di “interventi su edifici
esistenti”).
---------------
Restano comunque recessive le argomentazioni mirate a
valorizzare il disposto delle normative territoriali, per
ampliare il concetto di ristrutturazione edilizia oltre i
limiti imposti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, e ciò
anche in relazione a quanto di recente statuito dal giudice
delle leggi.
Infatti, in presenza di una legge regionale interpretata dal
giudice a quo nel delineato contesto “ampliativo” (L.R.
Lombardia n. 7/2010 con cui sarebbe stata eliminata la
sagoma quale vincolo da rispettare nella ristrutturazione),
la Corte Costituzionale con sentenza 23.11.2011 n. 309 ha
chiarito che sono principi fondamentali della materia del
governo del territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del
2001 che definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
Il ricorso va accolto.
Trova al riguardo assorbente fondamento la censura in ordine
alla errata qualificazione data dal Comune all’intervento
avversato sull’edificio preesistente, intervento qualificato
come “ristrutturazione” edilizia, in luogo di “nuova
costruzione”.
Va precisato che il progetto dei lavori, assentito ai
confinanti controinteressati con il permesso di costruire
oggetto di impugnativa, prevede la demolizione totale dei
due corpi di fabbrica esistenti, e la costruzione di un
unico fabbricato su quattro piani e sottotetto, con piano
interrato.
Resta dunque evidente come la volumetria preesistente
–distribuita su due manufatti limitrofi- venga spostata ed
accentrata, senza alcuna continuità ontologica (neanche di
sedime) rispetto allo status quo ante.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001
sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica" (nella originaria versione che precedeva la
novella ex art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002,
n. 301, si argomentava di “fedele ricostruzione di un
fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime
e caratteristiche di materiali a quello preesistente”).
Pertanto, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende
la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma, nel senso che debbono essere rispettate quantomeno
le “linee essenziali” della sagoma.
Come ben puntualizzato dalla giurisprudenza amministrativa,
“è così necessaria l’identità della complessiva volumetria
del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve
occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie
utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio
diverso, coerentemente con la ratio di recupero del
patrimonio esistente (… così che…) se anche l’attuale art. 3
non contiene più il riferimento alla fedele ricostruzione ,
occorre però considerare con rigore i criteri della medesima
volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto”
(da ultimo C.S. sez. IV sent. n. 2972/2013 del 30.03.2013).
In buona sostanza, a fronte della modifica della nozione di
ristrutturazione introdotta dal D.Lgs. 301/2002, è
necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del
mantenimento della sagoma precedente, così da esigere la
conservazione delle caratteristiche fondamentali
dell’edificio preesistente, nel senso che debbono essere
presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi (così,
Cons. Stato, IV, 28.07.2005, n. 4011; Cons. Stato, V, 14.04.2006, n. 2085, Cons. Stato sez. IV, 18.03.2008 n.
1177).
Sulla base dei suesposti principi, non può revocarsi in
dubbio che la progettazione assentita con l’impugnato titolo
edilizio attiene ad una fattispecie di nuova costruzione
(dalla demolizione dei due edifici si ricava un unico
immobile sovradimensionato), erroneamente qualificata dal
Comune come ristrutturazione edilizia, con conseguente
applicazione dei non pertinenti benefit di superficie
previsti dall’articolo 17 della locale Normativa Urbanistica
(relativo a differenti ipotesi di “interventi su edifici
esistenti”).
Come correttamente dedotto dalla ricorrente, si sarebbero
dovuti applicare nella specie i più rigorosi parametri di
cui all’articolo 14 della N.U., relativo (fra gli altri) ad
“interventi di nuova costruzione”, senza che in contrario
rilevi quanto invocato dal patrono civico a proposito di una
presunta alternatività dei criteri previsti dalle due citate
norme urbanistiche (l’art. 14 seguirebbe un calcolo basato
sulla superficie, mentre l’articolo 17 presenterebbe un
criterio volumetrico). Non si vede infatti quale relazione
ostativa possa determinare tale alternatività con la
corretta applicazione di ciascuna delle due disposizioni
all’interno della rispettiva fattispecie di appartenenza.
Resta così inteso che in presenza di nuove costruzioni (e
non di ristrutturazioni del preesistente) resterà
applicabile il criterio volumetrico dell’art. 14 e non
quello “superficiario” dell’art. 17.
A tutto voler concedere, poi, va detto più in generale che
restano comunque recessive le argomentazioni mirate a
valorizzare il disposto delle normative territoriali, per
ampliare il concetto di ristrutturazione edilizia oltre i
limiti imposti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, e ciò
anche in relazione a quanto di recente statuito dal giudice
delle leggi.
Infatti, in presenza di una legge regionale interpretata dal
giudice a quo nel delineato contesto “ampliativo” (L.R.
Lombardia n. 7/2010 con cui sarebbe stata eliminata la
sagoma quale vincolo da rispettare nella ristrutturazione),
la Corte Costituzionale con sentenza 23.11.2011 n. 309
ha chiarito che sono principi fondamentali della materia del
governo del territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del
2001 che definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
In conclusione il ricorso trova accoglimento per le
suesposte ragioni, assorbito ogni altro motivo. Ne consegue
l’annullamento dell’impugnato permesso di costruire
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 09.01.2014 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il giudizio di verifica
della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e
sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme
e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale
dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano
manifestamente illogiche o fondate su insufficiente
motivazione o affette da errori di fatto.
Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non
ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole
inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad
accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o
inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell’appalto.
Il terzo motivo di ricorso con il
quale è contestata la valutazione di anomalia dell’offerta è
infondato.
In merito occorre rammentare che il complesso delle
contestazioni economiche delle ricorrenti, oltre ad essere
generalmente prive di prova, raggiungono a malapena il
complesso degli utili dichiarati dall’aggiudicataria. E’
sufficiente quindi che una sola di esse sia infondata per
ritenere infondato l’intero motivo di ricorso.
In merito la giurisprudenza prevalente ha infatti
ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della
congruità di un’offerta anomala ha natura globale e
sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme
(Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495) e
costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale
dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano
manifestamente illogiche o fondate su insufficiente
motivazione o affette da errori di fatto (TAR Lazio Roma,
sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957; Consiglio di Stato, sez. V
– 11/03/2010 n. 1414; sez. IV – 20/05/2008 n. 2348).
Al
contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha
per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se
l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o
inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di
Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; stessa Sezione
08/02/2012 n. 195; TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza
10.08.2012 n. 1445).
Nel merito è infondato il primo profilo del motivo nella
parte in cui contesta che in un appalto siffatto sarebbe
impossibile offrire alcune figure professionali non
remunerative a fronte di altre in largo attivo. In merito
occorre rilevare che non è contestato che l’aggiudicataria
abbia correttamente imputato tutti i costi del personale
secondo le tabelle ministeriali e che l’offerta richiesta
dalla stazione appaltante avesse carattere globale.
In
questo quadro è legittimo che l’offerente distribuisca i
costi del personale tra le varie figure in modo da offrire
il mix più conveniente per la stazione appaltante. Né coglie
nel segno la contestazione relativa alla creazione di
scenari di utilizzo del personale irragionevoli in quanto si
tratta di valutazioni del tutto apodittiche e prive di
riscontri concreti.
In applicazione del principio di globalità della verifica di
anomalia dell’offerta il motivo di ricorso dev’essere quindi
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 08.01.2014 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
L’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006
attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a
disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla
rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, previste dal comma
2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative (criterio della
specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto
dell’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000.
Poiché dunque, in materia, vi è una competenza esclusiva del
Sindaco (che non consta abbia, nel caso di specie,
specificamente delegato i propri poteri alla dirigenza), la
determinazione dirigenziale impugnata è viziata per
incompetenza e deve essere annullata.
... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n.
3876 in data 22.01.2013, notificata in data 04.02.2013, con
cui è fatto ordine al sig. G.F., quale
proprietario, di provvedere alla rimozione dei rifiuti di
qualsiasi specie presenti nella “suddetta area”, ed al
ripristino dello stato dei luoghi
...
Riveste carattere decisivo il vizio di incompetenza.
Infatti, l’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006
attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a
disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla
rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, previste dal comma
2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti
alla soluzione delle antinomie normative (criterio della
specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto
dell’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 29.08.2012, n. 4635).
Poiché dunque, in materia, vi è una competenza esclusiva del
Sindaco (che non consta abbia, nel caso di specie,
specificamente delegato i propri poteri alla dirigenza di
Roma Capitale), la determinazione dirigenziale impugnata è
viziata per incompetenza e deve essere annullata
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 07.01.2014 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Anche dopo l’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo è ancora valido il principio
generale secondo cui “l’accoglimento di un vizio-motivo di
incompetenza dell’organo che ha provveduto è,
intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro
vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio
accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti
successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati
dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da
quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza
che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di
quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata (nel
senso, etimologico, di “pre-giudicata”) da quella in
precedenza svolta dall’organo incompetente”.
L’unica eccezione, rispetto a ciò, può verificarsi nei casi
in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato
l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso
(come pure è in sua facoltà, stante la natura soggettiva
della giurisdizione amministrativa e la conseguente
disponibilità di parte dei motivi di ricorso); ma, anche in
tal caso, la subordinazione dell’esame del motivo di
incompetenza agli altri di merito non può che intendersi
come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di
incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati
gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via
principale.
---------------
Va ancora soggiunto che, nonostante il codice del processo
amministrativo non abbia riprodotto la disposizione
contenuta nella l. n. 1034/1971 secondo cui, in caso di
accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il
giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità
competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena
evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di
ricorso afferente al merito della causa in presenza di un
vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso
riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del
codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può
pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non
ancora esercitati”.
E’ poi evidente che la “prima sede” per l’esercizio del
potere amministrativo, rispetto a cui è vietata la
cognizione preventiva del giudice, è soltanto quella in cui
agisca l’organo dichiarato competente.
Ciò posto, è
bene precisare che, in assenza di graduazione dei motivi di
ricorso, il vizio di incompetenza riveste carattere
“assorbente”.
In primo luogo, anche dopo l’entrata in vigore del codice
del processo amministrativo è ancora valido il principio
generale secondo cui “l’accoglimento di un vizio-motivo di
incompetenza dell’organo che ha provveduto è,
intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro
vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio
accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti
successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati
dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da
quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza
che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di
quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata (nel
senso, etimologico, di “pre-giudicata”) da quella in
precedenza svolta dall’organo incompetente” (così, in
termini, CGA, 06.03.2012, n. 273)
L’unica eccezione, rispetto a ciò, può verificarsi nei casi
in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato
l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso
(come pure è in sua facoltà, stante la natura soggettiva
della giurisdizione amministrativa e la conseguente
disponibilità di parte dei motivi di ricorso); ma, anche in
tal caso, la subordinazione dell’esame del motivo di
incompetenza agli altri di merito non può che intendersi
come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di
incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati
gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via
principale (così, ancora, la decisione n. 273/2012).
Non è questo però il caso di cui si verte, in cui,
dall’esposizione ricorsuale, non è riscontrabile alcuna
forma di graduazione e/o subordinazione dei motivi di
gravame.
Va ancora soggiunto che, nonostante il codice del processo
amministrativo non abbia riprodotto la disposizione
contenuta nella l. n. 1034/1971 secondo cui, in caso di
accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il
giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità
competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena
evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di
ricorso afferente al merito della causa in presenza di un
vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso
riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del
codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può
pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non
ancora esercitati”.
E’ poi evidente che la “prima sede” per l’esercizio
del potere amministrativo, rispetto a cui è vietata la
cognizione preventiva del giudice, è soltanto quella in cui
agisca l’organo dichiarato competente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 07.01.2014 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’intervento
di risanamento conservativo, così come disciplinato all’art.
3, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, non consente la
demolizione del manufatto, a tal uopo essendo necessario dar
corso quantomeno ad un intervento di “ristrutturazione
edilizia” (art. 3, lett. d) d.P.R. 380/2001).
L’intervento edilizio realizzato dagli odierni
appellanti a seguito di d.i.a prodotta il 04.08.2006
riguardava lavori relativi ad opere di risanamento
conservativo, manutenzione ordinaria e straordinaria. Sennonché i lavori in concreto eseguiti sono consistiti nella
demolizione e nella ricostruzione del vano tecnico posto al
terzo piano, ciò che non era consentito dal titolo edilizio
formatosi a seguito della presentazione della suddetta
d.i.a..
L’intervento di risanamento conservativo, così come
disciplinato all’art. 3, lettera c), del d.P.R. n. 380 del
2001, non consente la demolizione del manufatto, a tal uopo
essendo necessario dar corso quantomeno ad un intervento di
“ristrutturazione edilizia” (art. 3, lett. d) d.P.R. cit.).
E tuttavia tale tipologia di intervento edilizio era in ogni
caso inibita ai ricorrenti in ragione della disciplina
urbanistica dell’area ove ricade il loro fabbricato,
azzonata nel p.r.g. comunale come “A2- risanamento
conservativo”.
Corretta pertanto appare, come rilevato dal giudice di primo
grado, la determinazione del Comune di Tivoli che ha negato
accoglimento all’istanza di permesso di costruire per
accertamento di conformità presentata dagli appellanti ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo
consentita la ristrutturazione edilizia mediante demolizione
e ricostruzione degli immobili posti in zona A2.
Donde la
legittimità dell’ordine di demolizione del vano posto al
terzo piano e della riduzione in pristino delle altre opere
interne realizzate al secondo piano in difformità dal titolo
(per questa parte, tuttavia, non constano specifici motivi
di censura)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.01.2014 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che la
declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce
manifestazione di attività vincolata della pubblica
amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti
della decadenza richiedono un rigoroso e completo
accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria,
che non può basarsi su affermazioni apodittiche né
prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso
concreto.
--------------
In disparte le giustificazioni addotte dalla ricorrente a
proposito dell’ostruzionismo praticato dai vicini nel
rendere inagibile l’unica strada di accesso al fondo, è
dirimente osservare che il permesso di costruire di cui
trattasi è stato rilasciato alla Società nella giornata di
venerdì, 28.12.2012, in pieno periodo feriale, per
l’approssimarsi del Capodanno ed in una stagione con
condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che
costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma
2°, del codice di procedura civile).
In siffatte circostanze appare al Collegio irragionevole la
pretesa del Comune di far discendere la prova dell’intento
costruttivo dalla realizzazione, nell’ultimo scorcio
dell’anno 2012, in pieno periodo feriale ed in pieno
inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio dell’opera.
Si tratta, a ben vedere, di una pretesa non rispettosa del
principio di proporzionalità che dovrebbe presiedere
all’esercizio dell’azione amministrativa, anche in sede di
accertamento della decadenza di cui al citato art. 15, oltre
che in contrasto con il principio della buona fede oggettiva
che deve comunque caratterizzare il rapporto fra privato e
pubblica amministrazione.
Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede
ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo
per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del d.P.R.
n. 380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto
–realisticamente– che sussista un fisiologico intervallo
temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio
dell’attività edilizia.
Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione del
menzionato art. 15 effettuata da parte dell’Amministrazione
di Como.
Il ricorso merita parziale accoglimento, secondo
quanto di seguito meglio specificato.
Preliminarmente, il Collegio ritiene di soprassedere
rispetto all’eccezione di irricevibilità sollevata da parte
resistente in ordine all’impugnazione dei provvedimenti
elencati in premessa sub nn. 4 e ss., stante l’evidente
inammissibilità del ricorso rispetto all’impugnazione
predetta, non assistita dall’articolazione di specifiche
censure, in violazione dell’art. 40, co. 1, lett. d), c.p.a.
Per il resto, e nel merito, il Collegio ritiene di
confermare l’orientamento già espresso in ordine
all’interpretazione del combinato disposto degli artt. 15,
co. 4, del d.P.R. n. 380/2001, 25, co. 1-quater, della legge
regionale n. 12/2005.
In tal senso, è sufficiente richiamare quanto di recente
affermato da questa stessa Sezione in un caso analogo a
quello per cui è causa, in cui era stato impugnato da altra
società un provvedimento di decadenza di un permesso di
costruire, emesso in circostanze analoghe a quelle per cui è
causa da parte del Comune di Como (cfr. sentenza TAR
Milano, Sez. II, del 24.07.2013, n. 1943).
Ivi, è stato così chiarito che l’art. 15, comma 4°, del
d.P.R. n. 380/2001 (in forza del quale <<Il permesso decade
con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e
vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio>>), non può essere letto, come affermato dal
resistente, nel senso di poter dichiarare la decadenza di un
titolo edilizio, rilasciato a distanza di pochi giorni, a
causa della sopravvenienza dell’art. 25, comma 1-quater,
della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, assunto
alla stregua di previsione urbanistica contrastante con
l’intervento assentito.
Il comma da ultimo citato (oggi abrogato, come meglio si
dirà in seguito, ma vigente a gennaio 2013), ha stabilito
che -nei comuni che entro il 31.12.2012 non avessero ancora
approvato il Piano di Governo del Territorio (PGT, ai sensi
dell’art. 13 della già citata LR 12/2005)- sarebbero stati
ammessi, nelle zone omogenee A, B, C e D, soltanto gli
interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo, con
esclusione degli interventi, come quello di cui è causa, di
nuova costruzione.
Ebbene, nella fattispecie in esame, se da un lato il Comune
di Como –la circostanza è pacifica– non aveva ancora
approvato il proprio PGT al 31.12.2012, dall’altro, almeno
stando al provvedimento impugnato, Stradivari non aveva
avviato, al 01.01.2013, l’attività edilizia oggetto
dell’intervento assentito.
In siffatte evenienze, a parere del resistente, l’art. 25,
co. 1–quater cit., giustificherebbe l’impugnata decadenza
del titolo edilizio rilasciato, giova ribadire, il
28.12.2012, in esecuzione del già richiamato art. 15, comma
4°, del Testo Unico dell’edilizia.
Nei motivi di ricorso sopra sintetizzati la Società contesta
la violazione e l’erronea applicazione, sotto vari profili,
delle norme –statali e regionali– poste
dall’Amministrazione di Como a fondamento della
determinazione di decadenza del permesso di costruire.
La Sezione, pur ritenendo assorbente il terzo motivo di
ricorso (su cui ci si diffonderà nel prosieguo), ritiene
utile accennare anche ai profili di fondatezza emergenti in
relazione al primo motivo di ricorso, con cui si contesta
l’affermazione del Comune, secondo cui la Società non
avrebbe avviato alcuna attività edilizia al 31.12.2012,
sicché non sarebbe ravvisabile in capo ad essa alcun “serio
intento costruttivo”.
Al riguardo, preme al Collegio richiamare, in primo luogo il
proprio orientamento, secondo cui, se è vero che la
declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce
manifestazione di attività vincolata della pubblica
amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti
della decadenza richiedono un rigoroso e completo
accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria,
che non può basarsi su affermazioni apodittiche né
prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso
concreto (cfr. sul punto TAR Lombardia, Milano, sez. II,
22.1.2013, n. 189).
Nel caso di specie, il permesso di costruire è stato
adottato il 18.12.2012 e rilasciato all’interessata in data
28.12.2012 (cfr. il doc. 8 della ricorrente e il doc. 14
della resistente), mentre la comunicazione di inizio lavori
è stata protocollata lo stesso 28.12.2012 (cfr. il doc. 13
della ricorrente e il doc. 16 della resistente).
Il Comune di Como ha effettuato il sopralluogo assunto a
presupposto della decadenza in data 11.01.2013 (cfr. il
doc. 17 della resistente).
Ebbene, in disparte le giustificazioni addotte dalla
ricorrente a proposito dell’ostruzionismo praticato dai
vicini nel rendere inagibile l’unica strada di accesso al
fondo, è dirimente osservare che il permesso di costruire di
cui trattasi è stato rilasciato alla Società nella giornata
di venerdì, 28.12.2012, in pieno periodo feriale, per
l’approssimarsi del Capodanno ed in una stagione con
condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che
costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma
2°, del codice di procedura civile).
In siffatte circostanze appare al Collegio irragionevole la
pretesa del Comune di far discendere la prova dell’intento
costruttivo dalla realizzazione, nell’ultimo scorcio
dell’anno 2012, in pieno periodo feriale ed in pieno
inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio dell’opera
(a nulla rilevando quanto successivamente accertato, ma non
emergente dal provvedimento qui gravato).
Si tratta, a ben vedere, di una pretesa non rispettosa del
principio di proporzionalità che dovrebbe presiedere
all’esercizio dell’azione amministrativa, anche in sede di
accertamento della decadenza di cui al citato art. 15, oltre
che in contrasto con il principio della buona fede oggettiva
che deve comunque caratterizzare il rapporto fra privato e
pubblica amministrazione (cfr. sul punto, fra le tante,
Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012, n. 5692, nonché
TAR Milano, II, sent. n. 1943/2013).
Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede
ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo
per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del d.P.R.
n. 380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto –realisticamente– che sussista un fisiologico intervallo
temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio
dell’attività edilizia.
Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione del
menzionato art. 15 effettuata da parte dell’Amministrazione
di Como.
Passando, a questo punto, ad esaminare il terzo motivo, il
Collegio osserva quanto segue.
L’esponente contesta, qui, l’interpretazione dell’art. 25
della legge regionale n. 12/2005, come modificato dalla
legge regionale n. 21/2012, assunta dal Comune a fondamento
del provvedimento di decadenza, sul presupposto che la
normativa regionale costituisca una nuova previsione
urbanistica –di rango legislativo– volta a precludere
definitivamente ogni attività edilizia con essa
contrastante.
Il comma 1-quater, giova ribadire, permetteva a partire dal
01.01.2013 nei Comuni sprovvisti di Piano di Governo
del Territorio una limitatissima attività edilizia,
consentendo soltanto gli interventi di manutenzione,
restauro e risanamento, vietando -al contempo- altri
interventi edilizi, come quelli di ristrutturazione e di
nuova costruzione, fra cui l’attività di cui al permesso
ottenuto da Stradivari, che rientra in tale ultima
categoria.
L’interpretazione degli uffici comunali non era stata
condivisa dallo scrivente Collegio che, in sede di
cognizione sommaria (cfr. l’ordinanza cautelare n.
439/2013), aveva disatteso l’impostazione comunale e, in
un’altra coeva ordinanza (n. 363/2013, poi confermata con la
sentenza n. 1943/2013 già citata), aveva offerto una diversa
esegesi dei commi da 1-ter a 1-quinquies dell’art. 25 della
LR 12/2005, ritenendo che gli stessi imponessero non la
decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi, in
attesa dell’approvazione definitiva dello strumento
urbanistico generale (PGT).
Si trattava di un’interpretazione del dettato legislativo
regionale rispettosa del canone di ragionevolezza che –ex
art. 3 della Costituzione– deve sempre accompagnare
l’esercizio della funzione legislativa, anche da parte delle
Regioni (sulla rilevanza della “ragionevolezza”, quale
parametro costituzionale, si veda, fra le decisioni più
recenti, Corte Costituzionale, 27.6.2013, n. 160).
La questione interpretativa dei menzionati commi dell’art.
25 della LR 12/2005 ha, tuttavia, perso rilevanza, visto che
la stessa Regione Lombardia, con la legge regionale
04.06.2013, n. 1, ha espressamente abrogato i commi in
questione (cfr. l’art. 2, comma 2, della citata legge),
fissando un nuovo termine per l’approvazione del PGT per i
Comuni rimasti ancora inerti, al 30.06.2014.
In ordine alle conseguenze derivanti dalla recente modifica
legislativa, preme segnalare che, con circolare del
19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL 21.06.2013, n. 25),
Regione Lombardia ha stabilito che possono essere riattivate
le istanze di intervento presentate entro il 31.12.2012 ma
non definite per effetto della pregressa disciplina
restrittiva, sicché le novità della LR 1/2013 finiscono per
avere un effetto sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Di fronte a tale efficacia retroattiva, si potrebbe
addirittura dubitare dell’applicabilità, alla presente
fattispecie, dell’art. 15, comma 4°, del d.P.R. n. 380/2001,
visto che alla data del 31.12.2012 non è stata, in realtà,
introdotta, da parte della legislazione regionale, alcuna
nuova normativa urbanistica.
Da ultimo e con riguardo alla rilevanza sull’intervento di
cui è causa del nuovo Piano di Governo del Territorio (PGT)
del Comune di Como, approvato definitivamente il 13.06.2013, valgano le considerazioni seguenti.
Il permesso di costruire più volte ricordato, è stato
rilasciato il 28.12.2012 in conformità allo strumento
urbanistico generale allora vigente; il P.G.T. oggi in
vigore è stato adottato il 20.12.2012 ed il relativo avviso
è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione
Lombardia (BURL) il successivo 16.01.2013.
E’ quindi evidente che, attesa l’anteriorità del rilascio
del titolo rispetto all’adozione del P.G.T., le prescrizioni
di quest’ultimo non potevano di per sé incidere
sull’attività edilizia già regolarmente autorizzata, tanto è
vero che il provvedimento impugnato nulla dice in ordine al
P.G.T. adottato.
Parimenti, l’intervenuta approvazione definitiva del P.G.T.
in data 13.06.2013 non rileva in alcun modo, trattandosi di
circostanza sopravvenuta al provvedimento ivi gravato.
Di conseguenza, qualsivoglia richiamo ad un preteso
contrasto del titolo edilizio di Stradivari con le
prescrizioni del P.G.T., contenuto negli scritti difensivi
del Comune, non può che rappresentare un inammissibile
tentativo di integrazione della motivazione attraverso gli
atti di causa (cfr. sull’impossibilità dell’integrazione
“postuma” della motivazione dell’atto amministrativo,
Consiglio di Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1808).
Per le suesposte considerazioni, assorbiti i mezzi non
espressamente scrutinati, il ricorso in epigrafe specificato
deve essere accolto, limitatamente all’impugnazione del
provvedimento di decadenza del 15.01.2013 che, per
l’effetto, deve essere annullato; deve, per contro, essere
dichiarata inammissibile la restante parte del gravame.
Quanto alla domanda di risarcimento dei danni, la stessa
deve essere respinta, attesa la mancata dimostrazione dei
presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c. in ordine, in
particolare, al nesso di causalità ai fini della
riconducibilità dei lamentati danni all’agire illegittimo
della p.a., nonché alla colpevolezza della resistente
amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.01.2014 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990, il provvedimento amministrativo illegittimo può
essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato o
da altro organo previsto dalla legge "sussistendone le
ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole
e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati ".
La giurisprudenza amministrativa ha fissato precisi limiti
per il legittimo esercizio del suindicato potere di
autotutela, ritenendo che l'interesse pubblico specifico
all'eliminazione dell'atto illegittimo non possa
identificarsi, sic et simpliciter, nell'interesse al
ripristino dell'ordine giuridico violato, ma debba essere
individuato in relazione ad esigenze concrete ed attuali.
Invero, è stato affermato che "in tema di adozione di atti
amministrativi, il potere di annullamento è immanente al
potere di autotutela e ne condivide i limiti, con
particolare riguardo all'obbligo di motivazione, alla
presenza di concrete ragioni di pubblico interesse non
riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità,
alla valutazione dell'affidamento delle parti private
destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, al
rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale,
ivi compreso l'avviso di avvio del procedimento di ritiro,
all'adeguata istruttoria”.
---------------
Il recente arresto del Supremo Consesso amministrativo
conferma come l’orientamento maggioritario in giurisprudenza
inclini a ritenere che detto potere di autotutela al
cospetto di una d.i.a. non si distingua, quanto ai
presupposti applicativi, dall’autotutela in via generale
prevista dalla legge generale sul procedimento
amministrativo.
Invero, maggiore è il lasso di tempo trascorso tra l'avvio
dell'attività dichiarata e l'esercizio, da parte della p.a.,
del potere inibitorio e/o di autotutela, e maggiore deve
essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico
interesse, diverse da quelle al mero ripristino della
legalità, che deve connotare il relativo provvedimento
amministrativo, anche alla luce di quanto previsto
espressamente dall'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Analogamente, in applicazione del su richiamato disposto
normativo, deve emergere dalla motivazione dell’atto la
valutazione comparativa degli interessi in ipotesi in
conflitto, di cui l’amministrazione deve dare conto.
Ai sensi dell’art. 21-nonies della legge
n. 241 del 1990, il provvedimento amministrativo illegittimo
può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato
o da altro organo previsto dalla legge "sussistendone le
ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole
e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati ".
La giurisprudenza amministrativa ha fissato precisi limiti
per il legittimo esercizio del suindicato potere di
autotutela, ritenendo che l'interesse pubblico specifico
all'eliminazione dell'atto illegittimo non possa
identificarsi, sic et simpliciter, nell'interesse al
ripristino dell'ordine giuridico violato, ma debba essere
individuato in relazione ad esigenze concrete ed attuali
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2009, n. 8529,
TAR Lazio, Latina, Sez. I, 02.02.2012, n. 64, per cui:
"in tema di adozione di atti amministrativi, il potere di
annullamento è immanente al potere di autotutela e ne
condivide i limiti, con particolare riguardo all'obbligo di
motivazione, alla presenza di concrete ragioni di pubblico
interesse non riducibili alla mera esigenza di ripristino
della legalità, alla valutazione dell'affidamento delle
parti private destinatarie del provvedimento oggetto di
riesame, al rispetto delle regole del contraddittorio
procedimentale, ivi compreso l'avviso di avvio del
procedimento di ritiro, all'adeguata istruttoria.”;
analogamente, cfr. ancora TAR Sicilia, Palermo, 11.01.2010, n. 235; TAR Veneto, Sez. II, 30.09.2010, n.
5242).
Con specifico riguardo alla fattispecie in esame va poi
ulteriormente richiamato il recente arresto del Supremo
Consesso amministrativo (cfr. Consiglio di Stato, IV sez.,
sent. 06.12.2013, n. 5822) che conferma come
l’orientamento maggioritario in giurisprudenza inclini a
ritenere che detto potere di autotutela al cospetto di una d.i.a. non si distingua, quanto ai presupposti applicativi,
dall’autotutela in via generale prevista dalla legge
generale sul procedimento amministrativo (cfr. anche TAR
Toscana, Firenze, sez. II, sent. 24.08.2010, n. 4882,
secondo cui maggiore è il lasso di tempo trascorso tra
l'avvio dell'attività dichiarata e l'esercizio, da parte
della p.a., del potere inibitorio e/o di autotutela, e
maggiore deve essere il grado di motivazione sulle ragioni
di pubblico interesse, diverse da quelle al mero ripristino
della legalità, che deve connotare il relativo provvedimento
amministrativo, anche alla luce di quanto previsto
espressamente dall'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990).
Analogamente, in applicazione del su richiamato disposto
normativo, deve emergere dalla motivazione dell’atto la
valutazione comparativa degli interessi in ipotesi in
conflitto, di cui l’amministrazione deve dare conto (cfr.
TAR Campania, Napoli, Sez. III, 11.02.2008, n. 701).
Sennonché, avuto riguardo al provvedimento qui contestato,
deve convenirsi con la difesa ricorrente in ordine alla
mancanza, sia della rappresentazione di un interesse
pubblico, concreto e attuale, alla rimozione dei titoli
abilitativi formatisi a seguito della presentazione della
dia del 01.04.2003, che in ordine alla valutazione
dell’interesse del destinatario dell’atto medesimo.
Né si può poi ritenere, come adombra la difesa
dell’amministrazione, che nel caso di specie alcuna dia si
sarebbe perfezionata, a cagione della falsa attestazione da
parte ricorrente della destinazione residenziale di una
parte dell’immobile, attesa la sussistenza di un documento
(cfr. allegato n. 3 di parte ricorrente) proveniente dalla
stessa amministrazione in causa, che attesta la presenza,
alla data del 05.04.1967, della destinazione ad uso
abitazione di una parte, ivi meglio descritta, del ridetto
immobile.
Ne consegue che non può parlarsi, qui, di esercizio di un
potere sanzionatorio da parte comunale, esercitabile in ogni
tempo siccome avulso dall’esercizio del potere di autotutela
decisoria, non potendo il Comune disconoscere la presenza di
un titolo edilizio (la dia del 2003 e ss. varianti) che lo
stesso Comune, a ben vedere, ha contribuito a consolidare,
non intervenendo nei termini prescritti e con i poteri
inibitori all’uopo previsti.
Risulta, poi, inammissibile, alla stregua di motivazione
“postuma” del provvedimento impugnato, l’ulteriore ragione,
addotta in memoria da parte resistente a fondamento del
proprio operato, che fa leva sulla circostanza che la nuova
destinazione comporterebbe un aggravio del carico
urbanistico di cui l’amministrazione non avrebbe tenuto
conto ai fini del pagamento degli oneri di urbanizzazione e
dello standard (in disparte, poi, la circostanza che si
tratta di profili rispetto ai quali è indimostrata, da parte
comunale, l’impossibilità di addivenire ad una
regolarizzazione dei medesimi aspetti).
Per le suesposte considerazioni, quindi, assorbiti i mezzi
non espressamente scrutinati, il ricorso in epigrafe
specificato deve essere accolto, con conseguente
annullamento del provvedimento con esso impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.01.2014 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: E'
annullabile il provvedimento amministrativo laddove nello
stesso sia riportata una barra sul gruppo firma "Il
Sindaco ..." ed una sigla per la quale non sia possibile
possibile risalire all'effettiva persona firmataria.
Esaminando il provvedimento impugnato è
possibile constatare che lo stesso, ancorché in fondo
riporti la dicitura “Il Sindaco – Lorenzo Alessandrini“,
presenta una barra sul gruppo firma ed una sigla che non è
possibile ricondurre ad alcuno.
Ciò significa che il provvedimento risulta emanato da
persona diversa dal Sindaco e della quale non è possibile
verificare l’identità e quindi l’esistenza del potere, anche
in virtù di delega, di dare giuridica esistenza all’atto.
Il provvedimento, pertanto, non può produrre alcun utile
effetto e deve essere di conseguenza annullato prescindendo
dall’esame della fondatezza degli ulteriori motivi di
ricorso.
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
dell'ordinanza n. 335/1997 in data 11/11/1997, notificata al
ricorrente il 19/11/1997, con la quale il Sindaco del Comune
di Seravezza, testualmente: "DICHIARA DECADUTA la
concessione edilizia n. 148 rilasciata in data 27.01.1996 a
B.P.G., nato a M., il ... e residente in Pietrasanta, Via
..., per accertato mancato inizio dei lavori entro il
termine di un anno dal suo rilascio, come da accertamento
dell'Ufficio di cui in premessa: ORDINA la immediata
sospensione di ogni e qualunque opera posta in essere
sull'area oggetto della concessione edilizia decaduta per
mancato inizio dei lavori".
...
Il ricorso è fondato in accoglimento del primo motivo che
assume carattere assorbente.
Esaminando il provvedimento impugnato è possibile constatare
che lo stesso, ancorché in fondo riporti la dicitura “Il
Sindaco – Lorenzo Alessandrini“, presenta una barra sul
gruppo firma ed una sigla che non è possibile ricondurre ad
alcuno.
Ciò significa che il provvedimento risulta emanato da
persona diversa dal Sindaco e della quale non è possibile
verificare l’identità e quindi l’esistenza del potere, anche
in virtù di delega, di dare giuridica esistenza all’atto.
Il provvedimento, pertanto, non può produrre alcun utile
effetto e deve essere di conseguenza annullato prescindendo
dall’esame della fondatezza degli ulteriori motivi di
ricorso
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 24.12.2013 n. 1771 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve
una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del D.P.R. n.
380 del 2001, è connotata da un carattere strettamente
vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
citato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni
dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha
natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso
a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc.
---------------
L’asserito impedimento, qualificato dalla ricorrente come
ritardo incolpevole, derivante dal preteso ritardo
dell’azienda titolare del servizio pubblico elettrico
nell’operare lo spostamento della linea elettrica -peraltro
tardivamente allegato soltanto dopo l’adozione degli
impugnati provvedimenti- non è comunque idoneo ad integrare
gli estremi della forza maggiore che, dunque, nel caso di
specie deve escludersi.
---------------
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi configurabile quando le
opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva
volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò
sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e dei materiali da
costruzione.
--------------
Per la pronuncia di decadenza, in quanto tipico atto
d'ufficio, la comunicazione ai sensi dell’art. 10-bis della
l. 241/1990 risulta esclusa.
La giurisprudenza è pacifica nell'affermare che la pronunzia
di decadenza del permesso di costruire, che riceve una
puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001, sia connotata da un carattere strettamente
vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
citato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni
dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha
natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso
a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4206; id. sez.
III, 04.04.2013, n. 1870).
D’altra parte, l’asserito impedimento, qualificato dalla
ricorrente come ritardo incolpevole, derivante dal preteso
ritardo dell’azienda titolare del servizio pubblico
elettrico nell’operare lo spostamento della linea elettrica
-peraltro tardivamente allegato soltanto dopo l’adozione
degli impugnati provvedimenti- non sarebbe comunque idoneo
ad integrare gli estremi della forza maggiore che, dunque,
nel caso di specie deve escludersi.
Ciò posto deve rammentarsi che, per costante giurisprudenza,
l'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi configurabile quando le
opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva
volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò
sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e dei materiali da
costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3823).
Nel caso in esame, al di là di affermazioni opinabili per
cui l’abbozzo della canaletta per l’elettrodotto
rappresenterebbe inizio dei lavori, non risultano neanche
tali attività minime; dunque non è contestato che la
costruzione non sia stata iniziata, per cui non vi è dubbio
che il Comune dovesse emettere un provvedimento di natura
dichiarativa sul mancato rispetto del termine annuale
decadenziale, già prorogato.
Stante l’adottata decadenza dai titoli era, dunque,
inevitabile che venisse negata la proroga degli stessi
risultando, dunque, la comunicazione ai sensi dell’art.
10-bis un atto meramente formale posto in essere solo perché
in presenza di atti a istanza di parte.
Viceversa, per la pronuncia di decadenza, in quanto tipico
atto d'ufficio, tale comunicazione risulta esclusa (TAR
Veneto sez. II, 14.11.2008, n. 3550)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 18.12.2013 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Definizione e scopo dell'abbandono e
della raccolta - Artt. 255 e 256, c. 2, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, la volontà che sottende all'abbandono è
sostanzialmente diretta a disfarsi ed a disinteressarsi
completamente della cosa, mentre quella relativa alla
raccolta è diretta a conservare i materiali per poter poi
compiere sugli stessi una attività successiva, sia di
riutilizzo o di smaltimento (Cass. Sez. III n. 17256,
07/05/2007).
RIFIUTI – Gestione rifiuti - Definizione
di raccolta, gestione e stoccaggio o deposito preliminare -
Operazioni di messa in riserva di rifiuti – Definizione di
deposito temporaneo - Artt. 183, 255 e 256, d.lgs. n.
152/2006.
Per «raccolta» di rifiuti si intende, secondo quanto
stabilito dall'art. 183, comma 1, lettera o), d.lgs. n.
152/2006 «il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita
preliminare e il deposito, ivi compresa la gestione dei
centri di raccolta (definiti nel medesimo comma) ai fini del
loro trasporto in un impianto di trattamento», mentre la
lettera aa) del medesimo articolo definisce lo stoccaggio
come «le attività di smaltimento consistenti nelle
operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al
punto D15 dell'Allegato B alla parte quarta del decreto (e
cioè il deposito preliminare prima di una delle operazioni
di cui ai punti da D1 a D14, escluso il deposito temporaneo,
prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti) nonché
le attività di recupero consistenti nelle operazioni di
messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13
dell'Allegato C alla medesima parte quarta (e cioè la messa
in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni
indicate nei punti da R1 a R12 escluso il deposito
temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono
prodotti)».
RIFIUTI – Discarica di rifiuti -
Definizione legislativa e giuridica – Stoccaggio di rifiuti
- Periodo inferiore a un anno - Art. 2, c. 1, lett. g),
d.lgs. 36/2003.
Una definizione di discarica di rifiuti è rinvenibile
nell'articolo 2, comma primo, lettera g) d.lgs. 36/2003, ove
si afferma che per discarica deve intendersi un'area "adibita
a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito
sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di
produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi
da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area
ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più
di un anno".
Aggiunge la richiamata disposizione che "sono esclusi da
tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono
scaricati al fine di essere preparati per il successivo
trasporto in un impianto di recupero, trattamento o
smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di
recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni
come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di
smaltimento per un periodo inferiore a un anno",
consentendo così, grazie all'indicazione del dato temporale,
di distinguere la discarica da altre attività di gestione
(anche se lo stesso, come si è ritenuto nel caso di
protrazione del deposito dei rifiuti per un periodo
superiore all'anno in Cass. Sez. III n. 9849, 04/03/2009,
non individua un elemento costitutivo della fattispecie).
RIFIUTI – Concetto di discarica –
Deposito con ammasso definitivo - Nozione di "smaltimento" -
Scopo di profitto - Mero abbandono di rifiuti - Natura
occasionale e discontinua - Giurisprudenza – Art. 256 d.lgs.
