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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2014

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aggiornamento al 30.01.2014

aggiornamento al 21.01.2014

aggiornamento al 15.01.2014

aggiornamento al 13.01.2014

aggiornamento al 07.01.2014

aggiornamento al 02.01.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.01.2014

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"Tira brutta aria" anche per i Segretari Comunali ...

SEGRETARI COMUNALI: L’Autorità Nazionale AntiCorruzione approva la rimozione del Segretario Comunale di Rovato (BS). Il Sindaco: “ORA CHI CI HA DIFFAMATO NE DOVRA’ RISPONDERE (17.12.2013 - link a www.leganordrovato.org).

SEGRETARI COMUNALI: Rovato, «Caro Segretario Lei è licenziato…» (15.11.2013 - link a www.quibrescia.it).

SEGRETARI COMUNALI: Lodi, il sindaco Uggetti insiste: "I segretari comunali? Uno spreco" (10.11.2013 - link a www.ilgiorno.it).

UTILITA'

VARIChe differenza c’è tra una Legge, un Decreto, un Decreto Legislativo e un'Ordinanza? Cosa accade in caso di conflitto? Lo Speciale di BibLus-net.
In Italia molto spesso accade che alcune questioni vengano trattate da diversi provvedimenti normativi (leggi, decreti legge, decreti legislativi, decreti ministeriali, circolari, etc.) che si susseguono spesso in maniera caotica.
Ingegneri, architetti, geometri e imprese, ma anche le stesse P.A., sono costretti a districarsi tra numerosi provvedimenti di varia natura, nonostante i frequenti tentativi del Legislatore di razionalizzare e coordinare tutte le disposizioni in un Testo Unico (es. T.U. sull’Edilizia, T.U. sulla Sicurezza, T.U. sui Beni Culturali, etc.).
Tutti i provvedimenti normativi hanno un preciso ordine gerarchico, la cui conoscenza può semplificare la vita professionale di tutti i tecnici.
In questo speciale cerchiamo di fare chiarezza sui diversi provvedimenti normativi, chiarendo per ciascuno di essi, chi può emetterli, quando possono essere emessi, la natura vincolante e numerosi altri aspetti, come ad esempio il conflitto tra 2 provvedimenti.
In appendice, un utile glossario e il testo integrale della Costituzione della Repubblica italiana (23.01.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROMacchine in edilizia, come usarle correttamente al fine di prevenire gli infortuni sui cantieri. Il manuale completo Inail-CPT di Torino.
Utilizzare le macchine in edilizia in maniera corretta è un requisito fondamentale per la sicurezza sui cantieri.
In questo articolo proponiamo un’interessante pubblicazione a cura di Inail e CPT di Torino rivolta agli utilizzatori delle macchine e agli addetti alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (datori di lavoro, dirigenti, preposti per la sicurezza, RSPP e ASPP).
Il documento contiene oltre 60 rilievi di macchine usate in edilizia, con apposite schede contenenti i dati principali, corredate da foto e relativo libretto di istruzioni d’uso, utile per conoscerne le specifiche peculiarità.
La prima parte del manuale, di carattere più generale, è costituita da 3 capitoli riguardanti: gli obblighi normativi previsti, le caratteristiche di sicurezza che le macchine hanno e l’impianto elettrico di cui sono dotate.
Nella seconda parte, ci sono le schede relative alle macchine raggruppate in 4 categorie:
apparecchi di sollevamento
macchine semoventi
macchine trasportabili
utensili
Per ogni attrezzatura sono forniti la descrizione, gli elementi costituenti, i dispositivi di sicurezza, i dispositivi di comando e di controllo, i fattori di rischio, le istruzioni per l’uso e i riferimenti normativi (23.01.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAProtezione dai fulmini, la guida completa per la valutazione dei rischi con esempi pratici.
I fulmini sono originati da enormi differenze di potenziale che si generano all’interno delle nubi temporalesche, denominate cumulonembi. La differenza di potenziale che si viene a creare è causata dall’accumulo di cariche tra le diverse zone della nube. Quando la differenza di potenziale arriva a milioni di Volt, si genera una gigantesca scarica elettrica, il fulmine appunto, che riequilibra il sistema.
I fulmini che si scaricano al suolo costituiscono una piccola percentuale della totalità fulmini (circa il 10%), ma sono quelli che hanno il maggiore impatto sull’incolumità delle persone e delle strutture.
La valutazione nei luoghi di lavoro del rischio di fulminazione da scariche atmosferiche, come richiesto dal D.Lgs. 81/2008, deve essere eseguita con la norma tecnica CEI EN 62305-2, in vigore dal primo marzo 2013.
In questo articolo proponiamo un’interessante pubblicazione dell’Inail, intitolata “Protezione contro i fulmini”, che illustra le procedure per una corretta valutazione del rischio e l’individuazione di appropriate misure di protezione da adottare.
La guida risulta utile in generale a tutti i tecnici per approfondire le proprie conoscenze in materia, ma soprattutto a coloro che si occupano di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Essa è così strutturata:
normativa per gli impianti di protezione contro i fulmini
metodologia per la valutazione dei rischi
definizione dei termini, dei simboli e delle abbreviazioni
gestione del rischio
impianti di protezione contro i fulmini
esempio concreto di valutazione del rischio (23.01.2014 - link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Al R.U.P. non spetta l'incentivo se l'attività di progettazione è data all'esterno dell'ente.
Il diritto ad ottenere il compenso incentivante di cui all’art. 92 D.lgs. n. 163/2006 è ancorato alla circostanza che la redazione dell’atto di progettazione sia avvenuta all’interno dell’ente.
Qualora sia avvenuta all’esterno, essa non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente, né, tantomeno, in capo al responsabile unico del procedimento.

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Il Comune intende procedere alla modifica del regolamento nella parte relativa alle modalità di erogazione del fondo incentivante della progettazione interna di cui agli artt. 90 e ss. Del D.lgs. n. 163/2006 nel caso in cui la progettazione venga affidata all’esterno, non essendo tale parte del regolamento sufficientemente chiara.
In particolare, l’Ente riconoscerebbe al solo r.u.p. una percentuale del fondo in parola variabile dal 15 al 25 per cento, in relazione alla complessità dell’opera, dando facoltà al medesimo di riconoscere ad eventuali collaboratori (tecnici o amministrativi) una percentuale fino al 5% da prelevarsi sulla quota già destinata al r.u.p..
Si chiede se tale modifica del regolamento sia in linea con le norme e la giurisprudenza in materia.
...
Nella specie, la richiesta di parere attiene alle spese per il personale sotto il determinato profilo degli incentivi per le progettazioni, in relazione al quale la Sezione ha già dato indicazioni di carattere generale, che pare opportuno qui di seguito richiamare.
Per la ripartizione degli incentivi alla progettazione spettanti ai dipendenti delle stazioni appaltanti, l’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006 dispone che una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione “è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché' tra i loro collaboratori”.
Il fondo incentivante, dunque, è ripartito tra i vari aventi diritto secondo le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento adottato dall'amministrazione. Le modalità di ripartizione del fondo, pertanto, oltre ad attenere alle scelte discrezionali dell’amministrazione, ovviamente nei limiti tracciati dal dettato legislativo, devono essere oggetto di contrattazione collettiva e solo successivamente confluiscono nel regolamento.
La richiesta di parere pone lo specifico quesito se sia possibile corrispondere l’incentivo ivi disciplinato al responsabile del procedimento, e, quindi, ai vari collaboratori, in caso in cui la progettazione venga affidata all’esterno.
Come ricordato, la Sezione si è già pronunciata sulla questione con specifico riguardo all’attività di pianificazione (art. 92, comma 6), esprimendo principi che possono valere anche per l’attività di progettazione (art. 92, comma 5) (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290).
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente.
Con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche.
Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione.
In sostanza,
qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 19.12.2013 n. 434).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO - TRIBUTI: G.U. 29.01.2014 n. 23, suppl. ord n. 9/L, "Testo del decreto-legge 30.11.2013, n. 133, coordinato con la legge di conversione 29.01.2014, n. 5, recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia»".

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 28.01.2014, "Determinazione della distanza dai luoghi sensibili per la nuova collocazione di apparecchi per il gioco d’azzardo lecito (ai sensi dell’articolo 5, comma 1 della l.r. 21.10.2013, n. 8 “Norme per la prevenzione e il  trattamento del gioco d’azzardo patologico”)" (deliberazione G.R. 24.01.2014 n. 1274).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2014, "Modalità di applicazione in Regione Lombardia del decreto ministeriale 29.02.2012 “Misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione del cancro colorato causato da Ceratocystis fimbriata”" (decreto D.U.O. 22.01.2014 n. 330).

INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 27.01.2014 n. 21 "Definizioni e ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di debito" (D.M. 24.01.2014).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 24.01.2014 n. 19 "Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)" (D.P.C.M. 05.12.2013 n. 159).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21 gennaio 2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.12.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 20.01.2014 n. 5).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2014, "Modifica del d.d.s. 06.12.2013, n. 11674. Proroga dei termini di adozione della gestione amministrativa e tecnica in modalità informatizzata della procedura di autorizzazione unica (AU) per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili di cui al punto 3.5 della d.g.r. 3298/2012"  (decreto D.S. 17.01.2014 n. 215).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 23.01.2014 n. 18, suppl. ord. n. 8, "Criteri ambientali minimi per l’acquisto di lampade a scarica ad alta intensità e moduli led per illuminazione pubblica, per l’acquisto di apparecchi di illuminazione per illuminazione pubblica e per l’affidamento del servizio di progettazione di impianti di illuminazione pubblica - aggiornamento 2013" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 23.12.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aggiornamento delle disposizioni relative all’esercizio, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici (ANCE Bergamo, circolare 24.01.2014 n. 28).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di organo competente ad adottare il piano triennale di prevenzione della corruzione negli enti locali (Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, delibera 22.01.2014 n. 12/2014).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: competenze professionali - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 21 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 16.01.2014 n. 5/2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Legge 09.08.2013, n. 98 - Misure per la semplificazione amministrativa. Indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo (Prefettura di Avellino, nota 15.01.2014 n. 672 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Informativa sull'adozione del piano triennale di prevenzione della corruzione (ANCI, gennaio 2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: A. Meale, Accordo procedimentale e atto negoziale paritetico: un problema di giurisdizione (tratto da www.ipsoa.it - Urbanistica e appalti n. 11/2013).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, I modi di acquisto della proprietà a titolo originario: 1) Usucapione; 2) Occupazione; 3) Invenzione; 4) Accessione; 5) Unione e Commistione; 6) Specificazione (22.01.2014 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, L’Accessione (22.01.2014 - tratto da http://renatodisa.com).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, La risoluzione (25.03.2013 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Il possesso, l’usucapione e le azioni a tutela (18.02.2013 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, L’usucapione (18.02.2013 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Il possesso (18.02.2013 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le azioni a difesa della proprietà – rivendicazione – negatoria – regolamento di confini – apposizione dei termini (13.09.2012 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Il diritto di superficie (29.05.2012 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, La comunione (23.08.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, L'usufrutto, l'uso e l'abitazione (16.06.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le servitù prediali (22.04.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le Luci e Vedute (24.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss., c.c. (03.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. D'Isa, Le immissioni (01.01.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

QUESITI & PARERI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Personale degli enti locali. Incentivo di cui all'art. 11 della l.r. 14/2002.
Gli incentivi di cui all'art. 11 della l.r. 14/2002 non possono essere riconosciuti al RUP nominato con incarico esterno di prestazione occasionale, anche se dipendente di altra amministrazione, in quanto la norma fa esclusivo riferimento ai dipendenti, cioè personale 'in servizio' presso l'ente procedente.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità, o meno, di liquidare a dipendente di altra amministrazione, incaricato temporaneamente delle funzioni di RUP, l'incentivo previsto dall'art. 11 della l.r. 14/2002.
Com'è noto, il comma 1 della norma citata stabilisce che una somma non superiore all'1 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'art. 8, comma 6, della medesima legge, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra quanti, tecnici e amministrativi, hanno collaborato alla realizzazione dell'opera.
La disposizione precisa inoltre che la percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1 per cento, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione
[1], da ripartirsi esclusivamente tra i dipendenti, e le relative modalità di erogazione sono stabilite dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
Il successivo comma 2 dell'articolo in esame specifica altresì che le quote parti delle somme corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai dipendenti, in quanto affidate a personale esterno, costituiscono economie.
La riportata norma prevede, in sostanza, che una somma, quantificata in relazione all'entità dell'opera o del lavoro da eseguire (quale risulta dall'importo 'posto a base di gara'), sia ripartita tra determinati soggetti, dipendenti della stazione appaltante che, con la loro attività professionale, consentono la concreta realizzazione della specifica opera o lavoro.
L'art. 5, comma 8, della stessa legge regionale n. 14 del 2002, dispone che, qualora le professionalità interne siano insufficienti in rapporto ai lavori programmati, l'amministrazione può nominare responsabile unico del procedimento un professionista esterno ovvero un dipendente di altra amministrazione.
Premesso un tanto, si osserva, al di là del chiaro tenore della norma che fa riferimento esclusivamente ai 'dipendenti' dell'ente, che la Corte dei conti
[2] ha rimarcato, tra le condizioni che deve rispettare il regolamento interno per l'attribuzione dell'incentivo in esame, la possibilità di procedere all'erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla previsione legislativa, in maniera conforme alle responsabilità attribuite. Infatti, per espressa previsione, sono devolute in economia le quote corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti dell'amministrazione, ma affidate a personale esterno all'organico dell'ente.
Dalla documentazione trasmessa dall'Ente istante, emerge che il dipendente di altro Comune ha svolto le funzioni di Responsabile Unico del Procedimento dei lavori pubblici a seguito dell'affidamento di un incarico di prestazione autonoma e occasionale, previa corresponsione di un determinato compenso, concordato tra le parti.
Si è precisato, a tal proposito, che la remunerazione per le prestazioni professionali rese ad un ente pubblico a titolo occasionale (anche nell'ipotesi in cui siano rese da 'prestatore' a sua volta dipendente di altra P.A.) non può rientrare nel compenso per la progettazione interna, in quanto tale incentivo è esplicitamente previsto per le sole attività rese dal personale 'in servizio' presso l'Ente pubblico procedente
[3].
---------------
[1] Testo così modificato dall'art. 4, comma 3, della l.r. 23/2013 (Legge finanziaria 2014).
[2] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 72/2013/PAR.
[3] Cfr. QUESITO-2008-001-2459C, consultabile in: www.venetoappalti.it/normativa- Quesiti Osservatorio
(29.01.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Compatibilità tra la carica di presidente e l'incarico di direttore generale o dirigente di società partecipata pubblica.
Secondo la CIVIT, affinché si possa configurare l'incompatibilità tra l'incarico dirigenziale in un ente di diritto privato in controllo pubblico e l'assunzione della carica di presidente nel medesimo ente, ai sensi dell'articolo 12, comma 1, del d.lgs. n. 39/2013, il generico riferimento al 'presidente' deve essere integrato con la previsione della titolarità di 'deleghe gestionali dirette' (ai sensi della lettera e) dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 39/2013), come può essere desunto dall'abbinamento, nella previsione normativa, della carica di presidente con quella di amministratore delegato.
Il Consigliere comunale chiede di conoscere se un medesimo soggetto possa rivestire contemporaneamente la carica di presidente di società a partecipazione pubblica e quella di direttore generale o dirigente della medesima società o se sussistano cause di incompatibilità.
Esaminato il quadro normativo di riferimento e sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
Per quanto riguarda il caso prospettato dal Consigliere è necessario verificare l'eventuale sussistenza di talune delle cause di incompatibilità previste dall'art. 12 del d.lgs. 08.04.2013, n. 39
[1], con particolare riferimento alle cariche negli enti di diritto privato in controllo pubblico, tra i quali pare potersi annoverare la società a partecipazione pubblica in argomento.
La questione è stata affrontata dalla Commissione indipendente per la Valutazione la Trasparenza e l'Integrità delle amministrazioni (Civit) nella delibera n. 47/2013.
In particolare, con riferimento al comma 1 del summenzionato articolo 12, il quale dispone, per quanto qui d'interesse, che gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, negli enti di diritto privato in controllo pubblico, sono incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, delle cariche di presidente e amministratore delegato, nello stesso ente che ha conferito l'incarico, la Civit ha ritenuto che il generico riferimento al 'presidente' debba essere integrato con la previsione della titolarità di 'deleghe gestionali dirette' (ai sensi della lettera e) dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 39/2013), come può essere desunto, del resto, dall'abbinamento, nella previsione normativa, della carica di presidente con quella di amministratore delegato.
Pertanto, qualora al presidente della partecipata in commento non siano attribuite deleghe gestionali dirette, non si ritiene possa determinarsi la situazione di incompatibilità prevista dalla norma in esame.
Altra questione concerne l'interpretazione della lettera c) del comma 4 dell'art. 12 del d.lgs. n. 39/2013 che contempla l'incompatibilità tra l'incarico dirigenziale
[2] e l'assunzione della carica di componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico [3]. Sul piano della ricostruzione del sistema, alla Civit sembra evidente che la carica di 'componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico' ivi prevista 'coincide con la carica di presidente con delega e di amministratore delegato.'.
Quanto alle residuali valutazioni circa la compatibilità, nell'ambito del diritto societario, tra il ruolo di presidente e quello di direttore generale/dirigente conferiti ad uno stesso soggetto, si rappresenta che lo scrivente Ufficio è competente ad esprimersi in ordine a questioni afferenti l'ordinamento pubblico, cui non è riconducibile il diritto societario.
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[1] Recante: 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190.'.
[2] Nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello provinciale o comunale.
[3] 'da parte della regione, nonché di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione della stessa regione'
(21.01.2014 -
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GIURISPRUDENZA

APPALTI: Verifica dell'offerta anomala, intervento del giudice solo in casi ''straordinari''.
L'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che e' tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione.
Soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità.

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di una società che contestava l’aggiudicazione dell’appalto ad una cooperativa che , secondo il suo parere, aveva presentato una offerta anomala; i giudici amministrativi del Consiglio di Stato, tuttavia, condividono la conclusione a cui è pervenuto il TAR il quale ha sostenuto che se il procedimento di verifica dell’anomalia, condotto dall’Amministrazione appaltante con il dovuto scrupolo istruttorio, è sfociato in un giudizio non manifestamente illogico né irragionevole sull’attendibilità dell’offerta nel suo complesso, l’aggiudicazione è da intendersi pienamente legittima.
Il caso
Una stazione appaltante aveva indetto una procedura aperta per l’affidamento, secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, del servizio di preparazione, confezionamento ed eventuale trasporto dei pasti per gli utenti dei servizi socio-assistenziali da essa gestiti, per la durata di tre anni e con possibilità di proroga per un ulteriore anno alle medesime condizioni.
Alla gara partecipavano diverse ditte; alcune di queste venivano escluse e rimanevano in gara una SPA ed una cooperativa specializzata nel settore.
La stazione appaltante procedeva all’aggiudicazione definitiva nei confronti della cooperativa; a fronte della determinazione di aggiudicazione la SPA, seconda classificata, procedeva al ricorso sostenendo principalmente che l’offerta della ditta aggiudicataria doveva essere esclusa dalla gara, perché ritenuta anomala. Il TAR, tuttavia, dopo l’esame del ricorso lo rigettava nel merito; la società ricorreva al Consiglio di Stato.
L’analisi dei giudici amministrativi di secondo grado
Il Consiglio di Stato osserva come il giudice di prime cure abbia opportunamente anteposto, alla disamina degli specifici rilievi della società ricorrente, un richiamo ai principi di elaborazione giurisprudenziale in tema di sindacato sulla verifica di anomalia delle offerte.
Per i giudici di Palazzo Spada da una parte si assiste al fatto che la verifica della congruità di un'offerta ha natura globale e sintetica, riguardando l’attendibilità della medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità a fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica; dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera propria della discrezionalità della Pubblica Amministrazione.
La giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato ha precisato che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà, o meno, dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità dell’offerta deve , cioè, essere valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall’incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme: questo, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità.
Quali le anomalie dell’offerta contestate dalla società ricorrente
Nel ricorso la società evidenzia, in merito all’ipotizzata anomalia dell’offerta della ditta aggiudicataria, che tale l’offerta economica avrebbe dovuto essere giudicata anomala per il fatto che era stato omesso di indicare e quantificare, nelle giustificazioni presentate in seno al procedimento di verifica della stessa offerta, la voce relativa alle “spese generali”.
I giudici di prime cure, tuttavia, hanno ritenuto che la mancata indicazione delle spese generali non costituisse, nel caso concreto, un elemento idoneo ad inficiare la valutazione della Commissione di complessiva attendibilità dell’offerta dell’aggiudicataria, facendo principalmente notare che:
- la società aveva dettagliatamente indicato in sede di giustificazione tutti gli elementi di costo dell’offerta praticata, con riferimento sia al costo del personale , sia al costo di gestione;
- le limitate dimensioni dell’aggiudicataria facevano ragionevolmente presumere un’incidenza modesta delle spese generali.
Per i giudici di Palazzo Spada le “osservazioni” del TAR sono pienamente coerenti con gli orientamenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato.
La seconda contestazione relativa all’anomalia dell’offerta, riguarda il numero di addetti che l’aggiudicataria prevede di utilizzare, per il servizio.
In riferimento alle contestazioni della società ricorrente il Consiglio di Stato evidenzia che la legge di gara non fissava un numero minimo di addetti, limitandosi a prescrivere che il servizio fosse gestito dall’appaltatore con “personale in numero sufficiente”; ed ha aggiunto che il relativo dato rilevava, ai sensi dell’art. 12 del disciplinare di gara, ai fini dell’attribuzione del punteggio relativo al momento della “composizione del team proposto per lo svolgimento del servizio”, aspetto in relazione al quale, l’aggiudicataria aveva indicato 4 addetti e conseguito complessivamente 12,5 punti, sul massimo di 15 previsti.
Il TAR ha poi osservato che i dubbi sollevati dalla Commissione circa la sufficienza di soli quattro addetti a gestire il servizio erano stati superati dai chiarimenti forniti dall’interessata in sede di verifica di anomalia, “alla luce della caratteristiche tecniche del centro cottura (tecnologicamente avanzato), delle competenze professionali del team proposto e della natura del servizio appaltato (relativamente semplice, contemplando solo la preparazione dei pasti, non anche la consegna ed il trasporto degli stessi) e all’organizzazione dello stesso (incentrato su un unico centro di cottura, più agevole da gestire anche con poco personale in luogo di più centri di cottura sparsi sul territorio).”.
Un'altra contestazione, nel ricorso al Consiglio di Stato, riguardava il fatto che la ditta aggiudicataria avesse previsto nella propria offerta tecnica che talune prestazioni proprie del servizio affidato, incluse quelle relative alla preparazione dei pasti e alla sanificazione del centro cottura, sarebbero state svolte anche da volontari non retribuiti, con ciò violando sia l’art. 25 del capitolato d’appalto (concernente l’obbligo di gestire il servizio con “proprio personale, professionalmente qualificato e costantemente aggiornato e addestrato”), sia la L. 266/1991, sulle attività di volontariato.
Su tale aspetto, tuttavia, il giudice di prime cure ha rilevato che era stato proprio il disciplinare di gara ad ammettere il possibile impiego di volontari, in aggiunta al lavoro degli operatori professionali, vedendo in ciò un possibile “arricchimento del progetto” e, inoltre, che l’aggiudicataria aveva previsto, sì, la possibilità di avvalersi di personale volontario ad integrazione del personale retribuito stabilmente assunto, ma in sede di valutazione per tale voce dell’offerta aveva conseguito zero punti.
Il TAR ha ritenuto che, poiché la presenza di volontari nel progetto dell’aggiudicataria non aveva avuto influenza sulla valutazione della sua offerta, e quindi sull’esito della gara, la critica non poteva che risultare recessiva.
Le conclusioni del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato condivide la conclusione a cui è arrivata la sentenza del TAR e, cioè, che il procedimento di verifica dell’anomalia, condotto dall’Amministrazione appaltante con il dovuto scrupolo istruttorio, è sfociato in un giudizio non manifestamente illogico né irragionevole sull’attendibilità dell’offerta nel suo complesso.
Il ricorso è, pertanto, respinto; per la complessità della materia , tuttavia , vi sono validi motivi per giustificare la compensazioni tra le parti delle spese processuali (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 nel definire gli interventi edilizi, annovera nella categoria di “nuova costruzione” le strutture la cui realizzazione comporti la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, categoria specificata dall’elaborazione giurisprudenziale in senso sia strutturale (con valorizzazione dello stabile ancoraggio al suolo), sia funzionale (con accento sulla idoneità alla soddisfazione di esigenze non meramente temporanee).
Nella fattispecie in esame, i manufatti considerati (ndr: manufatti non ancorati al suolo, e precisamente da serra costituita da intelaiatura metallica coperta in materiale plastico, struttura metallica scoperta, ovvero in struttura metallica in “adiacenza” al fabbricato in muratura oggetto del diniego di condono, con copertura in telo plastico e gabbia metallica con copertura in telo) non assumono nessuna delle caratteristiche proprie delle “costruzioni”: non sono, infatti, infissi al suolo, ma solamente appoggiati o aderenti alle opere in muratura; sono destinati ad assolvere funzioni non ben definite, ornamentali ovvero di supporto all’attività agricola, in ogni caso non specificate negli atti impugnati in primo grado: la circostanza, enfatizzata in giudizio dall’Amministrazione, che tali manufatti esistano fin dal 2009 non costituisce elemento per dedurne la non temporaneità dell’utilizzo, sia perché le ordinanze di demolizione si basano su accertamenti svolti nello stesso anno, sia perché tale elemento deve essere dedotto da elementi strutturali e funzionali delle caratteristiche costruttive dell’opera considerata, che nella fattispecie non depongono in tal senso.
Gli interventi considerati, che sfuggono alla definizione edilizia viceversa loro impressa dall’Amministrazione, ove la loro permanenza sia giudicata incompatibile con interessi pubblici espressi sul territorio, ad esempio sotto l’aspetto del decoro dell’abitato, devono quindi essere valutati dall’Amministrazione sotto aspetti diversi, che ne valorizzino la facile amovibilità, ma non possono essere oggetto di provvedimenti propri della repressione degli abusi edilizi, poiché non costituiscono “costruzioni”, nel senso sopra precisato.
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E' illegittimo il diniego di proroga, richiesta dagli interessati per ottemperare alla demolizione delle opere il cui condono è stato legittimamente rifiutato dall’Amministrazione, poiché le circostanze rappresentate nelle istanze non sono state adeguatamente valutate dall’Amministrazione (la quale ha fondato il diniego sulla non eccezionalità dei manufatti e delle conseguenti operazioni di demolizione).
Le ragioni dei ricorrenti in primo grado, infatti, non si esaurivano nella complessità delle operazioni, ma erano anche attinenti alla vicenda giudiziale sopra tratteggiata, con particolare riferimento alla necessità di attendere la decisione del Consiglio di Stato sul giudizio cautelare avverso le sentenze del 2009 di reiezione del condono, all’epoca non ancora proposto.
Su tali aspetti la risposta dell’Amministrazione è stata del tutto silente.

I) Le vicende portate all’attenzione del Tar, i provvedimenti che la riguardano e le sentenze impugnate sono del tutto simili, ed è pertanto opportuno disporre la riunione degli appelli, al fine di un’unica decisione.
Le ordinanze di demolizione (nn. 43, 44 e 45 del febbraio 2010) sono relative ad opere abusive per le quali il Comune di Desio aveva negato la sanatoria edilizia, e sono state emanate dopo che il Tar aveva respinto i ricorsi proposti dagli interessati per talune opere, con sentenze del 20.02.2009 la cui efficacia è stata confermata dal Consiglio di Stato con ordinanze del 29.07.2010.
Con ordinanze cautelari del 26.05.2010 il Tar ha respinto le domande di sospensiva per le opere già oggetto di diniego di condono, e l’ha accolta per gli interventi edilizi diversi da questi, in quanto non soggetti ad obbligo di titolo edilizio. I ricorrenti chiedevano quindi al Comune la proroga del termine per ottemperare all’ordine di demolizione, ma, con i provvedimenti oggetto dei ricorsi di primo grado, l’Amministrazione ha opposto un diniego, procedendo poi all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine.
II) Le sentenze impugnate hanno respinto i ricorsi relativamente all’ingiunzione di demolizione delle opere già ritenute dalle precedenti sentenze insuscettibili di condono per mancanza di prova del loro completamento entro il 31.03.2003, mentre l’ha accolto per i restanti manufatti, per la cui realizzazione non ha ritenuto necessario il previo titolo edilizio (punti n. 5 e da 7 a 11 dell’ingiunzione n. 45 del 09.02.2010; punti da 3 a 6 dell’ingiunzione n. 44 del 07.02.2010, interventi ricondotti dal Tar a semplici pergolati formati da intelaiatura metallica scoperta; punti 2 e 3 dell’ingiunzione n. 43 del 09.02.2010, consistenti in una struttura metallica realizzata in adiacenza al fabbricato in muratura e in una gabbia metallica con copertura in telo), in quanto strutture precarie e semplicemente appoggiate al suolo, come tali facilmente amovibili.
Il Tar ha poi accolto i motivi aggiunti ai ricorsi, volti a contestare il diniego di proroga per le operazioni di demolizione, rilevando che la richiesta avanzata dagli interessati era ragionevole e motivata dalle ordinanze cautelari di parziale accoglimento e dall’intenzione, da questi rappresentata, di proporre appello avverso le sentenze del 2009, sopra ricordate, mentre la risposta del Comune si limitava a confermare il termine di legge per ottemperare. Di conseguenza, il primo giudice ha annullato anche gli atti successivi all’accertamento dell’inottemperanza, tenuto anche conto che la superficie da acquisire al patrimonio comunale risultava determinata mediante il computo anche delle opere per le quali era stata concessa la misura cautelare con le ordinanze del 26.05.2010.
...
Gli appelli sono infondati.
a) Con riguardo alla natura delle opere, va ricordato che l’ambito del presente giudizio riguarda quelle diverse dagli interventi edilizi per i quali il Comune aveva negato, con provvedimenti ritenuti legittimi dal Tar, il condono edilizio chiesto dagli interessati.
Tali opere consistono in manufatti non ancorati al suolo, e precisamente da serra costituita da intelaiatura metallica coperta in materiale plastico (punto n. 5 dell’ingiunzione al ricorrente Cocciolo), struttura metallica scoperta (nn. da 7 a 11 dell’ingiunzione al ricorrente Cocciolo, nn. da 3 a 6 dell’ingiunzione al ricorrente Sansone), ovvero in struttura metallica in “adiacenza” al fabbricato in muratura oggetto del diniego di condono, con copertura in telo plastico e gabbia metallica con copertura in telo (nn. 2 e 3 dell’ingiunzione al ricorrente Cristoforo).
Come è confermato dalla documentazione, anche fotografica, versata in atti, trattasi di opere non definibili intermini di “costruzioni”, non solo e non tanto perché facilmente amovibili, ma anche perché non qualificabili come strutture edilizie.
L’art. 3 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 nel definire gli interventi edilizi, annovera nella categoria di “nuova costruzione” le strutture la cui realizzazione comporti la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, categoria specificata dall’elaborazione giurisprudenziale in senso sia strutturale (con valorizzazione dello stabile ancoraggio al suolo), sia funzionale (con accento sulla idoneità alla soddisfazione di esigenze non meramente temporanee).
Nella fattispecie in esame, i manufatti considerati non assumono nessuna delle caratteristiche proprie delle “costruzioni”: non sono, infatti, infissi al suolo, ma solamente appoggiati o aderenti alle opere in muratura; sono destinati ad assolvere funzioni non ben definite, ornamentali ovvero di supporto all’attività agricola, in ogni caso non specificate negli atti impugnati in primo grado: la circostanza, enfatizzata in giudizio dall’Amministrazione, che tali manufatti esistano fin dal 2009 non costituisce elemento per dedurne la non temporaneità dell’utilizzo, sia perché le ordinanze di demolizione si basano su accertamenti svolti nello stesso anno, sia perché tale elemento deve essere dedotto da elementi strutturali e funzionali delle caratteristiche costruttive dell’opera considerata, che nella fattispecie non depongono in tal senso.
Gli interventi considerati, che sfuggono alla definizione edilizia viceversa loro impressa dall’Amministrazione, ove la loro permanenza sia giudicata incompatibile con interessi pubblici espressi sul territorio, ad esempio sotto l’aspetto del decoro dell’abitato, devono quindi essere valutati dall’Amministrazione sotto aspetti diversi, che ne valorizzino la facile amovibilità, ma non possono essere oggetto di provvedimenti propri della repressione degli abusi edilizi, poiché non costituiscono “costruzioni”, nel senso sopra precisato.
b) Con riguardo al diniego di proroga, richiesta dagli interessati per ottemperare alla demolizione delle opere il cui condono è stato legittimamente rifiutato dall’Amministrazione, la sentenza impugnata merita conferma, poiché le circostanze rappresentate nelle istanze non sono state adeguatamente valutate dall’Amministrazione (la quale ha fondato il diniego sulla non eccezionalità dei manufatti e delle conseguenti operazioni di demolizione).
Le ragioni dei ricorrenti in primo grado, infatti, non si esaurivano nella complessità delle operazioni, ma erano anche attinenti alla vicenda giudiziale sopra tratteggiata, con particolare riferimento alla necessità di attendere la decisione del Consiglio di Stato sul giudizio cautelare avverso le sentenze del 2009 di reiezione del condono, all’epoca non ancora proposto.
Su tali aspetti la risposta dell’Amministrazione è stata del tutto silente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.01.2014 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 35, comma 12, della l. 28.02.1985, n. 47 e succ. modifiche, prevede che la domanda di sanatoria si intende accolta decorso il termine di 24 mesi dalla presentazione della domanda o, per le opere costruite su area vincolata, decorso il termine di 24 mesi dalla emissione del parere previsto dal primo comma dell’art. 32 della stessa legge.
Quanto alla necessità di acquisire il suddetto parere anche per opere realizzate prima della imposizione del vincolo, l’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 20 del 22.07.1999 in ordine alla portata dell’art. 32, ha precisato che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo ad essa debba darsi soluzione alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta”, concludendo nel senso che poiché la ratio che sottende l’art. 32, è la cura del pubblico interesse che “ha come sua qualità essenziale la legalità…ne consegue che la pubblica amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone. La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti alla edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi nel senso che l’obbligo di pronuncia da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Alla stregua dell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria citata va riconosciuto l’obbligo dell’amministrazione di tener conto ai fini del rilascio della concessione in sanatoria di tutti i vincoli esistenti al momento dell’esame della domanda.

L’appello è fondato e va accolto.
Il TAR ha ritenuto che sull’istanza di sanatoria si sarebbe formato il c.d. “silenzio-assenso”, essendo decorso il termine di 24 mesi previsto dall’art. 35, comma 12, della l. n. 431 del 1985 e perché il vincolo di area golenale sarebbe stato imposto in epoca successiva alla realizzazione dell’opera abusiva e, quindi, ininfluente ai fini del condono (“…l’opera abusiva è stata realizzata prima dell’imposizione del vincolo ai sensi della l. n. 431 del 1985 (legge Galasso). L’art. 32 della l. n. 47 del 1985, infatti è stato interpretato dall’art. 2, comma 44, della legge n. 662 del 1996 (legge finanziaria 1997), nel senso che il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo, anche quello imposto dal decreto legge 27.06.1985 n. 312, convertito in legge 431 del 1985, non va acquisito qualora l’opera abusiva sia stata realizzata anteriormente al vincolo stesso, come nel caso in esame”).
Il percorso logico giuridico del giudice di primo grado non può essere condiviso.
L’art. 35, comma 12, della l. 28.02.1985, n. 47 e succ. modifiche, prevede che la domanda di sanatoria si intende accolta decorso il termine di 24 mesi dalla presentazione della domanda o, per le opere costruite su area vincolata, decorso il termine di 24 mesi dalla emissione del parere previsto dal primo comma dell’art. 32 della stessa legge.
Quanto alla necessità di acquisire il suddetto parere anche per opere realizzate prima della imposizione del vincolo, l’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 20 del 22.07.1999 in ordine alla portata dell’art. 32 (in termini fra le tante, Sez. V, n. 3234 del 2013; 5553 del 2012), ha precisato che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo ad essa debba darsi soluzione alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta”, concludendo nel senso che poiché la ratio che sottende l’art. 32, è la cura del pubblico interesse che “ha come sua qualità essenziale la legalità…ne consegue che la pubblica amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone. La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, comma 1, relativa ai vincoli che appongono limiti alla edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi nel senso che l’obbligo di pronuncia da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente”.
Alla stregua dell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria citata va riconosciuto l’obbligo dell’amministrazione di tener conto ai fini del rilascio della concessione in sanatoria di tutti i vincoli esistenti al momento dell’esame della domanda.
Conseguentemente, nella fattispecie in esame, non può ritenersi formato il silenzio assenso di cui all’art. 35 della l. n. 47 del 1985, atteso che il termine di 24 mesi non poteva decorrere dalla presentazione dell’istanza ma dalla acquisizione del parere di cui al combinato disposto del primo e del terzo comma dell’art. 32 della stessa legge, essendo la zona soggetta a vincolo paesaggistico imposto dalla l. n. 431 del 1985 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base agli artt. 216-217 t.u. sanitario (r.d. 27.07.1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n. 616 e dall'art. 32, comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli, rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u. sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di presentare un progetto preordinato ad eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione l'impianto entro un dato termine, anche sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente, senza che ciò implichi di per sé alcun difetto di motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio, gli art. 216 e 217 r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che produce, può essere oggetto di catalogazione come industria insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto che, in generale, l'allevamento di animali è considerato dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art. 216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata per i grandi allevamenti che forniscono all’industria alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo stesso appellante in memoria), per consentire una conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.

... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA n. 01654/2000, resa tra le parti, concernente chiusura stalla per bovini.
...
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, con la sentenza n. 1654 dell’11.12.2000, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento dell’ordinanza 26.09.1998 con la quale era stata ordinata l’immediata chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che la circostanza che l’immobile adibito a stalla (ed a magazzino) fosse stato realizzato quando la destinazione della zona era agricola e che solo nel 1980 il piano di fabbricazione aveva reso possibile un’edificabilità di tipo residenziale non poteva costituire motivo per giustificare la gestione di una stalla di bovini, di una porcilaia e di un letamaio a stretto ridosso di altre abitazioni, poiché l’allevamento di bestiame rappresenta di per sé attività potenzialmente pericolosa per la salute pubblica ed è ricompresa nell’elenco delle industrie o lavorazioni insalubri di prima classe di cui all’art. 216 R.D. 27.07.1934, n. 1265 (e classificazione decreto del Ministero della Sanità 05.09.1994 che ha sostituito il D.M. 19.11.1981).
Pertanto, per il TAR, indipendentemente dall’essere localizzate o meno in zona agricola, dette industrie insalubri, in forza dell’art. 216 T.U.L.S., devono essere tenute lontane dalle abitazioni e pertinente era, dunque, il richiamo nel provvedimento all’art. 30 del regolamento comunale d’igiene che si conforma ad una fonte d’ordine sopraordinata.
Infine, per il TAR, non si poteva pretendere che l’Amministrazione attendesse il verificarsi di una situazione di danno concreto per la salute pubblica, essendo sufficiente, per configurare il presupposto dell’urgenza, una situazione di pericolo non fronteggiabile adeguatamente e tempestivamente con misure ordinarie; tale situazione di pericolo era, nella specie, obiettivamente esistente ed era stata attestata dall’A.U.S.L. n. 10 nelle relazioni richiamate nell'atto impugnato.
...
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio, in base agli artt. 216-217 t.u. sanitario (r.d. 27.07.1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n. 616 e dall'art. 32, comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli, rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u. sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di presentare un progetto preordinato ad eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione l'impianto entro un dato termine, anche sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente, senza che ciò implichi di per sé alcun difetto di motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l'evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio (Consiglio di Stato, sez. V, 19.04.2005, n. 1794), gli art. 216 e 217 r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che produce, può essere oggetto di catalogazione come industria insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto che, in generale, l'allevamento di animali è considerato dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art. 216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni (cfr., anche, Consiglio di Stato, sez. V, 17.04.2002, n. 2008).
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata per i grandi allevamenti che forniscono all’industria alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo stesso appellante in memoria), per consentire una conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
Tali prescrizioni, che sono state il frutto di un’attività amministrativa posteriore agli atti oggetto del presente giudizio, non possono ritenersi inficianti di questi ultimi, poiché logicamente e ragionevolmente il Comune ha in primis disposto in via cautelare la chiusura della stalla per bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco, a tutela della salute e sulla base di un’idonea istruttoria (parere della competente struttura sanitaria); in seconda battuta, esaurita l’impellenza cautelativa, ha emanato una serie di atti successivi per consentire comunque il mantenimento dell’attività agricola, in modo soddisfacente per le parti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve puntuale disciplina all’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 380 del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione.
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della porzione di territorio interessata, che può, in progressione di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti strettamente prefigurati dalla disciplina di legge (violazione del dato temporale dell’inizio e completamento dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da giustificazione, del titolare del permesso di costruire a realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art. 15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.

La pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve puntuale disciplina all’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 380 del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974 del 23.02.2012; n. 2915 del 2012).
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della porzione di territorio interessata, che può, in progressione di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti strettamente prefigurati dalla disciplina di legge (violazione del dato temporale dell’inizio e completamento dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da giustificazione, del titolare del permesso di costruire a realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art. 15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.04.2013 n. 1870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZISono illegittimi l’atto di revoca dell’aggiudicazione e la nuova aggiudicazione a favore della controinteressata in quanto del tutto privi di motivazione.
Neppure dagli ulteriori atti depositati è possibile ricostruire le ragioni che hanno spinto all’amministrazione ad annullare la gara e quali siano state le difformità dal bando che siano state contestate alla ricorrente. Né a tal fine è possibile tenere conto di dichiarazioni provenienti dalla controinteressata, in quanto la decisione di ritirare e di assegnare ex novo la gara proviene dall’amministrazione, la quale doveva valutare la fondatezza delle rimostranze mosse nei confronti della prima aggiudicazione ed esplicitare le ragioni per le quali vi aderiva.
Non esiste poi nessun verbale di gara o di apertura delle buste per cui non è possibile ricostruire in modo sufficientemente completo l’attività svolta dall’amministrazione.
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Nell’ipotesi di rimozione in autotutela di una procedura di gara, l’avviso di avvio del relativo procedimento assume carattere di obbligatorietà ove l’esercizio di tale potere implichi valutazioni discrezionali, come nel caso di specie ove è stata fatta applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
L’avviso deve ritenersi superfluo solo a fronte di un provvedimento basato su presupposti verificabili in modo immediato ed univoco, per i quali difatti le esigenze di garanzia e trasparenza, sottese a tale adempimento, recedono a favore dei criteri di economicità e speditezza dell’azione amministrativa.

La ricorrente già aggiudicataria di procedura di gara per l'affidamento dei servizi assicurativi degli alunni e del personale per l'anno scolastico 2013 impugna l’atto di revoca dell’aggiudicazione e la nuova aggiudicazione a favore della controinteressata.
A tal fine presenta i seguenti motivi di ricorso: a) Violazione degli artt. 21 della legge n. 241/1990 per difetto di motivazione dell’atto di autotutela; b) Violazione dell’art. 21-nonies della legge 241/1990 per mancanza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela; c) Violazione dell’art. 7 legge 241 /1990 per mancata comunicazione di avvio del procedimento di autotutela; d) in via subordinata violazione di legge per errata attribuzione dei punteggi. Violazione del bando di gara e dei criteri di attribuzione dei punteggi ivi stabiliti.
La difesa dello Stato ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 26.03.2013 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
Il ricorso è fondato.
Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono fondati in quanto dall’esame degli atti risulta chiaramente che sia l’atto di revoca dell’aggiudicazione, quanto la successiva aggiudicazione sono del tutto privi di motivazione.
Neppure dagli ulteriori atti depositati è possibile ricostruire le ragioni che hanno spinto all’amministrazione ad annullare la gara e quali siano state le difformità dal bando che siano state contestate alla ricorrente. Né a tal fine è possibile tenere conto di dichiarazioni provenienti dalla controinteressata, in quanto la decisione di ritirare e di assegnare ex novo la gara proviene dall’amministrazione, la quale doveva valutare la fondatezza delle rimostranze mosse nei confronti della prima aggiudicazione ed esplicitare le ragioni per le quali vi aderiva.
Non esiste poi nessun verbale di gara o di apertura delle buste per cui non è possibile ricostruire in modo sufficientemente completo l’attività svolta dall’amministrazione.
Anche il terzo motivo di ricorso è fondato in quanto nell’ipotesi di rimozione in autotutela di una procedura di gara, l’avviso di avvio del relativo procedimento assume carattere di obbligatorietà ove l’esercizio di tale potere implichi valutazioni discrezionali, come nel caso di specie ove è stata fatta applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (ex plurimis TAR Lazio-Roma - Sezione I-Bis, Sentenza 23.10.2006 n. 10900).
L’avviso deve ritenersi superfluo solo a fronte di un provvedimento basato su presupposti verificabili in modo immediato ed univoco, per i quali difatti le esigenze di garanzia e trasparenza, sottese a tale adempimento, recedono a favore dei criteri di economicità e speditezza dell’azione amministrativa.
Poiché tali presupposti non sussistono, era obbligo dell’amministrazione comunicare alle parti l’avvio di un procedimento di annullamento della gara ed acquisire le loro valutazioni prima di provvedere (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.03.2013 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche la presentazione delle offerte va effettuata in scrupolosa osservanza del bando e della lettera d'invito e la stazione appaltante non può legittimamente disattendere le predette prescrizioni, non avendo alcuna discrezionalità al riguardo.
Pertanto, qualora il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione, senza alcuna possibilità di valutare la rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza l'Amministrazione si è autovincolata al momento dell'adozione del bando.
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L’impresa che non ha partecipato o è stata legittimamente esclusa dalla procedura di gara non ha la legittimazione ad impugnare il successivo provvedimento di aggiudicazione.
Infatti, anche l'eventuale interesse pratico alla rinnovazione della gara non dimostra la titolarità di una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso, poiché tale aspettativa non si distingue da quella che potrebbe vantare qualsiasi operatore del settore, che aspiri a partecipare ad una futura selezione; la capacità di questo dato empirico di influire significativamente sulla legittimazione al ricorso risulta ulteriormente circoscritta quando l'interesse in questione non si collega in modo immediato ed evidente con un determinato bene della vita (la concreta probabilità di ottenere l'appalto), ma si atteggia come mera prospettiva della ripetizione del procedimento.

Come ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, infatti, nelle gare pubbliche la presentazione delle offerte va effettuata in scrupolosa osservanza del bando e della lettera d'invito e la stazione appaltante non può legittimamente disattendere le predette prescrizioni, non avendo alcuna discrezionalità al riguardo; pertanto, qualora il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione, senza alcuna possibilità di valutare la rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza l'Amministrazione si è autovincolata al momento dell'adozione del bando (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 14.12.2011, n. 6546).
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Come è noto, infatti, il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n. 4 ha specificato che l’impresa che non ha partecipato o è stata legittimamente esclusa dalla procedura di gara non ha la legittimazione ad impugnare il successivo provvedimento di aggiudicazione.
Infatti, anche l'eventuale interesse pratico alla rinnovazione della gara non dimostra la titolarità di una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso, poiché tale aspettativa non si distingue da quella che potrebbe vantare qualsiasi operatore del settore, che aspiri a partecipare ad una futura selezione; la capacità di questo dato empirico di influire significativamente sulla legittimazione al ricorso risulta ulteriormente circoscritta quando l'interesse in questione non si collega in modo immediato ed evidente con un determinato bene della vita (la concreta probabilità di ottenere l'appalto), ma si atteggia come mera prospettiva della ripetizione del procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Circa la sussistenza di un obbligo giuridico di verbalizzazione delle modalità di conservazione e di custodia delle buste contenenti le offerte, ha visto la giurisprudenza amministrativa apparentemente dividersi su due differenti orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, più rigoroso, seguito dalla sentenza del TAR qui impugnata, l’omessa menzione nei verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte determina, di per sé, l’illegittimità delle operazioni di gara, a prescindere dalla mancata dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto.
In base ad un secondo indirizzo, più attento agli effetti sostanziali di tale omessa verbalizzazione, tale omissione non costituisce di per sé motivo dì illegittimità dell’attività svolta dalla Commissione a meno che non vengano addotti elementi concreti e specifici tali da far ritenere probabile o quanto meno possibile la sostituzione delle buste, la manomissione delle offerte o altro fatto rilevante ai fini della regolarità della procedura.
Come ha, tuttavia, ben messo in luce la parte appellante, tale contrasto giurisprudenziale risulta apprezzabile soltanto sul piano della mera ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle relative pronunce, poiché ad un esame approfondito, che tenga conto della situazione di fatto concreta e peculiare che ha caratterizzato le diverse controversie oggetto di sindacato giudiziale, per tale specifico aspetto risulta evidente che nella assoluta prevalenza delle statuizioni giudiziarie la fattispecie concreta presentava comunque degli aspetti peculiari tali da poter destare un ragionevole sospetto circa un’avvenuta manomissione dei documenti di gara o, comunque, il rischio concreto che tale manomissione potesse avvenire.
In altre parole, soltanto nella considerazione, molto spesso non esplicitata nell’ambito della massima delle relative pronunce, dell’esistenza di eventi anomali o anormali rispetto alla regolarità della procedura che rendano particolarmente avvertite le esigenze di integrità e segretezza delle offerte, la giurisprudenza più rigorista e formalista ha richiesto in astratto e senza bisogno di dimostrazioni specifiche, la sussistenza di una verbalizzazione puntuale circa l’adozione delle cautele impiegate dall’Amministrazione o dalla commissione per la custodia dei plichi.
Come ha, infatti, chiarito recentemente questo Consiglio, la pubblica amministrazione (P.A.) nelle gare di appalto ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, D.lgs. n. 163/2006, spettando alla P.A. stessa, ma solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dare idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che, pertanto, devono essere quantomeno allegate per dimostrare l’interesse non emulativo alla custodia dei plichi possono riassumersi (quasi tipizzarsi): nell’eccessiva durata delle operazioni di gara; ovvero nell’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta tecnica ed economica; ovvero nella sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti o per la presenza di circostanziati elementi indiziari e sintomatici di una possibile manomissione dei documenti di gara.
Pertanto, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie.

Rileva il Collegio che la questione centrale proposta nell’atto d’appello, ovvero la sussistenza di un obbligo giuridico di verbalizzazione delle modalità di conservazione e di custodia delle buste contenenti le offerte, ha visto la giurisprudenza amministrativa apparentemente dividersi su due differenti orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, più rigoroso, seguito dalla sentenza del TAR qui impugnata, l’omessa menzione nei verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte determina, di per sé, l’illegittimità delle operazioni di gara, a prescindere dalla mancata dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto (cfr., ad es., Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2012, n. 1862).
In base ad un secondo indirizzo, più attento agli effetti sostanziali di tale omessa verbalizzazione, tale omissione non costituisce di per sé motivo dì illegittimità dell’attività svolta dalla Commissione a meno che non vengano addotti elementi concreti e specifici tali da far ritenere probabile o quanto meno possibile la sostituzione delle buste, la manomissione delle offerte o altro fatto rilevante ai fini della regolarità della procedura (cfr., Consiglio di Stato, Sez. V, 18.10.2011, n. 5579 e, più di recente, Consiglio di Stato, Sez. III, 14.01.2013, n. 145).
Come ha, tuttavia, ben messo in luce la parte appellante, tale contrasto giurisprudenziale risulta apprezzabile soltanto sul piano della mera ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle relative pronunce, poiché ad un esame approfondito, che tenga conto della situazione di fatto concreta e peculiare che ha caratterizzato le diverse controversie oggetto di sindacato giudiziale, per tale specifico aspetto risulta evidente che nella assoluta prevalenza delle statuizioni giudiziarie la fattispecie concreta presentava comunque degli aspetti peculiari tali da poter destare un ragionevole sospetto circa un’avvenuta manomissione dei documenti di gara o, comunque, il rischio concreto che tale manomissione potesse avvenire.
In altre parole, soltanto nella considerazione, molto spesso non esplicitata nell’ambito della massima delle relative pronunce, dell’esistenza di eventi anomali o anormali rispetto alla regolarità della procedura che rendano particolarmente avvertite le esigenze di integrità e segretezza delle offerte, la giurisprudenza più rigorista e formalista ha richiesto in astratto e senza bisogno di dimostrazioni specifiche, la sussistenza di una verbalizzazione puntuale circa l’adozione delle cautele impiegate dall’Amministrazione o dalla commissione per la custodia dei plichi.
Come ha, infatti, chiarito recentemente questo Consiglio (Consiglio di Stato, Sez. III, 05.02.2013, n. 688), la pubblica amministrazione (P.A.) nelle gare di appalto ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, D.lgs. n. 163/2006, spettando alla P.A. stessa, ma solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dare idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova.
Le anomalie che, pertanto, devono essere quantomeno allegate per dimostrare l’interesse non emulativo alla custodia dei plichi possono riassumersi (quasi tipizzarsi): nell’eccessiva durata delle operazioni di gara (è proprio il caso che la sentenza di questo Consiglio, Sez. V, n. 1617/2011, invocata dal TAR a sostegno della decisione qui impugnata, ha affrontato in relazione ad un’attività valutativa che, nel suo complesso, si è protratta per oltre 17 mesi); ovvero nell’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta tecnica ed economica (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1862/2012); ovvero nella sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti o per la presenza di circostanziati elementi indiziari e sintomatici di una possibile manomissione dei documenti di gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4487/2011).
Pertanto, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi.
In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali in generale anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa essere verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità della procedura (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata.
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti.
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio.

Rileva in proposito la Sezione che, secondo la condivisibile giurisprudenza formatasi in materia, il bene giuridico protetto dall’art. 18 della l. n. 47/1985, descrivente le caratteristiche della lottizzazione abusiva, non è tanto o solo la tutela dell’interesse al rispetto della pianificazione urbanistica, quanto, invece, la tutela dell’interesse all’effettività del controllo del territorio da parte del soggetto pianificatore (cioè gli organi comunali) tenuto a reprimere qualsiasi intervento lottizzatorio che non sia stato previamente assentito.
In proposito è stato precisato che è ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata (Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.10.2006 n. 6060 e Sezione V, 13.09.1991 n. 1157).
Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti (Consiglio Stato, Sezione V, 20.10.2004, n. 6810), giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci sopraddetti (Consiglio Stato, Sezione V, 14.05.2004, n. 3136).
In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, ossia il tipo di lottizzazione che il Comune ha ritenuto sussistente nel caso di specie sulla base non tanto dalla realizzazione di alcune opere, quanto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio (Consiglio Stato, Sezione IV, 11.09.2006, n. 6060) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi:
1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo;
2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria" di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.

Va premesso che gli abusi edilizi condonabili vengono individuati di volta in volta dalla legge istitutiva, che può allargare oppure restringere le ipotesi a sua insindacabile discrezione, -ovviamente nel rispetto dei principi costituzionali- sulla base delle mutevoli esigenze fiscali, che normalmente costituiscono la ragione della scelta del legislatore.
L'esame nell'ammissibilità della domanda di condono edilizio, nonché l'individuazione della sanzione da infliggere per l'abuso edilizio commesso, costituiscono valutazioni di natura tecnico-discrezionale di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa (Consiglio Stato, sez. V, 27.04.1990, n. 397) che attengono anche alla qualificazione degli interventi posti in essere.
In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi:
1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo;
2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea.
La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano quindi nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia e che possono essere oggetto di domanda di condono in caso di realizzazione delle stesse in sua assenza, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Tanto premesso deve ritenersi che la natura "precaria" di un manufatto, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo la più recente giurisprudenza, cui il Collegio aderisce, il bilanciamento degli interessi coinvolti dalla pianificazione generale impone una più rigida interpretazione delle condizioni dell’azione, ponendo forti limiti alla configurabilità dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.

I ricorrenti contestano la procedura svolta, ai fini dell’approvazione del P.G.T..
In particolare, gli stessi eccepiscono che sono stati modificati i perimetri degli ambiti di trasformazione; così, per quanto attiene a quello che interessa la proprietà dei ricorrenti, è stata inserita, all’interno del precedente ambito 2.8, una nuova area non contigua che prima faceva parte di un autonomo ambito di trasformazione indicato come 2.9; per l’ambito di trasformazione non viene più previsto un p.i.i., ma più genericamente un piano attuativo; è stata modificata la tabella che prevede i dati urbanistici-edilizi dei vari ambiti di trasformazione; è stata inserita la nuova categoria della residenza convenzionata.
Ebbene, con particolare riguardo a tale motivo, che fa leva sulla violazione delle norme procedimentali in materia di formazione del P.G.T., il Collegio deve ribadirne l’inammissibilità per difetto di interesse, posto che, secondo la più recente giurisprudenza, cui il Collegio aderisce, il bilanciamento degli interessi coinvolti dalla pianificazione generale impone una più rigida interpretazione delle condizioni dell’azione, ponendo forti limiti alla configurabilità dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico. Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 12.01.2011 n. 133; id. 29.12.2010, n. 9537; id. 12.10.2010 n. 7439; 13.07.2010 n. 4542; 06.05.2010 n. 2629; sez. V, 07.09.2009, n. 5244; sez. IV, 22.12.2007, n. 6613; TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2012 n. 297; id., 24.11.2011, n. 2901).
Nel caso di specie, innanzitutto non è dimostrato che, nel passaggio dal piano adottato a quello approvato, siano state apportate modifiche sostanziali al piano nel suo complesso: in particolare, l’esame delle tavole allegate non dimostra un effettivo stravolgimento dell’impianto originario del piano, né l’introduzione della possibilità di ricorso all’edilizia convenzionata, la previsione di un generico piano attuativo in luogo di un p.i.i., ovvero la specificazione di criteri urbanistico-edilizi configurano modifiche dotate di peculiare carattere di innovatività.
Inoltre non è contestato il dato secondo cui la zonizzazione che ha interessato l’area di proprietà dei ricorrenti sia stata modificata in senso migliorativo per questi ultimi, in quanto dall’originaria destinazione a standards, si è passati (in melius) alla prevista edificabilità dell’area, pur se previa adozione di un piano attuativo, il che esclude la sussistenza dell’interesse degli istanti a ricorrere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICANel caso in cui si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria– appare indiscussa la necessità del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) dovendo essere rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell’approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d’attuazione, al fine di garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico. Diversamente, l’integrità d’origine del territorio sarebbe sostanzialmente vulnerata.
Per contro, nei casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole, etc.– lo strumento urbanistico esecutivo non deve ritenersi più necessario.

Con riferimento al secondo motivo, volto a contestare la scelta dell’amministrazione di subordinare l’edificazione dell’area ad un precedente piano attuativo, ferma restando la natura discrezionale dell’atto pianificatorio, oggetto di impugnazione, il sindacato sulla ragionevolezza di tale scelta procede attraverso la rigorosa prova delle circostanze di fatto su cui la pianificazione urbanistica interviene.
Così, nel caso in cui si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria– appare indiscussa la necessità del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) dovendo essere rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell’approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d’attuazione, al fine di garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico. (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20.05.1980 n. 18 e 06.12.1992 n. 12; V Sezione, 13.11.1990 n. 776; 06.04.1991 n. 446 e 07.01.1999 n. 1; TAR Campania, IV Sezione, 02.03.2000 n. 596). Diversamente, l’integrità d’origine del territorio sarebbe sostanzialmente vulnerata.
Per contro, nei casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole, etc.– lo strumento urbanistico esecutivo non deve ritenersi più necessario (cfr., per tutte, TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000 n. 1819).
Tuttavia, il Collegio ritiene che nel caso di specie il vizio denunciato non sia stato supportato da idonea documentazione probatoria, incombendo al ricorrente medesimo, che ciò non ha fatto, offrire almeno un principio di prova a sostegno dell’irragionevolezza della suddetta previsione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, l’amministrazione ha escluso che l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria", proprio in considerazione della previsione di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali della materia “governo del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 (C. Cost., 23.11.2011, n. 309).

Con il provvedimento prot. n. 7842 del 28.8.2011 e con il provvedimento prot. n. 7838 del 28.02.2011 il Comune di Gallarate ha rigettato, rispettivamente, l’istanza di autorizzazione paesaggistica e l’istanza di permesso di costruire presentate dal sig. C.Z., ritenendo che l’intervento edilizio proposto, poiché prevede un cambio di destinazione d'uso e l’esecuzione di opere non qualificabili quale manutenzione straordinaria, si ponga in contrasto con il piano di governo del territorio, adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 57 del 04.10.2010 ed ha quindi disposto l’applicazione delle misure di salvaguardia, ai sensi dell’art. 13, c. 12, l. reg. Lombardia n. 12/2005.
In particolare, l’amministrazione ha ravvisato un contrasto con l’art. 71 del piano delle regole, norma che, negli ambiti territoriali a trasformazione urbanistica, in pendenza della approvazione dei piani attuativi o degli atti di programmazione negoziata, consente unicamente interventi di conservazione degli edifici esistenti sino alla manutenzione straordinaria come definita dall’art. 27, c. 1, lett. b), (e, nella versione definitiva, sino alla ristrutturazione), senza modifica della destinazione d'uso.
...
L’art. 71 del piano delle regole è chiaro nel vietare modificazioni della destinazione d'uso nelle more della approvazione dei piani attuativi.
Nel caso di specie, la realizzazione di mutamenti della destinazione d'uso è chiaramente evincibile dalla descrizione delle opere, contenuta nell’istanza di permesso di costruire e dalle tavole ad essa allegate.
Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che si tratti di meri “spostamenti di usi esistenti”: la trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, inoltre, l’amministrazione ha escluso che l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria", proprio in considerazione della previsione di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali della materia “governo del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 (C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
In ogni caso, nella fattispecie oggetto del presente giudizio, la qualificazione dell’intervento non assume rilievo decisivo (la nuova versione dell’art. 71 del piano delle regole consente, invero, anche gli interventi di ristrutturazione edilizia): ciò che rileva è, piuttosto, la realizzazione di mutamenti di destinazione d'uso, chiaramente vietata dal piano di governo del territorio.
Poiché, quindi, l’intervento edilizio in questione prevede un mutamento di destinazione d'uso, esso si pone in contrasto con l’art. 71 del piano delle regole del p.g.t.: legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha dato applicazione alle misure di salvaguardia ed ha sospeso ogni determinazione sulla domanda di permesso di costruire, conformemente alla previsione di cui all’art. 36, l. reg. Lombardia n. 12/2005.
Il provvedimento non è viziato da difetto di motivazione, indicando chiaramente nel cambio di destinazione d'uso la ragione per la quale le opere non sono qualificabili quale manutenzione straordinaria e si pongono in contrasto con le previsioni del p.g.t. adottato.
Non sussiste parimenti la violazione dell’art. 38, l. reg. Lombardia n. 12/2005: la norma pone in capo al responsabile del procedimento la facoltà di richiedere modifiche, ma solo nel caso in cui queste siano di modesta entità, circostanza che non ricorre nel caso di specie.
Né è causa di illegittimità del provvedimento impugnato la richiesta di integrazioni documentali sugli aspetti paesaggistici del progetto, necessaria stante l’inclusione del Comune di Gallarate nel Piano Lombardo del Ticino.
Non è poi configurabile il vizio di eccesso di potere -per contraddittorietà rispetto ai precedenti atti comunali assunti nel corso del procedimento- il quale presuppone l’esercizio di un potere discrezionale, nella specie insussistente.
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del provvedimento impugnato, le lamentate violazioni degli artt. 10-bis, 7 della l. n. 241/1990 e degli artt. 36 e 37, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (poiché il provvedimento prot. 7837 del 28.2.2011 sarebbe stato sottoscritto dal funzionario responsabile del procedimento e non dal dirigente capo del servizio), anche ove fondate, non causerebbero l’annullamento del provvedimento impugnato, così come previsto all’art. 21-octies, l. n. 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.03.2013 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 447/1995 non va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di una accertata situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla normativa in materia di attività produttive, laddove fissa le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico, dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni dannose in questione.
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Se è vero è che l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, con la quale è consentito fronteggiare le situazioni di emergenza anche al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti, questo non significa che i provvedimenti contingibili debbano considerarsi automaticamente illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di durata o di efficacia.
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, quando, come nel caso che occupa, siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione di fatto.
Osserva la Sezione che il TAR, richiamati al riguardo l’art. 15, comma 1, della l.r. n. 13/2001 e l'art. 9, comma 1, della L. n. 447/1995, ha ritenuto che questa norma non può essere riduttivamente intesa come una mera riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, che è stato ritenuto sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9, comma 1, della citata l. n. 447/1995.
Ha quindi affermato che la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività, ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona) e che non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
La Sezione condivide la tesi fatta propria dal primo Giudice, che il potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 447/1995 non va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di una accertata situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sé una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto..
Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti.
Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla normativa in materia di attività produttive, laddove fissa le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico, dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A..
Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni dannose in questione.
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Con il motivo in esame è stato anche dedotto che contraddittoriamente il TAR ha da un lato riconosciuto la sussistenza del potere sindacale di emettere una ordinanza contingibile ed urgente allo scopo di realizzare un immediato ed efficace contrasto all’inquinamento acustico e dall’altro ha affermato la legittimità della impugnata ordinanza che ha invitato il trasgressore solo ad individuare generiche misure da adottarsi per il futuro, senza neppure indicare un termine a pena di decadenza entro il quale le stesse dovessero essere adottate.
Osserva in proposito la Sezione che con l’ordinanza n. 20 del 2009 impugnata è stato intimato la legale rappresentante della attuale appellante di provvedere entro 30 giorni dal ricevimento della stessa, e comunque compatibilmente con i tempi necessari all’ottenimento di tutti gli eventuali nulla osta od autorizzazioni previste dalla vigente normativa, a realizzare gli interventi opportuni per garantire che le emissioni acustiche fossero conformi ai valori limite previsti dal d.P.C.M. 14.11.1997.
Detto provvedimento non conteneva quindi solo un generico invito ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico per il futuro senza indicazione di un termine di decadenza, atteso che non contraddittoriamente, ma in logica contemperazione dell’interesse pubblico alla eliminazione dell'inquinamento acustico con i vincoli di legge imposti al privato per poter effettuare interventi edilizi sulla proprietà, ha concesso che il termine, perentorio e non decadenziale, assegnato per l’incombente fosse dilatabile sino al conseguimento degli indispensabili titoli edilizi.
Aggiungasi che se è vero è che l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, con la quale è consentito fronteggiare le situazioni di emergenza anche al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti, questo non significa che i provvedimenti contingibili debbano considerarsi automaticamente illegittimi solo perché sprovvisti di un termine finale di durata o di efficacia (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3922 e 13.08.2007, n. 4448).
Sicché anche misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, quando, come nel caso che occupa, siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata rapportata alla situazione di fatto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.03.2013 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 21.01.2014

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste responsabilità risarcitoria della P.A. laddove abbia illegittimamente rilasciato il titolo abilitativo edilizio, successivamente annullato, allorquando chi ne abbia chiesto il rilascio ha presentando un progetto non conforme alla normativa edilizia e urbanistica.
Se è innegabile la responsabilità verso i terzi per i danni provocati da un’opera illegittimamente realizzata dall’operatore e illegittimamente assentita dalla P.A., non si ritiene -comunque- che possa configurarsi una responsabilità risarcitoria della P.A., per le conseguenze dannose derivanti dall’annullamento di un titolo ad aedificandum, nei confronti di chi ne abbia chiesto il rilascio presentando un progetto non conforme alla normativa edilizia e urbanistica.
A ciò osta il principio di autoresponsabilità che informa sia l’art. 1227 del codice civile, che esclude il risarcimento dei danni riconducibili al concorso del fatto colposo del creditore, sia l’art. 50 del codice penale, il quale, se nel campo penale esclude la punibilità di chi lede un diritto col consenso della persona che può validamente disporne, nella sfera dei diritti privati -ed in materia di responsabilità aquiliana- comporta l’esclusione della antigiuridicità dell'atto lesivo per effetto del consenso del titolare, ove il consenso sia stato validamente prestato ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile.
Chi presenta un progetto edilizio, avvalendosi per giunta dell’opera di qualificati professionisti, ha per primo l’onere di verificarne la conformità alla normativa vigente, e non può pretendere di addossare all’Amministrazione, che non abbia rilevato profili di contrasto con la normativa di settore, gli effetti dannosi, risentiti in proprio, da lui stesso voluti.

Il ricorso, cui resiste il Comune, è infondato.
Il danno che la ricorrente assume di avere subito è riconducibile ad un’iniziativa imprenditoriale concepita e posta in essere dalla medesima a suo rischio e sotto la propria responsabilità.
La concessione edilizia venne rilasciata dal Comune su istanza della ricorrente e su progetto redatto dalla medesima.
Se è innegabile la responsabilità verso i terzi per i danni provocati da un’opera illegittimamente realizzata dall’operatore e illegittimamente assentita dalla P.A., non ritiene il Collegio che possa configurarsi una responsabilità risarcitoria della P.A., per le conseguenze dannose derivanti dall’annullamento di un titolo ad aedificandum, nei confronti di chi ne abbia chiesto il rilascio presentando un progetto non conforme alla normativa edilizia e urbanistica.
A ciò osta il principio di autoresponsabilità che informa sia l’art. 1227 del codice civile, che esclude il risarcimento dei danni riconducibili al concorso del fatto colposo del creditore, sia l’art. 50 del codice penale, il quale, se nel campo penale esclude la punibilità di chi lede un diritto col consenso della persona che può validamente disporne, nella sfera dei diritti privati -ed in materia di responsabilità aquiliana- comporta l’esclusione della antigiuridicità dell'atto lesivo per effetto del consenso del titolare, ove il consenso sia stato validamente prestato ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile (cfr. Cass. civ. 3^, 24.02.1997 n. 1682).
Chi presenta un progetto edilizio, avvalendosi per giunta dell’opera di qualificati professionisti, ha per primo l’onere di verificarne la conformità alla normativa vigente, e non può pretendere di addossare all’Amministrazione, che non abbia rilevato profili di contrasto con la normativa di settore, gli effetti dannosi, risentiti in proprio, da lui stesso voluti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.12.2005 n. 5004).

Ed il Consiglio di Stato conferma la sentenza del TAR ...

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Circa la richiesta risarcitoria, avanzata in primo grado, avente per oggetto la lesione giuridica dell’interesse legittimo dell’odierno appellante in relazione al potere amministrativo illegittimamente esercitato. Si verte, in definitiva, in uno di quei casi di danno da provvedimento illegittimo favorevole.
L’odierna appellante, infatti, invoca il risarcimento dei danni cagionati dall’adozione di un provvedimento satisfattivo della propria istanza procedimentale, ma illegittimo e per questo caducato in sede giurisdizionale con sentenza divenuta definitiva.

... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA–MILANO, SEZIONE II, n. 5004/2005, resa tra le parti, concernente risarcimento danni a seguito di annullamento concessione edilizia.
...
Occorre, quindi, ribadire che la richiesta risarcitoria avanzata in primo grado ha ad oggetto la lesione giuridica dell’interesse legittimo dell’odierno appellante in relazione al potere amministrativo illegittimamente esercitato. Si verte, in definitiva, in uno di quei casi di danno da provvedimento illegittimo favorevole. L’odierna appellante, infatti, invoca il risarcimento dei danni cagionati dall’adozione di un provvedimento satisfattivo della propria istanza procedimentale, ma illegittimo e per questo caducato in sede giurisdizionale con sentenza divenuta definitiva.
In assenza di accertamento in merito alla spettanza del bene della vita oggetto della concessione non vi è lesione dell’interesse pretensivo fatto valere dalla società. Pertanto, il presente appello deve essere respinto.
Nel percorso di valutazione del danno da lesione di interesse legittimo imputato a provvedimento illegittimo in assenza di una disciplina specifica occorre seguire le coordinate tipiche dell’illecito aquiliano. Pertanto, il primo passo da compiere è quello di verificare se si sia in presenza di un danno non jure e contra jus.
È noto, infatti, che nel passaggio dall’art. 1151 del codice civile del 1865 all’art. 2043 del codice civile del 1942 l’ingiustizia non qualifica più il fatto ma il danno, risultando abbandonata un’ottica improntata unicamente sul carattere sanzionatorio della responsabilità extracontrattuale. Ciò nonostante già nell’impero della vecchia disciplina, l’esegesi giurisprudenziale dominante richiedeva che il fatto ingiusto fosse altresì lesivo di una posizione giuridica soggettiva aliunde sancita.
Con il passaggio al nuovo paradigma normativo appare chiaro che: a) si abbandona l’idea della centralità della funzione sanzionatoria dell’illecito aquiliano; b) si fa strada l’idea dell’atipicità dei fatti illeciti; c) si inaugura il dibattito verso il riconoscimento di danni non più meramente patrimoniali; d) si sposta l’attenzione dal danneggiante al danneggiato.
Venendo più da vicino alla nozione di danno attualmente vigente deve rammentarsi come si contrappongano due impostazioni.
Secondo la prima il danno è ingiusto se non è giustificato, ossia se è prodotto in assenza di autorizzazione, quale può essere l’esercizio di un diritto o nel nostro caso l’esercizio legittimo di un potere amministrativo. Secondo quest’impostazione l’art. 2043 c.c., paradigma di riferimento anche nell’odierna controversia, rappresenta un sistema autosufficiente nel quale il danneggiante sopporta qualsiasi conseguenza negativa si verifichi nella sfera patrimoniale del danneggiato.
Seguendo questa via interpretativa sono risarcibili anche i danni economici puri. Pertanto, in assenza di una norma autorizzatrice il danno è valutato, calcolando la differenza tra l’ammontare del patrimonio del danneggiato prima e dopo il fatto illecito. Quest’approccio ha avuto certamente il merito di contribuire a risarcire il danno rispetto a fatti illeciti nei quali non appariva come immediatamente definibile la posizione giuridica incisa. Nasce in questo modo l’ambiguo danno all’integrità del patrimonio, utilizzato dalla Suprema Corte di Cassazione nel noto caso De Chirico.
Quest’impostazione appare, però, non meritevole di condivisione e già superata in relazione al danno dal lesione di interesse legittimo dalla stessa Corte di Cassazione nella celebre sentenza n. 500/1999. A ben vedere, infatti, il “danno” non può essere sine jure, sembrando più consono utilizzare tale locuzione per il “fatto”, potendo quest’ultimo risultare o meno autorizzato. Pertanto, per non tradire la chiara indicazione legislativa l’ingiustizia dovrà anche essere riferita al “danno”, che dovrà presentarsi come contra jus, avendosi in questo modo un doppio giudizio sia sulla condotta del danneggiante che sulla lesione di un bene giuridico del danneggiato.
Una simile scelta rassicura anche in ordine alla limitazione del potere creativo del Giudice, che troverà nel paradigma dell’art. 2043 c.c. non una clausola generale, ma una norma generale, nel senso che a fronte dell’atipicità dei fatti non jure, dovrà rintracciare comunque un danno contra jus, che sarà comunque tipico, poiché la risarcibilità resterà ancorata alla presenza di una posizione giuridica soggettiva precedentemente riconosciuta dall’ordinamento. Una simile opzione interpretativa del resto avvicina l’ordinamento italiano a quello tedesco ed a quello francese, che pur partendo da paradigmi normativi speculari, si caratterizzano per un diritto vivente che percorre traiettorie convergenti.
Così l’impostazione fortemente atipica che caratterizza l’esperienza francese è stata delimitata dall’interpretazione pretoria che ritiene necessaria la lesione di un interesse giuridicamente tutelato. Mentre l’impostazione fortemente tipizzata seguita all’interno dell’ordinamento tedesco è stata superata dalla giurisprudenza, forzando il dato letterale, per ammettere il risarcimento di danni diversi da quelli espressamente enumerati.
Esatte queste premesse la richiesta risarcitoria della Società appellante non può essere accolta, perché il riscontro della pretesa in esame supera solo il primo sbarramento legato all’ingiustizia del danno, ossia quello legato alla presenza di un danno (rectius, un fatto) non jure. Infatti, è stato appurato con sentenza irrevocabile che il potere amministrativo è stato utilizzato in modo illegittimo. L’amministrazione, pertanto, ha posto in essere una condotta non autorizzata.
È il secondo passo, invece, a non poter essere compiuto. Non si apprezza nella controversia in esame la lesione dell’interesse legittimo dell’appellante. Infatti, proprio la sentenza invocata da quest’ultimo per provare il fatto ingiusto ha accertato l’assenza di un danno ingiusto, perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo. Tanto che l’amministrazione, qualora avesse posto in essere una condotta jure avrebbe dovuto respingere l’istanza di concessione edilizia.
Si tratta, in definitiva, di una conclusione che appare in linea con la direttrice tracciata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 6596/2011, che fa derivare l’assenza di giurisdizione del g.a. dinanzi ad una richiesta risarcitoria per un danno derivato al destinatario di un provvedimento illegittimo favorevole, dalla circostanza che il rimprovero mosso all’amministrazione da parte dell’odierno ricorrente, non ha ad oggetto l’esercizio illegittimo del potere, consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la condotta colposa, consistita nell'avere orientato l’odierna appellante verso comportamenti negoziali, che, altrimenti, non avrebbe tenuto.
Non è, in definitiva, riscontrabile nella fattispecie la lesione dell’interesse legittimo azionato dall’odierno appellante.
Le suddette considerazioni consentono di tralasciare la delicata questione inerente l’esegesi dell’art. 1227 c.c., giacché si tratta di un passo ancora successivo, che si sarebbe dovuto compiere solo qualora si fosse riconosciuta la sussistenza di un danno non jure e contra jus. Non appare, infatti, utile operare un accertamento sulla valenza causale del comportamento del creditore-danneggiante, qualora si accerti che difetta in capo a quest’ultimo la lesione della posizione giuridica azionata.
Il presente appello deve, pertanto, essere respinto e la disciplina delle spese deve ispirarsi al principio della soccombenza nei sensi indicati in motivazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

PATRIMONIO: Valutazione dei rischi e gestione della sicurezza nelle scuole: dall’Inail il manuale completo.
L’Inail in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca ha pubblicato un utile manuale (giugno 2013) sulla valutazione dei rischi e gestione della sicurezza nelle scuole.
Il volume, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado, fornisce modelli, procedure e regolamenti per una buona gestione della sicurezza in ambito scolastico, in base alle recenti disposizioni legislative.
Obiettivo della pubblicazione è quello di favorire la conoscenza della sicurezza nelle scuole, sia sul piano educativo che formativo ed offrire un utile strumento a docenti, personale dirigente e consulenti per la sicurezza per un’efficace individuazione, valutazione e gestione dei rischi.
Il documento affronta tutte le tipologie di rischio presenti negli ambienti e negli spazi in cui si svolgono le attività scolastiche e tratta i diversi aspetti legati alla sicurezza, tra cui segnaliamo:
normativa in materia di sicurezza nella scuola
processo di valutazione dei rischi e di individuazione delle misure di prevenzione
problematiche strutturali e di igiene ambientale
gestione degli agenti chimici
gestione del rischio fisico
gestione del rischio biologico
dispositivi di protezione individuale
aspetti ergonomici
benessere organizzativo e gestione dello stress lavoro-correlato
gestione degli infortuni e delle malattie professionali
sorveglianza sanitaria
rischi per le lavoratrici madri
informazione, formazione e addestramento
gestione delle emergenze
gestione del primo soccorso
E’ presente anche un utile glossario con i termini della sicurezza (16.01.2014 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Lampadine fluorescenti, alogene, a led: la guida su come scegliere la lampada giusta per ogni esigenza.
Messe da parte le tradizionali lampadine ad incandescenza, il mercato propone svariate tipologie con nuove etichettature; dal primo settembre 2013, infatti, sono entrate in vigore le nuove etichette per lampadine, rispondenti al regolamento europeo 874/2012.
Cosa indicano? Come sono? Quale lampadina acquistare?
Per aiutare i consumatori ad orientarsi verso un acquisto più consapevole ed un impiego più corretto proponiamo la guida “Scegli la lampadina giusta”, realizzata dalla Camera di Commercio di Milano in collaborazione con il Comitato Elettrico Italiano (CEI).
Scopo della pubblicazione è quello di fornire a tecnici e consumatori consigli ed informazioni sulle caratteristiche e terminologie delle lampadine di nuova generazione, relativamente a:
significato di lumen
lettura dell’etichetta energetica
procedure di smaltimento
tipologia di attacco
modifica dell’intensità di una fonte luminosa
Viene proposto anche un video esplicativo (16.01.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, dicembre 2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Legge di stabilità 2014 – n. 147 del 27.12.2013. Principali misure di natura fiscale di interesse per il settore edile (ANCE Bergamo, circolare 17.01.2014 n. 23).

VARI: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale: anno 2014 (ANCE Bergamo, circolare 17.01.2014 n. 21).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: DM 143/2013 - Regolamento recante determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all'architettura ed all'ingegneria (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 14.01.2014 n. 313).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Quesiti interpretativi urgenti in merito all'art. 17-bis della legge n. 90 del 03.08.2013 (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 18.12.2013 n. 24957 di prot. - tratto da www.acca.it).
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Caldaia e scarico a parete, ecco i chiarimenti del Ministero.
Il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) in risposta a un quesito posto fornisce chiarimenti sulle caldaie che possono essere installate in deroga all’obbligo di evacuazione dei prodotti della combustione con sbocco sopra il tetto.
Inoltre, precisa che (in base all’art. 5, comma 9-ter del D.P.R. 412/1993) i generatori di calore che sono stati installati successivamente al 31.08.2013 devono possedere le seguenti caratteristiche:
un rendimento termico utile maggiore o uguale a 90+2log (Pn), in corrispondenza di un carico termico pari al 100% della potenza termica utile nominale;
appartenere alla classe 4 o 5, secondo la classificazione relativa alle emissioni di NOx indicata dalla norma UNI EN 297, UNI EN 483 e UNI EN 15502 (16.01.2014 - Ministero dello Sviluppo Economico, nota 18.12.2013 n. 24957 di prot. - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 18.01.2014 n. 14 "Riduzione degli obiettivi programmatici del patto di stabilità interno per l’anno 2013 delle province e dei comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, in attuazione dell’articolo 1, comma 122, della legge 13.12.2010, n. 220" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 30.10.2013).

APPALTI SERVIZI: G.U. 17.01.2014 n. 13 "Criteri ambientali minimi per l’affidamento del servizio di gestione del verde pubblico, per acquisto di Ammendanti - aggiornamento 2013, acquisto di piante ornamentali e impianti di irrigazione (Allegato 1) e forniture di attrezzature elettriche ed elettroniche d’ufficio - aggiornamento 2013 (Allegato 2)" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 13.12.2013).

APPALTI: Mercoledì 15.01.2014 il Parlamento europeo, in seduta plenaria ha approvato tre nuove direttive e precisamente quelle relative ad appalti pubblici e servizi in sostituzione delle due direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE e la nuovissima direttiva concessioni.
Alleghiamo alla presente notizia le tre direttive nel testo approvato dal Parlamento europeo, precisando che si tratta:
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici (COM (2011) 896 def.) che sostituirà la Direttiva 2004/18/CE;
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali (COM (2011) 895 def.) che sostituirà la direttiva 2004/17/CE;
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'aggiudicazione dei contratti di concessione (COM (2011) 897 def.).
I prossimi passaggi saranno quelli dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri Ue, che rappresenta gli stati membri, e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea. E’ presumibile, quindi, che tutto si concluda entro il prossimo mese di febbraio e che gli Stati membri saranno, quindi, obbligati, nei successivi 24 mesi a recepire le nuove disposizioni nella legislazione nazionale.
Si profila, quindi, un nuovo e pesante intervento sul Codice dei Contratti e sul Regolamento.
Sul sito del parlamento Europeo viene precisato che le nuove direttive in materia di appalti pubblici e concessioni garantiranno una qualità e un rapporto qualità-prezzo migliori. Sarà inoltre più facile per le piccole e medie imprese presentare offerte mentre le nuove regole contengono disposizioni più severe in materia di subappalto.
Le nuove direttive modificano le norme attuali sugli appalti pubblici comunitari e per la prima volta, sono stabilite norme comuni UE in materia di contratti di concessione (commento tratto da www.lavoripubblici.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATAChiarimenti in ordine al regime giuridico degli attestati di prestazione energetica con riferimento ai contratti di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione (Camera dei Deputati, question-time del 15.01.2014, interrogazione n. 3-00557 del Deputato Manfred Schullian).
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Si legga l'interrogazione e la relativa risposta a pag. 68.

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Incarichi di studio e consulenza.
In materia di spesa per incarichi di studio e consulenza, gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia applicano le disposizioni statali, in particolare, per gli anni 2014 e 2015, il disposto di cui all'art. 1, commi 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013, come avvalorato dall'intervenuta abrogazione, ai sensi della legge finanziaria regionale per il 2014, dell'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, nonché dell'art. 14, comma 11, lett. c), della l.r. 27/2012.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al conferimento di un incarico di studio e consulenza. In particolare, l'Ente si è posto la questione attinente al limite di spesa previsto dal legislatore nazionale nel d.l. 101/2013, art. 1, comma 5.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprime quanto segue.
Il comma 5 del citato art. 1, come modificato dalla legge di conversione 30.10.2013, n. 125, prevede che la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT, non può essere superiore, per l'anno 2014 all'80 per cento del limite di spesa per l'anno 2013 e, per l'anno 2015, al 75 per cento dell'anno 2014 così come determinato dall'applicazione delle disposizioni di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010, convertito con modificazioni in l.122/2010. Secondo quest'ultima previsione, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009.
Si ritiene che la normativa statale in argomento sia applicabile alle amministrazioni locali della Regione Friuli Venezia Giulia, anche alla luce dell'intervenuta abrogazione delle norme regionali disciplinanti la materia.
Al riguardo si rileva che l'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010 (finanziaria 2011), stabiliva che il rispetto delle disposizioni di principio che prevedono il contenimento di alcune componenti di spesa, previste da alcune norme del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, tra le quali anche l'art. 6, comma 7 richiamato, concernente la spesa per gli incarichi in oggetto, 'è garantito per gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia con il conseguimento degli obiettivi in materia di coordinamento della finanza pubblica contenuti nell'art. 12 della legge regionale 30.12.2008, n. 17 (Legge finanziaria 2009) e successive modifiche'.
In particolare, l'art. 12, comma 19, lett. b-bis, della citata l.r. 17/2008, prevedeva che, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità, gli enti nell'esercizio successivo 'non possono sostenere spese per studi e incarichi di consulenza, incluse quelle relative a studi e incarichi di consulenza relativi a pubblici dipendenti, (...) in misura superiore al 50 per cento della media delle spese sostenute allo stesso titolo nel triennio precedente'.
Al riguardo si precisa che il comma 19 in argomento, che, secondo quanto previsto dalla l.r. 22/2010, trovava applicazione per gli enti locali della Regione in luogo dell'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010, è stato successivamente abrogato dall'art. 14, comma 27, della l.r. 27/2012.
Peraltro il contenuto del comma 19 era stato riprodotto dal medesimo articolo 14, al comma 11, lett. c).
Da ultimo è intervenuto l'art. 14, comma 22, della legge regionale 27.12.2013, n. 23 (Legge finanziaria 2014)
[1], che ha abrogato sia la disposizione di cui al richiamato art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, sia la disposizione di cui all'art. 14, comma 11, lett. c), della L.R. 27/2012.
Pertanto, anche per gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, per gli anni 2014 e 2015, trova applicazione il disposto di cui all'art. 1, comma 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013.
Atteso che, ai sensi del comma 9 dell'art. 1, del d.l. 101/2013, le disposizioni del medesimo articolo 'costituiscono norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della Costituzione, nonché principi di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, il legislatore regionale ha ritenuto di procedere all'abrogazione di norme non più coerenti con il quadro normativo statale, nel frattempo delineatosi, in vista di addivenire alla redazione di una disciplina organica in materia di contenimento della spesa.
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[1] Pubblicata nel supplemento ordinario n. 1 del 07.01.2014 al B.U.R. n. 1 del 02.01.2014 (13.01.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Personale degli enti locali. Incarichi di studio e consulenza.
In materia di spesa per incarichi di studio e consulenza, gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia applicano le disposizioni statali, in particolare, per gli anni 2014 e 2015, il disposto di cui all'art. 1, commi 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013, come avvalorato dall'intervenuta abrogazione, ai sensi della legge finanziaria regionale per il 2014, dell'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, nonché dell'art. 14, comma 11, lett. c), della l.r. 27/2012.
Il Comune, in ordine alle limitazioni di spesa per il conferimento di incarichi di studio e consulenza, si è posto la questione dell'applicabilità, agli enti locali del Friuli Venezia Giulia, delle disposizioni previste dal legislatore nazionale nel decreto legge 31.08.2013, n. 101, art. 1, commi 5, 5-bis e 6. L'Ente chiede inoltre se, con riferimento alla locuzione 'spese sostenute' a tale titolo, vadano considerate le spese impegnate o quelle effettivamente liquidate.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprime quanto segue.
Il comma 5 del citato art. 1, come modificato dalla legge di conversione 30.10.2013, n. 125, prevede che la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT, non può essere superiore, per l'anno 2014 all'80 per cento del limite di spesa per l'anno 2013 e, per l'anno 2015, al 75 per cento dell'anno 2014 così come determinato dall'applicazione delle disposizioni di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010, convertito con modificazioni in l. 122/2010. Secondo quest'ultima previsione, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009.
Si ritiene che la normativa statale in argomento sia applicabile alle amministrazioni locali della Regione Friuli Venezia Giulia, anche alla luce dell'intervenuta abrogazione delle norme regionali disciplinanti la materia.
Al riguardo si rileva che l'art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010 (finanziaria 2011), stabiliva che il rispetto delle disposizioni di principio che prevedono il contenimento di alcune componenti di spesa, previste da alcune norme del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010, tra le quali anche l'art. 6, comma 7 richiamato, concernente la spesa per gli incarichi in oggetto, 'è garantito per gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia con il conseguimento degli obiettivi in materia di coordinamento della finanza pubblica contenuti nell'art. 12 della legge regionale 30.12.2008, n. 17 (Legge finanziaria 2009) e successive modifiche'.
In particolare, l'art. 12, comma 19, lett. b-bis, della citata l.r. 17/2008, prevedeva che, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità, gli enti nell'esercizio successivo 'non possono sostenere spese per studi e incarichi di consulenza, incluse quelle relative a studi e incarichi di consulenza relativi a pubblici dipendenti, (...) in misura superiore al 50 per cento della media delle spese sostenute allo stesso titolo nel triennio precedente'.
Al riguardo si precisa che il comma 19 in argomento, che, secondo quanto previsto dalla l.r. 22/2010, trovava applicazione per gli enti locali della Regione in luogo dell'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010, è stato successivamente abrogato dall'art. 14, comma 27, della l.r. 27/2012.
Peraltro il contenuto del comma 19 era stato riprodotto dal medesimo articolo 14, al comma 11, lett. c).
Da ultimo è intervenuto l'art. 14, comma 22, della legge regionale 27.12.2013, n. 23 (Legge finanziaria 2014)
[1], che ha abrogato sia la disposizione di cui al richiamato art. 12, comma 10, della l.r. 22/2010, sia la disposizione di cui all'art. 14, comma 11, lett. c), della L.R. 27/2012.
Pertanto, anche per gli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, per gli anni 2014 e 2015, trova applicazione il disposto di cui all'art. 1, comma 5 e 5-bis, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013.
Atteso che, ai sensi del comma 9 dell'art. 1, del d.l. 101/2013, le disposizioni del medesimo articolo 'costituiscono norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della Costituzione, nonché principi di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione', il legislatore regionale ha ritenuto di procedere all'abrogazione di norme non più coerenti con il quadro normativo statale, nel frattempo delineatosi, in vista di addivenire alla redazione di una disciplina organica in materia di contenimento della spesa.
In relazione, infine, al quesito attinente alla locuzione 'spese sostenute', si ritiene che la medesima vada interpretata nel senso di spesa impegnata, considerato che i bilanci degli enti locali sono redatti in termini di competenza
[2].
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[1] Pubblicata nel supplemento ordinario n. 1 del 07.01.2014 al B.U.R. n. 1 del 02.01.2014.
[2] Si segnala, al riguardo, che nella circolare n. 2/2013 del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, in relazione alle norme di contenimento della spesa, ivi prese in esame, si è chiarito che «ai fini della quantificazione dei limiti massimi di spesa introdotti dalle norme di contenimento di seguito richiamate, laddove si fa riferimento alla 'spesa sostenuta' in un determinato esercizio, deve intendersi tale la spesa impegnata nell'esercizio di competenza e non anche le somme erogate nel predetto esercizio ma di pertinenza di esercizi pregressi». Si ritiene, pertanto, che tale interpretazione debba coerentemente valere anche in relazione alla disposizione di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 101/2013
(13.01.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla possibilità di rilascio di permesso di costruire per realizzare una struttura commerciale all'interno della fascia di rispetto cimiteriale ridotta - Comune di Sezze (Regione Lazio, parere 08.01.2014 n. 72675 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAParere in merito all'interpretazione del d.P.R. 139/2010, allegato 1, punto 38, concernente l'occupazione temporanea del suolo soggetta ad autorizzazione paesaggistica semplificata - Quesito all'Ufficio Legislativo del MIBACT (Regione Lazio, parere 08.01.2014 n. 6976 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto di accesso dei consiglieri comunali ad atti di polizia giudiziaria e dell'anagrafe
In relazione alla richiesta di accesso a particolari atti, quali gli atti dell'anagrafe, dello stato civile (ad es. estratti di atti di matrimonio) o le liste elettorali, il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto che il diritto di accesso dei consiglieri deve essere comunque coordinato con la speciale disciplina che attiene a tali atti e che resta soggetta a specifiche disposizioni.
L'accesso dei consiglieri comunali è consentito anche quando si tratti di dati sensibili, ma soltanto se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico e di sindacato ispettivo, restando ferma la necessità che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato.
Per quanto concerne l'accesso agli atti di polizia giudiziaria sussiste, in generale, un divieto di ostensione degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine al diritto di accesso di un consigliere comunale, con particolare riferimento all'esibizione e al rilascio di copia di atti di polizia giudiziaria, di natura personale e atti relativi all'anagrafe.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
La disciplina di riferimento si trova nell'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale prevede che 'i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificatamente determinati dalla legge.'
Esiste una consolidata giurisprudenza sulla questione, che riconosce ai consiglieri comunali un incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato.
Un tanto al fine di permettere loro di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Di conseguenza, sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i proprio uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale
[1].
La norma sul diritto di accesso dei consiglieri comunali si pone, pertanto, come speciale e trasversale rispetto alle disposizioni relative alla non accessibilità di determinate categorie di documenti, tanto che tale diritto non incontra alcuna limitazione derivante dalla natura riservata delle informazioni richieste, posto che il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto.
Tuttavia, pur trattandosi di un diritto di accesso più ampio rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei cittadini, l'esercizio dello stesso deve sempre essere strumentale all'attività istituzionale svolta dal consigliere e i dati acquisiti devono essere utilizzati per le sole finalità collegate all'esercizio del mandato.
Ne discende che il consigliere non può utilizzare le informazioni e i documenti richiesti per fini privati o comunque diversi da quelli istituzionali, non può avvalersi del diritto di accesso al solo scopo di realizzare strategie ostruzionistiche, con istanze ripetute, che a causa del loro numero possano tradursi in un aggravio, se non nella paralisi, del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte.
Si osserva che, per quanto concerne la questione dell'accesso al protocollo comunale, la giurisprudenza ritiene 'il registro di protocollo generale dell'amministrazione locale pienamente riconducibile alle categorie dei documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a fornire notizie e informazioni utili all'espletamento del mandato dei consiglieri comunali, non essendo ammissibile imporre loro di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare, giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso'.
[2]
Ciascun ente locale, nell'esercizio della propria potestà regolamentare, disciplina specificamente le modalità concrete di esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri. E' opportuno che tali disposizioni perseguano quale fine ultimo il contemperamento delle esigenze di funzionalità dell'amministrazione -che può regolare l'esercizio di tale accesso, stabilendo, per esempio, le giornate, le fasce orarie, le modalità di estrazione delle copie- con la garanzia del diritto di accesso del consigliere comunale, che non può mai essere reso ingiustificatamente difficoltoso dalle stesse prescrizioni.
Si ribadisce, ad ogni modo, che generalmente il diritto del consigliere comunale non incontra alcuna limitazione derivante dalla natura riservata delle informazioni richieste, posto che il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto e al divieto di divulgare i dati personali dei quali è venuto a conoscenza.
Peraltro, con specifico riferimento alla richiesta di accesso a particolari atti, quali gli atti dell'anagrafe, dello stato civile (ad es. estratti di atti di matrimonio) o le liste elettorali, si osserva che il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto che il diritto di accesso dei consiglieri deve essere comunque 'coordinato con la speciale disciplina che attiene agli atti anagrafici, allo stato civile e alle liste elettorali, e che resta soggetta a specifiche disposizioni.'
[3].
Il Garante ha evidenziato che l'accesso da parte dei consiglieri comunali è consentito anche qualora si tratti di dati sensibili
[4], ma soltanto se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico e di sindacato ispettivo, restando ferma la necessità che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato.
Il Garante si è pronunciato, inoltre, affermando che Comuni e Province devono permettere l'accesso ai dati personali effettivamente utili nel rispetto dei principi enunciati all'articolo 11, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 196/2003, secondo il quale ciascuna amministrazione deve identificare e rendere pubblici, secondo i rispettivi ordinamenti, i dati nell'osservanza dei criteri di essenzialità, pertinenza e compatibilità con le finalità perseguite.
[5]
Al riguardo, si segnala che il Garante ha, anche recentemente, affermato che 'l'amministrazione destinataria dell'istanza, cui spetta entrare nel merito della valutazione della richiesta -eventualmente sindacabile dal giudice amministrativo- essendo l'unico soggetto competente ad accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa del consigliere all'ottenimento delle informazioni ratione officii, è tenuta a rispettare i principi di pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati e, quando la richiesta di accesso riguarda dati sensibili, la loro indispensabilità, consentendo nei singoli casi l'accesso alle sole informazioni che risultano indispensabili per lo svolgimento del mandato (artt. 11 e 12 del Codice)'
[6].
Per quanto concerne l'accesso agli atti di polizia giudiziaria, si osserva che in generale sussiste un divieto di ostensione degli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, come disciplinato nell'articolo 329 'Obbligo del segreto' del c.p.p..
Si fa, comunque, rilevare che una recente sentenza del Consiglio di Stato ha ulteriormente specificato quanto segue: 'Non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla p.a. nell'esercizio delle proprie funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'articolo 329 del c.p.p.; tuttavia se la p.a. che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificatamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'articolo 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso...
[7]'.
---------------
[1] TAR Salerno, sez. II, del 04/06/2013, n. 1234; TAR Salerno, sez. I, del 19/12/2011, n. 2042; TAR Trento sez. I, del 07/05/2009, n. 143; TAR Torino, sez. II, del 04/12/2006, n. 3324.
[2] TAR Parma, 26/01/2006, n. 28; TAR L'Aquila, 16/12/2004, n. 1100; TAR Milano, sez. I. 26/05/2004, n. 1762.
[3] Cfr. il parere del 20.05.1998. Anche nel successivo parere del 09.06.1998, il Garante ha affermato che 'Resta fermo l'obbligo del segreto nei soli casi espressamente previsti dalla legge, come, ad esempio, nel settore delle indagini penali per ciò che riguarda la segretezza della corrispondenza e delle conversazioni, così come per i limiti contenuti nelle leggi sugli atti anagrafici, lo stato civile e le liste elettorali.'. Al riguardo, si riporta, per la parte d'interesse, l'art. 177 del d.lgs. 196/2003: "Art. 177 (Disciplina anagrafica, dello stato civile e delle liste elettorali).
1. Il comune può utilizzare gli elenchi di cui all'articolo 34, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30.05.1989, n. 223, per esclusivo uso di pubblica utilità anche in caso di applicazione della disciplina in materia di comunicazione istituzionale.
(omissis)
3. Il rilascio degli estratti degli atti dello stato civile di cui all'articolo 107 del decreto del Presidente della Repubblica 03.11.2000, n. 396 è consentito solo ai soggetti cui l'atto si riferisce, oppure su motivata istanza comprovante l'interesse personale e concreto del richiedente a fini di tutela di una situazione giuridicamente rilevante, ovvero decorsi settanta anni dalla formazione dell'atto.
(omissis)
5. Nell'articolo 51 del decreto del Presidente della Repubblica 20.03.1967, n. 223, il quinto comma è sostituto dal seguente: "Le liste elettorali possono essere rilasciate in copia per finalità di applicazione della disciplina in materia di elettorato attivo e passivo, di studio, di ricerca statistica, scientifica o storica, o carattere socio-assistenziale o per il perseguimento di un interesse collettivo o diffuso.".
[4] Ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. d), del d.lgs. 196/2003, sono tali 'i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale'.
[5] Cfr. parere del Garante per la protezione dei dati personali 08.02.2001, in cui si precisa inoltre che tali dati non possono essere usati per scopi di propaganda elettorale.
[6] Cfr. parere del 25.07.2013.
[7] Consiglio di Stato, Sezione VI, del 29/01/2013, n. 547
(08.01.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ INCOMPATIBILITÀ/ Decadenza con garanzie. Va dato tempo per rimuovere le cause ostative. Il consiglio deve assicurare il diritto di difesa
L'organo consiliare di un ente è competente a valutare l'incompatibilità a carico di un consigliere comunale, ai sensi dell'art. 67-quater, comma 11, del dl 22/06/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, considerato che il comune in questione non rientra tra quelli individuati con decreto del commissario delegato ai sensi del dpcm del 6 aprile 2009?

Nel caso di specie è applicabile l'art. 67-quater, comma 11, del dl 22/06/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134, tenuto conto di quanto previsto dall'art. 1, comma 3, del dl 29/10/2009, n. 39, convertito con modificazioni, dalla legge 24/06/2009, n. 77, laddove dispone che i finanziamenti possono anche interessare beni localizzati al di fuori dei comuni del cosiddetto «cratere», in presenza di un nesso di casualità diretto tra danno subito e evento sismico, comprovato da apposita perizia giurata.
In conformità al principio generale secondo cui ogni organo collegiale delibera sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, l'effettiva verifica della presenza di una causa ostativa all'espletamento del mandato va compiuta con la procedura consiliare prevista dall'art. 69 del dlgs 18/08/2000, n. 267, che garantisce il corretto contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto alla difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa d'incompatibilità contestata. Avverso le delibere consiliari che pronunciano la decadenza di un amministratore è ammesso, ai sensi del comma 5 dell'art. 69 citato, ricorso giurisdizionale al tribunale competente per territorio.
Nella fattispecie, il consiglio comunale ha adottato una delibera che non risulta essere stata impugnata dall'interessato. Quanto alle presunte incompatibilità del sindaco e di un assessore dell'ente, nel richiamare il principio cui si è fatto cenno in precedenza, si soggiunge che la decadenza delle relative funzioni può essere promossa, ai sensi dell'art. 70 del dlgs 18/08/2000, n. 267, da qualsiasi cittadino elettore del comune o da chiunque altro vi abbia interesse davanti al tribunale civile (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Spese legali.
È possibile rimborsare spese e competenze legali relative alla difesa in un procedimento penale presso il tribunale ordinario nonché davanti al tribunale penale, in composizione collegiale, di diversi ex amministratori dei un comune, tutti imputati nel medesimo procedimento per atti compiuti nell'esercizio del proprio mandato e assolti con sentenza passata in giudicato?

Nell'ordinamento vigente non si rinvengono norme che prevedono la possibilità di rimborsare agli amministratori locali le spese legali sostenute per giudizi instaurati in relazione a fatti asseritamente posti in essere nell'esercizio delle proprie funzioni.
In passato, parte della giurisprudenza aveva ritenuto di poter estendere in via analogica agli amministratori locali la normativa che consente tale rimborso per i dipendenti degli enti locali, sulla base dell'avverarsi di alcuni presupposti, quali la sussistenza di una connessione con i compiti d'ufficio dei fatti oggetto del processo penale, la mancanza di conflitto di interessi con l'amministrazione di appartenenza, nonché la conclusione del processo penale con una sentenza di assoluzione.
Secondo indirizzi ermeneutici più recenti, la possibilità di tale ricorso all'analogia nella materia in questione è preclusa. La Corte dei conti, con la più recente sentenza n. 165 del 15/10/2012, ha confermato tale orientamento, ritenendo anche non condivisibile la tesi dell'applicabilità, con il ricorso al procedimento analogico, dell'art. 1720 del codice civile nella parte in cui dispone che «il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico» (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALICorte conti: i municipi devono risparmiare almeno il 20%. Nuovi enti strumentali solo riducendo i costi.
Gli enti locali non possono costituire nuovi enti strumentali, né aderire ad enti già costituiti, se non garantiscono una riduzione dei costi almeno pari al 20%. Per gli enti che in passato non abbiano sostenuto spese analoghe, il divieto è assoluto.

Lo ha affermato la Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, nel parere 21.11.2013 n. 129, chiarendo la portata dell'art. 9, comma 1 e 6, del dl 95/2012.
La prima disposizione ha previsto che «al fine di assicurare il coordinamento e il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento della spesa e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative, le regioni, le province e i comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20%, enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali o (altre) funzioni amministrative». Ai sensi del comma 6, invece, «è fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite».
In precedenza, su tale disciplina si era pronunciata la Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 236/2013 ne ha fornito un'interpretazione costituzionalmente orientata ritenendo legittimo il divieto di cui al comma 6 solo se teleologicamente connesso agli obiettivi di riduzione della spesa di cui al precedente comma 1. Ne deriva che il divieto di istituire nuovi enti strumentali opera solo nei limiti della necessaria riduzione del 20% dei costi relativi al loro funzionamento, così che se, complessivamente, le spese restano al di sotto dell'80% dei precedenti oneri finanziari, esso non opera.
In questa prospettiva, restava incerta la situazione degli enti che non abbiano, in passato, sostenuto spese del genere. Il parere dei giudici contabili umbri risolve i dubbi sostenendo che in tali casi non è consentita né la costituzione di nuovi organismi né l'adesione a entità già esistenti. Diversamente, gli oneri, quand'anche di modesta consistenza, si configurerebbero come del tutto nuovi e quindi, nel rapporto percentuale con quelli precedenti, finirebbero per avere il valore assoluto del 100%, violando la lettera e lo scopo delle norme citate.
Si tratta di una lettura assai più restrittiva di quella fornita dalla Corte dei conti rispetto ad altre norme di analogo tenore. Per esempio, la sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere n. 227/2011), chiamata a pronunciarsi sull'art. 6, comma 7, del dl 78/2010, che ha limitato la spesa per consulenze al 20% di quella fatta registrare da ciascun ente nel 2009, ha affermato che, laddove in tale anno la spesa fosse stata pari a 0, è necessario riferirsi a un diverso parametro di riferimento (nel caso di specie individuato nella spesa strettamente necessaria per gli incarichi assolutamente necessari).
Ciò in quanto il legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando ne ricorrono i presupposti di legge e sarebbe scorretto penalizzare proprio le amministrazioni che in passato ne hanno contenuto il numero. Analoghe argomentazioni sembrano valere anche per le norme oggetto del parere in commento, per cui pare auspicabile un ripensamento da parte della magistratura contabile (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFormazione. Via libera agli sforamenti. L'anticorruzione evita i tetti di spesa.
La centralità della formazione nell'ambito delle procedure volte a prevenire la corruzione e l'illegalità nella Pubblica amministrazione consente agli enti di derogare dal vincolo di spesa ordinariamente previsti.

Si trattava di capire se, anche in tema di anticorruzione, si dovesse applicare l'articolo 6, comma 13, del Dl. 78/2010, per il quale il budget destinato annualmente alla formazione non può superare il 50% della spesa 2009.
Sul punto, gli orientamenti delle Corte dei Conti regionali ritenevano la norma immediatamente applicabile a meno che si trattasse di un'attività formativa richiesta ex lege e, quindi, avulsa dal potere discrezionale dell'ente (Friuli Venezia Giulia, delibera n. 106/2012, e Lombardia, delibera n. 116/2011). Riprendendo queste posizioni, la sezione dell'Emilia Romagna, con il
parere 20.11.2013 n. 276, ricostruisce il contesto nel quale si inserisce la disciplina anticorruzione.
Gli adempimenti in materia prevedono numerosi momenti formativi. Un primo obbligo è stabilito in capo al responsabile dell'anticorruzione nella predisposizione del piano triennale. È previsto, infatti, che, entro il 31 gennaio di ogni anno il responsabile definisca procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti che operano nei settori a più alto rischio. Inoltre devono essere identificati programmi rivolti a tutti i dipendenti sui temi dell'etica e della legalità. Il doppio livello di intervento è confermato nel piano nazionale. Infine, anche per quanto riguarda il codice di comportamento, le Pa sono obbligate a organizzare percorsi formativi volti alla conoscenza e alla corretta applicazione.
Ritornando al piano nazionale, quel documento evidenzia come il coinvolgimento di tutta la struttura rappresenta un elemento imprescindibile per ridurre il rischio che l'illecito sia commesso inconsapevolmente e per precostituire le basi necessarie all'attuazione di un secondo pilastro della norma, vale a dire la rotazione del personale.
Il quadro delineato non può che portare alla conclusione della obbligatorietà della formazione in tema di anticorruzione. Obbligatorietà che non solo trova conferma nelle responsabilità dirigenziali in caso di comportamenti omissivi su questo aspetto, ma che gioca un ruolo determinante quando sia accertato, con sentenza passata in giudicato, un reato in materia di corruzione. In questa fattispecie, il responsabile anticorruzione potrà discolparsi solo se dimostra di aver adempiuto agli obblighi formativi, oltre all'aver adottato il piano triennale e aver vigilato sull'applicazione dello stesso.
Concludendo, la formazione in campo anticorruzione, essendo obbligatoria e non discrezionale, non viene intaccata dal limite previsto dall'articolo 6, comma 13, del Dl 78/2010. In modo analogo, sono escluse le spese di formazione inerenti la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALINon può essere corrisposta l'indennità di fine mandato al Sindaco che ha rinunciato all’indennità di funzione.
Il Comune di Musile di Piave con la nota indicata in epigrafe, chiede il parere di questa Corte sull'ambito di applicazione dell'art. 6, comma 12, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito in legge con la legge 30.07.2010, n. 122, recante: "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”.
Il Sindaco nella suddetta richiesta di parere premette che ”a seguito dell'elezione alla carica di deputato avvenuta nel maggio 2008, (…) formalizzava la rinuncia alla indennità di funzione spettanti come Sindaco ai sensi dell'art. 82 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (Tuel).
Ciò nonostante l'art. 83 del Tuel sancisca espressamente il divieto di cumulo delle indennità unicamente nel caso di cariche incompatibili, e non è questo il caso dato che il Comune di Musile ha una popolazione inferiore ai 20.000 abitanti (precisamente abitanti 11.578).
A tal fine ricorda che L'art. 82, comma 8, lett. f), del citato Tuel, stabilisce altresì, tra i criteri da rispettare nella determinazione dell'indennità di funzione in parola, la previsione dell'integrazione dell'indennità dei Sindaci, a fine mandato, con una somma pari ad una indennità mensile spettante per ciascun anno di mandato
”.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede il parere di questa Corte circa “la possibilità da parte del Sindaco di percepire alla fine del mandato, la relativa indennità, pur avendo rinunciato all'indennità di funzione a seguito dell’elezione a parlamentare della Repubblica.
...
Nel caso di specie, il parere richiesto concerne la corresponsione di un’indennità di fine mandato nel caso di avvenuta rinuncia alla percezione dell’indennità di funzione, con evidenti riflessi sul piano contabile e finanziario dell’ente.
La Sezione richiama preliminarmente il testo della norma invocata (art. 82 del TUEL), che così recita: ”La misura delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza di cui al presente articolo è determinata, senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali nel rispetto dei seguenti criteri: (…) lett. f) a fine mandato, l’indennità dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia è integrata con una somma pari ad un’indennità mensile spettante per 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all’anno”.
L’articolo 10 del Decreto del Ministro dell’Interno n. 119 del 04.04.2000 riprende quanto già previsto nella norma appena citata del TUEL, precisando ulteriormente che tale importo è proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all'anno.
Già dal tenore testuale del comma 8, lett. f), del più volte citato art. 82 che parla espressamente di “integrazione dell'indennità dei sindaci e dei presidenti di provincia, a fine mandato, con una somma pari a una indennità mensile, spettante per ciascun anno di mandato” si ricava che la disposizione fa esplicito riferimento alla indennità effettivamente corrisposta. La circolare del Ministero dell’interno 05.06.2000, n. 5/2000, ha al riguardo confermato che detta indennità di fine mandato, spettante a sindaci e presidenti di provincia, va commisurata al compenso “effettivamente corrisposto”, ferma restando la riduzione proporzionale per periodi inferiori all'anno; ed anzi, in caso di rielezione del Sindaco, va corrisposta alla fine del primo mandato (Parere 09/02/2009 prot. n. 15900 /TU/82 del Ministero dell’Interno) a valere sul bilancio dell’esercizio nel quale si verifica la conclusione, prevedendo il necessario adeguamento dello stanziamento relativo alle indennità di funzione.
Della stessa norma peraltro è stata esaminata anche la portata sul piano sostanziale, deducendo parimenti che le disposizioni appena richiamate non prevedono la corresponsione, a fine mandato, di un’autonoma e diversa indennità, bensì di una mera integrazione all’indennità di funzione eventualmente percepita.
La giurisprudenza di questa Corte, in linea con la ricostruzione sin qui operata, ha affermato che tale interpretazione sarebbe sostenuta, oltre che dalla lettera della norma, dal criterio dettato per la computazione dell’integrazione medesima sopra riferito, deducendo altresì che la rinuncia all’indennità di funzione per la carica di sindaco (o di presidente di provincia) comporta automaticamente la rinuncia all’integrazione della stessa a fine mandato, integrazione che, del resto, per la sua stessa computazione, presuppone la corresponsione di un’indennità di funzione cui parametrarla (Sezione di controllo per il Piemonte, del. n. 15/2009).
Le suaccennate conclusioni, da cui questo Collegio non intende discostarsi e che vanno interpretate alla luce di un recente, accentuato sfavore per le spese della politica, del quale questa Sezione si è fatta interprete con le delibere n. 283/2012/PAR del 24/04/2012 e 435/2012/PAR del 03/07/2012, sono nel senso che non possa essere corrisposta l'indennità di fine mandato al Sindaco che abbia rinunciato all’indennità di funzione (cfr. in questo senso anche Sez. Piemonte, n. 282/2011/SRCPIE/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 12.09.2012 n. 585).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le situazioni ipotizzabili in tema di mobilità sono 3:
1) se la copertura dei posti resi vacanti dalla procedura di mobilità in uscita avviene mediante il recupero delle unità di personale con mobilità in entrata, l’operazione non incontra alcun limite di natura finanziaria ed è perfettamente legittima;
2) se la copertura avviene mediante assunzioni di personale dall’esterno, occorre preliminarmente verificare se la mobilità in uscita è avvenuta o meno verso ente soggetto a disciplina limitativa delle assunzioni:
2A) nel primo caso (neutralità finanziaria), la mobilità non determina una cessazione per il comune che, pertanto, non potrà tenerne conto in relazione all’art. 1, comma 562, legge n. 296/2006 (assunzioni nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno);
2B) in caso di mobilità in uscita verso ente non soggetto a limiti assunzionali, si configurerà una vera e propria cessazione dal servizio equiparabile ad un collocamento a riposo ed in quanto tale rilevante ai sensi dell’art. 1, comma 562, legge n. 296/2006 (quanto all’interpretazione dell’inciso “anno precedente” come limite temporale di rilevanza delle cessazioni, si veda il parere n. 258 del 31.05.2012).
In tutti i casi sopra esposti, è comunque sempre necessario che l’ente ricevente:
a) rispetti il parametro del rapporto tra spesa di personale e spesa corrente ai sensi dell’art. 76, comma 7, d.l. 112/2008, come sostituito dall’art. 14, comma 9, del D.L. n. 78/2010;
b) rispetti il limite alla complessiva spesa del personale (che non deve superare –per gli enti non soggetti al PSI– quella del 2008);
c) risulti in linea con le regole dettate dal Patto di Stabilità interno.

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Il sindaco del comune di Valdidentro, con nota n. 3533 del 13.06.2012, chiedeva all’adita Sezione l’espressione di un parere in tema di mobilità in entrata.
In particolare, il Sindaco del comune di Valdidentro (4.076 abitanti), precisava di aver concesso, nel 2005 e nel 2006, due mobilità verso enti soggetti alle medesime limitazioni in materia di assunzioni.
Chiedeva, quindi, se fosse possibile procedere alla copertura dei due posti rimasti vacanti recuperando le mobilità in uscita attraverso l’istituto della mobilità in entrata.
Chiedeva, inoltre, quale fosse “l’anno di decorrenza che consente il recupero della mobilità” e “se le mobilità in uscita possono essere coperte nel medesimo anno in cui si verificano oppure occorre attendere l'anno successivo come per le cessazioni.
...
La questione in esame concerne la possibilità o meno, per il comune di Valdidentro, ente non soggetto alle regole del Patto di Stabilità, di procedere a due assunzioni mediante procedure di mobilità a fronte di due analoghe procedure in uscita avvenute negli anni 2005 e 2006.
Presupposto di tale richiesta è che le mobilità in uscita riguardassero personale assunto a tempo indeterminato transitato ad ente soggetto alla medesima disciplina limitativa delle assunzioni.
Il rapporto tra l’istituto della mobilità volontaria e la normativa limitativa delle assunzioni trova compiuta disciplina nell’articolo 1, comma 47 della legge 30.12.2004 n. 311 a mente del quale “in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l’anno precedente”.
La norma, che riguarda gli enti sottoposti a vincoli assunzionali, configura la mobilità come una possibilità di reclutamento di personale in deroga ai limiti normativamente previsti.
Tale norma è stata oggetto di ripetute pronunce della Sezione: in tema di procedure di mobilità, ed in particolare sulla neutralità finanziaria delle stesse in relazione ai vincoli assunzionali per i comuni non soggetti al Patto di Stabilità, la Sezione si è pronunciata con numerosi precedenti, ai quali è opportuno rinviare per i profili di carattere generale che disciplinano la materia (tra gli altri, si vedano i pareri nn. 123/2010, 443/2010, 521/2010, 524/2010, 79/2011, 80/2011, 115/2011, 149/2011, 314/2011, 429/2011).
Le stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, in sede di controllo, hanno concluso, nella deliberazione n. 59/CONTR/10 del 06.12.2010, che “
relativamente agli enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno, nei confronti dei quali operano i vincoli in materia di assunzione previsti dall’articolo 1, comma 562, della legge n. 296 del 2006, le cessioni per mobilità volontaria possono essere considerate come equiparabili a quelle intervenute per collocamento a riposo nella sola ipotesi in cui l’ente ricevente non sia a sua volta sottoposto a vincoli assunzionali”.
Tale conclusione è avvalorata dall’affermazione, contenuta nella deliberazione n. 53/2010 delle stesse Sezioni Riunite, che “l’obiettivo della neutralità finanziaria si può conseguire, a livello di comparto, quando entrambi gli enti locali sono soggetti a vincoli di assunzione (o, meglio ancora, sono in regola con le prescrizioni del patto)”.
Da tali pronunce, argomentando a contrario, deriva che ai fini della disciplina limitativa delle assunzioni per il personale -in caso di enti entrambi sottoposti a limiti alla facoltà di procedere a nuovi reclutamenti- il trasferimento in mobilità, per l’ente di origine, non costituisce “cessazione” legittimante assunzioni sul mercato del lavoro esterno alla pubblica amministrazione e che, dall’altro lato, non costituiscono “assunzioni”, per l’ente destinatario, gli ingressi di personale in mobilità.
Naturalmente, come precisato dalla Sezione (vedi il parere n. 123/2010), “
è pur sempre necessario che l’ente presso il quale il dipendente sarà chiamato a prestare servizio sia nelle condizioni di poter assumere personale aggiuntivo (in relazione al rispetto delle regole del Patto di Stabilità o al rapporto tra spesa di personale e spesa corrente). Per altro verso, il comune dal quale il personale viene trasferito potrà procedere a nuove assunzioni ovvero ad acquisire personale in mobilità solo se ciò è consentito dai parametri per esso fissati, tenendo presente che l’onere del personale in uscita non dovrà essere inserito nel computo della spesa relativa”.
Ancora, nel parere n. 521/2010 è stato precisato che né la normativa sulla mobilità disciplinata dal d.lgs. n. 165 del 2001, né la disciplina sulla finanza pubblica che ha introdotto particolari limitazioni alla spesa di personale hanno limitato la possibilità di ricorrere a mobilità all’interno di categorie di enti che debbono applicare le stesse regole di finanza pubblica: la mobilità, pertanto, può essere attuata anche fra enti che debbono rispondere a limiti differenziati purché a conclusione dell’operazione non vi sia stata alcuna variazione nella consistenza numerica e nell’ammontare della spesa di personale.
Sempre in merito alle condizioni per ritenere sussistente la neutralità delle mobilità tra enti, il Dipartimento della Funzione pubblica con circolare n. 4/2008 e con parere n. 13731 del 19.03.2010, ha precisato che “
la mobilità, pur rappresentando sempre uno strumento finanziariamente da privilegiare, si configura in termini di neutralità di spesa solo se si svolge tra amministrazioni entrambe sottoposte a vincoli in materia di assunzioni a tempo indeterminato. In tal caso non si qualifica come assunzione da parte dell’amministrazione ricevente. Ne discende che non è computabile come cessazione, sotto l’aspetto finanziario, da parte dell’amministrazione cedente”.
Inoltre, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con deliberazione n. 21 del 09.11.2009 ha chiarito che “
la mobilità di personale in uscita, comporta che, a seguito del trasferimento, il rapporto di lavoro prosegue con un altro datore di lavoro per cui l’amministrazione cedente può solo beneficiare, in termini di risparmio di spesa, dell’avvenuta cessazione del contratto (…), spesa che rimane inalterata in termini globali nell’ambito dell’intero settore pubblico” e che “corrisponde ad un principio di carattere generale che per effettiva cessazione debba intendersi il collocamento di un soggetto al di fuori del circuito di lavoro, con conseguente venire meno della remunerazione, caratteristica che non si attaglia al fenomeno della mobilità”.
In conseguenza, al fine di procedere a nuove assunzioni (nella fattispecie, in enti non soggetti al patto di stabilità), “l’art. 1, comma 562, della legge n. 296 del 2007 è da interpretare nel senso che nel novero delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nell’anno precedente non siano da comprendere quelle derivanti da trasferimenti per mobilità”.
Naturalmente, l’illustrata esclusione dal novero delle cessazioni di lavoro di quelle derivanti da trasferimento per mobilità –in caso di neutralità finanziaria– deve essere riconducibile esclusivamente ai casi in cui si intenda procedere alla relativa sostituzione con una nuova assunzione dall’esterno e quindi con un aumento numerico del personale e del complessivo onere: la sostituzione con una corrispondente mobilità in entrata non genera alcuna variazione della spesa pubblica complessiva (parere n. 524/2010).
Pertanto, riassumendo quanto esposto,
le situazioni ipotizzabili in tema di mobilità sono 3:
1) se la copertura dei posti resi vacanti dalla procedura di mobilità in uscita avviene mediante il recupero delle unità di personale con mobilità in entrata, l’operazione non incontra alcun limite di natura finanziaria ed è perfettamente legittima;
2) se la copertura avviene mediante assunzioni di personale dall’esterno, occorre preliminarmente verificare se la mobilità in uscita è avvenuta o meno verso ente soggetto a disciplina limitativa delle assunzioni:
2A) nel primo caso (neutralità finanziaria), la mobilità non determina una cessazione per il comune che, pertanto, non potrà tenerne conto in relazione all’art. 1, comma 562, legge n. 296/2006 (assunzioni nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno);
2B) in caso di mobilità in uscita verso ente non soggetto a limiti assunzionali, si configurerà una vera e propria cessazione dal servizio equiparabile ad un collocamento a riposo ed in quanto tale rilevante ai sensi dell’art. 1, comma 562, legge n. 296/2006 (quanto all’interpretazione dell’inciso “anno precedente” come limite temporale di rilevanza delle cessazioni, si veda il parere n. 258 del 31.05.2012).

In tutti i casi sopra esposti, è comunque sempre necessario che l’ente ricevente:
a) rispetti il parametro del rapporto tra spesa di personale e spesa corrente ai sensi dell’art. 76, comma 7, d.l. 112/2008, come sostituito dall’art. 14, comma 9, del D.L. n. 78/2010;
b) rispetti il limite alla complessiva spesa del personale (che non deve superare –per gli enti non soggetti al PSI– quella del 2008);
c) risulti in linea con le regole dettate dal Patto di Stabilità interno.

Tutto ciò premesso, il Comune istante valuterà se la situazione conseguente alla definizione delle procedure di mobilità, e la posizione degli enti coinvolti rispetto alle regole del patto di stabilità ed ai vincoli assunzionali e di spesa, siano o meno conformi ai parametri indicati, assumendo le conseguenti scelte gestionali di sua competenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.06.2012 n. 304).