152/2006.
Nell'individuazione del concetto di discarica, con
riferimento al reato di cui al terzo comma dell'articolo 256
del d.lgs. n. 152/2006, la giurisprudenza ha sottolineato la
differenza con la nozione di "smaltimento" rilevando
che trattasi di due attività diversamente disciplinate,
perché pur avendo in comune talune operazioni (quali il
conferimento dei materiali e la loro deposito), si
differenziano radicalmente: nello smaltimento i rifiuti
vengono interamente sfruttati a scopo di profitto con
specifiche modalità (cernita, trasformazione, utilizzo e
riciclo previo recupero), nella discarica, invece, i beni
non ricevono alcun trattamento ulteriore e vengono
abbandonati a tempo indeterminato, mediante deposito ed
ammasso. Si ha quindi discarica abusiva "tutte le volte
in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti
vengono scaricati in una determinata area, trasformata di
fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale
carattere di definitività, in considerazione delle quantità
considerevoli degli stessi e dello spazio occupato"
(Cass. Sez. III n. 27296, 17/06/2004).
Anche la differenza con il mero abbandono di rifiuti è stata
individuata evidenziando la natura occasionale e discontinua
di tale attività rispetto a quella, abituale o organizzata,
di discarica (Sez. III n. 25463, 15.04.2004).
Concludendo, la discarica abusiva dovrebbe presentare,
tendenzialmente, una o più tra le seguenti caratteristiche,
la presenza delle quali costituisce valido elemento per
ritenere configurata la condotta vietata: accumulo, più o
meno sistematico, ma comunque non occasionale, di rifiuti in
un'area determinata; eterogeneità dell'ammasso dei
materiali; definitività del loro abbandono; degrado, quanto
meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della
presenza dei materiali in questione.
Si è ulteriormente precisato che il reato di discarica
abusiva è configurabile anche in caso di accumulo di rifiuti
che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per
ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi
alla legge e comportino il degrado dell'area su cui
insistono, anche se collocata all'interno dello stabilimento
produttivo (Cass. Sez. III n. 41351, 06/11/2008; n. 2485,
17/01/2008; n. 10358, 09/03/2007).
Con riferimento al reato di abbandono, ai fini della sua
configurabilità rileva anche la posizione di titolare di
imprese o responsabile di ente dell'agente, come tale
dovendosi intendere chiunque abbandoni rifiuti nell'ambito
di una attività economica esercitata anche di fatto,
indipendentemente da una qualificazione formale sua o
dell'attività medesima (principio ribadito in Cass. Sez. III
n. 38364, 18/09/2013).
RIFIUTI – Discarica abusiva o abbandono
di rifiuti - Semplice inerzia del proprietario o possessore
del terreno - Concorso nel reato – Esclusione - Art. 40 cod.
pen..
In tema di rifiuti, il concorso del proprietario o
possessore del terreno interessato dalla presenza di
rifiuti, la giurisprudenza ha più volte precisato che la
semplice inerzia, conseguente all'abbandono da parte di
terzi o la consapevolezza di tale condotta da altri posta in
essere non sono idonee a configurare il reato di abbandono e
ciò sul presupposto che una condotta omissiva può dare luogo
a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano
gli estremi del comma secondo dell'art. 40 cod. pen., ovvero
sussista l'obbligo giuridico di impedire l'evento (Cass.
Sez. III n. 31488, 29/07/2008; Sez. III n. 32158,
01/07/2002; Sez. III n. 8944, 02/07/1997), altrettanto si è
affermato con riferimento alle ipotesi di discarica abusiva
(Cass. Sez. III n. 23091, 29/05/2013; Sez. III n. 46072,
15/12/2008; Sez. III n. 41838, 07/11/2008; Sez. III n.
39641, 28/10/2007; Sez. III n. 2206,19/1/2006; Sez. III n.
21966, 10/06/2005) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2013 n. 47501 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
preavviso di rigetto nei procedimenti ad istanza di parte,
ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, ha
natura endoprocedimentale e non è immediatamente
impugnabile, né di norma sussiste per l’interessato l’onere
di impugnarlo congiuntamente al provvedimento negativo
finale.
E' invero pacifico che il preavviso di rigetto nei
procedimenti ad istanza di parte, ai sensi dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990, ha natura endoprocedimentale e
non è immediatamente impugnabile, né di norma sussiste per
l’interessato l’onere di impugnarlo congiuntamente al
provvedimento negativo finale (cfr., per tutte: Cons. Stato,
sez. IV, 12.09.2007 n. 4828)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 15.11.2013 n. 1200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo cimiteriale riguarda anche gli edifici sparsi
utilizzati per il ricovero di attrezzi agricoli o aventi
destinazione diversa da quella abitativa, ponendosi persino
rispetto ad essi l'esigenza, perseguita dall'art. 338, comma
1, del R.D. n. 1265/1934, di salvaguardare la salubrità
pubblica e di consentire futuri ampliamenti del cimitero.
Infatti, l'apposizione del vincolo in questione persegue una
molteplicità di interessi pubblici: la tutela di esigenze
igienico sanitarie e della sacralità del luogo, l'interesse
a mantenere un'area di possibile espansione del perimetro
cimiteriale; pertanto anche la costruzione di case sparse, e
persino la realizzazione di edifici isolati non destinati ad
abitazione, deve rispettare la distanza minima di 200 metri,
senza che sia richiesta all'Ente pubblico una valutazione in
concreto della compatibilità della presenza del manufatto
rispetto al vincolo de quo.
Il ricorso è infondato.
Si prescinde dalla questione dell’ammissibilità di un’azione
volta alla conferma della parte dispositiva del
provvedimento impugnato e alla modifica, invece, della sua
motivazione, concretando tale azione la richiesta di una
pronuncia di accertamento negativo di natura dichiarativa
non ammissibile nell’ambito della giurisdizione di
legittimità qual è quella oggetto del presente scrutinio
giurisdizionale.
Va innanzi tutto rilevato che il provvedimento impugnato è
conseguente a due espresse domande di sanatoria presentate
dal ricorrente che obbligava l’Amministrazione comunale a
istruire il relativo procedimento e a concluderlo con un
provvedimenti definitivi, come correttamente avvenuto.
La tesi, poi, che nella specie si tratterebbe di manufatti
privi di rilievo urbanistico-edilizio è smentita per
tabulas dalla consistenza dei manufatti stessi (due
capanne agricole che ricoprono l’una una superficie di mq.
53,64 e l’altra una superficie di mq. 15,84), confermata
dalla documentazione fotografica che evidenzia che si tratta
di opere che, se pur realizzate con materiale precario,
insistono stabilmente sul terreno sul quale sono collocate.
In base, pertanto, all’art. 10 del t.u. n. 380 del 2001,
concretandosi una trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio le stesse opere erano soggette al permesso di
costruire. Donde il loro rilievo sotto il profilo del
rispetto dell’area di vincolo cimiteriale.
E dal momento che non è contestato che le stesse capanne
insistono entro la fascia di 200 metri del vincolo
cimiteriale, come indicato nei provvedimenti di diniego
impugnati, e che la sussistenza di un tale vincolo sia
ostativo alla permanenza di opere rilevanti sul piano
urbanistico-edilizio, le opere realizzate abusivamente non
sono sanabili stante l’inedificabilità assoluta derivante
dal disposto dell’art. 338 del testo unico sulla sanità.
Va comunque rilevato, per completezza, che il vincolo
cimiteriale riguarda anche gli edifici sparsi (Cons. Stato,
V, 14/09/2010, n. 6671; idem, 03/05/2007, n. 1933; TAR
Campania, Napoli, II, 13/02/2009, n. 802; idem, 25/01/2007,
n. 711) utilizzati per il ricovero di attrezzi agricoli o
aventi destinazione diversa da quella abitativa (Cons.
Stato, V, 23/08/2000, n. 4574), ponendosi persino rispetto
ad essi l'esigenza, perseguita dall'art. 338, comma 1, del
R.D. n. 1265/1934, di salvaguardare la salubrità pubblica e
di consentire futuri ampliamenti del cimitero (TAR Toscana,
sez. III, 25.10.2011 n. 1542; TAR Abruzzo, L'Aquila, I,
14/10/2008, n. 1141).
Infatti, l'apposizione del vincolo in questione persegue una
molteplicità di interessi pubblici: la tutela di esigenze
igienico sanitarie e della sacralità del luogo, l'interesse
a mantenere un'area di possibile espansione del perimetro
cimiteriale; pertanto anche la costruzione di case sparse, e
persino la realizzazione di edifici isolati non destinati ad
abitazione, deve rispettare la distanza minima di 200 metri,
senza che sia richiesta all'Ente pubblico una valutazione in
concreto della compatibilità della presenza del manufatto
rispetto al vincolo de quo (Tar Toscana, sez. II,
27.11.2008, n. 3046; Cons. Stato, sez. V, 03.05.2007, n.
1933; idem, 27.08.1999, n. 1006)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.11.2013 n. 1553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato
alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto
possa essere utile a un esame contestuale e sollecito
dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri
procedimenti, non è ex se idoneo a legittimare dal punto di
vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un
autonomo, espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio
da parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha
poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua
conseguente funzione di co-gestione del vincolo.
Infondato è anche l’ulteriore motivo col quale si denuncia
l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha
ritenuto sussistente il vizio di mancata acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, tornando parte appellante
a insistere nella propria tesi secondo cui tale assenso
sarebbe implicito nella mancata partecipazione della
competente Soprintendenza alla conferenza di servizi che ha
istruito il permesso di costruire de quo.
Al riguardo, in disparte i rilievi svolti dal primo giudice
in ordine alla non significatività di tale mancata
partecipazione anche per le circostanze di tempo e di luogo
in cui si è verificata, la Sezione non ritiene di doversi
discostare dal consolidato indirizzo secondo cui il modulo
della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle
vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa
essere utile a un esame contestuale e sollecito dell’istanza
e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti,
non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista
paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo,
espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da parte
dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha poi
esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua
conseguente funzione di co-gestione del vincolo (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 18.04.2011, nr. 2378; id., 11.12.2008, nr.
5620)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2013 n. 3755 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva punibile anche per colpa.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva, sia negoziale
sia materiale, possa essere commessa anche per colpa, non è
ravvisabile, infatti, alcuna eccezione al principio generale
stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4° comma, cod. pen..
Il venditore non può predisporre l'alienazione degli
immobili in una situazione produttrice di alterazione o immutazione circa la programmata destinazione della zona in
cui gli stessi sono situati ed i soggetti che acquistano
devono essere cauti e diligenti nell'acquisire conoscenza
delle previsioni urbanistiche e pianificatorie di zona (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.11.2013 n. 45611 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Necessità di valutazione unitaria
dell'intervento edilizio.
Un intervento edilizio deve essere considerato nel suo
complesso e le opere realizzate non posso essere valutate
autonomamente e separatamente come pertinenze
(Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 13.11.2013
n. 45598 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Legittimità ordinanza del Sindaco dall’art. 17,
comma 2, del d.lgs. 22/1997 per bonifica e ripristino
ambientale.
E’ legittima l’ordinanza del Sindaco con
la quale è stato ordinato di provvedere, secondo quanto
previsto dall’art. 17, comma 2, del D.Lgs. n. 22/1997 e
s.m.i., alla messa in sicurezza, alla bonifica ed al
ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti
dai quali derivi pericolo di inquinamento.
E’ stato affermato in giurisprudenza che la responsabilità
dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da
quella del proprietario non inquinatore, costituisce una
vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree
inquinate.
Dalla natura oggettiva della responsabilità in questione è
desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di
legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del
1997, in connessione con una condotta «anche accidentale»,
ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento
soggettivo doloso o colposo in capo all'autore
dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur
sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o
l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la
contaminazione e/ o il suo aggravamento in coerenza con il
principio comunitario «chi inquina paga», principio che
risulta espressamente richiamato dall'art. 15, direttiva n.
91/156, di cui il d.lgs. del 1997 costituisce recepimento
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4784 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sviluppo sostenibile. Legittimità autorizzazione alla
costruzione e all'esercizio di un impianto fotovoltaico in
zona agricola.
L’art. 12, settimo comma, del d.lgs.
29.12.2003, n. 387, esplicitamente ammette la realizzazione
di impianti di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili anche nelle zone classificate agricole dai
vigenti piani urbanistici.
La norma costituisce, più che espressione di un principio,
attuazione dell’obbligo assunto dalla Repubblica nei
confronti dell’Unione Europea di rispetto della normativa
dettata da quest’ultima con la richiamata direttiva
2001/77/CE.
Di conseguenza, la stessa vincola l’interpretazione della
pur sopravvenuta legge regionale del Veneto 23.04.2004, n.
44, che non può essere intesa nel senso dell’implicita
abrogazione della norma statale
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 26.09.2013, n. 4755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità computo ai fini del costo di costruzione della
superficie interrata destinata a parcheggi pertinenziali.
L’art. 9 della legge n. 122/1989 trova applicazione soltanto
nelle ipotesi di creazione di parcheggi a favore del
patrimonio edilizio già esistente e che sia privo di
superfici con tale destinazione, ma non può estendersi anche
alla diversa ipotesi inerente la edificazione di nuovi
fabbricati in cui siano contestualmente previste anche
superfici per parcheggio, da realizzare obbligatoriamente
nella misura di legge.
La norma anzidetta stabilisce che
l’esecuzione dei parcheggi interrati, assentibile previa
autorizzazione gratuita, anche in deroga alle previsioni
degli strumenti urbanistici, deve essere destinata a
pertinenza delle singole unità immobiliari esistenti, con
riferimento alle quali soltanto è possibile realizzare, nel
sottosuolo o nel piano terreno del fabbricato, un
parcheggio, che nasce come pertinenza dell’unità medesima.
---------------
I parcheggi
obbligatori di cui all'art. 2, comma 2, l. 122/1989
costituiscono pertinenza in senso civilistico dell’unità
immobiliare principale e, quindi, ne seguono la sorte ai
fini del computo delle SNR e del calcolo dei corrispondenti
oneri concessori.
La norma dell’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, che consente di
realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi
da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è
una norma che ponendosi in deroga “agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti” è di
stretta interpretazione per cui deve trovare rigorosa
applicazione solo nelle fattispecie in essa espressamente
previsti.
La norma anzidetta stabilisce che l’esecuzione dei parcheggi
interrati, assentibile previa autorizzazione gratuita, anche
in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, deve
essere destinata a pertinenza delle singole unità
immobiliari esistenti, con riferimento alle quali soltanto è
possibile realizzare, nel sottosuolo o nel piano terreno del
fabbricato, un parcheggio, che nasce come pertinenza
dell’unità medesima.
Dalla natura “eccezionale” della disposizione
legislativa de qua, discende, in coerenza con il
divieto di cui all’art. 14 delle Disposizioni Preliminari al
Codice Civile, che l’art. 9 della legge n. 122/1989 trova
applicazione soltanto nelle ipotesi di creazione di
parcheggi a favore del patrimonio edilizio già esistente e
che sia privo di superfici con tale destinazione, ma non può
estendersi anche alla diversa ipotesi inerente la
edificazione di nuovi fabbricati in cui siano
contestualmente previste anche superfici per parcheggio, da
realizzare obbligatoriamente nella misura di legge.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente, cui
questa sezione intende dare continuità, l’art. 9 della legge
24.03.1989, n. 122, nel consentire la costruzione di
parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti
al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina
urbanistica, concerne i soli fabbricati già esistenti e non
anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare
edifici nuovi, per i quali invece provvede l’art. 2, comma
2, della legge stessa che, nel novellare l’art. 41-sexies,
della legge fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce
l’obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di
misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.03.2011 n. 1565; sez. V,
24.10.2000 n. 5676; 27.09.1999 n. 1185).
Nella specie, poiché non è controverso che l’intervento
edilizio abbia riguardato una costruzione di nuova
realizzazione, devono, per l’effetto, ritenersi prive di
consistenza le doglianze della parte ricorrente, poiché i
parcheggi obbligatori di cui al richiamato art. 2, comma 2,
costituiscono pertinenza in senso civilistico dell’unità
immobiliare principale e, quindi, ne seguono la sorte ai
fini del computo delle SNR e del calcolo dei corrispondenti
oneri concessori (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.09.2013 n. 2192 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di conformità),
comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha
natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è
un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto, con
conseguente onere impugnatorio immediato da parte del
soggetto richiedente del diniego tacito in tal modo
formatosi sulla sua istanza.
---------------
L'accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001 investe profili distinti ed autonomi rispetto
all'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167
comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004. Cosicché le vicende
concernenti il primo procedimento non sono da reputarsi
suscettibili di incidere sull'iter corrispondente al
secondo.
L’art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di
conformità), comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di
permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata
motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la
richiesta si intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha
natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è
un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto (Cons.
St., sez. IV, 13.01.2010, n. 100), con conseguente onere
impugnatorio immediato da parte del soggetto richiedente del
diniego tacito in tal modo formatosi sulla sua istanza.
--------------
In particolare, la
giurisprudenza ha precisato che “L'accertamento di
conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 investe
profili distinti ed autonomi rispetto all'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 comma 4, d.lgs. n.
42 del 2004. Cosicché le vicende concernenti il primo
procedimento non sono da reputarsi suscettibili di incidere
sull'iter corrispondente al secondo” (Tar Napoli, sez.
VIII, 01.09.2011, n. 4270) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 24.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
Collegio condivide la tesi del ricorrente, circa la natura
speciale della normativa che disciplina il funzionamento
della Polizia Municipale, aspetto questo che la
giurisprudenza pacificamente presuppone perché la considera
una condizione di autonomia del Corpo rispetto
all’organizzazione dell’Ente, servente e funzionale alla
garanzia delle peculiari funzioni di vigilanza, ordine
pubblico, controllo del territorio e così via.
Per tali ragioni, la giurisprudenza consolidata statuisce
che, nell'ambito dell'organizzazione comunale deve essere
sempre garantita la totale autonomia del Corpo di polizia
municipale per quanto concerne le competenze di cui all'art.
9 l. n. 65 del 1986 ed è anche per tali ragioni che, una
volta eretta in Corpo, la polizia municipale non può essere
considerata una struttura intermedia in una struttura
burocratica più ampia, per esempio un settore
amministrativo, né essere posta alle dipendenze del
dirigente amministrativo di tale struttura.
Si è quindi espressamente riconosciuto che la legge quadro
n. 65/1986 riveste, tuttora, carattere di "legge generale",
per quanto attiene alla definizione dei principi
organizzativi dei comuni nello specifico settore della
polizia municipale -dal momento che è diretta a fissare i
principi generali cui dovranno adeguarsi la legislazione
regionale ed il potere regolamentare dell'ente locale-,
nonché possiede un indubbio carattere di "specialità" che
non consente l'abrogazione implicita da parte della
sopravvenuta legge di riforma del sistema delle autonomie
locali (TAR Lazio Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305, già
richiamata, secondo cui la materia della polizia
amministrativa locale, afferendo piuttosto al "governo del
territorio", non rientra nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato ex art. 117, c. 2, lett. h, Cost.,
bensì in quella concorrente Stato-Regione (art. 117, c. III,
Cost.).
Dunque, la particolarità delle funzioni che la Polizia
Municipale è chiamata ad assolvere ne rende l’ordinamento
distinto dalle disposizioni generali in tema di
organizzazione degli Enti locali, che possono trovare
applicazione ad esso solamente laddove non diversamente
disposto dalla normativa speciale e di settore, e solo a
fini di coordinamento tra l’organizzazione della Polizia
Municipale ed il resto dell’organizzazione comunale.
In questo senso, ed ancora richiamando quanto affermato in
giurisprudenza, tra le due discipline sussiste un “punto di
equilibrio” che “consiste …nel riconoscere la piena
autonomia del comandante limitatamente alla sfera di
competenze che con carattere di tassatività sono state
individuate nei competenti articoli della legge quadro
nazionale e regionale di settore, come la gestione delle
risorse assegnate, l'impiego tecnico-operativo, la
disciplina e l'addestramento degli appartenenti al corpo o
al servizio….. mentre la suddetta autonomia esclusiva non
può, in astratto, impedire che il Comandante della P.M., per
gli aspetti organizzativi che esulano appunto dall'impiego
tecnico operativo, dall'addestramento e dalla disciplina dei
vigili, possa formalmente essere inquadrato in un settore
amministrativo.
Viene in gioco, al riguardo, la (discrezionale) potestà
amministrativa che consente al comune di organizzare la
polizia locale, anziché come "Corpo", in "Servizio" autonomo
all'interno di un più vasto "Settore" (macro
organizzazione), nell'ambito del quale possono confluire,
per ragioni di economicità ed efficienza, anche altri
"Servizi" oltre quello di vigilanza.
In tali casi, è legittimo che la direzione dell'intero
"settore" (comprensivo di più "servizi") sia affidata ad un
dirigente amministrativo (non graduato); si tratta, infatti,
di una scelta in linea non solo con la temporaneità ed
interscambiabilità degli incarichi dirigenziali (art. 109,
D.Lvo n. 267/2000; art. 2103 Cod. civ.) bensì, anche con il
principio, posto dal buon senso, prima ancora che dalla
legge, della esclusività e necessità delle funzioni di
polizia per cui é ragionevole che chi deve controllare sia
ed appaia "terzo" rispetto alle situazioni oggetto del
controllo; una scelta volta anche ad eliminare possibili
situazioni di incompatibilità della funzione di comandante
con altre funzioni o incarichi all'interno
dell'amministrazione comunale.
L'unica condizione dovrà essere che al Comandante collocato
alle dipendenze del dirigente del settore non siano
sottratte le esclusive attribuzioni garantitegli dalla
legge".
--------------
Non può negarsi il potere del Comune di modificare l’assetto
di un Settore di Polizia Municipale trasformandolo in
Servizio.
Infatti, la giurisprudenza riconosce, sul piano delle scelte
di politica organizzativa interna dell’Ente, il potere del
Comune di strutturare la propria Polizia Municipale in
Settore oppure in Corpo e tale potere non può essere scisso
dalla possibilità di trasformare l’uno nell’altro e
viceversa, a seconda delle esigenze organizzative dell’Ente,
le sue dimensioni, e nel rispetto dei presupposti di legge e
con la precisazione che, in ogni caso il vertice della
Polizia Municipale deve essere salvaguardato nella sua
autonomia rispetto all’organo politico ed alle rimanenti
strutture amministrative dell’Ente, nell’esercizio delle
proprie funzioni.
Tuttavia, si deve trarre da quanto esposto l’ulteriore
corollario che la possibilità di trasformare un Settore di
Polizia Municipale in Servizio è una scelta non rimessa alla
mera discrezionalità dell’Ente, ma da esercitarsi in un
contesto generale di razionalità, e con caratteristiche tali
da palesarne la logica in termini di efficacia, efficienza e
trasparenza dell’azione amministrativa, sul piano
organizzativo.
Sebbene è vero che gli atti di organizzazione non richiedono
una puntuale motivazione, è altrettanto vero che la
contestazione di atti di macroorganizzazione che è affidata
alla giurisdizione del giudice amministrativo, comporta
necessariamente che sia possibile censurare da parte del
ricorrente la coerenza dell’organizzazione dell’Ente con gli
scopi istituzionali che quell’organizzazione deve
presupporre e perseguire, ciò che fonda l’obbligo
processuale dell’Amministrazione di dimostrare in giudizio
la sussistenza di criteri di razionalità ed efficienza nella
scelta organizzativa oggetto di causa.
In altri termini, ciò che difetta, ex lege 241/1990, in
termini di obbligo puntuale di motivazione negli atti di
macroorganizzazione, è compensato dalla necessità di
sindacarne i limiti in relazione al principio di legalità di
cui all’art. 97 della Cost. a norma del quale i pubblici
uffici sono organizzati secondo legge. Tale previsione
radica un obbligo di conformazione delle scelte
organizzative di un Ente locale ai principi informatori che
la legge pone come scopo funzionale dell’organizzazione
medesima: invero, l’organizzazione di un pubblico ufficio
altro non è, sul piano strutturale, che la precondizione
necessaria allo svolgimento delle funzioni che la PA è
chiamata ad assolvere e la sua struttura deve possedere i
requisiti necessari a consentire in termini di effettività e
di efficacia lo svolgimento di esse.
Si deve quindi affermare che può formare oggetto di giudizio
e dunque di sindacato del giudice amministrativo la coerenza
delle scelte di macroorganizzazione di un Ente con le
finalità specifiche di servizio che la legge, o gli atti
regolamentari e statutari che, in forza di legge, sono
adottati dagli Enti locali, pongono in relazione
all’organizzazione della PA, sotto il profilo
dell’accertamento dell’attitudine dell’organizzazione e
della sua struttura ad assolvere i compiti di istituto
assegnati.
---------------
La censura con la quale si lamenta l’immotivata ed
irrazionale destrutturazione della Polizia Municipale
mediante la sostituzione integrale della originaria
dotazione organica di sette unità di categoria “C” e “D” in
sei unità di categoria “B” ed una di categoria “D”, senza
alcuna utilità sul piano organizzativo e dell’assolvimento
del servizio, va ritenuta fondata, analogamente a quanto già
statuito in fattispecie analoghe.
Infatti, dalle difese comunali e dagli atti amministrativi
impugnati o quelli comunque versati in giudizio, non risulta
emergere alcuna coerenza nel depotenziamento della Polizia
Municipale del Comune mediante la dequalificazione radicale
del suo organico, rispetto alle esigenze di servizio che la
legge prefigge.
A fronte di un organico perfettamente idoneo –per qualifiche
previste- a svolgere tutti i compiti che la legge assegna
alla Polizia Municipale, con particolare riferimento a
quelli, di delicata natura, di accertamento e prevenzione,
tutela dell’ordine pubblico e funzioni di polizia
giudiziaria, la Polizia Municipale riformata in un servizio
composto per la quasi totale prevalenza da ausiliari alla
sosta è strutturalmente posta nelle condizioni di non poter
più adempiere a quasi nessuno dei propri compiti
istituzionali e tutto ciò senza che si possa ravvisare dal
complesso degli atti versati in giudizio, alcuna ragionevole
motivazione organizzativa in tal senso.
Né soccorre, anche in via meramente ipotetica, una eventuale
ragione di esigenze di risparmio di spesa, peraltro
insufficienti di per sé a giustificare un così drastico
ridimensionamento di un settore così complesso, perché, in
ogni caso, avrebbero richiesto una efficace dimostrazione
anche in giudizio (per chiarire, ad esempio, la convenienza
di un minimo risparmio in termini di organico rispetto ai
mancati introiti derivanti all’Ente dalla cessazione dei
controlli sul territorio dal punto di vista delle violazioni
commerciali ed edilizie, per non parlare dell’accertamento
dei tributi e delle tariffe in sede locale e così via).
Le deliberazioni impugnate sono dunque illegittime, e, nella
parte di interesse, vanno annullate, con conseguente
riviviscenza delle deliberazioni in precedenza adottate che
istituivano e disciplinavano il Corpo di Polizia Municipale
e la sua dotazione organica di sei unità di ctg “C”.
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La natura speciale della disciplina della Polizia Municipale
conduce a negare che la disposizione di cui all’art. 53
della l. 23.12.2000, n. 338 (L.F. 2001), così come
modificato dall’art. 29, comma 4, L. 28.12.2001, n. 448
(L.F. 2002) trovi applicazione alla Polizia Municipale, il
cui ordinamento è retto dalla l. 65/1986 che dispone
puntualmente (ed in maniera disomogenea rispetto alle
previsioni generali di cui all’art. 107 Dlgs 267/2000)
quanto alla responsabilità ed alla direzione delle relative
unità organizzative, una volta istituito il Corpo di Polizia
Municipale.
La disposizione, infatti, così recita: “Gli enti locali con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche
al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3,
commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
Di conseguenza la disposizione eccezionale, come tale di
stretta interpretazione (e che, come anticipato prima,
presuppone l’attuazione della deroga in via necessariamente
regolamentare e non per mero atto del Sindaco) consente di
derogare solamente alle disposizioni generali costituite
dall’art. 107 del Dlgs 267/2000, oltre che del Dlgs 29/1993
e dunque non permette alcuna interpretazione estensiva che
conduca a ritenere di poter consentire la deroga della l.
65/1986 (e, di conseguenza, alle LR in materia di Polizia
Municipale).
Peraltro, sotto il profilo della ratio di questa
differenziazione, la normativa di cui alla l. 65/1986 non è
assimilabile alla disciplina generale di cui al menzionato
art. 107, perché delinea un rapporto tra Sindaco e
Comandante della Polizia Municipale che è particolare ed
esclusivo, in quanto è fondato sulla dualità delle funzioni,
che non possono sommarsi nella medesima persona o nel
medesimo organo e che va comunque assicurata (e si è visto
sub I che la giurisprudenza ritiene speciale la disciplina
di cui alla legge 65/1986 rispetto a quella generale degli
impieghi) anche perché il responsabile di un ufficio di
Polizia Municipale ha compiti di legge che presuppongono
l’appartenenza organica all’Ente e non può quindi comunque
identificarsi nel Sindaco.
E' necessario, per esaminare le diverse censure proposte dal
ricorrente, premettere una sintetica analisi del contesto
normativo di riferimento.
A tale proposito, il Collegio condivide la tesi del
ricorrente, circa la natura speciale della normativa che
disciplina il funzionamento della Polizia Municipale,
aspetto questo che la giurisprudenza pacificamente
presuppone perché la considera una condizione di autonomia
del Corpo rispetto all’organizzazione dell’Ente, servente e
funzionale alla garanzia delle peculiari funzioni di
vigilanza, ordine pubblico, controllo del territorio e così
via.
Per tali ragioni, la giurisprudenza consolidata statuisce
che, nell'ambito dell'organizzazione comunale deve essere
sempre garantita la totale autonomia del Corpo di polizia
municipale per quanto concerne le competenze di cui all'art.
9 l. n. 65 del 1986 (TAR Lombardia Milano, sez. III, 10.09.2009, n. 4639, che richiama Cass.
09.05.2006,
n. 10628; Consiglio Stato, sez. V, 20.01.2003, n.
173; Consiglio Stato , sez. V, 17.02.2006, n. 616;
TAR Puglia Bari, sez. II, 12.03.2004, n. 1288; TAR
Lazio Roma, sez. II, 10.03.1998 , n. 385; TAR Veneto,
sez. II, 30.05.1997, n. 915; TAR Marche, 09.11.1995, n. 547) ed è anche per tali ragioni che, una volta
eretta in Corpo, la polizia municipale non può essere
considerata una struttura intermedia in una struttura
burocratica più ampia, per esempio un settore
amministrativo, né essere posta alle dipendenze del
dirigente amministrativo di tale struttura (TAR Lazio
Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305 che richiama Tar
Sicilia, Catania, sez. I, 13.04.2006, n. 589; C.d.s. 04/09/2000 n. 4663).
Si è quindi espressamente riconosciuto
che la legge quadro n. 65/1986 riveste, tuttora, carattere
di "legge generale", per quanto attiene alla definizione dei
principi organizzativi dei comuni nello specifico settore
della polizia municipale -dal momento che è diretta a
fissare i principi generali cui dovranno adeguarsi la
legislazione regionale ed il potere regolamentare dell'ente
locale-, nonché possiede un indubbio carattere di
"specialità" che non consente l'abrogazione implicita da
parte della sopravvenuta legge di riforma del sistema delle
autonomie locali (TAR Lazio Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305, già richiamata, secondo cui la materia della
polizia amministrativa locale, afferendo piuttosto al
"governo del territorio", non rientra nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, c. 2, lett.
h, Cost., bensì in quella concorrente Stato-Regione (art.
117, c. III, Cost.).
Dunque, la particolarità delle funzioni che la Polizia
Municipale è chiamata ad assolvere ne rende l’ordinamento
distinto dalle disposizioni generali in tema di
organizzazione degli Enti locali, che possono trovare
applicazione ad esso solamente laddove non diversamente
disposto dalla normativa speciale e di settore, e solo a
fini di coordinamento tra l’organizzazione della Polizia
Municipale ed il resto dell’organizzazione comunale.
In questo senso, ed ancora richiamando quanto affermato in
giurisprudenza, tra le due discipline sussiste un “punto di
equilibrio” che “consiste …nel riconoscere la piena
autonomia del comandante limitatamente alla sfera di
competenze che con carattere di tassatività sono state
individuate nei competenti articoli della legge quadro
nazionale e regionale di settore, come la gestione delle
risorse assegnate, l'impiego tecnico-operativo, la
disciplina e l'addestramento degli appartenenti al corpo o
al servizio….. mentre la suddetta autonomia esclusiva non
può, in astratto, impedire che il Comandante della P.M., per
gli aspetti organizzativi che esulano appunto dall'impiego
tecnico operativo, dall'addestramento e dalla disciplina dei
vigili, possa formalmente essere inquadrato in un settore
amministrativo.
Viene in gioco, al riguardo, la
(discrezionale) potestà amministrativa che consente al
comune di organizzare la polizia locale, anziché come
"Corpo", in "Servizio" autonomo all'interno di un più vasto
"Settore" (macro organizzazione), nell'ambito del quale
possono confluire, per ragioni di economicità ed efficienza,
anche altri "Servizi" oltre quello di vigilanza.
In tali
casi, è legittimo che la direzione dell'intero "settore"
(comprensivo di più "servizi") sia affidata ad un dirigente
amministrativo (non graduato); si tratta, infatti, di una
scelta in linea non solo con la temporaneità ed
interscambiabilità degli incarichi dirigenziali (art. 109, D.Lvo n. 267/2000; art. 2103 Cod. civ.) bensì, anche con il
principio, posto dal buon senso, prima ancora che dalla
legge, della esclusività e necessità delle funzioni di
polizia per cui é ragionevole che chi deve controllare sia
ed appaia "terzo" rispetto alle situazioni oggetto del
controllo; una scelta volta anche ad eliminare possibili
situazioni di incompatibilità della funzione di comandante
con altre funzioni o incarichi all'interno
dell'amministrazione comunale.
L'unica condizione dovrà
essere che al Comandante collocato alle dipendenze del
dirigente del settore non siano sottratte le esclusive
attribuzioni garantitegli dalla legge” (TAR Lazio, sent. nr.
305/2007, che nei casi in cui il comune organizza le proprie
strutture in Settori, ha ritenuto legittimo che l'attività
di polizia municipale venga organizzata, ai sensi dell'art.
12, c. I, l.r. Lazio n. 1/2005, in "servizio" all'interno
della più vasta struttura (il "settore") articolata in una
pluralità di "servizi" con al vertice un dirigente
amministrativo con compiti di coordinamento strutturale, con
la sola condizione, per la legittimità dell'opzione, di
salvaguardare l'autonomia funzionale e gerarchica del
comandante, limitatamente all'esercizio delle prerogative di
cui all'art. 9, L. n. 65/1986, per le quali il comandante
deve rapportarsi unicamente ed esclusivamente al sindaco).
Dal quadro appena esposto, emerge dunque che non può negarsi
il potere del Comune di modificare l’assetto di un Settore
di Polizia Municipale trasformandolo in Servizio, ed in
questo la tesi difensiva di parte ricorrente va disattesa.
Infatti, la giurisprudenza riconosce, sul piano delle scelte
di politica organizzativa interna dell’Ente, il potere del
Comune di strutturare la propria Polizia Municipale in
Settore oppure in Corpo e tale potere non può essere scisso
dalla possibilità di trasformare l’uno nell’altro e
viceversa, a seconda delle esigenze organizzative dell’Ente,
le sue dimensioni, e nel rispetto dei presupposti di legge e
con la precisazione che, in ogni caso il vertice della
Polizia Municipale deve essere salvaguardato nella sua
autonomia rispetto all’organo politico ed alle rimanenti
strutture amministrative dell’Ente, nell’esercizio delle
proprie funzioni.
Tuttavia, a vantaggio delle tesi di parte ricorrente, si
deve trarre da quanto esposto l’ulteriore corollario che la
possibilità di trasformare un Settore di Polizia Municipale
in Servizio è una scelta non rimessa alla mera
discrezionalità dell’Ente, ma da esercitarsi in un contesto
generale di razionalità, e con caratteristiche tali da
palesarne la logica in termini di efficacia, efficienza e
trasparenza dell’azione amministrativa, sul piano
organizzativo.
Sebbene è vero che gli atti di organizzazione non richiedono
una puntuale motivazione, è altrettanto vero che la
contestazione di atti di macroorganizzazione che è affidata
alla giurisdizione del giudice amministrativo, comporta
necessariamente che sia possibile censurare da parte del
ricorrente la coerenza dell’organizzazione dell’Ente con gli
scopi istituzionali che quell’organizzazione deve
presupporre e perseguire, ciò che fonda l’obbligo
processuale dell’Amministrazione di dimostrare in giudizio
la sussistenza di criteri di razionalità ed efficienza nella
scelta organizzativa oggetto di causa.
In altri termini, ciò che difetta, ex lege 241/1990, in
termini di obbligo puntuale di motivazione negli atti di macroorganizzazione, è compensato dalla necessità di
sindacarne i limiti in relazione al principio di legalità di
cui all’art. 97 della Cost. a norma del quale i pubblici
uffici sono organizzati secondo legge. Tale previsione
radica un obbligo di conformazione delle scelte
organizzative di un Ente locale ai principi informatori che
la legge pone come scopo funzionale dell’organizzazione
medesima: invero, l’organizzazione di un pubblico ufficio
altro non è, sul piano strutturale, che la precondizione
necessaria allo svolgimento delle funzioni che la PA è
chiamata ad assolvere e la sua struttura deve possedere i
requisiti necessari a consentire in termini di effettività e
di efficacia lo svolgimento di esse.
Si deve quindi affermare che può formare oggetto di giudizio
e dunque di sindacato del giudice amministrativo la coerenza
delle scelte di macroorganizzazione di un Ente con le
finalità specifiche di servizio che la legge, o gli atti
regolamentari e statutari che, in forza di legge, sono
adottati dagli Enti locali, pongono in relazione
all’organizzazione della PA, sotto il profilo
dell’accertamento dell’attitudine dell’organizzazione e
della sua struttura ad assolvere i compiti di istituto
assegnati.
Alla luce di ciò, la censura con la quale si lamenta
l’immotivata ed irrazionale destrutturazione della Polizia
Municipale mediante la sostituzione integrale della
originaria dotazione organica di sette unità di categoria
“C” e “D” in sei unità di categoria “B” ed una di categoria
“D”, senza alcuna utilità sul piano organizzativo e
dell’assolvimento del servizio, va ritenuta fondata,
analogamente a quanto già statuito in fattispecie analoghe (cfr. TAR Sicilia Catania, sez. I, 13.04.2006, n.
589, alla cui approfondita motivazione si rinvia).
Infatti, dalle difese comunali e dagli atti amministrativi
impugnati o quelli comunque versati in giudizio, non risulta
emergere alcuna coerenza nel depotenziamento della Polizia
Municipale del Comune di Bova Marina mediante la
dequalificazione radicale del suo organico, rispetto alle
esigenze di servizio che la legge prefigge.
A fronte di un organico perfettamente idoneo –per
qualifiche previste- a svolgere tutti i compiti che la
legge assegna alla Polizia Municipale, con particolare
riferimento a quelli, di delicata natura, di accertamento e
prevenzione, tutela dell’ordine pubblico e funzioni di
polizia giudiziaria, la Polizia Municipale riformata in un
servizio composto per la quasi totale prevalenza da
ausiliari alla sosta è strutturalmente posta nelle
condizioni di non poter più adempiere a quasi nessuno dei
propri compiti istituzionali e tutto ciò senza che si possa
ravvisare dal complesso degli atti versati in giudizio,
alcuna ragionevole motivazione organizzativa in tal senso.
Né soccorre, anche in via meramente ipotetica, una eventuale
ragione di esigenze di risparmio di spesa, peraltro
insufficienti di per sé a giustificare un così drastico
ridimensionamento di un settore così complesso, perché, in
ogni caso, avrebbero richiesto una efficace dimostrazione
anche in giudizio (per chiarire, ad esempio, la convenienza
di un minimo risparmio in termini di organico rispetto ai
mancati introiti derivanti all’Ente dalla cessazione dei
controlli sul territorio dal punto di vista delle violazioni
commerciali ed edilizie, per non parlare dell’accertamento
dei tributi e delle tariffe in sede locale e così via).
Le deliberazioni impugnate sono dunque illegittime, e, nella
parte di interesse, vanno annullate, con conseguente
riviviscenza delle deliberazioni in precedenza adottate che
istituivano e disciplinavano il Corpo di Polizia Municipale
e la sua dotazione organica di sei unità di ctg “C”.
Quanto al decreto sindacale nr. 1652 dell’08.03.2010,
la riconosciuta interdipendenza funzionale tra la
deliberazione di Giunta nr. 7/2010 ed il decreto nr. 1652/10
conduce intanto a rilevare che l’annullamento della prima
comporta l’automatica caducazione del secondo (naturalmente
nelle parti di interesse).