NEWS

SICUREZZA LAVOROPer il settore degli spettacoli le regole sui cantieri mobili. Sicurezza. Un decreto ministeriale sarà emanato entro il 31 dicembre.
Entro il prossimo 31 dicembre il ministero del Lavoro dovrà emanare un decreto che consentirà di estendere le regole in tema di cantieri mobili previste dal Testo Unico sicurezza sul lavoro ai palchi utilizzati negli spettacoli musicali e negli eventi teatrali, cinematografici e fieristici.
Come noto, i palchi non sono ponteggi fissi e, per questo motivo, non sono soggetti alle norme di sicurezza relative a tali strutture. Prima che fosse approvato il cosiddetto Decreto del fare (Dl 69/2013, convertito con la legge 98/2013), anche le norme sui cantieri mobili e temporanei contenute nel Testo Unico erano di dubbia applicazione. Tale situazione si traduceva in procedure alquanto farraginose e inefficaci: per montare un palco, erano sufficienti la comunicazione al Comune di competenza e la predisposizione di una relazione tecnica.
Il Decreto del fare ha sbloccato tale situazione, estendendo anche gli eventi musicali, teatrali, cinematografici e fieristici la normativa sui cantieri mobili, ma la novità sarà operativa solo dopo l'emanazione del decreto ministeriale sopra ricordato.
Tale decreto dovrà individuare quali delle attività connesse al montaggio e allo smontaggio dei palchi saranno soggette alle misure di sicurezza già operanti per i cantieri temporanei e mobili. Secondo le prime indiscrezioni, il decreto sembra destinato a non fare distinzioni tra attività escluse ed attività incluse, optando quindi per un ambito di applicazione molto ampio delle norme sui cantieri mobili.
A prescindere dai possibili contenuto del decreto, tuttavia, il problema della sicurezza nello spettacolo richiede uno sforzo che va oltre la semplice modifica delle regole. Come è stato messo in evidenza ieri nel convegno promosso a Trieste da una serie di enti pubblici (Comune di Trieste, Regione Friuli Venezia Giulia, Inail, Ass Triestina, Inail) e organizzato in memoria di Francesco Pinna, il giovane morto a Trieste per il crollo del palco che stava collaborando a costruire, la prevenzione dei rischi per i lavoratori addetti al montaggio e allo smontaggio dei palchi per gli spettacoli non è soltanto un problema normativo.
Diversi relatori intervenuti al convegno hanno sottolineato la necessità di adottare modelli organizzativi e produttivi meno frammentati di quelli attuali. Gli spettacoli musicali sono oggi realizzati mediante la partecipazione di un numero molto elevato di imprese; non è raro che nello stesso luogo di lavoro siano compresenti decine e decine di datori di lavoro diversi, con personale assunto mediante tipologie contrattuali altrettanto differenti. Questa situazione non aiuta la prevenzione dei rischi, in quanto rende difficile il coordinamento delle misure e l'individuazione delle responsabilità, spesso parcellizzate in un numero troppo alto di soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARaee, debutta il fotovoltaico. Rifiuti elettrici. Il Cdm ha varato ieri lo schema di decreto legislativo.
Quasi pronto il nuovo sistema legislativo per la gestione dei Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) destinato a sostituire l'attuale Dlgs 151/2005.
Ieri, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura, lo schema di decreto legislativo per l'attuazione della direttiva 2012/19/Ue. Ora il testo sarà sottoposto all'esame della Conferenza unificata Stato-Regioni e delle competenti commissioni parlamentari.
Il testo nazionale, al pari della direttiva, estende e chiarisce il campo di applicazione; innalza gli obiettivi di raccolta, recupero e riutilizzo; frena le spedizioni all'estero. La qualificazione degli impianti di trattamento resta, però, un punto delicato perché non sembra essere compiutamente affrontato; infatti, pur richiedendo l'iscrizione degli impianti al centro di coordinamento Raee, il testo non riconosce a tale Centro adeguati poteri per la verifica periodica né chiarisce quali siano i requisiti da rispettare.
Fino al 14.08.2018 vige un periodo transitorio e il decreto si applica alle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) indicate nell'allegato I (si aggiungono, tra poche altre, i pannelli fotovoltaici, ma restano molto simili a quelle finora previste dal Dlgs 151/2005), con alcune esclusioni (per esempio il materiale bellico e le lampade a incandescenza). Dal 15.08.2018, invece, il campo di applicazione si apre e la disciplina si applica a tutte le Aee (classificate in sei categorie nell'allegato III), con poche esclusioni (per esempio i dispositivi medici se infetti). Il campo di applicazione potrebbe cambiare ancora perché entro il 14.08.2015, la Commissione Ue lo riesaminerà.
La raccolta prevede almeno 4 chili/abitante fino al 31.12.2015 ed entro il 01.01.2019 dovrà raggiungere il 65%/anno delle Aee immesse sul mercato nei tre anni precedenti oppure l'85% dei Raee prodotti in Italia. Per recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo gli obiettivi variano in base alle categorie di Raee e ai periodi (transitorio e a regime) e sono compresi tra il 50 e l'85%.
Per ridurre al minimo lo smaltimento dei Raee misti con altri rifiuti nei cassonetti, i centri di raccolta comunale accettano gratuitamente i Raee portati dai cittadini, dai distributori e dai gestori dei centri di assistenza tecnica, purché prodotti nel territorio ove è ubicato il centro di raccolta, a meno di apposita convenzione con il Comune. Per i punti vendita di grande superficie (di almeno 400 mq), all'obbligo di ritiro del Raee nel caso di acquisto di un'Aee nuova, si aggiunge quello di ritiro di Raee di piccolissime dimensioni, anche senza acquisto del nuovo ("uno contro zero"). Si tratta di Raee con dimensioni esterne non superiori a 25 cm.
Per arginare la piaga delle esportazioni nei Paesi in via di sviluppo di Raee "mascherati" da Aee usate, l'allegato VI reca i requisiti minimi che il possessore deve dimostrare; in difetto, si presume che si tratti di un tentativo di esportazione illegale di Raee (si deroga in caso di accordo di trasferimento tra imprese di Aee difettose da restituire o riparare). Le spese per analisi, ispezioni e deposito di Aee usate sospettate di essere Raee possono essere poste a carico dei produttori, dei Sistemi collettivi o di chi organizza la spedizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2013).

LAVORI PUBBLICISubappaltatori pagati da chi fa l'appalto. Una norma del decreto sviluppo sblocca i cantieri. Expo: riassegnazioni di fondi per 165 mln.
Per non bloccare i cantieri, negli appalti pubblici i subappaltatori potranno essere pagati direttamente dalla stazione appaltante in caso di particolare urgenza e in pendenza di una procedura di concordato preventivo; per l'Expo 2015 previste revoche e riassegnazioni per 165 milioni; niente Iva sui project della Tem e della Pedemontana.
Sono questi alcuni dei punti più rilevanti del decreto-legge «Destinazione Italia», approvato ieri dal Consiglio dei ministri, relativi agli appalti pubblici e all'Expo 2015.
Prosecuzione degli appalti e pagamento subappaltatori. Lo schema di decreto-legge affronta le problematiche derivanti dalle crisi aziendali che toccano sempre più imprese di costruzioni e le inevitabili conseguenze rispetto alla prosecuzione degli appalti in corso. In particolare, per consentire il completamento dell'esecuzione del contratto di appalto e per condizioni di particolare urgenza, viene stabilito che la stazione appaltante –anche in deroga al bando di gara– possa procedere al pagamento diretto dei corrispettivi ai subappaltatori e ai cottimisti per quanto da essi eseguito.
Inoltre si prevede che nella pendenza di una procedura di concordato preventivo, la stazione appaltante possa pagare distintamente l'appaltatore principale e i subappaltatori, secondo le istruzioni impartite dal Tribunale competente, in modo da salvaguardare sia la parità di condizione tra i creditori dell'appaltatore in crisi aziendale, sia la prosecuzione dell'appalto. Ciò, ovviamente, laddove il bando non abbia già previsto il pagamento diretto dei subappaltatori o dei cottimisti. Si estende, infine, il regime di svicolo delle garanzie di buona esecuzione previsto dall'articolo 237-bis del codice degli appalti anche ai settori «speciali» (acqua, energia e trasporti) e anche per i contratti in essere.
Expo 2015. Il provvedimento interviene prevedendo meccanismi di revoca e rassegnazione di fondi per ottimizzare l'impiego delle risorse disponibili. Per quel che riguarda le somme oggetto della revoca delle assegnazioni disposte dal Cipe, complessivamente pari a 165,390 milioni, vengono destinate prioritariamente, per 53,2 milioni, a opere di connessione indispensabili per lo svolgimento dell'Expo 2015, al cui finanziamento vengono anche destinati ulteriori 42,8 milioni per l'anno 2013 (per un ammontare complessivo di 96 milioni) a valere sul fondo di cui all'articolo 18, comma 1, del decreto legge n. 69/2013, già assegnati dal Cipe con delibera del 09.11.2013 alla linea M4 della metropolitana di Milano e ritenuti non necessari nell'immediato.
A quest'ultimo intervento vengono contestualmente destinati 42,8 milioni a valere sulle risorse derivanti dalle revoche, al fine di mantenere inalterato l'ammontare complessivo del contributo assegnato dal Cipe in attuazione dell'articolo 18, comma 3, del decreto legge n. 69/2013. Quarantacinque milioni vengono indirizzati ad interventi per l'accessibilità ferroviaria dell'aeroporto di Malpensa. Infine si prevede che le risorse residuali derivanti dalle revoche siano destinate a interventi immediatamente cantierabili finalizzati al miglioramento della competitività dei porti italiani e al trasferimento ferroviario e modale all'interno dei sistemi portuali. Molto importante, in prospettiva, è l'estensione (dal 2008 al 2010) dell'arco temporale del termine entro il quale deve essere avvenuta l'assegnazione delle risorse da parte del Cipe, con ciò amplia il plafond delle risorse che possono essere revocate e riutilizzate per opere immediatamente cantierabili.
Una norma specifica riguarda poi la chiusura del closing finanziario e la prosecuzione dei lavori in corso relativi alla Tangenziale esterna est di Milano e alla Pedemontana Veneta. La norma chiarisce infatti che i contributi di 330 milioni e di 370 milioni stanziati per le due opere, strettamente necessari per garantire l'equilibrio economico-finanziario e la prosecuzione dei cantieri dei due progetti, non siano assoggettabili a Iva, come previsto dai piani economico-finanziari (articolo ItaliaOggi del 14.12.2013).

INCARICHI PROGETTUALIAppalti, arrivano i parametri. Fissati i corrispettivi a base di gara dei servizi professionali. Via libera della Corte dei conti al decreto. Torna la liquidazione forfettaria delle spese.
Via libera della Corte dei conti ai nuovi parametri per i servizi professionali di ingegneria e architettura. Dal prossimo anno quindi si cambia e le stazioni appaltanti finalmente avranno riferimenti certi per determinare l'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Dopo la registrazione della Corte dei conti che ne ha accertato la sostenibilità dal punto finanziario, infatti, il decreto ministeriale (giustizia di concerto con infrastrutture) che determina «i corrispettivi a base di gara per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria» è pronto per essere pubblicato a giorni in Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un provvedimento dall'elaborazione complessa ma necessario, dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/2012) aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per stimare, di conseguenza, l'importo economicamente più corretto per le procedure di affidamento professionale.
Proprio per sanare tale criticità il governo era intervenuto con un ulteriore decreto stabilendo che per determinare i corrispettivi da porre a base di gara si sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un decreto che avrebbe definito anche «le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi». Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali (140/2012) prevedendo anche la classificazione dei servizi professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e del grado di complessità. Il compenso sarà infatti determinato dalla somma dei prodotti tra il costo delle singole categorie che compongono l'opera, la sua specificità e la complessità delle prestazioni.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese che secondo il provvedimento è determinato secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal professionista. Tra le modifiche introdotte dopo l'approvazione del Consiglio di stato quella che specifica che «il corrispettivo non deve» (e non più «non può») determinare un importo a base di gara superiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto-legge. Nulla viene detto, invece, su chi deve controllare che il corrispettivo non determini importi a base d'asta superiori a quello derivanti dall'applicazione del vecchie tariffe (dm 04/04/2001 e legge 143/1949).
Il Cds infatti (condividendo la richiesta del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) aveva chiesto al ministero della giustizia di inserire un passaggio per affermare la competenza della stazione appaltante sulla verifica del rispetto del vincolo tariffario. Ma questo secondo i piani alti di Via Arenula avrebbe rappresentato un'inutile complicazione burocratica, con un aggravio di costi (articolo ItaliaOggi del 14.12.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIPos obbligatorio. Anzi no. Necessario un decreto attuativo, che non c'è. Da Bankitalia i chiarimenti sull'adempimento in vigore fra pochi giorni.
Anche se arrivasse l'apposito decreto con le disposizioni attuative entro il 01.01.2014, i professionisti potranno tranquillamente continuare a incassare i compensi tramite bonifico bancario in base a un accordo con il cliente. L'articolo 15 del decreto legge 179/2012, infatti, non introduce a partire dal prossimo anno un obbligo di utilizzo di strumenti di pagamento elettronico a carico del pagatore, bensì solo un obbligo di accettazione della carta di debito a carico del venditore di beni e servizi.

È quanto chiarisce Banca d'Italia in risposta alla lettera di Federarchitetti inviata qualche settimana fa.
In questi ultimi mesi, molte sono state le iniziative contro la norma varata dall'allora Governo Monti: dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro che per prima ha messo in luce l'inapplicabilità dell'obbligo senza il decreto del ministero dello sviluppo economico a Inarsind (altro sindacato di architetti e ingegneri) che ha invitato i suoi iscritti a non dotarsi di Pos in studio, passando per la protesta telematica di un gruppo di professionisti che su Facebook sta riscuotendo molti consensi.
Tutti d'accordo che si tratta di un regalo alle banche, considerando la commissione da pagare su ogni transazione e il canone per l'utilizzo dello strumento di pagamento elettronico. Premette Bankitalia che «la finalità della norma è quella di favorire una più efficace azione di contrasto a fenomeni di illecito in campo finanziario e fiscale». Quanto ai costi dell'operazione, la Banca centrale cerca di smorzare le polemiche di questi mesi spiegando che «il mercato delle soluzioni Pos offre prodotti sempre più avanzati e diversificati sotto il profilo sia tecnologico sia tariffario. Soluzioni innovative sono disponibili per l'accettazione di pagamenti anche al di fuori dei tradizionali punti vendita, ad esempio attraverso l'utilizzo di dispositivi mobili collegabili a computer, smartphone o tablet, con formule tariffarie spesso a misura delle diverse categorie di clientela».
Tuttavia resta fondamentale l'emanazione del provvedimento attuativo dell'articolo 15 del dl 179/2012 di cui al momento non c'è traccia. «Abbiamo una produzione normativa ballerina», denuncia il presidente di Federarchitetti Paolo Grassi, «che ci fa perdere solo del tempo. Si poteva già chiarire tutto nella norma primaria, invece no. Così oggi ci ritroviamo un obbligo che è semplicemente un intralcio inutile». «Il problema non è la tracciabilità dei pagamenti», aggiunge Rosario De Luca, presidente del centro studi dei consulenti del lavoro, «bensì il fatto che si impone ai professionisti di fare un regalo alle banche di circa due miliardi di euro. Se lo Stato ritiene necessario questo adempimento noi siamo disponibili a farlo, purché sia per noi a costo zero» (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Housing sociale, largo agli aumenti di cubatura
Possibile un incremento di cubatura del 20% delle superfici per interventi edilizi di housing sociale; previsti anche cambi di destinazione d'uso e deroghe urbanistiche anche su interventi in corso.

E' quanto prevede la norma che il Ministero delle infrastrutture ha aggiunto al decreto-legge sull'housing sociale (vedi Italia Oggi del 05.12.2013), che dovrebbe essere portato all'esame del Consiglio dei Ministri del 20 dicembre, dopo un passaggio in Conferenza Unificata. Le novità dell'articolo aggiuntivo hanno lo scopo in primo luogo di ridurre il disagio abitativo di cui soffrono molti nuclei familiari svantaggiati, ma anche di favorire l'aumento dell'offerta di immobili in locazione a canone sociale, il contenimento del consumo del suolo, il risparmio energetico e le politiche urbane di rigenerazione delle aree per il tramite dello sviluppo dell'housing sociale.
Proprio la nozione di alloggio sociale, aggiornata rispetto a quella attuale, è centrale nella nuova norma, che definisce tale l'immobile di edilizia residenziale sociale o di edilizia residenziale pubblica sociale, da affittare in via permanente a soggetti appartenenti a categorie svantaggiate; l'alloggio destinato alla locazione a fini sociali per almeno 15 anni, all'edilizia universitaria convenzionata, alla locazione con patto di futura vendita (ma la locazione deve essere di almeno otto anni), nonché alla proprietà. Le norme contenute nell'articolo aggiuntivo predisposto dal Ministero delle infrastrutture costituiranno principi fondamentali di riferimento per il legislatore regionale che entro novanta giorni dovranno a loro volta definire i requisiti di accesso negli immobili e i parametri di riferimento dei canoni.
Fra gli interventi attuabili in base alla norma vengono espressamente citati: la ristrutturazione edilizia, il restauro o risanamento conservativo, la manutenzione straordinaria; la sostituzione del patrimonio edilizio e la totale demolizione e la ricostruzione con modifica di sagoma nei limiti previsti dall'articolo 30 della legge 98/2013; l'ampliamento della superficie complessiva in misura non superiore al 20% di quella esistente o assentita con incremento graduato in relazione agli obiettivi di contenimento energetico e ad altri parametri che saranno le amministrazioni comunali a definire (sostenibilità ambientale e sociale).
Fra gli interventi figurano anche le variazioni di destinazione d'uso anche senza opere e la creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio di prossimità, sempre nel limite del 20% della superficie complessiva comunque ammessa. Dovranno essere effettuate verifiche di sostenibilità economica dei progetti di recupero, riuso o sostituzione edilizia e le superfici in incremento potranno essere cedute o trasferite su altre aree di proprietà pubblica o privata.
Le operazioni previste dalla norma si attueranno sul patrimonio edilizio esistente, compresi gli immobili “non ultimati” e sugli interventi “non ancora avviati ma provvisti di titolo abilitativo rilasciati entro il 31.10.2013, o regolati da convenzioni urbanistiche stipulate entro la stessa data e vigenti al momento di entrata in vigore del decreto-legge". Sono esclusi gli interventi su edifici abusivi, o ubicati nei centri storici o in aree di in edificabilità assoluta. Tutti questi interventi potranno essere effettuati in 14 città metropolitane: Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Trieste, Cagliari, Catania, Messina e Palermo e tutti i comuni inclusi nelle rispettive province (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

SEGRETARI COMUNALIProvince, segretari in bilico. Assieme ai dg cesseranno dagli incarichi il 30 settembre. Un emendamento al ddl Delrio contraddice l'intesa con i sindacati sui posti di lavoro.
Sono dei segretari comunali e dei direttori generali delle province assorbite dalle città metropolitane le prime teste che salteranno.

La commissione affari costituzionali della camera ha presentato un emendamento che va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati, caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato escludendo proprio l'Upi, cioè le province.
E gli effetti cominciano a vedersi.
L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore della provincia, in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a disposizione della struttura operante presso il Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per i segretari è evidente.
Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al 2015.
Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della provincia soppressa mantiene la posizione giuridica ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile, legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla. L'emendamento impone alle città metropolitane di riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del personale, modificando il trattamento accessorio «in relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di molto.
Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di contenere la spesa è agire sul costo del personale.
La revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle città metropolitane di agire esattamente su questa leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al trattamento del personale provinciale che sarà trasferito dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali, dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non riesce a garantire (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASospensione del Durc quando scade il «vecchio». La certificazione può sopravvivere all'accertamento degli illeciti. Lavoro. I chiarimenti del ministero in risposta a un quesito dei consulenti.
L'eventuale sospensione del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e quindi dei benefici normativi ed economici in forza di una causa ostativa al suo rilascio, opererà necessariamente a far data dalla scadenza di un eventuale Durc (della durata di 120 giorni) rilasciato in precedenza per la stessa finalità.
È quanto afferma il ministero del Lavoro con l'interpello 11.12.2013 n. 33/2013 in risposta alla richiesta di chiarimenti formulata dall'Ordine dei consulenti del lavoro circa la corretta individuazione dell'arco temporale di riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative indicate nell'allegato A del decreto del ministero del Lavoro del 24.10.2007.
L'articolo 9 del decreto stabilisce che la violazione, da parte del datore di lavoro o del dirigente delle disposizioni penali e amministrative in materia di tutela delle condizioni di lavoro indicate nell'allegato A al decreto, accertata con provvedimenti amministrativi o giurisdizionali definitivi, è causa ostativa al rilascio del Durc per i periodi indicati. La richiamata causa ostativa non sussiste, invece, qualora il procedimento penale sia estinto a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi degli articoli 20 e seguenti del Dlgs n. 758/1994 e dall'articolo 15 del Dlgs n. 124/2004 ovvero di oblazione (articoli 162 e 162-bis C.p.).
L'allegato A, nell'individuare le violazioni che determinano il mancato rilascio del Durc, stabilisce anche i rispettivi periodi di non rilascio del documento. Tali periodi variano da un minimo 3 mesi per le violazioni in materia di riposi giornalieri e settimanali, a un massimo di 24 mesi per le omissioni dolose delle misure di sicurezza.
Una volta esaurito il periodo di «non rilascio del Durc», l'impresa potrà evidentemente tornare a godere dei benefici normativi e contributivi, ivi compresi quei benefici di cui è ancora è ancora possibile fruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali.
Così ad esempio sarà possibile usufruire di eventuali benefici legati alla corresponsione di premi di risultato, il cui termine per l'effettiva erogazione sia liberamente scelto dal datore e, quindi, non soggetto a decadenze, ricada in un periodo di assenza di una causa ostativa al rilascio del Durc.
Non sarà invece possibile fruire per tutto il periodo di non rilascio del Durc di benefici concernenti, ad esempio, l'abbattimento degli oneri contributivi nei confronti dell'Inps nel caso in cui gli stessi vengano assolti in base a scadenze legali mensili. In tal caso la regolarità contributiva deve sussistere con riferimento al mese di erogazione ovvero al periodo temporale all'interno del quale si colloca l'erogazione prevista dalla normativa di riferimento che, per ciascun periodo, legittima il datore a fruire dell'agevolazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2013).

TRIBUTIImprese edili, Imu più leggera. Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero. Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di incisivo recupero.

A stabilirlo è la risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF della Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze che interviene per la prima volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta, dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett. c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2 del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi considerati, ai fini della determinazione della base imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a partire dalla data di ultimazione dei lavori di ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma 2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013 non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30 giugno (articolo ItaliaOggi del 12.12.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc negato, c'è la franchigia. Durante lo stop fino a scadenza vale il vecchio documento. Il ministero del lavoro chiarisce in un interpello gli effetti delle cause ostative al rilascio.
Stop al Durc, ma con franchigia. In caso di violazioni che comportano la pena del mancato rilascio del Durc per un determinato periodo di tempo (variabile dai 3 ai 24 mesi), l'impresa non può per tutto questo periodo fruire dei benefici normativi e contributivi (per esempio, sgravi su assunzioni incentivate).
Tuttavia, se l'impresa è già in possesso di un Durc, lo stop dei benefici opererà dalla scadenza del periodo di validità del predetto Durc (120 giorni dal rilascio).

Lo precisa, tra l'altro, il ministero del lavoro nell'interpello 11.12.2013 n. 33/2013.
Durc e cause ostative. I chiarimenti sono stati chiesti dal Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro che ha presentato istanza per sapere la corretta interpretazione del dm 24.10.2007 (disciplina del Durc) in merito all'individuazione dell'arco temporale di riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative, elencate nella tabella A allegato al predetto decreto.
La predetta tabella contiene la previsione di una serie di violazioni (sicurezza lavoro, orario lavoro, omicidio, lesioni colpose ecc.) in presenza delle quali il datore di lavoro che le ha commesse è punito con il divieto del rilascio del Durc al fine di godere dei benefici «normativi e contributivi» per un determinato periodo di tempo, che va dal minimo di 3 al massimo di 24 mesi.
Tali periodi di «pena», spiega il ministero, decorrono dal momento in cui gli illeciti che ne costituiscono il presupposto sono definitivamente accertati. Ossia quando le violazioni sono state accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con ordinanza ingiunzione non impugnata. Invece non c'è pena perché non si perfeziona il presupposto della causa ostativa, qualora intervenga l'estinzione delle violazioni attraverso la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per il caso di violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (ex art. 16 della legge). Il datore di lavoro che sia destinatario di tale pena potrà riprendere a godere dei benefici solo una volta esaurito il periodo di non rilascio del Durc.
La «franchigia» del decreto Fare. Il dl n. 69/2013 (convertito dalla legge n. 98/2013) stabilisce che «ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale e per finanziamenti e sovvenzioni previsti dalla normativa dell'Unione europea, statale e regionale, il documento unico di regolarità contributiva (Durc) ha validità di 120 giorni dalla data del rilascio».
La nuova disposizione, secondo il ministero, comporta che l'eventuale sospensione del Durc e, quindi, dei benefici «normativi e contributivi» in forza di una causa ostativa al suo rilascio, opera necessariamente a far data dalla scadenza dei 120 giorni di un eventuale documento unico rilasciato in precedenza ovviamente per la stessa finalità (franchigia).
Controlli a campione nelle p.a. Infine, il ministero precisa che la disciplina delle cause ostative al rilascio del Durc si applica anche per i documenti acquisiti d'ufficio dalle pubbliche amministrazioni procedenti le quali, «ai fini dell'ammissione delle imprese di tutti i settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi, (...) anche per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati dell'intervento interessato sono tenute a verificare, in sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo d'ufficio il Durc».
In tal caso, aggiunge il ministero, le predette amministrazioni dovrebbero attivare i controlli, eventualmente a campione, in merito alla presentazione alle competenti direzioni territoriali del lavoro (dtl) delle autocertificazioni relative alla non commissione degli illeciti ostativi al rilascio del Durc (articolo ItaliaOggi del 12.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Lavori specialistici a rischio contenzioso. Subito il decreto.
Risolvere con un decreto legge, da varare già nel prossimo Consiglio dei ministri, il nodo della qualificazione obbligatoria nelle categorie specialistiche, cancellata dal parere del Consiglio di Stato reso operativo dal Dpr 30.10.2013.

Al ministero delle Infrastrutture premono per una soluzione immediata, capace di sterilizzare da subito gli effetti del decreto andato in Gazzetta lo scorso 29 novembre. Il provvedimento autorizza le imprese qualificate a eseguire le attività di maggior valore all'interno di un'opera pubblica a realizzare direttamente tutti gli altri lavori  accessori anche in assenza di una specifica competenza. Una  sorta di impresa «factotum». ... (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Le province si trasformano in città metropolitane.
Le province uscite dalla porta, rientrano dalla finestra sotto la veste di città metropolitane.

L'aula della camera ha approvato ieri un emendamento al ddl Delrio proposto dalla commissione affari costituzionali, che fa proliferare di improvviso il numero delle città metropolitane. Si prevede, infatti, che nelle province che sulla base dell'ultimo censimento, hanno una popolazione residente superiore a un milione di abitanti, possono essere costituite ulteriori città metropolitane. Al momento le province interessate sarebbero Bergamo, Brescia e Salerno. Ma ce ne sono altre, la cui popolazione è vicina al limite del milione di abitanti, che potrebbero presto essere coinvolte, come Padova, Verona e Caserta. La condizione è che l'iniziativa sia assunta dal comune capoluogo della provincia e da altri comuni che complessivamente rappresentino almeno 500 mila abitanti della provincia medesima. Dette città metropolitane subentrano alle province esistenti.
Altra disposizione, non ancora approvata ma in dirittura, è quella per cui saranno dei segretari comunali e dei direttori generali delle province assorbite dalle città metropolitane le prime teste che salteranno. La commissione affari costituzionali ha presentato un altro emendamento che va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro per gli affari regionali Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati, caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato escludendo proprio l'Upi, cioè le province. L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore della provincia, in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a disposizione della struttura operante presso il Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per i segretari è evidente. Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al 2015. Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della provincia soppressa mantengono la posizione giuridica ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile, legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla. L'emendamento impone alle città metropolitane di riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del personale, modificando il trattamento accessorio «in relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di molto. Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di contenere la spesa è agire sul costo del personale. La revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle città metropolitane di agire esattamente su questa leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al trattamento del personale provinciale che sarà trasferito dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali, dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non riesce a garantire (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIMediazione, mai senza legale. Avvocato obbligatorio anche quando è facoltativa. I chiarimenti in una circolare del Cnf: procedimenti ammessi al gratuito patrocinio.
È sempre obbligatoria l'assistenza dell'avvocato in mediazione. Sia nei casi in cui il procedimento è condizione di procedibilità, sia quando la mediazione è facoltativa. E non ci sono ostacoli per l'ammissione dei procedimenti al patrocinio a spese dello stato.

Lo afferma il Consiglio nazionale forense, che ha inviato venerdì scorso agli organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi, una circolare (n. 25-C-2013) con alcuni chiarimenti sulla procedura di mediazione alla luce delle nuove norme introdotte con il decreto del Fare (decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98).
Adottando quindi, sull'assistenza tecnica degli avvocati, un'interpretazione diversa rispetto al ministero della giustizia, che nella circolare diramata settimana scorsa (si veda ItaliaOggi del 3 dicembre scorso) afferma esattamente l'opposto. E cioè che «l'assistenza dell'avvocato è obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi di mediazione obbligatoria (ivi compresa quella disposta dal giudice ex art. 5, comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione facoltativa». Ma entriamo nel dettaglio.
L'assistenza tecnica. Il Consiglio nazionale forense ha inviato ai 122 organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi una circolare con una serie di faq sulla nuova mediazione obbligatoria. Affrontando, tra l'altro, il tema dell'assistenza tecnica dell'avvocato.
Sul punto, il Cnf afferma che «il tenore letterale dell'art. 5, comma 1-bis, dlgs 28/2010 introdotto dal dl 69/2013, conv. con modif. in l. 98/2013, stabilisce un obbligo di assistenza tecnica della parte in mediazione, dalla cui inosservanza deriverebbe l'impossibilità di considerare espletata la condizione di procedibilità di cui al comma 1-bis dell'art. 5 dlgs 28». Tale obbligo, sempre secondo il Cnf, «sembra riguardare ogni “modello” di mediazione, atteso che il testo normativo non fa distinzioni al riguardo».
In questo senso, il Consiglio nazionale richiama l'art. 8, 1° comma, modificato dall'intervento normativo del 2013, dove è disposto che: «al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento».
Viceversa, per il ministero della giustizia, l'assistenza dell'avvocato non è obbligatoria nelle ipotesi di mediazione facoltativa perché «il nuovo testo dell'art. 12, comma 1, espressamente configura l'assistenza legale delle parti in mediazione come meramente eventuale (“ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato_”)».
Gli altri chiarimenti. Le faq, inoltre, sciolgono i dubbi sul gratuito patrocinio, affermando che «nessun ostacolo dovrebbe sussistere nell'ammettere la possibilità di accedere ai benefici previsti dalla disciplina relativa al patrocinio a spese dello stato per i non abbienti, indipendentemente dal quanto disposto dal nuovo art. 17, comma 5-bis», ma in piena corrispondenza «alla direttiva Legal aid che ammette al beneficio anche le spese legali sostenute nel corso di procedure stragiudiziali». Chiarimenti, da parte del Cnf, anche in merito «alla individuazione dell'organismo di mediazione territorialmente competente e alle conseguenze di una eventuale incompetenza, che sarà comunque sempre sanata se le parti hanno raggiunto l'accordo conciliativo».
Molta attenzione è posta inoltre al primo incontro, ritenuto un passaggio importante da curare nei particolari. Così le faq suggeriscono agli organismi di conciliazione «di inviare alle parti una lettera di convocazione che chiarisca l'importanza della partecipazione personale delle parti e le conseguenze legislative nel caso di assenza senza giustificato motivo e quali siano le spese dovute (quelle di avvio e quelle vive documentate); specifichi che il primo incontro può essere svolto on-line ove il regolamento dell'Organismo lo preveda». Dal punto di vista operativo si segnala l'opportunità di stilare un verbale all'esito del primo incontro, sia che esso sia positivo che negativo. Nel secondo caso, infatti, avverte la faq, il verbale costituirà titolo per dimostrare l'assolvimento della condizione di procedibilità.
Le faq, infine, trattano della novità introdotta dal decreto del fare, relativa all'accordo conciliativo in cui le parti danno atto che si è verificata l'usucapione di un immobile. Esso può essere trascritto dopo l'autentica del notaio ma gli avvocati devono attestare che l'accordo non sia contrario all'ordine pubblico e norme imperative. Tale attestazione è necessaria per dotare l'accordo di efficacia esecutiva (articolo ItaliaOggi del 10.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mediazione si paga sempre. Spese di avvio dovute anche in caso di mancato accordo.
Gli effetti delle indicazioni del Mingiustizia sull'istituto rinnovato. Quota da dividere.
Costi calmierati per la mediazione obbligatoria e anche per quella disposta dal giudice in corso di causa. Ma sono sempre dovute le spese di avvio del procedimento, anche quando si conclude con un nulla di fatto al primo incontro; in questo caso sono abbuonati solo i compensi del mediatore.

Sono queste alcune delle risposte del ministero della giustizia, fornite con la circolare 27.11.2013 n. 168322 di prot., che illustra le novità in materia di mediazione apportate dal decreto legge 69/2013 ... (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo straordinario a 360°. Platea di beneficiari fino al terzo grado di parentela. Come cambia la disciplina dopo la sentenza della Consulta che amplia gli aventi diritto.
Più ampia la platea di beneficiari del congedo straordinario. Comprende infatti i parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi della persona con grave disabilità.

La novità, stabilità dalla sentenza n. 203/2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001 (T.u. maternità), è stata spiegata dall'Inps (circolare n. 159/2013) che, peraltro, ha avvitato il riesame delle richieste di permesso presentate e rigettate in virtù del precedente divieto entro il termine di prescrizione della relativa indennità (vale a dire entro un anno dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario. Il congedo straordinario, disciplinato dal citato art. 42 del T.u. maternità, spetta per un massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto disabile da assistere. Quest'ultimo, in particolare, deve essere «soggetto con handicap in situazione di gravità», ossia deve trattarsi di un familiare portatore di handicap (è tale colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione) e l'handicap deve essere «grave» (l'handicap assume connotazione di gravità se la minorazione, singola o plurima, ha ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione).
Durante tutto il periodo di fruizione del congedo il lavoratore ha diritto all'indennità pari all'ultima retribuzione e il periodo è coperto da contribuzione figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano però fino a un importo massimo di euro 46.836 per il congedo di durata annuale (valore per l'anno 2013). Il tetto in particolare rappresenta il limite massimo complessivo annuo dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo straordinario, ripartito cioè fra l'indennità economica e l'accredito figurativo. Nello specifico il tetto massimo annuo, pari a 46.835,93 euro, riguarda un importo massimo annuo di indennità di 35.215,00 euro e un importo massimo giornaliero dell'indennità di euro 96,48. La misura della retribuzione figurativa massima di riferimento è pari alla stessa indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore settimanale massimo di euro 677,21 e una retribuzione figurativa massima giornaliera di 96,48 euro (Inps circolare n. 59/2013).
Soggetti aventi diritto. Il congedo spetta ai lavoratori dipendenti anche se a tempo determinato (tali lavoratori possono essere anche stranieri, apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale). Qui è però intervenuta la Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 42 nella parte in cui, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona disabile in situazione di gravità, non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo il parente o l'affine entro il terzo grado convivente della persona disabile grave. Alla luce della sentenza, l'Inps ha spiegato che il congedo è riconosciuto a seguenti familiari ovvero affini entro il terzo grado convivente del disabile grave, secondo il seguente ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile, in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quando il congedo non spetta. Il congedo straordinario non spetta ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari; ai lavoratori a domicilio; ai lavoratori agricoli giornalieri; in caso di contratto di lavoro part-time verticale, durante le pause contrattuali; quando la persona handicappata da assistere sia ricoverata a tempo pieno (fino al 10.08.2011; dal giorno seguente, invece, per garantire un'assistenza reale, il congedo può essere fruito anche se la persona disabile è ricoverata a tempo pieno e qualora i sanitari della struttura ne attestino l'esigenza); nelle stesse giornate di fruizione dei permessi retribuiti ex articolo 33 della legge n. 104/1992.
I requisiti. Ai fini della sussistenza del diritto al congedo straordinario deve essere accertata la presenza dei seguenti requisiti: situazione di handicap grave; rapporto di lavoro in essere; mancanza di ricovero a tempo pieno.
La situazione di gravità dell'handicap (primo requisito) è accertata dalla competente Asl (ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge n. 104/1992), mediante le commissioni mediche. Qualora tale commissione non si pronunci entro 90 giorni dalla presentazione della domanda, gli accertamenti possono essere effettuati, in via provvisoria, da un medico specialista nella patologia denunciata, in servizio presso l'unità sanitaria locale da cui è assistito l'interessato. L'accertamento provvisorio produce effetto fino all'emissione dell'accertamento definitivo da parte della commissione.
Il congedo straordinario spetta a chi abbia un rapporto di lavoro in essere, con prestazione di attività lavorativa (secondo requisito). Durante la fruizione del congedo poi vige il divieto di svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Lo spirito e la finalità della legge escludono che il beneficio possa essere riconosciuto se la persona da assistere presti, a sua volta, attività lavorativa nel periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi diritto. Ciò va inteso nel senso che il disabile può essere titolare di rapporto di lavoro, tuttavia non deve prestare concretamente l'attività lavorativa nel periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi diritto.
Terzo requisito per il diritto al congedo è la circostanza che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno. Per ricovero a tempo pieno s'intende quello, per le intere 24 ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
L'Inps ha precisato che le fanno eccezione: l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate; il ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine; il ricovero a tempo pieno di un minore con disabilità in situazione di gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare, ipotesi già prevista per i bambini fino a tre anni di età.
Infine, quarto requisito è della convivenza previsto come necessario qualora a richiedere il congedo è il coniuge, i fratelli/sorelle o il figlio del disabile grave. Per convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale, non potendo ritenersi conciliabile con la predetta necessità la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio speciale (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Con la sentenza n. 20 del 1999, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, dopo aver passato in rassegna i contrastanti orientamenti all’epoca emersi in sede giurisprudenziale, ha rilevato come il vincolo paesaggistico su un’area, ancorché sopravvenuto all’intervento edilizio, non possa restare senza conseguenze sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l’onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo.
L’appello è infondato e va respinto.
La causa ripropone la vexata quaestio della disciplina giuridica applicabile alle aree gravate da un regime vincolistico, sul piano della tutela dei valori paesaggistici, sopravvenuto rispetto all’ intervento edilizio, già eseguito ed oggetto di domanda di sanatoria.
La questione pone due distinte problematiche interpretative:
a) se la sopravvenienza del vincolo imponga, nel procedimento di sanatoria non ancora concluso, il coinvolgimento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso;
b) se detta Autorità, in presenza di un vincolo sopravvenuto a contenuto assolutamente preclusivo dell’intervento, sia tenuta a far valere semplicemente il carattere ostativo del nuovo regime vincolistico ovvero se debba compiere una valutazione più ampia e articolata, che tenga conto della compatibilità in concreto dell’intervento già realizzato in rapporto al vincolo sopravvenuto.
Il giudice di primo grado ha ritenuto, in via assorbente, che nel caso qui dato, in cui l’area è stata ricompresa nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, ed assoggettata conseguentemente alle relative prescrizioni, in epoca successiva alla edificazione del fabbricato da sanare (avvenuta nel 1982), non ci fosse spazio per lo stesso intervento dell’Ente parco, e ciò in quanto la reintroduzione (ad opera dell’art. 32, comma 43, d.l. cit.) dell’obbligo di interpellare l’autorità preposta alla tutela del vincolo anche nel caso di sopravvenuta imposizione del vincolo non troverebbe applicazione nelle ipotesi di domande di sanatoria già presentate ( ai sensi del comma 43-bis dello stesso art. 32 d.l. n. 269/2003).
La soluzione del Tar non appare tuttavia condivisibile sul piano motivazionale.
In particolare, non convince la tesi secondo cui la soluzione del caso concreto, in ordine al coinvolgimento o meno dell’autorità preposta alla tutela del vincolo nel procedimento di sanatoria edilizia, possa fondarsi sulla scelta della normativa da applicare ratione temporis.
In disparte il rilievo che anche l’applicazione della regola tempus regit actum avrebbe imposto di fare riferimento, a regolazione della fattispecie, all’art. 32 della legge n. 47 del 1985 nella sua originaria formulazione (e non in quella successivamente modificata dalla legge n. 662 del 1996), posto che nel caso qui in esame l’abuso edilizio risale al 1982 e la domanda di condono risulta presentata nel 1986, il Collegio rileva, in ogni caso, che anche in base alla pregressa disciplina della legge sul condono era controversa la rilevanza dei vincoli sopravvenuti nei procedimenti di sanatoria edilizia.
Con la già richiamata sentenza n. 20 del 1999, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, dopo aver passato in rassegna i contrastanti orientamenti all’epoca emersi in sede giurisprudenziale, ha rilevato come il vincolo paesaggistico su un’area, ancorché sopravvenuto all’intervento edilizio, non possa restare senza conseguenze sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l’onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo.
Il Collegio ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi da tale condivisibile orientamento anche nella fattispecie in esame in cui le particolari ragioni di tutela paesaggistica consistono nella disciplina speciale adottata per l’area in oggetto dall’Ente parco.
Non par dubbio, infatti, che anche nel caso di specie, in cui l’area ove si trova l’immobile oggetto di domanda di sanatoria è assoggettata alle particolari prescrizioni del Piano del parco adottato nel 2010, l’Ente appellante avrebbe dovuto essere coinvolto (contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di primo grado) nel procedimento di sanatoria dell’abuso edilizio, ai fini del rilascio del prescritto parere. Non si vede, infatti, come un provvedimento di sanatoria di un immobile che ricade in un’area rientrante nei confini di un Parco nazionale possa prescindere, nel momento in cui viene reso, dal previo pare dell’Ente preposto alla tutela dell’area sottoposta alle speciali prescrizioni di tutela.
Per questa parte va pertanto riformata, nella sola motivazione, la sentenza impugnata, laddove in particolare la stessa ha ravvisato la insussistenza, nella fattispecie data, dello stesso potere dell’Ente parco di rilasciare il prescritto parere (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.01.2014 n. 231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi: in ragione del principio di legalità, infatti, la sanatoria degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti dalla legge e nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del tempo un rilievo ostativo all'emanazione dei dovuti atti repressivi, la cui mancata emanazione, al contrario, implica a seconda dei casi responsabilità penali, disciplinari e contabili.
Pertanto, nel caso di specie, il decorso di un lungo lasso di tempo non può aver ingenerato nell’appellante alcun “ragionevole affidamento” in merito alla permanenza delle opere abusive di cui è causa.
Analogamente il Collegio ritiene che l’assenza di una previa comparazione dell’interesse pubblico sotteso alla demolizione con quello del privato non può viziare il provvedimento comunale impugnato.
Tali assunti risultano, peraltro, confermati da una consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, secondo cui “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce atto dovuto della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”.

Il motivo è infondato.
Osserva il Collegio che, in base ad una consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non ravvisa ragioni per discostarsi, il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi (ex multis: Cons. di Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702): in ragione del principio di legalità, infatti, la sanatoria degli abusi può avere luogo solo nei casi previsti dalla legge e nessuna disposizione di legge attribuisce al decorso del tempo un rilievo ostativo all'emanazione dei dovuti atti repressivi, la cui mancata emanazione, al contrario, implica a seconda dei casi responsabilità penali, disciplinari e contabili.
Pertanto, nel caso di specie, il decorso di un lungo lasso di tempo non può aver ingenerato nell’appellante alcun “ragionevole affidamento” in merito alla permanenza delle opere abusive di cui è causa.
Analogamente il Collegio ritiene che l’assenza di una previa comparazione dell’interesse pubblico sotteso alla demolizione con quello del privato non può viziare il provvedimento comunale impugnato.
Tali assunti risultano, peraltro, confermati da una consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, secondo cui “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce atto dovuto della Pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo” (Cons. di Stato, Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403).
Per quanto concerne l’ulteriore censura presentata dall’appellante con la memoria del 14.11.2013 -relativa alla circostanza che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato escluderebbe la necessità della previa concessione edilizia per interventi analoghi a quello di cui è causa- il Collegio osserva che tale censura risulta inammissibile, in quanto presentata in violazione del primo comma dell’art. 104 c.p.a., a norma del quale “nel giudizio di appello non possono essere prodotte nuove domande […] né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio”.
Peraltro, anche prescindendo dal suesposto rilievo, il Collegio osserva che detta censura risulta comunque infondata.
La risalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato citata dell’appellante, infatti, è stata superata dai successivi orientamenti giurisprudenziali del medesimo Consiglio, peraltro condivisi dal Collegio, secondo cui “i tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni debbono essere valutate come strutture edilizie soggette a permesso di costruire […]” (Cons. di Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n. 4910).
Orbene, nel caso di specie, trattandosi -come emerge dalle schede tecniche in atti- di una struttura di circa 12 metri d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di “rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal Comune di Sarnonico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.01.2014 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La valutazione operata dall’amministrazione appaltante circa la congruità delle offerte costituisce espressione tipica della discrezionalità tecnica che, come tale, sfugge al sindacato giurisdizionale, salvo che non sia macroscopicamente inficiata da arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero travisamento dei fatti.
Sempre in tema di verifica delle offerte sospette di anomalia, è stato affermato che tale verifica è finalizzata non sono in astratto all’apprezzamento della serietà e dell’affidabilità dell’offerta, ma anche a garantire in concreto, secondo un giudizio di ragionevolezza fondato sull’id quod plerumque accidit”, l’effettiva, corretta ed utile esecuzione dei lavori o fornitura di beni e servizi, facendo in modo che gli appalto siano affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per l’impresa aggiudicataria, “…nella convinzione che le acquisizioni in perdita portino gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre ad un probabile contenzioso; infatti, il consentire la presentazione di offerte senza adeguato utile finirebbe con l’alterare il sistema di libera concorrenza del mercato, permettendo la sopravvivenza alle sole imprese fornite di maggiori risorse economiche, che possono consentirsi contratti in perdita".

E’ noto che la valutazione operata dall’amministrazione appaltante circa la congruità delle offerte costituisce espressione tipica della discrezionalità tecnica che, come tale, sfugge al sindacato giurisdizionale, salvo che non sia macroscopicamente inficiata da arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero travisamento dei fatti (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 26.09.2013, n. 4761; 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 26.06.2012, n. 3737).
Sempre in tema di verifica delle offerte sospette di anomalia, è stato affermato che tale verifica è finalizzata non sono in astratto all’apprezzamento della serietà e dell’affidabilità dell’offerta, ma anche a garantire in concreto, secondo un giudizio di ragionevolezza fondato sull’id quod plerumque accidit”, l’effettiva, corretta ed utile esecuzione dei lavori o fornitura di beni e servizi, facendo in modo che gli appalto siano affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per l’impresa aggiudicataria, “…nella convinzione che le acquisizioni in perdita portino gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre ad un probabile contenzioso; infatti, il consentire la presentazione di offerte senza adeguato utile finirebbe con l’alterare il sistema di libera concorrenza del mercato, permettendo la sopravvivenza alle sole imprese fornite di maggiori risorse economiche, che possono consentirsi contratti in perdita (cfr. fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 18.02.2003, n. 863)” (Cons. Stato, sez. V, 15.04.2013, n. 2063) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, chiaramente, delineato i principi cardine attorno ai quali ruota la regola dell’anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi a garanzia del superiore principio di imparzialità dell’azione amministrativa, individuando nell’idoneità del segno di riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due elementi che devono essere riscontrati per giungere a ritenere che si sia in presenza di un’effettiva violazione della regola dell’anonimato.
Quanto alla prima delle due condizioni, l’idoneità del segno di riconoscimento, è stato precisato che: “In sede di concorso a posti di pubblico impiego con esami scritti, al fine del rispetto della regola dell'anonimato, ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato”.
Quanto alla seconda delle due condizioni questa stessa Sezione ha escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell’anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato.

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La giurisprudenza del Consiglio di Stato con numerose pronunce ha, chiaramente, delineato i principi cardine attorno ai quali ruota la regola dell’anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi a garanzia del superiore principio di imparzialità dell’azione amministrativa, individuando nell’idoneità del segno di riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due elementi che devono essere riscontrati per giungere a ritenere che si sia in presenza di un’effettiva violazione della regola dell’anonimato.
Quanto alla prima delle due condizioni, l’idoneità del segno di riconoscimento, è stato precisato che: “In sede di concorso a posti di pubblico impiego con esami scritti, al fine del rispetto della regola dell'anonimato, ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato” (Cons. St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV, 20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione pare non sussistere, perché il nome di fantasia utilizzato, una sola volta, richiama quello di un celebre collega architetto, nell’ambito di una simulazione pratica di un atto tipico di quella professione.
Quanto alla seconda delle due condizioni questa stessa Sezione (cfr. Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n. 2025) ha escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell’anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato.
Nella fattispecie, appare evidente come difetti anche questo ulteriore requisito. Del resto nella prima prova, che è quella nella quale è stato redatto il citato verbale di somma urgenza, l’odierno appellante ha riportato una valutazione identica a quella dell’originario ricorrente.
Non può, quindi, contrariamente a quanto affermato dal primo Giudice, ritenersi che sia stata violata la regola dell’anonimato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il diritto d’accesso del consigliere comunale, così come previsto dall’art. 43 T.U. 267/2000, può riguardare gli uffici comunali, le aziende speciali e le società di gestione di servizi pubblici in cui il Comune abbia partecipazione totalitaria oppure maggioritaria, ma non può investire attività di altri soggetti o enti, soprattutto di natura privata le cui attività sono coperte innanzitutto dal diritto alla riservatezza, nel caso di specie non può che essere limitato alla richiesta agli organi di direzione del Comune –Sindaco e Giunta– di esercitare i poteri riservati alle minoranze azionarie dal codice civile.
- Vista la domanda di accesso presentata ai sensi dell’art. 43 T.U. n. 267/2000 dal consigliere comunale di Bellaria Igea Marina M.C. avente ad oggetto un rendiconto analitico dettagliato relativo i progetti di eventi turistici per gli anni 2010 e 2011 che la Società Verdeblù aveva realizzato con l’ausilio di un contributo economico del Comune, unicamente a documentazione contabile (fatture) emesse da tale Società partecipata al 20% dallo stesso Comune di Bellaria Igea Marina;
- Visto il ricorso al TAR dell’Emilia Romagna proposto dal C. avverso il silenzio dei due soggetti accolto con sentenza n. 169 del 04.03.2013, la quale ha affermato che l’interessato, nella sua qualità di lieve comunale chiamato a tutelare in via generale i diritti derivanti dalla sua posizione volta alla conoscenza di atti che riguardino le attività comunali, aveva pieno titolo all’ostensione del libro giornale dell’impresa, mentre non poteva essere accolta la domanda concernente le fatture, vista la sua estrema genericità;
- Visto l’appello proposto dal Comune e l’appello incidentale autonomo dalla Srl Verdeblù in cui si sostiene l’erroneità della sentenza del TAR, poiché se l’art. 8 dello statuto comunale di Bellaria colloca ai fini fondamentali dell’ente il turismo e prevede il diritto di accesso dei consiglieri sugli atti delle società partecipate, ciò deve riguardare gli enti dipendenti delle società partecipate in quota maggioritaria o totalitaria e che svolgano funzioni strumentali a quelle proprie degli enti locali, come ad esempio servizi pubblici erogati direttamente in favore dei cittadini e non tanto società imprenditoriali formate maggioritariamente da associazioni di albergatori, commercianti, artigiani ed operatori di spiaggia attive in un campo come quello della promozione turistica che non può essere ritenuto alla stregua di un servizio pubblico locale, ciò sia per le indagini esplorative concernenti le attività in generale;
- Considerato che le tesi sostenute dagli appellanti appaiono convincenti, poiché la Srl Verdeblù deve essere considerata un soggetto privato, data la consistenza quantitativa della partecipazione azionaria del Comune e la natura degli altri soci, associazione di albergatori, commercianti concessionari di spiagge ed altri imprenditori turistici e visto che la stessa Srl, sebbene si occupi di un’attività come la promozione del turismo che è fondamentale per il Comune di Bellaria Igea Marina, non può essere definita strumentale per l’esercizio di un servizio pubblico, inteso questo nel senso classico di prestazioni essenziali fornite da una collettività indistinta di utenti;
- Ritenuto che le modificazioni intervenute in materia con la L. 06.11.2012 n. 190 e con il D.L. 21.06.2013 n. 69 convertito nella L. 09.08.2013 n. 98 non si applicano alla controversia in esame, visto che l’istanza del C. risale al settembre 2012;
- Considerato perciò che il diritto d’accesso del consigliere comunale, così come previsto dall’art. 43 T.U. 267/2000, può riguardare gli uffici comunali, le aziende speciali e le società di gestione di servizi pubblici in cui il Comune abbia partecipazione totalitaria oppure maggioritaria, ma non può investire attività di altri soggetti o enti, soprattutto di natura privata le cui attività sono coperte innanzitutto dal diritto alla riservatezza, nel caso di specie non può che essere limitato alla richiesta agli organi di direzione del Comune –Sindaco e Giunta– di esercitare i poteri riservati alle minoranze azionarie dal codice civile;
- Visto perciò che gli appelli devono essere accolti con il conseguente rigetto del ricorso di primo grado con la compensazione delle spese di giudizio tra le parti, data la peculiarità del caso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La comunicazione dell'avvio del procedimento non è una mera formalità ma lo strumento attraverso il quale è garantita la collaborazione del privato che deve essere posto nelle condizioni di esporre le ragioni a tutela dei propri interessi, particolarmente laddove il provvedimento dell'amministrazione riguardi, oltre il profilo economico, anche quello professionale.
Tuttavia la censura è infondata, atteso che la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, prevista dal richiamato art. 7 della legge n. 241/1990, è da ritenersi necessaria solo quando la stessa sia idonea ad apportare un qualche arricchimento a seguito della partecipazione del destinatario del provvedimento, ma in mancanza di siffatta utilità l'obbligo della comunicazione viene meno.
E infatti, ove si verta in ipotesi di instaurazione di un procedimento disciplinare, al dipendente interessato deve essere data comunicazione dell'avvio del procedimento per consentire allo stesso, non solo di conoscere i relativi atti, ma altresì di svolgere adeguatamente le proprie difese.
Nel caso di specie, invece, concernente l'adozione di un provvedimento di natura cautelare, consistente nella sospensione del dipendente dal servizio, perché rinviato a giudizio per fatti riconducibili alla propria attività, la partecipazione dell'interessato al procedimento de quo non avrebbe potuto comunque apportare alcun elemento nuovo, posto che l'instaurazione del procedimento derivava dal fatto, oggettivo ed incontrovertibile, dell'essere stato il ricorrente assoggettato ad un procedimento penale per un determinato titolo di reato, con la conseguente necessità, una volta verificati i presupposti, di emanare il provvedimento cautelare di sospensione, poi impugnato.
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La valutazione dell'amministrazione, in materia di sospensione cautelare facoltativa del dipendente pubblico, costituisce una tipica manifestazione del suo potere discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo solo ove risulti manifestamente irragionevole e non comporta la necessità di esporre le ragioni per le quali i fatti contestati al dipendente devono considerarsi particolarmente gravi, potendo tale giudizio essere implicito nella gravità del reato a lui imputato, nella posizione d'impiego rivestita dal dipendente, nella commissione del reato in occasione o a causa del servizio, con la conseguente impossibilità di consentirne la prosecuzione.
In concreto l'unica motivazione richiesta per il provvedimento di sospensione facoltativa consiste nell'esternare il pregiudizio che subirebbe l'amministrazione dalla permanenza in servizio del dipendente, non occorrendo esporre analiticamente gli episodi illeciti addebitati ma dovendosi, al contrario, evitare la pubblicizzazione di tali fatti che costituiscono oggetto d'accertamento da parte dell'a.g.o..

Con il primo motivo di censura l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza di primo grado laddove il Tribunale ha ritenuto che non sia stato violato l'art. 7 della legge n. 241 del 07.08.1990.
Sul punto, oggetto del contendere è stabilire se l'Amministrazione era da ritenersi esonerata o meno, dall'osservanza delle previsioni della legge sul procedimento amministrativo.
Non vi sono motivi per dissentire, sul piano dei principi, da quanto sostenuto dall'appellante, che cioè la comunicazione dell'avvio del procedimento non è una mera formalità ma lo strumento attraverso il quale è garantita la collaborazione del privato che deve essere posto nelle condizioni di esporre le ragioni a tutela dei propri interessi, particolarmente laddove il provvedimento dell'amministrazione riguardi, oltre il profilo economico, anche quello professionale.
Tuttavia la censura è infondata, atteso che la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, prevista dal richiamato art. 7 della legge n. 241/1990, è da ritenersi necessaria solo quando la stessa sia idonea ad apportare un qualche arricchimento a seguito della partecipazione del destinatario del provvedimento, ma in mancanza di siffatta utilità l'obbligo della comunicazione viene meno (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.03.1996, n. 283).
E infatti, ove si verta in ipotesi di instaurazione di un procedimento disciplinare, al dipendente interessato deve essere data comunicazione dell'avvio del procedimento per consentire allo stesso, non solo di conoscere i relativi atti, ma altresì di svolgere adeguatamente le proprie difese (Cons. Stato, sez. IV, 03.02.2006, n. 456). Nel caso di specie, invece, concernente l'adozione di un provvedimento di natura cautelare, consistente nella sospensione del dipendente dal servizio, perché rinviato a giudizio per fatti riconducibili alla propria attività, la partecipazione dell'interessato al procedimento de quo non avrebbe potuto comunque apportare alcun elemento nuovo, posto che l'instaurazione del procedimento derivava dal fatto, oggettivo ed incontrovertibile, dell'essere stato il ricorrente assoggettato ad un procedimento penale per un determinato titolo di reato, con la conseguente necessità, una volta verificati i presupposti, di emanare il provvedimento cautelare di sospensione, poi impugnato.
D'altro canto, occorre pure considerare che nel caso in esame le esigenze di celerità e tempestività con cui occorreva allontanare il ricorrente dal posto di lavoro, in relazione all'accusa di reati attinenti ai compiti di istituto, imponevano di intervenire con urgenza, dispensando l'amministrazione dal procedere alla previa comunicazione dell'avvio del procedimento di sospensione.
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Con il secondo motivo di censura l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice ha ritenuto che il provvedimento del consiglio di amministrazione n. 421/1 del 1997 di allontanamento dal servizio, risultava "adeguatamente e logicamente motivato" con riferimento alle ipotesi di reati a lui contestati dall'autorità giudiziaria.
L'appellante sostiene che l'amministrazione non avrebbe effettuato alcun esame istruttorio in ordine alla sussistenza effettiva delle esigenze cautelari, valutazione che dovrebbe svolgersi con specifico riferimento al buon andamento interno dell’ufficio e all'organizzazione amministrativa.
Nel caso di specie, a parere dell'appellante, mancherebbero tutti gli elementi di pregiudizio che giustificherebbero il suo allontanamento dal servizio.
Anche tale censura è infondata atteso che, come evidenziato dal TAR, il provvedimento dell'amministrazione originariamente impugnato "risulta adeguatamente e logicamente motivato, con il riferimento alle ipotesi di reato contestate all'arch. Vella".
L'Amministrazione ha dato puntuale conto che i fatti contestati al ricorrente, si riferivano alle funzioni svolte dal medesimo in qualità di componente della commissione tecnico-consultiva e di direttore dell'ufficio tecnico dell'allora I.A.C.P. di Vercelli, funzioni tutte direttamente collegate, dunque, al rapporto di lavoro ed "ha specificatamente motivato in ordine all'avvenuto intaccamento del vincolo fiduciario, di cui, invece, deve sempre caratterizzarsi il rapporto di collaborazione tra l'Ente ed i propri dipendenti, a maggior ragione quando questi ultimi ricoprono funzioni dirigenziali, …. con conseguente ritenuto pericolo, ove fossero proseguite le prestazioni lavorative da parte del predetto funzionario, per la credibilità nello svolgimento delle tipiche attività dell'Agenzia".
Verificatisi tali presupposti, non può che osservarsi che, per costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la valutazione dell'amministrazione, in materia di sospensione cautelare facoltativa del dipendente pubblico, costituisce una tipica manifestazione del suo potere discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo solo ove risulti manifestamente irragionevole e non comporta la necessità di esporre le ragioni per le quali i fatti contestati al dipendente devono considerarsi particolarmente gravi, potendo tale giudizio essere implicito nella gravità del reato a lui imputato, nella posizione d'impiego rivestita dal dipendente, nella commissione del reato in occasione o a causa del servizio, con la conseguente impossibilità di consentirne la prosecuzione.
In concreto l'unica motivazione richiesta per il provvedimento di sospensione facoltativa consiste nell'esternare il pregiudizio che subirebbe l'amministrazione dalla permanenza in servizio del dipendente, non occorrendo esporre analiticamente gli episodi illeciti addebitati ma dovendosi, al contrario, evitare la pubblicizzazione di tali fatti che costituiscono oggetto d'accertamento da parte dell'a.g.o. (Cons. Stato, sez. V, 15.11.2012, n. 5774)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Poiché il legale rappresentante non ha sottoscritto l’offerta, la sua esclusione si appalesa legittima.
L’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, al comma 1-bis recita: “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
La norma, quindi, espressamente include la sottoscrizione fra gli elementi essenziali dell’offerta, ed altrettanto espressamente dispone che la sua mancanza determina l’esclusione del concorrente dalla gara.
L’univoco enunciato della norma impone di ritenere che il legislatore, nel risolvere il bilanciamento tra “favor partecipationis” ed esigenza di chiarezza nell’espressione della volontà delle parti, abbia dato la prevalenza a tale ultima esigenza, disponendo –appunto– l’esclusione delle offerte prive di sottoscrizione.
Il legislatore, in altri termini, ha ritenuto la sottoscrizione elemento necessario dell’offerta, la cui mancanza rende dubbia la sua riferibilità al partecipante alla gara; di conseguenza ha sancito la nullità dell’offerta che, in quanto non sottoscritta, pone un elemento di incertezza circa la possibilità di concludere il contratto.
E’ noto, infatti, che secondo la costante giurisprudenza del giudice amministrativo, la sottoscrizione dell’offerta si configura come lo strumento mediante il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell’offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell’offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
L’espressa comminatoria di nullità impedisce poi di seguire il ragionamento dell’appellante, volto a dimostrare che l’offerta non sottoscritta risultava ad essa riferibile in base ad altri elementi.

L’appello è infondato; il Collegio prescinde quindi dall’esame delle questioni di ammissibilità proposte dalle parti resistenti.
L’appellante è stata esclusa dalla gara di cui al paragrafo 1 che precede non avendo sottoscritto la propria offerta.
Contesta il relativo provvedimento, nonché la sentenza con la quale il primo giudice ha respinto l’impugnazione, affermando che la sua volontà di formulare la proposta contrattuale consacrata nell’offerta risulta con chiarezza dalla sottoscrizione e dalle sigle apposte in diversi documenti, predisposti per la partecipazione alla gara, e che la normativa di gara, che impone appunto la sottoscrizione dell’offerta, deve essere dichiarata nulla per violazione dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
La tesi non può essere condivisa.
L’invocato art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, al comma 1-bis recita: “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
La norma quindi espressamente include la sottoscrizione fra gli elementi essenziali dell’offerta, ed altrettanto espressamente dispone che la sua mancanza determina l’esclusione del concorrente dalla gara.
L’univoco enunciato della norma impone di ritenere che il legislatore, nel risolvere il bilanciamento tra “favor partecipationis” ed esigenza di chiarezza nell’espressione della volontà delle parti, abbia dato la prevalenza a tale ultima esigenza, disponendo –appunto– l’esclusione delle offerte prive di sottoscrizione.
Il legislatore, in altri termini, ha ritenuto la sottoscrizione elemento necessario dell’offerta, la cui mancanza rende dubbia la sua riferibilità al partecipante alla gara; di conseguenza ha sancito la nullità dell’offerta che, in quanto non sottoscritta, pone un elemento di incertezza circa la possibilità di concludere il contratto.
E’ noto, infatti, che secondo la costante giurisprudenza del giudice amministrativo, la sottoscrizione dell’offerta si configura come lo strumento mediante il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell’offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell’offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
L’espressa comminatoria di nullità impedisce poi di seguire il ragionamento dell’appellante, volto a dimostrare che l’offerta non sottoscritta risultava ad essa riferibile in base ad altri elementi.
Atteso che nel caso di specie è pacifico, in punto di fatto, che il legale rappresentante dell’appellante non ha sottoscritto l’offerta, la sua esclusione si appalesa legittima.
In conclusione, l’appello principale deve essere respinto, mentre deve essere dichiarato improcedibile l’appello incidentale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, così che gli atti repressivi dell'abuso, adottati in precedenza, perdono efficacia, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato dalla domanda di sanatoria comporta la formazione ex se di un nuovo provvedimento che, se di rigetto, supera il precedente provvedimento sanzionatorio e deve essere nuovamente impugnato.
Tanto premesso, questa Sezione ritiene di doversi conformare al consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale la presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, così che gli atti repressivi dell'abuso, adottati in precedenza, perdono efficacia, con conseguente improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato dalla domanda di sanatoria comporta la formazione ex se di un nuovo provvedimento che, se di rigetto, supera il precedente provvedimento sanzionatorio e deve essere nuovamente impugnato (Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 16.09.2011, n. 5228; 12.05.2010, n. 2844) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La correttezza contributiva e fiscale è richiesta dalla legge alle imprese partecipanti alle selezioni per l'aggiudicazione degli appalti pubblici come requisito indispensabile, ancor prima che per la stipulazione del contratto, per la stessa partecipazione alla procedura. Da qui la necessità che già in sede, appunto, di gara venga documentata la titolarità del requisito.
Non vi è poi dubbio che la sussistenza del requisito della regolarità contributiva debba essere verificata con riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione delle offerte. A nulla può quindi rilevare una regolarizzazione solo successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto dell’irregolarità ai fini della singola gara. Deve pertanto escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento, circostanza che può rilevare sul piano dei soggetti del rapporto obbligatorio ma non anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
Infine, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha dato atto che il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, l’istanza di rateizzazione sia stata non solo presentata, ma anche accolta, con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo, con la conseguenza che non è ammissibile la partecipazione alla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. g, del Codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda, non abbia conseguito tale provvedimento.

Su un piano generale, è appena il caso di ricordare che la correttezza contributiva e fiscale è richiesta dalla legge alle imprese partecipanti alle selezioni per l'aggiudicazione degli appalti pubblici come requisito indispensabile, ancor prima che per la stipulazione del contratto, per la stessa partecipazione alla procedura (cfr. C.d.S., IV, 27.12.2004, n. 8215; VI, 04.08.2009, n. 4905). Da qui la necessità che già in sede, appunto, di gara venga documentata la titolarità del requisito.
Non vi è poi dubbio che la sussistenza del requisito della regolarità contributiva debba essere verificata con riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione delle offerte. A nulla può quindi rilevare una regolarizzazione solo successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto dell’irregolarità ai fini della singola gara. Deve pertanto escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento (cfr. C.d.S., IV, 12.03.2009 n. 1458; VI, 11.08.2009, n. 4928; 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243), circostanza che può rilevare sul piano dei soggetti del rapporto obbligatorio ma non anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
Infine, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha dato atto che il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, l’istanza di rateizzazione sia stata non solo presentata, ma anche accolta, con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo, con la conseguenza che non è ammissibile la partecipazione alla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. g, del Codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda, non abbia conseguito tale provvedimento (Ad.Pl. n. 20 del 20.08.2013; cfr. anche Ad. Pl. n. 15 del 05.06.2013; VI, 29.01.2013, n. 531; V, 18.11.2011, n. 6084)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 48 del Codice dei contratti pubblici prevede che, quando le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta circa il possesso dei requisiti di capacità non siano state comprovate dalla documentazione all’uopo presentata, e per ciò stesso, “le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità”.
Con il che si rende evidente che le predette misure discendenti dall’esclusione si rivelano strettamente vincolate e consequenziali alla verifica dell’omissione di cui si tratta, e prive di qualsivoglia contenuto discrezionale. La giurisprudenza prevalente è difatti attestata nel senso che l’incameramento della cauzione provvisoria sia una conseguenza sanzionatoria automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, inoltre, ha riconosciuto che la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria può trarre fondamento anche dall'art. 75, comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006, che riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per “fatto dell'affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 dello stesso Codice.

Quanto all’escussione della cauzione, la Sezione osserva che le deduzioni di parte, notevolmente scarne sul punto (agitandosi le sole critiche sopra esposte al paragr. 1 e di seguito già confutate), non sono idonee ex se a far escludere l’avvenuta integrazione dei presupposti per l’incameramento della cauzione provvisoria.
D’altra parte, non è inutile ricordare che l’art. 48 del Codice dei contratti pubblici prevede che, quando le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta circa il possesso dei requisiti di capacità non siano state comprovate dalla documentazione all’uopo presentata, e per ciò stesso, “le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità”. Con il che si rende evidente che le predette misure discendenti dall’esclusione si rivelano strettamente vincolate e consequenziali alla verifica dell’omissione di cui si tratta, e prive di qualsivoglia contenuto discrezionale. La giurisprudenza prevalente è difatti attestata nel senso che l’incameramento della cauzione provvisoria sia una conseguenza sanzionatoria automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti (v. C.d.S., V, 01.10.2010, n. 7263, 18.04.2012, n. 2232, e 10.09.2012, n. 4778; nello stesso senso v. anche, tra le altre, IV, 16.02.2012, n. 810; 24.05.2013, n. 2832; VI, 27.12.2006, n. 7948; III, 16.03.2012, n. 1471).
L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (04.05.2012, n. 8), inoltre, ha riconosciuto che la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria può trarre fondamento anche dall'art. 75, comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006, che riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, intendendosi per “fatto dell'affidatario” qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile, e dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all'art. 38 dello stesso Codice
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il primo Giudice ha richiamato i principi di elaborazione giurisprudenziale in tema di sindacato sulla verifica di anomalia delle offerte. Da un lato, quello per cui la verifica della congruità di un'offerta ha natura globale e sintetica, vertendo sull’attendibilità della medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità a fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica; dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera propria della discrezionalità della Pubblica Amministrazione.
In maniera più articolata, le principali acquisizioni giurisprudenziali che connotano il sindacato giudiziale attivabile in questa materia possono essere così sintetizzate.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici, l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità.
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre non possa invece operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..
E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto per cui il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati.
Viene precisato, infine, che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall’incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme: questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità.

L’appello è infondato.
Il primo Giudice ha opportunamente anteposto alla disamina degli specifici rilievi della SODEXO un richiamo ai principi di elaborazione giurisprudenziale in tema di sindacato sulla verifica di anomalia delle offerte. Da un lato, quello per cui la verifica della congruità di un'offerta ha natura globale e sintetica, vertendo sull’attendibilità della medesima nel suo insieme, e quindi sulla sua idoneità a fondare un serio affidamento sulla corretta esecuzione dell'appalto, onde il relativo giudizio non ha per oggetto la ricerca di singole inesattezze dell'offerta economica; dall’altro, quello che il Giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Stazione appaltante in sede di verifica dell'anomalia delle offerte sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità della relativa istruttoria, ma non può operare autonomamente la stessa verifica senza con ciò stesso invadere la sfera propria della discrezionalità della Pubblica Amministrazione.
In maniera più articolata, le principali acquisizioni giurisprudenziali che connotano il sindacato giudiziale attivabile in questa materia possono essere così sintetizzate.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici, l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità (C.d.S., Ad. Pl., 29.11.2012, n. 36; V, 26.09.2013, n. 4761; 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148; 22.02.2011, n. 1090).
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre non possa invece operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A. (C.d.S., IV, 27.06.2011, n. 3862; V, 28.10.2010, n. 7631).
E’ ormai acquisito anche l’ulteriore punto per cui il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate). Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati (VI, 03.11.2010, n. 7759; V, 22.02.2011, n. 1090; 23.11.2010, n. 8148).
Viene precisato, infine, che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall’incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme (Ad.Pl. n. 36/2012 cit.; V, 14.06.2013, n. 3314; 01.10.2010, n. 7262; 11.03.2010 n. 1414; IV, 22.03.2013, n. 1633; III, 14.02.2012, n. 710): questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell’Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità (V, 15.11.2012, n. 5703; 28.10.2010, n. 7631).
I principi appena ricordati conducono linearmente alla reiezione delle doglianze di parte ricorrente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2014 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.

In linea generale, si osserva che, anche recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241, costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (per tutte Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.01.2014 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa giurisprudenza consolidata ha delineato tre differenti tipi di informative prefettizie:
- quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs. 08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b) del d.P.R. n. 252/1998);
- quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
- quelle “supplementari” (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies, del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa prescinde dal concreto accertamento di responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento mafioso”.
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione mafiosa e della conseguente adozione della informativa ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza.
Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione mafiosa.
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno strumento, con funzione spiccatamente cautelare e preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata, che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di responsabilità penali.
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Se in caso di informativa prefettizia c.d. “atipica” l’efficacia interdittiva può conseguire a seguito di una valutazione autonoma e discrezionale dell’Amministrazione destinataria, nel caso di informativa c.d. “tipica”, diversamente, l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, con la conseguenza che alla Amministrazione destinataria non residua alcun potere di decisione, derivando l’effetto preclusivo direttamente dall’atto del Prefetto, con conseguente autonoma capacità lesiva.

Come noto, alla luce della normativa applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame (oggi abrogata –ma sostanzialmente riprodotta- dal D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, recante Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010, n. 136), la giurisprudenza consolidata ha delineato tre differenti tipi di informative prefettizie:
- quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs. 08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b) del d.P.R. n. 252/1998);
- quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
- quelle “supplementari” (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies, del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa prescinde dal concreto accertamento di responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento mafioso” (a titolo esemplificativo, in ordine a tali consolidati principi, si segnala Consiglio di Stato, sez. III, 19.01.2012, n. 245, id, sez. VI, 15.06.2011, n. 3647; id, 08.06.2009, n. 3491; id, 19.06.2009, n. 4132; id 14.04.2009, n. 2276; id 27.01.2009, n. 510; id, sez. V, 26.11.2008, n., 5846; id, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958; id, sez. V, 27.05.2008, n. 2512; id, sez. IV, 16.03.2004, n. 2783.).
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione mafiosa e della conseguente adozione della informativa ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza (cit. sez. VI, 08.06.2009, n. 3491). Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5753).
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno strumento, con funzione spiccatamente cautelare e preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata, che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di responsabilità penali.
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Come sopra già precisato, se in caso di informativa prefettizia c.d. “atipica” l’efficacia interdittiva può conseguire a seguito di una valutazione autonoma e discrezionale dell’Amministrazione destinataria, nel caso di informativa c.d. “tipica”, diversamente, l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, con la conseguenza che alla Amministrazione destinataria non residua alcun potere di decisione, derivando l’effetto preclusivo direttamente dall’atto del Prefetto, con conseguente autonoma capacità lesiva (questo Tribunale, sez. I, 25.03.2013, n. 323; Consiglio di Stato, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958).
Alla autonoma capacità lesiva, consegue, come è evidente, l’immediata impugnabilità
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.01.2014 n. 85 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIL’art. 43 d.lgs. 267/2000, nella sua chiarezza espositiva, è ispirato alla ratio di garantire ai rappresentanti del corpo elettorale l’accesso ai documenti e alle informazioni utili all’espletamento del loro mandato (munus publicum) anche al fine di permettere e di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, e di esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del consiglio, onde promuovere, anche nell’ambito del consiglio stesso, le iniziative (interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno, deliberazioni) che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale: si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
I documenti e le informazioni possono essere frutto di un’attività istruttoria degli uffici al fine di relazionare su una determinata “materia o affare”, con la conseguenza che tale diritto può anche consistere nella pretesa che gli uffici dell’Amministrazione, interpellati al riguardo, eseguano elaborazioni dei dati e delle informazioni in loro possesso in evidente contrapposizione al divieto di elaborazione previsto dalla L. n. 241/1990.
Va osservato, inoltre, che il limite di natura organizzativa non può essere eccepito dall’Amministrazione a ragione del diniego dell’accesso, proprio perché la “difficoltà organizzativa” rientra tra quelli adempimenti a carico di ogni Amministrazione pubblica e quindi ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari all’assolvimento dei loro compiti.

Il ricorrente è consigliere comunale di opposizione al Comune di San Nicola Arcella e ricopre tale carica dal maggio 2011.
In data 27/11/2012 e 22/01/2013, il ricorrente, ex art. 43 D.Lgs. n. 267/2000, in occasione della convocazione del Consiglio Comunale, inoltrava al responsabile del servizio tributi dell'ente, istanze finalizzate ad ottenere il "dettaglio degli sgravi operati nell'anno 2012; se prontamente disponibile, dettaglio analitico dei residui attivi relativi agli anni 2002 e 2006 di cui alla risorsa 1.01.00.10; se prontamente disponibile, dettaglio analitico dei residui attivi relativi agli anni 1998, 2002, 2004, 2005 e 2006 di cui alla risorsa 1.02.00.70."; nonché la "lista di carico (con dettaglio minimo di: soggetto passivo, indirizzo del luogo della fornitura e importo) servizio idrico integrato anno 2009; lista di carico (con dettaglio minimo del soggetto passivo, indirizzo del luogo della fornitura e importo) servizio idrico integrato Anno 2010; dettaglio analitico dei residui attivi relativi agli anni dal 2007 al 2011 compresi, all'anno 2012 se disponibile”.
Su entrambe le richieste si formava il silenzio diniego non impugnato dal ricorrente.
In data 16/07/2013 il ricorrente, ex art. 43 D.Lgs. 267/2000, inoltrava al responsabile dell'ufficio tributi istanza finalizzata ad ottenere una pluralità di informazioni articolata negli otto punti di seguito riportati:
1. lista degli sgravi, annullamenti e note di credito riferite al S.I.I., operati nell'anno 2012 e nel I semestre 2013. Il dettaglio dovrà riportare l'indicazione minima del soggetto passivo, il motivo del provvedimento (errata imposizione, imposta già pagata, ecc.) e l'importo;
2. lista degli accertamenti (ICI, IMU, TARSU, SII, TOSAP) effettuati nell'anno 2012 e nel primo semestre 2013. Il dettaglio dovrà riportare l'indicazione minima del soggetto accertato, la natura delle motivazioni su cui fonda l'accertamento e l'importo accertato;
3. dettaglio analitico dei residui attivi degli anni 2002 e 2006 di cui alla risorsa 1.01.00.10 del bilancio;
4. dettaglio analitico dei residui attivi relativi agli anni 1998, 2002, 2004, e dal 2005 al 2011 di cui alla risorsa 1.02.00.70 del bilancio;
5. lista di carico del servizio idrico integrato riferita agli anni 2009, 2010, 2011 e 2012;
6. minuta di ruolo TARSU riferita agli anni 2010, 2011 e 2012;
7. elenco dei ricorsi alla C.T., delle richieste di annullamento, sgravi e correzioni, reclamo o istanza inerente materia di tributi, pervenuti a codesto ufficio nell'anno 2012 e nel primo semestre 2013. 8.l'accesso al programma di gestione dei tributi e l'accesso alla nuova banca dati mediante la creazione di un nuovo utente proietto da password e con diritti di sola lettura.
In data 14/08/2013, con protocollo n. 5673, veniva emesso provvedimento di diniego con riferimento ai punti dal n. 1 al n. 7 perché "... è operazione alquanto impegnativa"; in merito al punto 8 e limitatamente alla nuova banca dati perché, con richiamo all'art. 26, comma 3, del regolamento comunale, essa è assimilabile ad un documento futuro e come tale non ostensibile "la banca dati è in fase di elaborazione. Quando sarà formalmente approvata sarà messa a sua disposizione".
Avverso tale provvedimento insorgeva il ricorrente chiedendone l’annullamento.
Si costituiva in giudizio l’amministrazione resistente chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio del 19.12.2013 la causa veniva trattenuta in decisione.
Il ricorso è parzialmente fondato.
L’istanza di accesso proposta in data 16.07.2013 dal ricorrente, nella parte in cui ha ad oggetto i medesimi atti e documenti oggetto delle due precedenti istanze (rispettivamente presentate in data 27/11/2012 e 22/01/2013), costituisce il tentativo di reiterare le medesime precedenti istanze di accesso al solo fine di riaprire il termine di impugnazione del silenzio previsto dall’art. 25 L. n. 241/1990 che, per giurisprudenza pacifica, è un termine decadenziale.
Non è consentito, infatti, superare il regime decadenziale previsto dall'art. 25, L. n. 241 del 1990 e dall’art. 116 c.p.a., reiterando l'istanza di accesso a fronte della mancata impugnazione del silenzio serbato dall'Amministrazione sulla prima istanza di accesso, in specie allorché la nuova domanda non sia giustificata da circostanze nuove (TAR Lazio Roma, sez. I, 04.01.2012 n.63; Consiglio Stato, sez. VI, 30.07.2009, n. 4810).
Dalla natura impugnatoria del processo in materia di accesso ai documenti amministrativi, nonostante la qualificazione dell'accesso come diritto, deriva l'inammissibilità del ricorso per mancata tempestiva impugnazione del diniego o del silenzio nel termine di trenta giorni (art. 116 c.p.a.) e l'impossibilità di reiterare la medesima istanza se non è stata contestata giudizialmente la precedente risposta negativa; sicché una nuova istanza di accesso può ritenersi ammissibile solo per fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza, ciò che non ricorre nel caso di specie.
Conseguentemente, il ricorso limitatamente ai documenti e atti già in precedenza richiesti, (sub. 1 fino al 2012; sub 3), sub 4) fini al 2006; sub 5) fino al 2010), deve essere dichiarato inammissibile.
Per i documenti e atti richiesti per la prima volta con l’istanza datata 16.07.2013, invece, il ricorso è fondato.
L’art. 43 d.lgs. 267/2000, nella sua chiarezza espositiva, è ispirato alla ratio di garantire ai rappresentanti del corpo elettorale l’accesso ai documenti e alle informazioni utili all’espletamento del loro mandato (munus publicum) anche al fine di permettere e di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, e di esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del consiglio, onde promuovere, anche nell’ambito del consiglio stesso, le iniziative (interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno, deliberazioni) che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale: si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
I documenti e le informazioni possono essere frutto di un’attività istruttoria degli uffici al fine di relazionare su una determinata “materia o affare”, con la conseguenza che tale diritto può anche consistere nella pretesa che gli uffici dell’Amministrazione, interpellati al riguardo, eseguano elaborazioni dei dati e delle informazioni in loro possesso (Cons. Stato, sez. V, 02.09.2005, n. 4471) in evidente contrapposizione al divieto di elaborazione previsto dalla L. n. 241/1990.
Va osservato, inoltre, che il limite di natura organizzativa non può essere eccepito dall’Amministrazione a ragione del diniego dell’accesso, proprio perché la “difficoltà organizzativa” rientra tra quelli adempimenti a carico di ogni Amministrazione pubblica e quindi ogni singola struttura dovrà dotarsi di tutti i mezzi necessari all’assolvimento dei loro compiti (Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2716/2004).
Il ricorso, pertanto, nei limiti precisati, deve essere accolto e per l’effetto deve essere annullato il diniego impugnato.
L’amministrazione resistente dovrà pertanto consentire al ricorrente di estrarre copia dei documenti richiesti entro il termine di trenta giorni (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.01.2014 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I provvedimenti concernenti speciali forme di contenimento e di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività, in materia di servizi pubblici essenziali, sono riservati esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri, e ciò all’evidente scopo di uniformare l’azione amministrativa alle enucleate peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici essenziali.
In tali ipotesi, venendo in rilievo concorrenti interessi di rilievo pubblicistico inerenti a servizi pubblici essenziali, la sede di composizione del conflitto non può essere individuata nel livello territoriale comunale, neppure ai fini dell’emanazione di provvedimenti contingibili e urgenti, ma si sposta inevitabilmente ad un livello più elevato.
Il trasporto ferroviario è qualificato come “servizio pubblico essenziale” dall’art. 1 comma 2, lett. b), L. 12.06.1990 n. 146. Ne consegue che in tale specifica materia, eventuali provvedimenti contingibili e urgenti concernenti il contenimento e l’abbattimento delle emissioni sonore derivanti dal trasporto ferroviario sono di competenza del Presidente del Consiglio, e non del Sindaco.
Ne consegue ulteriormente che l’atto impugnato, nell’ordinare alla società ricorrente di porre in essere misure urgenti di mitigazione del rumore ferroviario, è palesemente viziato da incompetenza e da difetto di attribuzione, essendo stato adottato dal Sindaco invece che dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

L’art. 9, comma 1, della L. 26.10.1995 n. 447 (“Legge quadro sull’inquinamento acustico”), prevede che “Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, il prefetto, il Ministro dell'ambiente, secondo quanto previsto, e il Presidente del Consiglio dei ministri, nell'ambito delle rispettive competenze, con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività”.
La stessa norma precisa, peraltro, che “Nel caso di servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata esclusivamente al Presidente del Consiglio dei ministri”.
In forza di quest’ultima disposizione, è consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui i provvedimenti concernenti speciali forme di contenimento e di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività, in materia di servizi pubblici essenziali, sono riservati esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri, e ciò all’evidente scopo di uniformare l’azione amministrativa alle enucleate peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici essenziali (TAR L’Aquila, sez. I, 10.01.2013, n. 8; TAR Perugia, sez. I, 22.12.2011, n. 411 e 11.11.2008 n. 722; TAR Firenze sez. II, 15.03.2002, n. 494; Consiglio di Stato, sez. V, 09.02.2001, n. 580).
In tali ipotesi, venendo in rilievo concorrenti interessi di rilievo pubblicistico inerenti a servizi pubblici essenziali, la sede di composizione del conflitto non può essere individuata nel livello territoriale comunale, neppure ai fini dell’emanazione di provvedimenti contingibili e urgenti, ma si sposta inevitabilmente ad un livello più elevato.
Il trasporto ferroviario è qualificato come “servizio pubblico essenziale” dall’art. 1 comma 2, lett. b), L. 12.06.1990 n. 146. Ne consegue che in tale specifica materia, eventuali provvedimenti contingibili e urgenti concernenti il contenimento e l’abbattimento delle emissioni sonore derivanti dal trasporto ferroviario sono di competenza del Presidente del Consiglio, e non del Sindaco.
Ne consegue ulteriormente che l’atto impugnato, nell’ordinare alla società ricorrente di porre in essere misure urgenti di mitigazione del rumore ferroviario, è palesemente viziato da incompetenza e da difetto di attribuzione, essendo stato adottato dal Sindaco invece che dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le stesse misure di mitigazione indicate in via esemplificativa dal Sindaco nella nota difensiva prodotta in giudizio (“diminuire la velocità all’entrata e all’uscita delle stazioni, ovvero in presenza di nuclei urbani, soprattutto in orario notturno...”) rendono ancora più evidente l’incidenza di tali misure sulle modalità di gestione del servizio pubblico di trasporto, con effetti interferenziali non riducibili al solo territorio comunale ma estensibili all’intera rete di trasporto nazionale: da cui la necessità, avvertita dal legislatore, di attribuire ogni potere in merito ad una Autorità sovraordinata e centrale.
Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso è fondato e va accolto, con il conseguente annullamento dell’ordinanza sindacale impugnata e l’assorbimento delle ulteriori censure dedotte (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.01.2014 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria.
Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita.
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Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile ("la nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell' immobile oggetto della compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che sia demolito;
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati, fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n. 47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: "il carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del 2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza non può integrare una inammissibile “interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.

Ciò posto, il Collegio richiama, in proposito, il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I Sent., 14.12.2007, n. 26260) di recente ribadito dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 18.07.2013, n. 17604) secondo il quale “in tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria. Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd. "espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa -sia urbanistica, che espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971)- quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita" (Cass. nn. 17881/2004; 26260/ 2009; 4206/2011; Sez. Un. n. 9341/2003).
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Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal Tar) che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu.
Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile (ex aliis, arg. Cass. civ. Sez. II, 05.10.2012, n. 17028: “la nullità prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, di cui all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell' immobile oggetto della compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Da ciò consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.”);
- la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che sia demolito (ex aliis ancora di recente Cass. pen. Sez. III Sent., 29.03.2007, n. 22853);
- esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.
Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati, fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n. 47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).
Detta situazione di illecito (di natura permanente: si veda ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651 “il carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del 2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza non può integrare una inammissibile “interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.
L’illecito sopravvenuto, in altre parole, non vale a trasformare in diritto necessitante riparazione ciò che tale non era; che tale non era sotto il profilo oggettivo; che non rilevava in nessun senso per l’ordinamento giuridico.
A maggiore chiarificazione, si ricorrerà ad un esempio: la eventualità di accordare il risarcimento del danno per la (illegittima, certamente, ciò non può negarsi) demolizione di immobili abusivamente edificati e non ancora sanati, equivarrebbe ad ipotizzare la possibilità che colui il quale si sia indebitamente impossessato di un portafogli altrui (art. 624 cp) ove a propria volta derubato, possa chiedere il risarcimento del danno al (secondo) ladro
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel nostro ordinamento, non è ammissibile l'autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione.
Pertanto, la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria. Ove nel danno esistenziale si intenda includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c..
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Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie. Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla salute, il risarcimento dovrà essere commisurato al peggioramento della qualità della vita effettivamente dimostrato dalla vittima, mentre non trova più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza d'animo, il quale perciò non rientra tra le conseguenze dannose che possano formare oggetto di prova.
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Nel giudizio amministrativo, vige il generale principio processualistico di cui all’art. 2697 c.c. in base al quale incombe sulla parte attrice l’onere di indicare e dimostrare specificamente i fatti posti a fondamento della pretesa azionata. Tale principio -che subisce un’attenuazione nell’ipotesi in cui il giudizio verta su interessi legittimi, per effetto dell’intermediazione del provvedimento amministrativo- trova piena applicazione in sede di giurisdizione esclusiva in cui si verte di diritti soggettivi.
Nel processo amministrativo, nei casi di giurisdizione esclusiva, ove si facciano valere pretese patrimoniali, il principio dell’onere della prova si applica nella sua pienezza, non essendo consentito al Giudice di supplire all’attività istruttoria delle parti, per lo meno quando, come appunto accade nel caso all’esame, nessuna situazione di inferiorità sia dedotta dal ricorrente, né sia in concreto ravvisabile, in ordine alla disponibilità del materiale documentale necessario per provare i fatti allegati) esso però è stato ignorato da parte appellante che non ha assolto all’onere probatorio a se spettante.

Resta da vagliare l’argomento (motivo n. 12) relativo al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale e quello (13) relativo alla liquidazione delle spese del procedimento.
Quanto al primo, il Tar ha evidenziato l’assoluto difetto di prova ed allegazione da parte del ricorrente in chiave applicativa dell’art. 2059 cc.
Il quadro dal quale il Collegio non intende discostarsi è quello scolpito nella recente, condivisibile, decisione della Sezione (Cons. Stato Sez. IV, 05.09.2013, n. 4464) secondo la quale “nel nostro ordinamento, non è ammissibile l'autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione. Pertanto, la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria. Ove nel danno esistenziale si intenda includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c.”.
Rammenta in proposito il Collegio che condivisibile recente giurisprudenza ha affermato che Cass. civ. Sez. VI - 3 Ordinanza, 14.05.2013, n. 11514 (rv. 626652) “il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie. Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla salute, il risarcimento dovrà essere commisurato al peggioramento della qualità della vita effettivamente dimostrato dalla vittima, mentre non trova più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza d'animo, il quale perciò non rientra tra le conseguenze dannose che possano formare oggetto di prova.”.
Non si nega che anche un evento non incidente su un bene personalissimo quale la salute possa provocare un pregiudizio non patrimoniale nei termini sopra intesi.
Ciò che si nega è invece, in armonia alla consolidata giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. III, 19.07.2013, n. 3943 “nel giudizio amministrativo spetta al ricorrente, che assume di aver subito un danno dall'adozione di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento della P.A., l'onere della prova, secondo il principio generale fissato dall'art. 2697 c.c. non potendo a tanto supplire il soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di prove che sono nella piena disponibilità della parte”) e civile (ex aliis Cass. civ. Sez. lavoro, 18.07.2013, n. 17585) che detto danno sfugga all’ordinario criterio di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 cc e possa integralmente desumersi da presunzioni a loro volta soltanto labialmente affermate.
Di ciò non pare rendersi conto l’appellante che neppure in grado d’appello ha colmato l’assoluto deficit probatorio riscontrato in primo grado (nei limiti in cui ciò sarebbe stato possibile ex art. 345 cpc) e continua a far riferimento a dati “categoriali“ (il coraggio di imprenditore dimostrato dal B., etc.) senza punto fornire prova dell’asserito peggioramento della qualità della vita di questi, del pretium doloris asseritamente patito, etc.
Il principio, quanto alle posizioni di diritto soggettivo non è nuovo, né recente (ex aliis TAR Basilicata Potenza Sez. I, 10.09.2010, n. 616: “nel giudizio amministrativo, vige il generale principio processualistico di cui all’art. 2697 c.c. in base al quale incombe sulla parte attrice l’onere di indicare e dimostrare specificamente i fatti posti a fondamento della pretesa azionata. Tale principio -che subisce un’attenuazione nell’ipotesi in cui il giudizio verta su interessi legittimi, per effetto dell’intermediazione del provvedimento amministrativo- trova piena applicazione in sede di giurisdizione esclusiva in cui si verte di diritti soggettivi”; -Cons. Stato Sez. III, 14.12.2011, n. 6573- “nel processo amministrativo, nei casi di giurisdizione esclusiva, ove si facciano valere pretese patrimoniali, il principio dell’onere della prova si applica nella sua pienezza, non essendo consentito al Giudice di supplire all’attività istruttoria delle parti, per lo meno quando, come appunto accade nel caso all’esame, nessuna situazione di inferiorità sia dedotta dal ricorrente, né sia in concreto ravvisabile, in ordine alla disponibilità del materiale documentale necessario per provare i fatti allegati) esso però è stato ignorato da parte appellante che non ha assolto all’onere probatorio a se spettante"
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2014 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.
Si premette che il Collegio condivide quanto a più riprese affermato dalla a giurisprudenza amministrativa secondo cui “l'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01.10.2007, n. 5052).
Nel caso di specie non vi sono censure sotto tal profilo –che comunque rileva ai fini dell’an della concedibilità del risarcimento– il che esonera il Collegio da un partito esame della fattispecie e lo legittima ad affermare, per incidens, che avuto riguardo allo svolgimento della vicenda, ed in relazione alle carenze riscontrate nella variante e ribadite sia dal Tar che da questo Giudice d’appello con statuizione regiudicata, sussiste certamente il detto requisito legittimante.
Ciò premesso, l’appellante aveva chiesto il titolo abilitativo; venne adottata una variante impeditiva; essa precludeva la realizzazione di quanto ipotizzato (il dato è incontestabile); avverso la stessa, in quanto immediatamente lesiva, venne proposto ricorso giurisdizionale (non già il 25.03.2011, come inesattamente affermato dalla difesa del Comune, ma) nel 2008; detta scelta non appare neppure dilatoria ma, anzi, pur potendosi attendere la definitiva approvazione della variante, la ditta ebbe ad attivarsi giurisdizionalmente.
Il Collegio ben conosce l’orientamento di autorevole giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato Sez. V, 12.02.2013, n. 799 “in tema di responsabilità civile della P.A. l'omessa impugnazione di un atto amministrativo lesivo può rilevare unicamente ai fini del riconoscimento o della quantificazione del danno, quale comportamento –rispettivamente- determinante o meramente concausale del pregiudizio subito, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1227 c.c.”) in punto di applicabilità dell’art. 1227 cc con riferimento alla omessa attivazione in sede giurisdizionale del danneggiato.
E sono note le critiche che ad esso ha mosso qualificata dottrina –muovendo dalla interpretazione che di tale art. 1227 cc ha costantemente reso la giurisprudenza civile di legittimità-.
Tuttavia non ha luogo nel caso di specie ad immorare su detta tematica per una troncante ragione: avuto riguardo all’andamento processuale ed alla scansione temporale siccome sinteticamente riassunta nessun addebito può muoversi alla richiedente ditta in proposito e ciò in disparte la circostanza che essa, addirittura, ebbe a versare le somme (€ 17.561.00) dovute all’Amministrazione a titolo di onere concessorio (somme che, certamente, dovranno comunque essere restituite) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2014 n. 45 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: E' ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di un’opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione.
Deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla irreversibile trasformazione del fondo che ad essa consegue effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d’acquisto..
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio giuridico, o ad un decreto espropriativo adottato all’esito di un rinnovato procedimento di pubblica utilità, ovvero, se del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può precludere la restituzione del bene: di guisa che, in assenza di un tale atto, è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di quest’ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima.
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La persistente occupazione dei terreni di proprietà del ricorrente in assenza di un valido titolo idoneo a trasferirne la proprietà alla P.A. (decreto di esproprio, cessione volontaria, atto di acquisizione ex art. 42-bis) configura un illecito permanente che obbliga la P.A. alla restituito in integrum, oltre che al risarcimento del danno per il mancato godimento dei beni durante il periodo di occupazione illegittima.
La restituito in integrum non può essere paralizzata dalla presenza dell’opera pubblica, la quale non dà titolo per opporre l’eccessiva onerosità della rimozione delle opere nel frattempo realizzate né per invocare il principio di cui al comma 2 dell’art. 2933 cod. civ.: infatti l’eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 cod. civ. non è opponibile nelle azioni intese a far valere un diritto reale, il cui carattere assoluto non lascia margini a modalità di reintegrazione diverse da quella in forma specifica, salva diversa volontà del titolare.
La Pubblica Amministrazione è tenuta a far cessare tale occupazione illecita in una delle forme attualmente previste dall’ordinamento (restituzione e risarcimento del danno; accordo col privato proprietario; decreto di acquisizione ex art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), anche perché la persistente occupazione abusiva non fa che aggravare l’entità del risarcimento del danno che l’Amministrazione sarà necessariamente chiamata a pagare al privato proprietario, e quindi, correlativamente, anche la consistenza del danno erariale causato da tale comportamento illecito.

Questa Sezione ha già avuto modo di rilevare che è ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di un’opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione.
Deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla irreversibile trasformazione del fondo che ad essa consegue effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d’acquisto (TAR Piemonte, sez. I, 10.05.2013, n. 607; TAR Piemonte, sez. I, 30.08.2012 n. 985).
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall’opera pubblica (TAR Piemonte, sez. I, sentenze citate).
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio giuridico, o ad un decreto espropriativo adottato all’esito di un rinnovato procedimento di pubblica utilità, ovvero, se del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001, può precludere la restituzione del bene: di guisa che, in assenza di un tale atto, è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso.
Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di quest’ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima.
Ciò posto, va rilevato che nel caso sottoposto all’attenzione del collegio non risulta che gli enti resistenti e la parte ricorrente siano addivenuti alla sottoscrizione di un accordo per la cessione volontaria della proprietà dei terreni in questione, né risulta che la procedura espropriativa sia stata rinnovata e conclusa con un decreto di esproprio, né infine consta che gli enti procedenti abbiano acquisito la proprietà dei fondi con decreto ex art. 43 D.P.R. 327/2001 (ora non più applicabile per effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma pronunciata con sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010) ovvero ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001, introdotto con D.L. 98/2011.
Di conseguenza, fatta applicazione dei principi esposti al precedente paragrafo, il collegio ritiene infondata e respinge la domanda risarcitoria da “occupazione appropriativa” formulata con il ricorso introduttivo, perdurando il diritto di proprietà che la ricorrente vanta sui fondi occupati per la realizzazione dell’opera pubblica.
Peraltro, l’occupazione del terreno della ricorrente da parte della Pubblica Amministrazione perdura attualmente per effetto della realizzazione dell’infrastruttura stradale, e costituisce un fatto illecito permanente, a fronte del quale l’interessata è tuttora in condizione e nei termini per proporre le opportune azioni di restituzione e di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima (decorrente, quest’ultimo, dalla data di scadenza del periodo di occupazione legittima stabilito nel decreto di occupazione d’urgenza).
Tali azioni non possono essere esaminate nel presente giudizio:
- in primo luogo perché non sono state proposte dalla ricorrente, sicché ogni eventuale decisione del giudice su tali domande dovrebbe necessariamente fondarsi su un inammissibile stravolgimento del thema decidendum, così come definito dal petitum e dalla causa petendi della domanda effettivamente proposta in giudizio dalla ricorrente;
- in secondo luogo perché, quanto ai profili restitutori, non è affatto certo che un’eventuale domanda in tal senso potrebbe oggi essere accolta nei confronti degli odierni convenuti, nessuno dei quali sembra attualmente nel possesso o nella detenzione del bene di cui si controverte (secondo le non contestate deduzioni della difesa comunale, la gestione delle strade realizzate sul terreno di proprietà della ricorrente sembrerebbe essere passata prima alla Regione Piemonte, e attualmente alle Provincie di Novara e del VCO).
Nel contempo, peraltro, va anche considerato che la persistente occupazione dei terreni di proprietà del ricorrente in assenza di un valido titolo idoneo a trasferirne la proprietà alla P.A. (decreto di esproprio, cessione volontaria, atto di acquisizione ex art. 42-bis) configura un illecito permanente che obbliga la P.A. alla restituito in integrum, oltre che al risarcimento del danno per il mancato godimento dei beni durante il periodo di occupazione illegittima.
La restituito in integrum non può essere paralizzata dalla presenza dell’opera pubblica, la quale non dà titolo per opporre l’eccessiva onerosità della rimozione delle opere nel frattempo realizzate né per invocare il principio di cui al comma 2 dell’art. 2933 cod. civ.: infatti l’eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 cod. civ. non è opponibile nelle azioni intese a far valere un diritto reale, il cui carattere assoluto non lascia margini a modalità di reintegrazione diverse da quella in forma specifica, salva diversa volontà del titolare (TAR Piemonte, sez. I. 30.08.2012, n. 985; Cass. Civ. sez. II n. 2359/2012).
La Pubblica Amministrazione è tenuta a far cessare tale occupazione illecita in una delle forme attualmente previste dall’ordinamento (restituzione e risarcimento del danno; accordo col privato proprietario; decreto di acquisizione ex art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), anche perché la persistente occupazione abusiva non fa che aggravare l’entità del risarcimento del danno che l’Amministrazione sarà necessariamente chiamata a pagare al privato proprietario, e quindi, correlativamente, anche la consistenza del danno erariale causato da tale comportamento illecito.
Allo stato non è chiaro chi detenga attualmente il terreno: da quanto è emerso in giudizio, sembrerebbe di comprendere le Province di Novara e del VCO.
Pertanto, la presente sentenza sarà comunicata dalla Segreteria di questo TAR anche alle Province di Novara e del VCO affinché provvedano, nel caso in cui detengano il terreno di proprietà della ricorrente in qualità di gestori (di distinte porzioni) della strada realizzata sullo stesso, ad adottare le opportune iniziative volte a far cessare l’illecita occupazione del terreno medesimo.
In relazione ai profili di danno erariale allo stato già insiti nella vicenda esaminata, copia della presente sentenza sarà trasmessa anche alla Procura regionale della Corte dei Conti, per quanto di competenza.
Conclusivamente, sulla scorta di tali considerazioni e con le predette puntualizzazioni, il ricorso va respinto, salva la facoltà della ricorrente di introdurre autonomo giudizio nei confronti degli aventi titolo per la restituzione del bene e per il risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.01.2014 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La destinazione impressa ad aree a “servizi di standard”, di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce un vincolo preordinato all'esproprio in quanto, a differenza del vincolo conformativo, comporta l'inedificabilità del suolo o, comunque, incide in maniera significativa e per un tempo irragionevole sulla proprietà dell'interessato.
I ricorrenti impugnano gli atti indicati in epigrafe limitatamente alla parte in cui hanno confermato la destinazione a standards di una porzione dell’area di loro proprietà, mentre non contestano la residua parte degli stessi provvedimenti relativa al ripristino della destinazione agricola della restante porzione dell’area.
I ricorrenti agiscono, pertanto, a tutela dell’interesse sostanziale a conseguire l’eliminazione del vincolo preordinato all’esproprio impresso dagli atti impugnati su una porzione del terreno di loro proprietà.
La destinazione impressa ad aree a “servizi di standard”, di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce un vincolo preordinato all'esproprio in quanto, a differenza del vincolo conformativo, comporta l'inedificabilità del suolo o, comunque, incide in maniera significativa e per un tempo irragionevole sulla proprietà dell'interessato (da ultimo, TAR Latina, sez. I, 28.10.2013 n. 810; conf. TAR Napoli, Sez. VII, 14.01.2011, n. 181; TAR Milano, Sez. II, 21.10.2009, n. 4787)
Sennonché, nel caso di specie tale vincolo non esiste più, essendo decaduto sin dal 2005 ai sensi dell’art. 9 del d.p.r. n. 327/2001 (nonché del previgente art. 2 della l. n. 1187/1968). L’art. 9 del d.p.r. 327/2001 prevede che “Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera (comma 2). Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell'opera, il vincolo preordinato all'esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall'articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (comma 3). Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti nel comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard” (comma 4).
La difesa comunale ha dato atto che il vincolo a standard, introdotto il 12.06.2000 con l’atto di approvazione regionale della Variante n. 4 al PRGI di Oleggio, è decaduto ex lege non essendo stato reiterato alla sua scadenza quinquennale, né avendo il Comune avviato la procedura ablatoria; anche lo stato dei luoghi è rimasto immutato rispetto alla situazione preesistente all’adozione degli atti impugnati.
Ne consegue che i ricorrenti non hanno evidentemente più interesse a chiedere l’eliminazione di un vincolo che è già decaduto ipso iure. E dal momento che l’intero ricorso si fonda sull’interesse dei ricorrenti ad ottenere l’eliminazione del predetto vincolo, ne consegue ulteriormente che il gravame, non più sorretto da tale interesse, va dichiarato improcedibile (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.01.2014 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è concorde nel ritenere che tra gli interventi di “manutenzione straordinaria”, assoggettati a regime autorizzativo e non concessorio, rientrino anche quelli consistenti della “demolizione e fedele ricostruzione di un fabbricato preesistente”, in quanto la realizzazione del nuovo fabbricato, siccome identico al preesistente, non introduce alcun elemento di novità nel tessuto urbanistico.
Il ricorso è infondato e va respinto.
Dagli atti versati in giudizio si evince che la società ricorrente è subentrata in data 31.05.1999 nella concessione edilizia già rilasciata dal Comune di Novara ad altro operatore per -tra l’altro- la ristrutturazione e l’ampliamento di un fabbricato esistente in fregio a via Morandi, denominato corpo “B”. Durante i lavori di scavo la società ricorrente avrebbe riscontrato alcune gravi patologie nel terreno di fondazione, che nel corso dei lavori avrebbero determinato crolli e cedimenti di alcune strutture, tanto che la ricorrente avrebbe ritenuto “necessaria un’opera di demolizione e ricostruzione”. Ultimati i lavori di demolizione e ricostruzione, la ricorrente ha formulato istanza di concessione in variante o, in subordine, di concessione in sanatoria. Il Comune ha accolto l’istanza di sanatoria invitando l’interessata al pagamento a titolo di oblazione della somma di £ 228.232.560, “come previsto dall’art. 13 della Legge n. 47 del 28.02.1985”. La ricorrente ha contestato tale quantificazione, pur provvedendo ugualmente al pagamento richiesto con riserva di rivalsa (parziale).
Ciò posto, va osservato che l’art. 13, comma 3, della L. 28.02.1985 n. 47 dispone che “Il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di concessione in misura doppia, ovvero, nei soli casi di gratuità della concessione a norma di legge, in misura pari a quella prevista dagli articoli 3, 5, 6 e 10 della legge 28.01.1977, n. 10”.
Tra gli interventi soggetti a concessione gratuita vi sono quelli di “manutenzione straordinaria” di cui all’art. 9, lettera c), della L. 28.01.1977, n. 10.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che tra gli interventi di “manutenzione straordinaria”, assoggettati a regime autorizzativo e non concessorio, rientrino anche quelli consistenti della “demolizione e fedele ricostruzione di un fabbricato preesistente”, in quanto la realizzazione del nuovo fabbricato, siccome identico al preesistente, non introduce alcun elemento di novità nel tessuto urbanistico.
La tesi di parte ricorrente si ricollega, e prende spunto, proprio da tale giurisprudenza.
Secondo la ricorrente, erroneamente l’amministrazione avrebbe quantificato l’importo dell’oblazione in misura pari al doppio del contributo di concessione, dal momento che l’intervento realizzato, consistendo nella “demolizione e fedele ricostruzione” dell’edificio preesistente, sarebbe riconducibile alla categoria degli interventi di “manutenzione straordinaria” soggetti a concessione gratuita ex art. 9, lettera c), della L. 28.01.1977, n. 10, e come tali assoggettati al pagamento dell’oblazione ragguagliata al contributo di concessione in misura ordinaria, secondo quanto previsto dalla norma appena citata.
Osserva il collegio che tale prospettazione è infondata, in quanto poggia su un presupposto di fatto -quello secondo cui l’intervento realizzato consisterebbe nella “demolizione e fedele ricostruzione” dell’edificio preesistente– che appare smentito documentalmente.
In particolare:
- nella stessa relazione tecnica allegata dalla ricorrente alla propria istanza di concessione in variante, redatta dal geom. Z. e dall’ing. F., si fa espresso riferimento “ad una nuova definizione dei materiali di facciata ed una diversa disposizione interna dei locali e delle scale”; si afferma che “si sono leggermente ingranditi i balconi al piano dei giardini privati e, al fine di contenere i volumi riscaldati degli alloggi, si sono ridotte le altezze utili interne”; soprattutto si ammette che “Per quanto concerne la struttura…le varianti sono state sostanziali…”;
- nella concessione in variante e sanatoria n. 5940 del 06.04.2001, si fa riferimento, relativamente al corpo di fabbrica “B”, a “modifiche del piano interrato, all’eliminazione di un corpo di fabbrica interno, alla diversa sistemazione delle aree scoperte di Via Rosmini 24 e Via Morandi 3-5”;
- nella planimetria prodotta in giudizio dalla difesa comunale (doc. 4), non contestata dalla difesa di parte ricorrente, si evidenzia graficamente anche la diversità della sagoma dell’edificio realizzato rispetto a quella dell’edificio originariamente progettato e oggetto della concessione iniziale del 1999.
E’ dunque documentale che non si sia trattato di una “fedele ricostruzione” del fabbricato previsto dal progetto inizialmente assentito dal Comune, e tanto meno di una fedele ricostruzione del fabbricato preesistente.
Si è trattato, invece, di una ristrutturazione c.d. “pesante”, se non addirittura di una “nuova costruzione”, realizzata con la demolizione dell’edificio preesistente e l’edificazione di un organismo edilizio nuovo e diverso, almeno in parte, da quello originario.
Ne consegue che l’intervento non può essere annoverato tra quelli di manutenzione straordinaria di cui all’art. 9, lettera c), della L. n. 10/1977 assoggettati a concessione gratuita. Ne consegue ulteriormente che il rilascio della concessione in sanatoria è stata correttamente sottoposta al pagamento dell’oblazione in misura pari al doppio del contributo di costruzione, secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 3, della L. n. 47/1985.
Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.01.2014 n. 40 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIGli architetti hanno la competenza esclusiva sugli edifici storici.
E’ quanto statuito dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 09.01.2014 n. 21.
In Italia le professioni di ingegnere e di architetto sono disciplinate dal Regio Decreto 2537/1925.
L’art. 52 del decreto assegna la competenza per le opere di edilizia civile sia agli ingegneri che agli architetti.
La Corte di giustizia dell’UE ha chiarito che
la direttiva europea 85/384/CEE non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/2006, cit.).
Successivamente la Corte ha chiarito che “
quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g)- né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico”.
L’esame della normativa comunitaria rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti –per così dire– ‘a regìme’ è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto.
Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3, individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi formativi nazionali devono possedere affinché i professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al mutuo riconoscimento e alla libera circolazione.
Esaminando il contenuto minimo obbligatorio che la direttiva europea impone affinché un determinato percorso di formazione sia incluso fra quelli che consentono di invocare il mutuo riconoscimento, ci si rende conto che tali requisiti sono pienamente compatibili con il consolidato orientamento del CdS il quale ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
La giurisprudenza del CdS ha giustificato dal punto di vista sistematico la richiamata, parziale riserva sul rilievo secondo cui “
per quanto nel corso di studi degli ingegneri civili non manchino approfondimenti significativi nel settore dell’architettura, al professionista architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, frutto di maggiori studi e approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di penetrare le problematiche e le sottese valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di rilevanza artistica” (in tal senso, da ultimo, la stessa ordinanza di rimessione di questa Sezione n. 386/2012, dinanzi richiamata).
Con le motivazioni di sopra riportate il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso in appello n. 2527/2009 proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno avente ad oggetto controversie insorte in ordine alla legittimità di determinazioni amministrative consistite essenzialmente nell’escludere professionisti italiani appartenenti alla categoria degli ingegneri dal conferimento in Italia di incarichi afferenti la direzione di lavori da eseguirsi su immobili di interesse storico-artistico (commento tratto da www.tecnici24.ilsole24ore.com).
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Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali avverso la sentenza del TAR del Veneto con cui è stato accolto il ricorso proposto dall’Ingegner Mosconi e dall’Ordine degli Ingegneri di Verona e provincia e per l’effetto –previa disapplicazione delle disposizioni di cui all’articolo 52 del r.d. 2537 del 23.10.1925 (‘Approvazione del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto’)- è stato disposto l’annullamento del provvedimento con cui la competente Soprintendenza aveva negato il subentro dell’Ingegner Mosconi nella direzione di alcuni lavori da realizzarsi su un immobile sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (‘Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352’ – in seguito: decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 -).
Giunge, altresì, alla decisione del Collegio il ricorso proposto da sette Ordini degli ingegneri della Regione Veneto avverso la sentenza del TAR del Veneto con cui è stato respinto il ricorso da essi proposto avverso il bando e il disciplinare di gara per l’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e recupero funzionale di alcuni immobili sottoposti a vincolo ai sensi del richiamato decreto legislativo n. 490 del 1999.
Va disposta anzitutto la riunione dei ricorsi in appello di cui in epigrafe atteso che gli stessi, supponendo la soluzione di analoghe questioni giuridiche, meritano di essere trattati congiuntamente per essere definiti con un’unica sentenza.
Nel merito, il ricorso n. 6736/2008 –proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali– deve essere accolto, mentre deve essere respinto il ricorso n. 2527/2009 –proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del Veneto-.
Giova premettere che
la questione della complessiva compatibilità de iure communitario della parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 è stata scrutinata da questo Giudice di appello attraverso un filone giurisprudenziale ormai consolidato (e le cui conclusioni sono qui condivise) il quale è giunto a soluzioni sostanzialmente condivise circa l’insussistenza di profili di incompatibilità con i pertinenti dettami del diritto dell’Unione europea (ex multis: Sez. VI, 16.05.2006, n. 2776; id., VI, 11.09.2006, n. 5239; id., VI, 24.10.2006, n. 6343).
Con la presente decisione, quindi, ci si domanderà in particolare se le conclusioni cui il richiamato orientamento è sino ad oggi pervenuto possano essere in qualche misura revocate in dubbio in considerazione del paventato rischio che le disposizioni di cui al richiamato articolo 52 possano determinare, in danno degli Ingegneri italiani, un fenomeno di ‘reverse discrimination’ –o discriminazione alla rovescia– (un fenomeno, quest’ultimo, noto alla normativa e alla giurisprudenza nazionale e in relazione al quale il Legislatore ha da ultimo approntato un rimedio generale di tutela preventiva attraverso l’adozione dell’articolo 53 della l. 24.12.2012, n. 234 –sul punto, v. infra-).
Tanto premesso sotto l’aspetto generale, si svolgeranno qui di seguito alcune considerazioni utili a delimitare il campo d’indagine della presente decisione.
Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva,
la giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…) (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11.09.2006, n. 5239).
Il che, come è evidente, sortisce di per sé l’effetto di ridurre grandemente la portata di un eventuale effetto di ‘reverse discrimination’ (effetto che, comunque –e per le ragioni che nel prosieguo si esporranno– non è comunque nel caso di specie configurabile).
Ed infatti, nonostante alcune enfatizzazioni sul punto contenute nelle difese delle parti in causa, la presente controversia non involge la generale questione della delimitazione oggettiva delle professioni di architetto e di ingegnere (si tratta di una questione che, allo stato attuale di evoluzione dell’ordinamento comunitario, non conosce misure di armonizzazione al livello UE, né interventi di ravvicinamento delle legislazioni), né le condizioni di accesso a tali professioni.
Allo stesso modo,
la presente controversia non riguarda la più o meno integrale assimilazione fra i due ambiti professionali al livello comunitario o nazionale, ma concerne (anche all’esito delle indicazioni interpretative fornite dalla Corte di giustizia) la ben più limitata questione relativa al se la previsione di cui al più volte richiamato articolo 52 determini una ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dell’ingegnere italiano nei confronti dell’ingegnere di un qualunque altro Paese dell’Unione europea e in relazione ad alcune soltanto delle attività che l’architetto può esercitare in relazione alle opere ed interventi che presentano rilevante carattere artistico o che riguardano beni di interesse storico e culturale (ci si riferisce alle sole opere di edilizia civile, con esclusione dell’ampio novero degli interventi inerenti la c.d. ‘parte tecnica’).
Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52,
la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell'architettura e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo dell’architettura.
Al riguardo, la stessa Corte di Giustizia ha chiarito che la direttiva 85/384/CEE non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione. In particolare, dal nono “considerando” di tale direttiva risulta che il suo articolo 1, n. 2, non intende fornire una definizione giuridica delle attività del settore dell’architettura.
Spetta, piuttosto, alla normativa nazionale dello Stato membro ospitante individuare le attività che ricadono in tale settore.
Al contrario, la direttiva 85/384/CEE ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura, come emerge dal secondo “considerando” della medesima direttiva.
Tale direttiva prevede, inoltre, un regime transitorio diretto, in particolare, a preservare i diritti acquisiti dai possessori di titoli già rilasciati dagli Stati membri anche qualora tali titoli non soddisfino i detti requisiti minimi.
Inoltre (come chiarito dalla medesima Corte di giustizia), sebbene l’art. 11, lett. g), della direttiva 85/384 menzioni, per l’Italia, i diplomi di “laurea in architettura” e di “laurea in ingegneria” come titoli che beneficiano del regime transitorio previsto dall’art. 10 di tale direttiva, ciò è solo al fine di assicurare il riconoscimento di tali diplomi da parte degli altri Stati membri, e non allo scopo di armonizzare, nello Stato membro interessato, i diritti conferiti da tali diplomi per quanto riguarda l’accesso alle attività di architetto (in tal senso, l’ordinanza della Corte 05.04.2004 in causa C-3/02, resa nell’ambito di un rinvio pregiudiziale sollevato dal TAR del Veneto nell’ambito del ricorso di primo grado n. 1994/2001 –Mosconi Alessandro e altri-).
In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/2006, cit.).
La Corte di giustizia (la quale –come si è detto in precedenza– è stata adita per ben due volte nel corso della presente vicenda contenziosa ai sensi dell’articolo 234 del TCE –in seguito: articolo 267 del TFUE-) ha reso statuizioni che risultano determinanti al fine di delimitare e definire la controversia nel suo complesso.
Con la prima di tali decisioni (si tratta dell’ordinanza in data 05.04.2004 sul ricorso C-3/02, resa sull’ordinanza di rimessione del TAR del Veneto n. 4236/2001)
la Corte ha chiarito:
- che l’articolo 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925 non è ex se incompatibile con la direttiva comunitaria 85/384/CEE, in quanto (come si è già anticipato) quest’ultima non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione, ma soltanto di garantire “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell'architettura”;
- che la richiamata direttiva non obbliga in alcun modo gli Stati membri a porre i diplomi di laurea in architettura ed in ingegneria civile (con particolare riguardo a quelli indicati all'articolo 11) su un piano di perfetta parità ai fini dell'accesso alla professione di architetto in Italia, ma, in coerenza con il principio di non discriminazione tra Stati membri, impone soltanto di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, laddove tuttavia (e si tratta di un chiarimento determinante ai fini della presente decisione) tale titolo risulti abilitante –in base alla normativa di quello Stato membro– all’esercizio di attività nel settore dell’architettura (e nel prosieguo della presente decisione si vedrà che tale possibilità non può essere ammessa in modo indiscriminato ai professionisti ingegneri, ma solo al ricorrere di alcune tassative condizioni);
- che la direttiva 85/384/CEE non trova in definitiva applicazione in relazione alla fattispecie di causa, poiché le relative disposizioni non impongono in alcun modo all’Italia di non escludere gli ingegneri civili che hanno conseguito in Italia il proprio titolo dall’attività di cui all’articolo 52, comma 2, del R.D. 2537 del 1925 (ma le impongono soltanto di non escludere –nella logica del mutuo riconoscimento e della libera circolazione che caratterizza la direttiva in parola- gli ingegneri civili o possessori di analoghi titoli conseguiti in altri Stati membri al ricorrere delle condizioni dinanzi richiamate).

Sotto tale aspetto, la Corte ha svolto una considerazione che ha in seguito assunto un rilievo dirimente nella complessiva economia del giudizio, laddove ha affermato che “
è vero che, come sostiene la Commissione, ne può derivare una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all'attività di cui all'art. 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925, mentre tale accesso non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della direttiva 85/384/CEE o in quello di cui all’art.11 della detta direttiva. 53. Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, quando si tratta di una situazione puramente interna come quella di cui alla causa principale, il principio della parità di trattamento sancito dal diritto comunitario non può essere fatto valere. In una situazione del genere spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata (…)”.
Di conseguenza, la Corte ha concluso nel senso che “
quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g) -né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico”.
Con la seconda delle richiamate decisioni (si tratta della sentenza della quinta sezione del 21.02.2013 sul ricorso C-111/12, resa sull’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato n. 386/2012) la Corte ha dovuto pronunziarsi su un’ulteriore ipotesi ricostruttiva prospettata da questo Consiglio di Stato in sede di ordinanza di rimessione.
In particolare, questo Giudice di appello (mosso dall’evidente intento di rinvenire una sintesi fra –da un lato- l’obbligo di matrice comunitaria di operare il mutuo riconoscimento delle professionalità straniere coperte dalle previsioni della direttiva 85/384/CEE e –dall’altro- l’esigenza di prevenire i richiamati, possibili fenomeni di ‘reverse discrimination’) aveva ipotizzato un sistema applicativo volto a temperare entrambe le richiamate esigenze.
Segnatamente, con l’ordinanza di rimessione n. 386/2012 questo Consiglio aveva ipotizzato l’introduzione (invero, ex novo) di una prassi applicativa consistente nel sottoporre anche i professionisti provenienti da altri Paesi membri dell’UE (e ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura), a una specifica ed ulteriore verifica di idoneità professionale (in tutto simile a quelle svolta nei confronti dei professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925.
Come si è anticipato in narrativa,
la Corte di giustizia non ha condiviso l’ipotesi formulata da questo Consiglio di Stato e ha concluso nel senso che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale (rectius: a una prassi applicativa, quale quella ipotizzata in sede di ordinanza di rimessione) secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante (titolo, questo, abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11), possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali.
In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame –punto 34 della motivazione-).
Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e chiarire ulteriormente i contorni applicativi della normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente, degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro conoscitivo più completo per definire il giudizio –ad esso solo demandato in via esclusiva– relativo alla sussistenza o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla rovescia.
Ebbene, impostati in tal modo i termini concettuali della questione, il Collegio ritiene che l’esame degli atti di causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale non palesino i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale (nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009, condivisa dal TAR del Veneto con la sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di interesse storico e artistico) le quali –al contrario– sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea.
Al riguardo si osserva in primo luogo che la richiamata sentenza n. 3630/2007 sembra essere incorsa in una semplificazione eccessiva dei termini della questione laddove (indotta forse dalle abili prospettazioni di parte) ha descritto un quadro normativo e applicativo non coincidente con quello effettivamente riscontrabile.
Secondo il TAR, in particolare, sussisterebbe una ‘evidente’ disparità di trattamento ai danni degli ingegneri civili italiani (pag. 9 della motivazione) in quanto, di fatto, a tutti gli ingegneri civili italiani sarebbero indiscriminatamente vietate tutte le attività riconducibili all’articolo 52, cit., mentre –al contrario– a tutti gli ingegneri civili di altri Paesi dell’Unione l’esercizio di quelle stesse attività sarebbe indiscriminatamente consentito.
Secondo i primi Giudici, in particolare, “nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea”.
Al riguardo i primi Giudici proseguono affermando che “è evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente da questi ultimi, l’attività professionale riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi”.
Al riguardo si osserva:
- che, come più volte chiarito, nello stato attuale di evoluzione del diritto comunitario, la disciplina sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri non costituisce oggetto di armonizzazione, né di ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10 della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit. avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”;
- che lo stesso passaggio dell’ordinanza della Corte di giustizia del 05.04.2004 il quale ha ipotizzato la sussistenza nell’ordinamento italiano di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno dell’ingegnere civile italiano e in favore di ogni altro ingegnere di altri Paesi UE, non ha in alcun modo affermato la sicura sussistenza di una siffatta discriminazione, ma ne ha soltanto ipotizzato la possibilità, al ricorrere di taluni presupposti soggettivi e oggettivi, la cui ricorrenza dovrà essere scrutinata dal Giudice nazionale del rinvio. In particolare, con la decisione dell’aprile 2004, la Corte ha affermato che tale ipotesi potrebbe verificarsi nella sola ipotesi in cui il possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato da altro Paese dell’UE fosse espressamente menzionato negli elenchi redatti –per così dire: - ‘a regìme’ ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, ovvero nello speciale elenco transitorio di cui agli articoli 10 e 11 della medesima direttiva e laddove analoga possibilità fosse esclusa nei confronti di un professionista italiano in possesso dei medesimi requisiti.
Tuttavia,
è del tutto determinante osservare che (contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009) non tutti i diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie della professione di architetto.
Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria (e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti –per così dire– ‘a regìme’ ai sensi del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto.
Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3, individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi formativi nazionali devono possedere affinché i professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al mutuo riconoscimento e alla libera circolazione (diritto in quale rappresenta, a ben vedere, l’ubi consistam del complesso sistema delineato dalla medesima direttiva 85/384/CEE).
Ma, se solo ci si sofferma ad esaminare il contenuto minimo obbligatorio che la direttiva in questione impone affinché un determinato percorso di formazione sia incluso fra quelli che consentono di invocare il richiamato mutuo riconoscimento, ci si rende conto che tali requisiti sono pienamente compatibili con il consolidato orientamento di questo Consiglio il quale ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
Come è noto, infatti,
la giurisprudenza di questo Consiglio ha giustificato dal punto di vista sistematico la richiamata, parziale riserva sul rilievo secondo cui “per quanto nel corso di studi degli ingegneri civili non manchino approfondimenti significativi nel settore dell’architettura, al professionista architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, frutto di maggiori studi e approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di penetrare le problematiche e le sottese valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di rilevanza artistica(in tal senso, da ultimo, la stessa ordinanza di rimessione di questa Sezione n. 386/2012, dinanzi richiamata).
Ebbene, l’approccio in questione risulta del tutto compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva 85/384/CEE la quale (al di là della coincidenza nominalistica dei titoli professionali di riferimento –‘architetto’ piuttosto che ‘ingegnere’-) ammette l’esercizio in regìme di mutuo riconoscimento e di libera circolazione delle attività tipiche della professione di architetto a condizione che il professionista in questione possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel settore dei beni storici e di interesse culturale.
Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso formativo che legittima un professionista ad invocare il regìme di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della storia e delle teorie dell’architettura nonché delle arti, tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono influire sulla qualità della concezione architettonica”.
Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione secondo l’approccio sostanzialistico proprio dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in tutto coincidente con quello fatto proprio dalla giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato.
Concludendo sul punto:
- non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (fra cui –ai fini che qui rilevano– le attività afferenti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico, ovvero relative ad immobili di interesse storico e artistico);
- al contrario, in base alla pertinente normativa UE, l’esercizio di tali attività –in regìme di mutuo riconoscimento- sarà consentito ai soli professionisti i quali (al di là del nomen iuris del titolo professionale posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto. Come si è visto, l’articolo 3 della direttiva 85/384/CEE include in modo espresso gli studi della storia e delle teorie dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane fra quelli che integrano il bagaglio culturale minimo e necessario perché un professionista possa svolgere in regìme di mutuo riconoscimento le richiamate attività (anche) in relazione ai beni di interesse storico e culturale;
- quindi, anche ad ammettere che un professionista non italiano con il titolo professionale di ingegnere sia legittimato sulla base della normativa del Paese di origine o di provenienza a svolgere attività rientranti fra quelle esercitate abitualmente col titolo professionale di architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex se una discriminazione ‘alla rovescia’ in danno dell’ingegnere civile italiano. Ed infatti, sulla base della direttiva 85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere nel Paese di origine o di provenienza, bensì) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto;
- allo stesso modo, la sussistenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ è da escludere alla luce dell’articolo 11, lettera g), della direttiva 85/384/CEE, cit. Ed infatti, in base a tale disposizione, i soggetti che abbiano conseguito in Italia il diploma di laurea in ingegneria nel settore della costruzione civile rilasciati da Università o da istituti politecnici possono nondimeno esercitare le attività tipiche degli architetti (ivi comprese quelle di cui al più volte richiamato articolo 52) a condizione che abbiano altresì conseguito il diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione a seguito del superamento dell'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (in tal modo conseguendo il titolo di ‘dott. Ing. architetto’ o di ‘dott. Ing. in ingegneria civile’);
- conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema normativo nazionale di parziale riserva in favore degli architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’ richiamato dalla sentenza del TAR del Veneto n. 3630/2007 e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre –secondo quanto statuito dalla medesima Corte– di controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34).