In ogni caso, richiamando quanto già esposto sub I, la
natura speciale della disciplina della Polizia Municipale
conduce a negare che la disposizione di cui all’art. 53
della l. 23.12.2000, n. 338 (L.F. 2001), così come
modificato dall’art. 29, comma 4, L. 28.12.2001, n. 448
(L.F. 2002) trovi applicazione alla Polizia Municipale, il
cui ordinamento è retto dalla l. 65/1986 che dispone
puntualmente (ed in maniera disomogenea rispetto alle
previsioni generali di cui all’art. 107 Dlgs 267/2000)
quanto alla responsabilità ed alla direzione delle relative
unità organizzative, una volta istituito il Corpo di Polizia
Municipale.
La disposizione, infatti, così recita: “Gli enti locali con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993,
n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del
predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
Di conseguenza la disposizione eccezionale, come tale di
stretta interpretazione (e che, come anticipato prima,
presuppone l’attuazione della deroga in via necessariamente
regolamentare e non per mero atto del Sindaco) consente di
derogare solamente alle disposizioni generali costituite
dall’art. 107 del Dlgs 267/2000, oltre che del Dlgs 29/1993 e
dunque non permette alcuna interpretazione estensiva che
conduca a ritenere di poter consentire la deroga della l.
65/1986 (e, di conseguenza, alle LR in materia di Polizia
Municipale).
Peraltro, sotto il profilo della ratio di questa
differenziazione, la normativa di cui alla l. 65/1986 non è
assimilabile alla disciplina generale di cui al menzionato
art. 107, perché delinea un rapporto tra Sindaco e
Comandante della Polizia Municipale che è particolare ed
esclusivo, in quanto è fondato sulla dualità delle funzioni,
che non possono sommarsi nella medesima persona o nel
medesimo organo e che va comunque assicurata (e si è visto
sub I che la giurisprudenza ritiene speciale la disciplina
di cui alla legge 65/1986 rispetto a quella generale degli
impieghi) anche perché il responsabile di un ufficio di
Polizia Municipale ha compiti di legge che presuppongono
l’appartenenza organica all’Ente e non può quindi comunque
identificarsi nel Sindaco.
Tale principio è ancor più chiaramente rafforzato dalla LR
Calabria nr. 24/1990 che all’art. 2 distingue chiaramente le
funzioni del Sindaco da quelle non solo del Comandante, ma
anche da quelle del responsabile del servizio.
Pertanto, anche sotto questo profilo, il ricorso è fondato e
come tale va accolto, conseguendone l’annullamento degli
atti impugnati, nella parte di interesse (ossia
limitatamente alle disposizioni organizzative relative alla
Polizia Municipale).
Allo scopo di dare compiuta attuazione alla pronuncia, ai
sensi dell’art. 34, lett. “e” del c.p.a., il Collegio
dispone che il Sindaco del Comune di Bova Marina provveda
con proprio atto all’assegnazione della responsabilità del
Corpo di Polizia Municipale a favore del ricorrente entro il
termine di giorni 15 dalla comunicazione della presente
sentenza o sua notifica a cura di parte, se anteriore e, con
deliberazione di Giunta, si adegui il piano triennale delle
risorse umane al fine di prevedere le necessarie forme di
copertura del personale in dotazione organica che è
individuato, salve ulteriori e motivate decisioni del
Comune, nella dotazione risultante dalle deliberazioni
anteriori a quelle impugnate che, per effetto
dell’annullamento di queste ultime, trovano piena
applicazione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 22.03.2011 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 07.01.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
Lombardia: il Tar boccia il Pgt che non prevede
moschee.
Reazione a catena in tutta la Regione?? |
URBANISTICA:
La delibera di approvazione del PGT va
annullata nella parte in cui omette di apprezzare,
attraverso una corretta e completa istruttoria,
quali e quante realtà sociali espressione di
religioni non cattoliche, in ispecie islamiche,
esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in
termini di servizi religiosi e di decidere
motivatamente se e in che misura esse possano essere
soddisfatte nel Piano dei servizi.
Il Piano dei servizi, che ai sensi dell’art. 7
della l.r. 12/2005 è una delle articolazioni del PGT, ai
sensi del successivo art. 9, comma 4, “valuta prioritariamente
l'insieme delle attrezzature al servizio delle funzioni
insediate nel territorio comunale… e, in caso di accertata
insufficienza o inadeguatezza delle attrezzature stesse,
quantifica i costi per il loro adeguamento e individua le
modalità di intervento. Analogamente il piano indica… le
necessità di sviluppo e integrazione dei servizi esistenti,
ne quantifica i costi e ne prefigura le modalità di
attuazione..”.
Ai sensi degli artt. 71 e 72 della stessa l.
12/2005, fanno poi parte dei “servizi” che il relativo Piano
deve considerare anche le “attrezzature di interesse comune
destinate a servizi religiosi”, da pianificare “valutate le
istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di
cui all’articolo 70”.
Quest’ultima norma, infine, considera confessioni
religiose le cui istanze vanno valutate non solo la Chiesa
cattolica, ma anche tutte le altre “confessioni religiose
come tali qualificate in base a criteri desumibili
dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata
e stabile nell’ambito del comune ove siano effettuati gli
interventi disciplinati dal presente capo, ed i cui statuti
esprimano il carattere religioso delle loro finalità
istituzionali”. E’ poi del tutto manifesto che tali
caratteri si riconoscono in una religione diffusa a livello
mondiale come l’Islam.
La stessa norma richiama anche una “previa convenzione”
fra le associazioni ed il Comune interessato, richiamo che
però va interpretato in senso conforme alle norme che nel
nostro ordinamento garantiscono la libertà di culto, ovvero
l’art. 19 Cost., l’art. 9 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848 e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che
come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati
europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tali termini, la stipula di una convenzione deve
ritenersi richiesta per realizzare opere con “contributi e
provvidenze” pubblici, non già semplicemente per essere
presi in considerazione come realtà sociale ai fini della
programmazione dei servizi religiosi, perché a pensarla
altrimenti ogni Comune potrebbe scegliere in modo
discrezionale di promuovere o avversare una qualche
confessione religiosa rispetto ad altre.
Ciò posto, e a prescindere dalla generica possibilità,
allegata dal Comune, di realizzare altrimenti i servizi
religiosi in base alle norme comuni sulla modifica della
destinazione d’uso di immobili esistenti, possibilità
secondo logica dipendente dalle norme di zona, è accertato
quanto l’associazione afferma, ovvero che (v. doc. 12
ricorrente, copia catalogo servizi esistenti; doc. 11
ricorrente, copia relazione generale al PGT, p. 92 § 10) nel
redigere il Piano dei servizi sono stati considerati
soltanto i servizi religiosi collegati alla Chiesa
cattolica. Per conto, la presenza in Brescia di comunità di
cittadini di religione musulmana è dato notorio a livello
locale e nazionale.
La delibera di approvazione del PGT va pertanto
annullata nella parte in cui omette di apprezzare,
attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e
quante realtà sociali espressione di religioni non
cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di
valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e
di decidere motivatamente se e in che misura esse possano
essere soddisfatte nel Piano dei servizi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2013 n. 1176 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Commenti a caldo sulla sentenza de qua:
►
Il Tar boccia il Pgt: non prevede moschee, l’ira di
Maroni: «ricorsi contro questo virus» - Tutto
il centrodestra contro la decisione. «Beccalossi:
a Brescia la moschea c’è già. La Loggia impugni il
provvedimento» (06.01.2014 - link a
http://brescia.corriere.it).
►
Decide il Tar: una moschea per ogni città (06.01.2014
- link a http://www.laprovinciadilecco.it).
►
Brescia, il Tar boccia il Pgt per discriminazione
contro l’Islam - Il presidente lombardo Maroni: “Sentenza-vergogna,
fermeremo il virus” (05.01.2014 -
link a
http://www.lastampa.it).
►
Bocciato il Pgt «Discrimina i non cattolici»
- Il Tar contro la norma anti-moschee: «Ignorate
le esigenze dei cittadini di altre religioni, in
particolare degli islamici» (04.01.2014
- link a http://www.bresciaoggi.it).
►
Tar boccia Pgt Brescia perché non prevede aree per
luoghi di culto per non cattolici - “Una
sentenza che si farà sentire anche al di là dei
confini” dice l’architetto Luciano Lussignoli,
urbanista e tra i consulenti dell’associazione
mussulmana al momento del ricorso. “La stragrande
maggioranza dei Pgt dei centri lombardi e forse
anche fuori dalla regione è scritta infatti come
quello di Brescia" (03.01.2014 - link a
http://www.ilfattoquotidiano.it). |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI - APPALTI:
Sul riconoscimento, o meno, dei debiti fuori
bilancio.
Il riconoscimento dei debiti
fuori bilancio afferisce ad un istituto
pubblicistico previsto dagli artt. 191 e 194 TUEL,
che impone al Comune di valutare e apprezzare
eventuali prestazioni rese in suo favore, ancorché
in violazione formale delle norme di contabilità.
Trattasi di una novità rispetto al precedente
assetto normativo della finanza locale (art. 35,
comma 4, d.lgs. 25.02.1995, n.77 che prevedeva
unicamente, in caso di acquisizione di beni e
servizi in violazione degli obblighi di contabilità,
che “il rapporto obbligatorio intercorre(sse), ai
fini della controprestazione, e per ogni effetto di
legge, tra il privato fornitore e l’amministratore,
funzionario o dipendente che (aveva) consentito la
fornitura”).
L’art. 4 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, confluito
nell’art. 191 del TUEL, ha introdotto il principio
della validità del rapporto obbligatorio
direttamente con l’Amministrazione, a condizione che
la prestazione o il bene fornito siano riconoscibili
come dei debiti fuori bilancio (art. 194) e, quindi,
che siano passibili di dichiarazione di utilità da
parte dell’ente, con conseguente previsione di
spesa, anche fuori bilancio, nel caso in cui il
relativo impegno non sia stato ancora previsto.
La ratio della disciplina contenuta nel TUEL è,
quindi, quella di garantire il riconoscimento di
debiti per prestazioni e servizi resi in favore
dell’ente locale che, benché privi di titolo, siano
considerati utili per l’amministrazione.
Si è recepita in definitiva quella che è stata
l'elaborazione giurisprudenziale, in particolare
della Corte dei conti, ma anche del giudice
ordinario, stabilendo che sono permanentemente
sanabili i debiti derivanti da acquisizioni di beni
e servizi, relativi a spese assunte in violazione
delle norme giuscontabili, per la parte di cui sia
accertata e dimostrata l'utilità e l'arricchimento
che ne ha tratto l'ente locale, sempre che rientrino
nelle funzioni di competenza dell'ente.
Il riconoscimento del debito fuori bilancio
costituisce, pertanto, atto dovuto come si desume
dall’art. 194 del TUEL e l’amministrazione non può
sottrarsi attraverso una semplice e immotivata
comunicazione di un qualunque ufficio, essendo
invece necessario un procedimento ad hoc.
---------------
Quanto al procedimento per il riconoscimento del
debito fuori bilancio, l’art. 194 del TUEL
stabilisce che “con deliberazione consiliare di cui
all’art. 193, comma 2, o con diversa periodicità
stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti
locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori
bilancio derivanti da:… e) acquisizione di beni e
servizi, in violazione degli obblighi di cui ai
commi 1, 2, 3 dell’art. 191, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità e arricchimento per
l’ente, nell’espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza”.
La proposta della deliberazione per il
riconoscimento dei debiti spetta al responsabile del
servizio competente per materia che dovrà accertare
l’eventuale effettiva utilità che l'ente ha tratto
dalla prestazione altrui, che è un concetto di
carattere funzionale, costituendo l'arricchimento un
concetto derivato, teso alla misurazione
dell'utilità ricavata.
E’ quindi necessaria un’attività istruttoria da
parte del responsabile del settore formalizzata in
una relazione che contenga i riferimenti della
situazione debitoria dell’ente da riconoscere
eventualmente ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett.
e), del D.Lgs. n. 267/2000, la sussistenza dei
requisiti oggettivi richiesti per il legittimo
riconoscimento di ciascun debito, ovvero l’utilità e
l’arricchimento per l’Ente di servizi acquisiti
nell’ambito dell’espletamento di servizi di
competenza.
E’ utile rammentare che il riconoscimento dei
debiti fuori bilancio afferisce ad un istituto pubblicistico
previsto dagli artt. 191 e 194 TUEL, che impone al Comune di
valutare e apprezzare eventuali prestazioni rese in suo
favore, ancorché in violazione formale delle norme di
contabilità.
Trattasi di una novità rispetto al precedente assetto
normativo della finanza locale (art. 35, comma 4, d.lgs. 25.02.1995, n. 77 che prevedeva unicamente, in caso di
acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi
di contabilità, che “il rapporto obbligatorio intercorre(sse),
ai fini della controprestazione, e per ogni effetto di
legge, tra il privato fornitore e l’amministratore,
funzionario o dipendente che (aveva) consentito la
fornitura”).
L’art. 4 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, confluito
nell’art. 191 del TUEL, ha introdotto il principio della
validità del rapporto obbligatorio direttamente con
l’Amministrazione, a condizione che la prestazione o il bene
fornito siano riconoscibili come dei debiti fuori bilancio
(art. 194) e, quindi, che siano passibili di dichiarazione
di utilità da parte dell’ente, con conseguente previsione di
spesa, anche fuori bilancio, nel caso in cui il relativo
impegno non sia stato ancora previsto.
La ratio della disciplina contenuta nel TUEL è, quindi,
quella di garantire il riconoscimento di debiti per
prestazioni e servizi resi in favore dell’ente locale che,
benché privi di titolo, siano considerati utili per
l’amministrazione.
Si è recepita in definitiva quella che è stata
l'elaborazione giurisprudenziale, in particolare della Corte
dei conti, ma anche del giudice ordinario, stabilendo che
sono permanentemente sanabili i debiti derivanti da
acquisizioni di beni e servizi, relativi a spese assunte in
violazione delle norme giuscontabili, per la parte di cui
sia accertata e dimostrata l'utilità e l'arricchimento che
ne ha tratto l'ente locale, sempre che rientrino nelle
funzioni di competenza dell'ente.
Il riconoscimento del debito fuori bilancio costituisce,
pertanto, atto dovuto come si desume dall’art. 194 del TUEL
e l’amministrazione non può sottrarsi attraverso una
semplice e immotivata comunicazione di un qualunque ufficio,
essendo invece necessario un procedimento ad hoc.
Quanto al procedimento per il riconoscimento del debito
fuori bilancio, l’art. 194 del TUEL stabilisce che “con
deliberazione consiliare di cui all’art. 193, comma 2, o con
diversa periodicità stabilita dai regolamenti di
contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei
debiti fuori bilancio derivanti da:… e) acquisizione di beni
e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2,
3 dell’art. 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità e arricchimento per l’ente, nell’espletamento di
pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
La proposta della deliberazione per il riconoscimento dei
debiti spetta al responsabile del servizio competente per
materia che dovrà accertare l’eventuale effettiva utilità
che l'ente ha tratto dalla prestazione altrui, che è un
concetto di carattere funzionale, costituendo
l'arricchimento un concetto derivato, teso alla misurazione
dell'utilità ricavata (Cassazione Civile, Sezione I, 12.07.1996, n. 6332).
E’ quindi necessaria un’attività istruttoria da parte del
responsabile del settore formalizzata in una relazione che
contenga i riferimenti della situazione debitoria dell’ente
da riconoscere eventualmente ai sensi dell’art. 194, comma
1, lett. e), del D.Lgs. n. 267/2000, la sussistenza dei
requisiti oggettivi richiesti per il legittimo
riconoscimento di ciascun debito, ovvero l’utilità e
l’arricchimento per l’Ente di servizi acquisiti
nell’ambito dell’espletamento di servizi di
competenza
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 05.08.2013 avevamo posto in evidenza la
questione dal titolo "Sul termine ordinatorio e
non perentorio dei 90 gg. entro cui bisogna
approvare il PGT a pena di inefficacia degli atti
assunti", sollevata dal TAR Lombardia-Milano,
Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508.
Ora, anche il TAR Lombardia-Brescia, con due pronunce
recentissime, affronta il tema -seppur di striscio-
ed afferma che "... L’effettivo significato della
norma è controverso in giurisprudenza".
Bene, non ci resta far altro che attendere la presa di
posizione del Consiglio di Stato (presto o tardi che
sia ...).
07.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
URBANISTICA:
Va ricordato il
tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005:
“Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per
la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il Consiglio
comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a
pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede
all’adeguamento del documento di piano adottato, nel
caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del
proprio piano territoriale, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le
definitive determinazioni qualora le osservazioni
provinciali riguardino previsioni di carattere
orientativo.”
L’effettivo significato della norma è controverso in
giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario,
alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui
si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata
del termine “inefficacia”.
Salva e impregiudicata la relativa questione, è però
certo che la procedura è regolarmente conclusa
allorquando la delibera di approvazione delle
controdeduzioni e di approvazione del piano
intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4
dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal
deposito.
... per l’annullamento, previa sospensione, della
deliberazione 19.03.2012 n. 57, pubblicata sul BURL il
24.10.2012, con la quale il Consiglio comunale di Brescia ha
approvato in via definitiva le controdeduzioni al Piano di
governo del territorio – PGT e il PGT stesso, nella parte in
cui ha disposto sull’area denominata unità di intervento L 2
1 “Pietra Curva” di proprietà della ricorrente, non
consentendo di realizzarvi una grande struttura di vendita;
...
- con il secondo motivo, corrispondente alla censura seconda
alle pp. 29-30, deduce violazione dell’art. 13, comma 7,
della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, per esser stato a suo
dire superato il termine di 90 giorni accordato, sempre a
suo dire a pena di decadenza di tutti gli atti, dalla norma
suddetta per controdedurre alle osservazioni e approvare il
PGT adottato;
...
Il secondo motivo di impugnazione è invece infondato in
fatto.
Per chiarezza, va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7,
della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza
del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena
di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle
osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli
atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di
piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato
elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del
proprio piano territoriale, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma, così come ricordato
anche dal Comune resistente e riportato in premesse, è
controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto
necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di
cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del
termine “inefficacia”. Salva e impregiudicata la
relativa questione, è però certo che la procedura è
regolarmente conclusa allorquando la delibera di
approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del
piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla
scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”,
che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso
art. 13, è di trenta giorni dal deposito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005 dispone che
"Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15,
comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni
qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di
carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di
inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le
relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta
norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai
veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano
sez. II 10.12.2010 n. 7508- non va estesa agli atti
istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori
configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che
di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere
colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una
inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Il primo motivo del primo ricorso
per motivi aggiunti va respinto.
La ricorrente invoca il
comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005, per cui “Entro novanta
giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena
d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento
del documento di piano adottato, nel caso in cui la
provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con
i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere
le definitive determinazioni qualora le osservazioni
provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione
di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove
le relative osservazioni non vengano decise entro un
termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di
detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto
ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia
Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508, citata anche dal
Comune (memoria 02.11.2013 p. 18)- non va estesa agli
atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori
configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che
di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere
colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una
inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Nulla vietava
quindi che il Comune riadattasse il Piano con la precedente
istruttoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici. Utilizzo del
sistema AVCpass per la verifica dei requisiti.
Avviato il sistema AVCpass come previsto dalla Deliberazione
n. 111 del 20.12.2012 e s.m.i. Oltre al Comunicato del
Presidente del 17.12.2013, l’Avcp ha messo a disposizione di
operatori economici e stazioni appaltanti una serie di
servizi e strumenti per l’utilizzo del sistema.
Nella sezione Servizi del portale dell’Autorità, è presente
un’area dedicata alla formazione da cui è possibile accedere
a quattro moduli formativi sul sistema AVCpass:
Registrazione e profilazione; Delibera n. 111/2012; AVCpass,
nelle due componenti Operatore Economico e Stazione
Appaltante. Ogni modulo formativo comprende sessioni basate
su tecnologia WBT (Web Based Training), liberamente
fruibili.
Tra i servizi on-line sono infine disponibili i manuali per
l'utilizzo del sistema AVCpass, suddivisi per utenti
(operatori economici o stazioni appaltanti) ed argomenti.
Si ricorda anche che il testo della Delibera AVCpass è stato
aggiornato e corredato da una relazione (02.01.2014 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
C. Volpe,
La Corte di Giustizia dà il via libera all’avvalimento
plurimo e frazionato (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
M. Grisanti,
Il MIBAC è assente! Le Soprintendenze locali, i Comuni e le
Regioni si inventano le procedure e i controlli riguardo
alla formazione degli strumenti urbanistici, mandando in
soffitta l’art. 9 della Costituzione (20.11.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Sanzioni amministrative in edilizia. Clamorosa topica del
Consiglio di Stato (commento a Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.10.2013 n. 5158).
Di questi tempi (…) quando si verte in tema di sanzioni
amministrative è sempre bene iniziare a precisare.
Il caso portato all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada
era bene che non fosse nemmeno sorto, tanto che è finito
peggio!
La vicenda riguarda l’elevazione di una sanzione pecuniaria
amministrativa di £ 426.762.000 relativa ad opere realizzate
(udite udite!) in “parziale difformità” dalla licenza
comunale n. 4 rilasciata dal Sindaco di Napoli nell’anno
1949 che autorizzava la costruzione di un edificio
residenziale condominiale.
La mia meraviglia non sta nel fatto che il provvedimento
comunale riguarda una licenza del 1949, ma che il Comune
abbia proceduto a comminare una sanzione amministrativa per
una fattispecie di illecito –la parziale difformità– che è
stata introdotta dal legislatore statale soltanto nel 1977
con la c.d. Legge Bucalossi.
Ma quando le cose nascono male, non possono che finire
peggio! (... continua) (18.11.2013 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Cassazione, inquinamento da leggi e trasporto di rifiuti
pericolosi senza formulario (11.11.2013 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Gestione di rifiuti e responsabilità del Sindaco (08.11.2013
- link a www.industrieambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
Non è possibile costruire in assenza di fognature e impianti
di depurazione anche in lotti interclusi (03.11.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Albanese,
Inapplicabile il silenzio-assenso ex art. 13 della legge 394
del 1991, “Legge quadro sulle aree protette”. Il Consiglio
di Stato ribalta la propria posizione: NO al
silenzio-assenso nei Parchi (30.10.2013 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Aiello,
Gestione illecita dei rifiuti derivanti dalla demolizione in
edilizia (28.10.2013 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
M. Grisanti,
E ora manca all’appello il Giudice amministrativo sempreché
abbia competenza a decidere (commento a Corte di Cassazione,
Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n. 23591).
Alla fine, dopo la Cassazione penale è arrivata anche quella
civile.
“E’ nullo il contratto preliminare di
compravendita che abbia ad oggetto la vendita di un immobile
irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il fatto che l’art. 40, secondo comma, della legge n.
47/1985 faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè
agli atti che hanno una efficacia reale immediata, mentre il
contratto preliminare di cui si discute abbia efficacia
semplicemente obbligatoria non elimina dal punto di vista
logico che non può essere valido il contratto preliminare il
quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo
per contrarietà alla legge.”
– Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
17.10.2013 n. 23591.
In sostanza, il Giudice civile ha implicitamente aderito
alla tesi sostanzialistica del Giudice penale allorquando
quest’ultimo statuisce che è abusivo l’immobile costruito in
forza di un permesso di costruire sostanzialmente
illegittimo. Non ponendosi quindi il problema di
disapplicazione dell’atto amministrativo, ma quello di
accertare, nel concreto, l’effettiva rispondenza
dell’immobile alle leggi, ai regolamenti e agli strumenti
urbanistici.
A questo punto rimane indietro il Giudice amministrativo, ma
forse perché non è competente per giurisdizione. (...
continua) (25.10.2013 - tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
L'ineducazione dei comuni nel fare i propri interessi nella
gestione dei rifiuti di imballaggi: prime osservazioni (25.10.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il parere vincolante del Soprintendente e la conferenza dei
servizi nel procedimento di autorizzazione paesaggistica
(all’indomani della sentenza n. 4914/2013 del Consiglio di
Stato) (22.10.2013 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
C. Basciu,
Impianti fotovoltaici in zona agricola: i diritti degli
agricoltori e gli obblighi nei confronti dell’Unione Europea
(16.10.2013 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il parere vincolante del Soprintendente nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica è indefettibile. Sono finite le
larghe intese sul paesaggio? (11.10.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Verderosa,
Gli atti di assenso preventivi al rilascio del Permesso di
Costruire quale presupposto legittimante per la validità del
titolo edilizio (01.10.2013 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. M. d'Eril,
Reflui industriali, acque meteoriche di dilavamento: arresti
(e qualche inciampo) nella giurisprudenza (link a www.lexambiente.it
- Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. Ruga Riva,
Il reato di inosservanza delle prescrizioni contenute
nell’autorizzazione: norma penale in bianco-verde per ogni
irregolarità? (link a www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013). |
URBANISTICA:
M. G. Boccia,
Primi orientamenti giurisprudenziali in merito alla
procedura VAS (link a www.lexambiente.it -
Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'effetto
sospensivo della presentazione della domanda di accertamento
di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo
previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di
sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego
(art. 13, L. n. 47/1985; hodie art. 36, T.U. di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001).
Decorso questo termine, è onere della parte agire
tempestivamente in giudizio per avversare le negative
determinazioni o l’inerzia serbata dall’Amministrazione; in
mancanza di che, il rigetto (espresso o tacito), diventa
inoppugnabile e rende nuovamente operativa l'ingiunzione di
demolizione senza che l'Amministrazione debba
necessariamente rideterminarsi in proposito.
Il provvedimento demolitorio impugnato resta, dunque, valido
ed efficace a fronte o del diniego esplicito oppure del
silenzio serbato dall’Amministrazione (e non opposto
dall’interessato) sulla domanda di sanatoria edilizia.
Più in particolare, l'avvenuta presentazione di un'istanza
di accertamento di conformità non rende invalida l'ordinanza
di demolizione ma la pone, in forza della pendenza del
procedimento di sanatoria, in uno stato di momentanea
quiescenza con la conseguenza che, in caso di accoglimento
della domanda di sanatoria, l'ordinanza demolitoria viene
travolta dalla successiva contraria e positiva
determinazione dell'Amministrazione (con conseguente
sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul
ricorso); mentre in caso di rigetto -anche silenzioso-
dell'istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione
riprende efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90
giorni per far luogo alla demolizione , dalla comunicazione
del provvedimento con il quale è stata respinta la domanda
di conservazione
La Sezione ha già avuto modo di chiarire che
l'effetto sospensivo della presentazione della domanda di
accertamento di conformità opera esclusivamente entro il
lasso di tempo previsto dalla legge per la conclusione del
procedimento di sanatoria edilizia o per il formarsi del
silenzio-diniego (art. 13, L. n. 47/1985; hodie art. 36,
T.U. di cui al D.P.R. n. 380 del 2001).
Decorso questo termine, è onere della parte agire
tempestivamente in giudizio per avversare le negative
determinazioni o l’inerzia serbata dall’Amministrazione; in
mancanza di che, il rigetto (espresso o tacito), diventa
inoppugnabile e rende nuovamente operativa l'ingiunzione di
demolizione senza che l'Amministrazione debba
necessariamente rideterminarsi in proposito.
Il provvedimento demolitorio impugnato resta, dunque, valido
ed efficace a fronte o del diniego esplicito oppure del
silenzio serbato dall’Amministrazione (e non opposto
dall’interessato) sulla domanda di sanatoria edilizia (Tar
Lazio, sez. II-ter, sent. n. 6911/2013).
Più in particolare, l'avvenuta presentazione di un'istanza
di accertamento di conformità non rende invalida l'ordinanza
di demolizione ma la pone, in forza della pendenza del
procedimento di sanatoria, in uno stato di momentanea
quiescenza con la conseguenza che, in caso di accoglimento
della domanda di sanatoria, l'ordinanza demolitoria viene
travolta dalla successiva contraria e positiva
determinazione dell'Amministrazione (con conseguente
sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul
ricorso); mentre in caso di rigetto -anche silenzioso-
dell'istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione
riprende efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90
giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione
del provvedimento con il quale è stata respinta la domanda
di conservazione (ex plurimis, TAR Napoli Campania sez. III,
15.01.2013 n. 301)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 30.12.2013 n. 11171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea di massima,
trattandosi di
interventi di restauro e risanamento conservativo (art. 31,
lett. c, L. n. 458 del 1978) gli stessi sconterebbero
l’autorizzazione amministrativa e non la concessione
edilizia.
E nel caso di tali opere "abusive" l’Amministrazione
comunale dovrebbe infliggere, a fronte della riscontrata
violazione (id est, assenza di autorizzazione) soltanto una
sanzione pecuniaria (ex art. 10 della L. n. 47 del 1985).
Tuttavia, sussiste un'eccezione alla regola laddove l'ambito
è vincolato dal punto di vista paesaggistico. Invero, l’art.
10, c. 3, della legge n. 47 del 1985 statuisce che: “Quando
le opere realizzate senza autorizzazione consistono in
interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui
alla lettera c) del primo comma dell'art. 31 della legge
05.08.1978, n. 457, eseguiti su immobili comunque vincolati
da leggi statali e regionali nonché dalle altre norme
urbanistiche vigenti, l'autorità competente a vigilare
sull'osservanza del vincolo, salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la
restituzione in pristino a cura e spese del contravventore
....“.
In tal senso depone anche il Regolamento comunale di Ponza
il cui art. 6, evocato dalle stesse ricorrenti, assoggetta a
mera autorizzazione “le opere costituenti pertinenze od
impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti
purché non sottoposti a vincoli ...”.
Acclarato, dunque, che le opere realizzate dalle ricorrenti
ricadono in zona sottoposta a vincolo per le quali:
- l’art. 10, c. 3, della L. n. 47 del 1985 prevede la
demolizione in funzione della “restituzione in pristino” dei
luoghi;
- l’art. 6 del Regolamento comunale di Ponza esclude –ratione
temporis- il regime semplificato dell’autorizzazione,
ne consegue che il provvedimento impugnato (di demolizione)
resiste alle rubricate censure ed il ricorso, perciò,
s’appalesa infondato.
Parte
ricorrente sostiene che le opere de quibus scontino
l’autorizzazione amministrativa e non la concessione
edilizia, trattandosi di interventi di restauro e
risanamento conservativo (art. 31, lett. c, L. n. 458 del
1978).
A fronte del regime permissivo meno rigoroso,
l’Amministrazione comunale, dunque, avrebbe dovuto
infliggere, a fronte della riscontrata violazione (id est,
assenza di autorizzazione) soltanto una sanzione pecuniaria
(ex art. 10 della L. n. 47 del 1985).
Ancor più, ove considerato l’art. 6 del regolamento comunale
di Ponza (v. relazione tecnica allegata alla domanda di
sanatoria) secondo cui rientrano tra gli interventi di
restauro e risanamento conservativo, soggetti a mera
autorizzazione (e non a concessione edilizia), “le opere
costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di
edifici già esistenti ... ossia: opere accessorie ...
ascensori, cantine, autorimesse private, rampe ecc.,
sistemazioni interne, scale sicurezza ecc.; 2)... volumi
tecnici ...”.
Poiché nel caso di specie si tratta della “collocazione
all’interno del cortile di una cisterna idrica, creazione di
un’area per parcheggio privato scoperto, servito da una
scala di collegamento”, le opere in questione dovrebbero
scontare, ai sensi dell’art. 31, lett. c), della L. n. 458
del 1978 e dell’art. 6 del regolamento comunale di Ponza,
l’autorizzazione comunale e non la concessione edilizia.
Il Collegio, pur condividendo la tesi che si tratti di opere
astrattamente riconducibili alla categoria del ”restauro e
risanamento conservativo”, non condivide, tuttavia, le
conclusioni che parte ricorrente ne trae.
La zona in cui ricadono le opere de quibus risulta, infatti,
soggetta a vincolo ambientale.
Tale circostanza (vincolo ambientale) risulta
inequivocabilmente dall’esame della documentazione versata
in atti (v. parere datato 14.09.1995, rilasciato ai
sensi dell’art. 32 della L. n. 47 del 1985 dalla Regione
Lazio -Assessorato urbanistica, Assetto del Territorio,
Tutela Ambientale–, per il completamento funzionale del
manufatto su cui insistono le opere abusive).
Ebbene, l’art. 10, c. 3, della citata legge n. 47 del 1985
statuisce che: “Quando le opere realizzate senza
autorizzazione consistono in interventi di restauro e di
risanamento conservativo, di cui alla lettera c) del primo
comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457,
eseguiti su immobili comunque vincolati da leggi statali e
regionali nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti,
l'autorità competente a vigilare sull'osservanza del
vincolo, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni
previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in
pristino a cura e spese del contravventore ....“.
In tal senso depone anche il Regolamento comunale di Ponza
il cui art. 6, evocato dalle stesse ricorrenti, assoggetta a
mera autorizzazione “le opere costituenti pertinenze od
impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti
purché non sottoposti a vincoli ...”.
Acclarato, dunque, che le opere realizzate dalle ricorrenti
ricadono in zona sottoposta a vincolo per le quali:
- l’art. 10, c. 3, della L. n. 47 del 1985 prevede la
demolizione in funzione della “restituzione in pristino” dei
luoghi;
- l’art. 6 del Regolamento comunale di Ponza esclude –ratione temporis-
il regime semplificato dell’autorizzazione,
ne consegue che il provvedimento impugnato resiste alle
rubricate censure ed il ricorso, perciò, s’appalesa
infondato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 30.12.2013 n. 11171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'effetto
sospensivo della presentazione della domanda di accertamento
di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo
previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di
sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego
(art. 13, L. n. 47/1985).
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione
di una costruzione abusiva non risulta, perciò, pregiudicata
dalla presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi
dell'art. 13, L. 47 del 1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380
del 2001 T.U. Edilizia), posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un
tale effetto; sicché, se, da un lato, la presentazione della
domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento
di conformità determina inevitabilmente un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di
sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia.
Il Collegio –in adesione all’orientamento della
Sezione- premette che l'effetto sospensivo della
presentazione della domanda di accertamento di conformità
opera esclusivamente entro il lasso di tempo previsto dalla
legge per la conclusione del procedimento di sanatoria
edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego (art. 13, L.
n. 47/1985).
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione
di una costruzione abusiva non risulta, perciò, pregiudicata
dalla presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi
dell'art. 13, L. 47 del 1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380
del 2001 T.U. Edilizia), posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un
tale effetto; sicché, se, da un lato, la presentazione della
domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento
di conformità determina inevitabilmente un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine
di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di
sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno
dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 30.12.2013 n. 11166 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31, comma 1, lettera c), della L.
05.08.1978, n.
457 qualifica come interventi
di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili.
Ai sensi della richiamata disposizione tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso nonché l'eliminazione degli elementi
estranei all'organismo edilizio.
Interpretando le disposizioni ora trascritte, la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo chiarito
che possono qualificarsi come interventi di restauro e
risanamento conservativo quegli interventi sistematici i
quali, pur con rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio
preesistente, ne conservano tipologia, forma e struttura.
Per contro, rientrano nella nozione di ristrutturazione
edilizia le opere rivolte a creare un organismo in tutto o
in parte diverso da quello oggetto di intervento.
Infatti la finalità specifica degli interventi di
risanamento e restauro –che è appunto quella di rinnovare
l’edificio in modo sistematico e globale- va perseguita nel
rispetto dei suoi elementi essenziali dal punto di vista
tipologico, formale e strutturale.
---------------
Il manufatto realizzato dalla ricorrente
ha, rispetto al fabbricato esistente, sia una cubatura
diversa, notevolmente più ampia, stante la realizzazione di
una “tromba piano garage in cemento armato di mt. 30 x 4 e
40 x 2,70 di altezza circa” funzionale al collegamento del
piano terra al garage sottostante, che una sagoma diversa a
cagione della realizzazione di cordoli perimetrali tra la
gronda ed il colmo del tetto.
Sicché, tali opere necessitavano della concessione edilizia
(ora permesso di costruire) e, conseguentemente, è legittimo
l'ordine di demolizione (in assenza del titolo edilizio
abilitativo).
L’affermazione, infine, per cui non sarebbe possibile
l’abbattimento delle opere di cui all’ordinanza di
demolizione impugnata a cagione del “pericolo di crollo di
restanti parti regolari dell’edificio” s’appalesa del tutto
apodittica non essendo stata, dalla ricorrente, meglio
supportata e comprovata sul piano tecnico e scientifico.
Reputa il
Collegio che l'impugnato ordine di demolizione deve
senz'altro reputarsi legittimo, essendo stato emesso
all'esito dell'accertata insussistenza della concessione
edilizia (oggi, permesso di costruire).
L’art. 31, comma 1, lettera c), della L. 05.08.1978, n.
457, nel testo all’epoca vigente, qualifica come interventi
di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili.
Ai sensi della richiamata disposizione tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso nonché l'eliminazione degli elementi
estranei all'organismo edilizio.
Interpretando le disposizioni ora trascritte, la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo chiarito
che possono qualificarsi come interventi di restauro e
risanamento conservativo quegli interventi sistematici i
quali, pur con rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio
preesistente, ne conservano tipologia, forma e struttura
(cfr. per tutte V Sez. n. 5273 del 2007).
Per contro, rientrano nella nozione di ristrutturazione
edilizia le opere rivolte a creare un organismo in tutto o
in parte diverso da quello oggetto di intervento.
Infatti la finalità specifica degli interventi di
risanamento e restauro –che è appunto quella di rinnovare
l’edificio in modo sistematico e globale- va perseguita nel
rispetto dei suoi elementi essenziali dal punto di vista
tipologico, formale e strutturale.
Ciò premesso, nel caso all’esame è acclarato –in base ai
documenti versati nel corso del giudizio- che il manufatto
realizzato dalla ricorrente ha, rispetto al fabbricato
esistente, sia una cubatura diversa, notevolmente più ampia,
stante la realizzazione di una “tromba piano garage in
cemento armato di mt. 30 x 4 e 40 x 2,70 di altezza circa”
funzionale al collegamento del piano terra al garage
sottostante, che una sagoma diversa a cagione della
realizzazione di cordoli perimetrali tra la gronda ed il
colmo del tetto.
E che si tratti di opere diverse da quelle esistenti è
comprovato dal fatto che di esse non è stata fatta menzione
nella domanda di condono edilizio presentata dalla
ricorrente ai sensi dell’art. 39 della L. n. 724 del 1994;
omissione che l’interessata imputa al proprio, implausibile,
convincimento che si trattasse di opere assoggettabili a
denuncia di inizio attività (vedi perizia di parte par. 4).
L’affermazione, infine, per cui non sarebbe possibile
l’abbattimento delle opere di cui all’ordinanza di
demolizione impugnata a cagione del “pericolo di crollo
di restanti parti regolari dell’edificio” (v. perizia di
parte, pag. 4) s’appalesa del tutto apodittica non essendo
stata, dalla ricorrente, meglio supportata e comprovata sul
piano tecnico e scientifico
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 30.12.2013 n. 11166 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di demolizione per effetto della presentazione della nuova
domanda di condono ha perso, in parte qua, la propria
efficacia lesiva con conseguente improcedibilità del
ricorso.
Invero, ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso deve
pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto
avverso ordini di demolizione, risulti successivamente
presentata domanda per conseguire il condono edilizio; ciò
in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà
straordinaria prevista dalla legge il provvedimento
repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito
o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo
procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione
tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto
dall'art. 40 comma 1, L. n. 47 del 1985, al completo riesame
della fattispecie, con conseguente traslazione e
differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro
provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda
medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva.
L’ordinanza di demolizione aveva contestato al
ricorrente anche l’esecuzione di opere interne
all’appartamento collegato alla veranda.
Per queste opere (unitamente ad altre successivamente
realizzate e che hanno comportato una ristrutturazione
dell’immobile), il ricorrente ha dichiarato di avere
presentato nuova istanza di condono edilizio ai sensi della
legge 24.11.2003, n. 326 sulla quale gli uffici
capitolini sono in procinto di pronunciarsi (in atti è stata
depositata la nuova domanda di condono del 10.09.2003).
Ebbene, l'ordinanza di demolizione per effetto della
presentazione della nuova domanda di condono ha perso, in
parte qua, la propria efficacia lesiva con conseguente
improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. Stato Sez. V
21/11/2006 n. 6789; Tar Lazio Roma Sez. II 04/05/2007 n. 3837;
Tar Campania Napoli Sez. IV 03/05/2007 n. 4657; Tar Lombardia
Milano Sez. II 06/10/2009 n. 4762).