E il richiamato (e meramente paventato) effetto di ‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della medesima direttiva.
Per quanto concerne, infatti, il particolare sistema (transitorio e derogatorio) di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, è noto che il primo di tali articoli ha previsto la possibilità per ciascuno degli Stati membri di individuare taluni diplomi, certificati e altri titoli del settore dell’architettura da ammettere sin da subito al regìme di mutuo riconoscimento, anche a prescindere dalla piena rispondenza ai requisiti minimi di formazione di cui all’articolo 3 della medesima direttiva.
Il successivo articolo 11 ha, quindi, individuato per ciascuno degli Stati membri tali diplomi, certificati ed altri titoli da ammettere immediatamente al richiamato regìme di mutuo riconoscimento (per l’Italia, tale regìme di immediata ammissione ha riguardato:
a) i diplomi di ‘laurea in architettura’ rilasciati dalle università, dagli istituti politecnici e dagli istituti superiori di architettura di Venezia e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente della professione di architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che abilita all'esercizio indipendente della professione di architetto (dott. architetto);
b) i diplomi di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile rilasciati dalle università e dagli istituti politecnici, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile)).
Ebbene, in relazione a tale periodo transitorio, non è dato individuare i paventati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani, laddove si consideri:
- che, esaminando gli elenchi delle professioni ammesse dagli altri Stati membri al regìme di immediata applicazione al mutuo riconoscimento, non è dato rinvenire pressoché alcun caso di professioni che, anche dal punto di vista del nomen iuris, si discostino dal tipico ambito della professione di architetto, fino a coincidere con il tipico ambito della professione di ingegnere.
Le uniche eccezioni a questa regola sostanzialmente generalizzata sono rappresentate:
a) dal caso belga dei diplomi di ‘ingegnere civile-architetto’ e di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati dalle facoltà di scienze applicate delle università e dal politecnico di Mons;
b) dal caso portoghese del diploma di genio civile (licenciatura em engenharia civil) rilasciato dall'Istituto superiore tecnico dell'Università tecnica di Lisbona;
c) dai casi greci dei diplomi di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati da alcuni Istituti di formazione e dei diplomi di ‘ingegnere-ingegnere civile’ rilasciati dal Metsovion Polytechnion di Atene (in ambo i casi, peraltro, a condizione che il possesso dei richiamati diplomi si accompagni a un attestato rilasciato dalla Camera tecnica di Grecia e conferente il diritto di esercitare le attività nel settore dell’architettura).
Si tratta, però, di eccezioni talmente puntuali e limitate da non poter essere assunte (nella richiamata ottica di carattere sostanzialistico) quali indizi dell’esistenza di un effettivo fenomeno di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri civili italiani e in favore di una platea indiscriminata o quanto meno significativa di ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea;
- che, paradossalmente, esaminando gli elenchi nazionali di cui al richiamato articolo 11, è proprio il caso italiano dei professionisti in possesso del diploma di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile (e nondimeno abilitati per il diritto italiano al’esercizio di una professione indipendente di una professione nel settore dell’architettura) a presentare (al pari dei richiamati casi belgi, portoghesi e greci) possibili profili di vantaggio in favore dei professionisti nazionali, con potenziali effetti distorsivi in danno degli ingegneri di altri Paesi dell’UE la cui normativa nazionale di riferimento non consenta agli ingegneri di conseguire una analoga abilitazione;
- che, in ogni caso, anche a voler ammettere (il che –per le ragioni appena esaminate– non è) che la disciplina transitoria e derogatoria di cui ai richiamati articoli 10 e 11 consenta in talune ipotesi a un limitato numero di ingegneri di alcuni Paesi dell’UE di svolgere in regìme di mutuo riconoscimento (e quindi anche in Italia) talune attività nel settore dell’architettura sui beni di interesse storico e culturale (attività tipicamente sottratte agli ingegneri italiani); ebbene, anche in questo caso, non si individuerebbero ragioni sufficienti per ritenere la sussistenza di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri italiani, sì da indurre alla generalizzata disapplicazione della previsione di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
Al riguardo si osserva che non appare metodologicamente corretto assumere quale parametro stabile di valutazione, nell’ambito di un giudizio volto a stabilire se una discriminazione vi sia oppure no, talune situazioni per definizione transitorie ed eccezionali (quali quelle contemplate dagli articoli 10 e 11 della più volte richiamata direttiva del 1985).
E’ evidente al riguardo che, laddove si accedesse alla soluzione qui non condivisa, si perverrebbe alla inammissibile conseguenza per cui le situazioni e i dettami propri di una fase transitoria (assunti quali impropri parametri stabili di comparazione) costituirebbero essi stessi un ostacolo definitivo e insormontabile per la piena entrata a regìme di un sistema di mutuo riconoscimento basato, invece, sull’oggettiva valutazione di un determinato livello quali-quantitativo di formazione propedeutica all’esercizio della professione di architetto.
Per quanto concerne, poi, il sistema –per così dire– ‘a regìme’ delineato dall’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, l’assenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ emerge con tanto maggiore evidenza laddove si consideri:
- che l’iscrizione di una categoria di professionisti nell’ambito degli elenchi nazionali ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della direttiva presuppone che il rilascio dei relativi diplomi, certificati o titoli faccia seguito a percorsi formativi i cui contenuti minimi e necessari siano conformi alle previsioni di cui all’articolo 3 della direttiva (e si è detto in precedenza che tali percorsi formativi devono comprendere in via necessaria un’adeguata conoscenza della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane –ossia, di quel complesso di discipline umanistiche che caratterizzano il bagaglio culturale tipico dell’architetto e il cui possesso giustifica la parziale riserva professionale di cui al più volte richiamato articolo 52-);
- che, anche ad ammettere che un professionista di Paese dell’UE in possesso del titolo di ingegnere possa essere incluso negli elenchi di cui all’articolo 7, cit. (e sia, quindi, ammesso ad esercitare in Italia le attività tipiche dell’architetto anche in relazione ai beni di interesse storico ed artistico), ciò non costituirà di per sé una discriminazione in danno dell’ingegnere italiano (nei cui confronti l’esercizio di quelle stesse attività resta tipicamente escluso). E infatti, l’inclusione di quella particolare tipologia di ingegnere UE nell’ambito degli elenchi di cui all’articolo 7, cit. dimostrerà ex se che quel professionista ha seguito un percorso formativo idoneo (anche nei campi della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane) tale da giustificare in modo pieno l’esercizio da parte di quel professionista ingegnere (e al di là delle limitazioni recate dal nomen iuris della qualifica professionale posseduta) delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto (ivi comprese quindi, ai fini che qui rilevano, le opere di edilizia che presentano rilevante carattere artistico e il ripristino degli edifici di cui alla legge 20.06.1909, n, 364).
Anche sotto tale aspetto, quindi, deve essere esclusa la sussistenza della paventata ipotesi di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani.
Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in appello n. 6736/2008 proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere respinto il ricorso di primo grado proposto dall’ingegner Alessandro Mosconi e dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia e recante il n. 1994/2001.
Per le medesime ragioni il ricorso in appello n. 2527/2009 proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno, deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza del TAR n. 3651/2008 la quale ha sancito la legittimità degli atti e delle determinazioni amministrative le quali avevano escluso gli ingegneri dall’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico e artistico.
Per quanto riguarda, in particolare, il ricorso in appello n. 2527/2009 il Collegio deve ora esaminare i motivi di appello ulteriori e diversi rispetto a quelli inerenti la portata applicativa del più volte richiamato articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
In primo luogo si osserva che non può essere accolto il motivo di appello con cui (reiterando un analogo motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal TAR) si è osservato che i servizi messi a gara con gli atti impugnati in primo grado non rientrano a pieno titolo nell’ambito di quelli per i quali opera la riserva parziale in favore degli architetti di cui al medesimo articolo 52, avendo essi ad oggetto ‘la parte tecnica’ delle lavorazioni (la quale, ai sensi del medesimo articolo 52, può essere demandata tanto all’architetto, quanto all’ingegnere).
Il motivo in questione non può essere condiviso, dovendo –al contrario– trovare puntuale conferma in parte qua la sentenza appellata, la quale ha affermato che l’attività di direzione dei lavori per il restauro di Palazzo Contarini del Bovolo in Venezia – San Marco 4299 implica con ogni evidenza scelte connesse “al restauro, al risanamento e al recupero funzionale dell’immobile, per la cui attuazione ottimale è conferente l’intervento dell’architetto in ragione dell’indubbia preminenza della sua professionalità nell’ambito delle belle arti, nel mentre risultano -con altrettanta evidenza– del tutto residuali le ulteriori lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Al riguardo si osserva che, anche a voler enfatizzare la previsione di cui all’ultima parte del secondo comma dell’articolo 52, cit. (secondo cui la parte tecnica delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e il restauro e ripristino degli edifici di interesse storico e artistico “ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”), non può ritenersi che le attività relative al servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori all’origine dei fatti di causa possano farsi rientrare fra quelle relative alla sola ‘parte tecnica’.
Al riguardo si osserva che, secondo un condiviso orientamento, la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili (si richiama ancora una volta, al riguardo, la sentenza di questo Consiglio n. 5239 del 2006).
Tuttavia (e si tratta di una notazione dirimente ai fini della presente decisione) non può negarsi che la richiamata riserva operasse in relazione alle attività all’origine di fatti di causa, il cui contenuto essenziale e certamente prevalente riguardava –appunto- scelte connesse al restauro, al risanamento e al recupero funzionale di un immobile sottoposto a vincolo storico-artistico, sì da giustificare certamente sotto il profilo sistematico e funzionale la richiamata riserva.
Non può, pertanto, essere condivisa la tesi degli Ordini appellanti secondo cui l’attività di direzione dei lavori nel caso di specie potesse essere ricondotta alle attività di mero rilievo tecnico, in quanto tali esercitabili anche dai professionisti ingegneri.
Né può essere condiviso l’argomento secondo cui, a ben vedere, l’attività di direzione dei lavori coinciderebbe ex se con la nozione di ‘parte tecnica’ delle attività e delle lavorazioni, atteso che: i) di tale coincidenza non è traccia alcuna nell’ambito della normativa di riferimento; ii) laddove si accedesse a tale opzione interpretativa, di fatto, si priverebbe di senso compiuto la stessa individuazione di una ‘parte tecnica’ (intesa quale componente di una più ampia serie di attività) facendola coincidere, di fatto, con il più ampio e onnicomprensivo novero delle attività relative alla direzione dei lavori.
Ma la sentenza in epigrafe è altresì meritevole di conferma laddove ha osservato che gli atti della lex specialis impugnati in primo grado, lungi dall’aver irragionevolmente compresso le prerogative dei professionisti ingegneri, ne hanno –al contrario– tenuto in adeguata considerazione le peculiarità.
Ciò, in quanto la medesima lex specialis ha previsto l’istituzione di un organo collegiale di direzione dei lavori composto –fra gli altri– da un direttore operativo per gli impianti (ruolo, questo, che avrebbe certamente potuto essere ricoperto da un ingegnere), da un direttore operativo per le strutture e da un direttore operativo restauratore di beni culturali.
Neppure può essere condiviso il secondo motivo di appello, con il quale (reiterando un analogo motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal TAR) si è lamentata la contraddittorietà intrinseca che sussisterebbe fra:
- (da un lato), gli atti impugnati in primo grado, con cui sono state precluse agli ingegneri le attività di direzione dei lavori e coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei richiamati lavori di restauro e recupero funzionale e
- (dall’altro) un diverso bando di gara, indetto dalla medesima amministrazione e relativo al medesimo immobile vincolato, con cui è stata –al contrario– consentita agli ingegneri la partecipazione (insieme agli architetti) alla gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei lavori.
Al riguardo giova premettere (e si tratta di notazione dirimente ai fini del decidere) che, quand’anche il richiamato profilo di contraddittorietà fosse in concreto sussistente, ciò non sortirebbe l’effetto di consentire agli ingegneri la partecipazione alla gara per l’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza (si tratta di attività che, per le ragioni dinanzi richiamate, sono state legittimamente precluse agli ingegneri in coerente applicazione dell’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925).
Al contrario, l’eventuale accoglimento del richiamato motivo potrebbe al più sortire l’unico effetto di palesare l’illegittimità delle determinazioni con cui l’amministrazione ha ammesso gli ingegneri a partecipare alla gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei lavori.
Il che palesa altresì rilevanti dubbi in ordine alla sussistenza di un effettivo interesse in capo agli Ordini professionali appellanti alla proposizione del motivo di appello in esame.
Ma, anche a prescindere da tale assorbente rilievo, si osserva che la sentenza in epigrafe risulta comunque meritevole di conferma laddove ha osservato che, nel caso in esame, le scelte anche di dettaglio relative agli interventi di restauro, risanamento e recupero funzionale dell’immobile erano state effettuate in sede di stesura del progetto definitivo (progetto, quest’ultimo, che era stato peraltro approvato dalla competente Soprintendenza per i Beni architettonici e dalla Commissione per la salvaguardia di Venezia).
Ne consegue che –come condivisibilmente osservato dai primi Giudici– la stesura del progetto definitivo coincideva di fatto, nel caso in esame, con la mera ingegnerizzazione del progetto definitivo, in tal modo giustificando che la relativa attività potesse essere demandata anche ad ingegneri, senza contrasto alcuno con la previsione di cui all’articolo 52 del più volte richiamato R.D. n. 2537 del 1925.
Né può essere condiviso l’ulteriore motivo al riguardo profuso dagli Ordini appellanti (motivo che risulta basato su una sorte di argomento a fortiori, in base al quale:
i) se viene legittimamente demandata agli ingegneri un’attività puramente tecnica quale quella propria della progettazione esecutiva,
ii) a maggior ragione non potrà essere negata agli ingegneri l’effettuazione di un’attività –quella di direzione dei lavori– “più tecnica rispetto alla progettazione vera e propria” –pag. 19 dell’atto di appello-).
E’ evidente al riguardo che l’argomento in questione si fonda sull’assiomatica affermazione secondo cui, appunto, l’attività di direzione dei lavori risulterebbe “più tecnica” rispetto a quella di mera progettazione ed ingegnerizzazione. Si tratta di un’affermazione il cui carattere indimostrato non può evidentemente essere assunto a parametro di giudizio.
Infine, non può trovare accoglimento il terzo motivo di appello, con il quale (reiterando ancora una volta un motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal TAR) si è lamentata l’illegittimità della scelta di riservare agli architetti anche il ruolo di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione.
Secondo gli Ordini appellanti, la sentenza in epigrafe si sarebbe inammissibilmente limitata a motivare la reiezione in parte qua del ricorso sulla base dell’articolo 127 del d.P.R. 21.12.1999, n. 554 (il quale al comma 1, primo periodo, stabilisce che “le funzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori previsti dalla vigente normativa sulla sicurezza nei cantieri sono svolte dal direttore dei lavori”).
Tuttavia, i primi Giudici avrebbero omesso di tenere in considerazione la previsione di cui all’articolo 10 della legge 14.08.1996, n. 494 il quale ammette –inter alios– gli ingegneri a svolgere i compiti tipici del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Il motivo in esame non può trovare accoglimento in considerazione dell’evidente carattere di specialità che caratterizza la previsione di cui all’articolo 127 del d.P.R. 554 del 1999 (ora: articolo 152 del d.P.R. 207 del 2010) rispetto all’articolo 10 del decreto legislativo 494 del 1996.
Ed infatti, premesso che la vicenda di causa resta governata dalle pregresse disposizioni di cui al richiamato articolo 127, cit., è pacifico che tale disposizione imponesse la coincidenza soggettiva fra il direttore dei lavori e il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (fatta salva l’ipotesi in cui il direttore dei lavori designato fosse privo dei requisiti previsti per svolgere altresì i compiti tipici del coordinatore per l’esecuzione dei lavori –ma sul punto non è stata sollevata contestazione alcuna in corso di causa-).
Tuttavia, nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie e per le ragioni dinanzi esaminate) i compiti di direttore dei lavori fossero riservate a un professionista architetto, del tutto legittimamente l’amministrazione aggiudicatrice avrebbe potuto (rectius: dovuto) riservare a quest’ultimo anche le funzioni di coordinatore per l’esecuzione dei lavori (scil.: sempre che il professionista in questione fosse altresì munito dei prescritti requisiti).
Anche sotto questo aspetti, quindi, il ricorso in appello n. 2527/2009 deve essere respinto.
Conclusivamente, il ricorso in appello n. 6736/2008 proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere respinto il ricorso di primo grado proposto dall’ingegner Alessandro Mosconi e dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia e recante il n. 1994/2001.
Per le medesime ragioni il ricorso in appello n. 2527/2009 proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno, deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L.R. Lombardia 12/2005: la scadenza del termine per l'approvazione dei PGT non comporta la decadenza dei titoli edilizi non avviati.
Il TAR Lombardia-Milano interpreta l'articolo 25, c. 1, della legge regionale n. 12/2005 nell'ottica del principio di ragionevolezza, affermando che il decorso del termine per l'approvazione (allora il 31.12.2012, oggi il 30.06.2014) dei P.G.T. imponga non la decadenza (art. 15 T.U.E.D.), bensì la sospensione dei titoli edilizi privi di inizio lavori.
Con la sentenza 24.07.2013 n. 1943 e la sentenza 03.01.2014 n. 2 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, interviene sulla questione dell'efficacia della disposizione contenuta nel comma 1 dell'articolo 25 della L.R. 12/2005 secondo cui "1. Gli strumenti urbanistici comunali vigenti conservano efficacia fino all’approvazione del PGT e comunque non oltre la data del 30.06.2014 [...]".
Tutto ruota, ovviamente, sulla nozione di "perdita di efficacia" che, se tradizionalmente definita come l'idoneità di un atto a produrre effetti giuridici (Virga, 1997), non significa di per sé decadenza, istituto che produce l'estinzione di un rapporto, non di un atto (Santaniello, 1962), ma unicamente incapacità dell'atto di produrre effetti.
In una accezione letterale l'espressione ^perdita di efficacia^ significa la mera sospensione degli effetti dello strumento urbanistico in essere, che rimarrebbe vigente in attesa del nuovo. Le conseguenze pratiche di una simile opzione, conforme al testo di legge e alla teoria generale del diritto, corrispondono alla paralisi dello strumento urbanistico.
In una interpretazione logica, che operi avendo presente lo scopo che il legislatore sembra essersi prefisso con la norma, la medesima espressione potrebbe tuttavia valere a configurare la perdita di efficacia come sinonimo di decadenza. In tal senso si esprimeva la D.G. Territorio in un verbale della Commissione consiliare Territorio del 29.07.2010.
La rara dottrina che ha commentato l'articolo 25 o non si è espressa (G. Inzaghi, 2005) o ha sostenuto la tesi della applicabilità dell'art. 9 del TUED (G. Leo, 2005).
In questo scenario si calano le decisioni del TAR Lombardia, ad avviso del quale la disposizione in questione impone non la decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi rilasciati ma privi di inizio lavori. Il decorso del termine indicato dall'articolo 25 per l'approvazione non equivale, afferma il TAR, a fattispecie ostativa ex 15 D.P.R. 380/2001, a norma del quale: "4. Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.".
Si tratta, si afferma: "di un’interpretazione del dettato legislativo regionale rispettosa del canone di ragionevolezza che –ex art. 3 della Costituzione– deve sempre accompagnare l’esercizio della funzione legislativa, anche da parte delle Regioni (sulla rilevanza della “ragionevolezza”, quale parametro costituzionale, si veda, fra le decisioni più recenti: Corte Costituzionale, 27.06.2013, n. 160).".
A sostegno della tesi cita il TAR la circolare 19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL 21.06.2013, n. 25), con cui la Regione Lombardia ha stabilito che possono essere riattivate le istanze di intervento presentate entro il 31.12.2012 ma non definite per effetto della pregressa disciplina restrittiva, sicché le novità della LR 1/2013 finiscono per avere un effetto sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Giova in ultimo ricordare che la questione interpretativa dei menzionati commi dell’art. 25 della LR 12/2005 ha perso parzialmente rilevanza, visto che la stessa Regione Lombardia, con legge regionale 04.06.2013, n. 1, ha espressamente abrogato i commi in questione (cfr. l’art. 2, comma 2°, della legge), fissando un nuovo termine per l’approvazione del PGT per i Comuni rimasti ancora inerti, al 30.06.2014.
Poiché, tuttavia, il dettato del comma 1 è rimasto il medesimo ("Gli strumenti urbanistici comunali vigenti conservano efficacia ..."), la soluzione offerta dal TAR è utile per la nuova scadenza
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPer le commissioni «Pa» non si applicano tariffe. Cassazione. La collaborazione dei professionisti.
Incarichi a ingegneri e avvocati liberi da tariffe, qualora si tratti di partecipazioni a commissioni tecniche.
Lo sottolinea la sentenza 13.12.2013 n. 27919 della Corte di Cassazione, Sez. I civile, decidendo una lite sorta più di dieci anni or sono, quando ancora vigevano i minimi tariffari (legge 223/2006).
I professionisti invocavano l'inderogabilità delle tariffe minime (articolo 24 della legge 794/1942), ma la sentenza esclude l'applicabilità di tale inderogabilità in quanto il loro incarico era stato affidato all'interno di una commissione tecnica (di gara, di concorso) e quindi non era equiparabile a una prestazione professionale. Si trattava –osserva la Corte- di un'attività atipica, diluita all'interno di un organo rappresentativo di più professionalità. In altri termini, nell'organo collegiale non si distinguevano i singoli contributi, e ciò ha impedito di isolare una singola attività professionale. In questi casi, quindi, il compenso per l'avvocato e per l'ingegnere va valutato in relazione alla partecipazione all'organo collegiale, e non come somma di specifici, singoli contributi professionali.
Anche quando le tariffe erano inderogabili, cioè prima della legge 223/2006, secondo la Corte avvocati e ingegneri non potevano invocare il rispetto dei minimi, perché tali limiti erano previsti solo per le prestazioni tipizzate (giudiziali ed extragiudiziali per avvocati) ed esclusive della professione (per gli ingegneri).
Il principio è valido ancor oggi, perché regola i casi in cui a professionisti collegiati vengono affidati incarichi atipici: così quando a un avvocato si chiede attività generica di studio o ricerca nel campo giuridico, esclude l'applicabilità' delle tariffe (Cassazione 7438/1994), mentre per ingegneri e architetti vi è un orientamento che sottopone a contribuzione previdenziale sia le attività che richiedono competenze tecniche (Cassazione 5827/2013), sia i compensi percepiti quale amministratore di società. Di recente, poi, vi sono segnali a livello comunitario favorevoli all'applicazione delle tariffe minime (Corte di giustizia Ue 12.12.2013 in causa C-327/12), sicché il settore è ancora alla ricerca di punti fermi.
Il caso deciso dalla Cassazione con la sentenza 27919/2013 applica le leggi del tempo della controversia, e cioè una normativa che vedeva nei minimi tariffari l'esigenza di tutelare il decoro dei professionisti, collegando tale decoro alle prestazioni tipiche. Inoltre, per gli ingegneri, all'epoca si distingueva tra incarichi conferiti da una pubblica amministrazione e quelli di un privato, in quanto solo per questi ultimi valeva il limite previsto dai minimi tariffari. Appunto perché la partecipazione dell'avvocato a una commissione non era ritenuta un'attività tipica (non esigendo una difesa tecnica in giudizio), e l'ingegnere non poteva vantare un incarico conferito da un privato (ma da una pubblica amministrazione), nessuno dei due professionisti ha potuto ancorare le proprie pretese a tariffe professionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2013).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., legittimo il blocco delle carriere.
È costituzionalmente legittimo il blocco delle progressioni di carriera, comunque denominate.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza 12.12.2013 n. 304, che ha respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito all'articolo 9, comma 21, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010. Si tratta della norma che impedisce di consentire ai dipendenti pubblici sia di ottenere incrementi economici (progressioni orizzontali o «scatti» di carriera), sia avanzamenti di grado, mediante la partecipazione a concorsi pubblici con riserva di posti, che a decorrere dall'entrata in vigore del dlgs 150/2009 hanno soppiantato quelle che un tempo erano definite «progressioni verticali».
Il ricorso presentato evidenziava una possibile incostituzionalità degli effetti del congelamento delle retribuzioni, derivante anche dal blocco degli avanzamenti di carriera: infatti, si porrebbe in essere un trattamento differente tra dipendenti, in ragione del casuale evento della decorrenza del blocco degli avanzamenti, così da creare differenti trattamenti economici anche a parità di anzianità di servizio.
La Consulta ha spiegato che questa eventualità non lede le disposizioni di cui agli articoli 3 e 36 della Costituzione: è ben possibile che vi siano trattamenti differenziati anche a parità di inquadramento e mansioni. Lo dimostra la conclamata illegittimità costituzionale e conseguente eliminazione dall'ordinamento giuridico di istituti di «galleggiamento», che permettono la perequazione verso l'alto dei trattamenti economici.
La sentenza dà atto, ancora, che l'articolo 9, comma 21, non lede l'ordinamento costituzionale, nonostante impedisca avanzamenti economici o di carriera solo per i dipendenti pubblici.
Infatti la misura normativa è giustificata «dall'esigenza di assicurare la coerente attuazione della finalità di temporanea «cristallizzazione» del trattamento economico dei dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica», considerando, per altro, che esiste una limitazione nel tempo al sacrificio richiesto ai dipendenti pubblici (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

LAVORI PUBBLICIVincere la causa non ridà l'appalto. Non si può cambiare esecutore perché nelle opere strategiche i tempi vanno rispettati. Giustizia amministrativa. Sentenza del Tar Lombardia sull'aggiudicazione dei lavori relativi all'autostrada Pedemontana.
Un nuovo tratto autostradale la cui realizzazione è contesa tra due raggruppamenti di imprese, un'aggiudicazione dell'appalto non coerente al bando di gara, 20 milioni di euro di danni da risarcire.
Sono questi gli elementi e l'esito di una corposa ed innovativa sentenza del TAR Lombardia-Milano - Sez. III (sentenza 03.12.2013 n. 2681).
L'originalità sta soprattutto nel fatto che in pratica i giudici hanno dato torto a tutti i contendenti. Anche a quello al quale hanno riconosciuto una parte di ragione.
L'autostrada è la Pedemontana Dalmine-Como-Varese, dichiarata infrastruttura strategica per la sua importanza nella congestionata rete di trasporti lombarda e posta in gara nel 2010 (con lavori oggi in corso). I contendenti sono consorzi tra le più qualificate imprese del settore. Il risarcimento record è stato posto a carico della concessionaria (Pedemontana Lombarda spa), che ha aggiudicato l'appalto in maniera erronea.
Il progetto dell'impresa cui è stato aggiudicato l'appalto è stato giudicato difforme da quello che avrebbe dovuto essere presentato, ma i giudici del Tar esprimono la considerazione secondo cui ormai non si può più sostituire. L'impresa seconda classificata, pur avendo ingiustamente perso una gara da 230 milioni, si vede riconosciuto circa l'1% di tale importo (un decimo di quanto pretendeva). Inoltre, adesso il concessionario, avendo scelto un progetto più oneroso per circa 120 milioni di euro rispetto a quello originariamente previsto, rischia responsabilità penali ed erariali: i magistrati amministrativi hanno deciso di trasmettere una copia degli atti alla Procura della Repubblica di Milano e alla Corte dei conti.
La decisione del Tar è originale: affida ad un consulente tecnico (di estrazione universitaria) la verifica dei progetti, accettandone le conclusioni critiche verso ambedue i contendenti. L'impresa che si è aggiudicata la gara aveva presentato un'offerta sostanzialmente difforme dal bando, che invece non prevedeva fossero apportate varianti. Ma anche l'altro partecipante aveva presentato un'offerta progettuale innovativa (in particolare per il ponte sul fiume Adda), con "fasi critiche" da risolvere in sede esecutiva e quindi un'elevata probabilità di dover ricorrere a varianti.
Facendo proprie le conclusioni della ponderosa verifica tecnica che avevano affidato ai consulenti d'ufficio scelti da loro, i magistrati del Tar di Milano hanno ribaltato l'esito di gara, promuovendo il secondo classificato. Ma la sostituzione effettiva dell'aggiudicatario dei lavori non è avvenuta: un'opera che sia stata dichiarata strategica non può essere interrotta, perché va conclusa nei tempi e modalità risultanti dalla gara. Per tenere indenne il consorzio ingiustamente scavalcato, non rimaneva che accordare un risarcimento danni, così il Tar ha posto innovativi principi.
L'utile d'impresa (10% di 230 milioni) è stato ridotto calcolandolo sul prezzo offerto (cioè con ribasso del 32%, sui 230 milioni); è stato poi ancora ridotto al 4%, a causa di un elevato rischio d'impresa (l'opera è comunque problematica) ed ancora al 2% perché macchinari e maestranze avrebbero potuto essere impiegate in altre attività.
Il danno "curriculare" (composto dai pregiudizi riportato all'immagine dell'impresa, al suo grado di affinamento tecnico e alla sua esperienza) è stato anch'esso ridotto, dal 3% del valore dell'appalto all'1,5% in quanto le imprese concorrenti erano già tutte espressione dei massimi livelli di qualità.
Al termine di questi calcoli, l'importo a carico della Pedemontana è stato comunque fissato dai giudici in oltre 20 milioni di euro, che la società concessionaria dell'opera dovrà ora versare al consorzio sconfitto in gara ma vincitore nelle aule. Tutto ciò sempre che in appello (grado di giudizio al quale certamente si arriverà) il verdetto non sia ribaltato. E sempre che la magistratuta penale e quella contabile non aggiungano altri capitoli alla vicenda
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2013 - tratto da www.centroctudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatti precari: a quali condizioni sono esenti da titolo edilizio.
Non richiedono licenza edilizia solo quei manufatti che, per la destinazione d'uso cui sono finalizzati oltre che per le loro particolari caratteristiche, possono considerarsi provvisori, di uso temporaneo e destinati alla rimozione dopo l'uso (es. baracca per l'impianto e la conduzione di cantiere edile, capannone eretto in un bosco per il ricovero temporaneo di attrezzi, ecc.).
Il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la sentenza 02.12.2013 n. 2333 è tornato sul tema dei manufatti precari, precisando quando possono essere ritenuti tali e pertanto essere edificati e mantenuti senza uno specifico titolo edilizio.
In tal senso il TAR ha infatti precisato che ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977, n. 10 (ora art. 10 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), è soggetta a concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano qualche rilievo ambientale ed estetico anche solo funzionale.
In particolare, la concessione edilizia è necessaria anche quando si intende realizzare un intervento sul territorio con perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo (fra le tante, Consiglio Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6519; TAR Sicilia, sez. I, 08.07.2002, n. 1936; sez. III, 15.02.2006, n. 394, 10.12.2012, n. 2600).
In tal senso, secondo il TAR, la precarietà delle strutture può essere riscontrata nella contemporanea presenza di due requisiti (uno strutturale e l’altro funzionale):
a) l'opera non deve costituire trasformazione urbanistica del territorio e non deve essere costituita da intelaiature infisse al suolo (C.G.A., 09.12.2008, n. 955), né deve essere chiusa in alcun lato (cfr., fra le tante, C.G.A. 19.10.2009, n. 923; TAR Sicilia, sez. III, 14.12.2009, n. 1913; 10.11.2011, n. 2085; sez. II, 26.07.2011, n. 1481);
b) inoltre, occorre avere riguardo alla destinazione d'uso dell'opera; sicché una struttura destinata a dare una utilità prolungata nel tempo (nella fattispecie, correlata –come sopra evidenziato- a esigenze continuative connesse all’attività d’impresa) non può considerarsi precaria (C.G.A. 20.01.2008, n. 28).
Ne deriva, che nel caso specifico esaminato dal TAR con la sentenza in commento, un box metallico (ancorato su base di cemento), per la sua stessa destinazione (ricovero di apparecchiature elettriche relative a una adiacente, antenna radio) non può ritenersi diretto a soddisfare bisogni contingenti, bensì esigenze aziendali di carattere duraturo, funzionali all’esercizio di emittenti radiofoniche, pertanto non vi è dubbio circa la necessità di richiedere ed ottenere un titolo concessorio, trattandosi, appunto di trasformazione permanente del territorio (in tal senso, TAR Sicilia, sez. II, 03.04.2012, n. 676) (tratto da e link a http://studiospallino.blogspot).

CONDOMINIO: Vizi «noti» anche senza perizia. Gravi difetti dell'opera commissionata in appalto.
Il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, prevista  dall'articolo 1667, comma 3, del Codice civile, nel caso di opere realizzate in appalto e affette da vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all'esterno, decorre dalla scoperta dei vizi, che è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi. E la conoscenza dei vizi si può ritenere comunque acquisita quando al committente sono stati comunicati in qualsiasi modo, senza che sia necessaria una verifica tecnica dei vizi stessi.

Con queste motivazioni la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 22.11.2013 n. 26233, ha respinto il ricorso presentato da un condominio che aveva citato in giudizio l'impresa cui furono commissionati i lavori, perché fosse dichiarato risolto il contratto d'appalto del 22.06.1993 per grave inadempimento del convenuto e perché fossero accertati i gravi difetti dell'opera commissionata in appalto, siccome causati dalla cattiva e superficiale esecuzione del lavori.
Ma il tribunale dichiarò il condominio decaduto dall'azione, in base all'articolo 1667 del Codice civile, con sentenza poi confermata dalla Corte d'appello. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIGuerra ai piccioni, fai-da-te ko.
L'ordinanza adottata dal sindaco di un paese, che per ragioni di salute pubblica autorizzava i cacciatori ad abbattere tutti i piccioni presenti nel territorio comunale, destava l'ira delle associazioni animaliste e anticaccia che rivolgendosi al giudice ne ottenevano l'annullamento.

Tanto è accaduto in un paese della provincia di Ferrara dove il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con sentenza 21.11.2013 n. 765, ha precisato che quand'anche un ordine di tale fatta fosse stato legittimo, non avrebbe potuto autorizzare indistintamente tutti i cacciatori all'abbattimento di tale specie di volatili stante l'evidente contrasto con la disciplina della legge n. 157 del 1992 che, in materia di tutela della fauna selvatica e controllo del cosiddetto prelievo venatorio, all'art. 19 prevede la possibilità per le regioni di disporre per motivi di interesse pubblico, come soluzione estrema, un piano di abbattimento della fauna selvatica autorizzando a ciò le guardie venatorie dipendenti dell'amministrazione provinciale che all'occorrenza possono avvalersi anche dei proprietari o dei conduttori dei fondi interessati dai predetti piani di abbattimento, purché gli stessi siano in possesso dell'apposita licenza di caccia.
Altro aspetto di interesse della sentenza amministrativa citata concerne i limiti all'esercizio da parte del sindaco di quei poteri straordinari cosiddetti extra ordinem (ossia al di fuori dell'ordinamento giuridico) diretti a fronteggiare eventi congiunturali che mettono in pericolo la salute pubblica, allorché non sia possibile intervenire con i normali rimedi previsti dall'ordinamento giuridico.
L'ordinanza sindacale impugnata, invero, è espressione di quei poteri, ma ai fini della sua legittimità avrebbe dovuto spiegare gli effettivi pericoli per la salute pubblica derivanti dalla presenza dei piccioni nel territorio comunale, specificando il numero complessivo dei volatili presenti e quello ritenuto eccessivo, quindi da abbattere, chiarendo infine il perché dell'impossibilità di fronteggiare tali pericoli ricorrendo all'esercizio dei normali strumenti previsti dalla normativa regionale e nazionale (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

ENTI LOCALINon scatta la sanzione con il cartello fantasma.
Il cartello di divieto di sosta è solo il mezzo con cui si porta a conoscenza degli utenti un provvedimento in materia di traffico ma in caso di ricorso spetta all'amministrazione comunale dimostrare la legittimità dell'imposizione sottesa.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 15.11.2013 n. 25771.
Un automobilista sanzionato dai carabinieri per divieto di sosta ha proposto ricorso con successo al giudice di pace evidenziando la mancanza sul retro del segnale del numero dell'ordinanza comunale. Contro questa determinazione, confermata in sede d'appello, il ministero dell'interno ha proposto ricorso in Cassazione.
A parere degli ermellini il tribunale avrebbe dovuto ritenere sussistente la violazione stradale solo se fosse stata fornita la prova della legittimità dell'apposizione del cartello.
In buona sostanza non basta dire che manca il timbro per annullare la multa. Occorre dimostrare che manca l'ordinanza oppure è viziata (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze professionali dei geometri: limiti e rimedi al travalicamento.
Il Tribunale di Lecce, Sez. distaccata di Maglie, con la sentenza 12.11.2013 n. 3571 ha dichiarato
la nullità del contratto di prestazione d’opera avente ad oggetto prestazioni progettuali di un opificio industriale poste in essere da un geometra, condannando quest’ultimo alla restituzione degli acconti versati in esecuzione del contratto nullo, dichiarando altresì l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza della domanda di arricchimento senza causa.
La questione nasce a seguito di un decreto ingiuntivo azionato dal geometra, sulla base di un incarico professionale, al fine di ottenere il compenso per prestazioni progettuali attinenti la progettazione di due capannoni industriali oltre struttura su due livelli, da realizzarsi previa mutazione di destinazione d’uso di immobile e seguendo la pratica di cui al D.P.R. n. 447/1998.
Avverso tale decreto di ingiunzione la società opponente ha presentato opposizione, deducendo la nullità del contratto per la violazione delle competenze proprie dei geometri.
Parte opponente ha altresì dedotto che il contratto è stato concluso con dolo e ne ha chiesto l'annullamento, chiedendo, in ogni caso la restituzione delle somme versate in esecuzione di un contratto nullo e/o annullabile.
Venendo al merito della vicenda, si rappresenta che la società opponente ha eccepito la nullità dell'incarico conferito al geometra, in quanto lo stesso sarebbe stato chiamato ad eseguire prestazioni che esulano dalla competenza specifica della categoria di appartenenza, ai sensi dell’art. 16, R.D. n. 274/1929.
Ebbene, accogliendo le tesi difensive della società opponente il Giudice, richiamando un consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione, ha rilevato che “Il progetto redatto da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a nulla rilevando che sia stato controfirmato da un ingegnere, o che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità. Ne consegue che, nella suddetta ipotesi, il rapporto tra il geometra ed il cliente è radicalmente nullo ed al primo non spetta alcun compenso per l'opera svolta, ai sensi dell'art. 2231 cod. civ.”.
Meritevoli di accoglimento sono state, altresì le deduzioni di parte opponente circa la non modesta entità dell’opera progettata. Ed invero, il Tribunale di Lecce ha chiarito che “il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, letto m), del r.d. 11.02.1929, n. 274- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge 02.02.1974, n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri”.
Orbene, il Giudice del foro leccese ha rappresentato che nel corso di causa “è emerso che l'opera di progettazione del geom. XXX ha riguardato un edificio di 11.639,62 me, rispetto a due capannoni industriali e ad una costruzione su due livelli”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato che “la cubatura dell'opera (11.639,62), la complessità della progettazione, il numero di piani (due fuori terra) ed il valore economico dell'operazione (è la stessa parte opposta ad affermare che il terreno ha avuto un incremento del 1000%, per arrivare a 300.000,00€) inducono a ritenere che la costruzione in cemento armato sia tutt'altro che modesta”.
Alla luce dei principi e della giurisprudenza richiamata, il Tribunale salentino ha dichiarato la nullità dell'opera prestata dal geometra opposto.
In conseguenza della nullità del contratto d’opera è stata, altresì, ordinata la restituzione delle somme versate dalla Società opponente al geometra opposto.
Infine, deve rilevarsi la declaratoria dell’inammissibilità dell’azione di arricchimento senza causa proposta da parte opposta e, comunque, la sua infondatezza nel merito “posto che la giurisprudenza esclude espressamente che nel caso di specie il geometra possa presentare domanda ai sensi dell'art. 2041 c.c.”.
La sentenza in commento non fa altro che ribadire una prassi ormai arcinota quanto illegale dei tecnici non laureati, i quali si arrogano competenze al di fuori del loro ambito di operatività con seri rischi per la sicurezza e per la pubblica incolumità (tratto da www.altalex.com).

PATRIMONIOBuche in strada costose. Appaltatore dei lavori sempre responsabile. Cassazione: non rileva che le risorse della p.a. siano insufficienti.
La società che accetti le condizioni contrattuali dell'appalto dettate dall'amministrazione si assume la responsabilità per tutte le conseguenze dannose che possano derivare a terzi in esecuzione dei lavori, e ciò anche laddove le risorse messe a disposizione dalla stazione appaltante risultino inadeguate o insufficienti.

Lo ha stabilito la IV Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 16.10.2013 n. 42498.
Nel caso concreto il comune di Roma ha affidato a una società la manutenzione ordinaria, la sorveglianza e l'intervento sulla grande viabilità del territorio romano. Durante i lavori è accaduto che un ciclista, percorrendo uno dei viali sotto manutenzione, si sia imbattuto in una buca profonda quasi venti centimetri, cadendo rovinosamente a terra e riportando diverse lesioni.
Dell'incidente è stato chiamato a rispondere l'amministratore unico della società appaltatrice, sottoposto a procedimento penale innanzi al giudice di pace per il reato di lesioni colpose. L'accusa mossa nei suoi confronti dalla procura è stata quella di aver adempiuto negligentemente agli obblighi nascenti dall'appalto, omettendo la dovuta vigilanza sui pericoli nascenti dall'incarico posto che la buca da cui era scaturito l'incidente del ciclista non era stata segnalata né erano state apprestate misure impeditive al verificarsi di eventi dannosi del tipo di quello accaduto.
All'esito del processo di primo grado il giudice ha ritenuto fondata la tesi della procura, di conseguenza condannando l'imputato alla pena della multa assieme al risarcimento dei danni patiti della parte civile. Della stessa opinione è stato il tribunale monocratico, adito in appello dai difensore dell'amministratore unico: per entrambi i giudici di merito, infatti, la responsabilità dell'imputato derivava dal non aver lo stesso adempiuto agli obblighi contrattuali di vigilanza, da effettuarsi 24 ore su 24, e di immediata eliminazione o segnalazione dei pericoli rilevati sulle strade.
La decisione del giudice di secondo grado è stata impugnata in sede di legittimità: alla Suprema corte è stato chiesto l'annullamento della decisione muovendo dall'asserita erroneità dei precedenti verdetti di condanna che male avrebbero rinvenuto i limiti della posizione di garanzia gravante sui gestori della società appaltatrice: la difesa ha argomentato la propria tesi osservando come nel capitolato d'appalto fosse prevista la facoltà della stazione appaltante di procedere a indagini per verificare l'esatta esecuzione dei lavori e imporre sanzioni in caso di mancato rispetto degli obblighi, contestazioni e sanzioni che non ricorrevano affatto nel caso di specie. D'altra parte, la difesa ha insistito nel sostenere come i mezzi destinati dal comune all'attività di sorveglianza del territorio fossero minimi, tanto che la società appaltatrice si era trovata costretta a lavorare con una sola squadra di sorveglianza ogni cinque municipi (ossia per uno spazio di circa 800 km per ciascuna squadra): da qui il richiamo alla regola generale, in materia di responsabilità per colpa, secondo cui non è sufficiente l'oggettiva inosservanza della regola cautelare di condotta, poiché occorre non di meno che questa sia soggettivamente imputabile al soggetto agente.
Ebbene, i giudici romani, nel rigettare completamente il ricorso presentato, hanno risposto a entrambe le censure nei seguenti termini. Con riferimento alla mancata contestazione di violazioni degli obblighi da parte dell'amministrazione comunale, è stato osservato come siffatto profilo non potesse assumere alcun rilievo poiché si trattava di circostanze avulse dall'attestazione o meno, in sede penale, del pieno rispetto, da parte della società, degli obblighi nascenti dal contratto di appalto né potevano risultare utili ai fini dell'esonero dell'imputato da ogni responsabilità.
Analogamente, è stata rigettata la contestazione relativa alla mancanza di fondi destinati all'attività di sorveglianza: sul punto, gli ermellini hanno evidenziato come «l'impossibilità di gestire adeguatamente il territorio per l'insufficienza del corrispettivo previsto nell'appalto, non autorizzava certo l'imputata a non rispettare gli obblighi assunti e a fornire un servizio assolutamente inadeguato, bensì la obbligava a segnalare al committente l'impossibilità di garantire il servizio stesso e di concordare possibili diverse soluzioni». Lambendo i confini della «colpa per assunzione», dunque, la Corte capitolina ha redarguito l'imputato sottolineando come, peraltro, «nulla» lo avesse obbligato a sottoscrivere il contratto di appalto o, comunque, ad accontentarsi di corrispettivi inadeguati alla rilevanza degli impegni che avrebbe dovuto assumere (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

AGGIORNAMENTO AL 15.01.2014

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Sullo svolgimento, in modo continuativo sin dal 2007, dell'attività istituzionale dell'ente (supporto all'ufficio tecnico comunale per l'evasione di pratiche edilizie) affidata ad un tecnico esterno.
Occorre indicare quali sono in linea generale i presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp. (modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008)
qualifica <<come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio>> e cioè:
  
1)
La rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già chiarito che <<il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000>>.
  
2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione.
  
3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico.
  
4) L’indicazione della durata dell’incarico.
  
5)
La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che <<il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite>>.
  
6) Il requisito della “comprovata specializzazione universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e comprovata specializzazione universitaria”.
  
7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno già ricordato che <<l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico>>.
  
8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno ribadito che le disposizioni della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente, pertanto tale obbligo permane.
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla gestione di pertinenza della magistratura contabile. L’intervento del revisore contabile è necessario quale titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di raccordo con gli organi di controllo esterno.
  
9)
L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione. Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato che <<l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata>>.
  
10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
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L'amministrazione comunale deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti secondo cui: “fermo restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma anche se non vi siano state corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione del personale e di una riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza”.
Dunque, questa Sezione rileva che la criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa per il personale e violando le norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
Piuttosto, l’ente locale dovrebbe attivarsi per valutare se attraverso lo strumento della gestione in forma associata con altri comuni possa svolgere la funzione de qua senza incappare nelle violazioni di legge sin qui evidenziate.
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Nel corso dell’esame del questionario inviato dal Comune di Porto Valtravaglia in merito al consuntivo per l’anno 2011, il Magistrato Istruttore, avviata un’indagine sul mancato rispetto dei vincoli finanziari posto dall’art. 6 D.L. n. 78/2010 (riduzione dell’80% della spesa sostenuta nell’anno 2009 per studi e consulenze), rilevava che <<dalla documentazione allegata emerge che il geom. C. svolge, in modo continuativo sin dal 2007, attività istituzionale dell'ente (supporto all'ufficio tecnico comunale per l'evasione di pratiche edilizie)>>.
Sulla scorta di detto rilievo, dunque, il Magistrato Istruttore chiedeva all'ente locale di chiarire se la spesa sostenuta fosse stata <<computata in quella per il personale e se per il "rinnovo" dell'incarico per l'anno 2011>> fosse stata espletata <<una nuova procedura compartiva rispetto a quella che risulta dalla determina n. 37 del 26.02.2007 per il triennio 2007-2009>>.
Il revisore dei conti comunicava che <<la spesa del professionista non è stata computata tra le spese del personale ma non allo scopo di eludere il vincolo di spesa che è rispettato anche includendo l’intero costo del professionista>>. Il revisore, inoltre, aggiunge che <<per l’assegnazione dell’incarico al professionista C.C. per l’anno 2011 non è stata espletata la procedura comparativa>>.
Il Magistrato Istruttore, sulla scorta della risposta del revisore, chiedeva al Presidente della Sezione di convocare in adunanza l’ente locale per l’esame collegiale della vicenda.
Prima dell’adunanza l’ente locale inviava memoria in cui confermava il mancato espletamento di procedura comparativa in sede di affidamento dell’incarico anche per l’anno 2012 al medesimo professionista. Aggiungeva, però, che per l’anno 2012 la spesa sostenuta per l’incarico era stata computata in quella per il personale. La mancata acquisizione del parere del revisore e il mancato invio della determina alla Corte ai sensi dell’art. 1, comma 173, l. n. 266/2005 venivano ascritti ad “una mera dimenticanza”.
All’adunanza del 05.06.2013 sono intervenuti in rappresentanza del Comune di Porto Valtravaglia il Sindaco, il Segretario comunale, il Responsabile del Servizio Finanziario e il Responsabile dell’ufficio tecnico.
...
Le recenti novelle legislative che hanno inciso sulla disciplina degli atti di affidamento delle consulenze da parte degli enti locali sono accomunate da un unico principio ispiratore: l’amministrazione deve svolgere le sue funzioni con la propria organizzazione e il proprio personale; conseguentemente, il ricorso a rapporti di collaborazione con <<soggetti esterni è consentito solo nei casi previsti dalla legge, od in relazione ad eventi straordinari, non sopperibili con la struttura burocratica esistente>> (in questo senso, si veda la sentenza della Corte Conti, II sez. app., del 20.03.2006).
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle collaborazioni negli ultimi anni hanno spinto il legislatore ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa. Si vedano, ad esempio, le disposizioni di cui agli artt. 34 della legge 27.12.2002, n. 289, 3 della legge 24.12.2003, n. 350 e 1, commi 9 e 11, del d.l. 12.07.2004, n. 168, convertito con legge 30.07.2004, n. 191 (sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della legge 30.12.2004, n. 311)
con l’introduzione di fattispecie tipizzate di illecito amministrativo contabile, per cui la violazione del disposto normativo <<… costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale>>.
Da ultimo, poi, si richiama la lettera dell’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che recita: <<
al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni a decorrere dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e di consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno 2009. L’affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale>>.
In questo quadro normativo va contestualizzata la funzione di controllo esercitata dalle sezioni regionali della Corte dei Conti sugli atti di affidamento di consulenze esterne; funzione che la magistratura contabile svolge su due livelli, ovvero su quello più generale che investe l’esercizio della potestà regolamentare dell’ente locale conferente, nonché su quello più specifico che attiene la singola determina di affidamento dell’incarico.
I) Il controllo della sez. regionale della Corte dei Conti sui regolamenti adottati dagli Enti locali per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma.
Con riferimento all’attività di controllo che la Corte dei Conti esercita a livello di regolamentazione adottata dagli enti, in questa sede, è sufficiente ricordare che l’art. 3 della legge Finanziaria per l’anno 2008 (legge 24/12/2007 n. 244), come sostituito dall’art. 46, comma 3, D.L. 25.06.2008, n. 112 e relativa legge di conversione, al comma 56 recita che <<
con il regolamento di cui all'articolo 89 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali>>. Il successivo comma 57, poi, sancisce che <<le disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro adozione>>.
Questa Sezione con le deliberazioni 37/2008, 224/2008 e 37/2009 ha individuato alcuni principi che devono informare le disposizioni regolamentari in materia (si vedano anche le più recenti, Lombardia/715/2010/REG del 30.06.2010 e Lombardia/967/2010/REG del 22.10.2010).
Nel caso di specie, tuttavia, la verifica di questa Sezione si incentra sulla singola determina di affidamento di incarico esterno di cui si è detto in premessa; conseguentemente, è opportuno soffermarsi sui presupposti di carattere procedimentale e sostanziale che devono ricorrere per qualificare come conforme alla disciplina la determina in parola.
II) Il controllo delle sezioni regionali sulle singole determine di affidamento di incarichi a soggetti esterni alle amministrazioni locali.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n.266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione. La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti locali a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
Questa Sezione ha già affermato che <<
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere>> (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
Si aggiunga che
un utilizzo improprio delle collaborazioni esterne per ricoprire uffici dell’ente è fonte di responsabilità. Questo principio -affermato dalla giurisprudenza contabile in materia di conferimento di incarichi esterni nella P.A.- è stato recentemente fatto proprio dal legislatore nell'articolo 22, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e poi dall'articolo 17, comma 27, della legge n. 102 del 2009, che hanno novellato l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001.
Nel nuovo art. 7 T.U. Pubbl. Imp., infatti, è stato previsto che
il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.
Prima di procedere alla verifica di conformità alla disciplina giuridica vigente dell’incarico esterno conferito dall’amministrazione comunale di Cardano al Campo,
occorre indicare quali sono in linea generale i presupposti di legittimità per il conferimento di “incarichi esterni” (presupposti di carattere sostanziale e procedimentale) che la Corte dei Conti valuta nello svolgimento dell’attività di controllo attribuitale dall’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266.
Il nuovo testo del sesto comma dell’art. 7 T.U. Pubb. Imp. (modificato dall’art. 3, comma 76, della l. n. 244/2007, poi sostituito dall’art. 46, comma 1, d.l. n. 112/2008) qualifica <<come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio>> (Sez. Contr. Reg. Lombardia, delib. n. 224/2008):
  
1) La rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione.
In merito a questo presupposto, questa Sezione ha già chiarito che <<il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.lvo 267/2000>> (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008).
   2) L’inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione.
   3) L’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico.
   4) L’indicazione della durata dell’incarico.
   5) La proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione.
Sotto il profilo della spesa è, tuttavia, doveroso ricordare che <<il comma 3 dell’art. 46 del D.L. 112/2008, unificando ai fini dell’inserimento nel regolamento di cui all’art. 89 del D.lvo 267/2000 tutti gli incarichi di collaborazione autonoma, ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile per taluni di essi, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo degli enti territoriali. E’, pertanto, necessario accertare in sede di conferimento degli incarichi l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite>> (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
   6) Il requisito della “comprovata specializzazione universitaria: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti “di particolare e comprovata specializzazione universitaria”.
   7) Obbligo di motivazione della determina con cui viene affidato l’incarico esterno.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delib. n. 6/2005) hanno già ricordato che <<l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato. Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico. In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico>> (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009).
   8) La valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti.
In numerose delibere le Sezioni Regionali di Controllo hanno ribadito che le disposizioni della legge 311/2004 (finanziaria 2005) concernenti la valutazione dell’organo interno di revisione, non sono state né abrogate esplicitamente dalla finanziaria per l’anno 2006 né sono incompatibili con la disciplina intervenuta successivamente, pertanto tale obbligo permane (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 231/2009/par. del 14.05.2009; Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del 23.04.2010; contra, ma con affermazione apodittica, delibera in data 17.02.2006 della Sezione delle Autonomie).
L’obbligo di verifica da parte dell’organo di revisione riguarda il singolo atto di spesa e assolve a finalità nettamente distinte da quelle affidate al controllo sulla gestione di pertinenza della magistratura contabile. L’intervento del revisore contabile è necessario quale titolare di funzioni di controllo interno all’ente e di raccordo con gli organi di controllo esterno (Corte Conti, sez. reg. contr. Lombardia, delib. n. 506/2010/par. del 23.04.2010; Sez. Contr. Reg. Piemonte, parere n. 23 del 18.03.2010).
   9) L’obbligo di seguire procedure comparative.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Di fatto, però, la norma è stata disattesa dalla maggior parte degli enti.
Una parte della Giurisprudenza amministrativa ha ricordato che <<l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata>> (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
   10) L’obbligo pubblicazione degli elenchi sul sito web.
La legge finanziaria per il 2008 modificando il comma 127, art. 1, della legge n. 662/1996, impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza per i quali è previsto un compenso, di pubblicare sul proprio sito web i relativi provvedimenti, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.

III) Profili di non conformità a legge della determina di affidamento di incarico oggetto della presente deliberazione.
La determina del responsabile dell’area tecnico-manutentiva del Comune di Porto Valtravaglia n. 10, del 17.02.2011, avente per oggetto il conferimento di <<tutte le attività in materia di edilizia privata ed in particolare l'istruttoria, la gestione e il controllo delle pratiche edilizie>>, presenta sia vizi sostanziali sia vizi procedimentali; dunque il Comune di Porto Valtravaglia, contravvenendo ai principi in precedenza esposti, ha fatto ricorso all’istituto della collaborazione professionale esterna in violazione di norme di legge.
Alla luce di quanto già esposto nella prima parte di questa deliberazione, il Comune di Porto Valtravaglia ha violato le seguenti norme di legge:
   1) violazione del comma 173 dell’art. 1, della legge n. 266/2005 (legge finanziaria per il 2006) che impone agli enti locali l’obbligo di acquisire il parere del revisore dei conti e, quando l’atto di spesa supera la spesa annua di cinquemila euro, di trasmettere l’affidamento dell’incarico di studio o di consulenza alla sezione regionale di controllo territorialmente competente.
La violazione della norma che impone l’obbligo di invio alla Corte dei Conti dell’atto di spesa è riscontrabile documentalmente (infatti, solo dopo specifica richiesta istruttoria del Magistrato Istruttore, l’amministrazione di Porto Valtravaglia ha comunicato di aver conferito l’incarico di collaborazione professionale). Come emerge dalla determina di affidamento in esame “la relativa spesa complessiva di € 24.910,08=, IVA e CIPAG 4% compresi” è stata “impegnata ed imputata all'intervento 1010603, capitolo 5010370” del Bilancio di previsione 2011.
Altresì riscontrabile documentalmente è la mancata acquisizione del parere del revisore dei conti (per la necessità della sua acquisizione si rimanda a quanto detto al n. 8 del paragrafo II della presente motivazione).
   2) violazione dell’art. 7 TUPI che impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento dell’incarico esterno.
Ogni Amministrazione deve adottare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (comma 6-bis, art. 7, D.Lg.vo n. 165/2001).
Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494/2007). Infatti, <<l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata>> (Cons. St., sent. 28.05.2010, n. 3405).
Il revisore ha affermato che <<per l’assegnazione dell’incarico al professionista C.C. per l’anno 2011 non è stata espletata la procedura comparativa>>. In sede di adunanza è stato accertato che anche l’incarico affidato nel corso del 2012 è avvenuto in violazione di detta regola.
In proposito questa Sezione ribadisce che l’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di procedure comparative a prescindere dall’importo pattuito. Detta regola trova solo tre tassative eccezioni (“procedura comparativa andata deserta”; “unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo”; “assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”). Dunque, poiché nel caso di specie non ricorre nessuna di queste tre ipotesi aventi carattere eccezionale, questa Sezione ritiene che il Comune di Porto Valtravaglia, avendo proceduto all’affidamento diretto dell’incarico, abbia violato il disposto dell’art. 7 TUPI che impone l’espletamento di una procedura comparativa per la selezione dell’affidatario di un incarico esterno.
   3) Violazione dell’art. 7 TUPI in merito alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente.
La durata del rapporto intercorso tra il Comune di Porto Valtravaglia e il geom. C. (ovvero, primo incarico triennale dal 2007 al 2010 e successivi incarichi annuali nel 2011 e nel 2013) non risponde ai principi più volte ribaditi dalla Magistratura contabile (ex multis Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 e la delibera n. 24/2011) secondo cui la durata dei contratti di collaborazione (ex art. 7, c. 6, del d.lgs. n.165/2001) devono avere <<natura temporanea, in quanto conferiti allo scopo di sopperire ad esigenze di carattere temporaneo per le quali l’amministrazione non possa oggettivamente fare ricorso alle risorse umane e professionali presenti al suo interno. Al riguardo, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia considera l’incarico di collaborazione coordinata e continuativa non rinnovabile e non prorogabile, se non a fronte di un ben preciso interesse dell’Amministrazione committente, adeguatamente motivato ed al solo fine di completare le attività oggetto dell’incarico, limitatamente all’ipotesi di completamento di attività avviate contenute all’interno di uno specifico progetto>>.
Infatti, l’istituto giuridico della proroga deve essere collegato alla possibilità che il progetto, per il quale è stato conferito l’incarico, non venga portato a compimento. La <<proroga si configura, essenzialmente, come spostamento in avanti del termine contrattuale, e, dunque, come una sorta di ultra-attività del contratto originario>> (delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012 cit.).
Chiarito che è manifestamente illegittimo l’incarico professionale “protratto per anni”, si osserva che nel caso di specie questa Sezione formula dubbi sulla possibilità di qualificare l’incarico de quo come contratto co.co.co. a progetto. Infatti, <<la necessità di ricorrere ad un incarico di collaborazione di tipo coordinato e continuativo, invero, deve costituire un rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari, per le quali l’Amministrazione necessiti dell’apporto di specifiche competenze professionali esterne, in quanto non rinvenibili al suo interno>> (Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012).
Nel caso di specie non è riscontrabile il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può fare ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, <<con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale>> (Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, delibera n. SCCLEG/1/2012/PREV del 13.01.2012).
D’altra parte, nel corso dell’istruttoria è emerso che c’è un dipendente assegnato al funzionamento dell’ufficio tecnico comunale, anche se in convenzione con il Comune di Grantola.
Si aggiunga che la spesa per l’incarico de quo, non è stata inserita nelle spese per il personale per l’anno 2011.
In conclusione,
l’amministrazione comunale deve attenersi all’insegnamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (delibera n. 20 del 04.04.2011) secondo cui: “fermo restando il limite della spesa storica riferito al 2004, gli enti non sottoposti alle regole del patto di stabilità possono procedere, ai sensi del combinato disposto dei commi 557, 557-bis e 562 dell’art. 1 della legge 27.12.2006 n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e dell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112/2008, all’instaurazione in via temporanea ed occasionale di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma anche se non vi siano state corrispondenti cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione che:
- detti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o per programma abbiano carattere temporaneo nelle more di un’adeguata programmazione del personale e di una riorganizzazione degli uffici in forma associata;
- l’esercizio di funzioni pubbliche indefettibili venga assicurato, prioritariamente e a regime, mediante la previsione in organico di adeguato e qualificato personale;
- il ricorso a tali forme di collaborazione non costituisca occasione di elusione dei limiti di spesa previsti in tema di contenimento di spesa pubblica, ed in particolare di incarichi di consulenza
”.
Dunque,
questa Sezione rileva che la criticità denunciata dall’amministrazione comunale (carenza di dipendente con una professionalità idonea a svolgere le funzioni dell’ufficio tecnico) non può essere affrontata eludendo i vincoli di finanza pubblica in materia di spesa per il personale e violando le norme sull’affidamento all’esterno degli incarichi professionali (art. 7 TUPI).
Piuttosto, l’ente locale dovrebbe attivarsi per valutare se attraverso lo strumento della gestione in forma associata con altri comuni possa svolgere la funzione de qua senza incappare nelle violazioni di legge sin qui evidenziate
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.06.2013 n. 243).

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AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Semplificazione dei criteri tecnici per la redazione della documentazione di previsione d’impatto acustico dei circoli privati e pubblici esercizi. Modifica ed integrazione dell’allegato alla deliberazione di Giunta regionale 08.03.2002, n. VII/8313" (deliberazione G.R. 10.01.2014 n. 1217).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Aggiornamento della disciplina regionale per l’efficienza e la certificazione energetica degli edifici e criteri per il riconoscimento della funzione bioclimatica delle serre e delle logge, al fine di equipararle a volumi tecnici" (deliberazione G.R. 10.01.2014 n. 1216).

AMBIENTE-ECOLOGIA- LLAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Adozione del piano regionale della mobilità ciclistica (articoli 1 e 2 della l.r. 7/2009 “Interventi per favorire lo sviluppo della mobilità ciclistica”) e presa d’atto dei relativi documenti previsti dalla procedura di valutazione ambientale strategica/valutazione di incidenza" (deliberazione G.R. 10.01.2014 n. 1214).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.02014, "Direzione generale Ambiente, energia e sviluppo sostenibile - Terzo aggiornamento dell’elenco degli idonei alla nomina a direttore di Parco regionale (art. 22-quater della l.r. 86/1983)" (decreto D.U.O. 07.01.2014 n. 18).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 14.01.2014 n. 10 "Regolamento recante i criteri tecnici per l’identificazione dei corpi idrici artificiali e fortemente modificati per le acque fluviali e lacustri, per la modifica delle norme tecniche del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale, predisposto ai sensi dell’articolo 75, comma 3, del medesimo decreto legislativo" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 27.11.2013 n. 156).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 13.01.2014 n. 9, suppl. ord. n. 4, "Ripubblicazione del testo della legge 27.12.2013, n. 147, recante: «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014).», corredato delle relative note (Legge pubblicata nel Supplemento ordinario n. 87 alla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27.12.2013)".

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Risparmi dalle indennità. La sostituzione dei gettoni deve ridurre i costi. Il Viminale dà ragione ai commissari di un ente in dissesto finanziario.
È possibile trasformare il gettone di presenza in indennità di funzione a favore di un consigliere comunale?

Nel caso di specie, ai sensi delle disposizioni dettate al tempo dall'art. 82, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il consiglio comunale di un ente, con atto del 2007, aveva deliberato di fissare l'indennità di funzione dei consiglieri comunali nella misura stabilita nella conferenza dei capigruppo. Successivamente a tale nota, dal settore affari generali, sono state adottate due determinazioni, la prima per la trasmissione del menzionato atto al servizio finanziario, e la seconda con la quale viene preso atto dell'impegno economico per il pagamento della suddetta indennità.
Ai consiglieri comunali interessati non è mai stata corrisposta l'indennità di cui trattasi e, alcuni di questi hanno chiesto alla commissione straordinaria di liquidazione nominata e seguito dalla dichiarazione di dissesto del comune, l'ammissione alla massa passiva del presunto credito indennitario, al netto dei gettoni liquidati.
La commissione straordinaria, con atto del 2013, ha deliberato l'esclusione dalla massa passiva e, a seguito di tale esclusione, i consiglieri interessati hanno chiesto un riesame della questione rappresentata.
L'art. 82, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nel testo vigente prima di essere soppresso dall'art. 2, comma 25, della legge n. 244 del 2007, disponeva che gli statuti e i regolamenti degli enti potevano prevedere che all'interessato competesse, a richiesta, la trasformazione del gettone di presenza in una indennità di funzione, sempre che tale regime di indennità comportasse per l'ente pari o minori oneri finanziari. Il regime di indennità di funzione per i consiglieri prevedeva l'applicazione di detrazioni dalle indennità in caso di non giustificata assenza dalle sedute degli organi collegiali.
Nel periodo della vigenza della norma, l'Amministrazione dell'Interno, formulando note interpretative circa le modalità da seguire per la quantificazione della spesa relativa alle indennità trasformate, rilevava, in particolare, la necessità che venisse imprescindibilmente rispettato quanto disposto dal comma 4 dell'art. 82 in ordine all'applicazione del regime indennitario che, in luogo di quello del gettone di presenza, avrebbe dovuto comportare per l'ente «pari o minori oneri finanziari»; evidenziava, quindi, che la disciplina statutaria e regolamentare dell'indennità dovesse essere in grado di garantire che la spesa, che l'ente avrebbe sostenuto corrispondendo a tutti i consiglieri il gettone di presenza in relazione alla effettiva partecipazione alle sedute, non fosse travalicata applicando il regime indennitario.
Questa facoltà, al tempo attribuita all'organo amministrativo, attese le avvertite esigenze di contenimento dei costi è stata abrogata dalla citata legge, n. 244 del 2007, secondo la linea di contenimento che ha caratterizzato anche i successivi interventi del legislatore sul complessivo impianto normativo concernente il sistema delle indennità.
La richiesta di riesame della delibera commissariale del 2013, i cui contenuti sono in linea con gli orientamenti espressi da questo Dicastero, deve essere valutata dallo stesso organo che ha emesso l'atto presupposto, tenuto conto che il comune in questione si trova in dissesto finanziario, secondo i principi di buon andamento e contenimento della spesa che devono improntare l'azione degli amministratori locali (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

CORTE DEI CONTI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI - EDILIZIA PRIVATA1)– Non può escludersi la generale ammissibilità di mezzi di adempimento diversi dal pagamento nel caso di transazioni commerciali tra ente locale e privati, originate da contratti di servizi e forniture, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del “Codice degli appalti pubblici” (D.Lgs.vo n. 163/2006). (In questo senso, è stato ritenuto che la disposizione ex art. 35, comma 3-bis, del D.L. n. 1/2012, sia applicabile anche agli EE.LL.).
La compensazione dei crediti commerciali non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, con debiti tributari, trova le limitazioni contenute nelle specifiche norme in materia, non derogabili, che la ammettono su istanza del creditore o su sua specifica richiesta.
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2)- Nel caso della procedura di riequilibrio pluriennale non si rinvengono indicazioni specifiche, quali quelle prescritte per la procedura di dissesto, che impongano una particolare procedura di pagamento dei debiti, che possano essere ricondotte al principio della “par condicio creditorum”. (Nel parere si segnala, comunque, la disposizione contenuta all’art. 6 del D.L. n. 35/2013, che può fornire indicazioni di carattere generale e, dunque, non circoscritto alle sola ipotesi del riequilibrio pluriennale, sul corretto criterio di pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni).
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3)- Allo stato attuale della legislazione e fino a tutto il 2014, l’utilizzo delle risorse rivenienti dalle concessioni edilizie e dalle sanzioni previste dal DPR n. 380/2001, fermo il presupposto che le spese non siano consolidate e ripetitive e che l’entrata sia accertata sulla base degli introiti effettivi, nel rispetto dei principi di sana gestione, continua a essere disciplinato nel modo previsto dalla legge n. 244/2007, ancora non trovando applicazione il nuovo vincolo di destinazione impresso dall’art. 4 comma 3, della legge n. 228 del 24/12/2012.
Permane pertanto la possibilità di utilizzare, per la quota del 50%, le entrate rivenienti nei contributi per permesso di costruzione per la pulizia delle strade e per fronteggiare il debito fuori bilancio dell’Ente nei confronti di creditori che abbiano effettuato interventi per l’emergenza neve e per la manutenzione delle strade comunali.

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Con la nota in epigrafe il Commissario Straordinario del Comune di San Fele, dopo aver premesso che l’Ente ha adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale, pone i seguenti quesiti:
I- con riferimento alle norme in materia di compensazione di crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, maturati al 31.12.2012 nei confronti dei Comuni, si chiede se anche l’Ente possa legittimamente avvalersi di tale facoltà nei rapporti con i privati, anche allo scopo di prevenire danni da ritardo nei pagamenti ai propri creditori;
I.1- se, nel caso di risposta affermativa, sia corretto approvare preventivamente un atto di indirizzo/direttiva di Giunta per i responsabili dei settori e degli uffici;
II- se vi sono, e quali sono, le corrette azioni da intraprendere per non violare il principio della par condicio creditorum nell’attuazione della procedura di riequilibrio finanziario pluriennale;
III- se le entrate derivanti dai contributi per permesso di costruzione possano legittimamente essere destinate a fronteggiare il debito dell’Ente nei confronti di creditori che abbiano effettuato interventi per l’emergenza neve e per la manutenzione delle strade comunali (prestazioni di servizi).
...
(... segue) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 27.11.2013 n. 123).

ATTI AMMINISTRATIVIIn tema di riconoscimento di debiti fuori bilancio deve ritenersi che la dizione “sentenze esecutive” di cui alla lett. a) del primo comma dell’art. 194 del TUEL possa ricomprendere i provvedimenti giudiziari esecutivi da cui derivino debiti pecuniari e, conseguentemente, i decreti ingiuntivi esecutivi.
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Con nota prot. n. 4057 del 21.11.2013 il Sindaco del comune di Campomaggiore, dopo aver premesso che l’Ente, «… con deliberazione di Giunta Comunale del 2001, al fine di dotare l'Amministrazione Comunale di una specifica ed alta professionalità in campo legale, sia per fornire un supporto consulenziale legale e sia per la redazione di pareri su casi legali e amministrativi, deliberava di affidare a professionista esterno l'espletamento delle suddette attività per un periodo di dodici mesi, con tacito rinnovo, e approvava relativa bozza di convenzione, sottoscritta dall'allora Sindaco pro tempore e dal professionista esterno», ha rappresentato che «…è stato notificato al Comune di Campomaggiore decreto ingiuntivo da parte del professionista per il credito, a suo dire, vantato in forza della convenzione suddetta».
Con la stessa nota, dopo essere stato tra l’altro specificato che «… il Comune nei termini di legge ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo», che «… nel corso del giudizio di opposizione, sebbene richiesta, non è stata sospesa la esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo» e che «… il professionista ha avviato l’espropriazione presso terzi, oggi in corso», è stato chiesto di conoscere l’avviso di questa Sezione regionale di controllo «… in ordine:
1. all'obbligo di procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell'art. 193, comma 2, del D.lgs. 267/2000 nel caso di obbligazioni pecuniarie nascenti da decreto ingiuntivo del quale nel corso del giudizio di opposizione, sebbene richiesta, non sia stata sospesa la provvisoria esecuzione, atteso che lo stesso non rientra nella categoria di cui all'art. 194, comma 1, lett. a), del D.lgs. 267/2000;
2. all'obbligo di riconoscere il debito fuori bilancio in presenza di eventuale ordinanza di assegnazione emessa ai sensi dell'art. 553 c.p.p.,» (recte: 553 c.p.c.) «in favore del creditore che procede al pignoramento presso terzi, sebbene l'ordinanza de qua, ancorché presupponga la necessaria verifica da parte del Giudice dell'esecuzione dell'esistenza del titolo esecutivo e della correttezza della quantificazione del credito operata dal creditore in precetto, non abbia alcuna attitudine ad acquisire valore di cosa giudicata, in quanto il Giudice dell'esecuzione non risolve una controversia nei modi della cognizione con una decisione che fa stato tra le parti, ma esaurisce il suo accertamento nell'ambito della procedura esecutiva».
Si è chiesto, infine, «… di conoscere se l'attuale assetto legislativo consente di non riconoscere il debito secondo la procedura di cui all'art. 193 D.lgs. 267/2000, in pendenza di giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.p.,» (recte: 645 c.p.c.) «nel quale l'Ente potrebbe vedere riconosciute le sue ragioni, senza arrecare danni patrimoniali all'Ente locale».
...  
L’art. 194 del D.lgs. n. 267/2000 (TUEL) detta la disciplina regolante il riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio, stabilendo che, in occasione della deliberazione con cui l’Organo consiliare effettua la ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi e verifica se permangono gli equilibri generali di bilancio (art. 193, secondo comma, del TUEL), o con la diversa periodicità prevista dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti, tra l’altro, dalle sentenze esecutive, contemplate dalla lett. a) del primo comma del predetto art. 194.
Si osserva, preliminarmente, come il legislatore non richieda che l’accertamento recato dalla sentenza sia connotato dalla definitività del giudicato, visto che, in conseguenza dell’ultima formulazione dell’art. 282 del codice di procedura civile, le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive.
Le disposizioni recate dal predetto art. 194 sono ritenute di carattere eccezionale e, quindi, se non ammettono il ricorso all’analogia, per ius receptum sono suscettibili di intepretazione estensiva.
Alcuni recenti pareri resi dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003 hanno espresso un orientamento, da cui questo Collegio non ritiene doversi discostare, secondo il quale la dizione “sentenze esecutive” possa ricomprendere i provvedimenti giudiziari esecutivi da cui derivino debiti pecuniari e, conseguentemente, i decreti ingiuntivi esecutivi.
È stato evidenziato che ciò che pare «
… escludere decisamente l’ipotesi che il Legislatore abbia voluto limitare l'applicazione della disposizione eccezionale, di cui alla lett. a) dell’art. 194, alle sole sentenze esecutive è il carattere garantistico del procedimento solutorio previsto dalla norma de qua, in quanto imperniato sulla presa di conoscenza, da parte dell’Organo Consiliare dell’Ente locale, dell’esistenza dell’obbligazione in questione e sulla rimodulazione, da parte di detto Organo, delle previsioni di bilancio, quale unica e tipica procedura per la riconduzione della spesa de qua nell’alveo della contabilità dell’Ente.
In considerazione delle particolari caratteristiche di trasparenza contabile cui … è informato il procedimento di cui all’art. 194, non si ha, dunque, motivo di ipotizzare -nell’assenza di specifiche disposizioni di legge- che il Legislatore abbia inteso ancorare il pagamento di debiti pecuniari derivanti da altri (rispetto alle sentenze esecutive) provvedimenti giudiziari esecutivi -quali, appunto, i decreti ingiuntivi- all’adozione di diversi procedimenti giuscontabili, meno garantistici o comunque più complessi e tortuosi; così come sarebbe decisamente paradossale sospettare che il medesimo Legislatore abbia voluto propiziare il rinvio della “solutio” ad altro esercizio, viste le immancabili conseguenze che ne deriverebbero in termini di inutili lungaggini e di lievitazione della spesa, per effetto dell’instaurazione di procedimenti esecutivi e, comunque, per la maturazione, nel tempo, degli accessori di legge
» (parere n. 384/2011 del 26.07.2011 della Sez. reg. contr. per la Campania; nello stesso senso cfr. la deliberazione n. 242/2013/PAR del 25.06.2013 della Sez. reg. contr. per l’Emilia Romagna).
Ulteriori utili indicazioni possono trarsi dal Principio contabile n. 2 per gli Enti locali, approvato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti locali il 28.11.2008, nel quale, al punto 94, trovasi sottolineata la obbligatorietà, ove sussistano i presupposti, dell’adozione tempestiva della procedura di riconoscimento «… onde evitare, la formazione di ulteriori oneri aggiuntivi a carico dell’ente come eventuali interessi o spese di giustizia». Allo stesso punto è stato, peraltro, evidenziato che «La mancata tempestiva adozione degli atti amministrativi necessari è astrattamente idonea a generare responsabilità per funzionari e/o amministratori».
Con riferimento all’ipotesi di cui alla lettera a) del primo comma del predetto art. 194, poi, non sussistono, in capo al Consiglio dell’ente, margini di discrezionalità nella delimitazione della debitoria oggetto del riconoscimento. Nel caso di debiti derivanti da sentenza esecutiva, infatti, il significato del provvedimento del Consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito, il cui accertamento è effettuato aliunde in quanto riservato alla sede giurisdizionale, ma quello di
«ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso» (punto 101).
Altra funzione della delibera consiliare deve, in ogni caso, essere individuata nel «… ruolo di accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità. Del resto, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio agli organi di controllo e alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/02) delle delibere in esame (in tal senso, cfr. Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 1/2007)» (parere n. 15/2013 del 31.01.2013 della Sez. reg. contr. per la Campania).
Si consideri, d’altro canto, che il Comune non potrebbe, a tutela delle proprie finanze, ritardare oltre i termini di legge il pagamento di quanto ingiunto con formula esecutiva, essendo allo stesso pagamento astretto dalla necessità di rispettare l’ordine del giudice.
Infatti, «
Nel caso di sentenza esecutiva al fine di evitare il verificarsi di conseguenze dannose per l’ente per il mancato pagamento nei termini previsti decorrenti dalla notifica del titolo esecutivo, la convocazione del Consiglio per l’adozione delle misure di riequilibrio deve essere disposta immediatamente e in ogni caso in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini di legge ed evitare la maturazione di oneri ulteriori a carico del bilancio dell’ente» (punto 103).
La necessità di regolarizzazione contabile, poi, diventa ancor più stringente nell’ipotesi concernente pagamenti effettuati direttamente dal Tesoriere a seguito di procedure esecutive. In tal caso, infatti, «…l’ente deve immediatamente provvedere al riconoscimento e finanziamento del debito e alla regolarizzazione del pagamento avvenuto». Ad ogni modo, «Tale procedura non costituisce … impedimento all’attivazione delle azioni a tutela dell’ente» (punto 95).
A tale ultimo scopo, comunque, sono rivolti anche i principi derivanti dal punto 102, che ha stabilito quanto segue: «
Il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune».
Al fine di assicurare la maggior tutela possibile alle casse dell’Ente appare necessaria, in ogni caso, l’adozione da parte dell’amministrazione comunale di tutte le possibili misure idonee a garantire il recupero di quanto risultasse non dovuto all’esito della definizione dei procedimenti giurisdizionali pendenti.
Ovviamente, nel caso in cui l’esecutività della sentenza di primo grado o la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto fossero sospese nel giudizio di appello o di opposizione non sussisterebbe l’obbligo al riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi della lett. a sopra citata. In ogni caso, però, «… l’ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi di una sana e corretta gestione finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura del debito in caso di eventuale soccombenza» (parere n. 15/2013 della Sez. reg. controllo per la Campania).
Anche in tal caso, però, il Consiglio comunale dovrebbe comunque verificare se, per il rapporto sostanziale sotteso all’azione giudiziale, sussista la riconoscibilità sulla base di altre ipotesi previste dal primo comma dell’art. 194 citato (ad esempio alla lett. e -che contempla l’acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191 del TUEL, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza- sempre ovviamente che non ricorra la fattispecie di cui al quarto comma dell’art. 191 del TUEL, e quindi l’ingresso del debito nella sfera patrimoniale dell’ente non possa verificarsi perché il rapporto debba ritenersi instaurato tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura o che, per le esecuzioni reiterate o continuative, abbiano reso possibili le singole prestazioni) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 27.11.2013 n. 121).

SEGRETARI COMUNALI: La responsabilità del segretario comunale in caso di danni erariali accertati dalla Corte dei Conti.
Il Giudice contabile può, e anzi deve, considerare incidenter tantum eventuali corresponsabilità di soggetti che non sono parti del giudizio, ai fini della quantificazione del danno concretamente attribuibile ai soggetti chiamati in giudizio. Invero, l’art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20/1994, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 543/1996 convertito dalla legge n. 639/1996, stabilisce infatti: “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso”.
E nella fattispecie, vanno peraltro anche considerate le presumibili carenze nell’assistenza giuridica fornita agli amministratori comunali, nella vicenda in esame, dal segretario comunale.
Sul punto, va rilevato che all’epoca dei fatti in questione le funzioni del segretario comunale erano disciplinate, in modo non organico, dal testo unico approvato con r.d. n. 383/1934 e dal regolamento approvato con r.d. n. 297/1911, ma anche da altre disposizioni legislative e regolamentari.
Sulla base dell’art. 59 del r.d. n. 297/1911 (il segretario “assiste alle sedute della giunta, ha voto consultivo circa la legalità di ogni proposta e deliberazione e redige il verbale dell’adunanza”) e dell’art. 81 dello stesso r.d. (“il segretario è responsabile degli adempimenti di legge spettanti all’ufficio comunale, e della esecuzione delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta, in conformità delle disposizioni del sindaco”), veniva comunque pacificamente riconosciuta al segretario comunale anche un’importante attività di “consulenza tecnico-giuridica”, che nella fattispecie non risulta in effetti convenientemente assicurata.
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Nel caso di compartecipazione di più soggetti a un'unica vicenda dannosa per un’amministrazione pubblica, la giurisprudenza di gran lunga prevalente esclude una responsabilità cumulativa unitaria e pertanto un litisconsorzio necessario in applicazione dell'art. 102 c.p.c. (ex plurimis: SS.RR. n. 13/QM/2003, Prima Sezione n. 101/2005, Seconda Sezione n. 361/2005, Terza Sezione n. 16/2007, Appello Sicilia n. 126/2010 etc.).
Peraltro il Giudice può, e anzi deve, considerare incidenter tantum eventuali corresponsabilità di soggetti che non sono parti del giudizio, ai fini della quantificazione del danno concretamente attribuibile ai soggetti chiamati in giudizio. L’art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20/1994, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 543/1996 convertito dalla legge n. 639/1996, stabilisce infatti: “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso”.
Nella fattispecie, la Sezione molisana ha già considerato le possibili corresponsabilità di due assessori, addebitando al sig. F.R. solo la terza parte del danno accertato (e riducendo altresì ulteriormente del 10% l’importo della sua quota di danno).
Ad avviso del Collegio, vanno peraltro anche considerate le presumibili carenze nell’assistenza giuridica fornita agli amministratori comunali, nella vicenda in esame, dal segretario comunale.
Sul punto, va rilevato che all’epoca dei fatti in questione le funzioni del segretario comunale erano disciplinate, in modo non organico, dal testo unico approvato con r.d. n. 383/1934 e dal regolamento approvato con r.d. n. 297/1911, ma anche da altre disposizioni legislative e regolamentari. Sulla base dell’art. 59 del r.d. n. 297/1911 (il segretario “assiste alle sedute della giunta, ha voto consultivo circa la legalità di ogni proposta e deliberazione e redige il verbale dell’adunanza”) e dell’art. 81 dello stesso r.d. (“il segretario è responsabile degli adempimenti di legge spettanti all’ufficio comunale, e della esecuzione delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta, in conformità delle disposizioni del sindaco”), veniva comunque pacificamente riconosciuta al segretario comunale anche un’importante attività di “consulenza tecnico-giuridica”, che nella fattispecie non risulta in effetti convenientemente assicurata.
Va poi anche considerata, come ulteriore concausa nella produzione del danno o almeno ai fini di una più congrua applicazione del potere riduttivo dell’addebito previsto dagli artt. 52 del r.d. n. 1214/1934 e 1 della legge n. 20/1994, l’approvazione senza rilievi della deliberazione n. 165/1980 da parte del Comitato Regionale di Controllo, cui l’art. 59 della legge n. 62/1953 attribuiva il “controllo di legittimità” delle deliberazioni comunali (Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 22.11.2013 n. 716).

LAVORI PUBBLICI: Parere - debiti fuori bilancio.
Il verificarsi di una mancata entrata, che era stata precedentemente accertata, con conseguente impegno della relativa spesa in conto capitale ed aggiudicazione dei lavori, non costituisce un debito fuori bilancio, ma determina la necessità di ripristinare l’equilibrio finanziario del bilancio, adottando i provvedimenti previsti dall’art. 193 Tuel.
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Con nota n. 8416 in data 26.09.2013, trasmessa per il tramite del Consiglio delle Autonomie (nota n. 30261/2013) e pervenuta in data 03.10.2013, il sindaco del comune di Nole pone un quesito in materia di debiti fuori bilancio.
Premesso che in data 18/12/2009 è stata stipulata una convenzione con l’ASL T04 di Chivasso (TO) per la locazione di un fabbricato di proprietà comunale con obbligo da parte del comune di eseguire i lavori di ristrutturazione, il cui costo, pari a complessivi € 1.400.000,00, sarebbe stato parzialmente anticipato dall’ASL per € 933.000,00, scomputandolo dal canone, e che dopo l’aggiudicazione dei lavori l’ASL ha chiesto, a modifica della convenzione, la riduzione degli spazi locati e la conseguente riduzione proporzionale della quota del costo dei lavori di propria competenza, riducendola a complessivi € 513.000,00, l’amministrazione comunale chiede se il rifinanziamento dei lavori, applicando l'avanzo di amministrazione per € 336.000,00, sia da considerarsi debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 del TUEL.
...
Com’è noto con il termine di “debito fuori bilancio” si intende un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti locali (Principio contabile n. 2, paragrafo 91). Si tratta di un fenomeno riconducibile al concetto di “sopravvenienza passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni dell’art. 191 Tuel e in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui i debiti si manifestano.
L’art. 194 del individua le tipologie di debiti fuori bilancio che è possibile riconoscere, imputando l’obbligo insorto in capo all’ente, con l’adozione di apposita deliberazione del Consiglio.
Il primo comma della suddetta norma così testualmente dispone: "1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'àmbito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza
.".
Secondo la costante giurisprudenza l’elencazione contenuta nella predetta norma ha carattere tassativo, sicché non è possibile riconoscere debiti fuori bilancio che non rientrano nelle tipologie individuate (ex multis delibera 314/2012 di questa sezione e precedenti ivi richiamati).
Con riferimento al caso di specie, fermo restando che questa Sezione non può che limitarsi all’esame degli aspetti contabili e ad indicazioni di carattere generale, rimanendo riservate alla esclusiva competenza dell’Amministrazione le valutazioni e le decisioni del caso concreto, si osserva che, secondo quanto riferito, al momento dell’aggiudicazione i lavori erano stati regolarmente finanziati ed era stato previsto in bilancio il relativo stanziamento.
Pertanto, la Sezione ritiene che non si tratti di un debito fuori bilancio, ma del verificarsi di una mancata entrata, che era stata precedentemente accertata, con la conseguente necessità di ripristinare l’equilibrio finanziario del bilancio, adottando i provvedimenti previsti dall’art. 193 Tuel (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 12.11.2013 n. 383).

ENTI LOCALI: Spending review, no all’erogazione di contributi pubblici ad associazioni che svolgono servizi per la PA.
Le associazioni che svolgono attività a favore della cittadinanza non rientrano nel divieto di legge, dacché quest’ultimo si applica nel solo caso di attività prestate direttamente alla PA.
Il parere 07.11.2013 n. 379
della Corte dei Conti, Sez. controllo per il Piemonte, ha il pregio di chiarire il significato e le implicazioni di un divieto che si cela tra le pieghe della c. spending review, e che non sempre viene tenuto in debita considerazione dagli Enti locali, nonostante i profili di responsabilità erariale che l’impiego illegittimo delle risorse pubbliche può di regola comportare per funzionari e amministratori.
Il divieto in questione è contenuto nell’art. 4, comma 6, del DL 95/2012, convertito in legge 07.08.2012, n. 135, ai sensi del quale gli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile (fondazioni, associazioni, comitati e società) che forniscono servizi a favore dell’Amministrazione, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche.
La norma prosegue recando numerose eccezioni che però –come sempre– confermano la regola, stabilendo che sono esclusi dal divieto de quo vari soggetti i quali, per natura giuridica e attività svolta, sono ritenuti meritevoli del beneficio di deroga, tra cui, a titolo esemplificativo, le fondazioni istituite per promuovere lo sviluppo tecnologico, le associazioni operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e culturali, le associazioni di promozione sociale, gli enti di volontariato e le cooperative, le organizzazioni non governative e le associazioni sportive dilettantistiche).
La ratio di un siffatto divieto che, a livello di territorio locale, sembra davvero destinato a sovvertire il fragile equilibrio tra le aggregazioni sociali e la PA, è illustrato nella prima parte del sesto comma del suddetto art. 4, là dove si afferma la necessità che gli Enti locali acquisiscano i servizi di cui abbisognano “esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria”.
Il rigore di tale disposto deve essere comunque inquadrato nella cornice del parere in commento, che in qualche misura ne precisa e ne tempera la portata.
Il giudice contabile chiarisce, infatti, che le associazioni che svolgono attività a favore della cittadinanza non rientrano nel divieto di legge, applicandosi quest’ultimo nel solo caso di attività prestate direttamente alla PA.
Si tratta perciò di operare, alla luce di queste indicazioni, una disamina caso per caso, finalizzata ad accertare i presupposti per l’erogazione di contributi e vantaggi economici da parte degli Enti, con la consapevolezza che le relative procedure meritano una cura speciale, in considerazione delle finalità di pubblico interesse che la PA deve sempre garantire, allorché gestisce le cospicue risorse a sua disposizione
 (commento tratto da www.leggioggi.it).
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Con la nota richiamata in epigrafe il Presidente della Provincia di Torino ha posto alla Sezione una richiesta di parere in merito alla corretta interpretazione dell’art. 4, comma 6, del D.L. n. 95/2012. In particolare, la richiesta di parere chiede chiarimenti in merito:
a) all'ammissibilità o meno di una ricostruzione della norma che escluda dal divieto i contributi che, quand'anche erogati ad operatori economici che abbiano prestato, o prestino, servizi a favore della pubblica amministrazione, costituiscano mera attuazione di una previsione legislativa generalizzata a tutta la platea dei possibili beneficiari ovvero a soggetti selezionati all'esito di una procedura ad evidenza pubblica;
b) all'ammissibilità di conclusione analoga a quella che precede possa essere adottata quando il beneficio economico non sia previsto da una disposizione legislativa ma costituisca l'esito di politiche attive autonomamente decise dalla Provincia ed attuate previa l'individuazione dei destinatari all'esito di procedure pubbliche selettive;
c) alla qualificazione, quindi, della nozione di contributo accolta dal legislatore della norma finanziaria del 2012 nell'ottica di definire se gli stessi siano stati riferiti solo ai contributi assolutamente discrezionali, od alle quote associative o statutarie ovvero facciano riferimento a tutta la gamma delle possibili sovvenzioni al mondo delle imprese;
d) all'individuazione dei servizi considerati dal precetto di che trattasi nell'ottica di definire se gli stessi siano riferiti ai soli servizi strumentali ovvero anche a quelli rivolti all'utenza (es. servizi pubblici locali di trasporto);
e) alla esigibilità del divieto solo nell'ipotesi in cui l'amministrazione che eroga il beneficio coincida con quella che si avvale della prestazione del servizio ovvero se il divieto operi anche in assenza di tale coincidenza.
...
La richiesta di parere attiene all’interpretazione dell’art. 4, comma 6, del D.L. n. 95/2012, ai sensi del quale “a decorrere dal 01.01.2013, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria. Gli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile, che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche. Sono escluse le fondazioni istituite con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l'alta formazione tecnologica e gli enti e le associazioni operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni ed attività culturali, dell'istruzione e della formazione, le associazioni di promozione sociale di cui alla legge 07.12.2000, n. 383, gli enti di volontariato di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, le organizzazioni non governative di cui alla legge 26.02.1987, n. 49, le cooperative sociali di cui alla legge 08.11.1991, n. 381, le associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 289, nonché le associazioni rappresentative, di coordinamento o di supporto degli enti territoriali e locali”.
In merito alla corretta applicazione della norma richiamata, la Sezione di Controllo per la Lombardia, con il parere n. 89/2013, ha espresso il proprio avviso -condiviso da questo Collegio- secondo cui
le associazioni che svolgono attività in favore della cittadinanza non rientrano nel divieto di legge: quest’ultimo è riferito “agli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa anche a titolo gratuito”.
La Sezione lombarda della Corte ha osservato che
il predetto divieto di erogazione di contributi “ricomprende l’attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell’Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l’attività svolta in favore dei cittadini, id est della “comunità amministrata”, seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell’ente locale e dunque nell’interesse di quest’ultimo. Il discrimine appare, in sostanza, legato all’individuazione del fruitore immediato del servizio reso dall’associazione”.
Come messo in luce dalla Sezione di Controllo per la Regione Marche nel parere n. 39/2013,
con la disposizione in esame il legislatore ha inteso obbligare le pubbliche amministrazioni ad acquisire servizi resi da soggetti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del cod. civ. soltanto mediante “procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria”, e ha inteso riaffermare la prevalenza del diritto dell’Unione europea con riferimento alle varie tipologie di accordi, convenzioni, contratti, aventi come oggetto l’acquisizione di servizi a titolo oneroso da parte delle pubbliche amministrazioni, ribadendo la doverosa applicazione della normativa nazionale secondo una interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea.
La ratio della norma non attribuisce rilevanza al profilo del principio di sussidiarietà orizzontale. Invero, “
ciò che conta è la decisione di un’amministrazione pubblica di “acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo”, ritenendo cioè tale acquisizione conforme alle proprie finalità istituzionali e perciò meritevole di finanziamento con proprie risorse. Una volta che la p.a. si sia determinata in tal senso, la norma ribadisce che qualsiasi modulo contrattuale (con l’espressione esemplificativa “anche in base a convenzioni”) concluso con enti di diritto privato (fondazioni, associazioni, comitati, ma anche società, stante il richiamo all’art. 13 cod. civ.) deve essere preceduto dalla procedura applicabile in punto di individuazione del contraente. (…) La disposizione contiene, quindi, un precetto attuativo del principio di parità di trattamento degli operatori economici che contrattano con la pubblica amministrazione nonché del principio di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa…” (parere n. 39/2013 cit.).
Inoltre, “
nel primo periodo dell’art. 4, comma 6, il soggetto della frase sono le amministrazioni pubbliche, mentre nel secondo periodo lo sono gli enti di diritto privato. La terza frase indica una serie di soggetti che “sono esclusi”. Pur non essendo chiaro se tale espressione si riferisca a entrambe le previsioni normative che la precedono, è indubbio che tutti gli enti ivi indicati possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche anche qualora forniscano servizi alla stessa amministrazione. La motivazione risiede nella meritevolezza delle finalità che tali soggetti perseguono. Non pare automatico, però, che nei confronti degli stessi enti le pp.aa. possano pattuire tout court acquisizioni di servizi a titolo oneroso in via diretta, e cioè in deroga al disposto del primo periodo. Per alcune figure si rinvengono riferimenti normativi che lo consentono (cfr. art. 5, comma 1, l. 08.11.1991, n. 381 in materia di cooperative sociali), ma una interpretazione che escluda tutti i predetti soggetti, per la sola appartenenza alla elencazione de quo, dalla portata applicativa del primo periodo appare contraddittoria con la ratio e la portata precettiva dello stesso. In ogni caso, resta fermo che, in materia di contributi, sovvenzioni e comunque di attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere, la disciplina in concreto applicabile dovrà rinvenirsi anche nelle fonti regolamentari adottate dagli enti ai sensi dell’art. 12 l. n. 241 del 1990 nonché nelle disposizioni di cui all’art. 18 d.l. 22.06.2012, n. 83 convertito, con modificazioni, in l. 07.08.2012, n. 134” (parere n. 39/2013 cit.).
Conclusivamente, il tenore letterale della norma e la presenza di eccezioni al divieto di ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche, tassativamente elencate, non può condurre all’introduzione di deroghe alla medesima in via interpretativa.
L’applicabilità del precetto contenuto nell’art. 4, comma 6, del d.l. n. 95/2012 alla specifica casistica elencata nel quesito proveniente dal Presidente della Provincia di Torino, richiede la valutazione delle singole fattispecie e dei relativi puntuali contorni, anche con riferimento al contenuto delle convenzioni tra l’ente locale e gli enti di diritto privato interessati, non scrutinabile in termini generali in questa sede consultiva, ma rimessa all’ente richiedente, che a tal fine potrà fare applicazione dei principi sopra enucleati (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 07.11.2013 n. 379).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Con la liberalizzazione operata ex lege n. 179/1992 l’unico vincolo per la dismissione degli immobili nelle zone Peep è il divieto di alienazione quinquennale.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana, si è espressa sulla richiesta di parere proveniente dal sindaco di un comune avente a oggetto l’individuazione della disciplina applicabile alle alienazioni degli alloggi costruiti sulle aree Peep (piani di edilizia economica e popolare) prima dell’entrata in vigore della legge n. 179 del 17.02.1992.
Invero, la legge da ultimo richiamata ha abrogato il diciassettesimo comma dell’art. 35 della legge n. 865 del 22.10.1971, in base al quale in seguito al trasferimento della proprietà di tali immobili conseguiva l’obbligo di pagamento a favore del comune o del consorzio di comuni che a suo tempo avevano ceduto tale area, della differenza tra il valore di mercato della stessa al momento dell’alienazione e il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto.
Secondo l’indirizzo dell’ente locale che ha richiesto il parere il periodo di riferimento ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile sarebbe non già la data dell’alienazione del bene ma la data della stipula della convenzione di concessione
delle aree Peep, ovvero l’unica fonte dei rapporti giuridici fra la stessa e gli assegnatari degli alloggi. In base a tale orientamento ne conseguirebbero quindi l’applicazione delle condizioni di acquisto, dei divieti di alienazione e degli obblighi degli alienanti nei confronti del comune, previsti dalle convenzioni stipulate in conformità della disciplina anteriore alla legge n. 179/1992.
L’art. 20, comma 1, della legge n. 179/1992, così come sostituito dall’art. 3 della legge n. 85 del 28.01.1994, stabilisce che, a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge, gli alloggi di edilizia agevolata “possono essere alienati o locati, nei primi cinque anni decorrenti dall’assegnazione o dall’acquisto e previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi.
Decorso tale termine, gli alloggi stessi possono essere alienati o locati
”.
Pertanto, in assenza di norme transitorie, è stata consentita la libera alienabilità di tale tipo di alloggi a far data dal primo giorno del sesto anno dalla loro assegnazione o acquisto. Dalla stessa data, come anche affermato dalla Cassazione, risultano travolte “le clausole, contenute in provvedimenti amministrativi o in strumenti convenzionali, contrastanti con tale regime di libera alienabilità postquinquennale degli immobili. Infatti, le convenzioni intercorse tra enti territoriali e pubblici, in generale, con le cooperative di costruzione di tali alloggi, che si siano ispirate alle più restrittive condizioni stabilite nell’art. 35, legge n. 865/1971 (…) sono cadute inesorabilmente con l’abrogazione di tali disposizioni e con la loro sostituzione” da parte del nuovo regolamento liberistico (Cfr. Cass., sez. I, n. 26915 del 10.11.2008).
Dello stesso indirizzo risulta peraltro anche la giurisprudenza amministrativa, la quale ha ritenuto che in ragione della sopravvenuta modifica operata direttamente dal legislatore e trattandosi di materia protetta da riserva di legge, “deve ritenersi nulla e sostituita di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., la clausola della convenzione attuativa del programma Peep che contenga una disciplina limitativa del regime di commerciabilità degli alloggi di edilizia residenziale pubblica più restrittiva” (cfr. Tar Lombardia, sez. III, sent. n. 5458 del 01.12.2003).
Ad avviso della Corte dei conti quindi, la circostanza che la convenzione abbia data anteriore al 1992 è del tutto irrilevante ai fini dell’applicazione della normativa previgente abrogata, in quanto la nuova normativa, nel liberalizzare pressoché integralmente le operazione di dismissione di tali beni da parte dei proprietari o degli assegnatari, ha sancito quale unico vincolo quello del rispetto di un termine di mantenimento quinquennale in proprietà (o assegnazione), peraltro derogabile.
In base a tali considerazioni quindi, il comune non ha alcun titolo per richiedere il pagamento della differenza di prezzo tra il valore di mercato dell’area al momento dell’alienazione e il prezzo originario di acquisizione dell’area stessa (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 15.10.2013 n. 274 - tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2013).

APPALTI FORNITURE: La distinzione tra passività pregresse e debiti fuori bilancio. La corretta imputazione contabile.
La corretta modalità di contabilizzazione di debiti per fornitura di energia elettrica relativo a conguagli per il consumo di energia elettrica in esercizi finanziari differenti, è per competenza finanziaria riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi.
Pertanto l’imputazione al bilancio non può che avvenire nell’anno della comunicazione della fattura con la procedura ordinaria di spesa (art. 191 T.U.E.L.) e, in caso di incapienza dei capitoli, l’ente avrebbe dovuto effettuare necessarie variazioni di bilancio, sotto il controllo e il giudizio dell’organo deputato ad autorizzare e controllare la spesa, vale a dire il Consiglio comunale.
Nel caso in cui, invece, al pervenimento della fattura non sia seguito nello stesso anno regolare impegno e correlativa formazione di residui per gli anni successivi, esso costituirà debito fuori bilancio, riconoscibile nei termini e alle condizioni di cui all’art. 194 TUEL.
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Il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.
Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura ex art. 194 TUEL).
La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno (amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché la passività pregressa si pone all’interno di una regolare procedura di spesa, esula dalla fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione. In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).
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In contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono venute a maturazione tutte le condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare se il debito è “certo” (non contestato nell’an e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare l’ordinaria procedura di spesa (adozione del provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria; cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica di una posta passiva, della manifestazione finanziaria (competenza finanziaria) e quello della competenza economica tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa” (cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo” (debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a livello contabile, un debito può avere una competenza annuale (economica) disallineata rispetto alla sua manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può essere anteriore o successiva.

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Il comune in epigrafe ha avanzato una richiesta di parere concernente la disciplina del riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi del D.lgs. 267/2000, testo unico degli enti locali (TUEL), con riferimento alla qualificazione di debiti per la fornitura di energia elettrica, liquidati a conguaglio dal fornitore nell’anno corrente ma riferiti ad anni precedenti.
Segnatamente, l’ente chiede quale sia la corretta procedura d’imputazione a bilancio di fatture che riguardano conguagli relativi a consumi di anni precedenti (per un importo complessivo di € 34.502,73) dal 2008 al 2012, con le seguenti date e importi:
- fattura del 16.03.2012 per € 10.896,06;
- fattura del 16.01.2013 per € 18.622,73;
- fattura del 28.09.2012 per € 4.983,94.
Il Sindaco pone questione circa il trattamento contabile di debiti sorti e quindi sulla corretta procedura di imputazione a bilancio, in particolare chiede di sapere se le stesse fatture integrino passività pregresse ovvero debiti fuori bilancio da riconoscere ai sensi dell’art. 194 TUEL.
...
1. Il Comune intende conoscere quale sia la corretta modalità di contabilizzazione di debiti per fornitura di energia elettrica che, in termini di competenza economica, è riferibile ad esercizi precedenti, ma che, in termini di competenza finanziaria, si sono manifestati solo nell’esercizio in corso e in quello precedente, mediante la liquidazione, in fattura di conguaglio, degli importi dovuti.
Si deve ricordare che,
il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un’obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente, all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento. Il procedimento mira, da un lato, a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo medesimo (in termini di “pertinenza”, cioè inerenza alle competenze di legge attribuite all’ente, e di “continenza”, vale a dire, di esercizio delle stesse in modo conforme all’ordinamento) e di sussistenza/reperimento dei mezzi di copertura (procedura ex art. 194 TUEL). La funzione di tale procedura è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.
Accanto a quelli definibili tecnicamente “debiti fuori bilancio”, si collocano le c.d. “passività pregresse” o arretrate, spese che, a differenze dei primi, riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno (amministrativo, ai sensi dell’art. 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell’impegno contabile ai sensi dell’art. 191 TUEL).
Proprio perché la passività pregressa si pone all’interno di una regolare procedura di spesa, esula dalla fenomenologia del debito fuori bilancio (cfr., in proposito, la recente deliberazione di questa Sezione in merito al caso delle prestazioni professionali, n. 441/2012/PAR) e costituiscono, invero, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio di loro manifestazione. In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa (art. 191 TUEL), accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti (art. 193 TUEL).

2. Tanto premesso circa la funzione e l’effetto della procedura di riconoscimento e alla distinzione della fenomenologia delle passività pregresse e dei debiti fuori bilancio, per rispondere al quesito qui posto è opportuno rammentare i criteri attraverso cui, in contabilità finanziaria, i debiti assumono rilevanza e vanno imputati ai bilanci degli enti pubblici.
In base al principio dell’annualità, i documenti di bilancio devono rappresentare, a cadenza annuale, fatti che finanziariamente si riferiscano ad un periodo di gestione coincidente con l’esercizio finanziario, in modo che siano rese evidenti tutte le poste di entrata e di spesa che afferiscono in termini sostanziali al corso dell’anno di riferimento. Solo così il bilancio potrà servire correttamente alla sua funzionalità di controllo, sia in chiave autorizzatoria (bilancio di previsione) che ispettiva (rendiconto).
Si deve rammentare, infatti, che
in contabilità finanziaria, un debito rileva nella misura in cui esso è certo, liquido e esigibile. Detto in altri termini, è assai frequente che vi sia un disallineamento tra esistenza giuridica e rilevanza contabile di un debito. Un debito, infatti, assume rilevanza contabile solo se sono venute a maturazione tutte le condizioni per il suo adempimento pecuniario, in particolare se il debito è “certo” (non contestato nell’an e/o nel quantum), liquidato o di pronta liquidazione (cioè è stato determinato nel suo ammontare) ed è esigibile (scadenza del termine). Solo la concorrenza di queste condizioni radica la “competenza finanziaria”.
In presenza di tali condizioni è possibile attivare l’ordinaria procedura di spesa (adozione del provvedimento amministrativo; assunzione dell’impegno di spesa; presenza e attestazione della copertura finanziaria; cfr. l’art. 191 T.U.E.L.), nei limiti degli stanziamenti autorizzati. Tale procedura di spesa consente non solo di dare rilevanza nel bilancio al debito, ma costituisce il titolo per l’imputazione istituzionale del debito.
Ciò comporta, altresì, che il tempo dell’esistenza giuridica di una posta passiva, della manifestazione finanziaria (competenza finanziaria) e quello della competenza economica tendono a disallinearsi, vale a dire l’imputazione temporale di un costo è di norma diversa da quella che caratterizza l’esigibilità del credito da parte del creditore.
La competenza finanziaria, infatti, va tenuta radicalmente distinta dalla competenza economica, secondo cui un debito non è rilevante in base alla sua dimensione di “spesa” (cioè l’essersi un debito manifestato finanziariamente, in quanto liquidabile ed esigibile) ma di “costo” (debito, anche di valore e non solo di valuta, sostenuto per l’acquisto dei fattori produttivi che hanno sostenuto il ciclo annuale di produzione). Detto in altri termini, a livello contabile, un debito può avere una competenza annuale (economica) disallineata rispetto alla sua manifestazione finanziaria (competenza finanziaria), che può essere anteriore o successiva.

3. Tanto premesso,
quando nell’anno di competenza finanziaria non è stata attivata la procedura di spesa ordinaria, l’unico modo di riportare il debito nella contabilità dell’ente (con effetto vincolante per l’ente) è la procedura ex art. 194 T.U.E.L, peraltro, ammessa nei casi eccezionali ivi tipicamente indicati.
Orbene, appare evidente che
il debito in questione, relativo a conguagli per il consumo di energia elettrica in esercizi finanziari differenti, è per competenza finanziaria riferibile solo all’anno delle liquidazione degli importi; pertanto l’imputazione al bilancio non poteva che avvenire nell’anno della comunicazione della fattura con la procedura ordinaria di spesa (art. 191 T.U.E.L.) e, in caso di incapienza dei capitoli, l’ente avrebbe dovuto effettuare necessarie variazioni di bilancio, sotto il controllo e il giudizio dell’organo deputato ad autorizzare e controllare la spesa, vale a dire il Consiglio comunale.
Nel caso in cui, invece, al pervenimento della fattura non sia seguito nello stesso anno regolare impegno e correlativa formazione di residui per gli anni successivi, esso costituirà debito fuori bilancio, riconoscibile nei termini e alle condizioni di cui all’art. 194 TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 22.07.2013 n. 339).

APPALTI FORNITURE - PATRIMONIO: Se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto dalla norma.
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune.

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Il comune istante richiede chiarimenti in merito alla corretta interpretazione dell'art. 12, comma 1-quater ss., del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012, n. 228.
In particolare, il comune specifica di non essere in possesso di un idoneo magazzino dove poter sistemare i propri mezzi e i mezzi in dotazione ai gruppo di protezione civile e volontariato.
Tanto premesso, ed esposto di essere in trattative per l'acquisto di una porzione di laboratorio da adibire a magazzino, e di aver nel bilancio di previsione per l'anno 2013 copertura finanziaria per l'operazione di compravendita, il comune richiede se sia possibile derogare al divieto di acquisto di beni immobili previsto dalla norma in commento, attesa l’indubbia convenienza economica del prezzo richiesto dall’alienante e la transitorietà del divieto, che potrebbe impedire il conseguimento delle vantaggiose condizioni offerte.
...
La novella dell'art. 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111), operata dal comma 138 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 prevede che “Per l’anno 2013 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono acquistare immobili a titolo oneroso né stipulare contratti di locazione passiva salvo che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero la locazione sia stipulata per acquisire, a condizioni più vantaggiose, la disponibilità di locali in sostituzione di immobili dismessi ovvero per continuare ad avere la disponibilità di immobili venduti”.
La stessa disposizione eccettua poi dal proprio perimetro applicativo una serie di norme, e in particolare:
i. gli acquisti compiuti dagli enti previdenziali pubblici e privati (sic);
ii. le operazioni di acquisto di immobili già autorizzate in data antecedente a quella di entrata in vigore del decreto;
iii. le operazioni di acquisto destinate a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica;
iv. le operazioni di acquisto previste in attuazione di programmi e piani concernenti interventi di perequazione socio-territoriale.
L’inderogabilità della norma, e la tassatività delle eccezioni indicate, escludono in modo categorico che ulteriori casi di inapplicabilità della previsioni siano ravvisabili in relazione alla vantaggiosità dell’operazione, e quindi nel senso auspicato dal comune (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.05.2013 n. 200).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Immobili. Le leggi e le circolari dell'Agenzia non prevedono limitazioni al residenziale
Bonus del 65% disponibile per tutti gli edifici esistenti. Lo sconto per il risparmio energetico anche per i capannoni.

Gli interventi finalizzati al risparmio energetico che attribuiscono, ai fini dell'imposta sul reddito, il diritto alla detrazione del 55% (65% per le spese sostenute dal 6 giugno scorso) non valgono solo per gli immobili residenziali.
Inoltre, almeno per quanto concerne le persone fisiche, non vi è alcun vincolo all'utilizzo diretto dell'unità immobiliare su cui sono effettuati i lavori.
Nonostante la guida «Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico» disponibile sul sito dell'agenzia delle Entrate possa ingenerare più di un dubbio tra i contribuenti, su queste due conclusioni non si possono nutrire perplessità.
A pagina 6 della guida si legge che la «condizione indispensabile per fruire della detrazione è che gli interventi siano eseguiti su unità immobiliari e su edifici (o su parti di edifici) residenziali esistenti, di qualunque categoria catastale, anche se rurali, compresi quelli strumentali (per l'attività d'impresa o professionale)».
Ciò che stona è l'aggettivo residenziale, che non è presente in nessuno dei provvedimenti normativi che ha disciplinato l'agevolazione per risparmio energetico, né negli interventi di prassi dell'agenzia.
A esempio, secondo la circolare 36/E/2007 «l'agevolazione in esame, a differenza di quanto previsto per la detrazione relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia, che è espressamente riservata ai soli edifici residenziali, interessa i fabbricati appartenenti a qualsiasi categoria catastale (anche rurale) compresi, quindi, quelli strumentali», i quali, ordinariamente, non sono affatto residenziali.
Da notare che la circolare distingue l'agevolazione del 55% da quella del 36%, all'epoca disciplinata dall'articolo 1 della legge 449/1997, che prevedeva interventi solo su «singole unità immobiliari residenziali». Attualmente, anche questa affermazione deve essere rivista, poiché l'articolo 16-bis del Tuir richiede che l'immobile abbia natura residenziale solo su alcuni e non su tutti gli interventi agevolabili.
A ogni modo si ritiene che il testo della guida contenga un mero refuso, che sarebbe opportuno eliminare per evitare dubbi nei contribuenti (e magari qualche rilievo non corretto da parte degli Uffici).
A pagina 7 della medesima guida si trova il seguente periodo: «In ogni caso, i benefici per la riqualificazione energetica degli immobili spettano solo a chi li utilizza. Per esempio, una società non può fruire della detrazione per le spese relative a immobili locati».
La prima parte della frase, limitando per ora l'attenzione ai soggetti non imprenditori, è sicuramente errata. Anche in questo caso la condizione citata non è presente in nessun punto della disciplina né è mai stata richiesta dall'Agenzia. Nessuno vieta al proprietario di detrarre l'Irpef sui lavori effettuati in un immobile da locare, anche nel caso limite in cui la locazione sia già in corso all'atto dell'esecuzione dei lavori. Il fatto che le spese agevolabili possano essere sostenute dagli inquilini o dai comodatari, non toglie certo al proprietario la facoltà di essere lui il soggetto che realizza (e si detrae) l'intervento.
Qualche problema in più sorge per gli immobili posseduti in regime d'impresa, in considerazione del fatto che l'agenzia delle Entrate, con le risoluzioni 303/E/2008 e 340/E/2008, ha negato l'agevolazione sia agli immobili posseduti (e locati) dalle immobiliari di locazione che agli «immobili merce» delle immobiliari di costruzione o di compravendita, sostenendo che, in entrambi i casi, non si tratterebbe di beni strumentali utilizzati direttamente dall'impresa.
Anche su questa impostazione si nutrono forti dubbi di legittimità (si veda la norma di comportamento dell'Associazione italiana dei dottori commercialisti 184/2012), rafforzati dal fatto che la giurisprudenza di merito sembra piuttosto contraria a imporre esclusivamente per via interpretativa simili limitazioni (si veda «Il Sole-24 Ore» del 05.10.2013 e le sentenze commissioni tributarie provinciali di Varese 21.06.2013, n. 94, Lecco 26.03.2013, n. 54 e Como 02.07.2012, n. 109).
Comunque, quando l'immobile è del privato, non imprenditore, non ci devono essere questioni di sorta (soprattutto dopo sette anni di applicazione della norma)
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatorie a esaurimento. Obbligo (non facoltà) di pescare dagli elenchi vigenti. Così la circolare della Funzione pubblica sulle norme di contrasto al precariato.
È un obbligo e non una mera facoltà assumere dipendenti a tempo determinato, utilizzando le graduatorie vigenti riferite a bandi di concorso per assunzioni a tempo indeterminato.
Lo chiarisce la circolare 21.11.2013 n. 5/2013 del Dipartimento della funzione pubblica, in relazione al dl 101/2013, convertito in legge 125/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per effetto della novellazione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, tale disposizione prevede che «per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie categorie vigenti per i concorsi pubblici a tempo indeterminato
Lo scopo è chiaro: evitare il proliferare di contratti a termine con soggetti che potrebbero poi trovarsi «precarizzati» e formare una massa critica tale da indurre, in futuro, a nuove ondate di stabilizzazioni. Assumendo con contratti a tempo determinato vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato evita di creare i presupposti del precariato. Come spiega la circolare, il lavoratore chiamato a lavorare con contratto a termine potrà poi «essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di altre procedure», una volta verificate le condizioni per l'assunzione definitiva in ruolo.
Palazzo Vidoni spiega che la norma è «immediatamente operativa ed efficace sulle graduatorie già in essere, anche se la previsione non era inserita nel bando di concorso»: si tratta, dunque, di un'ipotesi di eterointegrazione dei bandi operante direttamente in forza di legge, che impone alle amministrazioni di non indire concorsi per rapporti di lavoro a tempo determinato, ovviamente per quelle categorie e profili indicati nelle graduatorie vigenti.
La norma, aggiunge la circolare, dispone nei confronti delle amministrazioni un vero e proprio obbligo: le amministrazioni «piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell'ordine di posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
La configurazione come obbligo dell'utilizzo delle graduatorie come fonte delle assunzioni a tempo determinato, priva le amministrazioni di discrezionalità nella scelta.
La circolare non si spinge ad affermare che l'obbligo si estende anche all'utilizzo delle graduatorie di altre amministrazioni, consentito dall'ultimo periodo aggiunto all'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, da parte del dl 101/2013, ma risulta comunque evidente che laddove un'amministrazione non disponga di una graduatoria a tempo indeterminato alla quale attingere per assunzioni con contratto a termine, risulti largamente opportuno avvalersi della possibilità espressamente consentita dalla norma.
La circolare precisa che i vincitori dei concorsi a tempo indeterminato non hanno l'obbligo di accettare l'assunzione a termine propostagli dall'ente. In questo caso resta, infatti, comunque salvaguardata la loro posizione nella graduatoria, per la futura assunzione a tempo indeterminato.
Un punto non toccato dalla circolare riguarda l'eventuale applicabilità dell'obbligo di utilizzare le graduatorie vigenti anche per le assunzioni di dirigenti a contratto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del dlgs 165/2001 e dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 per gli enti locali. Non sembra che la previsione dell'articolo 36, comma 2, novellato, riguardi la fattispecie delle assunzioni dei dirigenti assunti a tempo determinato per due ragioni.
In primo luogo, l'intera disciplina del dl 101/2013 non è rivolta alle qualifiche dirigenziali, come chiarito espressamente dall'articolo 4, comma 6. In secondo luogo, lo scopo dell'utilizzo delle graduatorie a tempo indeterminato per assunzioni a termine, come visto sopra, è la prevenzione di fenomeni di precariato: ma, le assunzioni dei dirigenti a contratto non portano mai all'insorgere di contratti precari, come spiega la circolare stessa quando chiarisce che gli incarichi a contratto sono disciplinati da una normativa peculiare, tale da non creare nemmeno aspettative di stabilizzazione in capo agli interessati.
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La mobilità prevale sulle stabilizzazioni.
La mobilità per la salvaguardia dei lavoratori pubblici in disponibilità prevale sulle stabilizzazioni.