La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, chiarito che
ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso deve
pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto
avverso ordini di demolizione, risulti successivamente
presentata domanda per conseguire il condono edilizio; ciò
in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà
straordinaria prevista dalla legge il provvedimento
repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito
o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo
procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione
tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto
dall'art. 40, comma 1, L. n. 47 del 1985, al completo riesame
della fattispecie, con conseguente traslazione e
differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro
provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda
medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva (v. Tar Campania, Napoli, 07/03/2013
n. 1310 e 03/04/2013 n. 1708)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 30.12.2013 n. 11164 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Giusto il disposto
dell’art. 155 c.p.c., il termine che scade in un giorno
festivo è prorogato di diritto al primo giorno successivo
non festivo.
Si tratta infatti di norma del tutto generale sul computo
dei termini, non certo specifica del solo processo civile:
esattamente in termini, di recente, C.d.S. sez. VI
07.09.2012 n. 4752, che evidenzia come la regola sia posta
anche da altre norme, l’art. 2963 c.c. in tema di
prescrizione e l’art. 1187 c.c. in tema di obbligazioni.
Contrariamente
a quanto afferma la ricorrente (memoria 15.11.2013 p.
7 prime righe) non vi è motivo alcuno per considerare non
applicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 155 c.p.c., per cui il termine che scade in un giorno festivo è
prorogato di diritto al primo giorno successivo non festivo.
Si tratta infatti di norma del tutto generale sul computo
dei termini, non certo specifica del solo processo civile:
esattamente in termini, di recente, C.d.S. sez. VI
07.09.2012 n. 4752, che evidenzia come la regola sia posta
anche da altre norme, l’art. 2963 c.c. in tema di
prescrizione e l’art. 1187 c.c. in tema di obbligazioni (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le prescrizioni di un
piano urbanistico attuativo (tale è il piano di
lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera
dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e
devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro
aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino
all’intervento di un nuovo piano urbanistico.
---------------
a) è del tutto irrilevante che sia decorso il termine
decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n.
1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli
interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma
non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione
delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un
nuovo atto di pianificazione.
Si è detto che le prescrizioni previste dal piano attuativo
scaduto devono continuare ad essere osservate in
applicazione dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942,
n. 1150 (è stato precisato che l’efficacia decennale attiene
ai poteri espropriativi, mentre restano inalterati a tempo
indeterminato gli allineamenti, le prescrizioni, le
destinazioni di piano e quant’altro attenga all’armonico
assetto del territorio);
b) la circostanza che non sia intervenuta l’intavolazione
delle servitù di uso pubblico di viabilità, parcheggio e
sosta non pregiudica la disponibilità e la utilizzazione da
parte del Comune delle aree a ciò destinate, atteso che
l’uso pubblico non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto reale;
c) l’inadempimento della società C. C. SPA e dei suoi aventi
causa alle obbligazioni assunte con la convenzione e,
quindi, la omessa intavolazione nei libri fondiari delle
servitù di uso pubblico che nel sistema tavolare vigente
nella Provincia di Trento è costitutiva del diritto reale,
non ne compromette l’uso pubblico da parte del Comune.
E’ fin troppo noto il principio secondo cui le
prescrizioni di un piano urbanistico attuativo (tale è il
piano di lottizzazione) finalizzato alla disciplina in
maniera dettagliata di una porzione del territorio sono
vincolanti e devono essere rispettate da tutti i lottizzanti
e loro aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino
all’intervento di un nuovo piano urbanistico (in tal senso
da ultimo Cons. Stato, Adunanza plenaria 20.07.2012, n.
28; conforme Cons. Stato, V, 20.03.2008, n. 1216; IV 27.10.2009, n. 6572).
---------------
Da quanto
detto consegue che:
a) è del tutto irrilevante che sia decorso il termine
decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n.
1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli
interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma
non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione
delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un
nuovo atto di pianificazione.
Si è detto che le prescrizioni
previste dal piano attuativo scaduto devono continuare ad
essere osservate in applicazione dell’art. 17, comma 1,
della legge 17.08.1942, n. 1150 (in tal senso cfr. Cons.
Stato, IV, 353 del 2013; 2045 del 2012; VI, n. 305 del 2012;
IV, 27.10.2009, n. 6572 che precisa come l’efficacia
decennale attiene ai poteri espropriativi, mentre restano
inalterati a tempo indeterminato gli allineamenti, le
prescrizioni, le destinazioni di piano e quant’altro attenga
all’armonico assetto del territorio);
b) la circostanza che non sia intervenuta l’intavolazione
delle servitù di uso pubblico di viabilità, parcheggio e
sosta non pregiudica la disponibilità e la utilizzazione da
parte del Comune delle aree a ciò destinate, atteso che
l’uso pubblico non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto reale;
c) l’inadempimento della società Chini Costruzioni s.p.a. e
dei suoi aventi causa alle obbligazioni assunte con la
convenzione e, quindi, la omessa intavolazione nei libri
fondiari delle servitù di uso pubblico che nel sistema
tavolare vigente nella Provincia di Trento è costitutiva del
diritto reale, non ne compromette l’uso pubblico da parte
del Comune.
Il fatto, poi, che alcune delle aree gravate da uso
pubblico di viabilità e sosta siano state cedute a titolo
oneroso a singoli condomini che hanno provveduto alla
tempestiva intavolazione e, quindi, la questione della opponibilità ai medesimi del diritto di uso pubblico
gravante sulle aree acquistate, non può che essere risolta
secondo le regole generali in materia di trascrizioni dei
diritti reali e, quindi, in base alla priorità
dell’annotazione sui libri fondiari dei titoli contrapposti,
fermo restando che l’avvenuta “prenotazione” della
convenzione di lottizzazione effettuata sui libri fondiari
già nel 1993, rendeva conoscibile ai terzi i vincoli
esistenti sulle singole aree.
Ne consegue che gli acquirenti delle aree a parcheggio erano
a conoscenza della destinazione ad uso pubblico gravante
sulle suddette aree, essendovi stata annotazione della
convenzione di lottizzazione alla stregua di “prenotazione”,
mancando il titolo formale che ne consentisse
l’intavolazione.
Da ultimo deve ritenersi assolutamente ininfluente ai
fini qui in considerazione, ovvero al legittimo esercizio da
parte del Comune del diritto di uso pubblico sulle aree a
ciò destinate dal piano di lottizzazione, l’accertamento
della sussistenza o meno dell’inadempimento delle
obbligazioni di cessione o di costituzioni di diritti reali
di servitù in favore del Comune sulle aree a ciò destinate
da parte della Chini Costruzioni s.p.a. o dai suoi aventi
causa, atteso che la destinazione ad uso pubblico riviene
direttamente dallo strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6283 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine stabilito
dall'articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la conclusione
del procedimento di rilascio dell'autorizzazione unica è di
natura perentoria, in quanto costituisce principio
fondamentale in materia di produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia elettrica, che risulta
ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e
della celerità, garantendo in modo uniforme sull'intero
territorio nazionale la conclusione entro un termine
definito del procedimento autorizzativo.
Pertanto, la mancata adozione del provvedimento finale entro
detto termine massimo legittima l'istante a proporre ricorso
avverso il silenzio inadempimento serbato
dall'Amministrazione procedente secondo il rito
dell'articolo 117 del d.lgs. n. 104/2010, con obbligo di
concludere il procedimento entro 180 giorni, cui la Regione
deve inderogabilmente uniformarsi, senza che assuma rilievo
il mero compimento di atti soprassessori e
infraprocedimentali.
Ed invero, come più volte precisato dalla
giurisprudenza della Sezione, il termine stabilito
dall'articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la conclusione
del procedimento di rilascio dell'autorizzazione unica è di
natura perentoria, in quanto costituisce principio
fondamentale in materia di produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia elettrica, che risulta
ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e
della celerità, garantendo in modo uniforme sull'intero
territorio nazionale la conclusione entro un termine
definito del procedimento autorizzativo.
Pertanto, la mancata adozione del provvedimento finale entro
detto termine massimo legittima l'istante a proporre ricorso
avverso il silenzio inadempimento serbato
dall'Amministrazione procedente secondo il rito
dell'articolo 117 del d.lgs. n. 104/2010, con obbligo di
concludere il procedimento entro 180 giorni, cui la Regione
deve inderogabilmente uniformarsi, senza che assuma rilievo
il mero compimento di atti soprassessori e
infraprocedimentali (cfr., tra le tante, Cds, V, 14.10.2013
n. 5000; 23.10.2012 n. 5413; 07.11.2011 n. 5878)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6279 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
E' di competenza dirigenziale l'atto di nomina della
commissione di concorso.
L’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 167
riserva alla competenza dei dirigenti l’adozione di tutti
gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione
all’esterno, compresa la responsabilità delle procedure
concorsuali.
Giova soggiungere che non milita a favore della tesi del
ricorrente il riferimento alla disciplina dettata dall’art.
63 del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi in quanto, ai sensi della suddetta normativa di
legge, richiamata dall’articolo 25 dello Statuto comunale,
solo la disciplina statutaria è idonea a integrare il regime
legale delle competenze degli organi.
Ne deriva l’illegittimità e la conseguente disapplicazione
della normativa regolamentare in esame che ha ampliato la
sfera giuntale di competenza in assenza della necessaria
legittimazione di fonte statutaria.
E’ infondata, in primo luogo, la censura
diretta a stigmatizzare il vizio di incompetenza che
affliggerebbe l’atto dirigenziale di nomina della
commissione di concorso in ragione della dedotta invasione
della sfera di competenza della Giunta.
L’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 167, infatti,
riserva alla competenza dei dirigenti l’adozione di tutti
gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione
all’esterno, compresa la responsabilità delle procedure
concorsuali. Giova soggiungere che non milita a favore della
tesi del ricorrente il riferimento alla disciplina dettata
dall’art. 63 del regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi in quanto, ai sensi della suddetta normativa di
legge, richiamata dall’articolo 25 dello Statuto comunale,
solo la disciplina statutaria è idonea a integrare il regime
legale delle competenze degli organi. Ne deriva
l’illegittimità e la conseguente disapplicazione della
normativa regolamentare in esame che ha ampliato la sfera
giuntale di competenza in assenza della necessaria
legittimazione di fonte statutaria (Cons. Sato, sez. V, 04.03.2011, n. 1408).
Va in ogni caso soggiunto per completezza che il supposto
vizio di incompetenza è stato sanato, con effetto ex tunc,
attraverso la delibera di Giunta Comunale n. 99 del 30.06.2011 (sull’efficacia retroattiva dell’esercizio del potere
di convalida o ratifica vedi Cons. Sato, sez. IV,
17.05.2010, n. 3121)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo l'ordine di non esecuzione delle
opere previste dalla presentata DIA laddove le stesse
pregiudichino gli interessi
pubblicistici sottesi alla conservazione del paesaggio.
Se è pur vero che “la collocazione
ad incasso nella copertura dell’edificio non rende visibile
i pannelli solari dalla strada o da altri fabbricati”, va
tuttavia considerato che il provvedimento impugnato pare
invece aver valorizzato la percezione “dall’alto” delle
opere di che trattasi, in considerazione della particolare
morfologia del territorio.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento prot. n. 12249 del 01.08.2013 di diffida
all’esecuzione dei lavori oggetto di D.I.A. n. 7088 del
18.04.2013, per l’installazione di pannelli solari per la
produzione di acqua sanitaria in immobile residenziale sito
in Via Visconti Venosta 30, e di ogni altro atto
preordinato, e consequenziale.
...
- Ritenuto che, ad un sommario esame, il ricorso non sia
assistito dal fumus boni iuris, atteso che il
provvedimento impugnato pare sufficientemente motivato con
riferimento alle peculiarità del caso di specie. In
particolare, se è pur vero che “la collocazione ad
incasso nella copertura dell’edificio non rende visibile i
pannelli dalla strada o da altri fabbricati” (v. pag. 10
del ricorso), va tuttavia considerato che il provvedimento
impugnato pare invece aver valorizzato la percezione “dall’alto”
delle opere di che trattasi, in considerazione della
particolare morfologia del territorio.
- Ritenuto inoltre, quanto al periculum, di doversi
privilegiare gli interessi pubblicistici sottesi alla
conservazione del paesaggio, anche in relazione alla
risarcibilità dei pregiudizi economici eventualmente
derivanti alla ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
ordinanza 23.12.2013 n. 1453 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ai
sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i),
d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente
anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui
costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le
gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e
assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è
rimessa alla valutazione caso per caso della stazione
appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e
in particolare dalla disciplina del documento unico di
regolarità contributiva.
Nella fattispecie in esame il DURC di una delle imprese
indicate quale esecutrice indicava una irregolarità nel
versamento degli oneri assicurativi, che la stazione
appaltante non poteva che considerare grave.
----------------
Non può essere considerata irregolare ai fini contributi o
assistenziali la posizione della impresa qualora sia
pendente il termine per la proposizione della impugnazione o
non sia, comunque, stato definito con sentenza passata in
giudicato il contenzioso instaurato.
A tale conclusione il Consiglio di Stato è addivenuto sulla
base dell’art. 8, comma 2, lettera b, del decreto del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale del
24.10.2007 e della circolare della Agenzia delle entrate n.
34/E del 25.05.2007.
L’art. 8 surrichiamato, nel disciplinare le “cause non
ostative al rilascio del DURC”, espressamente prevede che:
“b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è
dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, salvo l'ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria
abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente
l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del giudizio ai
sensi dell'art. 24 del decreto legislativo 26.02.1999, n.
46”;.
La circolare succitata afferma, invece, espressamente che:
“la regolarità fiscale richiesta dal Codice dei contratti
pubblici possa (rectius può) essere certificata, in
riferimento alla data o al periodo indicati dal richiedente,
dall’Ufficio locale competente secondo il domicilio fiscale
del soggetto d’imposta quando risulti, in base alle
informazioni ed ai documenti di cui dispone, che
l’Amministrazione finanziaria non abbia contestato al
contribuente una qualsiasi violazione di obblighi in materia
di tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate, mediante
atto che si sia reso definitivo per effetto del decorso del
termine di impugnazione ovvero, qualora sia stata proposta
impugnazione, del passaggio in giudicato della pronuncia
giurisdizionale (cfr. ris. n. 2/E del 03.01.2005).
Si ritiene, inoltre, che l’irregolarità fiscale viene meno
qualora, alla data rispetto alla quale viene richiesta la
certificazione, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria
sia stata integralmente soddisfatta, anche mediante
definizione agevolata”.
Nella specie dalla documentazione in atti risulta, come
anticipato, che il DURC costituente presupposto della revoca
impugnata è stato impugnato innanzi al Tribunale del lavoro
di Catania, che, per quanto risulta dal fascicolo, non si è
ancora pronunciato. Ne consegue che la controversia non è
stata definita con pronuncia passata in giudicato e che va
esclusa la definitività dell’accertamento.
Tutto ciò premesso può procedersi all’esame del primo
motivo, con il quale si deduce che l’amministrazione avrebbe
illegittimamente omesso qualunque verifica in ordine alla
sussistenza del requisito della gravità della irregolarità
contributiva risultante dal DURC della società cooperativa “Il
Sorriso”.
Nella fattispecie tale requisito, in particolare,
difetterebbe avuto riguardo alla irrisorietà della
irregolarità (pari ad € 462,00 rapportate ad un biennio) a
fronte del consistente valore dell’appalto (€
18.133.200,00), nonché alla circostanza della sua
addebitabilità ad una delle due imprese esecutrici indicate
dal “Consorzio Sol. Calatino” soc. coop. avente una
quota di partecipazione del 25%.
La doglianza è infondata avuto riguardo al principio di
diritto enunciato dalla adunanza plenaria nella decisione n.
8/2012, che si ritiene opportuno riportare letteralmente: "ai
sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i),
d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente
anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui
costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le
gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e
assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è
rimessa alla valutazione caso per caso della stazione
appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e
in particolare dalla disciplina del documento unico di
regolarità contributiva”.
Nella fattispecie in esame il DURC di una delle imprese
indicate quale esecutrice indicava una irregolarità nel
versamento degli oneri assicurativi, che la stazione
appaltante non poteva che considerare grave.
---------------
Va adesso esaminato
il secondo motivo, con il quale si deduce la violazione
degli artt. 49, 56 e 101 del TFUE, poiché la nozione di “violazione
contributiva grave” di cui all’art. 38 del codice degli
appalti, in quanto rigida, contrasterebbe con i principi
comunitari di proporzionalità e ragionevolezza dagli stessi
enunciati.
Come ritenuto nella condivisa ordinanza n. 1969/2012 della
III sezione del TAR Lombardia Milano richiamata nel ricorso,
alle cui ampie motivazioni per esigenze di sintesi si
rinvia, la questione è fondata nel senso che consente la
devoluzione alla Corte di Giustizia e non la disapplicazione
della normativa nazionale.
Tale devoluzione non è, però, nella fattispecie in esame
necessaria, in quanto il collegio, ad una più attenta
valutazione tipica della fase di merito, ritiene fondato il
terzo motivo, con il quale si deduce che non sussisterebbe
il presupposto della definitività dell’accertamento della
irregolarità previsto dall’art. 38.
Dalla documentazione in atti risulta, infatti, che il DURC
in questione è stato impugnato innanzi al giudice del lavoro
di Catania.
Orbene, come ritenuto nella decisione della V sezione del
Consiglio di Stato n. 2213 del 20.04.2010, alle cui ampie
motivazioni per esigenze di sintesi si rinvia, non può
essere considerata irregolare ai fini contributi o
assistenziali la posizione della impresa qualora sia
pendente il termine per la proposizione della impugnazione o
non sia, comunque, stato definito con sentenza passata in
giudicato il contenzioso instaurato (negli stessi termini
più di recente la decisione n. 261/2013).
A tale conclusione il Consiglio di Stato è addivenuto sulla
base dell’art. 8, comma 2, lettera b, del decreto del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale del
24.10.2007 e della circolare della Agenzia delle entrate n.
34/E del 25.05.2007.
L’art. 8 surrichiamato, nel disciplinare le “cause non
ostative al rilascio del DURC”, espressamente prevede
che: “b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la
regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della
sentenza di condanna, salvo l'ipotesi in cui l'Autorità
giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che
consente l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del
giudizio ai sensi dell'art. 24 del decreto legislativo
26.02.1999, n. 46”;.
La circolare succitata afferma, invece, espressamente che: “la
regolarità fiscale richiesta dal Codice dei contratti
pubblici possa (rectius può) essere certificata, in
riferimento alla data o al periodo indicati dal richiedente,
dall’Ufficio locale competente secondo il domicilio fiscale
del soggetto d’imposta quando risulti, in base alle
informazioni ed ai documenti di cui dispone, che
l’Amministrazione finanziaria non abbia contestato al
contribuente una qualsiasi violazione di obblighi in materia
di tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate, mediante
atto che si sia reso definitivo per effetto del decorso del
termine di impugnazione ovvero, qualora sia stata proposta
impugnazione, del passaggio in giudicato della pronuncia
giurisdizionale (cfr. ris. n. 2/E del 03.01.2005). Si
ritiene, inoltre, che l’irregolarità fiscale viene meno
qualora, alla data rispetto alla quale viene richiesta la
certificazione, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria
sia stata integralmente soddisfatta, anche mediante
definizione agevolata”.
Nella specie dalla documentazione in atti risulta, come
anticipato, che il DURC costituente presupposto della revoca
impugnata è stato impugnato innanzi al Tribunale del lavoro
di Catania, che, per quanto risulta dal fascicolo, non si è
ancora pronunciato. Ne consegue che la controversia non è
stata definita con pronuncia passata in giudicato e che va
esclusa la definitività dell’accertamento.
Concludendo, per le ragioni suesposte, il ricorso è fondato
e va accolto con conseguente annullamento degli atti
impugnati (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
I,
sentenza
19.12.2013
n. 2497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene sia condivisibile
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è
tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina
dei rapporti tra i condomini”, altrettanto lo è anche
l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un
conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine
all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di
assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della
conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave
difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto
dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e
la titolarità del prescritto diritto di godimento”.
A tale proposito il Collegio ritiene che,
sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad
un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i
condomini” (Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2546),
altrettanto lo sia anche l’ulteriore specificazione secondo
cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento progettato, la
scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere
(in base al mero riscontro della conformità agli strumenti
urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e
motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva
corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento” (cfr TAR Campania
Napoli Sez. II, Sent., 07.06.2013, n. 3019)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.12.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il Collegio si allinea al
prevalente indirizzo giurisprudenziale che ritiene di
sussumere il servizio di illuminazione votiva nella
categoria dei servizi pubblici comunali, mentre
l’eventuale affidamento a privati della gestione è
qualificabile quale concessione di servizio pubblico.
Come ha evidenziato l’organo di appello il tratto distintivo
della concessione di pubblico servizio è dato: <<a)
dall'assunzione del rischio a carico del concessionario per
la gestione del servizio;
b) dalla circostanza che il corrispettivo non sia versato
dall'amministrazione, come nei contratti di appalto di
lavori, servizi e forniture, la quale, anzi, percepisce un
canone da parte del concessionario;
c) dalla diversità dell'oggetto del rapporto, che nella
concessione di servizi è trilaterale (coinvolgendo
l'amministrazione, il gestore e gli utenti), mentre
nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante -
appaltatore).>>
Peraltro, sulla questione si può anche richiamare
l’orientamento di questo Tribunale secondo cui: “In forza di
tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio
pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di
pubblica illuminazione debba essere considerato servizio
pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte
dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente
la collettività (o il singolo utente) senza alcuna
intermediazione del Comune nello svolgimento del processo
produttivo”.
---------------
L'illuminazione elettrica di aree
cimiteriali da parte del privato costituisce oggetto di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza
economica, perché richiede che il concessionario impegni
capitali, mezzi e personale da destinare a un’attività
suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di
gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto
concorrenziale del mercato di settore.
A conferma di ciò si può
richiamare la regola generale sancita dall'art. 172, comma 1,
lett. e), del D.Lgs. 267/2000, che impone di allegare al
bilancio di previsione, fra gli altri documenti, le
deliberazioni con le quali sono determinati le tariffe per i
servizi locali.
Sono considerati privi di rilevanza
economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave
meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono
un’organizzazione di impresa in senso obiettivo, e in questo
quadro appare indubbia la riconducibilità del servizio di
illuminazione votiva tra quelli che rivestono spessore
economico,
e detta impostazione non è smentita dall’eventuale
irrisorietà del guadagno che in concreto il servizio
produca.
Anzitutto il Collegio si allinea al
prevalente indirizzo giurisprudenziale che ritiene di
sussumere il servizio di illuminazione votiva nella
categoria dei servizi pubblici comunali, mentre l’eventuale
affidamento a privati della gestione è qualificabile quale
concessione di servizio pubblico (TAR Sicilia Catania,
sez. II – 07/12/2012 n. 2851; Consiglio di Stato, sez. V –
29/03/2010 n. 1790). Come ha evidenziato l’organo di appello
(sez. V – 11/08/2010 n. 5620) il tratto distintivo della
concessione di pubblico servizio è dato:
<<a) dall'assunzione del rischio a carico del concessionario
per la gestione del servizio (cfr. Corte Giustizia CE, Sez.
III, 15.10.2009, n. 196, caso Acoset);
b) dalla circostanza che il corrispettivo non sia versato
dall'amministrazione, come nei contratti di appalto di
lavori, servizi e forniture, la quale, anzi, percepisce un
canone da parte del concessionario (cfr. Cons. St., sez. VI,
05.06.2006, n. 3333; Sez. V 05.12.2008 n. 6049);
c) dalla diversità dell'oggetto del rapporto, che nella
concessione di servizi è trilaterale (coinvolgendo
l'amministrazione, il gestore e gli utenti), mentre
nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante -
appaltatore).>>
I predetti connotati sono rintracciabili nella convenzione
del 30/09/1983, visto che sono previsti interventi gratuiti
del concessionario i quali sostanziano l’erogazione del
compenso dovuto al Comune (art. 11), e che l’utente instaura
un rapporto diretto con il gestore versando a suo favore un
corrispettivo (prezzo di abbonamento – allegato A della
convenzione): dunque la Società Epis assume direttamente il
rischio correlato all’equilibrio economico dell’operazione
condotta.
Peraltro sulla questione si può anche richiamare
l’orientamento di questo Tribunale (cfr. sentenza 27/12/2007
n. 1373 richiamata dalla sez. II – 15/01/2013 n. 26, che
risulta appellata) secondo cui: “In forza di tali nozioni
(cioè quelle di mero servizio e servizio pubblico, n.d.r.)
non vi è dubbio che il servizio di pubblica illuminazione
debba essere considerato servizio pubblico, poiché
dell'erogazione dello stesso, da parte dell'appaltatore,
beneficia direttamente ed esclusivamente la collettività (o
il singolo utente) senza alcuna intermediazione del Comune
nello svolgimento del processo produttivo”.
In secondo luogo, l'illuminazione elettrica di aree
cimiteriali da parte del privato costituisce oggetto di
concessione di servizio pubblico locale a rilevanza
economica, perché richiede che il concessionario impegni
capitali, mezzi e personale da destinare a un’attività
suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di
gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto
concorrenziale del mercato di settore (Consiglio di Stato,
sez. V – 24/01/2013 n. 435). A conferma di ciò si può
richiamare la regola generale sancita dall'art. 172, comma 1,
lett. e), del D.Lgs. 267/2000, che impone di allegare al
bilancio di previsione, fra gli altri documenti, le
deliberazioni con le quali sono determinati le tariffe per i
servizi locali. Sono considerati privi di rilevanza
economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave
meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono
un’organizzazione di impresa in senso obiettivo, e in questo
quadro appare indubbia la riconducibilità del servizio di
illuminazione votiva tra quelli che rivestono spessore
economico (Consiglio di Stato, sez. V – 23/10/2012 n. 5409),
e detta impostazione non è smentita dall’eventuale
irrisorietà del guadagno che in concreto il servizio
produca.
In presenza di una concessione di pubblico servizio non
risultano applicabili le invocate disposizioni di cui agli
artt. 30 e 143 del D.Lgs. 163/2006, che imporrebbero di
adottare provvedimenti di riequilibrio economico finanziario
degli investimenti effettuati al mutare delle condizioni di
fatto e dei presupposti. Detta conclusione discende
anzitutto dal rilievo che l’art. 143 riguarda le concessioni
di lavori pubblici, mentre nella fattispecie già si è
argomentato nel senso del riconoscimento della natura di
concessione di servizio pubblico (cfr. sulla specifica
questione Consiglio di Stato, sez. V – 29/03/2010 n. 1790).
Inoltre, l’art. 30 fa riferimento al perseguimento
dell’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio secondo una valutazione compiuta
ex ante (al
momento di avviare la gara), mentre nella fattispecie non si
rinviene alcuna disposizione nella convenzione stipulata tra
le parti.
Infine, la ricorrente ha soltanto genericamente
prospettato l’omessa rideterminazione delle nuove
condizioni, e non ha fornito –con l’ausilio di un
dettagliato quadro economico– un resoconto puntuale delle
circostanze sopravvenute che avrebbero inciso
sull’equilibrio del sinallagma, in disparte la non
insignificante questione dell’imminente cessazione del
rapporto concessorio, come si vedrà in seguito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 14.12.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Parte della giurisprudenza sostiene che ogni
cittadino residente in un dato Comune potrebbe per ciò solo
impugnare gli atti di adozione e approvazione del relativo
strumento urbanistico generale, indipendentemente da un
diretto e immediato pregiudizio da essi derivante per un
bene a lui riconducibile, poiché sarebbe titolare di un
interesse alla riedizione dell’attività amministrativa, nel
senso che ove il suo ricorso fosse accolto l’amministrazione
sarebbe tenuta a riapprovare il piano annullato, con
possibilità di un risultato più favorevole.
Il Collegio peraltro condivide l’orientamento maggioritario,
ove citata anche la giurisprudenza minoritaria, osservando
che poter trarre dall’accoglimento del ricorso una qualche
utilità non significa automaticamente essere titolari di una
posizione legittimante che consenta di proporlo: se i due
concetti si identificassero, si finirebbe per consentire il
ricorso stesso anche ai portatori di interessi di mero fatto
e lo si configurerebbe, in ultima analisi, come un’azione
popolare.
Nel caso del piano urbanistico poi, come evidenziato sempre
da TAR Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si cita,
l’impugnazione generalizzata contraddice la natura stessa
dello strumento urbanistico generale, costituito
“essenzialmente da un insieme di prescrizioni valevoli per
le singole zone omogenee del territorio comunale o per
singole aree o fabbricati… scindibili ai fini del loro
eventuale annullamento in sede giurisdizionale”,
annullamento che va “circoscritto alle aree o ai lotti
interessati dalle prescrizioni giudicate illegittime” senza
che si possa annullare l’intero piano per far conseguire al
privato un’utilità solo strumentale.
In ordine al
secondo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti,
sussiste il difetto di interesse evidenziato nei termini di
cui in narrativa, poiché la ricorrente non ha evidenziato
alcun concreto pregiudizio che le deriverebbe dalla presunta
mancata predisposizione del PUGSS.
Come è noto, parte della
giurisprudenza sostiene che ogni cittadino residente in un
dato Comune potrebbe per ciò solo impugnare gli atti di
adozione e approvazione del relativo strumento urbanistico
generale, indipendentemente da un diretto e immediato
pregiudizio da essi derivante per un bene a lui
riconducibile, poiché sarebbe titolare di un interesse alla
riedizione dell’attività amministrativa, nel senso che ove
il suo ricorso fosse accolto l’amministrazione sarebbe
tenuta a riapprovare il piano annullato, con possibilità di
un risultato più favorevole.
Il Collegio peraltro condivide l’orientamento
maggioritario, enunciato per tutte da C.d.S. sez. IV 13.07.2010 n. 4542 e da TAR Sardegna sez. II
06.10.2008
n. 1815, ove citata anche la giurisprudenza minoritaria,
osservando che poter trarre dall’accoglimento del ricorso
una qualche utilità non significa automaticamente essere
titolari di una posizione legittimante che consenta di
proporlo: se i due concetti si identificassero, si finirebbe
per consentire il ricorso stesso anche ai portatori di
interessi di mero fatto e lo si configurerebbe, in ultima
analisi, come un’azione popolare.
Nel caso del piano urbanistico poi, come evidenziato
sempre da TAR Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si
cita, l’impugnazione generalizzata contraddice la natura
stessa dello strumento urbanistico generale, costituito
“essenzialmente da un insieme di prescrizioni valevoli per
le singole zone omogenee del territorio comunale o per
singole aree o fabbricati… scindibili ai fini del loro
eventuale annullamento in sede giurisdizionale”,
annullamento che va “circoscritto alle aree o ai lotti
interessati dalle prescrizioni giudicate illegittime” senza
che si possa annullare l’intero piano per far conseguire al
privato un’utilità solo strumentale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte adottate dal
Comune in sede di pianificazione urbanistica di carattere
generale, anche se opinabili, sono espressione di una
discrezionalità molto ampia, sindacabile in sede di
giurisdizione di legittimità nei soli casi di illogicità o
travisamento dei fatti di carattere manifesto.
I motivi
quarto e quinto del secondo ricorso per motivi aggiunti
vanno esaminati congiuntamente, in quanto vanno respinti per
identico ordine di ragioni.
Va ripetuto l’insegnamento
costante, per tutte da ultimo C.d.S. sez. VI 13.06.2013
n. 3310, per cui le scelte adottate dal Comune in sede di
pianificazione urbanistica di carattere generale, anche se
opinabili, sono espressione di una discrezionalità molto
ampia, sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità
nei soli casi di illogicità o travisamento dei fatti di
carattere manifesto.
Nella specie, tali fattispecie non
ricorrono, perché banalmente le scelte di ampliare la
dotazione di standard a parcheggio di un dato lotto e di
variare i criteri di calcolo dell’altezza massima ammessa
per i nuovi edifici appartengono alla prassi usuale del
settore, né appaiono nella specie particolarmente
innovative, ancorché a dire della ricorrente non soddisfino
le sue aspettative (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il paesaggio è un valore
costituzionale primario e le valutazioni di compatibilità
ambientale concretano un apprezzamento tecnico-discrezionale
rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto
alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da
incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella
formulazione di giudizi che spettano solo all’autorità
competente: ciò presuppone, però, lo svolgimento di un
accertamento in concreto per valutare la compatibilità del
manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella
motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le
ragioni per le quali la realizzazione (o la conservazione,
nell’ipotesi di sanatoria) dell'intervento sia da ritenersi
incompatibile con i valori tutelati.
E’ stato specificato che il diniego emesso dall’autorità
preposta alla tutela del vincolo deve essere assistito da un
apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si
soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali
che sconsigliano di assentire un determinato intervento:
devono quindi emergere in concreto i profili per i quali il
manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed
estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità
del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa,
degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il
vincolo è preordinato.
---------------
La motivazione che assiste i provvedimenti sfavorevoli
appare lacunosa e –seppur non prescindendo da un’effettiva
conoscenza dello stato dei luoghi– non tiene conto di alcuni
elementi di fatto esibiti in giudizio (cfr. materiale
fotografico).
Non è assolutamente chiara la produzione di un “forte
disturbo” al prospetto verso lago derivante dalla mera
trasformazione di due porte-finestre separate da un setto di
muro (di 190 cm) in un’unica ampia apertura di 410 x 220
cm..
In particolare non si comprende ancora come la nuova
immagine sia (rispetto alla precedente) inaccettabile da un
punto di vista estetico, e in particolare la ragione della
dedotta “perdita dell’identità figurativa del sistema
edilizio che si percepisce nel contesto del Lungolago”: va
ribadito che in presenza di un intervento obiettivamente
modesto e di portata sostanzialmente neutra (unica parete
finestrata in luogo di 2 finestre intervallate dal muro)
devono essere evidenziati in modo puntuale i profili di
incompatibilità del nuovo profilo con l’ambiente.
L’ampia discrezionalità “estetica” della valutazione deve
essere ancorata su argomentazioni coerenti con lo stato
effettivo dei luoghi e con la portata dell’intervento, che
nella specie mancano. Non intelleggibile è il dichiarato
stravolgimento del “sistema proporzionale sia nei rapporti
pieni-vuoti della facciata”, mentre il rapporto dimensionale
base-altezza dell’apertura non risulta modificato,
contrariamente a quanto dichiarato dagli esperti.
Va premesso che il paesaggio è un valore
costituzionale primario (TAR Campania Salerno, sez. I –
21/06/2013 n. 1380) e che le valutazioni di compatibilità
ambientale concretano un apprezzamento tecnico-discrezionale
rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto
alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da
incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella
formulazione di giudizi che spettano solo all’autorità
competente (TAR Abruzzo Pescara – 20/06/2009 n. 448): ciò
presuppone, però, lo svolgimento di un accertamento in
concreto per valutare la compatibilità del manufatto con il
provvedimento di vincolo, e nella motivazione dell'atto
devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali
la realizzazione (o la conservazione, nell’ipotesi di
sanatoria) dell'intervento sia da ritenersi incompatibile
con i valori tutelati (TAR Lombardia Milano, sez. IV –
22/10/2013 n. 2340).
E’ stato specificato (sentenza sez. II Bs – 02/02/2011 n.
224, che richiama TAR Toscana, sez. II – 14/3/2008 n.
295; TAR Liguria, sez. I – 22/12/2008 n. 2187) che il
diniego emesso dall’autorità preposta alla tutela del
vincolo deve essere assistito da un apparato motivazionale
che –sia pure in forma sintetica– si soffermi sulla realtà
dei fatti e sugli elementi ambientali che sconsigliano di
assentire un determinato intervento: devono quindi emergere
in concreto i profili per i quali il manufatto, per le sue
caratteristiche architettoniche ed estetiche, viene
giudicato pregiudizievole dell’integrità del contesto
paesaggistico in cui si inserisce e, con essa, degli
specifici interessi pubblici alla cui tutela il vincolo è
preordinato.
Nella fattispecie affrontata in questa sede, la
motivazione che assiste i provvedimenti sfavorevoli appare
lacunosa e –seppur non prescindendo da un’effettiva
conoscenza dello stato dei luoghi– non tiene conto di
alcuni elementi di fatto esibiti in giudizio (cfr. materiale
fotografico). Non è assolutamente chiara la produzione di un
“forte disturbo” al prospetto verso lago derivante dalla
mera trasformazione di due porte-finestre separate da un
setto di muro (di 190 cm) in un’unica ampia apertura di 410
x 220 cm. Tenuto conto della natura del vincolo introdotto
con D.M. 06/02/1959 e della ridotta percezione degli elementi
modificati –per la localizzazione nella rientranza di un
terrazzo circondato da una protezione in muratura– non si
comprende la fonte della distonia dell’intervento con il
contesto tutelato.
L’amministrazione ha evidenziato che non si tratta di un
intervento innocuo poiché la finestra prospetta direttamente
sulla passeggiata e, nonostante la parete sia parzialmente
ritratta, la modificazione sarebbe perfettamente
percepibile. Tale asserzione appare smentita dall’esame del
materiale fotografico, dal quale risulta un’attenuazione
nella visuale della parete per l’interferenza del parapetto.
Né assume spessore il fatto che la collocazione renda la
finestra visibile da ogni angolazione, poiché ciò che
difetta è l’esternazione delle ragioni per le quali il nuovo
profilo (unica parete finestrata) inciderebbe in negativo
sul paesaggio rispetto all’immagine percepita in precedenza
(con due finestre intervallate dal muro).
La fondatezza della censura principale permette di assorbire
l’ulteriore doglianza sulla mancata indicazione degli
accorgimenti alternativi.
---------------
E’ parimenti
fondato il ricorso r.g. 1687/2005, per violazione dell’art.
32 della L. 326/2003, dell’art. 32 della L. 47/1985, dell’art.
146 del D.Lgs. 42/2004, illegittimità per carenza di
motivazione e difetto di istruttoria, in quanto la
Commissione edilizia non ha dato conto del tipo di giudizio
sotteso al parere.
E’ in effetti mancata –anche in questo caso– una
valutazione in concreto dell’impatto dei lavori sul
paesaggio, in assenza di una variazione nell’altezza
dell’apertura. In particolare non si comprende ancora come
la nuova immagine sia (rispetto alla precedente)
inaccettabile da un punto di vista estetico, e in
particolare la ragione della dedotta “perdita dell’identità
figurativa del sistema edilizio che si percepisce nel
contesto del Lungolago”: va ribadito che in presenza di un
intervento obiettivamente modesto e di portata
sostanzialmente neutra (unica parete finestrata in luogo di
2 finestre intervallate dal muro) devono essere evidenziati
in modo puntuale i profili di incompatibilità del nuovo
profilo con l’ambiente.
L’ampia discrezionalità “estetica”
della valutazione deve essere ancorata su argomentazioni
coerenti con lo stato effettivo dei luoghi e con la portata
dell’intervento, che nella specie mancano. Non intelleggibile
è il dichiarato stravolgimento del “sistema proporzionale
sia nei rapporti pieni-vuoti della facciata”, mentre il
rapporto dimensionale base-altezza dell’apertura non risulta
modificato, contrariamente a quanto dichiarato dagli esperti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 09.12.2013 n. 1112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo il diniego della Soprintendenza al
rilascio della richiesta autorizzazione paesaggistica per
l'installazione di pannelli fotovoltaici laddove è stata
addotta la motivazione che "i pannelli fotovoltaici,
interrompendo la continuità delle coperture tradizionali,
creerebbero un elemento di interferenza visiva che
“stonerebbe rispetto all’insieme costituito dalla bellezza
naturale dei luoghi e dalla sua antropizzazione secondo
tipologie costruttive tradizionali (la somma della bellezza
naturale dei luoghi e della loro antropizzazione in forme
tradizionali costituisce il paesaggio)”.
Né si ravvisano elementi di incoerenza, irragionevolezza o
errore tecnico, se si considera come obiettivo primario e
come interesse pubblico perseguito quello alla conservazione
del panorama nel suo complesso considerato, secondo la
definizione sopra datane.".
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9666 del
17/12/2010, recante diniego dell'istanza di autorizzazione
paesaggistica per le opere consistenti in installazione di
pannelli fotovoltaici.
...
Come già evidenziato da questo Tribunale nella pronuncia
adottata in sede cautelare -dalle cui conclusioni il
Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, nemmeno alla
luce delle ulteriori considerazioni di parte ricorrente
(sostanzialmente riproduttive del ricorso)-, la
Soprintendenza ha, nel caso di specie, formulato un giudizio
sul caso concreto sottoposto alla sua attenzione (così come
richiesto dalla giurisprudenza citata anche da parte
ricorrente, tra cui si segnala la sentenza TAR Veneto, II,
25.01.2012, n. 48 e l’ordinanza di questo Tribunale n.
904/2010).
Tale giudizio rientra nell’ambito della discrezionalità
tecnica dell’Amministrazione, a fronte della quale il
giudice amministrativo incontra il limite del sindacato
debole allo stesso riconosciuto, con la conseguenza che il
giudizio stesso potrebbe essere ritenuto illegittimo solo se
incoerente, irragionevole o frutto di errore tecnico.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha ritenuto che i
pannelli fotovoltaici, interrompendo la continuità delle
coperture tradizionali, creerebbero un elemento di
interferenza visiva che “stonerebbe rispetto all’insieme
costituito dalla bellezza naturale dei luoghi e dalla sua
antropizzazione secondo tipologie costruttive tradizionali
(la somma della bellezza naturale dei luoghi e della loro
antropizzazione in forme tradizionali costituisce il
paesaggio)” (così l’ordinanza di questo Tribunale n.
206/2011).
Né -anche alla luce di quanto rappresentato nella propria
difesa finale dal ricorrente, che sostanzialmente non
aggiunge nuovi elementi alla tesi sostenuta nel ricorso-, si
ravvisano elementi di incoerenza, irragionevolezza o errore
tecnico, se si considera come obiettivo primario e come
interesse pubblico perseguito quello alla conservazione del
panorama nel suo complesso considerato, secondo la
definizione sopra datane.
Il ricorso deve, dunque, essere rigettato (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.12.2013 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Deve essere esclusa dalla
gara pubblica l'impresa che non ha prodotto l'attestazione
del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi
i lavori, imposta a pena di esclusione dal disciplinare di
gara; ciò in quanto, con il richiedere l'attestazione della
presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le
circostanze che possono influire sull'esecuzione dell'opera,
e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione
appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere
cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa
responsabilità contrattuale di quest'ultimo.
La provenienza di detto documento dall'Amministrazione
aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a
presidio dell'interesse, di ordine imperativo,
all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla
correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza
con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice
dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad
una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione
proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare
posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo
garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo
contenuto.
---------------
Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma
1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio
della tassatività delle cause di esclusione dalla gare
pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della
disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non
costituisce norma di principio estensibile al di fuori di
tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione (se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis, autovincolante per
l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita
di beni immobili da parte dello Stato e delle altre
Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, altresì, la norma, espressiva invece di un
principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art.
46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere
di soccorso”, atteso che, una volta constatata la
sostanziale assenza di un requisito essenziale per la
partecipazione in corso di gara, la conseguente
regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in
un'integrazione della domanda proposta, configurandosi
perciò come una violazione del principio della "par
condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Peraltro, come si evince da pag. 12 del predetto avviso, con
inciso riportato con caratteri in grassetto ed
opportunamente sottolineato, la lex specialis ha
disposto che “La mancata presentazione di uno solo dei
documenti, dichiarazioni o della cauzione costituisce
automatica esclusione dalla partecipazione alla gara”.
Inoltre, l’art. 4 della lex specialis prescrive
chiaramente che il concorrente doveva presentare, per ogni
singolo lotto cui intendeva partecipare, a pena di
esclusione, un plico contenente un’elencazione di documenti,
tra cui, per la busta relativa alla documentazione
amministrativa, l’attestazione per cui è causa; l’art. 9,
relativo alle disposizioni di carattere generale, ribadiva
che “L’assenza dei requisiti richiesti per la
partecipazione alla gara e la violazione delle prescrizioni
previste dal presente avviso determineranno l’esclusione
dalla gara”.
Né tale omissione è surrogabile da un’autocertificazione ex
d.P.R. 28.12.2000, n. 445 poiché l’efficacia probatoria
equivalente di quest’ultima è stata espressamente esclusa,
nella specie, dalla lex specialis, che ha prescritto
un mezzo di prova più rigoroso.
Come d’altra parte ha già statuito la Sezione in caso
analogo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03.07.2012, n.
3881, attinente agli appalti pubblici di lavori), deve
essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha
prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei
luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di
esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il
richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle
condizioni locali e di tutte le circostanze che possono
influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla
formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a
carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui
corrisponde una altrettanto precisa responsabilità
contrattuale di quest'ultimo. La provenienza di detto
documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a
quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di
ordine imperativo, all'individuazione del contraente più
idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e,
dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale
norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice
dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad
una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione
proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare
posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo
garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo
contenuto.
Non è, invece, applicabile la norma contenuta nell’art. 46,
comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il
principio della tassatività delle cause di esclusione dalla
gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della
disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non
costituisce norma di principio estensibile al di fuori di
tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione (se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis, autovincolante per
l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita
di beni immobili da parte dello Stato e delle altre
Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, invece, la norma, espressiva invece di un
principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art.
46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere
di soccorso”, atteso che, una volta constatata la
sostanziale assenza di un requisito essenziale per la
partecipazione in corso di gara, la conseguente
regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in
un'integrazione della domanda proposta, configurandosi
perciò come una violazione del principio della "par
condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Non rilevanti sono le questioni relativa alla numerosità
delle prescrizioni a pena di esclusione e non sono fondate
quelle in ordine alla violazione del cd. favor
partecipationis (come appena detto, non applicabile nel
caso di violazione del principio della par condicio dei
concorrenti) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2013 n. 5470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'azione di risarcimento conseguente
all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento
illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico
della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il
provvedimento stesso e della gravità delle violazioni
imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle
valutazioni discrezionali rimesse all'organo amministrativo
nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l'
Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza
automatica della pronuncia del giudice della legittimità.
---------------
La giurisprudenza ha in passato osservato –e non v’è ragione
per discostarsi da tale approdo- che, perché possa
configurarsi la responsabilità della p.a. è sufficiente la
colpa, anche lieve dell'apparato amministrativo.
E parimenti si è avuto modo in passato di evidenziare il
ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul
privato, atteso che “fermo restando l'inquadramento della
maggior parte delle fattispecie di responsabilità della
p.a., tra cui quella in esame, all'interno della
responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto
al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo
illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il
profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo
configurabile, in mancanza di un'espressa previsione
normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa
dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto
illegittimo o comunque ad una violazione delle regole,
possono invece operare regole di comune esperienza e la
presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta
dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità
del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o
anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare
che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di
contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di
un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di
contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una
norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in
vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata.”
La Sezione condivide infatti
l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa che ha
ancora di recente affermato che “l'azione di risarcimento
conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un
provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che
inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle
violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo
amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha
operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una
conseguenza automatica della pronuncia del giudice della
legittimità.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01.10.2007, n.
5052).
In sintesi: avuto riguardo al petitum proposto, sarà
necessario valutare se sia riscontrabile l’elemento della
colpa a carico dell’Amministrazione: per fare ciò sarà
altresì necessario individuare l’incidenza della condotta
posta in essere dalla parte controinteressata latrice del
provvedimento ampliativo favorevole successivamente oggetto
di atto di autotutela e, lo si ripete,dovrà essere parimenti
valutata, ex art. 1227 del codice civile, la condotta
spiegata dalla odierna parte appellante e l’incidenza
complessiva della medesima sia in termini di causazione
dell’illegittimità che di produzione del danno.
Anticipa a tale proposito il Collegio che l’approdo
valutativo cui è giunto il primo giudice appare senz’altro
corretto sotto l’assorbente profilo dell’assenza di colpa in
capo all’Amministrazione odierna appellata.
Nel caso di specie infatti si ritiene che l’operato
dell’apparato amministrativo sia del tutto immune da censure
sotto il profilo della sussistenza dell’elemento colposo.
Come già accennato, la giurisprudenza ha in passato
osservato –e non v’è ragione per discostarsi da tale
approdo- che, perché possa configurarsi la responsabilità
della p.a. è sufficiente la colpa, anche lieve dell'apparato
amministrativo (Consiglio Stato, sez. VI, 23.06.2006,
n. 3981).
E parimenti si è avuto modo in passato di evidenziare il
ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul
privato, atteso che “fermo restando l'inquadramento della
maggior parte delle fattispecie di responsabilità della
p.a., tra cui quella in esame, all'interno della
responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto
al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo
illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il
profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo
configurabile, in mancanza di un'espressa previsione
normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa
dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto
illegittimo o comunque ad una violazione delle regole,
possono invece operare regole di comune esperienza e la
presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta
dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può,
quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale
indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze
ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un
errore non scusabile. Spetterà, di contro,
all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un
errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di
contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una
norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in
vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata.” (Consiglio Stato ,
sez. VI, 23.06.2006, n. 3981)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2013 n. 5458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Polizia giudiziaria. Guardie volontarie WWF.
Alle Guardie volontarie del WWF non può essere attribuita la
qualifica di agenti di polizia giudiziaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2013 n. 44426 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità permesso di costruire in
sanatoria con effetti temporanei o parziali.
È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato
edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45
del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso
di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo
soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o,
ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò
contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.10.2013 n. 44189 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Aree non comprese nei programmi pluriennali di
attuazione.
L'art. 38 L. 865/1971, come success. modif., prevede che «I
piani nonché i loro aggiornamenti di cui al precedente
art. 31 hanno efficacia per 18 anni e sono attuati a mezzo di
programmi pluriennali.» (comma 2) e che "In assenza del
programma o della individuazione di cui alla lett. b) del
precedente secondo comma l'utilizzazione delle aree può
avvenire esclusivamente in regime di superficie e la
relativa determinazione è vincolante in sede di approvazione
dei programmi pluriennali di attuazione (comma 4).
Per le
aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione i
permessi di costruire sono rilasciati quando si tratti di
aree comprese nei Piani di zona, ma in tal caso però, come
prevede l'art. 38, comma 4, l'utilizzazione delle aree può
avvenire soltanto in regime di superficie, a meno che non
siano state individuate comunque le aree di cui alla lett. b) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.10.2013 n. 44294 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Sequestro preventivo intervento abusivo in
zona vincolata.
Con riferimento agli interventi abusivi eseguiti in zona
sottoposta a vincoli, ai fini della legittimità del
provvedimento di sequestro preventivo rileva la sola
esistenza di una struttura abusiva che integra il requisito
dell'attualità del pericolo, indipendentemente all'essere
l'edificazione illecita ultimata o meno, in quanto il
rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio
ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio,
perdura in stretta connessione all'utilizzazione della
costruzione ultimata
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.10.2013 n. 42363 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva ed esecuzione opere di
urbanizzazione.
Il percorso criminoso intrapreso con il
frazionamento e la vendita dei terreni, attività già da sole
sufficienti ad integrare il reato di lottizzazione abusiva,
prosegue comunque con i successivi interventi che incidono
sull'assetto urbanistico, perché l'esecuzione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria compromette
ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del
territorio riservate alla competenza pubblica
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.10.2013 n. 42361 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Raccolta e trasporto di rifiuti speciali in difetto
di titoli abilitativi.
L'attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali in
difetto di titoli abilitativi costituisce reato anche in
mancanza della qualità di imprenditore ovvero di
un'organizzazione imprenditoriale
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.10.2013 n. 42338 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia non qualificabile pertinenza.
La costruzione di una tettoia di
copertura non può qualificarsi come pertinenza, in quanto si
tratta di un’opera priva del requisito della individualità
fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo
parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata.
La
costruzione di una tettoia, pertanto, in difetto del
preventivo rilascio dei permesso di costruire, integra il
reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1,
lettera b) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.10.2013 n. 42330 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Scarico reflui provenienti da molitura delle olive.
Lo scarico senza autorizzazione di acque reflue derivanti
dall’attività di molitura delle olive integra il reato di
cui all’art. 137 del d.lgs. n. 152 del 2006, non essendo
tali reflui assimilabili alle acque urbane in base al
disposto dell’art. 101, comma 7, lettera c), dello stesso
decreto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2013 n. 42149 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Computo ai fini volumetrici dei locali
interrati.
In tema di attività edilizia, anche i locali interrati
devono essere computati ai fini volumetrici, perché detto
calcolo deve essere effettuato, salvo che non viga
un’espressa disposizione contraria, con riferimento
all’opera in ogni suo elemento, ivi compresi gli ambienti
seminterrati ed interrati funzionalmente asserviti, giacché
nel concetto di costruzione rientra ogni intervento edilizio
che abbia rilevanza urbanistica, in quanto incide
sull’assetto del territorio ed aumenta il c.d. carico
urbanistico e tali sono pure i piani interrati cioè
sottostanti al livello stradale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2013 n. 42147 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Confisca mezzi utilizzati per il trasporto illecito
di rifiuti.
La confisca dei mezzi utilizzati per l’illecito trasporto di
rifiuti è obbligatoria, ai sensi dell’art. 259, comma 2, del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, con la conseguenza che la
sopravvenuta iscrizione all’Albo gestori ambientali del
titolare dell’automezzo adibito al trasporto di rifiuti non
esclude la confisca del mezzo stesso, precedentemente
sottoposto a sequestro preventivo per la mancanza di detta
iscrizione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2013 n. 42140 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilevanza penale della materiale aggiunta di un
testo su d.i.a. già presentata.
La materiale aggiunta di un testo sulla d.i.a. già
presentata, esclusa la sua natura provvedimentale, non può
configurare il delitto di cui all'art. 476 cod. pen., in
quanto il deposito presso l'ufficio competente a riceverla
non le attribuisce natura di atto pubblico, mantenendo essa
l'originaria caratteristica di mera dichiarazione corredata
dalla relazione di asseverazione e dagli elaborati
progettuali aventi valore di certificazione che ne
costituiscono parte integrante e l'alterazione dei quali
assume, invece, diversa rilevanza penale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2013 n. 41480 - tratto da www.lexambiente.it). |
PATRIMONIO:
Beni culturali. Degrado monumenti e responsabilità enti
pubblici.
L'ente pubblico proprietario del
complesso monumentale lasciato in stato di abbandono, al
degrado e alla vandalizzazione altrui, e altresì tutti
coloro che erano tenuti alla conservazione ed alla vigilanza
del medesimo bene culturale, rispondono innanzitutto ai
sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei danneggiamenti
strutturali e dei pericoli di crollo che siano stati
immediatamente e direttamente causati dalla mancanza di
manutenzione ordinaria (e che nulla abbiano a che fare con
l'opera di eventuali ignoti occupanti abusivi o con gli
abusi edilizi consumati all'interno dello stesso sito o con
la condotta di chi lo ha usato come discarica di rifiuti
-come avvenuto nella specie-).
----------------
Gravano inoltre sul sindaco, e o sul dirigente in suo luogo
delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere
omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati
pericoli di crollo (nella specie più volte denunziati e già
avvenuti), anche attraverso l'esercizio dei poteri di
ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Se poi sul medesimo sito gravano specifici vincoli storico
monumentale, paesaggistico, idrogeologico, di
inedificabilità assoluta, o di altra natura, i predetti enti
tenuti alla manutenzione e conservazione e tutela del bene,
nelle persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da
individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondono
delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate
direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva
del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte
arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal
mancato esercizio della doverosa vigilanza.
In particolare i danneggiamenti strutturali, gli abusi
edilizi compiuti all'interno del monumento, così come il
conferimento di rifiuti presso il suo sito (come è avvenuto
nella specie) costituiscono condotte di violazione dei
vincoli monumentale e paesaggistico su esso gravanti, ai
sensi dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del
Dlgs. 42/2004; e sono in concreto riconducibili alla
responsabilità immediata e diretta dei predetti enti
pubblici proprietari o tenuti alla conservazione e alla
tutela, relativamente ai danni da mancanza di manutenzione;
i medesimi enti, relativamente alle violazioni dei vincoli,
compiute da terzi attraverso abusi edilizi e conferimenti
incontrollati di rifiuti, risponderanno a titolo di concorso
laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi- abbia
assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
---------------
La totale omissione di ogni vigilanza sul monumento, ove
sotto gli occhi di tutti vi si continuino a consumare per
anni abusi edilizi, conferimenti di rifiuti, adibizioni
abusive e deturpanti di ogni sorta, palesa i caratteri
dell'acquiescenza (a tali abusi) da parte degli enti
responsabili della sorte del monumento, diffondendo nella
popolazione la convinzione del loro disinteresse e della
loro chiara volontà di lasciarne fare a chiunque quel che
creda.
L'ordinamento nel suo complesso appresta al patrimonio
storico e artistico una accentuata tutela conto le azioni
dannose, prevedendo poteri-doveri di tutela di altrettanta
pregnanza, che ricevono particolari riconoscimento e
copertura costituzionale (cfr. tra gli altri gli artt. 838
c.c., l'art. 733, gli artt. 169 e 181 cod. beni culturali, e
innanzitutto l'art. 9 Cost.).
---------------
L'abbandono impietoso di un monumento, costituisce un aperto
dispregio dell'obbligo giuridico di natura generale di
gestione del bene di interesse pubblico secondo i criteri
del buon padre di famiglia.
---------------
La funzione di vigilanza e di tutela di un bene immobile di
notevole importanza monumentale, da esercitarsi innanzitutto
mediante una gestione e una manutenzione ordinaria adeguate,
non afferiscono a profili di discrezionalità del
proprietario o di chi sia investito ad altro titolo della
sua conservazione, anche ove questi siano delle pubbliche
amministrazioni, ma a ben specifici obblighi giuridici di
agire, che si traggono agevolmente dalla disciplina penale
(che incrimina condotte di violazione della integrità del
bene culturale, cfr. artt. 733 e 677 c.p., artt.169 e 181
cod. beni culturali; dalla disciplina civilistica (art. 838
c.c.), dalla normativa di natura amministrativa, che
regolamenta l'esercizio di relativi compiti e poteri
affidati a diversi organismi della p.a., e dal fondamentale
principio di rango costituzionale di tutela del patrimonio
storico e artistico e del paesaggio della nazione (art. 9
Cost. e cfr. inoltre art. 117 Cost., comma 2, lett. S)
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it -
TRIBUNALE di Palermo, G.I.P.,
ordinanza 08.10.2013 n. 16090). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di falsità ideologica in certificati (DIA).
Integra il reato di falsità ideologica in certificati (art.
481 cod. pen.), non solo la falsificazione della
dichiarazione di inizio attività, ma anche quella
riguardante la relazione di accompagnamento alla stessa,
avendo essa natura di certificato in ordine alla descrizione
dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli
eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile
interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle
opere che si intende realizzare e all’attestazione della
loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento
edilizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2013 n. 40975 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Falso in atto pubblico per induzione.
Sulla configurabilità del falso in atto pubblico per
induzione (artt. 48-479 cod. pen.) in caso di presentazione
di una dichiarazione di variazione catastale ideologicamente
falsa, attestante un frazionamento in realtà non avvenuto e
la sua ricezione da parte dell'agenzia del territorio nella
scheda catastale (fattispecie relativa a falso in condono
edilizio e lottizzazione abusiva per trasformazione di un
immobile da alberghiero a residenziale (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 02.10.2013 n. 40785 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Nozione di veicolo fuori uso.
Deve considerarsi "fuori uso" non solo quel veicolo di cui
il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di
disfarsi, ma anche tanto quello destinato alla demolizione,
privo delle targhe di immatricolazione, anche prima della
materiale consegna a un centro di raccolta, quanto quello
che risulti in evidente stato di abbandono, anche se
giacente in area privata
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 02.10.2013 n. 40747 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Complesso multisala cinematografiche, diniego esclusione dal
contributo di concessione spazi promiscui e parcheggi.
In funzione dell'inesistenza di un
vincolo di pertinenzialità esclusiva con l'attività di
pubblico spettacolo cinematografico non possono escludersi
dal computo della volumetria i c.d. spazi "promiscui", ossia
ingressi, uscite, atrii, servizi igienici, salvo che non ne
sia possibile una delimitazione fisica e strutturale tale da
renderli funzionali ai soli spettatori delle proiezioni
cinematografiche.
Inoltre, poiché non sussiste, né è stato comprovato, un
vincolo d'asservimento esclusivo degli spazi a parcheggio
alla sola attività di spettacolo cinematografico, non può
invocarsi una relazione di pertinenzialità tra i parcheggi e
le sale cinematografiche, quindi, non possono essere esclusi
dal calcolo della volumetria gli spazi adibiti a parcheggio
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4859 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo
edilizio.
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire
la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente
quando le opere intraprese siano tali da evidenziare
l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a
ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione,
ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa
a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione, con la conseguenza che la
declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato
inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima
solo se sono stati perlomeno eseguiti lo scavo ed il
riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni
perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il
termine di legge, o se lo sbancamento realizzato si estende
un’area di vaste dimensioni
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Rifiuti. Tariffa rifiuti aree produttive.
Con l’art. 195, comma 2, lett. e), del
d. lgs. n. 152 del 2006 si è dettata una normativa chiara e
coerente con i principi comunitari, essendosi stabilito che
“non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si
formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di
materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti
negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei
locali di servizio dei lavoratori o comunque aperti al
pubblico”.
In quanto non assimilabili, i rifiuti che si formano nelle
aree produttive, salve le eccezioni sopra elencate, sfuggono
al regime transitorio e si pongono al di fuori della
privativa comunale. Il che comporta che questi rifiuti non
possono essere conferiti al servizio pubblico di raccolta
dei rifiuti urbani, ma come stabilisce l’art. 188, comma 2,
lett. c), del d.lgs. n. 152 del 2006 e la remunerazione del
servizio deve essere assicurata attraverso apposita
convenzione e, quindi, attraverso un canone o tariffa
rapportata prevalentemente ai volumi e pesi conferiti
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4756 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Elettrosmog. Delocalizzazione di impianto ripetitore per
telefonia cellulare.
Deve considerarsi legittima la
previsione di spostamento di un impianto per telefonia
cellulare inserita nel piano di localizzazione delle
stazioni radio base di un comune, integrando essa una
prescrizione non generalizzata attinente all'urbanistica ed
alla pianificazione del territorio che ha natura consentita
dalla legge quadro n. 36/2001.
L'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 è
necessaria, perché espressamente prevista anche per “la
modifica delle caratteristiche di emissione" e l’intervento
eseguito nella fattispecie, per le sue connotazioni
innovative concrete, non può considerarsi di mera
manutenzione dell’esistente ma (essendo anche assimilato in
via normativa ad un incremento dell’urbanizzazione primaria)
non può ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure
sotto il profilo urbanistico.
Il silenzio-assenso di cui al comma 9 dell’art. 87 del
d.Lgs. n. 259/2003 non può ritenersi formato in mancanza di
conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni contenute
nell’anzidetto piano di localizzazione
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2013 n. 39415 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Esercizio di impianto o attività inquinante ed elemento
soggettivo del reato.
La responsabilità penale posta dalla norma incriminatrice
(art. 279, comma 2, d.lgs. 152/2006) a carico dei soggetti
che esercitano un impianto o un’attività inquinante discende
da colpa, intesa in senso ampio, ossia negligenza,
imprudenza o imperizia, conseguente non solo a comportamenti
commissivi, ma anche ad inosservanza di prescrizioni pure
individuali impartite dall’autorità competente nel generale
contesto del dovere positivo di adozione di tutte le misure
tecniche ed organizzative di prevenzione del danno
ambientale.
Si configura, nella materia, un dovere di controllo e di
prudente vigilanza di colui che esercita l'impianto, imposto
per legge, e soltanto un evento eccezionale del tutto
imponderabile ed imprevedibile (non ravvisabile in relazione
ad eventi riconducibili ad omissioni negligenti) può
costituire causa di esclusione della punibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 24.09.2013 n. 39404 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità ordine di chiusura di allevamento suinicolo.
L’originaria localizzazione
dell’allevamento (va ricordato, industria insalubre di prima
classe, in base, da ultimo, all’elenco allegato al d.m.
05.09.1994, attuativo dell’art. 216 del T.U.LL.SS.) in zona
agricola non esentava il ricorrente, ai sensi dell’art. 216,
cit., dal tenere l’azienda “isolata nella campagna” e
comunque “lontana dalle abitazioni”.
E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217
del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del
d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge
833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità
sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno
delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate
“insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in
qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all'attivazione dell’impianto industriale e può
estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di
attività che presentano i caratteri di possibile
pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti,
specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per
contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle
dell'attività produttiva
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Interventi di minima entità.
Nel testo dell’art. 181 del D.L.vo 42/2004, non si fa alcun
riferimento alla nozione di “interventi di minima entità",
concetto elaborato in via giurisprudenziale ed attualmente
ritenuto l'unico criterio valido di riferimento al fine di
distinguere i casi di totale irrilevanza, come tali non
punibili, da quelli, certamente modesti, ma inclusi
nell’area della punibilità penale per quelle ragioni
connesse alla prioritaria esigenza di salvaguardia del
territorio sotto il profilo ambientale e paesaggistico nel
suo complesso
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 23.09.2013 n. 39049 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione ordinata dal giudice ed ambito di
applicazione.
La demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto
l’immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al
titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito
successivamente che, per la sua accessorietà all'opera
abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo
consentirsi che un qualunque intervento additivo,
abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare
l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione
dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa
restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal
giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse,
si finirebbe per incentivare le più diverse forme di
abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo
indefinito la demolizione di opere in precedenza
illegalmente realizzate
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 20.09.2013 n. 38947 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Nozione di titolare di impresa o responsabile di
ente.
Il reato di cui all'art. 256, comma
secondo, del d.lgs. n. 152 del 2006 è configurabile nei
confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti
nell'ambito di una attività economica esercitata anche di
fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o
dell'attività medesima, così dovendosi intendere il
«titolare di impresa o responsabile di ente» menzionato
dalla norma (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.09.2013 n. 38364 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica dei prospetti e titolo abilitativo
necessario.
Non può ritenersi sufficiente la mera denuncia d'inizio
attività per gli interventi edilizi comportanti una modifica
dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore", rientrando nella
previsione dell’art. 10, lett. c), DPR 380/2001 secondo cui
“costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di
costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici...»
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 18.09.2013 n. 38338 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica stagionale.
E’ legittimo l’atto con cui la
Soprintendenza ha autorizzato la realizzazione di strutture
precarie nell’ambito dello stabilimento balneare a
condizione che le stesse siano rimosse al termine della
stagione estiva. La Soprintendenza, infatti, ha ritenuto che
i valori paesaggistici della zona non subiscono alterazioni
soltanto se il manufatto viene mantenuto per il solo periodo
estivo.
A tale proposito, questa Sezione ha già avuto modo di
affermare, in relazione a fattispecie analoghe, che i
contesti, estivo e invernale, in cui gli stabilimenti si
inseriscono sono diversi, il che implica che differente può
essere l’impatto che un manufatto può avere a seconda del
periodo che viene in rilievo.
Si tenga conto, inoltre, che la concessione per il solo
periodo estivo si giustifica anche alla luce di un
complessivo bilanciamento degli interessi rilevanti e in
considerazione che l’incidenza sull’ambiente è comunque
temporalmente limitata
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.09.2013 n. 4642 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esenzione contributo ex art. 3 legge 10/1977.
Il requisito c.d. soggettivo, necessario
per accordare l’esenzione dal contributo di cui all’art. 3
della l. 10 del 1977, sussiste non solo nel caso in cui
l’opera sia realizzata direttamente da un ente pubblico
nell’esercizio delle proprie competenze istituzionali, ma
anche nel caso in cui l’opus venga realizzato da un soggetto
privato, purché per conto di un ente pubblico, come nel caso
della concessione di opera pubblica o di altre analoghe
figure organizzatorie, in cui l’opera sia realizzata da
soggetti che non agiscano per scopo di lucro, o che
accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con
l’azione dell’amministrazione volta alla cura di interessi
pubblici (massima
tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive e uso pubblico della strada.
La circostanza che il Comune non sia
intervenuto tempestivamente nell'assumere iniziative per il
ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla
demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non può
ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della
strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle
strade pubbliche.
Per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di
autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi
dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865 n.
2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt.
01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche quando
da tempo la strada non è stata utilizzata dalla collettività
ed anche quando sia diventata impraticabile al carreggio
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Destinazione d'uso e strumenti di
pianificazione.
La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la
connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di
interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa,
infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed
attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la
destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle
varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili
relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi.
L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull’organizzazione dei
servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione
ottimale del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38005 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di veranda.
Una veranda è da considerarsi, in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente
utilizzabile e difetta normalmente del carattere di
precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire
ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva
rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando cosi il
godimento dell'immobile
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38004 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Posizionamento stabile di case mobili o di
roulotte.
Il posizionamento stabile di case mobili o di roulotte non
può essere considerato circostanza neutra ai fini della
disciplina urbanistica e che la necessità o meno di titolo
autorizzativo trova ragion d'essere nelle concrete modalità
e caratteristiche della condotta tenuta, essendo il titolo
necessario nell'insediamento che ha carattere di sostanziale
stabilità e si concreta in una effettiva incidenza
sull'assetto del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 13.09.2013 n. 37572 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e materie fecali.
L’esclusione dalla disciplina dei rifiuti materie fecali
opera a condizione che le stesse provengano da attività
agricola e che siano riutilizzate nella stessa attività
agricola (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2013 n. 37548 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e responsabilità
dell'appaltatore.
Risponde del reato di abusiva gestione
di rifiuti l'appaltatore di lavori edili, in quanto grava su
di lui l'obbligo di garanzia in relazione all'interesse
tutelato ed al corretto espletamento delle operazioni di
raccolta e smaltimento dei rifiuti connessi all'attività
edificatoria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2013 n. 37547 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e ruolo del sindaco.
Sebbene l'art. 107 del Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali (d.lgs. 18.08.2000,
n. 267) distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, demandati agli organi di governo
degli enti locali e compiti di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono
conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse,
strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una
volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può
semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua
attività, essendo necessario, da parte sua, anche il
successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte
programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di
attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da
contingenti ed occasionali emergenze tecnico–operative,
che pongano in pericolo la salute delle persone o
l'integrità dell'ambiente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2013 n. 37544 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Inerti provenienti da demolizioni di edifici.
Gli inerti provenienti da demolizioni di
edifici continuano ad essere considerati rifiuti speciali
anche in base al decreto legislativo n. 152 del 2006,
trattandosi di materiale espressamente qualificato come
rifiuto dalla legge, del quale il detentore ha l’obbligo di
disfarsi avviandolo o al recupero o allo smaltimento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2013 n. 37541 - tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e rilevanza penale della
condotta.
Le diverse modalità con le quali la lottizzazione abusiva
può essere attuata inquadrano la contravvenzione come reato
a forma libera, permanente e progressivo nell’evento, del
quale è inoltre pacifica la natura di reato di pericolo,
cosicché la sua lesività non può ritenersi confinata nella
sola trasformazione effettiva del territorio ma deve, al
contrario, essere riferita alla potenzialità di tale
trasformazione intesa come il pericolo di una urbanizzazione
non prevista o diversa da quella programmata.
La condotta posta in essere assume pertanto rilevanza penale
con il compimento di qualsiasi atto che, obiettivamente
valutato, risulti funzionalmente diretto alla illegittima
lottizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.09.2013 n. 37383 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia e differenza con
nuova costruzione.
La ristrutturazione edilizia si caratterizza anche per la
previsione di possibili incrementi volumetrici, che devono
essere senz’altro contenuti, in modo da mantenere netta la
differenza con gli interventi di “nuova costruzione”, tanto
che si è ritenuto che le modifiche volumetriche, ora
previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in
diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in
incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si
ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento
dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra
"ristrutturazione edilizia" e "nuova costruzione" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.09.2013 n. 37249 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Art. 142
d.lgs. n. 42/2004 - Fiumi, torrenti e corsi d’acqua -
Vincolo paesaggistico - Fiumi e torrenti - Imposizione del
vincolo ex lege - Iscrizione negli elenchi delle acque
pubbliche - Necessità per i soli corsi d’acqua diversi da
fiumi e torrenti.
L’art. 142 del D.Lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui dispone che “sono
comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle
disposizioni di questo titolo ... i fiumi, i torrenti, i
corsi d’acqua iscritti negli elenchi previsti dal … regio
decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piedi
degli argini per una fascia di 150 metri” va
interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di
minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi
d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai
fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli
elenchi delle acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità
esiste di per sé (ex art. 822 c.c.) ed anche il vincolo
paesaggistico è imposto ex lege senza necessità di
iscrizione negli elenchi. Tale interpretazione è avvalorata
dalla modifica apportata dal legislatore al testo dell’art.
146 del d.lgs. n. 490/1999, che operava riferimento a “i
fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti…”.
La scomparsa della congiunzione ed e l’inserimento al suo
posto di una virgola, quale segno di separazione, risulta
indicativa della volontà del legislatore di evidenziare una
cesura tra le diverse tipologie di acque fluenti e, per
l’effetto, di sottolineare con maggiore evidenza che il
requisito della iscrizione è riferito ai soli corsi d’acqua
diversi dai fiumi e dai torrenti.
ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Denominazione ufficiale di fiume o torrente - Successiva
perdita delle caratteristiche proprie della categoria -
Irrilevanza - Verifica sostanziale - Limiti.
La denominazione ufficiale di fiume o torrente, in quanto
frutto dell’accertamento, da parte di soggetti qualificati,
delle caratteristiche proprie della categoria non è dato
liberamente disapplicabile. Una volta qualificato
ufficialmente, il bene risulta vincolato, irrilevante
essendo il dato sostanziale della mancanza ovvero della
perdita delle caratteristiche proprie della categoria. Tali
elementi rilevano, al fine del venir meno del vincolo, solo
all’esito di un peculiare procedimento amministrativo di
declassificazione.
La verifica sostanziale, pertanto, è consentita solo quando
manchi una denominazione ufficiale ovvero quando questa sia
contraddittoria, perplessa o ancora quando, in presenza di
una pluralità di denominazioni, non sia certa l’appartenenza
di uno specifico tratto del corso d’acqua all’una o
all’altra qualificazione (fattispecie relativa ad un corso
d’acqua per un tratto denominato nelle carte IGM “torrente”
e per un tratto “fosso”) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 18.07.2008 n. 2172 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per
sé stessi, e a prescindere dalla iscrizione negli elenchi
delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la
iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia
costitutiva del vincolo paesaggistico.
---------------
Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R.
24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312,
conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i
fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi
di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle
acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933,
n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una
fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica,
nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490,
testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali
e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i
fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi
previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle
acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto
11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli
argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le
parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>> non è di
per sé significativa e dirimente, al fine dell’accogliere la
tesi che riferisce la iscrizione in elenco ai soli corsi
d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole
<<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>, che va desunto
dal sistema normativo complessivo, in cui si inserisce la
previsione in commento, e dal significato letterale delle
parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi,
torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>>
sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e
i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana,
si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo scorrere
delle acque in movimento>>, ed è il <<nome generico di
fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua caratterizzato
da notevoli variazioni di regime, con periodi in cui scorre
gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi completamente
secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua,
ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma
previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato
sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli
corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno
della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile
spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque
fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come
categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di
minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>),
fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto di
affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso
d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori
dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che
non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro
rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche.
---------------
Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si
colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D.
11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono
pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche
se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o
incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la
loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino
imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale
appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di
pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono
iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici,
distintamente per province, in elenchi da approvarsi per
decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici,
sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa
la procedura da esperirsi nei modi indicati dal
regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua
discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad
uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in
elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma
non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio
pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti e
le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono
considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza
necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che
sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano
attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata
costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva
della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse
generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la
iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha
portata costitutiva della natura giuridica del bene
medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita
dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti
a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del
1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod.
civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti,
rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali
si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in
elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi
esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e
conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex
lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.
Da una interpretazione letterale, logica e sistematica, si
evince che i fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela
paesistica di per sé stessi, e a prescindere dalla
iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la
iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia
costitutiva del vincolo paesaggistico.
Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R.
24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312,
conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i
fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi
di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle
acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933,
n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una
fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica,
nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490,
testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali
e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i
fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi
previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle
acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto
11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli
argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le
parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi
d’acqua>> non è di per sé significativa e dirimente, al
fine dell’accogliere la tesi che riferisce la iscrizione in
elenco ai soli corsi d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai
torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole
<<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>,
che va desunto dal sistema normativo complessivo, in cui si
inserisce la previsione in commento, e dal significato
letterale delle parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi,
torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>>
sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e
i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana,
si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo
scorrere delle acque in movimento>>, ed è il <<nome
generico di fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente
perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua
caratterizzato da notevoli variazioni di regime, con periodi
in cui scorre gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi
completamente secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua,
ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma
previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato
sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli
corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno
della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile
spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque
fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come
categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di
minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>),
fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto
di affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso
d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori
dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che
non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro
rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche.
Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si
colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D.
11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono
pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche
se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o
incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la
loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino
imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale
appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di
pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono
iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici,
distintamente per province, in elenchi da approvarsi per
decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici,
sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa
la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua
discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad
uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in
elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma
non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio
pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti
e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono
considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza
necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che
sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano
attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata
costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva
della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse
generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la
iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha
portata costitutiva della natura giuridica del bene
medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita
dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti
a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del
1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod.
civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti,
rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali
si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in
elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi
esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e
conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex
lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.
Ne consegue, nel caso di specie, che il Testene, in quanto
fiume, è soggetto a tutela paesaggistica per legge, e non
occorre perciò verificare se sia o meno inserito in elenchi
delle acque pubbliche
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.02.2002 n. 657). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Anche nel caso delle
organizzazioni sindacali, ai fini della valutazione
sull’accessibilità o meno d’un documento (o di parti esso)
occorre verificare il tipo di interesse perseguito che,
ovviamente, deve essere giuridicamente rilevante e di cui il
sindacato deve essere direttamente portatore in relazione a
ciascuna fattispecie.
Nella specie, la richiesta del sindacato istante di
conoscere i nominativi del personale (impegnato nel
perseguimento dei progetti obiettivo) sembra invece essere
implicitamente preordinata alla tutela di interessi di
singoli associati.
Invero, in sede di accesso alla delibera direttoriale di
approvazione dei progetti obiettivo per l’anno 2012, il
sindacato ricorrente non può pretendere -con particolare
riferimento all’allegato 3, costituito dalle schede dei
progetti e dai progetti obiettivo presentati dalle diverse
unità operative approvati (o meno) dall’amministrazione- di
conoscere i nominativi del personale dipendente impegnato
negli stessi poiché ciò eccede le finalità (sicuramente in
sé legittime e, anzi, riconducibili ai compiti istituzionale
d’un sindacato presente nell’azienda in questione) di
verifica sul se e sul come i sopramenzionati criteri
(oggetto di trattativa con la controparte datoriale) sono
stati rispettati, sia dal punto di vista strettamente
finanziario e sia sotto il profilo più spiccatamente
organizzativo.
Le schede riepilogative allegate alla delibera riportano,
per ciascun progetto, i contenuti del progetto, gli
obiettivi, i tempi, i costi, gli altri indicatori numerici
nonché il profilo (appunto) organizzativo del progetto che
ovviamente comprende l’indicazione delle unità operative o
delle strutture coinvolte e il numero di unità di personale
impegnate con la corrispondente qualifica e articolazione di
appartenenza.
Trattasi, come già si è detto, d’una completa radiografia di
ciascun progetto obiettivo approvato, attraverso il quale il
sindacato ben può svolgere la propria funzione di controllo
sulle modalità con cui si intendono spendere i fondi
destinati a tale segmento dell’attività aziendale senza
pregiudizio alcuno riconducibile alla non conoscenza dei
nominativi in questione.
... per l'annullamento della nota prot. n. 20120043180 del
27/11/2012 con la quale l’Azienda Ospedaliera intimata
negava l’accesso, richiesto con nota del 23/10/2012, ad
oggetto: “Approvazione dei progetti obiettivo per l’anno
2012 relativi alle tre aree contrattuali” e per la
declaratoria del diritto del sindacato ricorrente a detto
accesso e quindi a prendere visione ed estrarre copia
integrale del documento richiesto con ordine
all’amministrazione di esibizione della documentazione.
...
Deve essere premesso che il sindacato ricorrente, sulla base
dei CCNL dell’area comparto sanità e dell’area della
dirigenza medica, ha partecipato alla trattativa con la
parte pubblica volta a definire, per quanto riguarda
l’Azienda Ospedaliera S. Carlo di Potenza:
a) i fondi, con le relative quote, da destinare, per il
miglioramento delle attività aziendali, alla dirigenza
medica e alla dirigenza SPTA;
b) la percentuale di fondo da destinare alla remunerazione
della quota di budget e della quota progetti.
In particolare, nella riunione del 09/05/2012 (verbale n. 2
richiamato nella delibera di approvazione), per quanto
riguarda i criteri di distribuzione del fondo di
produttività per l’anno 2012 era stato stabilito che il 30%
del fondo sarebbe stato utilizzato per finanziare progetti
ritenuti prioritari dalla Direzione destinando la parte
rimanete al budget. Il direttore amministrativo in tale sede
aveva pure informato i sindacati che sarebbero stati scelti,
tra i progetti obiettivo presentati, quelli in linea con gli
obiettivi indicati dalla Regione (richiamati nelle premesse
della delibera) poiché in tal modo quest’ultima avrebbe
potuto accedere a risorse aggiuntive del F.S.R.