La circolare 5/2013 della Funzione Pubblica, che contiene indicazioni interpretative ed operative riguardanti il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013, interviene su un punto estremamente delicato del sistema delle «stabilizzazioni».
Si afferma, al punto 3.5, che «prima di avviare le procedure di reclutamento, tanto ordinario, quanto speciale (sia a regime, sia transitorio) e prima delle assunzioni a tempo indeterminato, con esclusione delle procedure e delle assunzioni relative alle categorie protette, sono obbligatori gli adempimenti previsti dall'articolo 34-bis del dlgs n. 165 del 2001». Al contrario, «gli adempimenti previsti dall'articolo 30 dello stesso dlgs n. 165 del 2001 sono obbligatori solo prima di avviare le procedure di reclutamento ordinario».
Le procedure di reclutamento «speciale», sono le stabilizzazioni disciplinate dall'articolo 4, comma 6 e seguenti, del dl 101/2013, mentre quelle ordinarie trovano la propria regolamentazione nell'articolo 35, e, in particolare, nel comma 3-bis, del dlgs 165/2001.
Il messaggio della circolare è chiaro: l'opportunità concessa alle amministrazioni di percorrere strade privilegiate per assumere a tempo indeterminato lavoratori precari in possesso dei requisiti fissati dalla norma, non può comprimere le misure di salvaguardia dalla disoccupazione vigenti.
Le procedure di stabilizzazione consistono pur sempre in assunzioni a tempo indeterminato. Per quanto specificamente «finalizzate» a superare situazioni di precariato, occorre necessariamente far precedere i bandi delle prove selettive previste dall'articolo 4, comma 6, del dl 101, e dall'articolo 35, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, dalla procedura di mobilità «obbligatoria», delineata dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, per effetto del quale le amministrazioni che intendono assumere debbono verificare con i centri per l'impiego delle province e con la Funzione pubblica se vi siano dipendenti inseriti nelle liste di disponibilità, aventi qualifica e mansione corrispondenti alle assunzioni da effettuare.
Palazzo Vidoni conferma che risulta prevalente la tutela dei lavoratori in esubero e a rischio di licenziamento, rispetto alle opportunità di inserimento in pianta stabile dei precari nei ruoli delle pubbliche amministrazioni.
Non è, invece, necessaria la mobilità «volontaria», regolata dall'articolo 30 del dlgs 165/2001, per le procedure di stabilizzazione «speciali». Del resto, la mobilità volontaria confligge con lo scopo dichiarato del dl 101/2013, che è quello di valorizzare le professionalità acquisite dai lavoratori assunti impropriamente con contratti a tempo determinato, per regolarizzare la loro posizione: se si facessero precedere le procedure di stabilizzazione dalla mobilità volontaria, si vanificherebbe totalmente l'intento di stabilizzare il precariato (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALIProventi autovelox, enti nel caos. Comuni in difficoltà nella ripartizione delle multe. In assenza del decreto attuativo le amministrazioni non sanno come procedere.
Siamo quasi a fine anno ma gli enti locali non sanno ancora come dovranno ripartire i proventi incassati grazie all'utilizzo dei sistemi autovelox. E in assenza del necessario decreto ministeriale saranno guai grossi a primavera anche per rendicontare al ministero come sono stati spesi i soldi delle multe.
Sono queste le due emergenze formali per la polizia locale che derivano dalla totale assenza di indicazioni in materia. La questione nasce dalla legge n. 120 del 29.07.2010 che ha riscritto l'art. 142 cds prevedendo che per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate mediante l'impiego di autovelox i relativi proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada restando comunque escluse le strade in concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei proventi ripartiti devono essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al potenziamento delle attività di controllo e accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, comprese le spese relative al personale.
Le nuove disposizioni, a parere dell'Anci, sono divenute operative il 01.01.2013 in seguito alla conversione in legge, con modifiche, del dl n. 16 del 02.03.2012. L'art. 142, comma 12-quater del codice impone agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma entro il 31 maggio di ogni anno una relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, e gli interventi realizzati a valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento.
Se la relazione non viene inviata oppure i proventi sono utilizzati in modo difforme da quanto imposto, la percentuale dei proventi spettanti è ridotta, con contestuale responsabilità disciplinare e per danno erariale. Ma in assenza del tanto atteso decreto ministeriale attuativo, si naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Utili riferimenti in tal senso possono ricavarsi dalla bozza non ufficiale del decreto ministeriale, il cui testo era stato anticipato in via informale l'anno scorso.
Questa bozza prevede che la relazione relativa al periodo intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno precedente va suddivisa su tre sezioni, indicando le informazioni generali, i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del codice della strada e le informazioni relative alla destinazione dei proventi stessi.
La stessa bozza di dm prevede che sia tenuta una contabilità separata fra i proventi in generale e quelli derivanti da accertamenti delle violazioni dei limiti massimi di velocità. In particolare, occorre che risulti la distinzione a seconda che i proventi siano di intera spettanza dell'ente locale, oppure siano soggetti a ripartizione al 50% con l'ente proprietario della strada, oppure derivino dagli accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri enti. Ma le problematiche più rilevanti sembrano porsi per la ripartizione che deve essere fatta fra l'ente da cui dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
L'art. 142, comma 12-bis del codice dispone che la suddivisione di quanto incassato con autovelox e telelaser non si applica alle strade in concessione; sul punto, il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con un parere dell'08.05.2013, ha chiarito che l'esclusione riguarda in particolare le strade statali a eccezione di quelle relative alle regioni a statuto speciale e alle province autonome. Tecnicamente, gli enti locali potrebbero decidere di concordare autonomamente con gli altri enti le modalità di versamento dei proventi oggetto della suddivisione, mediante accordi o convenzioni.
Ma su questo aspetto, l'attesa che venga emanato il decreto con le norme di dettaglio è tanto più forte in considerazione delle rilevanti questioni di natura contabile (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

EDILIZIA PRIVATANuove regole sul conto termico. Cambiano procedure e modulistica per gli enti locali. Il Gse ha aggiornato i requisiti per gli incentivi alla produzione di energia rinnovabile.
A pochi mesi dall'apertura dell'incentivo del conto termico, introdotto per permettere agli enti locali di avere un sostegno per gli interventi di riqualificazione energetica, il Gse ritocca procedure e modulistica. Sono state infatti aggiornate il 4 dicembre scorso le «regole applicative del dm 28.12.2012» afferenti all'incentivazione della produzione di energia termica da fonti rinnovabili e degli interventi di piccole dimensioni.
Gli enti locali interessati ad accedere al conto termico devono quindi prendere nuovamente visione delle regole applicative e adeguare la modulistica se non già inoltrata. Il conto termico finanzia interventi di incremento dell'efficienza energetica in edifici esistenti, parti degli stessi o unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, dotati di impianto di climatizzazione. Gli interventi per i quali è previsto un contributo sono l'isolamento termico di superfici opache delimitanti il volume climatizzato e la sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato.
Sono, anche, finanziabili la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti, con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti generatori di calore a condensazione, nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al sole, fissi o mobili, non trasportabili. Gli enti locali possono usufruire del conto termico anche per interventi di piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. Il contributo viene concesso a fronte di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche.
È ammissibile la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre esistenti, con impianti di climatizzazione invernale dotati di generatore di calore alimentato da biomassa. L'incentivo spetta anche per l'installazione di collettori solari termici. Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo perduto erogato tramite bonifico in due o in cinque anni, variabile in base alla tipologia di investimento. In caso di incentivo fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata. L'entità dell'incentivo è variabile in base al progetto (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALINon si paga l'Iva sui contributi erogati dalla p.a..
Con la recente circolare ministeriale n. 34/E del 21 novembre scorso, l'Agenzia delle entrate ha voluto fare chiarezza sull'imponibilità ai fini dell'imposta sul valore aggiunto delle somme erogate, a titolo di contributo, dalla pubblica amministrazione.
Così l'Agenzia ha ribadito che in particolare, dal punto di vista del trattamento tributario ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, le erogazioni qualificabili come contributi, in quanto mere movimentazioni di denaro, saranno escluse dall'imposta, mentre quelle configurabili come corrispettivi per prestazioni di servizi o cessioni di beni rilevanti saranno assoggettate ai fini dell'imposta in esame. In sostanza, rifacendosi ai concetti espressi più volte dalla Corte di giustizia europea, ha ritenuto che qualora il contributo segni la prestazione monetaria effettuata in conseguenza del controvalore di un servizio prestato alla controparte del rapporto giuridico, esso ricade nella fattispecie imponibile Iva, mentre diversamente non afferisce la sfera dell'imposta suddetta.
In sostanza, il presupposto oggettivo di applicazione dell'Iva può essere escluso, ai sensi della normativa comunitaria, solo qualora non si ravvisi alcuna correlazione tra l'attività finanziata e le elargizioni di denaro. Del resto l'Amministrazione finanziaria aveva più volte sottolineato nelle proprie circolari, che un contributo assume rilevanza ai fini Iva se erogato a fronte di un'obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive. In altri termini, il contributo assume natura onerosa e configura un'operazione rilevante agli effetti dell'Iva quando tra le parti intercorre un rapporto giuridico sinallagmatico, nel quale il contributo ricevuto dal beneficiario costituisce il compenso (cioè il corrispettivo) per il servizio effettuato o per il bene ceduto. La circolare nota pertanto che al fine di accertare se i contributi di cui trattasi costituiscano nella sostanza corrispettivi per prestazioni di servizi, ovvero si configurino come mere elargizioni di somme di denaro per il perseguimento di obiettivi di carattere generale, occorre fare riferimento al concreto assetto degli interessi delle parti.
La conclusione ai fini dell'imponibilità o meno del contributo, deve quindi passare per un'analisi puntuale del rapporto giuridico e degli atti intercorsi fra il soggetto pubblico e il soggetto privato.
Allo scopo di indicare delle «linee guida» sulla problematica, la circolare in commento passa in rassegna le varie ipotesi, fornendo una panoramica abbastanza ampia sui contributi in esame. Innanzitutto, ricorda la circolare n. 34/E, la qualificazione di una erogazione quale corrispettivo ovvero quale contributo deve essere individuata innanzi tutto in base a norme di legge, siano esse specifiche o generali, nonché a norme di rango comunitario.
Si distinguono i seguenti casi di contributi:
a) può affermarsi che l'amministrazione non operi all'interno di un rapporto contrattuale quando le erogazioni sono effettuate in esecuzione di norme che prevedono l'erogazione di benefici al verificarsi di presupposti predefiniti, come ad esempio nel caso degli aiuti di stato automatici, ovvero in favore di particolari categorie di soggetti (enti religiosi, associazioni ecc.);
b) è altresì agevole individuare la natura di contributo delle erogazioni nei casi in cui l'amministrazione agisca con riferimento all'art. 12 della legge 07/08/1990, n. 241, contenente la disciplina dei provvedimenti amministrativi attributivi di vantaggi economici.
Ciò avviene quando sia approvato un regolamento a contenuto generale in relazione alla concessione dei contributi oppure quando esista un bando per la presentazione di istanze per la concessione dei medesimi.
La forma del procedimento amministrativo richiamato dalla legge 241, garantisce il rispetto di regole di trasparenza e di imparzialità;
c) altre volte, il procedimento per la erogazione di somme risulta definito a livello comunitario ed attuato nell'ordinamento domestico attraverso bandi o delibere di organi pubblici (per es: il Cipe);
d) le somme erogate dai soci –ivi incluso, ovviamente, il socio avente soggettività di diritto pubblico– in base alle norme del codice civile, a titolo di apporti di capitale, esposti in bilancio all'interno del patrimonio netto, non possono essere considerate corrispettivi di prestazioni di servizi in quanto si inseriscono nell'ambito del rapporto associativo e pertanto non appaiono collegate ad alcuna controprestazione da parte del beneficiario (apporti di capitale e coperture di perdite). Sono invece contributi inquadrabili come corrispettivi (e dunque imponibili Iva), quando la p.a., effettui erogazioni conseguenti alla stipula di contratti in base al codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, concorsi al bando. La p.a. deve attingere alle graduatorie preesistenti. Circolare della Funzione pubblica dà le prime istruzioni sul dl antiprecariato.
Utilizzo delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato anche per fare assunzioni a tempo determinato. Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel budget assunzionale. Le province possono prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato per assicurare i servizi.

Sono alcune delle indicazioni contenute nella corposa circolare 21.11.2013 n. 5/2013 della Funzione pubblica diffusa ieri e avente a oggetto «Indirizzi volti a favorire il superamento del precariato. Reclutamento speciale per il personale in possesso dei requisiti normativi. Proroghe dei contratti. Articolo 4 del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni» e articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
La circolare firmata dal ministro Gianpiero D'Alia punta a dettare indirizzi applicativi univoci per un'applicazione uniforme del decreto legge in materia di superamento del fenomeno del precariato, rimandando a documenti di prassi successivi l'analisi di dettaglio delle singole novità introdotte dal dl.
Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono dunque attingere alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. In mancanza, possono attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante accordo, purché riguardino concorsi banditi per la copertura di posti inerenti allo stesso profilo e categoria professionale del soggetto da assumere. Le graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore dei vincitori, escluso dunque lo scorrimento per gli idonei.
Il decreto legge interviene, poi, prevedendo procedure di reclutamento speciale transitorie volte al superamento del fenomeno del precariato e alla riduzione dei contratti a tempo determinato. Esse sono consentite dal 01.09.2013 al 31.12.2016, e vi si può ricorrere utilizzando una misura non superiore al 50% delle risorse finanziarie disponibili, a normativa vigente, per assunzioni a tempo indeterminato. Le amministrazioni che hanno le condizioni per operare reclutamento speciale ma non lo avviano non possono prorogare i rapporti di lavoro del personale a tempo determinato. L'utilizzo delle graduatorie relative ai passaggi di area banditi anteriormente al 01.01.2010, in applicazione della previgente disciplina normativa, è consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e non anche gli idonei della procedura selettiva. Si sottolinea l'esclusione delle graduatorie relative a concorsi non pubblici.
Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel budget assunzionale e vanno garantite sia in presenza di posti vacanti, sia in caso di soprannumerarietà.
L'avvio del reclutamento speciale, come del resto l'avvio del reclutamento ordinario, è subordinato tra l'altro alla disponibilità di posti in dotazione organica, all'effettiva capacità assunzionale delle amministrazioni secondo il relativo regime, tenuto anche conto dei vincoli di spesa e delle situazioni di bilancio e all'effettivo fabbisogno. In assenza, scatta un impedimento. È peraltro senz'altro esclusa, sottolinea la circolare, la configurabilità di un diritto soggettivo, in capo agli eventuali interessati, all'avvio del reclutamento speciale.
In merito alle categorie di personale interessate al reclutamento, ordinario e speciale, il documento di prassi rimarca l'esclusione del comparto scuola e di quello delle istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale per i quali trova applicazione la disciplina specifica di settore.
Poiché il ricorso alle procedure speciali di reclutamento non può prescindere dall'adeguato accesso dall'esterno, le amministrazioni non possono destinare più del 50% del loro budget assunzionale per il reclutamento speciale. Prima delle procedure di reclutamento, con esclusione delle procedure e delle assunzioni relative alle categorie protette, bisogna comunque avviare le procedure di mobilità.
Per meglio realizzare le finalità di superamento del precariato e di riduzione dei contratti di lavoro a tempo determinato, nel reclutamento speciale sono di norma adottati bandi per assunzioni a tempo indeterminato con contratti di lavoro a tempo parziale. I bandi dovranno indicare la percentuale di prestazione lavorativa prevista per l'assunzione a tempo indeterminato rispettando, comunque, il valore minimo di part-time previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto.
E sempre a proposito del reclutamento speciale, la circolare specifica che esso non si applica al personale dirigenziale assunto con rapporto di lavoro a tempo determinato in virtù di disposizioni speciali che tengono conto della specifica ed elevata professionalità di tali soggetti e di un contingente limitato di posti. Inoltre, non si può considerare utile, ai fini della maturazione del requisito richiesto per partecipare alle procedure di reclutamento speciale transitorie, l'anzianità maturata con contratti di lavoro a tempo determinato negli uffici di diretta collaborazione. E non possono essere considerati, ai fini del reclutamento, i rapporti di lavoro relativi al personale proveniente dalla gestione di appalti o di processi di esternalizzazione della p.a.
Tra le altre prescrizioni illustrate, quella che impone la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative alle procedure avviate, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali.
Infine gli enti locali, relativamente ai quali è di interesse il chiarimento secondo cui le province possono prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato per le strette necessità connesse alle esigenze di continuità dei servizi e nel rispetto dei vincoli finanziari, del patto di stabilità interno e della normativa di contenimento della spesa complessiva di personale (articolo ItaliaOggi del 05.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Protocollo informatico adeguato alla Pec.
Protocollo informatico adeguato alla posta certificata. Grazie a una modifica al dpcm 31.10.2000 per tenere conto del nuovo contesto normativo, che prevede la trasmissione dei documenti non solo mediante l'utilizzo della posta elettronica, ma appunto anche attraverso la Pec o in cooperazione applicativa basata sul Sistema pubblico di connettività e sul Sistema pubblico di cooperazione.

Il ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Giampiero D'Alia ha firmato ieri due decreti adottati in attuazione di alcune disposizioni del Codice dell'amministrazione digitale, in materia di protocollazione e conservazione dei documenti informatici.
I due decreti, spiega una nota, da tempo attesi dagli operatori, forniscono un supporto alla digitalizzazione dell'amministrazione pubblica che, pur adottando da tempo gli strumenti informatici, non ha ancora adeguato i suoi processi a modelli in grado di sfruttare in pieno le potenzialità dei nuovi mezzi.
«Gli schemi innovano e rendono più ampio il quadro delle regole tecniche vigenti in materia, aggiornando quelle sul protocollo informatico e la conservazione dei documenti elettronici, la cui introduzione risale, rispettivamente, all'ottobre del 2000 e al febbraio 2004», si legge nella nota.
Apportando modifiche alla deliberazione Cnipa n. 11/2004 è stato inoltre introdotto il concetto di «sistema di conservazione», che assicura la conservazione a norma dei documenti elettronici e la disponibilità dei fascicoli informatici, stabilendo le regole, le procedure, le tecnologie e i modelli organizzativi da adottare per la gestione di questi processi (articolo ItaliaOggi del 04.12.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti da galera. Bruciare i rifiuti ora è un reato. Il Cdm vara il decreto legge per la Terra dei fuochi.
Fotografia e mappatura con conseguente blocco della produzione agroalimentare sui terreni campani inquinati e definizione, accanto a quelli che possono essere destinati esclusivamente a colture diverse, dei fondi da destinare solo a produzioni agroalimentari determinate. Introduzione del reato di combustione illecita dei rifiuti, con pesanti sanzioni penali a carico dei colpevoli di roghi di rifiuti con danni all'ambiente e alla salute umana e confisca del veicolo utilizzato per il trasporto.
Obbligo informativo da parte dell'autorità giudiziaria nell'ambito delle indagini verso i ministeri competenti a adottare i provvedimenti ritenuti opportuni e necessari per la tutela dell'ambiente, della salute e della qualità della produzione agroalimentare. Costituzione di un comitato interministeriale prima e di una commissione poi avente il compito di individuare e potenziare azioni e interventi di monitoraggio e tutela nella «Terra dei fuochi».

Sono le disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e delle produzioni agroalimentari approvate, ieri dal Consiglio dei ministri, nel decreto legge «Terra dei fuochi» (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per l'attuazione degli interventi disciplinati nel dl sono previsti 100.000 euro per il 2013 e 2.900.000 euro per il 2014; fondi reperiti dal programma operativo regionale Campania 2007/13, dal piano di azione e coesione e all'interno di misure da adottare nella programmazione dei fondi Ue.
Entro 30 giorni dall'entrata in vigore del decreto, Mipaaf e ministero dell'ambiente definiranno, d'intesa col presidente della regione Campania, le priorità di mappatura, tramite indagini tecniche e strumenti di telerilevamento, delle aree destinate all'agricoltura, interessate dagli effetti contaminanti di sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante combustione.
I risultati delle indagini e i possibili interventi di bonifica sui terreni prioritari, dovranno essere presentati entro 90 giorni. Nei successivi 30 saranno indicati, con decreto i terreni che non possono essere destinati alla produzione agroalimentare ma solo a colture diverse e i terreni destinati a colture speciali.
Le pene previste per il nuovo reato di combustione illecita di rifiuti (art. 256-bis dlgs 152/2006):
• Reclusione da 2 a 5 anni per chi appicca il fuoco a rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato in aree non autorizzate, salvo che il fatto costituisca più grave reato.
• Reclusione da 3 a 6 anni se viene appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi.
• Stesse pene per chi abbandona o deposita rifiuti in funzione del successivo abbruciamento.
• Aumento di un terzo della pena se i delitti sono commessi nell'ambito di attività di impresa o attività organizzata.
• Pena aumentata se la combustione illecita di rifiuti avviene in territori che al momento della condotta e nei 5 anni precedenti siano o siano stati interessati da dichiarazioni di stato di emergenza rifiuti.
• Confisca del mezzo di trasporto utilizzato per la commissione del reato, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato che provi la buona fede e l'utilizzo a sua insaputa del bene.
• Confisca dell'area su cui è commesso il reato a seguito di sentenza di condanna se di proprietà dell'autore o del compartecipe del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi.
• Se la combustione riguarda rifiuti vegetali provenienti da aree verdi si applicano le sanzioni dell'art. 255 dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi del 04.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Più poteri alle grandi imprese. Strada aperta ad aziende "factotum" anche per lavori specializzati.
Varato il Dpr che accoglie il parere del Consiglio di Stato  - Specialisti e Anie in rivolta.

Cantieri in fibrillazione dopo la pubblicazione del Dpr che di fatto permette alle imprese generali di eseguire le lavorazioni specialistiche, anche in assenza di qualificazione. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIMini-enti, scatta l'ora della verità.
Sta per scattare l'ora della verità sulle gestioni associate dei comuni. Oltre all'attuale legge elettorale (il cosiddetto Porcellum), oggi la Corte costituzionale si pronuncerà sui ricorsi delle regioni contro le norme che hanno imposto il modello dell'unione per l'esercizio delle funzioni fondamentali a tutti i comuni fino a 1.000 abitanti.

Si tratta dell'art. 16 del dl 138/2011 contro cui si sono levate ben dieci regioni (Toscana, Lazio, Puglia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia e Sardegna), mentre altri cinque ricorsi (presentati da Sardegna, Puglia, Lazio, Veneto e Campania) hanno preso di mira l'art. 19 della spending review di Mario Monti (dl 95/2012) che ha riscritto l'art. 14 del dl 78/2010 fissando la data del 01.01.2014 quale dead-line per l'esercizio in forma associata di nove funzioni fondamentali su dieci (tramite unione o convenzione). Nel frattempo, un emendamento alla legge di stabilità, patrocinato dall'Anpci (Associazione nazionale piccoli comuni) e presentato dai senatori Pd Patrizia Manassero e Stefano Vaccari ha rinviato l'appuntamento al 1° luglio, mentre nel ddl Delrio (cosiddetto svuota province) è spuntata una proposta che disegna una marcia di avvicinamento graduale all'associazionismo con un primo pacchetto di funzioni da mettere insieme entro fine giugno e altre sei entro la fine del 2014.
Le speranze dei mini-enti di vedere le norme sull'associazionismo obbligatorio spazzate via dalla Corte costituzionale non sono poche. In materia c'è infatti un precedente importante, quello sulle comunità montane salvate dall'abrogazione nel 2009 in quanto considerate alla stregua di enti «sub-regionali» e quindi rientranti nella competenza residuale delle regioni.
Un intervento statale, sostengono i ricorrenti, sarebbe dunque illegittimo perché, come affermato dalla Consulta, la competenza esclusiva statale in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali va riferita solo agli enti tassativamente elencati nell'art. 114 Cost. (comuni, province, regioni e città metropolitane) e non a enti diversi come le unioni (articolo ItaliaOggi del 03.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Rischi di contenzioso sugli appalti pubblici.
Appalti di lavori pubblici a rischio caos e contenzioso dopo l'annullamento delle norme del regolamento del Codice dei contratti pubblici sulla qualificazione delle imprese generali, oggi libere dai vincoli sul subappalto e sui raggruppamenti obbligatori con gli specialisti; a breve è atteso un decreto con nuove regole sulla qualificazione.

È questo l'effetto della pubblicazione del dpr 30 ottobre sulla gazzetta ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che ha accolto il ricorso promosso dall'Agi (Associazione imprese generali), dopo che il Consiglio di Stato con parere n. 3014 del 26.06.2013 si era espresso per l'annullamento di alcune norme del dpr 207/2010.
Oggetto del ricorso erano le regole per qualificarsi a eseguire lavorazioni specialistiche che sono state annullate ed espunte dal regolamento del codice dei contratti pubblici (sembrerebbe con decorrenza 30 novembre visto che il dpr non dispone diversamente, cioè per una entrata in vigore differita di 15 giorni): l'articolo 109, comma 2 (per quanto attiene all'allegato A del dpr 207/2010) e l'articolo 107, comma 2. L'effetto dell'annullamento, semplificando questioni interpretative anche complesse, è che le imprese generali potranno eseguire le lavorazioni specialistiche a qualificazione obbligatoria anche se non possiedono l'attestato di qualificazione per tali lavorazioni.
Fino al 29 novembre, invece, avevano l'obbligo di subappaltare i lavori, oppure di associare imprese in possesso della qualificazione per le opere specialistiche che avrebbero svolto quelle determinate lavorazioni. È stata cancellata anche la norma del regolamento del codice (art. 85, comma 1) sulla utilizzabilità dei lavori subappaltati dall'impresa generale all'impresa specialistica, in percentuali diverse a seconda della tipologia di lavorazione (prevalente o scorporabile) e della qualificazione richiesta (obbligatoria o no).
Questa disposizione era stata dichiarata «irragionevole» dal Consiglio di stato, anche in relazione al suo meccanismo applicativo non lineare; adesso, determinandosi un sostanziale ritorno alle regole dell'abrogato dpr 34/2000, l'impresa potrà utilizzare senza limiti quanto subappaltato all'impresa specialistica (nella misura in cui riterrà di avvalersi del subappalto). I problemi, adesso, si spostano sulle stazioni appaltanti che dovranno tenere conto di questa situazione, senza però avere riferimenti certi e, quindi, con il rischio di determinare involontariamente un contenzioso.
Per evitare tutto ciò da tempo i tecnici del ministero delle infrastrutture stanno lavorando ad un nuovo dpr «ponte» che dia certezza alle amministrazioni e ottemperi alle indicazioni del Consiglio di stato. Trattandosi però di un intervento che ridefinisce implicitamente l'assetto del mercato, è evidente come la soluzione da individuare non sia così immediata (articolo ItaliaOggi del 03.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEntro gennaio. Negli uffici pubblici piani anti-corruzione.
Entro la fine di gennaio le pubbliche amministrazioni dovranno avere concluso il lavoro di redazione dei piani anticorruzione come richiesto dalla legge n. 190 del 20102.

Lo ha sottolineato il ministro della Pubblica amministrazione Gianpiero D'Alia intervenendo al convegno milanese su «Le strategie anticorruzione tra risposta pubblica ed esperienza privata» organizzato da Aodv (Associazione dei componenti degli organismi di vigilanza ex decreto legislativo 231/2001). Il ministro tuttavia ha tenuto anche a spiegare come ogni spinta al cambiamento non sia facile in un settore pubblico dove solo il 10% dei dipendenti ha meno di 35 anni.
Per D'Alia, inoltre, l'attivazione di un'agenda digitale costituisce l'80% dell'effettiva attuazione della legge 190: «si tratta di un percorso di medio periodo, fondamentale nella lotta alla corruzione perché ci permetterebbe tre passi in avanti importanti: controllare in tempo reale le amministrazioni, conoscere i bisogni delle comunità e, in generale, essere più rapidi e concreti». «Non c'è bisogno di nuove leggi o riforme –ha aggiunto il ministro– se ne sono fatte tantissime. Ciò che è mancato è l'attuazione, il riscontro concreto di ciò che si è fatto. Attualmente il nemico più grosso è costituito dalla cosiddetta opacità pubblica amministrativà».
Il pubblico ministero, sostituto alla Procura di Milano, Roberto Pellicano, ha, a sua volta, messo nel mirino alcuni aspetti critici della distinzione tra corruzione pubblica e privata, con un'attenzione particolare per il ruolo delle banche, imprese la cui attività ha tali ricadute su cittadini e imprese da rendere auspicabili regole di trasparenza ancora più stringenti delle attuali. Per Pellicano ancora, un filo rosso con il decreto 231 va trovato nelle necessità di tutelare il mercato dall'inquinamento di pratiche corruttive ancora troppo diffuse
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2013).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOLavoro. La Cassazione con due sentenze limita i poteri del datore nei confronti di lavoratori in vacanza e neo-spose
Non c'è obbligo di reperibilità per il dipendente in ferie. La Cassazione blinda il posto di lavoro per i dipendenti che sono in ferie e per le neo spose durante il primo anno di nozze.

Con due sentenze depositate ieri (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.12.2013 n. 27057 e Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.12.2013 n. 27055) i giudici, spostandosi su campi diversi, annullano altrettanti licenziamenti bollandoli come illegittimi.
Nel primo caso la massima sanzione era stata disposta nei confronti di un tecnico del Comune colpevole di essersi reso irreperibile durante le ferie, ignorando l'ordine di rientrare in servizio. Secondo il datore l'obbligo di rispondere derivava da una precisa norma del contratto collettivo che imponeva la reperibilità e poco importava che le comunicazioni non fossero mai state ritirate.
Dal canto suo l'ente locale rivendicava il diritto di revocare le ferie già concesse e affermava il dovere del dipendente di interrompere gli "ozi" e presentarsi in ufficio. Gli appigli legislativi per giustificare la pretesa erano individuati nell'articolo 23 del Ccnl di comparto e nell'articolo 18 del Ccnl. Il primo, secondo l'ente ricorrente, inseriva tra i doveri del dipendente anche quello di «comunicare all'amministrazione la propria residenza e, ove non coincidente, la dimora temporanea nonché ogni successivo mutamento delle stesse». Mentre l'articolo 18 consentirebbe al datore di interrompere o sospendere il periodo di vacanza quando questa è già in atto. Ma la Cassazione invita a leggere correttamente le norme invocate.
Non c'è dubbio che il datore debba essere informato del luogo in cui inviare le comunicazioni al suo dipendente, ma il diritto non si estende ai periodi di ferie, che sono un bene costituzionalmente tutelato. Esiste poi anche un'esigenza di privacy, coniugata con l'assoluta libertà per il lavoratore di andare dove vuole a recuperare le sue energie psicofisiche. Impresa difficile se si è obbligati, magari giornalmente, a sopportare lo stress di dare le coordinate dei propri spostamenti al capo.
Decisamente male interpretato anche l'articolo 18. Anche in questo caso è vero che il datore, per esigenze organizzative, può modificare i periodi di ferie ma deve farlo, con un congruo preavviso, prima che queste abbiano inizio. La norma invocata specifica il diritto al rimborso delle spese documentate del viaggio interrotto per motivi di servizio, ma non fa alcun riferimento alle modalità con cui l'interruzione può essere adottata. Al contrario la giurisprudenza ha affermato il dovere di una comunicazione tempestiva ed efficace prima che il lavoratore abbia fatto le valige, momento dal quale cessa ogni obbligo di reperibilità.
Un'altra lancia contro i licenziamenti, in questo caso discriminatori, la Cassazione la spezza in favore delle neo spose (sentenza 27055). Il divieto di licenziare la lavoratrice che ha detto sì vale per l'intero anno delle nozze. Né il licenziamento, se avviene in periodo "sospetto", può essere giustificato da ragioni di ristrutturazione e di ridimensionamento dell'organico, essendo la deroga al divieto ammessa solo in caso di cessazione dell'attività dell'azienda. La garanzia, assicurata dalla legge 7 del 1973 ha la stessa finalità della legge 1204/1971 che impedisce il licenziamento della lavoratrice madre. «Si tratta di provvedimenti legislativi che nel loro insieme -si legge nella sentenza- tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio "esistenziale" particolarmente importanti».
Per questo alla lavoratrice è risparmiato anche l'onere di provare il carattere discriminatorio del licenziamento, mentre spetta al datore dimostrare il contrario
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2013).

APPALTI SERVIZI: Appalti. Sentenza del Consiglio di Stato. Il codice Ateco vincola la gara.
Occorre non sottovalutare le conseguenze connesse alle informazioni sulla attività economica esercitata denunciata al Registro imprese.

È questo l'avvertimento implicito dato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 02.12.2013 n. 5729.
Il caso riguarda una pubblica amministrazione che ha emanato un bando per l'affidamento del servizio di catering e che nella lettera di invito lo ha qualificato come «servizio di preparazione, distribuzione del vitto». Tra le condizioni di partecipazione, pena l'esclusione, è prevista la «iscrizione per attività inerenti al presente affidamento pubblico nel Registro imprese». E il certificato del registro imprese di un concorrente riporta come attività prevalente svolta dalla società i «servizi di ristoro mediante distribuzione automatica di bevande e snack».
Il Consiglio di Stato ha contestato la mancanza di idoneità professionale della società in quanto: l'attività dichiarata prevalente dalla società non può essere compresa nella prescrizione del bando che si riferisce a ben altro tipo di servizio; l'attività inerente l'appalto deve essere intesa come l'attività prevalente svolta dalla società; ai fini del requisito professionale occorre valutare l'attività specifica dichiarata perché si tratta di selezionare tra imprese con esperienza nello stesso servizio; è irrilevante l'oggetto sociale dell'impresa, anche se include il catering, perché l'oggetto elenca le attività potenziali, mentre si tratta di verificare le attività reali.
Nessun dubbio che l'attività principale del concorrente non sia attinente all'oggetto dell'appalto come evidenziato anche dai codici Ateco: quello del catering è il 56.2; quello della somministrazione di alimenti e bevande con distributori automatici è il 47.99.2. Non si può invece condividere l'affermazione dei giudici sul significato giuridico e tecnico-economico delle informazioni riguardanti le attività economiche denunciate dagli imprenditori al registro imprese. Nella sentenza si afferma che «soltanto» l'attività prevalente è quella «qualificante», anzi, «l'unica che rileva ai fini dell'iscrizione nel registro imprese».
Si dichiara inoltre che l'attività prevalente «individua ontologicamente la tipologia di azienda,mentre l'attività secondaria viene inserita a fini descrittivi e di completezza informativa». La normativa del registro imprese (Dpr 581/1995 articoli 9 e 10) obbliga a denunciare tutte le attività effettivamente esercitate perché solo così l'anagrafe delle aziende è completa. Sono molto frequenti le imprese che esercitano in più settori e che, quando il settore è unico, curano più specializzazioni. In questi casi, come prevede la modulistica, occorre indicare la prevalente.
Le Camere di commercio nel 2013 hanno predisposto il sito http:\\ateco.infocamere.it per agevolare l'individuazione delle attività e la loro classificazione. In ogni caso, non esiste un parametro per definire la prevalenza; potrebbe anche non essere il fatturato se l'imprenditore intende valorizzare determinati tipi di prodotti o servizi. Il profilo giuridico dell'attività prevalente non è diverso da quello delle altre, anche perché nel tempo quella prevalente potrebbe diventare secondaria
 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVILa Cassazione sulle sanzioni derivanti all'esito delle impugnazioni. La p.a. paga l'appello. Se viene respinto la multa è obbligatoria.
Scatta la multa per l'appello respinto, in tutti i casi di impugnazioni presentate dal 31.01.2013 (anche se il processo in primo grado è iniziato prima). All'obbligo non sfugge la pubblica amministrazione che propone l'appello e poi lo perde.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con la sentenza 27.11.2013 n. 26566 interpreta la novità, introdotta dall'art. 1, comma 17, della legge di stabilità per il 2013 (228/2012), che ha il chiaro scopo di disincentivare il ricorso al secondo e al terzo grado di giudizio.
Due i problemi affrontati dalla Corte di cassazione. Il primo attiene alla possibilità di applicare la disposizione anche alle pubbliche amministrazioni soccombenti in appello. Il secondo attiene alla possibilità di applicare la disposizione ai processi di appello iniziati dopo il 31.01.2013 o se è possibile applicarla ai giudizi che, in primo grado, hanno avuto inizio dopo il 31.01.2013.
La disposizione. L'articolo 1, comma 17, della legge di stabilità per il 2013 ha modificato l'art. del dpr 115/2002 (Testo unico delle spese di giustizia). La norma prevede che, quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale.
Abbiamo una parte che, avendo perso in primo grado, intende proporre appello. Per farlo, deve pagare un contributo unificato per l'appello che è aumentato della metà. Se, poi, l'appello è dichiarato inammissibile, improcedibile o è totalmente respinto, l'appellante deve pagare di nuovo il contributo unificato, nell'importo aumentato. Il giudice deve, poi, dichiarare in sentenza che sussistono i presupposti per l'applicazione della multa di soccombenza, il cui obbligo di pagamento sorge, però, solo al momento del deposito della sentenza. Lo stesso meccanismo vale per i ricorsi in Cassazione, con la differenza che il contributo unificato è raddoppiato.
Pubbliche amministrazioni. La risposta della Cassazione al primo quesito è che anche gli enti pubblici sono tenuti al balzello se propongono un'impugnazione e, poi, la perdono. «La norma», spiega la Cassazione, «trova applicazione anche quando venga rigettato il gravame di una amministrazione pubblica». La tesi che, invece, vorrebbe escludere le pubbliche amministrazioni invoca l'art. 158, comma 3, del Testo unico per le spese di giustizia. La disposizione prevede il meccanismo della prenotazione a debito, cioè le somme non sono versate, ma solo recuperate dallo stato alla fine del processo.
L'articolo in questione prevede che le spese prenotate a debito e anticipate dall'erario siano recuperate mediante iscrizione a ruolo dall'amministrazione, insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna dell'altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore. Se ne potrebbe dedurre che il contributo unificato è dovuto solo dalla controparte soccombente condannata alle spese e non dalla amministrazione soccombente. D'altra parte, è anche possibile sostenere che pretendere il contributo unificato dall'amministrazione soccombente innescherebbe solo una partita di giro, in cui la pubblica amministrazione condanna a pagare a se stessa.
Decorrenza. La legge di stabilità ha affermato che la norma si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge. Da notare che l'espressione usata è «processi iniziati» e non «giudizi instaurati»: la nuova disciplina normativa, dunque, è applicabile alle impugnazioni iniziate dal trentesimo giorno successivo (31.01.2013) all'entrata in vigore della legge medesima (01.01.2013) e non soltanto ai procedimenti iniziati in primo grado da tale data.
Profili di costituzionalità. A prescindere dalla decisione della Corte, va rilevato che la multa per la soccombenza rende più costoso l'accesso alla giustizia e si applica anche nei casi in cui l'impugnazione non è frutto della volontà di trascinare il processo in lungo. Per esempio, una parte propone appello e, nelle more del giudizio, la Cassazione muta orientamento su una questione fondamentale, cosicché l'appello si perde per la modifica della giurisprudenza.
Oppure è possibile pensare al caso in cui c'è una legge di difficile interpretazione o, ancora, al caso paradossale in cui l'appello diventa improcedibile perché l'appellante vi rinuncia a fronte del riconoscimento del suo diritto da parte del suo avversario. Di fronte a queste situazioni incolpevoli, l'applicazione della multa di soccombenza appare sproporzionata (articolo ItaliaOggi del 07.12.2013).

ENTI LOCALICassazione. I riflessi della sentenza sulle partecipate. Nelle società in house manca l'assimilazione sui debiti.
Le partecipate in house degli enti pubblici rappresentano «una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l'affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo».

Lo ha stabilito la Corte di cassazione (sezioni Unite Civili), con sentenza 25.11.2013 n. 26283 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 27.11.2013).
La pronuncia della Cassazione assume un forte impatto in ordine al rilievo dei profili di responsabilità circa l'operato degli amministratori delle partecipate che, come rilevato dai giudici, competono al giudizio della Corte dei conti. Tuttavia, sono le stesse motivazioni che hanno condotto i giudici di Piazza Cavour a tale conclusione che potrebbero rivestire un rilievo, sotto altri profili, ancora più significativi.
Nella sentenza si legge che «la società in house (…) non pare invece collocarsi come un'entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una articolazione interna». E ancora, citando il Consiglio di Stato, «l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa». Il tutto perché, conclude la Cassazione, nello schema propedeutico alla costituzione e alla operatività di una società in house, non può individuarsi una persona giuridica cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, diverso o ulteriore rispetto a quello dell'ente pubblico partecipante.
Ebbene, le considerazioni espresse dai giudici di legittimità appaiono piuttosto suggestive nel contesto dei profili di operatività della normativa (il Dl 35/2013 e successive integrazioni) che regola il pagamento dei debiti della Pa.
Infatti, la normativa si applica alle Amministrazioni dello Stato, alle Regioni, agli enti del Servizio sanitario nazionale e agli enti locali (Comuni e Province), con esclusione, però, delle società da questi partecipate, anche se al 100%.
Le società in house, quindi, non sono direttamente interessate dalle misure approvate dal Governo, anche se possono beneficiare indirettamente delle nuove norme e, in particolare di quelle che prevedono l'allentamento del Patto di stabilità interno. Ad esempio, una società partecipata che attende da mesi il trasferimento, da parte dell'ente locale che la controlla, di fondi bloccati dal Patto di stabilità interno, potrebbe ricevere questi fondi e, di conseguenza, poter pagare le imprese creditrici (si veda la risposta dell'Anci sul punto).
A ben vedere, le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte sembrano stridere con tale preclusione.
Escludere dai provvedimenti interessati dalle norme sui pagamenti dei debiti della Pa quelli contratti dalle società da queste partecipate, rappresenta una forzatura inopportuna, alla rimozione della quale si spera che il legislatore possa rimediare al più presto
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2013).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento ai citati fabbricati presuntivamente abusivi, il ricorrente ha allegato un elemento presuntivo dotato di sufficiente consistenza di fronte (nella fattispecie, apposita perizia redatta da un architetto, nella quale si attesta che, in base ai materiali utilizzati e ad alcuni particolari costruttivi, gli edifici in muratura risalgono a circa 80-100 anni addietro e che la tettoia sia sicuramente risalente a ben oltre il 1967) al quale sarebbe spettato all’amministrazione resistente offrire una prova contraria atta a dimostrare che le opere fossero state edificate successivamente al 1967.
In assenza di tale prova contraria, o anche di un analogo e contrario elemento di prova, deve quindi darsi per appurata la preesistenza delle opere al 1967, senza possibili spazi per un’indagine istruttoria da parte di questo TAR.
Né può conferirsi rilevanza a quanto il Comune accenna nella memoria depositata in giudizio il 30.06.2012, secondo cui, anche ammettendo la preesistenza di uno dei due fabbricati in muratura al 1967, sarebbero stati successivamente realizzati degli ampliamenti non consentiti: con tale argomentazione, infatti, l’amministrazione tenta un’inammissibile integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato, aggiungendo un elemento (quello, appunto, del successivo ampliamento non assentito) che non ha formato oggetto di confronto procedimentale tra le parti e rispetto al quale è, pertanto, prematura la trattazione nella presente sede giurisdizionale. Deve infatti ribadirsi, sul solco della giurisprudenza amministrativa, anche di questo TAR, che la motivazione deve sempre precedere e non seguire l’atto amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario.
L’impugnata ordinanza di demolizione, pertanto, va annullata nella parte in cui si è riferita ai due corpi di fabbrica in muratura ed alla tettoia, in quanto opere esistenti già prima dell’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967 e quindi, all’epoca, edificabili liberamente perché ubicate al di fuori del centro abitato (in base all’allora vigente art. 31, comma 1, della legge n. 1150 del 1942), con assorbimento, per questa parte, degli ulteriori motivi.
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Il tempo trascorso dall’edificazione è tale, nella sua oggettiva consistenza, da consolidare in capo al proprietario –peraltro ignaro della natura abusiva dell’opera– una legittima aspettativa in ordine all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse alla rimozione del manufatto: a fronte di tale situazione, allora, il provvedimento gravato (ordine di demolizione) si mostra carente lungo il profilo della motivazione, in quanto non ha esplicitato le ragioni di pubblico interesse –evidentemente diverse dal mero ripristino della legalità– che conducevano, nella specie, al sacrificio della posizione consolidata in capo al privato proprietario.

Il ricorso è fondato, limitatamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione.
Con riguardo ai due corpi di fabbrica in muratura ed alla tettoia, invero, il ricorrente ha allegato un valido principio di prova in ordine alla loro preesistenza rispetto all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967.
Egli ha infatti depositato apposita perizia redatta dall’architetto R.S. (doc. n. 19), nella quale si attesta che, in base ai materiali utilizzati e ad alcuni particolari costruttivi, gli edifici in muratura risalgono a circa 80-100 anni addietro e che la tettoia sia sicuramente risalente a ben oltre il 1967. In contrario l’amministrazione non ha portato alcun elemento rilevante, essendosi limitata ad allegare la non verosimiglianza dell’assunto avuto riguardo, unicamente, alla documentazione fotografica allegata al verbale di sopralluogo. Quest’ultimo, peraltro, non contiene alcun elemento utile a ricostruire il periodo di edificazione delle opere: in tale occasione, infatti, il geometra comunale si è limitato a rilevare la presenza delle opere e ad effettuare riprese fotografiche dei luoghi, senza prendere posizione sul problema qui rilevante.
Il Comune, nelle proprie difese, si è poi riferito ad alcuni rilievi aerofotogrammetrici eseguiti dalla Regione Piemonte nel 1980 dai quali emergerebbe che, a quel tempo, esisteva solo uno dei due corpi di fabbrica in muratura ma non anche gli altri: ma l’assunto è contestato dalla controparte la quale ha evidenziato (non irragionevolmente) che l’altro corpo di fabbrica, date le sue ridotte dimensioni, non sarebbe visibile nell’aerofotogrammetria in quanto nascosto dall’edificio più grande (la Cascina “La Generala”) costruito in aderenza. Insomma, si hanno solo supposizioni tali da non assurgere ad elementi di prova e tali, soprattutto, da non poter revocare in dubbio le conclusioni cui è giunto il perito di parte.
Deve quindi concludersi che, con riferimento ai citati fabbricati, il ricorrente ha allegato un elemento presuntivo dotato di sufficiente consistenza di fronte al quale sarebbe spettato all’amministrazione resistente offrire una prova contraria atta a dimostrare che le opere fossero state edificate successivamente al 1967. In assenza di tale prova contraria, o anche di un analogo e contrario elemento di prova, deve quindi darsi per appurata la preesistenza delle opere al 1967, senza possibili spazi per un’indagine istruttoria da parte di questo TAR (cfr., analogamente, TAR Piemonte, sez. II, sent. n. 809 del 2012).
Né può conferirsi rilevanza a quanto il Comune accenna nella memoria depositata in giudizio il 30.06.2012, secondo cui, anche ammettendo la preesistenza di uno dei due fabbricati in muratura al 1967, sarebbero stati successivamente realizzati degli ampliamenti non consentiti: con tale argomentazione, infatti, l’amministrazione tenta un’inammissibile integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato, aggiungendo un elemento (quello, appunto, del successivo ampliamento non assentito) che non ha formato oggetto di confronto procedimentale tra le parti e rispetto al quale è, pertanto, prematura la trattazione nella presente sede giurisdizionale. Deve infatti ribadirsi, sul solco della giurisprudenza amministrativa, anche di questo TAR, che la motivazione deve sempre precedere e non seguire l’atto amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (cfr., recente, TAR Piemonte, sez. I, n. 430 del 2013, e sez. II, nn. 276, 453 e 664 del 2013).
L’impugnata ordinanza di demolizione, pertanto, va annullata nella parte in cui si è riferita ai due corpi di fabbrica in muratura ed alla tettoia, in quanto opere esistenti già prima dell’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967 e quindi, all’epoca, edificabili liberamente perché ubicate al di fuori del centro abitato (in base all’allora vigente art. 31, comma 1, della legge n. 1150 del 1942), con assorbimento, per questa parte, degli ulteriori motivi.
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Il ricorso, peraltro, è fondato anche con riferimento al corpo di fabbrica in lamiera.
Nonostante sia qui pacifico che l’opera sia stata edificata in epoca successiva al 1967 (è infatti la stessa perizia Sapei che conferma tale dato temporale), è tuttavia anche pacifico che essa sia risalente ad almeno 25-30 anni addietro rispetto all’accertamento compiuto dall’amministrazione. Si tratta, infatti, della conclusione cui è giunto il perito di parte, in ciò non più smentito dalle controdeduzioni dell’amministrazione.
Il tempo trascorso dall’edificazione è tale, nella sua oggettiva consistenza, da consolidare in capo al proprietario –peraltro ignaro della natura abusiva dell’opera– una legittima aspettativa in ordine all’insussistenza di alcuna ragione di pubblico interesse alla rimozione del manufatto (cfr., per precedenti analoghi della Sezione, TAR Piemonte, sez. II, sentt. nn. 967, 1142 e 1355 del 2012): a fronte di tale situazione, allora, il provvedimento gravato si mostra carente lungo il profilo della motivazione, in quanto non ha esplicitato le ragioni di pubblico interesse –evidentemente diverse dal mero ripristino della legalità– che conducevano, nella specie, al sacrificio della posizione consolidata in capo al privato proprietario
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.12.2013 n. 1324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIAl Tar Campania fattispecie normativamente prevista solo in raggruppamenti.
L'avvalimento non è ingessato. Se fallita può essere sostituita l'impresa che dà i requisiti.
Se in un appalto pubblico una impresa si è avvalsa dei requisiti di qualificazione di un'altra impresa, poi fallita, è legittimo consentire la sostituzione dell'impresa fallita con altra impresa; è invece illegittima la risoluzione del contratto da parte della stazione appaltante.

È quanto afferma il TAR Campania-Napoli, Sez. III, con la sentenza 11.11.2013 n. 5042 che affronta una fattispecie normativamente prevista soltanto nel caso di raggruppamenti temporanei di imprese e non in caso di utilizzo dell'«avvalimento», l'istituto che consente a un concorrente sprovvisto di requisiti di farseli «prestare» da un'altra impresa (la cosiddetta ausiliaria).
La vicenda riguardava un'impresa mandante di un raggruppamento temporaneo che si era avvalsa, per il fatturato, dei requisiti di un'altra impresa poi fallita. La stazione appaltante non aveva accettato la sostituzione dell'impresa ausiliaria con altra impresa (come proposto dall'appaltatore) e aveva proceduto alla risoluzione del contratto. Da qui il ricorso contro la risoluzione del contratto che il Tar accoglie integralmente partendo dal profilo del diniego di sostituzione, affrontato dal collegio partenopee rispetto alla possibilità di un'interpretazione analogica del comma 19 dell'articolo 37 del codice dei contratti pubblici.
La norma del codice, infatti, stabilisce che in caso di fallimento di uno dei mandanti, l'impresa mandataria possa sostituirlo con altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti e ciò, ovviamente, al fine di portare a termine il contratto. Non esiste però una disciplina relativa all'istituto dell'avvalimento, ma la sentenza afferma che si può senz'altro procedere all'applicazione analogica: se infatti il legislatore ha previsto la sostituzione del mandante di un raggruppamento, che è parte diretta del contratto, non si vede per quale ragione la si debba negare, nel silenzio della legge, per un'impresa ausiliaria di una mandante, che resta estranea al contratto e limita il proprio ruolo al prestito di un requisito, con annessa obbligazione di garanzia.
Per i giudici «non sussiste nessuna ragione giuridico-formale o pratico-operativa per impedire la sostituzione in un rapporto «minore» e meno intenso (quello di avvalimento tra ausiliata e ausiliaria) quando la legge ammette la sostituzione nel caso «maggiore» e più intenso (quello del raggruppamento temporaneo tra imprese, tutte pro quota direttamente obbligate alla prestazione principale)». I giudici non ritengono che la sostituzione possa violare il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, dal momento che in questo caso il fallimento dell'ausiliaria è intervenuto dopo l'aggiudicazione e non può in alcun modo alterare la par condicio tra i concorrenti.
Se quindi è legittima la sostituzione dell'impresa ausiliaria, negata dalla stazione appaltante, è senz'altro illegittima la risoluzione del contratto che, pertanto, viene annullata dalla sentenza del collegio campano (articolo ItaliaOggi del 07.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.01.2014

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UTILITA'

INCARICHI PROGETTUALI: Assicurazione professionale: le FAQ.
In seguito alle numerose richieste pervenute sul tema dell'assicurazione professionale, il Centro Studi del Cni ha deciso di aprire una sezione dedicata alle FAQ. Grazie a questa gli ingegneri potranno ottenere le risposte alle domande più frequenti pervenuteci.
Al fine di favorire la fruizione delle informazioni, le FAQ sono proposte per aree tematiche. Quelle che trovate in allegato sono le prime aree. Altre saranno attivate nei prossimi giorni.
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FAQ - Collaboratori società di ingegneria e di professionisti
FAQ - Dipendenti e collaboratori imprese private
FAQ - Dipendenti pubblici
FAQ - Soci società ingegneria, professionisti e studi
FAQ - Liberi professionisti (link a www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVOROTesto Unico sulla Sicurezza: disponibile l’edizione aggiornata a dicembre 2013 del testo coordinato.
Pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali il nuovo Testo Unico sulla Sicurezza, (Decreto Legislativo 09.04.2008 n. 81) coordinato con tutte le modifiche integrative e correttive introdotte fino a dicembre 2013.
Le novità di maggior rilievo presenti nel testo coordinato nell’edizione di dicembre 2013 sono:
la Circolare 41 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
la modifica all'art. 71, comma 11, introdotta dalla Legge 30.10.2013, n. 125 recante disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle Pubbliche Amministrazioni
gli interpelli dal n. 8 al n. 15 del 24.10.2013
le correzioni ad alcuni importi delle sanzioni rivalutate (per alcune sanzioni l’importo di 7.014, 00 Euro è stato sostituito con 7.104,40 Euro)
la Nota del 27.11.2013, con oggetto: nozione di “trasferimento” ex art. 37, comma 4, lett. b), D.Lgs. 81/2008 e s.m.i. (09.01.2014 - link a www.acca.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, dicembre 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 13.01.2014, "Aggiornamento tecnico della direttiva per la gestione organizzativa e funzionale del sistema di allerta per i rischi naturali ai fini di protezione civile (d.g.r. 8753/2008)" (decreto D.U.O. 30.12.2013 n. 12812).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 1.01.2013, "Procedure e modalità di accesso al finanziamento regionale delle opere di pronto intervento attivate dai comuni e loro forme associative, in applicazione della d.g.r. 1033/2013" (decreto D.U.O. 24.12.2013 n. 12775).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 21.12.2013 n. L 350 "DECISIONE DI ESECUZIONE DELLA COMMISSIONE del 07.11.2013 che adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina nazionale dell’attività edilizia - Guida operativa 2013.
Sommario: 1. Premessa; 2. Lo sportello unico per l’edilizia (SUE); 3. l’attività edilizia libera; 3.1. L’attività edilizia totalmente libera; 3.2. L’attività edilizia libera previa comunicazione inizio lavori; 4. L’attività edilizia soggetta a permesso di costruire; 4.1. Caratteristiche del permesso di costruire; 4.2. Efficacia temporale del permesso di costruire; 4.3. Onerosità del permesso di costruire; 4.4. Procedimento per il rilascio del permesso di costruire; 5. L’attività edilizia soggetta a S.C.I.A. o a super-D.I.A.; 5.1. L’ambito applicativo della S.C.I.A.; 5.2 L’ambito applicativo della super-D.I.A.; 5.3. La disciplina applicabile alla S.C.I.A. ed alla super-D.I.A.; 5.4. La S.C.I.A. e la super-D.I.A. e l’incidenza sulla commerciabilità dei fabbricati; 6. La demolizione e successiva ricostruzione; 7. La sanatoria ex lege delle difformità marginali; 8. L’agibilità; 8.1. La funzione del certificato di agibilità; 8.2. Il procedimento di rilascio del certificato di agibilità; 8.3. La dichiarazione di agibilità “parziale”; 8.4. La dichiarazione “alternativa” di conformità ed agibilità; 8.5. Il certificato di agibilità e riflessi sulla circolazione immobiliare; 9. Il piano nazionale per le città; 10. Il piano casa (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 10.01.2014 n. 893-2013/C).

EDILIZIA PRIVATA: G. Milizia, Il comune nega legittimamente il permesso di edificare una cantina, ma dovrà ugualmente risarcire il vignaiolo (07.01.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Milizia, Maremma amara per il sindaco per la ritardata autorizzazione di un impianto a biogas: deve un maxi indennizzo alla ditta (07.01.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Milizia, Guerra dei cartelloni pubblicitari: quando è possibile richiederne la rimozione per violazione del nesso di vicinitas e degli interessi commerciali? (07.01.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: IL DECRETO “DESTINAZIONE ITALIA” - LE NOVITÀ IN MATERIA DI CERTIFICAZIONE ENERGETICA.
Il Consiglio Nazionale del Notariato ha svolto alcune brevi prime riflessioni sulle modifiche apportate ai commi 3 e 3-bis dell'art. 6 del D.lgs. n. 192/2005 dal D.L. 23.12.2013 n. 145 (c.d. “Decreto destinazione Italia”), che interviene nuovamente sulla disciplina in tema di certificazione energetica, modificando le regole sull’obbligo di dotazione e sull’obbligo di allegazione dell’attestato di prestazione energetica (APE) (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 30.12.2013).

PATRIMONIO - VARI: La tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso dal 01.01.2014.
Sommario: 1. Gli atti di cui all’art. 1 della tariffa; 2. I riflessi sulla tassazione delle cessioni soggette ad IVA; 3. La tassazione degli acquisti della cd. prima casa; 4. I trasferimenti a titolo oneroso dei terreni agricoli; 5. La tassazione degli atti societari; 6. L’imposta “minima” per gli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso; 6.1 L’imposta “minima” per alcune fattispecie particolari; 6.2 La natura dell’ammontare minimo – lo scomputo; 7. Il cd. assorbimento degli altri tributi: le regole del comma 3 dell’art. 10; 8. La soppressione di esenzioni e agevolazioni; 9. L’entrata in vigore della disciplina dell’art. 10; 10. Aumento delle imposte fisse nella misura di 200 euro: decorrenza (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 30.12.2013 n. 1011-2013/T).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - TRIBUTI: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014) - Selezione norme di interesse dei Comuni (ANCI, dicembre 2013).

APPALTI: M. A. Sandulli, Natura ed effetti dei pareri dell'AVCP (18.12.2013 - link a www.federalismi.it).

ESPROPRIAZIONE: C. Benetazzo, Occupazione “espropriativa”, acquisizione “amministrativa” ed usucapione come rimedio “alternativo” all’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001: ambito e limiti dei poteri cognitori del giudice amministrativo (18.12.2013 - link a www.federalismi.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: D. Russo, Nessuna immunità per i consiglieri regionali che affidano consulenze esterne (04.12.2013 - link a www.federalismi.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, L’interesse paesaggistico dei fiumi, dei torrenti e dei corsi d’acqua. Particolarità dei Piani Paesaggistici (29.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: T. Millefiori, Sulla definizione normativa di bosco (28.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il trappolone del MIBAC (commento all’art. 143 del D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii.) (27.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Sull’inapplicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 alla disciplina urbanistica (commento critico a TAR Toscana, sentenza n. 1481/2013) (26.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, La gestione abusiva dei rifiuti (art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006) integra un reato comune? (link a www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 10/2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Ripristinati gli articoli del regolamento sui contratti pubblici (DPR 207/2010) riguardanti i subappalti delle categorie super specializzate ed i criteri di affidamento delle categorie a qualificazione obbligatoria (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 14).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Riutilizzo delle terre e rocce da scavo: circolare ARPA Lombardia e modulistica ANCE Lombardia (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 5).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Rifiuti: la combustione illecita è reato (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 4).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Canoni delle concessioni di acqua pubblica – ANNO 2014 (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 3).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Denuncia dei quantitativi di acqua pubblica derivati nell’ANNO 2013 (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 2).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Denuncia scarichi industriali in fognatura (ANCE Bergamo, circolare 10.01.2014 n. 1).

APPALTI: Oggetto: AVCPASS (Authority Virtual Company Passport) - Le innovazioni nelle procedure di gara per l’affidamento di lavori, servizi e forniture, dettate dalla Deliberazione dell’AVCP n. 111/2013, in vigore da Gennaio 2014 (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, circolare 08.01.2014 n. 3).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità degli amministratori e dei funzionari degli enti locali per transazioni illegittime su spese giudiziali.
La responsabilità degli amministratori di un comune e del segretario comunale per l’intervenuta parziale refusione delle spese legali in favore di un dipendente -artefice di un patteggiamento per omicidio colposo e poi condannato in sede civile per il risarcimento danni in favore dei congiunti del deceduto- non è affievolita dal fatto che la transazione con il dipendente scaturisca da una proposta del Collegio di conciliazione presso la Provincia Autonoma di Trento, la cui funzione era meramente propositiva e non decisionale a differenza di quella svolta dai convenuti amministratori, e che determinava comunque l’importo transattivo in misura del 50% delle spese legali, sull’evidente ed erronea premessa -peraltro ininfluente ai fini della sussistenza del diritto al rimborso- della corrispondente corresponsabilità della vittima dell’incidente.
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Il caso
La vicenda rimessa al vaglio dei giudici contabili trae origine da un tragico incidente occorso in danno di un dipendente comunale mentre prestava servizio con un collega. Quest’ultimo, in particolare, quale autista di un autocarro, ha parcheggiato il pesante mezzo su una strada in salita senza apprestare le dovute cautele indicate dalla normativa sulla circolazione stradale (attivazione del freno di stazionamento, inserimento del rapporto di marcia più basso, sterzamento delle ruote); all’avviata retrocessione del mezzo ha cercato di porre rimedio l’altro dipendente finendo, tuttavia, per essere investito dall’autocarro, con il conseguente decesso della vittima.
In seguito alla vicenda l’autista è stato sottoposto a procedimento penale per il reato di omicidio colposo, culminato in una sentenza di patteggiamento resa ai sensi dell’art. 444, c.p.p. Successivamente si è tenuto il procedimento civile instaurato dai parenti della vittima per ottenere il ristoro dei danni causati dalla grave perdita familiare: in tale frangente, si è registrato un disallineamento tra la statuizione del giudice di prime cure -il quale ha riconosciuto un concorso di colpa tra danneggiante e danneggiato- e quella della Corte d’appello, secondo cui l’autista del mezzo doveva ritenersi l’unico responsabile dell’evento mortale.
Esauriti i procedimenti a suo carico, il dipendente ha chiesto il rimborso delle spese legali, peritali e di giustizia dallo stesso sostenute ai sensi dell’art. 36 della L.R. n. 4/1993, il quale impone all’ente la restituzione di tutte le somme sostenute dal dipendente nel corso di giudizi penali o civili ove questi sia rimasto coinvolto per fatti o cause di servizio. La norma richiamata, tuttavia, conosce un’importante eccezione: l’obbligo di rimborso viene meno ove siano state inflitte ‘‘condanne’’ per azioni od omissioni commesse con dolo e colpa grave. Ed è proprio per siffatta eccezione che la domanda di rimborso è stata a lungo rigettata dall’amministrazione, fino a quando, adito il Giudice del lavoro, ed avviata la fase conciliativa, il comune, con delibera della Giunta e il successivo avvallo del Segretario comunale, ha optato per l’adesione ad una proposta transattiva formulata dal Collegio di conciliazione provinciale, riconoscendo circa la metà dell’importo rivendicato dal dipendente.
L’accordo transattivo è stato tacciato di illegittimità dal Procuratore presso la Corte dei Conti in quanto lesivo della disciplina in materia di rimborso delle spese giudiziarie sul presupposto della pregressa sentenza di patteggiamento assieme a quella (di condanna) pronunciata in sede civile dalla Corte territoriale, che avrebbero confermato l’essenza -gravemente colposa- della condotta serbata dal dipendente come tale indegna della copertura economica a carico dell’ente in punto spese giudiziali.
I convenuti nel giudizio contabile hanno resistito alla richiesta di condanna avanzata dalla Procura, eccependo l’impossibilità, nel caso di specie, di accertare l’elemento soggettivo della condotta del dipendente, e ciò tanto in sede penale -tenuta presente la ‘‘neutralità’’ della sentenza di patteggiamento- quanto in sede civile ove, pure, si era registrata una certa incertezza per avere il giudice di primo grado (e solo questo) rinvenuto profili di responsabilità colposa addebitabili alla vittima dell’incidente.
Gli stessi convenuti hanno poi richiamato il costante orientamento della giurisprudenza contabile in materia di responsabilità dell’autista secondo cui deve escludersi la responsabilità, per mancanza dell’elemento psicologico, ove la condotta del dipendente in esame ‘‘sia pur colpevole, sia stata improntata ad una logica di ragionevolezza’’, e l’evento si sia prodotto ‘‘anche per l’imprudenza e la corresponsabilità della vittima’’.
Da ultimo, è stata rimarcata la convenienza, in ogni caso, dell’accordo transattivo se comparato all’estrema incertezza della sentenza del giudice del lavoro.
La soluzione
La Corte dei Conti, Sez. giuris. Trentino Alto Adige-Trento, pronunciatasi con sentenza 30.09.2013 n. 41, ha ritenuto illegittima la transazione stipulata in recepimento della proposta conciliativa, per l’effetto condannando i componenti della Giunta assieme al Segretario comunale a risarcire il danno erariale cagionato all’ente di appartenenza.
La decisione, seppur sfavorevole nell’an, è stata grandemente temperata sotto il profilo del quantum. I giudici contabili hanno, infatti, ridotto considerevolmente l’ammontare della somma individuata a titolo di danno erariale, all’uopo motivando l’esercizio del potere riduttivo sul presupposto della ‘‘peculiarità della questione’’, connotata da un complesso di circostanze ambientali e soggettive non trascurabili, fra tutte ‘‘la lunghissima e dolorosa controversia’’ e la tragicità dell’incidente da cui scaturiva lo stesso giudizio contabile. In altri termini, la violazione cristallizzata nella delibera in ordine all’accordo transattivo sarebbe stata fortemente influenzata, a giudizio della Corte, dalla componente emotiva dei convenuti, fermi nel cercare una soluzione alla lite con il dipendente quanto più ‘‘accomodata’’, anche al costo di forzarne i presupposti legittimanti.
Problemi e prospettive
La pronuncia in commento affronta la questione riguardante il perimetro applicativo della soluzione transattiva allorché vi sia la necessità di farne uso per la liquidazione delle spese di giudizio sostenute dal dipendente pubblico in occasione di giudizi su condotte tenute nel corso del rapporto di servizio.
La conclusione cui si perviene discende da una chirurgica analisi dei dati fattuali atti alla ricostruzione dell’elemento soggettivo, e finalizzati a escludere o includere la sussistenza del diritto al rimborso.
Preliminarmente è il caso di osservare come, nell’economia della pronuncia, assuma un ruolo centrale il tema della possibilità per i giudici contabili di porre in essere un giudizio sulla ragionevolezza dell’accordo transattivo.
Se, infatti, il semplice ricorso da parte dell’amministrazione allo strumento di composizione della lite non pare oggetto di contestazione (a condizione -sia chiaro- che vi sia effettivamente una controversia giuridica da comporre, la legittimazione soggettiva delle parti, la disponibilità dell’oggetto, unitamente ai requisiti specificatamente riconducibili al diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione) non altrettanto vale per quel che concerne il suo ambito applicativo e, ancora, l’eventualità stessa che l’accordo raggiunto sia messo in discussione.
Su quest’ultimo problema si è di recente pronunciata la Sezione controllo della Corte dei Conti per la Regione
Piemonte, con deliberazione n. 20/2012 (pure richiamata dalla difesa dei convenuti) ove si evidenzia come il giudizio di ragionevolezza non possa spingersi fino al punto di apprezzare l’opportunità e la convenienza per l’ente dell’accordo medesimo, di talché è sempre necessario evitare qualsiasi forma di sovrapposizione con le scelte gestionali di esclusiva competenza e responsabilità degli organi dell’amministrazione: ‘‘la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa’’ -si  legge nel precedente citato- ‘‘spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale’’.
La stessa Corte piemontese, tuttavia, ha avuto cura di evidenziare come un certo sindacato del giudice possa, di contro, dirsi ammissibile sotto il (diverso) profilo ‘‘dell’individuazione, in linea generale, dei limiti all’applicabilità della transazione agli enti pubblici’’, e tanto al fine di assicurare la rispondenza degli accordi ai criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa.
Sul crinale di queste premesse la Corte altoatesina ha censurato la transazione intercorsa tra i componenti della Giunta e il dipendente, smentendo l’impossibilità di ricostruire l’effettiva portata dell’elemento soggettivo della condotta causativa dell’incidente, ritenuto desumibile con chiarezza dall’esito dei procedimenti tenutisi prima di quello contabile. E invero, con riferimento, anzitutto, alla valenza della sentenza di patteggiamento, è stata rimarcata la previsione secondo cui al giudice penale è concesso formalizzare l’accordo tra accusa e imputato nei limiti in cui non sussistano motivi di proscioglimento indicati all’art. 129, c.p.p.; quanto, invece, all’esito del giudizio civile è stato sottolineata la subvalenza della decisione emessa dal giudice di primo grado -che, come osservato sopra, ha riconosciuto la corresponsabilità del danneggiante e del danneggiato nella causazione dell’evento- rispetto a quella resa dalla Corte d’appello, ferma nel disegnare il nesso di causalità in direzione del solo danneggiante, senza rescissione alcuna per via di altra causa concorrente.
Queste considerazioni hanno convinto i giudici contabili a ritenere la delibera comunale (e, il conseguente, ‘‘bene stare’’ del Segretario) violativa, oltre che dei doveri di servizio, dei generali doveri di diligenza di cui agli artt. 1176, cod. civ. e 43, cod. pen., posto che i convenuti, nelle rispettive funzioni, ben avrebbero potuto dedicare maggiore attenzione e cautela alla ricostruzione della vicenda e alle (prevedibili) ripercussioni negative sul patrimonio dell’ente. Di singolare importanza è, peraltro, la precisazione secondo cui dette ripercussioni non potevano in alcun modo dirsi giustificate dal fatto che il provvedimento censurato si limitava a ratificare la proposta conciliativa elaborata dalla Commissione provinciale.
La decisione in rassegna, in conclusione, dev’essere collocata nel novero degli interventi chiarificatori sulla valenza delle transazioni concluse dalle amministrazioni pubbliche (cfr. ex pluribus, Corte Conti, sez. Piemonte,
parere del 17.06.2010, n. 44; id., parere del 05.10.2006, n. 4; id., sez. Lombardia, parere del 05.10.2007, n. 21; id. parere del 18.03.2008, n. 14; id., parere del 18.12.2009, n. 1116), e merita particolare attenzione per la materia nella quale l’accordo è immerso, ossia quella lavorista-conciliativa, già caratterizzata da una certa sensibilità che discende dalla stessa importanza del tema di indagine
(Corte dei Conti, Sez. giurisd. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 30.09.2013 n. 41 - commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 12/2013).