Tanto premesso, risulta evidente che, in sede di accesso
alla delibera direttoriale di approvazione dei progetti
obiettivo per l’anno 2012, il sindacato ricorrente non può
pretendere -con particolare riferimento all’allegato 3,
costituito dalle schede dei progetti e dai progetti
obiettivo presentati dalle diverse unità operative approvati
(o meno) dall’amministrazione- di conoscere i nominativi del
personale dipendente impegnato negli stessi poiché ciò
eccede le finalità (sicuramente in sé legittime e, anzi,
riconducibili ai compiti istituzionale d’un sindacato
presente nell’azienda in questione) di verifica sul se e sul
come i sopramenzionati criteri (oggetto di trattativa con la
controparte datoriale) sono stati rispettati, sia dal punto
di vista strettamente finanziario e sia sotto il profilo più
spiccatamente organizzativo.
Le schede riepilogative allegate alla delibera riportano,
per ciascun progetto, i contenuti del progetto, gli
obiettivi, i tempi, i costi, gli altri indicatori numerici
nonché il profilo (appunto) organizzativo del progetto che
ovviamente comprende l’indicazione delle unità operative o
delle strutture coinvolte e il numero di unità di personale
impegnate con la corrispondente qualifica e articolazione di
appartenenza. Trattasi, come già si è detto, d’una completa
radiografia di ciascun progetto obiettivo approvato,
attraverso il quale il sindacato ben può svolgere la propria
funzione di controllo sulle modalità con cui si intendono
spendere i fondi destinati a tale segmento dell’attività
aziendale senza pregiudizio alcuno riconducibile alla non
conoscenza dei nominativi in questione.
Del resto, la “ratio” di fondo di tale conclusione è
la medesima che, sotto il distinto, benché collegato,
profilo delle norme di protezione dei dati personali,
percorre le disposizioni richiamate dall’amministrazione, in
particolare l’art. 11 del d.lgs. n. 196/2003 che, in tema di
modalità del trattamento e requisiti dei dati personali,
impone (lett. d) che gli stessi siano pertinenti, completi e
“non eccedenti” rispetto alle finalità per le quali
sono raccolti o successivamente trattati.
In questa falsariga, giova anzi ricordare che le linee guida
del Garante per la protezione dei dati personali
(deliberazione del 14/06/2007 richiamata nel provvedimento
n. 431 del 20/12/2012 che nega la trasmissione di nominativi
relativamente alle ore di straordinario svolte), al punto
5.2 (rapporti con le organizzazioni sindacali), autorizzano
l’amministrazione a fornire ai sindacati dati numerici o
aggregati e non anche quelli riferibili ad uno o più
lavoratori individuabili ogni qual volta (come nel caso di
specie) manchi una disposizione di contratto collettivo che
preveda espressamente che l’informazione sindacale abbia ad
oggetto anche dati nominativi del personale per verificare
la corretta attuazione di taluni atti organizzativi.
In altri termini -e per stare alle norme di cui all’art. 22
della legge n. 241/1990- è avviso del collegio che, anche
nel caso delle organizzazioni sindacali, ai fini della
valutazione sull’accessibilità o meno d’un documento (o di
parti esso) occorre verificare il tipo di interesse
perseguito che, ovviamente, deve essere giuridicamente
rilevante e di cui il sindacato deve essere direttamente
portatore in relazione a ciascuna fattispecie.
Nella specie, la richiesta del sindacato istante di
conoscere i nominativi del personale predetto sembra invece
essere implicitamente preordinata alla tutela di interessi
di singoli associati. In quest’ultima ottica poi, anche a
voler prendere in considerazione i richiami
giurisprudenziali esposti dal ricorrente, c’è da dire che,
nella fattispecie, si è in presenza non di una delibera che
liquidi ai singoli dipendenti emolumenti o incrementi di
natura stipendiale bensì solo di un atto organizzativo di
carattere generale che assegna importi destinati alla
successiva attuazione dei progetti obiettivo.
Di tal ché, per quanto sopra esposto, va ribadita la
reiezione del presente gravame (TAR
Basilicata, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 143
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 02.01.2014 |
ã |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2014, "Approvazione
del documento “Indicazioni per gli operatori forestali in
applicazione del regolamento (UE) n. 995/2010”"
(decreto
D.S. 23.12.2013 n. 12634). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013,
"Direzione generale Territorio,urbanistica e difesa del
suolo - Esame e valutazione delle domande di iscrizione
all’albo dei commissari ad acta ai fini
dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia
edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale, istituito con
legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto
A.R. 23.12.2013 n. 12733). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013,
"Disposizioni attuative finalizzate alla valutazione
delle istanze per l’autorizzazione all’apertura o alla
modificazione delle grandi strutture di vendita conseguenti
alla d.c.r. 12.11.2013 n. X/187 “Nuove linee per lo sviluppo
delle imprese del settore commerciale"" (deliberazione
G.R. 20.12.2013 n. 1193). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013, "Criteri
e parametri per l’individuazione e la classificazione dei
piccoli comuni non montani, dei comuni montani e
parzialmente montani ai sensi dell’art. 2 della legge
regionale 05.05.2004, n. 11 e dell’art. 3 della legge
regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione
G.R. 20.12.2013 n. 1182). |
PATRIMONIO - VARI: G.U.
30.12.2013 n. 304 "Disposizioni
di carattere finanziario indifferibili finalizzate a
garantire la funzionalità di enti locali, la realizzazione
di misure in tema di infrastrutture, trasporti ed opere
pubbliche nonché a consentire interventi in favore di
popolazioni colpite da calamità naturali" (D.L.
30.12.2013 n. 151). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
30.12.2013 n. 304 "Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative" (D.L.
30.12.2013 n. 150). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2013, "Criteri
e modalità per la presentazione delle domande di
autorizzazione in deroga al regime proprio dei parchi, per
la realizzazione di opere pubbliche e di reti ed interventi
infrastrutturali (art. 18, comma 6-ter, l.r. 86/1983)" (deliberazione
G.R. 29.11.2013 n. 990). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Cambio di sagoma senza «Scia». Se la ricostruzione modifica
la facciata serve il permesso di costruire o la «Dia».
Ristrutturazioni. La semplificazione voluta dal decreto «del
fare» contrasta con l'obbligo di rispettare i prospetti
dell'edificio
Anche dopo gli
interventi di semplificazione del legislatore, la
ristrutturazione senza rispetto della sagoma resta un
intervento edilizio ancora incerto, almeno sotto il profilo
delle autorizzazioni necessarie.
Il decreto del fare (Dl 69/2013), infatti, ha introdotto
rilevanti modifiche in relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia, con demolizione e ricostruzione
senza rispetto della sagoma.
Innanzitutto il decreto ha rivisto la stessa definizione
generale di ristrutturazione edilizia, contenuta
all'articolo 3 del Testo unico in materia edilizia (Dpr
380/2001), eliminando il riferimento all'identità di sagoma,
con l'effetto che, oggi, gli interventi consistenti nella
demolizione e ricostruzione dei fabbricati (non vincolati ai
sensi del Dlgs 42/2004), con la stessa volumetria di quello
preesistente, seppure con sagoma differente, costituiscono a
tutti gli effetti «ristrutturazione edilizia» e non più
nuova costruzione.
Il decreto ha poi introdotto ulteriori rilevanti modifiche.
Il legislatore ha infatti modificato anche l'articolo 10,
comma 1, lettera c) del Testo unico, cioè la norma che
individua gli interventi di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, ossia quelle ristrutturazioni attuabili
previo rilascio del permesso di costruire (ovvero mediante
Dia alternativa) e non mediante semplice Scia (segnalazione
certificata di inizio attività). Anche qui il decreto ha
eliminato –in relazione agli edifici non vincolati– il
riferimento alla sagoma, prima contenuto nella disposizione.
La correzione sembra, quindi, essere stata volta a
consentire l'assoggettamento a semplice Scia anche di quelle
ristrutturazioni che prevedano alterazioni della sagoma
dell'edificio. Ma il legislatore potrebbe aver mancato
l'obiettivo.
Le difficoltà
La nuova nozione di ristrutturazione edilizia pesante,
infatti, continua a richiamare i prospetti dell'edificio e,
pertanto, un parametro tecnico che varia, o quantomeno può
variare, al variare della sagoma.
Ad oggi, costituiscono ristrutturazione edilizia pesante,
soggetta a permesso di costruire o, in alternativa a Dia,
quegli interventi di ristrutturazione che portino a «un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
Ebbene, poiché la giurisprudenza ha chiarito che si ha
ristrutturazione edilizia "pesante" tutte le volte in cui
venga alterato anche solamente uno dei parametri elencati
nella norma (aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume o modifiche di prospetti o superfici; si veda
Cassazione penale, Sezione terza, sentenza 01.03.2007, n.
8669), è corretto ritenere che una ristrutturazione che
porti a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente, con modifica della sagoma e –al tempo
stesso– con modifica dei prospetti (pur senza aumento di
unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici)
continui a costituire una ristrutturazione edilizia
"pesante", soggetta a permesso di costruire o a Dia.
È chiaro che questa conclusione rappresenta una forte
limitazione per la recente semplificazione, la cui sfera di
applicazione viene notevolmente ridotta. Del resto,
ipotizzare un intervento di ristrutturazione che implichi
una modifica della sagoma, ma che al tempo stesso non
comporti modifiche ai prospetti dell'edificio si rivela
piuttosto arduo.
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che la sagoma di un
edificio è la «conformazione planovolumetrica della
costruzione ed il suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad
assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti» (Tar Lombardia-Milano, sezione
II, sentenza n. 1441/2012).
Per prospetti (o alzati) si intendono, invece, gli sviluppi
in verticale di un edificio e, dunque, le facciate di un
fabbricato (Tar Lazio Roma, sentenza n. 8380/2009). Ebbene,
è evidente che le soluzioni progettuali che consentano la
modifica della sagoma di un edificio senza alterare le
facciate del fabbricato sono piuttosto ridotte.
Per conseguire pienamente l'obiettivo di semplificazione
legato alla modifica del decreto fare e, quindi, per
completare il percorso di riforma intrapreso, potrebbe
quindi essere opportuno che il legislatore metta nuovamente
mano al Testo unico, stralciando il riferimento ai
"prospetti", tuttora presente all'articolo 10.
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Titoli abilitativi strutturati su quattro livelli.
Sono numerosi gli interventi, le modifiche e le riscritture
intervenute nella materia dei titoli abilitativi in edilizia
dal 2010 a oggi.
Tra le modifiche al Testo unico (Dpr 380/2001) più
rilevanti, occorre richiamare quelle introdotte dal Dl
40/2010, che ha ampliato le fattispecie di attività edilizia
libera, distinguendo tra attività totalmente libere ed
attività soggette a preventiva «Comunicazione di inizio
lavori» (Cil, ma a Milano e in altri Comuni è definita
Comunicazione di inizio attività libera, Cial). E ancora: le
modifiche di cui al Dl 78/2010 che è intervenuto
sul'articolo 19 della legge 241/1990 prevedendo la
«Segnalazione certificata di inizio attività» (Scia) in
luogo della Denuncia di inizio attività (Dia), in precedenza
disciplinato dalla stessa norma.
Infine, le correzioni apportate con i decreti legge n.
70/2011 e n. 83/2012, con i quali, tra l'altro, è stato
introdotto il silenzio assenso per il rilascio del permesso
di costruire e, in generale, sono stati modificati i
procedimenti volti al rilascio dei distinti titoli edilizi.
A seguito di queste riforme l'ambito di applicazione della
Dia si è notevolmente ridotto in favore della Scia. Ma il
modello procedimentale della Dia è ancora attuale. E
infatti, come chiarito all'articolo 5, comma 2, lettera c)
del Dl 70/2011, le disposizioni sulla Scia si applicano alle
Dia in materia edilizia disciplinate dal Testo unico, ma con
esclusione di tutti i casi in cui le denunce stesse, in base
alla normativa statale o regionale, siano alternative o
sostitutive del permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno,dunque, delineato un sistema
composto da quattro principali modelli abilitativi, ciascuno
corrispondente a determinate categorie di interventi
edilizi:
- l'attività soggetta a Cil, realizzabile immediatamente
previa comunicazione all'amministrazione;
- l'attività soggetta a Segnalazione certificata di inizio
attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla
presentazione della prevista documentazione;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia),
realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del
relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire,
espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Dopo queste riforme, il modello procedimentale della Dia
risulta, dunque, ancora applicabile a una serie di
importanti fattispecie. La denuncia potrà infatti essere
utilizzata rispetto agli interventi di ristrutturazione
edilizia "pesante", la cui definizione –contenuta
all'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico– è
stata recentemente modificata dal decreto "del fare" (si
veda l'articolo a fianco), riguardo agli interventi di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati
da piani attuativi che contengano precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive e,
infine, in merito agli interventi di nuova costruzione,
qualora questi siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche.
Inoltre, rimangono soggetti a Dia gli interventi per i quali
le Regioni abbiano indicato la possibilità di ricorso a
questo modello abilitativo in alternativa o in sostituzione
al permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno, dunque, certamente semplificato e
snellito le procedure per conseguire i titoli abilitativi.
Ma nell'apprestare i progetti gli operatori devono comunque
porre particolare attenzione alla classificazione delle
opere alla luce delle disposizioni del Testo unico e alla
identificazione del conseguente modello abilitativo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori pubblici. Il sistema informatico Avcpass.
Appalti, la verifica dei requisiti attende istruzioni.
Manca solo un mese all'operatività del sistema Avcpass per
la verifica dei requisiti degli operatori economici
partecipanti alle gare di appalto da parte delle
amministrazioni pubbliche, ma emergono criticità che devono
essere risolte e le stazioni appaltanti non dispongono di
una versione dimostrativa per esercitarsi.
Il particolare percorso procedurale gestito in modo
totalmente informatizzato è disciplinato dalla deliberazione
dell'Avcp n. 111/2012, che fa riferimento all'articolo 6-bis
del Codice dei contratti. Dal 01.01.2014 le amministrazioni
aggiudicatrici potranno verificare i requisiti di ordine
generale e di capacità solo mediante tale sistema, che
consente l'accesso ai documenti depositati nella banca dati
nazionale dei contratti pubblici.
L'impostazione dell'Avcpass desumibile dai tutorial e dai
materiali formativi messi a disposizione dall'Autorità
prefigura il suo utilizzo per la verifica in corso di gara
sia dei requisiti di capacità (economico-finanziaria e
tecnico-profesisonale), in base all'articolo 48 del Codice,
sia di quelli di ordine generale, riferiti alle
dichiarazioni sostitutive rese in ordine alle varie
fattispecie previste dall'articolo 38, quindi secondo i
criteri stabiliti per il riscontro della veridicità delle
autocertificazioni.
Tuttavia i diagrammi di flusso proposti sembrano concentrare
le verifiche sull'aggiudicatario e sul secondo classificato
subito dopo la formazione della graduatoria di merito (dopo
la valutazione delle offerte e l'eventuale verifica di
quelle anomale), ma prima di pervenire all'aggiudicazione
provvisoria, non sembrando utilizzabile per i controlli in
sede di aggiudicazione definitiva e di stipulazione del
contratto.
Un aspetto di ulteriore criticità si rileva in ordine alle
ipotesi nelle quali la gara sia gestita da una centrale di
committenza o da una stazione unica appaltante: in tal caso,
infatti, la creazione della gara avviene da parte di un
responsabile del procedimento (quello dell'amministrazione
che approva il progetto e avvia la procedura) diverso da
quello che dovrà gestire l'accesso all'Avcpass, con
conseguente necessità di permettere a quest'ultimo la
gestione del Cig per l'effettuazione delle varie operazioni
nel sistema, in quanto deve registrarsi come soggetto tenuto
alla verifica dei requisiti.
Il sistema presenta alcune criticità anche per gli operatori
economici, i quali, comunque, dispongono nel sito
dell'Autorità di una specifica versione dimostrativa.
Secondo la deliberazione n. 111/2012 le imprese che
intendono concorrere a una gara devono inserire nel sistema
solo alcune tipologie di documenti inerenti i requisiti di
capacità economico-finanziaria (ad esempio le attestazioni
bancarie) e di capacità tecnico-professionale (ad esempio i
contratti e le fatture comprovanti i servizi o le forniture
precedentemente svolti a favore di amministrazioni
pubbliche), mentre i documenti inerenti i requisiti di
ordine generale sono acquisiti dall'Avcpass mediante
rapporto diretto con gli enti certificanti.
Tuttavia la simulazione dimostrativa evidenzia nella
libreria (la repository dove l'operatore economico può
inserire i file firmati digitalmente) e nella funzionalità
di associazione dei documenti al «PassOe» numerose sezioni
riferite al caricamento di documenti inerenti requisiti di
ordine generale, che devono essere acquisiti d'ufficio dalla
stazione appaltante, come il Durc relativo alla regolarità
contributiva.
L'inserimento dei documenti relativi ai requisiti di ordine
generale (collegati alle dichiarazioni sostitutive rese in
sede di partecipazione alla gara) non è peraltro possibile
per l'operatore economico, in quanto, in molti casi, si
tratta di certificati, i quali, in base alle norme sulla
decertificazione, non possono essere utilizzati nei rapporti
con le amministrazioni pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
AVVOCATI/ Un parere del Cnf dopo due sentenze emanate dal
Tribunale di Verona.
Parcelle vidimate dall'Ordine.
Strada obbligata per l'emissione di decreti ingiuntivi.
Il recupero del compenso dell'avvocato passa ancora
dall'ordine forense di appartenenza.
Il Consiglio nazionale
forense fa chiarezza in merito all'iter procedurale volto a
recuperare onorari e spese impagati dei legali, ribadendo la
sussistenza del potere di «opinamento» delle parcelle in
capo agli Ordini forensi (parere del 23.10.2013 in
risposta al quesito n. 330, Unione Triveneta, Rel. Cons.
Perfetti).
La pronuncia del Cnf nasce da due recenti sentenze del
Tribunale di Verona, secondo le quali l'art. 9 del cd.
decreto legge n. 1/2012 (cd. «Cresci-Italia»), che ha mandato
in soffitta le tariffe forensi, avrebbe tacitamente abrogato
anche gli articoli 633, comma 1 n. 2 e 3, e 636 del Codice
procedura civile, facendo così venire meno la necessità di
rivolgersi al competente ordine professionale per il
prescritto parere sul quantum richiesto.
Le conseguenze pratiche delle pronunce sono evidenti: per
ottenere un decreto ingiuntivo i professionisti avrebbero
dovuto allegare al ricorso il contratto sottoscritto dal
cliente, con l'indicazione analitica del compenso pattuiti.
Secondo questo orientamento, insomma, i legali, per
avvalersi dello strumento più veloce e snello del
procedimento monitorio, avrebbero dovuto fornire la prova
scritta dell'accordo con il cliente, come previsto dal primo
comma n. 1 dell'art. 633 cpc.
La mancanza del contratto sarebbe stata supplita dalla
liquidazione del giudice, operata sulla scorta dei parametri
stabiliti con decreto dal ministero della giustizia.
Divenuta superflua la vidimazione della parcella, per
effetto delle pronunce in questione, il Coa scaligero ha
invitato i propri iscritti ad astenersi dal richiedere
pareri di congruità delle parcelle. Da qui il quesito che la
presidenza dell'Unione Triveneta ha posto al Consiglio
nazionale forense e il conseguente parere reso dagli esperti
romani lo scorso 23 ottobre. Per il vertice istituzionale
delle toghe, l'interpretazione che i giudici di merito
veneti hanno dato alla norma non può essere condivisa. «La
portata abrogativa della norma», chiarisce il Cnf, «riguarda
le tariffe come criterio di determinazione del compenso, e
dunque incide sui criteri attraverso cui è esercitato il
potere di opinamento, e non investe la sua persistenza in
capo al Consiglio dell'Ordine forense». Dunque, gli avvocati
che intendono chiedere l'emissione di un decreto ingiuntivo
devono continuare a munire le proprie parcelle
dell'obbligatorio parere di conformità dei consigli
dell'ordine.
Qualche problema in più sorge nel caso in cui il credito
fatto valere del professionista sia contestato. In caso di
opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal legale,
questi dovrà provare in giudizio, non solo il conferimento
dell'incarico, ma anche l'attività effettivamente svolta. È
quanto ha affermato la Suprema corte (Corte di cassazione,
sentenza n. 2456831 del 31.10.2013), in merito al credito di
un professionista la cui attività, limitatasi alla fase
stragiudiziale, non era stata adeguatamente documentata e
provata in giudizio (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Formazione in materia di anticorruzione e limiti di spesa.
Il Comune può legittimamente derogare,
per l’attività formativa in materia di anticorruzione, al tetto di spesa
definito dall’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, con
l’avvertenza, peraltro, che le iniziative
formative devono tenere conto anche del possibile contributo
degli operatori interni, “inseriti come docenti nell’ambito
di percorsi di aggiornamento e formativi in house” (da Piano
Nazionale Anticorruzione).
Un'ulteriore avvertenza sta nel fatto che
la previsione del comma 13 dell’art. 6 del D.L.
78/2010, nell’ottica della necessarietà del contenimento
della spesa pubblica, con l’introduzione di un tetto di
spesa per le attività formative, evidenzia, comunque, “la
volontà del Legislatore di indurre le Amministrazioni a
procedere ad un’attenta attività di programmazione dei
fabbisogni formativi e di correlata individuazione delle
risorse finanziarie all’uopo necessarie, realizzando per
tale via obiettivi di razionalizzazione dell’azione
amministrativa, oltre che di risparmio di spesa” con
limitazione, pertanto, della deroga, all’esigenza assoluta
di effettuare la formazione obbligatoria in un determinato
esercizio, ovvero “limitatamente alle spese necessarie per
corrispondere a precisi obblighi normativi che non possano
essere disattesi o differiti ad altro esercizio.
---------------
Il Sindaco del
Comune di Pellegrino Parmense ha inoltrato a questa Sezione,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una
richiesta di parere in merito all’applicazione del limite
delle spese di formazione, statuito all’art. 6, comma 13,
del D.L. 78/2010, all’attività formativa prevista dalla
L. 190/2012 recante “Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella
pubblica amministrazione”, ovvero se questa debba
considerarsi obbligatoria e quindi sottratta ai
summenzionati vincoli di spesa.
...
Ai fini della soluzione del
quesito occorre, preliminarmente, richiamare l’ambito di
applicazione del comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010 per
cui “A decorrere dall’anno 2011 la spesa annua sostenuta
dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del
comma 3 dell’articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196,
incluse le autorità indipendenti, per attività
esclusivamente di formazione, deve essere non superiore al
50 per cento della spesa sostenuta nell’anno 2009. ….”.
Al proposito, si sono già espresse, in modo assolutamente
uniforme, più Sezioni regionali di controllo della Corte dei
Conti secondo le quali
il contenimento della spesa per
attività di formazione implica che l’ente pubblico sia
titolare di un potere discrezionale circa la relativa
assunzione. Pertanto, nell’ipotesi di attività formativa
richiesta ex lege, in assenza di discrezionalità
circa l’autorizzazione della spesa relativa, si è fuori
dell’ambito applicativo della normativa surrichiamata (cfr.
ex multis, Sezione regionale di controllo per il
Friuli Venezia Giulia n. 106/2012 e Sezione regionale di
controllo per la Lombardia n. 116/2011).
Per rispondere compiutamente al quesito, si procede,
quindi, ad un’esegesi del dato normativo di cui alla
L. 190/2012 circa ogni eventuale prescrizione di attività
formativa del personale, con il consequenziale carattere
vincolato della spesa necessaria per il relativo
espletamento.
Occorre, altresì, premettere che, circa la cogenza della
normativa anche per i Comuni, il comma 59 dell’art. 1 della
L. 190/2012, testualmente recita che “Le disposizioni di
prevenzione della corruzione di cui ai commi da 1 a 57 del
presente articolo, di diretta attuazione del principio di
imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione, sono
applicate in tutte le amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni”.
In tema di formazione, il comma 8 dell’art. 1 prescrive che
il responsabile della prevenzione della corruzione, entro il
31 gennaio di ogni anno, definisca “procedure appropriate
per selezionare e formare, ai sensi del comma 10, i
dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente
esposti alla corruzione. ….”; il comma 10 statuisce,
inoltre, che il responsabile della prevenzione della
corruzione provveda anche “c) ad individuare il personale da
inserire nei programmi di formazione di cui al comma 11”,
ovvero sui temi dell’etica e della legalità ed, infine, il
comma 44, rubricato “codice di comportamento”, prescrive che
“le pubbliche amministrazioni verificano annualmente lo
stato di applicazione dei codici e organizzano attività di
formazione del personale per la conoscenza e la corretta
applicazione degli stessi”.
L’attività formativa, normativamente prescritta, trova una
concreta articolazione nel Piano triennale di prevenzione
della corruzione adottato dalle amministrazioni pubbliche e
per cui è richiesto, altresì, ai sensi della lettera b) del
comma 9, di prevedere “meccanismi di formazione idonei a
prevenire il rischio di corruzione”.
Come puntualmente richiamato dal Piano nazionale
anticorruzione -che definisce gli ambiti/macro settori che
devono essere presenti all’interno del Piano triennale per
una sua adeguata articolazione- avente per destinatari
tutte le P.A di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001,
oggetto di recente approvazione da parte della Civit “Le
pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del
d.lgs. n. 165 del 2001 debbono programmare adeguati livelli
di formazione, tenendo presente una strutturazione su due
livelli: livello generale, rivolto a tutti i dipendenti:
riguarda l’aggiornamento delle competenze (approccio
contenutistico) e le tematiche dell’etica e della legalità
(approccio valoriale); livello specifico, rivolto al
responsabile della prevenzione, ai referenti, ai componenti
degli organismi di controllo, ai dirigenti e funzionari
addetti alle aree a rischio: riguarda le politiche, i
programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e
tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da
ciascun soggetto nell’amministrazione. I fabbisogni
formativi sono individuati dal responsabile della
prevenzione in raccordo con i dirigenti responsabili delle
risorse umane e le iniziative formative vanno inserite anche
nel P.T.F. di cui all’art. 7-bis del d.lgs. n. 165 del 2001.
….”.
In sintesi, il necessario oggetto dell’azione formativa
si articola in:
1) un livello generale, per tutti i
dipendenti, afferente l’aggiornamento delle competenze, i
temi dell’etica e della legalità e i codici di
comportamento;
2) un livello specifico, per il responsabile
anticorruzione, i componenti degli organismi di controllo, i
dirigenti e funzionari addetti alle aree a rischio, che
afferisce temi settoriali, in relazione al ruolo svolto da
ciascun soggetto nell’amministrazione.
Il carattere imprescindibile della summenzionata attività
formativa è, tra le altre motivazioni, desumibile anche
dalla finalità della stessa, testualmente richiamata
nell’allegato 1 al Piano nazionale anticorruzione, per cui
“la formazione riveste un’importanza cruciale nell’ambito
della prevenzione della corruzione”. Infatti si riduce il
rischio che l’illecito sia commesso inconsapevolmente; si
crea una omogenea base di conoscenze, che è presupposto
indispensabile per rendere operativo una coerente
programmazione di rotazione del personale e per la creazione
di specifiche competenze nelle aree operative a più alto
rischio corruttivo; si diffondono buone pratiche
amministrative ed orientamenti giurisprudenziali su vari
aspetti dell’esercizio della funzione amministrativa; si
diffondono valori etici, con insegnamento di “principi di
comportamento eticamente e giuridicamente adeguati”.
Da ultimo, la cogenza della specifica attività formativa
è imposta dalle richiamate fattispecie di responsabilità
delineate nell’ipotesi di una sua mancanza. Infatti, il
comma 8 dell’art. 1 stabilisce che “La mancata
predisposizione del piano e la mancata adozione delle
procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti
costituiscono elementi di valutazione della responsabilità
dirigenziale”, ma, ancora più rilevante è il comma 12 per
cui, nell’ipotesi di un reato di corruzione commesso da
personale dell’amministrazione e accertato con sentenza
passata in giudicato, si configura, per il responsabile
anticorruzione, un’ipotesi di responsabilità dirigenziale e
disciplinare nonché per danno erariale e all’immagine
dell’ente di afferenza, salvo la prova dell’adozione del
Piano triennale di prevenzione della corruzione e la
previsione degli obblighi di formazione specifica e
generale, nonché di aver vigilato sul funzionamento e
sull’osservanza del piano (“a- di aver predisposto, prima
della commissione del fatto, il piano di cui al comma 5 e di
aver osservato le prescrizioni di cui ai commi 9 e 10 del
presente articolo; b- di aver vigilato sul funzionamento e
sull’osservanza del piano”).
Alla luce dell’impianto normativo richiamato e della
salvaguardia dei valori costituzionali consacrati
dall’art. 97 della Costituzione cui è funzionale anche tale
tipologia di attività di formazione, si rileva il carattere
obbligatorio del suo svolgimento e, stante l’assenza di
discrezionalità circa l’autorizzazione della spesa relativa,
nella fattispecie si è fuori dell’ambito applicativo di cui
al comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010.
Peraltro, come
puntualmente richiamato, recentemente, dalla Sezione
regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia
n. 106/2012,
la previsione del comma 13 dell’art. 6 del D.L.
78/2010, nell’ottica della necessarietà del contenimento
della spesa pubblica, con l’introduzione di un tetto di
spesa per le attività formative, evidenzia, comunque, “la
volontà del Legislatore di indurre le Amministrazioni a
procedere ad un’attenta attività di programmazione dei
fabbisogni formativi e di correlata individuazione delle
risorse finanziarie all’uopo necessarie, realizzando per
tale via obiettivi di razionalizzazione dell’azione
amministrativa, oltre che di risparmio di spesa” con
limitazione, pertanto, della deroga, all’esigenza assoluta
di effettuare la formazione obbligatoria in un determinato
esercizio, ovvero “limitatamente alle spese necessarie per
corrispondere a precisi obblighi normativi che non possano
essere disattesi o differiti ad altro esercizio” (Sezione
regionale di controllo per l’Emilia-Romagna n. 18/2011).
In conclusione,
il Comune potrà legittimamente derogare,
per l’attività formativa di cui al quesito e con
l’avvertenza di cui al punto precedente, al tetto di spesa
definito dall’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, con
l’ulteriore avvertenza, peraltro, che le iniziative
formative devono tenere conto anche del possibile contributo
degli operatori interni, “inseriti come docenti nell’ambito
di percorsi di aggiornamento e formativi in house” (da Piano
Nazionale Anticorruzione) (Corte dei Conti, Sez. controllo
Emilia Romagna,
parere 20.11.2013 n. 276). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non sempre la mobilità con altri enti pubblici è neutra per
il Comune.
La mobilità, come strumento per una più razionale
distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni –preliminare alla decisione di bandire procedure concorsuali
e prima di procedere alla immissione in ruolo di nuovo
personale, nei limiti consentiti dall’ordinamento– può
essere configurata in termini di neutralità di spesa (e,
quindi non assimilabile ad una assunzione o dimissione dal
rapporto di lavoro), solo se intervenga tra amministrazioni,
entrambe, sottoposte a dei vincoli assunzionali. Dunque, il
requisito per riconoscere il carattere di neutralità di una
procedura di mobilità è costituito dalla sussistenza o meno
di un regime vincolistico in materia di assunzione di
personale per gli enti coinvolti dall’operazione.
Diverso è invece il caso in cui l’ente sottoposto a
limitazioni dia l’assenso al trasferimento di un proprio
dipendente presso amministrazioni non soggette a vincoli assunzionali. In questo caso, infatti, “per l’ente
ricevente, la mobilità in entrata si configura a tutti gli
effetti come ingresso di una nuova unità di personale,
risultato che potrebbe essere alternativamente ottenuto
attraverso il ricorso alle normali procedure di
reclutamento, non ponendosi il problema dell’imputazione del
trasferimento ad un non previsto contingente di nuove
assunzioni”.
---------------
La mobilità intercompartimentale tra un ente locale soggetto
al rispetto del patto di stabilità ed un ente del Servizio
sanitario nazionale, afferente ad un regione non soggetta
all’attuazione di un piano di rientro dal disavanzo
sanitario, non può essere configurata in termini di
neutralità.
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Il Sindaco del Comune di Arzignano, con la nota indicata in
epigrafe, ha posto un quesito in ordine alla possibilità di
attuare, in condizioni di neutralità finanziaria, un
trasferimento di un proprio dipendente, dirigente tecnico
con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, verso
un’Azienda ULSS del Servizio sanitario nazionale e circa le
possibilità assunzionali che avrebbe il Comune nel caso in
cui il dipendente transitasse nei ruoli dell’Azienda ULSS
richiedente.
A questo proposito, il Sindaco richiama l’art. 1, comma 47,
della legge 30.12.2004, n. 311 che prevede che “in
vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di
limitazione delle assunzioni di personale a tempo
indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità,
anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte
al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni
sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché
abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno
precedente”, evidenziando la diversa disciplina che regola
il regime assunzionale per i comparti coinvolti
dall’operazione di mobilità in questione.
Infatti, la disciplina relativa all’acquisizione delle
risorse umane negli enti del comparto del servizio sanitario
nazionale è contenuta nell’art. 2, commi 71, 72 e 73 della
legge 23.12.2009, n. 191 e nell’art. 15, comma 21, del
decreto legge 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135 che, sostanzialmente, applicano agli
enti del servizio sanitario nazionale il vincolo che per gli
enti locali è previsto dall’art. 1, comma 557 e 562 della
citata legge n. 296/2006 e che attiene essenzialmente ad un
vincolo di spesa.
Nell’ambito della disciplina in materia di spesa di
personale del comparto degli enti locali, però, accanto ai
vincoli di spesa di cui al citato comma 557, sono previsti
ulteriori vincoli assunzionali, come quelli di cui all’art.
76, comma 7, del decreto legge 25.06.2008, n. 112, conv.
dalla legge 06.08.2008, n. 133 (che, con riferimento alle
assunzioni a tempo indeterminato, consente assunzioni nel
limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni
intervenute nell’esercizio precedente, a condizione che
l’incidenza delle spese di personale non superi il 50% delle
spese correnti), attualmente non previsti per gli enti
appartenenti al servizio sanitario nazionale.
Pertanto, alla luce di tali considerazioni, il Sindaco del
comune di Arzignano pone alla Sezione un duplice quesito.
Innanzitutto, si chiede se, ai sensi del citato art. 1,
comma 47, della L 311/2004, sia possibile cedere il
contratto di lavoro a tempo indeterminato di un proprio
dirigente ad un’Azienda del Servizio sanitario nazionale nel
rispetto della c.d. neutralità finanziaria (senza, cioè, che
tale cessione possa configurarsi come cessazione del
rapporto di lavoro) oppure, al contrario, essendo tale
cessione realizzata nei confronti di un’Azienda Ulss,
soggetta ad una diversificata disciplina in termini di
assunzioni a tempo indeterminato, non possa essere
considerata neutrale e si configuri per l’ente cedente come
una cessazione del rapporto di lavoro.
In subordine, qualora la mobilità in questione possa essere
considerata neutrale, si chiede se il Comune possa coprire
il profilo professionale dirigenziale attuando una
contestuale mobilità in entrata di un dirigente di ruolo
presso una Comunità montana, senza che tale operazione
configuri una nuova assunzione per l’ente medesimo.
...
Sulla portata interpretativa ed applicativa dell’istituto
della mobilità –anche intercompartimentale– questa Sezione
si è già espressa con una serie deliberazioni, in
particolare con le deliberazioni n. 287/2011/PAR, n.
281/2012/PAR, n. 65/2013/PAR e 162/2013/PAR, le cui
considerazioni si intendono integralmente richiamate nelle
presente pronuncia.
Con riferimento al caso specifico della mobilità
intercompartimentale, cioè la mobilità di personale tra
amministrazioni appartenenti a comparti diversi, il Collegio
richiama, innanzitutto, la norma fondamentale di cui
all’art. 1, comma 47, della L 311/2004 in base alla quale
“in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di
limitazione delle assunzioni di personale a tempo
indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità,
anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte
al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni
sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché
abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno
precedente”. La
ratio di questa disposizione va individuata
nell’intenzione di garantire una più razionale distribuzione
delle risorse tra la pubbliche amministrazioni, senza
tuttavia generare una variazione della spesa complessiva del
comparto del pubblico impiego e favorendo, in questo modo,
la stabilità dei livelli occupazionali in modo da evitare
incrementi incontrollati di spesa, non solo in relazione al
singolo ente ma all’intero comparto.
Questo permette di evitare che il trasferimento per mobilità
possa essere utilizzato quale operazione per instaurare
nuovi rapporti di lavoro al di fuori dei limiti numerici e
di spesa previsti dalla disciplina vigente.
La giurisprudenza consultiva della corte dei conti ha
chiarito la portata interpretativa ed applicativa della
norma in questione.
Nella deliberazione delle Sezioni Riunite in sede di
controllo n. 59/CONTR/2010, è stato chiarito, infatti, che
la mobilità, come strumento per una più razionale
distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni –preliminare alla decisione di bandire procedure concorsuali
e prima di procedere alla immissione in ruolo di nuovo
personale, nei limiti consentiti dall’ordinamento– può
essere configurata in termini di neutralità di spesa (e,
quindi non assimilabile ad una assunzione o dimissione dal
rapporto di lavoro), solo se intervenga tra amministrazioni,
entrambe, sottoposte a dei vincoli assunzionali. Dunque, il
requisito per riconoscere il carattere di neutralità di una
procedura di mobilità è costituito dalla sussistenza o meno
di un regime vincolistico in materia di assunzione di
personale per gli enti coinvolti dall’operazione.
Nella medesima deliberazione viene, inoltre, precisato che
diverso è invece il caso in cui l’ente sottoposto a
limitazioni dia l’assenso al trasferimento di un proprio
dipendente presso amministrazioni non soggette a vincoli assunzionali. In questo caso, infatti, “per l’ente
ricevente, la mobilità in entrata si configura a tutti gli
effetti come ingresso di una nuova unità di personale,
risultato che potrebbe essere alternativamente ottenuto
attraverso il ricorso alle normali procedure di
reclutamento, non ponendosi il problema dell’imputazione del
trasferimento ad un non previsto contingente di nuove
assunzioni”.
Tornando al caso in questione di mobilità
intercompartimentale, bisognerà verificare se, sia per
l’ente cedente l’unità di personale che per l’ente
ricevente, la disciplina dei rispettivi settori di
appartenenza preveda, in entrambi i comparti, dei vincoli
assunzionali.
Come ben evidenziato dal Sindaco del Comune di Arizgnano,
nel caso di mobilità intercompartimentale tra enti locali e
ed enti appartenenti al Servizio sanitario nazionale, tale
reciprocità manca. Mentre, infatti, per l’ente locale
soggetto al rispetto del patto di stabilità sono previsti
una serie di vincoli di spesa e di limitazioni assunzionali,
gli enti del Servizio sanitario nazionale sono tenuti al
solo obiettivo della riduzione della spesa del personale.
Infatti, l’art. 1, comma 565, della legge 296/2006,
stabilendo le misure con cui quest’ultimi sono tenuti a
concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica in relazione alla propria spesa complessiva del
personale, ha disposto che le spese del personale, al lordo
degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e
dell’IRAP, non debbano superare per ciascuno degli anni
2007, 2008 e 2009, il corrispondente ammontare dell’anno
2004 diminuito dell’1,4%.
Tale disposizione è stata ribadita anche dalla legge 23.12.2009, n. 191 (legge finanziaria 2010) per il
triennio 2010–2012 (art. 2, commi da 71 a 73) e,
successivamente, per il triennio 2013–2015, dall’art. 15,
comma 1, del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135.
La Sezione, inoltre, fa presente che su tale questione si è
espresso anche il Dipartimento della Funzione pubblica della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il parere 13731
del 19.03.2013 che, sulla base delle argomentazioni sopra
illustrate, ha escluso gli enti del Servizio sanitario
nazionale dal novero delle amministrazioni sottoposte a
regime di limitazione, ai sensi dell’articolo unico, comma
47, della legge 311/2004, a meno che non afferiscano a
Regioni soggette all’attuazione di piani di rientro dal
disavanzo sanitario (nel qual caso, sono previste specifiche
misure limitative delle assunzioni), condizione che dovrà
essere verificata di volta in volta.
La conclusione che la mobilità intercompartimentale tra un
ente locale soggetto al rispetto del patto di stabilità ed
un ente del Servizio sanitario nazionale, afferente ad un
regione non soggetta all’attuazione di un piano di rientro
dal disavanzo sanitario, non possa essere configurata in
termini di neutralità, esclude la rilevanza del secondo
quesito proposto dal Comune di Arzignano.
Infine, la Sezione richiama l’attenzione
dell’amministrazione comunale a quanto disposto dall’art.
14, comma 7, del citato d.l. 95/2012. In tale norma,
infatti, viene espressamente stabilito che le cessazioni dal
servizio per processi di mobilità, limitatamente al periodo
di tempo necessario al raggiungimento dei requisiti previsti
dall'art. 24 del d.l. 06.12.2011, n. 201, conv. dalla
legge 22.12.2011, n. 214 -ai fini del diritto all'accesso e
alla decorrenza del trattamento pensionistico- non possono
essere calcolate come risparmio utile per definire
l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare
alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in
relazione alle limitazioni del turn-over (Corte dei
Conti, Sez. controllo Veneto,
parere
19.11.2013 n. 357). |
LAVORI PUBBLICI:
Il Collegio ritiene che la corretta
interpretazione e, conseguentemente, la corretta
applicazione della norma in esame (art. 191, comma 3, del D.Lgs.
n. 267/2000) sia la seguente.
Non è indifferente, al fine di un corretto
percorso argomentativo, evidenziare l'allocazione della
norma all'interno del TUEL. L'art. 191, difatti, fissa le "Regole
per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese"
nell'ambito dei "Principi di gestione e controllo di
gestione".
Il primo comma della norma citata individua l'ordinaria
procedura di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se
sussiste l'impegno contabile registrato sul competente
intervento o capitolo del bilancio di previsione e
l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all'articolo 153, comma 5. Solo dopo il responsabile del
servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di
spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la
copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della
prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista
dalla legge, il comma 3 dell'articolato
normativo risulta essere una deroga alla disciplina
ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del
legislatore a diversamente procedere in presenza di
situazioni che richiedono un intervento immediato (somma
urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza di fondi destinati a
coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in
presenza di tali presupposti l'Ente può procedere
all'ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura
di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi
indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano, difatti, sufficienti fondi a tal
fine stanziati. In tale circostanza, 9 non è possibile per
l'Ente procedere all'impegno di somme sul competente
capitolo o intervento di bilancio in quanto, appunto, perché
fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, in presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l'Ente può
attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto, la deroga è una sorta di
autorizzazione del legislatore con cui l'Ente può procedere
a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare
interessi primari e consentire, successivamente, all'Ente di
attivare un percorso che consenta l'individuazione delle
risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori
ordinati in via d'urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex
novo o possano trovarsi all'interno del bilancio
dell'Ente non interessa al fine della corretta applicazione
della norma. Altro non farà l'Ente, in sede di
riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto
dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al
piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli
equilibri di bilancio) del TUEL.
---------------
... il Commissario straordinario presso la provincia di La
Spezia chiede alla Sezione di controllo un parere in merito
alla corretta interpretazione ed applicazione dell'art. 191,
comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art.
3, comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a
cui "Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati
dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la
Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio
si dimostrino insufficienti, entro dieci giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la
relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della
proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.″
A parere del Commissario straordinario sembrerebbe che il
legislatore, utilizzando l'espressione "fondi
specificatamente previsti" abbia voluto intendere che se
in bilancio vi è iscritto un capitolo per somme urgenze
generiche, capiente per la somma urgenza specifica, non si
deve attivare la procedura di riconoscimento del debito
fuori bilancio, ancorché l'ordinativo all'impresa sia
avvenuto prima dell'impegno della relativa somma.
Più frequentemente accade però che in bilancio non vi sia un
capitolo ad hoc per le somme urgenze ma nell'ambito
del PEG del servizio che attiva la somma urgenza vi possano
essere stanziamenti adeguati sia in merito alla funzione che
all'intervento.
Pertanto il Commissario chiede se anche in questo caso,
mancando fondi specifici ma sussistendo fondi adeguati sia
in merito al servizio che alla funzione che all'intervento
(pur se non specificatamente previsti) l'Ente debba
procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio.
...
Come narrato in fatto, il Commissario straordinario presso
la provincia di La Spezia chiede di sapere, a seguito di
corretta interpretazione dell'art. 191, comma 3, del D.lgs.
267/2000, quale sia l'ambito di applicazione della suddetta
norma ossia quando è necessario procedere al riconoscimento
della spesa relativa ai lavori di somma urgenza con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e),
(riconoscimento dei debiti fuori bilancio).
Premesso che non appare corretta la ricostruzione effettuata
dalla Provincia di La Spezia circa le presunte intenzioni
del legislatore mediante l'utilizzo dell'inciso "fondi
specificatamente previsti", il Collegio ritiene che la
corretta interpretazione e, conseguentemente, la corretta
applicazione della norma in esame sia la seguente.
Non è indifferente, al fine di un corretto
percorso argomentativo, evidenziare l'allocazione della
norma all'interno del TUEL. L'art. 191, difatti, fissa le "Regole
per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese"
nell'ambito dei "Principi di gestione e controllo di
gestione".
Il primo comma della norma citata individua l'ordinaria
procedura di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se
sussiste l'impegno contabile registrato sul competente
intervento o capitolo del bilancio di previsione e
l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all'articolo 153, comma 5. Solo dopo il responsabile del
servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di
spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la
copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della
prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista
dalla legge, il comma 3 dell'articolato
normativo risulta essere una deroga alla disciplina
ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del
legislatore a diversamente procedere in presenza di
situazioni che richiedono un intervento immediato (somma
urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in
presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità
di lavori di somma urgenza e mancanza di fondi destinati a
coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in
presenza di tali presupposti l'Ente può procedere
all'ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura
di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi
indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di
consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni
qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo
allorquando non vi siano, difatti, sufficienti fondi a tal
fine stanziati. In tale circostanza, 9 non è possibile per
l'Ente procedere all'impegno di somme sul competente
capitolo o intervento di bilancio in quanto, appunto, perché
fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, in presenza di fondi a tal
fine destinati o, in altre parole, quando l'Ente può
attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta
necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto, la deroga è una sorta di
autorizzazione del legislatore con cui l'Ente può procedere
a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare
interessi primari e consentire, successivamente, all'Ente di
attivare un percorso che consenta l'individuazione delle
risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori
ordinati in via d'urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex
novo o possano trovarsi all'interno del bilancio
dell'Ente non interessa al fine della corretta applicazione
della norma. Altro non farà l'Ente, in sede di
riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto
dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al
piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli
equilibri di bilancio) del TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 18.03.2013 n. 12). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
I rimborsi spese legali a seguito di archiviazione e/o
sentenze di assoluzione non debbono essere considerati
debiti fuori bilancio, ancorché non vi sia alcun impegno di
spesa formale.
Sul punto, il Collegio ritiene che
il
procedimento di rimborso sia composto da una serie di
valutazioni logicamente connesse tra loro, che vanno dalla
richiesta dei diretti interessati corredata dalla
documentazione giustificativa, alla verifica da parte
dell’ente della sussistenza di tutti i presupposti richiesti ex lege per il rimborso.
L’eventuale decisione del rimborso può
essere adottata solo all’esito di tali valutazioni, da
formalizzare in un provvedimento gestionale che dia contezza
–attraverso adeguata motivazione- della sussistenza delle
condizioni sopra citate.
Solo in tale ipotesi può nascere
l’eventuale obbligazione per l’ente che, divenutone soggetto
passivo, può procedere con riferimento alle somme ritenute
congrue ad adottare impegno contabile sul bilancio
dell’esercizio in corso, coerentemente con il principio di
competenza finanziaria, ex artt. 183 e 191 del TUEL.
---------------
... il Sindaco del Comune di Castellammare del Golfo chiede
di sapere:
1. se i rimborsi spese legali a seguito di archiviazione
e/o sentenze di assoluzione debbano essere considerati
debiti fuori bilancio –atteso che non vi è alcun impegno di
spesa formale-;
2. se rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 194, c. 1,
lett. a), del D.Lgs. n. 267/2000;
3. se l’eventuale delibera di riconoscimento di debito
fuori bilancio debba essere considerata dal Consiglio
comunale come mero atto ricognitorio (delibera SSRR per
la Regione siciliana in sede consultiva n. 2/2005) che
presuppone a priori il pagamento con apposita determinazione
dirigenziale o se invece debba soggiacere all’esclusiva
competenza consiliare.
...
Venendo al merito, con il primo quesito, il comune
chiede se il rimborso delle spese legali, ove ammissibile
ex lege, costituisca debito fuori bilancio, vista
l’assenza di formale impegno di spesa.
Sul punto, il Collegio ritiene che il
procedimento di rimborso sia composto da una serie di
valutazioni logicamente connesse tra loro, che vanno dalla
richiesta dei diretti interessati corredata dalla
documentazione giustificativa, alla verifica da parte
dell’ente della sussistenza di tutti i presupposti richiesti
ex lege per il rimborso
(che, con riferimento ai casi prospettati, esula dal
presente quesito e compete esclusivamente all’ente, in
possesso dei necessari elementi documentali e conoscitivi).
L’eventuale decisione del rimborso può
essere adottata solo all’esito di tali valutazioni, da
formalizzare in un provvedimento gestionale che dia contezza
–attraverso adeguata motivazione- della sussistenza delle
condizioni sopra citate.
Solo in tale ipotesi può nascere
l’eventuale obbligazione per l’ente che, divenutone soggetto
passivo, può procedere con riferimento alle somme ritenute
congrue ad adottare impegno contabile sul bilancio
dell’esercizio in corso, coerentemente con il principio di
competenza finanziaria, ex artt. 183 e 191 del TUEL
(in termini, Cfr. Sezione di controllo per la Lombardia,
delibera n. 514/2010/PAR).
Non rientrando la fattispecie astrattamente prospettata
nella fattispecie del debito fuori bilancio (peraltro
oggetto di ampia revisione interpretativa da parte delle
Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede di
controllo nella relazione sullo stato della finanza locale
2011), restano assorbiti i quesiti n. 2 e 3 (Corte
dei Conti, Sezz. riunite controllo Sicilia,
parere 12.01.2012 n. 2). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’elaborazione dottrinale e le
pronunce giurisprudenziali considerano il debito fuori
bilancio obbligazione pecuniaria riferibile all’ente,
assunta in violazione delle norme di contabilità pubblica
che riguardano le fasi di erogazione delle spese ed in
particolare di quelle che disciplinano l’assunzione di
impegni di spese.
Sono dunque da ricondursi al concetto di “sopravvenienza
passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori
dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni
dell’art. 191 del TUEL ed in assenza di una specifica
previsione nel bilancio di esercizio in cui si manifestano.
---------------
Il quesito proposto è indirizzato a
conoscere se il debito scaturente da una fideiussione debba
o meno rientrare nelle ipotesi di riconoscimento del debito
fuori bilancio di cui alla lettera e) sopra riportata.
La fideiussione costituisce una garanzia personale fornita
allo scopo di soddisfare un'obbligazione assunta da un terzo
nel caso che questi risulti inadempiente.
L'obbligazione del fideiussore ha carattere accessorio. Ciò
vuol dire che essa esiste nei limiti in cui esiste
l'obbligazione garantita (debito altrui); il vincolo di
accessorietà perdura nel corso di tutto il rapporto
fideiussorio e quindi le vicende che attengono al rapporto
principale si ripercuotono necessariamente sulla garanzia
fideiussoria.
Da tutto ciò discende che il mantenimento
dell’iscrizione in bilancio della posta inerente
l’obbligazione di garanzia, fin tanto che sussista
l’obbligazione principale, rappresenta un preciso obbligo da
parte del Comune, dettato non a presidio di vincoli di
prudenza o di opportunità, bensì di imprescindibili doveri
di veridicità e chiarezza del bilancio,
affermati dal principio contabile n. 1 (Finalità e postulati
dei principi contabili degli enti locali), punto c. sezione
II, approvato il 12.03.2008 dall’Osservatorio per la finanza
e la contabilità degli enti locali costituito presso il
Ministero degli Interni, nonché, da ultimo, dall'Allegato 1
(punto 5) dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 118 del
23/06/2011.
Il rispetto di questa condizione fa sì che
in ciascun esercizio finanziario (per la durata
dell’obbligazione principale del terzo debitore) il Comune
debba iscrivere in bilancio lo stanziamento per far fronte
al debito scaturente dall’eventuale escussione; inoltre,
rispondendo al principio di prudenza, sarà opportuno che lo
stesso provveda ad impegnare la somma di cui trattasi
ponendo, quindi, un vincolo sullo stanziamento di bilancio a
presidio dell'obbligazione eventualmente dovuta, impegno che
diverrà economia di bilancio al termine dell'esercizio in
caso di adempimento del soggetto debitore; in presenza di
tale corretto comportamento non sarà necessario per il
comune procedere al riconoscimento di un debito fuori
bilancio, ma al momento in cui sorge il suo obbligo a pagare
sarà sufficiente provvedere a valere sull’impegno già
previsto.
---------------
... richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Castiglion Fibocchi, in cui chiede di conoscere se, in
caso di insolvenza del debitore principale e di escussione
della fideiussione a carico del Comune, occorre procedere al
riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art.
194, comma 1, lettera e), del TUEL pur in presenza dello
stanziamento in bilancio delle necessarie risorse
finanziarie.
...
Nel merito, l’elaborazione dottrinale e le
pronunce giurisprudenziali considerano il debito fuori
bilancio obbligazione pecuniaria riferibile all’ente,
assunta in violazione delle norme di contabilità pubblica
che riguardano le fasi di erogazione delle spese ed in
particolare di quelle che disciplinano l’assunzione di
impegni di spese. Sono dunque da ricondursi al concetto di “sopravvenienza
passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori
dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni
dell’art. 191 del TUEL ed in assenza di una specifica
previsione nel bilancio di esercizio in cui si manifestano.
L’art. 194 del TUEL disciplina l’ambito e le procedure per
riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio
individuando tassativamente le tipologie per le quali è resa
possibile l’imputazione dell’insorto obbligo in capo
all’ente, con l’adozione di apposita deliberazione di
riconoscimento di legittimità da parte del Consiglio.
Precisamente, “gli enti locali riconoscono la legittimità
dei debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e
di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da
statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato
rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui
all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di
gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal
codice civile o da norme speciali, di società di capitali
costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per
opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei
limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento
per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza.”
Il quesito proposto è indirizzato a
conoscere se il debito scaturente da una fideiussione debba
o meno rientrare nelle ipotesi di riconoscimento del debito
fuori bilancio di cui alla lettera e) sopra riportata.
La fideiussione costituisce una garanzia personale fornita
allo scopo di soddisfare un'obbligazione assunta da un terzo
nel caso che questi risulti inadempiente.
L'obbligazione del fideiussore ha carattere accessorio. Ciò
vuol dire che essa esiste nei limiti in cui esiste
l'obbligazione garantita (debito altrui); il vincolo di
accessorietà perdura nel corso di tutto il rapporto
fideiussorio e quindi le vicende che attengono al rapporto
principale si ripercuotono necessariamente sulla garanzia
fideiussoria (Cassazione, sezione I civile, 14.12.2007, n.
26262).
Da tutto ciò discende che il mantenimento
dell’iscrizione in bilancio della posta inerente
l’obbligazione di garanzia, fin tanto che sussista
l’obbligazione principale, rappresenta un preciso obbligo da
parte del Comune, dettato non a presidio di vincoli di
prudenza o di opportunità, bensì di imprescindibili doveri
di veridicità e chiarezza del bilancio,
affermati dal principio contabile n. 1 (Finalità e postulati
dei principi contabili degli enti locali), punto c. sezione
II, approvato il 12.03.2008 dall’Osservatorio per la finanza
e la contabilità degli enti locali costituito presso il
Ministero degli Interni, nonché, da ultimo, dall'Allegato 1
(punto 5) dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 118 del
23/06/2011 (in tal senso si esprime anche altra sezione
della Corte dei conti: deliberazione Veneto n. 268 del
28.10.2011).
Il rispetto di questa condizione fa sì che
in ciascun esercizio finanziario (per la durata
dell’obbligazione principale del terzo debitore) il Comune
debba iscrivere in bilancio lo stanziamento per far fronte
al debito scaturente dall’eventuale escussione; inoltre,
rispondendo al principio di prudenza, sarà opportuno che lo
stesso provveda ad impegnare la somma di cui trattasi
ponendo, quindi, un vincolo sullo stanziamento di bilancio a
presidio dell'obbligazione eventualmente dovuta, impegno che
diverrà economia di bilancio al termine dell'esercizio in
caso di adempimento del soggetto debitore; in presenza di
tale corretto comportamento non sarà necessario per il
comune procedere al riconoscimento di un debito fuori
bilancio, ma al momento in cui sorge il suo obbligo a pagare
sarà sufficiente provvedere a valere sull’impegno già
previsto.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte
dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in
relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle
autonomie con nota Prot. n. 18987/1.13.9 (Corte dei Conti,
Sez. controllo Toscana,
parere
20.12.2011 n. 518). |
APPALTI:
Al momento del riconoscimento di un
debito fuori bilancio, il Consiglio
deve prendere atto, anzitutto, che l'obbligazione si
riferisce a funzioni e servizi di propria competenza, per
poi dichiarare l’effettiva utilità ricevuta dalla
prestazione in termini di arricchimento per l'ente.
L’accertamento della sussistenza dei predetti elementi
attiene alla dimostrazione dell'effettiva utilità che l'ente
ha tratto dalla prestazione altrui, in termini di
misurazione dell'utilità ricavata dalla prestazione di beni
o servizi eseguita dal terzo creditore.
Il
legislatore ha correttamente indicato il requisito dell’“utilità”
della prestazione, che deve essere accertata e dimostrata, “senza
che si possa rinvenire nella legislazione una precisa
nozione della fattispecie”, demandando alla delibera
consiliare di riconoscimento l’individuazione delle singole
fattispecie e dei requisiti delle spese in questione, in un
ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
---------------
Con riferimento, poi, alla possibilità che il riconoscimento
di debito possa comprendere anche ulteriori elementi come
l’“utile d’impresa” deve richiamarsi l’orientamento
secondo cui
l’utile d’impresa, in quanto rappresentativo della
componente economica della controprestazione integrante il
guadagno del privato, non può in alcun modo costituire, come
tale, un arricchimento per l’Ente.
---------------
Il Sindaco del comune di Bellaria Igea-Marina (RN), per il
tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, ha inoltrato a
questa Sezione, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della
legge 05.06.2003 n. 131, richiesta di parere riguardante
l’interpretazione dell’articolo 194, comma 1, lett. e), del
TUEL con riferimento ai requisiti dell’“utilità e
arricchimento dell’Ente”, che devono essere accertati e
dimostrati, con riferimento alla possibilità di attivare la
procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio per
passività pregresse, emerse nel corso dell’anno 2010, ma
riferibili ad annualità precedenti.
In particolare l’Ente chiede se il concetto di utilità
debba essere connotato dal carattere dell’indispensabilità,
necessità e urgenza e se nella determinazione del quantum
dell’arricchimento debba essere decurtato il 15% costituito
dall’utile d’impresa.
...
Nel merito, si osserva che l'art. 194 del T.U.E.L. (d.lgs.
167/2000) consente, infatti, la riconoscibilità della
legittimità di un debito fuori bilancio per acquisizione di
beni e servizi "nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza".
Al momento del riconoscimento, il Consiglio
deve prendere atto, anzitutto, che l'obbligazione si
riferisce a funzioni e servizi di propria competenza, per
poi dichiarare l’effettiva utilità ricevuta dalla
prestazione in termini di arricchimento per l'ente.
L’accertamento della sussistenza dei predetti elementi
attiene alla dimostrazione dell'effettiva utilità che l'ente
ha tratto dalla prestazione altrui, in termini di
misurazione dell'utilità ricavata dalla prestazione di beni
o servizi eseguita dal terzo creditore.
Sull’argomento deve, altresì, richiamarsi il principio
contabile n. 2, punto 98, Ministero dell’Interno -
Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti
locali .
Tanto premesso, occorre precisare che il
legislatore ha correttamente indicato il requisito dell’“utilità”
della prestazione, che deve essere accertata e dimostrata, “senza
che si possa rinvenire nella legislazione una precisa
nozione della fattispecie”, demandando alla delibera
consiliare di riconoscimento l’individuazione delle singole
fattispecie e dei requisiti delle spese in questione, in un
ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
Da tale orientamento, condiviso anche da altre Sezioni
regionali di questa Corte (cfr. deliberazione 67/2007/Par. e
173/2009/Par. della Sezione di Controllo per la Calabria;
deliberazione 10/2008/Par. della Sezione di Controllo per la
Campania) il Collegio ritiene non sussistano sopravvenute
argomentazioni giuridiche per discostarsene.
Con riferimento, poi, alla possibilità che il riconoscimento
di debito possa comprendere anche ulteriori elementi come
l’“utile d’impresa” deve richiamarsi l’orientamento
di questa Corte (Corte dei conti, Trentino Alto Adige,
sezione giurisdizionale, 02.07.2008 n. 34) secondo cui
l’utile d’impresa, in quanto rappresentativo della
componente economica della controprestazione integrante il
guadagno del privato, non può in alcun modo costituire, come
tale, un arricchimento per l’Ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 28.07.2011 n. 32).
---------------
L'arricchimento
non deve essere inteso necessariamente come accrescimento
patrimoniale, potendo questo consistere anche in un
risparmio di spesa (Cassazione Civile, Sezione I,
12.07.1996, n. 6332). Esso va stabilito con riferimento a
criteri oggettivi (ad es. la congruità dei prezzi andrà
valutata sulla base delle indicazioni e delle rilevazioni
del mercato o dei prezzari e tariffe approvati da enti
pubblici a ciò deputati, o dagli ordini professionali).
Principio contabile n. 2, punto 98:
Il riconoscimento della legittimità dei debiti fuori
bilancio ascrivibili alla lettera (e) dell’art.
194 del TUEL comporta
l’accertamento della sussistenza non solo dell’elemento
dell’utilità
pubblica, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza, ma
anche quello dell’arricchimento senza giusta causa.
Ai fini del riconoscimento della legittimità
dei debiti fuori bilancio ascrivibili alla lettera e)
dell’art. 194 del TUEL la sussistenza
dell’utilità conseguita va valutata in relazione alla
realizzazione dei vantaggi economici
corrispondenti agli interessi istituzionali dell’ente. Sono,
comunque, da qualificarsi utili e vantaggiose
le spese specificatamente previste per legge.
L'arricchimento corrisponde alla diminuzione patrimoniale
sofferta senza giusta causa dal soggetto privato e terzo che
va indennizzato nei limiti dell'arricchimento ottenuto
dall'ente.
Principio contabile n. 2, punto 90:
L’elaborazione dottrinale e le pronunce giurisprudenziali
conducono a considerare il debito
fuori bilancio quale
obbligazione pecuniaria riferibile all’ente, assunta in
violazione delle
norme di contabilità
pubblica che riguardano la fase della spesa ed in
particolare di quelle che
disciplinano l’assunzione di impegni di spesa. |
APPALTI:
I debiti fuori
bilancio derivanti da sentenze esecutive, per i quali è
consentito il riconoscimento da parte del Consiglio Comunale
ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.Lgs. 18/08/2000 n.
267, conseguono all’imperatività del provvedimento
giudiziale e pertanto come rilevato, al punto 101 dal
principio contabile n. 2 redatto dall’Osservatorio per la
Finanza e la Contabilità degli Enti locali in data
18/11/2008, il significato del provvedimento del Consiglio
Comunale non è quello di riconoscere una legittimità del
debito che già esiste, ma di ricondurre al sistema di
bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato
all’esterno di esso.
Sussiste,
pertanto, in
presenza di una sentenza munita della formula esecutiva,
l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione
del Consiglio Comunale per provvedere al riconoscimento del
debito al fine di impedire il maturare di interessi,
rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali generate
da eventuali azioni esecutive.
D’altronde, come precisato dal successivo punto 102 del su
richiamato principio contabile n. 2: “il riconoscimento
della legittimità del debito fuori bilancio derivante da
sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa
e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il
medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato
dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e
opportune”.
Con il provvedimento consiliare di
riconoscimento del debito fuori bilancio devono
necessariamente individuarsi le fonti di
finanziamento rilevata la sussistenza dell’obbligo di
copertura finanziaria gravante sui provvedimenti di spesa
sancita dall’art. 191 del D.Lgs. n. 267/2000.
Infatti, come noto, la fattispecie del
debito fuori bilancio costituisce un’obbligazione pecuniaria
dell’Ente locale perfezionatasi giuridicamente ma assunta in
violazione delle norme giuscontabili che regolano
l’assunzione di impegni di spesa ed il provvedimento del
Consiglio Comunale di riconoscimento del debito consente di
ricondurre l’obbligazione nell’osservanza delle norme di
contabilità mediante la individuazione delle risorse per
farvi fronte.
Invero, deve dedursi dalla
ratio del sistema normativo nel suo insieme che il
debito, una volta riconosciuto dall’Ente, deve essere
finanziato ed adempiuto con necessaria celerità nel rispetto
degli equilibri di bilancio anche al fine di evitare
ulteriore aggravio per le finanze pubbliche.
Deve, inoltre, aggiungersi che le linee guida per la
predisposizione delle relazioni ai bilanci di previsione
2010 a cui devono attenersi gli Organi di Revisione
Contabile degli Enti locali, approvate con la deliberazione
della Sezione Autonomie n. 9/AUT/2010 depositata il
16/04/2010, richiedono, alla domanda preliminare n. 13), se
sono previsti stanziamenti per il finanziamento di debiti
fuori bilancio ancora non riconosciuti dal Consiglio
Comunale manifestando particolare attenzione anche alle
potenziali passività affinché gli Enti predispongano
adeguati accantonamenti che permettano la copertura dei
futuri debiti.
La Sezione ritiene, quindi, opportuno precisare che qualora il Giudice di Appello disponesse la
sospensione dell’esecutività della sentenza con il
conseguente venire meno dell’obbligo di provvedere al
riconoscimento del debito da parte del Consiglio Comunale,
l’Ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel
rispetto dei principi di una sana e corretta gestione
finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura
del debito in caso di eventuale soccombenza.
---------------
Il Sindaco del Comune di Castrignano del Capo (LE), con la
nota riportata in epigrafe, illustra che l’Ente, risultato
soccombente in un giudizio civile, è stato condannato al
pagamento della somma di €. 2.700.000,00 circa con sentenza
provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 del codice
di procedura civile.
Il Sindaco evidenzia che il Comune ha tempestivamente
affidato al proprio difensore l’incarico di proporre il
giudizio di appello con contestuale istanza di sospensione
dell’esecutività della sentenza considerando “le
gravissime ripercussioni” sul bilancio dell’Ente.
Pertanto, il Sindaco espone alla Sezione i seguenti quesiti
al fine di conoscere:
- se sussista l’obbligo per la Giunta Comunale di
sottoporre immediatamente all’esame del Consiglio il
riconoscimento del debito fuori bilancio derivante dalla
sentenza provvisoriamente esecutiva o se tale obbligo
scaturisca soltanto con la notifica all’Ente della sentenza
munita della formula esecutiva;
- e se il Consiglio Comunale possa limitarsi a prendere
atto del debito e dell’istanza di sospensione
dell’esecutività riservandosi all’esito dell’udienza o in
seguito all’attivazione della procedura di esecuzione
forzata di individuare le fonti di finanziamento del debito
in sede di salvaguardia degli equilibri di bilancio.
...
Il Collegio evidenzia che i debiti fuori
bilancio derivanti da sentenze esecutive, per i quali è
consentito il riconoscimento da parte del Consiglio Comunale
ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.Lgs. 18/08/2000 n.
267, conseguono all’imperatività del provvedimento
giudiziale e pertanto come rilevato, al punto 101 dal
principio contabile n. 2 redatto dall’Osservatorio per la
Finanza e la Contabilità degli Enti locali in data
18/11/2008, il significato del provvedimento del Consiglio
Comunale non è quello di riconoscere una legittimità del
debito che già esiste, ma di ricondurre al sistema di
bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato
all’esterno di esso.
Sussiste,
pertanto, ad avviso della Sezione, in
presenza di una sentenza munita della formula esecutiva,
l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione
del Consiglio Comunale per provvedere al riconoscimento del
debito al fine di impedire il maturare di interessi,
rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali generate
da eventuali azioni esecutive.
D’altronde, come precisato dal successivo punto 102 del su
richiamato principio contabile n. 2: “il riconoscimento
della legittimità del debito fuori bilancio derivante da
sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa
e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il
medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato
dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e
opportune”.
Con il provvedimento consiliare di
riconoscimento del debito fuori bilancio devono
necessariamente individuarsi,
ad avviso del Collegio, le fonti di
finanziamento rilevata la sussistenza dell’obbligo di
copertura finanziaria gravante sui provvedimenti di spesa
sancita dall’art. 191 del D.Lgs. n. 267/2000.
Infatti, come noto, la fattispecie del
debito fuori bilancio costituisce un’obbligazione pecuniaria
dell’Ente locale perfezionatasi giuridicamente ma assunta in
violazione delle norme giuscontabili che regolano
l’assunzione di impegni di spesa ed il provvedimento del
Consiglio Comunale di riconoscimento del debito consente di
ricondurre l’obbligazione nell’osservanza delle norme di
contabilità mediante la individuazione delle risorse per
farvi fronte.
Come precisato dalla Sezione Regionale di Controllo per
l’Emilia Romagna con la deliberazione n. 20/2007 depositata
in data 03/04/2007, deve dedursi dalla
ratio del sistema normativo nel suo insieme che il
debito, una volta riconosciuto dall’Ente, deve essere
finanziato ed adempiuto con necessaria celerità nel rispetto
degli equilibri di bilancio anche al fine di evitare
ulteriore aggravio per le finanze pubbliche.
Deve, inoltre, aggiungersi che le linee guida per la
predisposizione delle relazioni ai bilanci di previsione
2010 a cui devono attenersi gli Organi di Revisione
Contabile degli Enti locali, approvate con la deliberazione
della Sezione Autonomie n. 9/AUT/2010 depositata il
16/04/2010, richiedono, alla domanda preliminare n. 13), se
sono previsti stanziamenti per il finanziamento di debiti
fuori bilancio ancora non riconosciuti dal Consiglio
Comunale manifestando particolare attenzione anche alle
potenziali passività affinché gli Enti predispongano
adeguati accantonamenti che permettano la copertura dei
futuri debiti.
La Sezione ritiene, quindi, opportuno precisare che
qualora il Giudice di Appello disponesse la
sospensione dell’esecutività della sentenza con il
conseguente venire meno dell’obbligo di provvedere al
riconoscimento del debito da parte del Consiglio Comunale,
l’Ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel
rispetto dei principi di una sana e corretta gestione
finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura
del debito in caso di eventuale soccombenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 29.09.2010 n. 93). |
LAVORI PUBBLICI:
Nell’importo complessivo del debito
fuori bilancio sono comprese sia le somme relative ai lavori
pubblici sia altri oneri non strettamente connessi alle
opere realizzate, ma conseguenti al comportamento del
comune, quali interessi legali, gli oneri di fideiussione e
gli onorari agli arbitri.
Ai fini dell’imputazione in bilancio vanno
distinte le somme relative alle opere pubbliche da
annoverare tra le spese in conto capitale dagli altri oneri
che vanno invece allocati tra le spese di parte corrente.
Pertanto, a parere di questa Sezione, le
somme corrisposte dall’ente, derivanti da un debito fuori
bilancio per effetto di sentenza esecutiva (nel caso di
specie lodo arbitrale), limitatamente alle spese per lavori
pubblici, possono essere imputate come spese di capitale e,
a tale titolo, possono concorrere a determinare, in termini
di cassa, i risultati del saldo utile ai fini del rispetto
dell’obiettivo del Patto di stabilità interno.
---------------
Il Sindaco del Comune di Muggiò (MB) ha posto alla Sezione
un quesito concernente l’imputazione della spesa
derivante da un debito fuori bilancio per effetto di
sentenza esecutiva (lodo arbitrale).
In particolare viene richiesto se sia possibile
considerare il debito riconoscibile ai sensi dell’art. 194,
comma 1, lettera a, del D.Lgs n. 267/2000, come spesa in
conto capitale, poiché l’oggetto del contratto, da cui è
derivato il contenzioso e dunque la sentenza di condanna,
attiene a lavori di realizzazione di una strada provinciale.
...
Dalla documentazione acquisita, a seguito di formale
richiesta istruttoria, si evince che nell’importo
complessivo del debito fuori bilancio sono comprese sia le
somme relative ai lavori pubblici sia altri oneri non
strettamente connessi alle opere realizzate, ma conseguenti
al comportamento del comune, quali interessi legali, gli
oneri di fideiussione e gli onorari agli arbitri.
Ai fini dell’imputazione in bilancio vanno
distinte le somme relative alle opere pubbliche da
annoverare tra le spese in conto capitale dagli altri oneri
che vanno invece allocati tra le spese di parte corrente.
Pertanto, a parere di questa Sezione, le
somme corrisposte dall’ente, derivanti da un debito fuori
bilancio per effetto di sentenza esecutiva (nel caso di
specie lodo arbitrale), limitatamente alle spese per lavori
pubblici, possono essere imputate come spese di capitale e,
a tale titolo, possono concorrere a determinare, in termini
di cassa, i risultati del saldo utile ai fini del rispetto
dell’obiettivo del Patto di stabilità interno
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.11.2009 n. 1002). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Sin dal momento della designazione del
responsabile unico del procedimento (RUP), l’Ente deve
procedere all’assunzione di un regolare impegno di spesa
(per la liquidazione dell'incentivo alla progettazione
interna) rilevato che risultano già noti l’importo massimo
della spesa e le somme a disposizione dell’Amministrazione
per la realizzazione del progetto.
La mancata assunzione dell’impegno di spesa determina, inevitabilmente, un debito fuori
bilancio che deve essere tempestivamente evidenziato e
sottoposto alla valutazione discrezionale dell’Organo
Consiliare per l’eventuale riconoscimento.
---------------
Nel caso
di riconoscimento di debiti fuori bilancio per
l’acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa, ai
sensi del’art. 194, lett. e), del TUEL, l’Organo Consiliare
deve valutare, mediante specifica e motivata deliberazione
che accerti anche l’eventuale prescrizione, che la spesa
rientri tra quelle disposte per l’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza dell’Ente nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento.
Il Collegio ritiene, quindi, che per gli
Enti locali corrisponde a principi di prudenza e di sana
gestione finanziaria procedere ad un’attenta pianificazione
di bilancio che consenta la determinazione, almeno presunta,
delle somme da corrispondere a terzi al fine di adottare i
dovuti adempimenti contabili di impegno di spesa e di
evitare l’insorgenza di debiti fuori bilancio.
Le eventuali passività insorte durante la gestione assumono,
quindi, carattere eccezionale e devono essere
tempestivamente segnalate per garantirne la copertura
mediante i provvedimenti di riconoscimento di debito fuori
bilancio in presenza dei presupposti sanciti dall’art. 194
del TUEL.
---------------
Il Sindaco del Comune di Castellaneta (TA), con la nota
indicata in epigrafe, richiede il parere della Sezione
sull’esatta procedura contabile da applicare nel caso di
debito gravante sull’Ente per il pagamento degli incentivi
sulla progettazione interna previsti dall’art. 92 del D.Lgs.
12/04/2006 n. 163 e spettanti al responsabile del
procedimento ed ai dipendenti incaricati del progetto di
un’opera pubblica.
Il Sindaco, dopo aver illustrato che il Ministero del
Bilancio e della Programmazione Economica ed il Comune di
Castellaneta avevano sottoscritto, in data 26/03/1998,
apposita convenzione per la realizzazione di opere
infrastrutturali di adeguamento del sistema idrico, precisa
che, come richiesto dal Ministero, con deliberazione della
Giunta Municipale n. 205 del 06/04/1998 era stata effettuata
la designazione del responsabile unico del procedimento ma
non era stato previsto alcun formale impegno di spesa.
Tuttavia, l’allora vigente art. 18 della L. n. 109/1994 poi
trasfuso nell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 prevedeva, in
favore del responsabile del procedimento e degli incaricati
del progetto, la corresponsione di una somma non superiore
all’1,5% dell’importo posto a base di gara da ripartire
secondo i criteri assunti in un regolamento effettivamente
adottato dall’Ente con deliberazione della Giunta Municipale
n. 62 del 25/03/2003.
Il Sindaco ritiene che il responsabile del procedimento,
coadiuvato dai funzionari amministrativi, designati con
ordine di servizio del 29/10/1998, abbia svolto le proprie
funzioni sino al collaudo delle opere avvenuto in data
30/01/2003 e pertanto richiede il parere della Sezione
sull’esatta natura del debito per accertare se le somme
spettanti debbano essere ascritte tra i debiti fuori
bilancio del Comune o se ne sia consentita direttamente la
liquidazione da parte del dirigente del Settore.
...
Il debito fuori bilancio costituisce, come noto,
un’obbligazione pecuniaria dell’Ente locale assunta in
violazione delle norme giuscontabili che regolano
l’assunzione di impegni di spesa.
L’art. 194 del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, recante il Testo
Unico degli Enti Locali, consente il riconoscimento di
debiti fuori bilancio soltanto in ipotesi espressamente e
tassativamente determinate rilevato che costituisce regola
generale, sancita dall’art. 191 del TUEL, che gli Enti
locali effettuino spese solo se sussiste l’impegno contabile
registrato sul competente intervento o capitolo di bilancio
ed in presenza di formale attestazione della copertura
finanziaria.
La Sezione evidenzia che l’ordinamento contabile degli Enti
locali è improntato a principi di universalità e di
veridicità che impongono la completa rappresentazione in
bilancio di tutte le entrate e di tutte le spese in modo
veritiero ed attendibile.
Pertanto, sin dal momento della
designazione del responsabile unico del procedimento, l’Ente
avrebbe dovuto procedere all’assunzione di un regolare
impegno di spesa rilevato che risultavano già noti l’importo
massimo della spesa e le somme a disposizione
dell’Amministrazione per la realizzazione del progetto.
La mancata assunzione dell’impegno di spesa
ha, quindi, inevitabilmente determinato un debito fuori
bilancio che doveva essere tempestivamente evidenziato e
sottoposto alla valutazione discrezionale dell’Organo
Consiliare per l’eventuale riconoscimento atteso che il
completamento ed il collaudo delle opere è avvenuto sin
dall’esercizio 2003.
La disciplina per la salvaguardia degli equilibri di
bilancio, prevista dall’art. 193, comma 2, del TUEL impone,
infatti, che almeno annualmente entro il 30 settembre,
l’Organo Consiliare adotti i provvedimenti necessari per il
ripiano di eventuali debiti fuori bilancio.
Trattasi di normativa di peculiare rilevanza poiché la
mancata adozione di tali provvedimenti comporta, ai sensi
dell’art. 191, comma 5, del TUEL, il divieto di assumere
impegni e pagare spese per servizi non espressamente
previsti dalla legge.
La Sezione precisa, inoltre, che nel caso
di riconoscimento di debiti fuori bilancio per
l’acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa, ai
sensi del’art. 194, lett. e), del TUEL, l’Organo Consiliare
deve valutare, mediante specifica e motivata deliberazione
che accerti anche l’eventuale prescrizione, che la spesa
rientri tra quelle disposte per l’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza dell’Ente nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento.
Il Collegio ritiene, quindi, che per gli
Enti locali corrisponde a principi di prudenza e di sana
gestione finanziaria procedere ad un’attenta pianificazione
di bilancio che consenta la determinazione, almeno presunta,
delle somme da corrispondere a terzi al fine di adottare i
dovuti adempimenti contabili di impegno di spesa e di
evitare l’insorgenza di debiti fuori bilancio.
Le eventuali passività insorte durante la gestione assumono,
quindi, carattere eccezionale e devono essere
tempestivamente segnalate per garantirne la copertura
mediante i provvedimenti di riconoscimento di debito fuori
bilancio in presenza dei presupposti sanciti dall’art. 194
del TUEL (Corte
dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 12.02.2009 n. 6). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La spettanza del legale non è riconducibile ad una sentenza
esecutiva quale obbligo cogente nei confronti
dell’amministrazione, bensì al rapporto professionale
intercorso e alla successiva circostanza dell’insolvenza che
ha determinato l’insorgenza a carico dell’Ente locale di
adempiere il debito.
Essendo tale obbligo insorto al momento della nuova
richiesta può essere adempiuto mediante semplice
integrazione dello stanziamento di bilancio.
Tuttavia, qualora intervenga nell’esercizio
finanziario successivo ed il relativo capitolo non sia stato
impegnato, non sussistendo residui si dovrà procedere con il
riconoscimento di debito fuori bilancio.
---------------
Il Comune di Frontone ha formulato richiesta di parere
concernente la necessità o meno di procedere al
riconoscimento di debito fuori bilancio derivante da una
parcella professionale posta dall’Autorità Giudiziaria a
carico della controparte insolvente ed irreperibile.
...
La spettanza del legale non è riconducibile ad una sentenza
esecutiva quale obbligo cogente nei confronti
dell’amministrazione, bensì al rapporto professionale
intercorso e alla successiva circostanza dell’insolvenza che
ha determinato l’insorgenza a carico dell’Ente locale di
adempiere il debito.
Essendo tale obbligo insorto al momento della nuova
richiesta può essere adempiuto mediante semplice
integrazione dello stanziamento di bilancio.
Tuttavia, qualora intervenga nell’esercizio
finanziario successivo ed il relativo capitolo non sia stato
impegnato, non sussistendo residui si dovrà procedere con il
riconoscimento di debito fuori bilancio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 02.02.2009 n. 4). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul recupero dei sottotetti, in deroga, in Lombardia.
In linea di
principio, la quota di contributo commisurata al costo di
costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria
e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei
singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio.
Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è
dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico.
---------------
Nello specifico, il settimo comma, primo periodo, dell'art.
64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12 prevede che: “La
realizzazione degli interventi di recupero di cui al
presente capo comporta la corresponsione …. del contributo
commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla
volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa
abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun
comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di
urbanizzazione e del contributo riferito al costo di
costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da
un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”,
e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le opere
di nuova costruzione.
In tal senso, il TAR ha ragione quanto ha escluso la
legittimità di un conteggio che tenga conto della
“superficie complessiva”, cioè la superficie utile più
quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M.
10.05.1977 n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale
della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è
esatto l’assunto per cui in materia di oneri di
urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve
farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale
individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit
dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli
oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono
essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla
superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha
intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare
derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48
della L.R. n. 12/2005.
---------------
Al fine del calcolo del costo di costruzione per gli
interventi in questione deve dunque escludersi che possano
essere conteggiate come fattori di moltiplicazione le
superfici non destinate anche indirettamente ai fini
residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad
uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine,
deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle
cantine ed ecc..
---------------
Il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art. 64, co.
7, della detta L.R. 12/2005 implica che per la
determinazione del costo di costruzione per le nuove
costruzioni –sia pure con riferimento alle sole superfici
lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto
rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al D.M.
10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione
"calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di
pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate
vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova
costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48
ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei
recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato
utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p.
resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove
costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
---------------
Quindi, come visto, se ai fini dell’individuazione del
fattore principale del calcolo si doveva tener conto solo
della “superficie utile resa abitabile”, il ricordato rinvio
alle “tariffe vigenti” comporta comunque la necessità di
valorizzare in concreto la tipologia dell’immobile
computando quindi le percentuali di incremento di cui al
D.M. 10.05.1977 “Determinazione del costo di costruzione di
nuovi edifici” e ciò per la fondamentale ragione che le
superfici degli accessori e dei servizi costituiscono un
elemento indicativo ai fini della valorizzazione
dell’immobile.
La legge sul recupero dei sottotetti ai fini residenziali,
con il richiamo alle tariffe vigenti, implica che il costo a
mq. possa, e debba, essere maggiorato con le percentuali di
incremento connesse con la tipologia qualitativa
dell’immobile di cui al D.M. n. 10/1977.
Pertanto, ferma restando la “volumetria o la superficie
abitativa netta resa abitabile”, sebbene le superfici degli
accessori in questione non possano essere ricomprese in uno
dei fattori del calcolo, ciò non vuol dire che la loro
esistenza non incida, e rilevi sul piano concreto della
fruibilità e della qualità estetica ed abitativa degli
immobili. Per questo devono essere considerate ai fini della
individuazione della percentuale di maggiorazione del “costo
di costruzione” relativo alla valorizzazione della qualità
architettonica.
---------------
In base all’art. 4 del D.M. 10.05.1977 una volta individuate
le superfici abitabili ed il “costo unitario di costruzione”
pro tempore, deve farsi luogo all’individuazione dei
presupposti per l’applicazione delle maggiorazioni in misura
non superiore al 50% che la predetta normativa prevede in
caso di edifici che abbiano “caratteristiche tipologiche
superiori” a quelle considerate dalla legge n. 1179 del
01.11.1965.
In concreto, per l’identificazione degli edifici soggetti
agli incrementi percentuali di cui agli artt. 5, 6 e 7, si
deve tener conto:
- della superficie utile abitabile (Su);
- della superficie netta non residenziale di servizi e
accessori (Snr) e cioè ad esempio: a) cantinole, soffitte,
locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni,
centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle
residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni
di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi;
- delle caratteristiche specifiche.
Ciò premesso a norma dell’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10 i
“lastrici” ancorché “tecnologici” sono comunque assimilabili
alle logge ed alle terrazze, ma anche, se si considerano
comunque i relativi box e vani di contenimento, alle cabine
idriche, ed ai locali che contengono il motore
dell’ascensore.
Inoltre l’elencazione di cui all’art. 2, dato che
corrisponde allo stato delle tecnologie di oltre
trentacinque anni fa, ha un valore chiaramente
esemplificativo e non prescrittivo per cui di nessun rilievo
interpretativo ha il riferimento al termine “locali” molto
enfatizzato dalla società immobiliare odierna appellata.
Peraltro, come risulta dalle indicazioni istruttorie sulla
Dia del 13.12.2005, nel caso le terrazze sono collegate da
scale e sono accessibili e calpestabili. Come la comune
esperienza dimostra, anche la presenza dei macchinari
dell’ascensore, di riscaldamento, di condizionamento non ne
preclude in assoluto l’utilizzo per le altre parti, per cui
le relative superfici sono state esattamente computate ai
fini della Snr utile, ai fini della individuazione degli
incrementi percentuali.
Dalla superficie non residenziale devono invece essere
escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non
la “scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti
o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di
incendi” di cui al n. 2 dell’art. 7 del d.m. 1977 cit. che
qui comunque non risulta).
Di qui l’illegittimità del computo delle scale nell’ambito
delle percentuali di Snr utili ai fini degli incrementi
percentuali.
---------------
Ai sensi dell'art. 63, c. 6, l.reg. Lombardia n. 12/2005 "il
recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia
assicurata per ogni singola unità immobiliare l'altezza
media ponderale di metri 2,40, … calcolata dividendo il
volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri
1,50 per la superficie relativa".
Questo è il limite minimo del quale si deve tener conto, e
non quello del Regolamento in vigore al momento della
costruzione, come dimostra anche l’inciso della predetta
legge che consente modificazioni delle altezze di colmo e di
gronda e delle linee di pendenza delle falde "unicamente al
fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma
6" cioè un'altezza media ponderale di metri 2,40 (ed anche
invero di quelli di cui all'art. 64 primo comma, l.r.
12/2005).
Nel caso è dunque evidente che l’altezza di 3 mt. è ben
superiore all'altezza media di 2,40 che il medesimo
legislatore regionale ha ritenuto assicuri le condizioni
minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, la quale
costituisce ad un tempo l’altezza minima per rilasciare
l'abitabilità degli spazi dall'art. 63, c. 6, l.reg.
Lombardia n. 12/2005.
Di conseguenza l’altezza di 3 metri ben giustificava
l’attribuzione del relativo coefficiente di maggiorazione
(del costo di costruzione).
L’Amministrazione, appellante principale, premette una propria
autonoma ricostruzione delle disposizioni di cui gli artt.
44, 48 e 64 della L.R. Lombardia n. 12/2005 per cui il
“costo di costruzione” non costituirebbe un corrispettivo
per l'aumento del carico urbanistico derivante
dall'intervento edilizio, ma avrebbe una natura impositiva,
tanto da essere assimilabile alle prestazioni patrimoniali
imposte di cui all'articolo 23 della Costituzione, ed
essendo rapportato a quanto materialmente costruito, come
indice di capacità retributiva.
Per gli interventi di ristrutturazione la L.R. cit. prevede,
all'art. 44, 10º co., che gli “oneri di urbanizzazione”
siano riferiti agli interventi di nuova costruzione ridotti
della metà, mentre il “costo di costruzione” ex art. 48
della medesima legge, doveva essere fissato dalla Giunta
Regionale con riferimento ai costi massimi ammissibili per
l'edilizia agevolata (1° comma) ed in relazione ad una quota
variabile dal 5 al 20% a seconda delle caratteristiche delle
tipologie delle costruzioni e della loro destinazione
d'ubicazione (3º comma), al costo reale degli interventi
stessi, così come individuato nel progetto presentato, senza
però mai superare il valore determinato per le nuove
costruzioni. Il D.M. 10.05.1977 ancora oggi rimarrebbe
l'unica normativa di dettaglio sulla tecnica estimativa che
consentirebbe di rapportare al valore economico del
fabbricato la quota di contributo relativa al costo di
costruzione dello stesso.
In definitiva il contributo di costruzione nel sistema
lombardo dovrebbe essere calcolato applicando al costo reale
dell'intervento la percentuale relativa alla classe
derivante dall'applicazione della tabella del predetto D.M.
senza fare alcun riferimento né al carico urbanistico né
alla volumetria abitabile. Per il recupero dei sottotetti,
l'art. 64 della cit. L.R. n. 12 prevede al 7° co. che oltre
agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria si debba
corrispondere il costo di costruzione calcolato sulla
volumetria sulla “superficie lorda di pavimento” resa
abitativa secondo le tariffe provate vigenti in ciascun
Comune per le opere di nuova costruzione.
In conseguenza, con la prima rubrica, il Comune di Milano
lamenta che il Giudice di prime cure avrebbe erroneamente
affermato che il calcolo della quota del contributo di
costruzione avrebbe dovuto avere come parametro di
riferimento la “volumetria resa abitativa”, e non la
superficie complessiva così come previsto dall'articolo 2
del D.M. 15.05.1977. Il riferimento alla “volumetria
resa abitativa” avrebbe rilievo solamente per gli oneri di
urbanizzazione. Se non fosse così si finirebbe per
introdurre un criterio incompatibile con la ratio impositiva
di tale contributo perché non si valorizzerebbe l'incremento
patrimoniale determinato dalle opere, bensì l'incremento del
carico insediativo già valorizzato con gli oneri di
urbanizzazione.
L’assunto è fondato nei limiti e nei sensi che seguono.
Esattamente l’Amministrazione appellante ricorda, in linea
di principio, che la quota di contributo commisurata al
costo di costruzione costituisce una prestazione di natura
tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di
ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del
territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V 21.04.2006 n. 2258;
Cons. Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI
18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al
costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una
trasformazione edilizia che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di
vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si
verifica per il mutamento di destinazione o comunque per
ogni variazione anche di semplice uso che comporti un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV
14/10/2011 n. 5539).
Nello specifico però, il settimo comma, primo periodo,
dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12
prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero
di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del
contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati
sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa
abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun
comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di
urbanizzazione e del contributo riferito al costo di
costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da
un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le
opere di nuova costruzione.
In tal senso, il TAR ha ragione quanto ha escluso la
legittimità di un conteggio che tenga conto della
“superficie complessiva”, cioè la superficie utile più
quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977
n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale
della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è
esatto l’assunto per cui in materia di oneri di
urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve
farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale
individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit
dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli
oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono
essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla
superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha
intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare
derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48
della L.R. n. 12/2005.
La Società, nella memoria del 03.10.2013, esattamente ricorda
come tale individuazione è del tutto coerente sia con le
finalità generali di recupero di patrimonio edilizio ai fini
abitativi, sia con riferimento al fatto che non possano
computarsi tutte le superfici non residenziali che spesso
non appartengono nemmeno all’esecutore dell’intervento.
Al riguardo, al fine del calcolo del costo di costruzione
per gli interventi in questione deve dunque escludersi che
possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione
le superfici non destinate anche indirettamente ai fini
residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad
uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine,
deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle
cantine ed ecc. (ma al riguardo vedi anche infra).
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art.
64, co. 7, della detta L.R. implica che per la
determinazione del costo di costruzione per le nuove
costruzioni –sia pure con riferimento alle sole superfici
lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto
rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al D.M. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione
"calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di
pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate
vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova
costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48
ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei
recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato
utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p.
resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove
costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Solo in relazione a quest’ultimo limitato profilo il primo
motivo del Comune può, per tale parte, essere accolto.
---------------
Deve in primo
luogo escludersi l’attuale rilevanza della Tabella A della Delib. G.R. 1994/53844 nella fattispecie in esame, in quanto
l'articolo 16, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, che ha
sostituito l'articolo 6 della legge n. 10 del 1977 (nel
testo pro tempore in vigore di cui all'articolo 7, comma 2,
della legge n. 537 del 1993), e l'articolo 48, comma 2,
della legge regionale n. 12 del 2005, dispongono che il
costo di costruzione degli edifici residenziali, ai fini del
calcolo della relativa quota del contributo di costruzione,
sia determinato periodicamente dalle regioni, con
riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia
agevolata, come individuati dalle stesse regioni a norma
dell'articolo 4, primo comma, lettera g), della legge n. 457
del 1978, ma che -in caso di mancato aggiornamento da
parte delle regioni- il Comune potesse annualmente, ed
autonomamente procedere alla fissazione del costo di
costruzione, in ragione dell'intervenuta variazione dei
costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT).
Ciò posto, successivamente alla prima individuazione in Lire
482.300 al metro quadro, attuata con la deliberazione della
Giunta regionale della Regione Lombardia n. 53844 del 31.05.1994 (pubblicata sul B.U.R.L., 5° supplemento
straordinario del 24.06.1994), non vi è stato più alcun
intervento regionale in dichiarata considerazione della
prevalenza dell’autonomia locale concessa dalla
Costituzione. In tale direzione dunque del tutto
legittimamente il Comune di Milano, nell’ambito della sua
autonomia, ha fatto riferimento alla tabella allegata al
D.M. 10.05.1977.
Quindi, come visto, se ai fini dell’individuazione del
fattore principale del calcolo si doveva tener conto solo
della “superficie utile resa abitabile”, il ricordato rinvio
alle “tariffe vigenti” comporta comunque la necessità di
valorizzare in concreto la tipologia dell’immobile
computando quindi le percentuali di incremento di cui al
D.M. 10.05.1977 “Determinazione del costo di costruzione di
nuovi edifici” e ciò per la fondamentale ragione che le
superfici degli accessori e dei servizi costituiscono un
elemento indicativo ai fini della valorizzazione
dell’immobile.
La legge sul recupero dei sottotetti ai fini residenziali,
con il richiamo alle tariffe vigenti, implica che il costo a
mq. possa, e debba, essere maggiorato con le percentuali di
incremento connesse con la tipologia qualitativa
dell’immobile di cui al D.M. n. 10/1977.
Pertanto, ferma restando la “volumetria o la superficie
abitativa netta resa abitabile”, sebbene le superfici degli
accessori in questione non possano essere ricomprese in uno
dei fattori del calcolo, ciò non vuol dire che la loro
esistenza non incida, e rilevi sul piano concreto della
fruibilità e della qualità estetica ed abitativa degli
immobili. Per questo devono essere considerate ai fini della
individuazione della percentuale di maggiorazione del “costo
di costruzione” relativo alla valorizzazione della qualità
architettonica.
E’ inesatta al riguardo la richiesta subordinata della
società intesa ad una loro valorizzazione pro parte con la
“quota uffici”, dato che si tratta di spazi che, proprio in
quanto utilizzabili per impianti, sono esponenziali del
maggiore pregio architettonico dell’intero immobile, e che
quindi giustificano il relativo incremento.
In base all’art. 4 del D.M. 10.05.1977 una volta
individuate le superfici abitabili ed il “costo unitario di
costruzione” pro tempore, deve farsi luogo
all’individuazione dei presupposti per l’applicazione delle
maggiorazioni in misura non superiore al 50% che la predetta
normativa prevede in caso di edifici che abbiano
“caratteristiche tipologiche superiori” a quelle considerate
dalla legge n. 1179 del 01.11.1965.
In concreto, per l’identificazione degli edifici soggetti
agli incrementi percentuali di cui agli artt. 5, 6 e 7, si
deve tener conto:
- della superficie utile abitabile (Su);
- della superficie netta non residenziale di servizi e
accessori (Snr) e cioè ad esempio: a) cantinole, soffitte,
locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni,
centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle
residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni
di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi;
- delle caratteristiche specifiche.
Ciò premesso a norma dell’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n.
10 i “lastrici” ancorché “tecnologici” sono comunque
assimilabili alle logge ed alle terrazze, ma anche, se si
considerano comunque i relativi box e vani di contenimento,
alle cabine idriche, ed ai locali che contengono il motore
dell’ascensore.
Inoltre l’elencazione di cui all’art. 2, dato che
corrisponde allo stato delle tecnologie di oltre
trentacinque anni fa, ha un valore chiaramente
esemplificativo e non prescrittivo per cui di nessun rilievo
interpretativo ha il riferimento al termine “locali” molto
enfatizzato dalla società immobiliare odierna appellata.
Peraltro, come risulta dalle indicazioni istruttorie sulla
Dia del 13.12.2005, nel caso le terrazze sono collegate da
scale e sono accessibili e calpestabili. Come la comune
esperienza dimostra, anche la presenza dei macchinari
dell’ascensore, di riscaldamento, di condizionamento non ne
preclude in assoluto l’utilizzo per le altre parti, per cui
le relative superfici sono state esattamente computate ai
fini della Snr utile, ai fini della individuazione degli
incrementi percentuali.
Dalla superficie non residenziale devono invece essere
escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non
la “scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti
o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di
incendi” di cui al n. 2 dell’art. 7 del d.m. 1977 cit. che
qui comunque non risulta).
Di qui l’illegittimità del computo delle scale nell’ambito
delle percentuali di Snr utili ai fini degli incrementi
percentuali.
---------------
Infine per la
Società immobiliare il Comune avrebbe sbagliato anche nel
ritenere che l'edificio possedesse una “caratteristica
particolare” costruita dall'altezza libera di piano
superiore a 3 mt. a quella minima prescritta dalle norme
regolamentari ai sensi dell'articolo 7 D.M. 10.05.1977.
Il regolamento prescriverebbe infatti che gli edifici
debbano avere l'altezza minima interna superiore a 3 mt.,
un’altezza maggior per cui tale requisito non potrebbe
essere considerato una caratteristica particolare e quindi
non potrebbe giustificare l'applicazione di un più elevato
onere.
L’edificio in questione, costruito negli anni 50 del secolo
scorso presenterebbe un'altezza netta interna che “non
supera” quella prescritta dall'articolo 59 del Regolamento
d'igiene vigente all'epoca della sua costruzione per cui la
maggiorazione non poteva essere legittimamente approvata.
L’assunto non può essere condiviso.
Si deve infatti ricordare che ai sensi dell'art. 63, c. 6,
l.reg. Lombardia n. 12/2005 "il recupero abitativo dei
sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni
singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di metri
2,40, … calcolata dividendo il volume della parte di
sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la
superficie relativa".
Questo è il limite minimo del quale si deve tener conto, e
non quello del Regolamento in vigore al momento della
costruzione, come dimostra anche l’inciso della predetta
legge che consente modificazioni delle altezze di colmo e di
gronda e delle linee di pendenza delle falde "unicamente al
fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma
6" cioè un'altezza media ponderale di metri 2,40 (ed anche
invero di quelli di cui all'art. 64 primo comma, l.r.
12/2005).
Nel caso è dunque evidente che l’altezza di 3 mt. è ben
superiore all'altezza media di 2,40 che il medesimo
legislatore regionale ha ritenuto assicuri le condizioni
minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, la quale
costituisce ad un tempo l’altezza minima per rilasciare
l'abitabilità degli spazi dall'art. 63, c. 6, l.reg.
Lombardia n. 12/2005.
Di conseguenza l’altezza di 3 metri ben giustificava
l’attribuzione del relativo coefficiente di maggiorazione.
Il motivo va dunque respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2013 n. 6161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge
07.08.1990, n. 241 "Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi" le denuncie di inizio attività "non
costituiscono provvedimenti taciti".
Il legislatore ha fatto dunque proprio l’avviso
dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia
di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a
formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo
costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a
comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge".
---------------
L'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il
costo di costruzione deve essere agganciato non al tempo
della presentazione della denuncia di inizio attività, ma al
sorgere della giuridica possibilità di realizzare
legittimamente l’intervento e quindi al momento
dell’intervenuta efficacia della d.i.a. per decorso del
termine o intervenuto accertamento della conformità alla
disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le
opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva
possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde
evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel
caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione
intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è
dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici
deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di
calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta
denuncia.
---------------
Quando il privato ha parcellizzato l’intervento attraverso
uno stillicidio di molteplici DIA (nel caso ben cinque)
tutte concernenti i medesimi spazi, è evidente che il
contributo cui dovrà soggiacere non potrà che essere quello
corrispondente all’assetto finale dell’immobile, onde
evitare che una sapiente regia nella segmentazione dei
lavori finisca per risolversi in un abuso del diritto in
danno dell’Amministrazione.
Come la
Sezione ha più volte avuto modo di ricordare, ai sensi del
comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241
"Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi" (introdotto
con l'articolo 6, co. 1°, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138) le denuncie di inizio attività "non
costituiscono provvedimenti taciti". Il legislatore ha
fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia di inizio attività
non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e
non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma
costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione
di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla
legge".
In linea generale, l'efficacia abilitativa alla
realizzazione dell'intervento edilizio non era conseguente
all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di
realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere
agganciato non al tempo della presentazione della denuncia
di inizio attività, ma al sorgere della giuridica
possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e
quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a.
per decorso del termine o intervenuto accertamento della
conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le
opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva
possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde
evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel
caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione
intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è
dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici
deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di
calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta
denuncia (cfr. Cons. Stato Sez. IV 13.05.2010 n. 2922).
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo
momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la
vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi
ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi
esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di
calcolo (come nel caso di specie), o anche il sopraggiungere
di una nuova disciplina urbanistica).
In conseguenza del principio che precede, quando poi, come
nel caso particolare, il privato abbia parcellizzato
l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA
(nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è
evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà
che essere quello corrispondente all’assetto finale
dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella
segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso
del diritto in danno dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2013 n. 6161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di opere di urbanizzazione <a scomputo> è
prevista dall’art. 16, comma 2, del DPR n. 380 del 2001, a
mente del quale “a scomputo totale o parziale della quota
dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto
dell’art. 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e
successive modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle
opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza maggioritaria interpreta il dato normativo
nel senso che la possibilità di realizzazione diretta delle
opere di urbanizzazione, a scomputo dei contributi, è sempre
condizionata al preventivo assenso comunale, avendo
l’Amministrazione anche il potere di indicare il tipo e
l’entità delle opere, le modalità di esecuzione e le
relative garanzie.
... per l'accertamento delle maggior somme
indebitamente corrisposte al Comune di Calcinaia a titolo di
oneri di urbanizzazione, con la conseguente condanna del
Comune di Calcinaia alla restituzione alla ricorrente della
somma complessiva di € 35.784,25 oltre interessi dal dì del
dovuto al soddisfo, oppure quella diversa che risulterà di
giustizia, sempre oltre interessi dal dì del dovuto al
soddisfo.
...
Il Collegio ritiene che il ricorso sia privo di fondamento, sulla base
delle considerazioni che seguono.
La realizzazione di opere di urbanizzazione <a scomputo>
è prevista dall’art. 16, comma 2, del DPR n. 380 del 2001, a
mente del quale “a scomputo totale o parziale della quota
dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto
dell’art. 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109,
e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle
opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La
giurisprudenza maggioritaria interpreta il dato normativo
nel senso che la possibilità di realizzazione diretta delle
opere di urbanizzazione, a scomputo dei contributi, è sempre
condizionata al preventivo assenso comunale, avendo
l’Amministrazione anche il potere di indicare il tipo e
l’entità delle opere, le modalità di esecuzione e le
relative garanzie.
A tale impostazione si è ispirata anche
la Sezione (sentenze 14.09.2004, n. 3782 e 01.07.2010, n.
2252), con orientamento che il Collegio condivide e
ribadisce.
Nel caso di specie non vi è stata consenso del
Comune di Calcinaia in ordine alla realizzazione delle opere
a scomputo di cui alla domanda giudiziaria, il che preclude
quindi la possibilità di porre a carico dell’Amministrazione
il relativo onere economico. La pretesa di parte ricorrente
(che chiede il rimborso di opere realizzate senza il
consenso del Comune) contrasta peraltro con la condotta
seguita nella medesima vicenda in precedenti ipotesi, nelle
quali la società ricorrente aveva previamente ottenuto
l’assenso dell’Amministrazione alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione (con riferimento al marciapiede e
alla fognatura)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.12.2013 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
necessario distinguere due diverse evenienze:
a) se si è in presenza di opere realizzate in eccedenza o
difformità rispetto alla d.i.a. presentata, le stesse
possono essere fatte oggetto in ogni tempo, da parte
dell’Amministrazione, di ordine si sospensione e di
ripristino;
b) se invece le opere realizzate sono conformi alla denuncia
presentata e sono state realizzate senza che
l’Amministrazione si sia attivata nei termini per vietare la
prosecuzione dell’attività e disporre la rimozione degli
effetti, allora l’emanazione dei provvedimenti di rimessa in
pristino deve essere necessariamente preceduta dall’adozione
di un atto di autotutela, nel rispetto della garanzie
sostanziali e procedimentali che assistono lo stesso,
finalizzato alla eliminazione del titolo formatosi
implicitamente con il decorso del termine di legge dalla
presentazione della d.i.a. senza interventi inibitori.
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di
Monteriggioni Ordinanza n. 116 del 16.12.2010 notificata il
12.1.2011 con il quale è stata ordinata la demolizione delle
seguenti opere realizzate nella superficie di terreno sita
in Comune di Monteriggioni ed identificata al C.T. di detto
comune al foglio n. 89 par.lle 1451, 1440,1457: Manufatto
costituito da una gettata di cemento (o platea di cemento)
delle dimensioni di m. 10 x 3 sulla quale è infissa e si
eleva una struttura in ferro in forma di L che sorregge, ad
una altezza dal suolo variabile dai m. 1,80 ai m. 2,00 una
copertura in lamiera e plastica ondulina di pari dimensioni;
...
Con il secondo e terzo mezzo, che possono essere fatti
oggetto di congiunta trattazione, parte ricorrente censura
l’operato dell’Amministrazione, evidenziando che questa non
poteva emettere l’ordinanza di demolizione, in presenza di
titoli edilizi acquisiti con la presentazione delle varie
d.i.a., senza prima procedere all’annullamento in autotutela
dei titoli assentiti.
Le censure sono fondate.
Come la Sezione ha avuto più volte modo di evidenziare, è
necessario distinguere due diverse evenienze:
a) se si è in
presenza di opere realizzate in eccedenza o difformità
rispetto alla d.i.a. presentata, le stesse possono essere
fatte oggetto in ogni tempo, da parte dell’Amministrazione,
di ordine si sospensione e di ripristino (in termini la
sentenza della Sezione n. 806 del 2013, punto 16 della
motivazione);
b) se invece le opere realizzate sono conformi
alla denuncia presentata e sono state realizzate senza che
l’Amministrazione si sia attivata nei termini per vietare la
prosecuzione dell’attività e disporre la rimozione degli
effetti, allora l’emanazione dei provvedimenti di rimessa in
pristino (come quello gravato) deve essere necessariamente
preceduta dall’adozione di un atto di autotutela, nel
rispetto della garanzie sostanziali e procedimentali che
assistono lo stesso, finalizzato alla eliminazione del
titolo formatosi implicitamente con il decorso del termine
di legge dalla presentazione della d.i.a. senza interventi
inibitori (in termini le sentenze della Sezione n. 430 del
2009 e n. 1636 del 2013).
Nella specie l’Amministrazione non
ha seguito la prima strada: infatti l’ordinanza gravata non
motiva in alcun modo in punto di difformità tra opere
denunziate e opere realizzate, cioè circa la difformità
della platea di cemento realizzata rispetto alla soletta di
cemento di cui alla d.i.a. del 2007 e non fornisce quindi la
necessaria dimostrazione che gli interventi edilizi
realizzati risultino diversi da quelli di cui alle d.i.a.
presentate.
Né l’Amministrazione segue la seconda strada,
perché l’ordine di demolizione qui gravato non risulta
preceduto dalla procedura di autotutela volta a superare i
titoli edilizi formatosi a fronte delle d.i.a. presentate e
non inibite dall’Amministrazione nei termini di legge
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.12.2013 n. 1717 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Niente multe con il cartello fantasma.
Il cartello di divieto di sosta è solo il mezzo con cui si
porta a conoscenza degli utenti un provvedimento in materia
di traffico ma in caso di ricorso spetta all'amministrazione
comunale dimostrare la legittimità dell'imposizione sottesa.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez.
VI civile, con l'ordinanza
15.11.2013 n. 25771.
Un automobilista sanzionato dai carabinieri per divieto di
sosta ha proposto ricorso con successo al giudice di pace
evidenziando la mancanza sul retro del segnale del numero
dell'ordinanza comunale. Contro questa determinazione,
confermata in sede d'appello, il ministero dell'interno ha
proposto ricorso in cassazione.
A parere degli ermellini il tribunale avrebbe dovuto
ritenere sussistente la violazione stradale solo se fosse
stata fornita la prova della legittimità dell'apposizione
del cartello. In buona sostanza non basta dire che manca il
timbro per annullare la multa. Occorre dimostrare che manca
l'ordinanza oppure è viziata (articolo ItaliaOggi
Sette del 02.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il diniego del Soprintendente
all'installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto
adducendo la motivazione "in quanto gli
elementi da installare risulterebbero, in ordine alla
posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al
trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti
rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da
alterare in modo negativo la visione del contesto
paesaggistico circostante...".
Invero, detta valutazione, pur espressione di un potere di
discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e
generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio
riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta.
Si è già sostenuto che “attualmente la presenza di pannelli
sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la
morfologia della copertura, non deve più essere percepita
soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come
un'evoluzione dello stile costruttivo accettata
dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare
l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi
dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto
alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la
semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione
pubblici".
... per l'annullamento della condizione imposta dalla
Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per
le Province di Verona, Rovigo e Vicenza ed applicata dal
Comune di Garda all'autorizzazione paesaggistica rilasciata
ai ricorrenti in data 02/10/2013, prot. n. 14.509/2013, per
l'esecuzione dei lavori di demolizione e ricostruzione della
loro abitazione, con ampliamento ai sensi della L.R.
14/2009, contenente il divieto di installazione dei pannelli
fotovoltaici sulla copertura dell'edificio e del parere
negativo espresso dalla medesima Soprintendenza con nota in
data 24/09/2013, prot. n. 26608, limitatamente
all'imposizione della descritta condizione.
...
-
Ritenuto che la fattispecie in esame sia riconducibile ad
analoghe controversie, nelle quali è stato ugualmente
censurato il parere sfavorevole espresso dalla
Soprintendenza relativamente all’installazione di impianti
fotovoltaici, parere espresso con termini e motivazione del
tutto identici a quelli qui contestati (“in quanto gli
elementi da installare risulterebbero, in ordine alla
posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al
trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti
rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da
alterare in modo negativo la visione del contesto
paesaggistico circostante...”);
-
che, conformemente all’orientamento già manifestato a tale
riguardo, il ricorso è meritevole di accoglimento, in quanto
la prescrizione contestata risulta viziata da eccesso di
potere e difetto di motivazione;
-
che, invero, detta valutazione, pur espressione di un potere
di discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e
generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio
riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta;
-
che, infatti, nel provvedimento, non solo non vi è nessun
riferimento alla metratura o al posizionamento
dell’impianto, ma ancora risulta del tutto assente
l’individuazione e la menzione di un elemento del paesaggio
e dell’ambiente circostante che, in quanto tale,
risulterebbe deturpato, o quanto meno pregiudicato, dalla
realizzazione dell’impianto di cui si controverte;
-
che quindi non è ammissibile una valutazione astratta e
generica non supportata da un’effettiva dimostrazione
dell’incompatibilità paesaggistica dell’impianto;
-
che quindi, come già osservato dal Tribunale, cfr. sentenza
n. 1104/2013, “Analogamente si è sostenuto che “attualmente
la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur
innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non
deve più essere percepita soltanto come un fattore di
disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile
costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità
collettiva). Per negare l'installazione di un impianto
fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta
incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del
paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità
dei pannelli da punti di osservazione pubblici (in questo
senso anche TAR Lombardia Brescia Sez. I, Sent.,
04.10.2010, n. 3726 e sempre TAR Brescia Sez. I 15.04.2009 n. 859)”;
- per le considerazioni così svolte, il ricorso va accolto e
per l’effetto va annullata la condizione imposta dalla
Soprintendenza di Verona all’autorizzazione paesaggistica e
contenente il divieto alla realizzazione dell’impianto
fotovoltaico e/o solare (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.11.2013 n. 1294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso di vincolo
sopravvenuto, “l’accertamento della Soprintendenza deve
essere concreto e approfondito e nelle motivazioni dell’atto
devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali
la conservazione dell’intervento (conseguente al rilascio
della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati
(nel caso di specie la sostanziale valutazione di automatica
non sanabilità del manufatto perché contrastante con le
prescrizioni del vincolo priva addirittura della descrizione
delle concrete caratteristiche dell’edificio, non soddisfa
certamente i requisiti motivazionali necessari per il
diniego di sanatoria di fabbricati edificati prima
dell’apposizione del vincolo essendo per contro richiesta
una motivazione più puntuale nella quale si dia conto della
reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di
sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali
ricadono e delle ragioni di incompatibilità dell’opera con
il contesto ambientale vincolato)”.
---------------
Analogo orientamento era vigente nel momento in cui il
provvedimento impugnato veniva emanato e, ciò, considerando
come si fosse già previsto (si veda TAR Sardegna,
15.03.1995, n. 348) che “Poichè la l. 28.02.1985 n. 47 e la
l.reg. Sardegna 11.10.1985 n. 23, nel prevedere la sanatoria
delle opere abusive realizzate entro il 01.10.1983, hanno
anche introdotto una serie di limitazioni alla stessa al
fine di non consentire che l'edificazione in determinate
aree contrastasse con rilevanti o prevalenti interessi
pubblici, l'amministrazione comunale che intenda rigettare
una domanda di sanatoria ha l'obbligo di indicare in
motivazione la norma o il principio che rende insanabile
l'opera abusiva, vertendo in materia di stretta
interpretazione, in quanto i casi di esclusione dalla
sanatoria sono stati previsti in maniera espressa e
tassativa al fine di rendere quanto più possibile esteso il
ricorso alla sanatoria e quanto più chiara l'individuazione
di assoluta in edificabilità”.
... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Venezia di diniego di
sanatoria ex L. n. 47/85 del 02/11/1995 (prot. nr.
54289/18940/00);
- del parere presupposto e contrario della Commissione per
la Salvaguardia di Venezia ‘1 Agosto (prot. nr.
54289/18940/00).
...
Il ricorso può essere accolto, risultando fondati il primo e
il terzo motivo.
E’ necessario preliminarmente evidenziare come il Comune
di Venezia, nel recepire il parere negativo della
Commissione per la Salvaguardia, abbia fondato il
provvedimento di diniego sulla base della sola
considerazione che l’intervento costituirebbe “Eccessivo
stravolgimento edilizio ed impatto ambientale”.
E’ del tutto evidente che la motivazione sopra citata
non consente di ripercorrere le reali ragioni di
incompatibilità con l’ambiente circostante e, ciò, peraltro
considerando che, nel caso ora sottoposto all’esame di
questo Collegio, si sia in presenza della chiusura di un
terrazzino mediante la realizzazione di una struttura in
vetro.
Dalle fotografie allegate è possibile condividere le
argomentazioni di parte ricorrente e ritenere che la
struttura di cui si tratta sia del tutto conforme alle
strutture esistenti, senza che, in relazione alle stesse,
sussista alcuna discontinuità.
Si consideri altresì come, sempre dal contenuto del
provvedimento impugnato, non sia possibile evincere in
relazione a quali aspetti, e a quali circostanze, detto
giudizio di incompatibilità sia stato pronunciato; se
riferito ad esempio ai materiali o a qualche elemento della
struttura o, ancora, alla stessa opera nel suo complesso.
Detta assenza di elementi risulta stridente se
rapportata alla terminologia usata dalla Commissione di
Salvaguardia e, ciò, nella parte in cui ha sancito che la
costruzione della veranda abbia determinato uno
stravolgimento edilizio ed un impatto ambientale, in quanto
tale definito “eccessivo”.
Sul punto è possibile applicare quanto disposto da un
costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda
TAR Campania, Salerno sez. I 20.06.2012 n. 1236) nella
parte in cui ha sancito che, in caso di vincolo sopravvenuto
-circostanza quest’ultima pacificamente riconosciuta dalle
parti in causa-, “l’accertamento della Soprintendenza deve
essere concreto e approfondito e nelle motivazioni dell’atto
devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali
la conservazione dell’intervento (conseguente al rilascio
della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati
(nel caso di specie la sostanziale valutazione di automatica
non sanabilità del manufatto perché contrastante con le
prescrizioni del vincolo priva addirittura della descrizione
delle concrete caratteristiche dell’edificio, non soddisfa
certamente i requisiti motivazionali necessari per il
diniego di sanatoria di fabbricati edificati prima
dell’apposizione del vincolo essendo per contro richiesta
una motivazione più puntuale nella quale si dia conto della
reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di
sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali
ricadono e delle ragioni di incompatibilità dell’opera con
il contesto ambientale vincolato)”.
Analogo orientamento era vigente nel momento in cui il
provvedimento impugnato veniva emanato e, ciò, considerando
come si fosse già previsto (si veda TAR Sardegna,
15.03.1995, n. 348) che “Poichè la l. 28.02.1985 n. 47
e la l.reg. Sardegna 11.10.1985 n. 23, nel prevedere
la sanatoria delle opere abusive realizzate entro il 01.10.1983, hanno anche introdotto una serie di
limitazioni alla stessa al fine di non consentire che
l'edificazione in determinate aree contrastasse con
rilevanti o prevalenti interessi pubblici, l'amministrazione
comunale che intenda rigettare una domanda di sanatoria ha
l'obbligo di indicare in motivazione la norma o il principio
che rende insanabile l'opera abusiva, vertendo in materia di
stretta interpretazione, in quanto i casi di esclusione
dalla sanatoria sono stati previsti in maniera espressa e
tassativa al fine di rendere quanto più possibile esteso il
ricorso alla sanatoria e quanto più chiara l'individuazione
di assoluta in edificabilità”.
Ne consegue che, in considerazione di quanto sopra
esplicitato, il ricorso possa essere accolto con
assorbimento delle ulteriori deduzioni poste in essere dalla
parte ricorrente e con conseguente annullamento dei
provvedimenti così impugnati
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1266 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs.
n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura
obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione
non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma
capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario.
---------------
Con riferimento al presunto difetto di motivazione del
parere della Soprintendenza va ricordato, per un costante
orientamento giurisprudenziale, come l’Amministrazione non
possa limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi
nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
Con riferimento a dette eccezioni in
primo luogo va confermato la natura obbligatoria e
vincolante del parere di cui all’art. 146 sopra citato e,
ciò, in ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (TAR Umbria Perugia Sez. I, 16.01.2013,
n. 11) che ha sancito che “il parere della Soprintendenza
per i Beni Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art.
146 D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura
obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione
non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma
capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario...”
Va, inoltre, rilevato come nel concreto siano rispettati
anche i termini entro i quali il parere doveva essere
emanato e, ciò, considerando che i termini sia di cui al
comma 5 che al comma 8 decorrono dalla data di ricezione
degli atti e non dalla data di deposito dell’istanza presso
l’ufficio regionale competente come sostenuto dalla parte
ricorrente.
---------------
Con
riferimento al presunto difetto di motivazione del parere
della Soprintendenza va ricordato, per un costante
orientamento giurisprudenziale (TAR Campania Salerno Sez. II, 01.08.2012, n. 1591 e Cons. Stato Sez. VI Sent., 25.02.2008, n. 653), come l’Amministrazione non possa
limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi
nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei provvedimenti
impugnati consente di rilevare che... ”l’intervento proposto
…in un’area di eccezionale bellezza e di grande visibilità,
qualora realizzato comporterebbe un’alterazione sostanziale
dell’ambiente e inciderebbe negativamente sull’equilibrio
del contesto sottoposto a tutela paesaggistica..”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che… ”negli
ultimi anni si è avuta una trasformazione intensiva dei
terreni rimboschiti della Valpolicella in vigneti portando
ad un impoverimento del paesaggio locale e privandolo viepiù
di quella variegazione evidenziata dal decreto di tutela:
risulta pertanto essenziale la salvaguardia e il recupero di
tali aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura della
motivazione contenuta nei due atti sopra citati, lungi dal
costituire l’applicazione di formule apodittiche, ha a
riferimento l’area di cui si tratta, esprimendo una
valutazione che, seppur sintetica, consente di ripercorrere
l’iter logico seguito e a fondamento dei provvedimenti
impugnati
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.08.2013 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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