INCARICHI PROFESSIONALI: Debiti fuori bilancio - Fattispecie - L’integrazione dell’impegno originario in alcuni casi è possibile.
Relativamente ad incarichi legali di difesa in giudizio dell’ente, qualora fatti successivi all’originario impegno di spesa determinino un aumento della spesa prevista inizialmente in termini non rilevanti ma ‘‘fisiologici’’, l’ente locale può non ricorrere alla procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio ma potrà procedere ad adeguare lo stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di spesa per garantire la copertura finanziaria della parcella professionale qualora, verificata la congruità dell’impegno originario, siano già disponibili le risorse finanziarie a tal fine necessarie, e l’acquisizione del servizio sia stata effettuata nel rispetto delle procedure contabili. (1)
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(1) Si tratta di questione controversa che ha trovato soluzioni opposte nella giurisprudenza contabile.
Hanno stabilito che è sempre necessaria la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio: sez. reg. contr. Veneto, n. 7 del 2008; sez. reg. contr. Sardegna, n. 2 del 2007.
Hanno ritenuto, invece, che sia possibile integrare l’originario impegno, qualora circostanze sopravvenute, quali ad es. la durata del contenzioso rendano insufficiente l’impegno originario: Sez. reg. contr. Campania, n. 9 del 2007; Sez. reg. contr. Lombardia 05.02.2009, n. 19; 12.10.2011, n. 511; 11.07.2012, n. 322; 23.10.2012, n. 441).
Per una ricostruzione della questione in relazione alla complessiva disciplina dei debiti fuori bilancio: G. Astegiano, I debiti fuori bilancio, in G. Astegiano (a cura di), Ordinamento e gestione contabile-finanziaria degli Enti locali, Ipsoa, 2012, 810 e segg.
 (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 17.06.2013 n. 55 - commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 8-9/2013).
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Il Sindaco del Comune di Ronco Scrivia chiede alla Sezione di controllo un parere in merito alla corretta liquidazione di compensi a favore di professionisti in conseguenza del conferimento di incarichi legali, formulando due distinti quesiti.
In riferimento al primo il Sindaco chiede di sapere se le parcelle di liquidazione dell’attività professionale del legale incaricato dall’Ente (attività stragiudiziale e giudiziale) commissionata negli anni 2002, 2003 e 2005 possano essere liquidate secondo le previgenti tariffe professionali anche se le relative parcelle di liquidazione sono state emesse nell’anno 2012 a seguito della conclusione dei contenziosi.
Con il secondo quesito il Sindaco chiede di sapere se per la liquidazione di compensi relativi a prestazioni professionali legali, connesse alla difesa in giudizio dell’Ente eccedenti gli impegni contabili assunti, si debba ricorrere alla procedura di cui all’art.194 del TUEL ossia al previo riconoscimento di legittimità del debito fuori bilancio ai sensi del comma 1, lettera e) o se invece sia sufficiente, disponendo dell’intera somma richiesta, adottare una determina dirigenziale di integrazione della spesa e successivamente di liquidazione anche considerando l’imprevedibile lunga durata dei contenziosi in oggetto. Ciò anche alla luce dei diversi orientamenti osservati dalle Sezioni regionali della Corte dei conti.
...
La fattispecie all’esame di questo Collegio concerne la liquidazione di compensi relativi a prestazioni professionali di natura legale eccedenti gli impegni contabili assunti e più precisamente quale sia la corretta procedura di liquidazione della spesa in esame. Sul punto si sono creati due contrapposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo il primo orientamento, sostenuto principalmente dalla Sezione di controllo lombarda, in situazioni come quella all’esame di questo Collegio non necessariamente occorre ricorrere alla procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio di cui all’art. 194, comma 1, lett. e) del TUEL, in quanto “
si ritiene che l’impegno di spesa per prestazioni professionali a tutela dell’ente può dirsi assunto correttamente quando in presenza di un eventuale maggior onere (emergente dall’imprevedibile lunga durata della causa), l’ente al fine di garantire la copertura finanziaria procede ad adeguare lo stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di spesa. In altri termini, fatti successivi, non prevedibili al momento dell’originario impegno di spesa quali il protrarsi della durata del processo, costituiscono una legittima causa giuridica per la spesa da sostenere e consentono, quindi, di assumere il relativo impegno in bilancio. In questa ipotesi, anzi, il ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio contrasterebbe con i principi di contabilità pubblica. Ne consegue che qualora l’importo legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la differenza non realizza automaticamente una fattispecie di debito fuori bilancio, da legittimare ai sensi dell’art. 194, co. 1, lett. e TUEL" (Sez. reg. contr. Lombardia delibere n. 19/2009, n. 322/2012, n. 441/2012).
Secondo un diverso orientamento, sostenuto, tra le altre, dalle Sezioni Veneto, Puglia, Sardegna,
anche in situazioni come quella in esame è necessario ricorrere alla procedura di cui all’art. 194 del TUEL. La liquidazione di una spesa può, infatti, avvenire ai sensi dell’art. 184, primo comma del T.U.E.L. nei limiti dell’impegno definitivo assunto: “ogni qualvolta si verifichi questo scostamento tra impegno contabile assunto a tempo debito e somma definitiva da pagare ad operazione conclusa, si incorre in un’ipotesi di debito fuori bilancio che introduce un elemento di imprevedibilità potenzialmente idoneo a creare uno squilibrio nelle previsioni di spesa del bilancio (Sez. reg. contr. Veneto, delibera n. 7/2008).
Pertanto “
nel caso che l’importo impegnato si riveli insufficiente, la differenza tra quanto impegnato e quanto richiesto dalla controparte contrattuale –a parte ogni considerazione sulla valutazione della congruità della parcella, sulla effettiva realizzazione delle attività fatturate e sulla corretta applicazione degli scaglioni tariffari– costituisce debito fuori bilancio e come tale deve essere riconosciuto dal Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 194 TUEL. Precisamente si tratta di riconoscimento ai sensi della lettera e) del comma 1: acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza” (Sez. reg. contr. Sardegna delibera n. 2/2007).
Entrambi gli orientamenti evidenziati hanno però una base comune: ferma restando la necessità del rispetto delle regole per il conferimento dell’incarico (determina a contrarre, stipula del contratto, ecc.), in osservanza del principi di prudenza, buona amministrazione, sana gestione finanziaria
l’Ente, nel caso di conferimento di incarico legale, ha il dovere di acquisire dall’avvocato un preventivo di massima che si avvicini il più possibile alla spesa che sarà definitivamente sostenuta, ciò al fine di quantificare correttamente l’impegno di spesa necessario e predisporre adeguata copertura finanziaria. Ciò pur in presenza di variabili, connaturali al tipo di incarico in esame, che possono determinare incertezza sulla quantificazione dell’impegno finanziario al momento dell’ordinazione della prestazione ai sensi dell’art. 191 TUEL (lunghezza del giudizio, esito dello stesso, ecc.). In tal modo si realizza una corretta imputazione di bilancio, se pur non precisa nel suo ammontare definitivo, e si salvaguarda la sana e prudente gestione finanziaria. Inoltre si consente all’Ente, ad all’organo Consiliare, di valutare correttamente l’utilità ed il vantaggio della prestazione professionale.
Diversamente qualora la previsione iniziale ed il relativo impegno siano non veritieri in quanto la spesa preventivata si discosta in modo sensibile dalla spesa effettivamente sostenuta (senza che ricorrano magari situazioni eccezionali ed imprevedibili), si crea un vulnus alla sana e prudente gestione finanziaria in quanto, di fatto, la spesa per l’incarico legale si sottrae alle ordinarie procedure di spesa determinando (o potendo determinare) squilibri finanziari. In tale circostanza è doveroso, rectius, obbligatorio ricorrere alla procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio al fine di ricondurre la spesa in esame all’interno della gestione di bilancio individuando le risorse necessarie alla copertura finanziaria, valutando l’utilità della prestazione (lo scostamento significativo tra impegno iniziale e spesa definitiva può anche essere sintomatico di un non corretto ricorso all’incarico legale).
In tal senso sembrano concordare, implicitamente, entrambi gli orientamenti giurisprudenziali sopra ricordati.
Diverso appare il caso in cui l’impegno iniziale non si discosti significativamente dalla spesa definitiva. Come detto la tipologia di incarico si presta ad una determinazione della spesa non puntuale. Ciò non toglie che una quantificazione dell’esborso finanziario impegnato il più vicino possibile al compenso realmente fatturato dal professionista consenta di rispettare la sana e prudente gestione finanziaria, ricorrendo ad adeguata copertura finanziaria della spesa senza che la fattispecie in esame si sottragga, di fatto, alla gestione di bilancio.
Nel caso di specie viene meno l’utilità della procedura di cui all’art. 194 del TUEL in quanto non si è in presenza di un’acquisizione di servizio in assenza di impegno contabile (cosa di cui si potrebbe dubitare, come già detto, qualora vi fosse uno scostamento significativo tra impegno iniziale e compenso definitivo), l’utilità della prestazione è stata già valutata al momento del conferimento dell’incarico se affidato nel rispetto delle procedure di legge (determina a contrarre, stipula del contratto, ecc.) ed, infine, ricorre la copertura finanziaria in quanto sono già disponibili le risorse destinate al pagamento del compenso professionale.
Pertanto ritiene questo Collegio che,
relativamente ad incarichi legali di difesa in giudizio dell’Ente, qualora fatti successivi all’originario impegno di spesa determinino un aumento della spesa prevista inizialmente in termini non rilevanti ma “fisiologici”, l’Ente potrà procedere ad adeguare lo stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di spesa per garantire la copertura finanziaria della parcella professionale qualora, verificata la congruità dell’impegno originario, siano già disponibili le risorse finanziarie a tal fine necessarie, e l’acquisizione del servizio sia stata effettuata nel rispetto delle procedure contabili.

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Responsabilità degli amministratori locali per scelte illegittime di agire in giudizio.
Il limite della insindacabilità non sussiste, e dunque non può essere invocato dal presunto responsabile del danno, allorché le scelte discrezionali, da cui sia derivato il nocumento patrimoniale, siano contrarie alla legge o si rivelino gravemente illogiche, arbitrarie, irrazionali o contraddittorie, atteso che la predetta insindacabilità concerne la valutazione delle scelte tra più comportamenti legittimi attuati per il soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito e non ricomprende, al contrario, le scelte funzionalmente deviate rispetto al superiore e basilare postulato del buon andamento dell’azione amministrativa.
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Il caso
La vicenda rimessa al vaglio dei giudici contabili trova origine in una lite insorta tra un Comune piemontese e un cittadino che ha contestato -con ricorso al Capo dello Stato- la nomina a revisore contabile in favore di un terzo professionista, sotto i profili del mancato ricorso alla gara pubblica e del comportamento, a suo dire, ambiguo di alcuni amministratori dell’Ente. In particolare, il ricorrente ha censurato -con gravi affermazioni- la procedura di nomina, e ciò fino al punto da provocare un certo risentimento del Sindaco.
Quest’ultimo, ritenutosi offeso dalla espressioni utilizzate nell’atto introduttivo del ‘‘contestatore’’, ha deciso -in accordo con la Giunta dell’epoca- di depositare all’Autorità giudiziaria una denuncia per i reati di diffamazione e calunnia; parallelamente, ha avviato un processo civile volto ad ottenere una declaratoria di condanna al risarcimento dei danni patiti per lesione di immagine dell’amministrazione. Entrambi i procedimenti, tuttavia, sono culminanti in un nulla di fatto, le richieste del primo cittadino essendosi imbattute nel rigetto del giudice penale (che ha disposto l’archiviazione del caso), e di quello civile, che ha ritenuto prive di pregio tutte le pretese attrici.
Di contro, il dispendio di risorse pubbliche -l’Ente ha  conferito tre distinti mandati ad un legale esterno, per una parcella complessiva di più di 8.000 euro- finalizzato a dar fiato ad azioni giudiziarie risultate del tutto infondate, non è passato inosservato alla Procura Regionale della Corte dei conti, la quale ha prontamente avviato un procedimento per far valere la responsabilità amministrativa  degli autori dello spreco. L’addebito mosso nei confronti del Sindaco e degli altri componenti della Giunta è stato quello di aver insistito arbitrariamente e pretestuosamente alla coltivazione di azioni giudiziarie  che, già in principio, si sapevano poste in essere in mancanza di idonei presupposti, con l’evidente conseguenza  di aver generato un ingiustificabile danno erariale.
I convenuti, tra vari argomenti, hanno eccepito in loro difesa la connaturata aleatorietà del giudizio in uno all’insindacabilità piena della scelta discrezionale di intraprendere o proseguire un’azione giudiziaria, in quanto afferente alla sfera del merito amministrativo. E' sorta, di conseguenza, la necessità, per i giudici contabili investiti della vicenda, di appurare l’ammissibilità e il perimetro di un siffatto sindacato.
La soluzione
La Corte dei Conti, Sez. giurs. per la Regione Piemonte, pronunciatasi con sentenza 18.04.2013 n. 52, ha rigettato la tesi della totale insindacabilità della scelta degli amministratori pubblici di intraprendere un’azione giudiziaria, per l’effetto condannando in parte qua i convenuti al pagamento in favore del Comune della somma sostenuta per i processi avviati pretestuosamente, in virtù della provata sussistenza, nel caso di specie, di tutti i profili di responsabilità amministrativo-contabile.
Il raffronto tra costi e benefici con riferimento alla molteplicità dei processi, avviati dai convenuti in apparente difesa dell’immagine dell’Ente, non lasciava alcun dubbio -secondo i giudici- sulla diseconomicità della gestione, complessivamente considerata, in violazione del principio di buon andamento che, in virtù del dettato dell’art. 97 Cost., deve ispirare ogni componente dell’agere pubblico.
Nel merito della vicenda, peraltro, è stato escluso -in linea con quanto ritenuto dagli altri giudici chiamati a statuire sul punto- il carattere offensivo delle dichiarazioni contestate dai convenuti, e quindi la capacità stessa di ledere l’immagine dell’amministrazione, anche tenuto presente della (conclamata) fondatezza delle ragioni che l’allora ricorrente faceva valere con i motivi di legittimità contenuti nel ricorso. Ed anche a voler ritenere offensive le affermazioni del ricorrente -hanno concluso i giudici- le stesse avrebbero, in ogni caso, intaccato la sfera personale del Sindaco e dei componenti della Giunta (non essendo state rivolte direttamente all’Ente civico) dal che l’assenza dei presupposti per agire in giudizio permaneva anche sotto il profilo soggettivo.
Problemi e prospettive
La pronuncia affronta il tema controverso soffermandosi, in particolare, sui concetti di merito e discrezionalità, valutati in rapporto alla legittimità dell’azione amministrativa.
L’analisi muove, anzitutto, dalla dizione dell’art. 1, c. 1, della legge n. 20/1994, secondo cui ‘‘la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e colpa grave’’, con la precisazione che è fatta salva ‘‘l’insindacabilità nel merito’’ delle scelte discrezionali operate dall’organo amministrativo.
La norma -secondo i giudici della Corte dei conti- non estromette del tutto la possibilità che le scelte, pur discrezionali, siano sottoposte al sindacato giurisdizionale.
Invero, essa non eliderebbe il controllo sul rispetto dei limiti interni ed esterni alla scelta.
Sotto il primo profilo, si osserva come l’azione amministrativa debba sempre collegarsi al perseguimento del fine pubblico, rendendola, in questi termini, teleologicamente orientata ai motivi per i quali è attribuito lo stesso esercizio del potere.
Quanto ai limiti esterni, invece, il riferimento è alla legittimità della azione, il che implica una digressione sui parametri da rispettare affinché la scelta possa ritenersi, per l’appunto, legittima: ebbene, in virtù, dell’evoluzione normativa stratificatasi negli anni -la più alta rappresentazione della procedimentalizzazione dell’agire dell’amministrazione è rappresentata dalla legge. n. 241/1990- il legislatore ha aggiunto taluni essenziali riferimenti che attuano -non già in un’ottica meramente programmatica, bensì precettiva- il canone costituzionale del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.; più precisamente, la legge sul procedimento amministrativo prevede che le scelte dell’amministrazione, oltre che imparziali e trasparenti, siano improntate ai principi di economicità, efficienza ed efficacia, in modo da garantire un equilibrio tra i costi sostenuti e i benefici ottenuti.
Il precipitato di tale rafforzamento è quello per cui le scelte che implichino un’apprezzabile sacrificio di risorse pubbliche senza una contropartita violano non solo i parametri di opportunità e convenienza, ma anche -e soprattutto- parametri marcatamente legali.
Occorre altresì evidenziare come la verifica del rispetto dei limiti esterni debba espletarsi ancor prima di quella concernete i limiti interni. Di conseguenza, il giudice chiamato a sindacare la scelta discrezionale dell’amministrazione nei limiti di quanto sopra detto dovrà, in primo luogo, soffermarsi sull’economicità e, quindi, sulla proporzionalità della misura adottata; laddove il primo riscontro abbia esito positivo, è possibile appurare la compatibilità della scelta operata al fine pubblico indicato dalla norma attributiva. Superato positivamente quest’ultimo stadio di verifica, il sindacato del giudice deve ritenersi esaurito, ed ogni ulteriore indagine intaccherebbe inevitabilmente il merito della scelta, notoriamente svincolato da parametri giuridici ed espressamente riservato alla sola amministrazione.
Le coordinate sopra esposte implicano, dunque, l’affermazione di principio in forza del quale il limite della insindacabilità di cui al citato art. 1, c. 1, legge n. 20/1994 non può dirsi sussistente ove le scelte discrezionali da cui è scaturito il nocumento patrimoniale siano in loro contrarie alla legge, o comunque ‘‘si rivelino gravemente illogiche, arbitrarie, irrazionali o contraddittorie’’. L’insindacabilità cui si riferisce la norma, infatti, attiene alla valutazione di scelte tra più comportamenti legittimi ed attuati per il soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito (il sopra citato ‘‘merito’’); per cui ‘‘le scelte funzionalmente deviate rispetto al superiore e basilare postulato del buon andamento dell’azione amministrativa’’ non possono (e non devono) sfuggire al sindacato del giudice contabile posto che in questi casi, si tratta pur sempre di garantire la legittimità dell’azione amministrativa.
La ricostruzione svolta dalla Corte piemontese non rappresenta, peraltro, un caso isolato. Già in precedenza era stato perimetrato il confine del sindacato giurisdizionale del giudice contabile a fronte di scelte discrezionali dell’amministrazione poste in essere in spregio ai limiti interni ed esterni previsti dall’ordinamento (tra le decisioni degli organi di massima assise, si vedano, da ultimo, Cass., Sez. Un., n. 4283/2013 nonché, nella giurisprudenza contabile, Sez. Giur. Centr., n. 346/2008)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte, sentenza 18.04.2013 n. 52 - commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 8-9/2013).

APPALTI SERVIZI: Responsabilità degli amministratori locali per gli affidamenti senza procedure pubbliche.
E' configurabile la responsabilità amministrativo-contabile per gli amministratori degli enti locali che violino le norme in materia di procedure ad evidenza pubblica, cagionando un ‘‘danno alla concorrenza’’. 
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Il caso
Nell’ipotesi in esame, il sindaco di un comune campano, a seguito di ripetuti episodi di teppismo registrati sul territorio, ha deciso -di propria iniziativa e senza curarsi di apprestare la relativa copertura finanziaria- di incaricare una cooperativa del luogo, per lo svolgimento di un servizio di vigilanza notturna, con il fine di contenere nuove manifestazioni di violenza.
La ditta -individuata senza ricorrere a procedure ad evidenza pubblica- ha, peraltro, reso un servizio non soddisfacente, col che l’Amministrazione si è vista costretta ad interrompere bruscamente il rapporto ormai avviato.
Il comune, preso atto della sostanziale inutilità del servizio, si è rifiutato di adempiere alla richiesta di pagamento del quantum di prestazione resa fino all’interruzione.
Sennonché, in seguito a una nuova diffida della cooperativa, e l’instaurazione di un processo ordinario volto al recupero del credito, il consiglio comunale si è deciso a comporre la lite per mezzo di una transazione, riconoscendo con delibera il debito fuori bilancio corrispondente alla sola sorta capitale del debito contratto nei confronti della creditrice per lo svolgimento dell’incarico.
Dalla dinamica riportata è disceso un procedimento per danno erariale a carico del sindaco, dei consiglieri e del Segretario e responsabile economico e finanziario del comune, tenuto innanzi alla Corte dei conti, sez. Campania, pronunciatasi con sentenza 31.01.2013, n. 141.
L’addebito formulato nei loro confronti dalla Procura Generale è stato duplice: da un lato, quello di aver affidato il servizio di vigilanza senza le consuete forme pubblicistiche a tutela della concorrenza; dall’altro, quello di aver affidato l’incarico senza la necessaria copertura finanziaria e, dunque, in violazione degli artt. 191 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000.
Da qui, la richiesta di condanna dei convenuti al pagamento, in favore del comune stesso, della somma di euro 2.473,20, oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giustizia. Secondo la ricostruzione dell’accusa, detta somma -pari al 10% dell’importo pagato dal comune a seguito dell’accordo transattivo- rappresentava l’effettivo risparmio di spesa conseguibile laddove fosse stata attivata una valida procedura concorrenziale.
Con riferimento alle singole posizioni, al sindaco si è rimproverato di aver agito in prima persona comportandosi come un privato contraente, in spregio alla normativa in tema di contratti passivi della pubblica amministrazione che dettano una precisa cadenza procedimentale; ai consiglieri comunali, invece, è stata eccepita l’illegittimità della condotta consistita nell’aver deliberato il completo riconoscimento del debito fuori bilancio, ritenendo che la prestazione resa dalla cooperativa fosse utile nella sua interezza per l’ente, ancorché non fosse stata individuata in forma scritta e nemmeno adeguatamente pubblicizzata; da ultimo, il segretario comunale e` stato raggiunto dall’addebito di aver espresso parere positivo alla delibera consiliare.
La soluzione
La Corte dei conti, nel pronunciarsi sulla questione, ha ritenuto di dover condannare solamente il sindaco, assolvendo, di contro, tutti gli altri convenuti.
Scrutando i vari tasselli della responsabilità amministrativo-contabile, i giudici campani hanno rinvenuto la responsabilità del (solo) primo cittadino, muovendo tanto dall’eziologia delle singole violazioni attribuite ai convenuti, quanto dall’elemento soggettivo soppesato secondo precise scansioni temporali della vicenda.
In effetti, l’atteggiamento dei consiglieri e del segretario comunale, pur giudicato dalla stessa Corte ‘‘discutibile e grossolano’’, non è stato tale da assurgere al livello della ‘‘grave colposità’’, sol che si consideri, come acutamente sottolineato nella pronuncia, l’intento ultimo che aveva indotto all’approvazione del debito fuori bilancio: quello, cioè, di comporre una lite provocata dall’iniziativa (tutta arbitraria) del sindaco, incurante dei basilari principi (non solo) di buona amministrazione, come tale ritenuta causativa del danno per il 90% del suo ammontare.
Problemi e prospettive
Diverse le questioni affrontate dalla Corte dei conti con la sentenza in esame.
In disparte rimangono le questioni meno spinose, tra le quali si colloca l’individuazione, nel momento del ‘‘pagamento della ditta privata’’, del dies a quo della prescrizione per l’azione di responsabilità amministrativo-contabile, come anche l’indagine in ordine alla violazione della normativa volta all’imposizione degli impegni contabili registrati a fronte di ogni spesa degli enti locali, fatto salvo, ovviamente, il disposto di cui all’art. 194, rimasto comunque inapplicato nel caso di specie.
Merita particolare attenzione, invece, il passo motivazionale in ordine al delicato profilo del danno erariale sub specie di ‘‘danno alla concorrenza’’.
Se è vero, infatti, che l’acquisizione dei beni e dei servizi da parte degli enti locali è legata a filo doppio con le norme di contabilità che individuano in modo analitico la procedura finanziaria da osservare allorché l’ente decida di procurarsi all’esterno una utilità della quale non dispone, giova ancor prima tenere in debita considerazione il peso specifico che il mancato ricorso alle procedure ad evidenza pubblica può assumere nella genesi del danno erariale.
Il principio della concorrenza, come acutamente osservato dalla Corte, ‘‘deve presiedere le scelte dell’Amministrazione aventi ad oggetto qualsiasi commessa pubblica  di lavori, forniture e servizi’’. La lesione dei parametri di imparzialità e buona amministrazione che si ricavano dal principio evocato sono tali da provocare un danno patrimoniale che concorre rectius si abbina, fin da subito, a quello scaturente dalla mera violazione dei canoni giuscontabilistici dovuto ad impegni assunti senza la copertura finanziaria.
Ed invero, già in passato (Sez. giur. Lombardia, sentenza n. 447/2006) la giurisprudenza contabile ha sostenuto che la normativa in tema di evidenza pubblica, seppur nata al fine di favorire l’economicità dell’azione amministrativa, riducendo gli sprechi della Amministrazione e, quindi, i danni all’erario pubblico, ‘‘ha finito con il diventare modus agendi tipico della pubblica amministrazione, in quanto modalità procedimentale idonea a garantire il perseguimento non solo dei fini di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, ma altresì quelli di legalità, trasparenza e responsabilità’’.
La stessa quantificazione del danno è incentrata, nel caso di specie, sul valore differenziale ricavato dal raffronto della procedura ad evidenza pubblica e l’affidamento diretto, privo dei canoni della concorsualità. Non a caso, è ricorrente nella pronuncia il riferimento al ‘‘risparmio di spesa che si sarebbe conseguito attivando una valida procedura concorsuale’’; risparmio che, nello specifico, in disaccordo rispetto alla prospettazione accusatoria, è stato quantificato nel 5% dell’esborso sostenuto dall’Amministrazione, posto che si trattava di un appalto di fornitura di servizi.
La pronuncia, che ben può essere estesa a tutte le Amministrazione soggette all’applicazione del Codice dei contratti pubblici, offre una prospettiva di analisi che, per certi versi, contribuisce ad arretrare la soglia di responsabilità degli amministratori pubblici, specialmente per quelli, quali il sindaco di un comune, che godono di maggiori poteri di iniziativa.
Si tratta di capire, tuttavia, entro quali limiti le violazioni della normativa a tutela degli operatori economici possa essere estesa ai consiglieri e al segretario comunale: stando alla sentenza in epigrafe, dette figure parrebbero sollevati da ogni addebito nei limiti in cui abbiano manifestato, perlomeno in principio, un atteggiamento negativo in ordine alle stesse violazioni; e tuttavia non può escludersi un orientamento più rigorista della giurisprudenza, teso a sanzionare ogni forma di sostegno, anche indiretto, di scelte volte ad escludere i principi di imparzialità e trasparenza dell’agere pubblico
(Corte dei Conti, Sez. giurisd. Campania, sentenza 31.01.2013 n. 141 - commento tratto da Azienditalia, Enti Locali, n. 5/2013).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Intervento di riqualificazione su immobili locati: si ha diritto alla detrazione 55%?
Domanda
Intervento di riqualificazione su immobile (parte abitativo e parte commerciale) posseduto da persona fisica a titolo privato; ambedue le unità immobiliari sono locate. Si chiede se, pur trattandosi di unità immobiliari locate, si abbia diritto alla detrazione 55% sulle spese sostenute per la riqualificazione energetica dell'immobile.
L'Agenzia delle Entrate di Vicenza sostiene che poiché le unità immobiliari non sono utilizzate direttamente, in quanto locate, non spetta la detrazione 55%, anche se possedute a titolo personale.
Risposta
La questione è oggetto di contrasti interpretativi tra l'Agenzia delle Entrate che ha una interpretazione rigorosamente eccessiva della norma e la dottrina dominante.
La detrazione Irpef e Ires del 55% (65% per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2013 o al 30.06.2014 per i condomini) sugli interventi relativi al risparmio energetico degli edifici può essere utilizzata da tutti i contribuenti, a prescindere dalla tipologia di reddito di cui essi siano titolari, a differenza del bonus del 36-50% che è dedicato solo ai soggetti Irpef.
Nella risoluzione 340/E/2008, l'Agenzia delle Entrate ha sostenuto che, "per un'interpretazione sistematica", l'agevolazione è "riferibile esclusivamente agli utilizzatori degli immobili oggetto degli interventi". Anche il dossier dell'Agenzia delle Entrate dal titolo 'Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico', aggiornato a settembre 2013, afferma che "In ogni caso, i benefici per la riqualificazione energetica degli immobili spettano solo a chi li utilizza. Per esempio, una società non può fruire della detrazione per le spese relative a immobili locati. Questo vale anche se la società svolge attività di locazione immobiliare, in quanto i fabbricati concessi in affitto rappresentano l'oggetto dell'attività d'impresa e non beni strumentali".
Autorevole dottrina sostiene, invece, che in realtà, la norma non prevede che sia agevolato solo l'utilizzatore finale dell'immobile, in quanto ad esempio può ottenere il beneficio anche la persona fisica che concede a terzi l'utilizzo dell'immobile. Anche secondo la norma di comportamento dell'Associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili n. 184 del 10.07.2012, la "norma non prevede alcuna eccezione né di tipo oggettivo (unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale) né di tipo soggettivo (persone fisiche e soggetti non titolari di reddito d'impresa, nonché tutti i titolari di reddito d'impresa, inclusi società ed enti)".
Questa assenza di eccezioni oggettive o soggettive è confermata anche dalle istruzioni al modello Unico SC. L'associazione dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ricorda che le Entrate, per giustificare l'esclusione del bonus alle società immobiliari di gestione per le unità immobiliari non utilizzate direttamente, fa riferimento "ad una non meglio definita interpretazione sistematica", la quale però "non appare coerente con la caratteristica di detrazione del beneficio fiscale previsto dalla norma, che non incide quindi sulla quantificazione del reddito imponibile" (08.01.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento atmosferico. Industrie insalubri: quali i poteri del Sindaco nel valutare la tollerabilità delle emissioni?
Domanda
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri? Può ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la salute pubblica?
Risposta
Sulla base di quanto disposto dagli artt. 216 e 217 del TULLSS spetta al sindaco la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate insalubri.
L’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo, anche dopo l’attivazione dell’impianto industriale, e si può estrinsecare con l’adozione cautelativa di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, al fine di contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell’attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure specifiche per evitare esalazioni moleste: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività.
Inoltre, è legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva, anche a prescindere da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano congruamente dimostrati gli inconvenienti igienici.
La discrezionalità esercitata in questa materia è ampia: l’art. 216 riferisce la valutazione ad un concetto (“lontananza”) molto duttile, avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (02.01.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Conflitto di interessi. Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
L'art. 6, comma 1, del d.p.r. 62/2013 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), dispone che, fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti, il dipendente, all'atto dell'assegnazione all'ufficio, informa per iscritto il dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, precisando il sussistere di situazioni elencate in dettaglio nella norma medesima.
Pur riferendosi la norma 'all'atto dell'assegnazione all'ufficio', tale obbligo sembrerebbe doversi estendere, per analogia, anche ai dipendenti che risultino già assegnatari dell'ufficio al momento dell'entrata in vigore del codice, per evitare disparità di trattamento.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una fattispecie riguardante la figura del Responsabile del Servizio urbanistica/edilizia privata, in relazione alle norme contenute nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Il dipendente in questione ha comunicato di aver stipulato un contratto privato per il servizio di progettazione e direzione lavori di risanamento conservativo e di manutenzione straordinaria di un'immobile di sua proprietà con un architetto locale, affidando poi i lavori ad un'impresa esecutrice, anch'essa con sede legale nel Comune.
Preliminarmente, si osserva che esula dalle competenze dello scrivente Servizio fornire valutazioni in concreto su specifiche questioni sottoposte dagli enti, avendo questa struttura come finalità la prestazione di attività di consulenza consistente nell'indicazione del quadro normativo, giurisprudenziale e dottrinale, in base al quale l'amministrazione locale possa assumere le determinazioni rientranti nella propria autonomia decisionale.
Pertanto, si rimettono alla valutazione di codesto Comune le considerazioni che seguono, come utile contributo da cui, in base agli elementi di fatto posseduti ed in relazione alla concreta situazione, l'Ente potrà trarre le debite conclusioni.
Premesso un tanto, si osserva che l'art. 54, comma 1, del d.lgs. 165/2001 prevede che il Governo definisca un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse pubblico.
Il comma 5 del citato articolo dispone che ciascuna pubblica amministrazione definisce, con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione, un proprio codice di comportamento che integra e specifica il codice di comportamento di cui al precedente comma 1.
Assodato, pertanto, che il codice di comportamento adottato dalle singole amministrazioni non può comunque discostarsi da quanto enucleato dal codice di comportamento approvato dal Governo, si osserva quanto segue.
L'art. 6, comma 1, del d.p.r. 62/2013
[1] (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), dispone che, fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti, il dipendente, all'atto dell'assegnazione all'ufficio, informa per iscritto il dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, precisando il sussistere di situazioni elencate in dettaglio nella norma medesima. La formulazione letterale del comma 1 in esame si riferisce 'all'atto dell'assegnazione all'ufficio', cioè ad una determinata struttura dell'Amministrazione. Al riguardo alcuni commentatori [2] hanno evidenziato che, sebbene nulla sia previsto per coloro che già sono assegnatari dell'ufficio al momento dell'entrata in vigore del codice, anche a questi ultimi, comunque, dovrebbe essere esteso tale obbligo, in via analogica, per evitare disparità di trattamento. Il legislatore ha definito inoltre un preciso arco temporale cui riferirsi, indicando, a tal fine, gli ultimi tre anni, nell'intento di conferire 'attualità' alla comunicazione medesima.
Per quanto concerne poi il soggetto destinatario dell'informazione di cui sopra, essendo l'Ente privo di dirigenti, il medesimo sarà individuato o nel titolare di posizione organizzativa dei rispettivi settori o, per i titolari stessi di posizione organizzativa, nella figura del segretario comunale. Si evidenzia infatti che, qualora sia il titolare di posizione organizzativa a rendere l'informazione, detta comunicazione non può essere effettuata al sostituto che gli subentra, poiché tale soggetto non ha competenza in ordine alla gestione del rapporto di lavoro del titolare stesso.
Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all'obbligo di astensione contemplato all'art. 7 del d.p.r. 62/2013.
La predetta disposizione prevede che il dipendente si astenga dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza.
L'Ente chiede inoltre alcune delucidazioni inerenti al contenuto dell'articolo 14, commi 2 e 3, del Codice di comportamento in esame.
Le citate disposizioni prevedono che il dipendente non concluda, per conto dell'amministrazione di appartenenza, contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione con imprese con le quali abbia stipulato contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel biennio precedente, ad eccezione di quelli conclusi ai sensi dell'articolo 1342 del codice civile
[3]. Nel caso in cui l'amministrazione concluda contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione, con imprese con le quali il dipendente abbia concluso contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel biennio precedente, questi si astiene dal partecipare all'adozione delle decisioni ed alle attività relative all'esecuzione del contratto, redigendo verbale scritto di tale astensione da conservare agli atti dell'ufficio.
Inoltre, il dipendente che conclude accordi o negozi ovvero stipula contratti a titolo privato, ad eccezione di quelli conclusi ai sensi dell'articolo 1342 del codice civile, con persone fisiche o giuridiche private con le quali abbia concluso, nel biennio precedente, contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento ed assicurazione, per conto dell'amministrazione, ne informa per iscritto il dirigente dell'ufficio.
L'Amministrazione istante chiede in particolare se, alla luce delle richiamate norme, l'attività di istruttoria, di procedimento (ivi compresa la procedura di gara d'appalto, di sottoscrizione del contratto, di esecuzione del contratto medesimo) debbano intendersi trasferite in capo ad altro dipendente che viene autorizzato/incaricato all'assunzione degli atti, con decreto sindacale, per le conclamate ragioni di conflitto di interesse.
Si osserva a tal proposito che, è compito dell'Ente prevedere, nel regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi
[4] o nel proprio codice di comportamento [5], le misure da adottare al verificarsi delle predette situazioni di conflitto di interesse, per consentire comunque il prosieguo dell'attività amministrativa, in particolare procedendo all'individuazione di altro soggetto, che sostituisca il dipendente impossibilitato a procedere per le su esposte ragioni.
Tale individuazione dovrà avvenire nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge, contrattuali e regolamentari e il dipendente nominato quale sostituto del titolare di posizione organizzativa sarà pertanto legittimato ad assumere la responsabilità del procedimento e ad adottare e firmare tutti gli atti conseguenti.
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[1] Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, pubblicato in G.U. Serie Generale n. 129 del 04.06.2013.
[2] Cfr. Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici - gruppo 24 ore - n. 7/8, luglio/agosto 2013, consultabile in: www.contabilita-pubblica.it. Vedasi anche Bertagna, Bozza di codice di comportamento di ente ed avvio della procedura aperta di partecipazione, consultabile in: www.publika.it.
[3] Si tratta di contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali.
[4] Cfr. parere ANCI del 19.11.2013.
[5] Cfr., ad esempio, Codice di comportamento dei dipendenti della Regione Toscana
(02.01.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Incarico direttore consortile e limiti di età.
Per il conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, resta fermo il limite massimo di età di anni 67, considerando anche il biennio per il trattenimento in servizio previsto dal d.lgs. 503/1992.
L'Ente, facendo seguito a precedenti quesiti, ha chiesto un parere in ordine al limite massimo di età per il conferimento dell'incarico di direttore consortile.
Si osserva, a tal proposito, che la situazione non è mutata rispetto a quanto prospettato nel precedente parere reso da questo Servizio
[1].
L'art. 24, comma 4, del d.l. 201/2011, convertito, con modificazioni, in l. 214/2011, non ha modificato il regime dei limiti di età per la permanenza in servizio per i dipendenti pubblici. Un tanto è stato confermato dal Dipartimento della Funzione pubblica, con circolare n. 2/2012; pertanto, per i dipendenti che hanno maturato il diritto a pensione, l'età ordinamentale (compimento del 65° anno di età
[2]) costituisce il limite non superabile (se non per il trattenimento [3]) in presenza del quale l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro.
Da ultimo il d.l. 101/2013
[4], convertito in l. 125/2013, ha ulteriormente precisato che l'art. 24, comma 4, citato 'si interpreta nel senso che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall'elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e costituisce il limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata, al raggiungimento del quale l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro'.
Pertanto, qualora sia affidato un incarico ad ex dipendente pubblico che abbia già compiuto il 65° anno di età, la durata dell'incarico medesimo non potrà comunque superare il momento del compimento del 67° anno di età, considerando anche il biennio ulteriore previsto per il trattenimento in servizio.
Per completezza si osserva che, a decorrere dal 01.01.2013, solo nei confronti dei dipendenti soggetti al nuovo regime pensionistico, come precisato dal Dipartimento della funzione pubblica, può essere accordato il trattenimento in servizio, ad esempio da 66 a 68 anni (salvo l'aggiornamento del limite risultante dall'adeguamento alla speranza di vita).
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[1] Cfr. nota n. prot. 28292 del 05.09.2012.
[2] Il compimento del 70° anno di età è previsto esclusivamente per particolari categorie (magistrati, avvocati e procuratori dello stato, professori ordinari e medici).
[3] Rimane salva la possibilità, prevista dal d.lgs. 503/1992, di trattenere in servizio il dipendente, in base a valutazioni discrezionali dell'amministrazione, fino al limite massimo del 67° anno di età.
[4] Cfr. art. 2, comma 5
(24.12.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità degli amministratori comunali ai sensi dell'art. 63, D.Lgs. n. 267/2000
Ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 2, D.Lgs. n. 267/2000, non può ricoprire la carica di amministratore comunale colui che come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento, ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti nell'interesse del Comune.
Nel termine 'servizi' è ricompreso qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che, a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi.

Il Comune riferisce di aver ricevuto, in qualità di Ente gestore del Servizio sociale dei Comuni di un determinato Ambito distrettuale, un contributo dalla Regione Friuli Venezia Giulia per il finanziamento dello 'Sportello promozione e supporto all'istituto dell'Amministrazione di sostegno' (di seguito, Sportello) di cui all'art. 3, L.R. n. 19/2010.
[1] L'Ente gestore chiede, al riguardo, se per lo svolgimento di detta attività di sportello possa stipulare una convenzione con una Associazione [2] specificando che il Presidente di questa è consigliere comunale dell'Ente e assessore provinciale e che un consigliere della medesima Associazione è, a sua volta, consigliere comunale dell'Ente. L'Ente rende noto, altresì, che nella convenzione verrebbe previsto, secondo lo schema tipo, il riconoscimento all'Associazione di un corrispettivo che specifica essere di importo coincidente con il finanziamento regionale.
Con la L.R. n. 19/2010 citata dianzi, il legislatore regionale ha dettato norme per la promozione, la valorizzazione e l'organizzazione dell'amministratore di sostegno, quale strumento di aiuto e tutela dei soggetti legittimati ad avvalersene (art. 1).
In particolare, l'articolato della legge regionale prevede che la Regione promuove e sostiene l'istituzione e la gestione, tramite i Servizi sociali dei Comuni, di uno o più Sportelli e che l'Ente gestore del Servizio sociale dei Comuni, mediante apposite convenzioni o protocolli d'intesa, può affidare la gestione dello Sportello ai soggetti del privato sociale -organismi dotati di personalità giuridica ovvero associazioni- interessati alla protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia ed iscritti nell'apposito Registro regionale (artt. 3 e 5).
Nel caso di specie, l'Ente istante prospetta l'ipotesi dell'affidamento dell'attività dello Sportello ad un'associazione, mediante convenzione, facoltà espressamente riconosciuta dal legislatore regionale all'Ente gestore del Servizio sociale dei Comuni.
La fattispecie in esame impone, tuttavia, di valutare il fatto che due consiglieri comunali dell'Ente sono, rispettivamente, l'uno Presidente e l'altro consigliere dell'Associazione, sotto il profilo della configurabilità di cause di incompatibilità.
Al riguardo, vengono in considerazione le previsioni di cui all'art. 63, D.Lgs. n. 267/2000, in particolare, comma 1, n. 1) e 2), le quali, si rileva sin da subito, devono essere lette in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi applicazione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall'art. 51 della Costituzione.
L'art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, D.Lgs. n. 267/2000
[3], prevede l'incompatibilità tra la carica di consigliere comunale e la carica di amministratore di ente che riceva da parte del comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il 10% delle entrate dell'ente (sovvenzionato).
Muovendo dall'espressione testuale della norma richiamata, che fa espresso riferimento a enti che ricevono sovvenzioni dal comune, si formulano alcune considerazioni focalizzando i contenuti della L.R. n. 19/2010 già, in parte, ricordati.
La L.R. n. 19/2010, prevede che: la Regione promuove e sostiene l'istituzione e la gestione degli Sportelli tramite i Servizi sociali dei Comuni (art. 3); l'Ente gestore del Servizio sociale dei Comuni può affidare, mediante convenzioni, la gestione dello sportello ai soggetti del privato sociale, organismi dotati di personalità giuridica e associazioni (art. 3); la Regione, in sede di prima attuazione della legge, può prevedere interventi di sostegno alle associazioni già operanti sul territorio per la promozione della figura dell'amministratore di sostegno (art. 5).
La lettura coordinata delle previsioni richiamate evidenzia che l'Ente soggetto attivo delle sovvenzioni, per l'istituto dell'amministratore di sostegno, è la Regione, e che destinatari diretti delle sovvenzioni della Regione sono i comuni/Enti gestori e, specificamente in sede di prima attuazione della L.R. n. 19/2010, anche le Associazioni.
Nel caso in esame, l'Ente istante (Ente gestore del Servizio sociale dei Comuni) prospetta di optare per la gestione dello Sportello mediante affidamento dell'attività ad un'Associazione (iscritta nel Registro regionale dei soggetti del privato sociale) e di far coincidere l'importo del corrispettivo con il beneficio ricevuto dalla Regione.
Una tale fattispecie non sembra, invero, ricalcare la situazione foriera di incompatibilità descritta dall'art. 63, comma 1, n. 1, per la natura della prestazione economica erogata dal Comune/Ente gestore all'Associazione, a titolo di corrispettivo e non di sovvenzione. Altro è, infatti, la natura del corrispettivo, quale remunerazione di una prestazione
[4], altro è la natura della sovvenzione che, secondo la dottrina e la giurisprudenza, deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito [5].
Considerato che, nel caso di specie, la convenzione che il Comune istante ipotizza di stipulare con l'Associazione darebbe luogo alla nascita di rapporti contrattuali tra i due enti, occorre accertare l'eventuale insorgenza di una causa di incompatibilità ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 2), D.Lgs. n. 267/2000, secondo cui è incompatibile con la carica di amministratore comunale 'colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento, ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni appalti nell'interesse del Comune'.
La norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore comunale e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici economicamente rilevanti con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse.
Per la sussistenza della causa di incompatibilità, devono concorrere, quindi, due condizioni: una soggettiva, relativa al ruolo ricoperto dall'amministratore comunale, e una oggettiva, relativa al rapporto esistente tra l'ente locale interessato e il soggetto che 'ha parte in servizi, esazioni, diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse di quest'ultimo'.
Nel termine 'servizi', è ricompreso qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che, a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi. Il contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza elaborazione della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione prolungata, continuativa o periodica
[6], tra cui, pertanto, non rientrerebbero le prestazioni meramente occasionali.
Avuto riguardo a questa accezione lata dei 'servizi', sembra che la stessa possa interessare anche quelli che verrebbero resi dall'Associazione nell'ambito della Convenzione che il Comune avesse a stipulare con questa per la gestione dello Sportello, con la conseguenza che verrebbe a generarsi una situazione di incompatibilità tra la carica di consigliere comunale e quelle di Presidente e consigliere dell'Associazione, non consentita dall'art. 63, comma 1, n. 2, D.Lgs. n. 267/2000, qualora queste due ultime cariche siano connotate da poteri di amministrazione dell'Associazione, in base allo Statuto di questa.
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[1] L.R. 16.11.2010, n. 19, recante: 'Interventi per la promozione e la diffusione dell'amministratore di sostegno a tutela dei soggetti deboli'.
[2] Sulla base delle disposizioni contenute nel Regolamento attuativo della L.R. n. 19/2010, D.PReg. n. 190/2011, recante: 'Regolamento di attuazione della legge regionale 16.11.2010, n. 19 (Interventi per la promozione e la diffusione dell'amministratore di sostegno a tutela dei soggetti deboli)'.
[3] D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, recante: 'Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali'.
[4] Lo schema tipo di Convenzione previsto dal DPReg. n. 190/2011, prevede, all'art. 6, tra gli impegni dell'Ente gestore, quello di riconoscere, per lo svolgimento dell'attività, l'importo che verrà quantificato.
[5] Cfr. nota di questo Servizio prot. n. 11683/2013.
[6] Cfr. Enrico Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pag. 146 e segg.
(24.12.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Conferimento incarichi dirigenziali. Requisiti.
Per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, ai sensi dell'art. 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001, la formazione universitaria richiesta non può essere inferiore al possesso della laurea specialistica o magistrale ovvero del diploma di laurea conseguito secondo l'ordinamento didattico previgente al regolamento di cui al decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 03.11.1999, n. 509.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di conferire un incarico dirigenziale a dipendente appartenente alla categoria D, in possesso di diploma di laurea di primo livello di cui al D.M. 4 agosto 2000 e con un'anzianità di servizio superiore a cinque anni, alla luce di quanto disposto dall'art. 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 come modificato, da ultimo, dall'art. 2, comma 8-quater, del d.l. 101/2013, convertito in l. 125/2013.
La norma richiamata, nel testo attuale, prevede che gli incarichi dirigenziali a tempo determinato sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
L'ultimo periodo del comma 6 in esame precisa, nello specifico, che la formazione universitaria richiesta dal comma medesimo non può essere inferiore al possesso della laurea specialistica o magistrale ovvero del diploma di laurea conseguito secondo l'ordinamento didattico previgente al regolamento di cui al decreto del Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 03.11.1999, n. 509.
Pertanto, la disposizione citata stabilisce la necessità di possedere uno dei titoli di studio sopra esplicitati, per il conferimento degli incarichi dirigenziali a termine. Da siffatta formulazione deriva l'esclusione dei soggetti che risultino in possesso della laurea triennale (L), conseguita con il nuovo ordinamento
[1].
Si osserva che tale previsione trova immediata applicazione nei confronti degli enti locali, stante l'espressa clausola contemplata al comma 6-ter, dell'art. 19, del d.lgs. 165/2001, ove si stabilisce che il comma 6 (ed anche il comma 6-bis) si applicano alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del medesimo decreto, tra le quali sono compresi, per l'appunto, gli enti locali.
Per completezza espositiva, con riferimento ai requisiti per il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali a tempo determinato, indicati all'art. 19, comma 6, in esame
[2], si osserva che a suo tempo la Corte dei conti [3] ha affermato che mediante l'inserimento [4] della congiunzione 'e' tra i requisiti relativi alla particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria e da pubblicazioni scientifiche, da una parte, e le concrete esperienze lavorative maturate per almeno un quinquennio presso amministrazioni pubbliche, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, dall'altra, il legislatore ha inteso richiedere la necessaria compresenza di entrambi i presupposti, titolo di laurea [5] ed esperienza lavorativa, per l'affidamento degli incarichi in argomento.
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[1] Cfr. Nota di lettura del d.l. 101/2013 a cura dell'ANCI, del 14.11.2013, pag. 7 e Personale News, n. 20 del 05.11.2013, consultabile in: www.publika.it.
[2] 'persone che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza'.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 275/2010/PAR.
[4] Tale modifica è conseguita alla novella della norma in questione operata dal d.lgs. 150/2009, mentre il testo originario sembrava indicare i requisiti d'esperienza lavorativa come alternativi rispetto a quelli di specializzazione professionale, culturale, o scientifica.
[5] Ora specificato nell'attuale comma 6, dell'art. 19, del d.lgs. 165/2001
(23.12.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Di fronte alla richiesta di convocazione del consiglio comunale, sottoscritta da almeno un quinto dei consiglieri, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, il presidente del consiglio può soltanto accertare, sotto il profilo formale, che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, atteso che spetta all'organo consiliare la verifica della propria competenza e, quindi, l'ammissibilità delle questioni da trattare.
Le questioni per le quali è richiesto l'inserimento all'ordine del giorno non investono unicamente le competenze del consiglio comunale indicate all'art. 42, comma 2, del TUEL, ma anche quelle che costituiscono espressione dell'attività di indirizzo e di controllo politico amministrativo ai sensi dell'art. 42, comma 1, e che non si concludono necessariamente con una deliberazione o con un voto del consiglio.
Qualora i consiglieri intendano sottoporre all'approvazione del consiglio comunale una proposta di deliberazione, la stessa dovrà possedere i requisiti propri delle ordinarie deliberazioni del consiglio, di regola compilate dagli uffici.

Il Comune chiede un parere in ordine alla richiesta di convocazione del consiglio, avanzata dal capogruppo della minoranza consiliare, ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. In particolare chiede se:
a. la richiesta di convocazione del consiglio comunale debba essere necessariamente sottoscritta da tutti i consiglieri che compongono il quinto richiesto dalla norma citata;
b. se sia sufficiente un documento sottoscritto che riporti la forma della proposta di deliberazione, indipendentemente dal contenuto, e se tale documento debba contenere tutti gli elementi essenziali e formali propri della proposta di deliberazione, atteso quanto previsto dall'articolo 23, comma 3, del Regolamento per il funzionamento del consiglio comunale
[1].
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti osservazioni.
In merito al disposto dell'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, il Ministero dell'Interno aveva affermato in passato che, in linea di principio, le richieste di convocazione straordinaria del consiglio dovessero ritenersi ammissibili soltanto se finalizzate all'assunzione di determinazioni di competenza dell'organo consiliare e fossero, quindi, idonee a tradursi in concrete proposte di delibere da adottare.
[2]
Successivamente il medesimo Ministero si è espresso in senso più ampio, affermando che «la dizione legislativa questioni' e non deliberazioni o atti formali conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2 dell'articolo 42 del TUEL non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale». Infatti, secondo il Ministero, la trattazione di questioni che, pur non comprese nell'elencazione di cui all'articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, attengano all'ambito del controllo rientra nella competenza del consiglio comunale, in qualità di organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo 42.
[3]
Per quanto riguarda l'ammissibilità delle questioni, sussiste, comunque un costante orientamento ministeriale, secondo cui le istanze possono essere dichiarate improcedibili da parte del presidente del consiglio comunale o del sindaco soltanto «qualora le richieste stesse vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su un oggetto illecito o impossibile», non potendo tali soggetti sindacare nel merito le richieste avanzate dal prescritto quorum dei consiglieri.
Pertanto, nell'ipotesi in cui sia richiesto l'inserimento all'ordine del giorno di argomenti non strettamente rientranti nelle competenze del consiglio, investendo la competenza di altri organi di governo o degli uffici, gli stessi dovrebbero comunque essere ammessi dal presidente, qualora si concretizzino nella generica determinazione di atti di indirizzo o nell'espletamento di un'attività di controllo politico, ai sensi dell'articolo 42, comma 1, del decreto legislativo 267/2000 (ad esempio, interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno, ecc.)
Il Ministero dell'Interno ha inteso recepire quanto affermato da giurisprudenza altrettanto costante,
[4] secondo la quale, di fronte alla richiesta di convocazione, il presidente del consiglio può soltanto verificare, sotto il profilo formale, che la stessa provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non potrà sindacarne l'oggetto, atteso che spetta al consiglio comunale la verifica della propria competenza e, quindi, l'ammissibilità delle questioni da trattare.
Di conseguenza, rimane preclusa al presidente del consiglio, destinatario della richiesta di convocazione, una valutazione di merito circa l'ammissibilità delle questioni, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze del consiglio, in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno, neppure su autonoma iniziativa del presidente stesso
[5].
Nello specifico di quanto richiesto, si fa presente quanto segue.
a. La validità della richiesta da parte di un quinto dei consiglieri ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 267/2000 è subordinata alla sottoscrizione dell'atto da parte dei consiglieri medesimi, non avendo alcun valore legale la dichiarazione del capogruppo di minoranza che la richiesta viene formulata «...anche a nome degli altri tre membri del Gruppo...».
b. Si richiama quanto già affermato nella parte generale del parere in ordine al consolidato orientamento secondo il quale al presidente del consiglio o al sindaco spetta soltanto la verifica formale che la stessa provenga dal numero di consiglieri previsto dalla legge, mentre non può sindacare l'oggetto delle questioni da trattare. Ne deriva che anche qualora l'argomento non sia configurabile quale proposta di deliberazione, al di là del nomen juris utilizzato dai proponenti, si ritiene che possa essere fatto rientrare negli strumenti previsti dall'articolo 22 del Regolamento, concernente il diritto di presentare interrogazioni, interpellanze e mozioni, e quindi finalizzato a consentire un dibattito in seno al consiglio in ordine a un accadimento che non può ritenersi estraneo alla sfera degli interessi della comunità che il consiglio comunale rappresenta, essendo rilevante piuttosto che l'elenco degli affari da trattare sia compilato in modo da non lasciare dubbi e incertezze sugli argomenti che devono formare oggetto di discussione
[6].
Qualora invece i consiglieri comunali intendano sottoporre all'approvazione del consiglio comunale una proposta di deliberazione, la stessa dovrà possedere i requisiti propri delle ordinarie deliberazioni del consiglio, di regola compilate dagli uffici comunali
Per quanto riguarda le proposte di deliberazione in senso formale e sostanziale, si richiama il comma 4 dell'articolo 39 del TUEL, secondo il quale il sindaco, o il presidente del consiglio comunale, assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri delle questioni sottoposte al consiglio. In tal senso, l'elenco degli oggetti da trattare contenuto nell'ordine del giorno e il deposito della relativa documentazione a disposizione dei consiglieri hanno lo scopo di rendere edotti i medesimi degli argomenti che saranno discussi o sottoposti alla loro attenzione.
Conseguentemente, al fine di consentire deliberazioni con la necessaria conoscenza dei provvedimenti da adottare,
[7] è necessario che queste siano corredate dalla documentazione alle stesse relativa, nei giorni che precedono l'adunanza.
Si sottolinea che il regolamento sul funzionamento del consiglio svolge, in modo particolare in questa fase, un ruolo fondamentale in quanto nello stesso sono indicate le modalità per definire compiutamente le condizioni essenziali per il pieno e consapevole esercizio del mandato elettivo da parte dei consiglieri comunali.
Per quanto riguarda, nello specifico, i pareri sulle proposte di deliberazione concretamente formalizzate in un documento scritto e sottoscritto dal proponente, che non costituiscono meri atti di indirizzo, previsti dall'articolo 49 del decreto legislativo 267/2000, come sostituito dall'articolo 3, comma 1, lettera b), del decreto legge 10.10.2012, n. 174
[8], è stato ritenuto che, di norma, siano inseriti prima che le proposte siano iscritte all'ordine del giorno [9], o comunque prima di essere sottoposte all'esame del consiglio. Un vincolo imposto dal legislatore è, infatti, che tali pareri di regolarità tecnica e contabile siano contenuti nel testo del provvedimento, in modo che risulti subito evidente e immediato il giudizio formulato dai dirigenti o dai responsabili [10].
A conferma di un tanto, il comma 4 dell'articolo 49 prevede che, ove la giunta o il consiglio non intendano conformarsi ai pareri espressi dai responsabili, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione.
In conclusione, nel richiamare la puntuale disciplina prevista dall'articolo 53
[11] del Regolamento citato per le questioni pregiudiziali e sospensive, si rappresenta quanto affermato dalla giurisprudenza [12] in relazione al fatto che, qualunque sia il sistema che conferisce il potere di convocazione di un'assemblea e di formazione del relativo ordine del giorno, appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale), ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva).
---------------
[1] Il comma 3 dell'articolo 23 del Regolamento recita: «3. La richiesta di convocazione deve contenere, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, in allegato il relativo schema di deliberazione. Il suddetto schema sarà poi sottoposto all'esame dei preventivi pareri previsti, per quanto attiene ai responsabili dei servizi, dall'art. 53, commi 1 e 2, della legge 142/1990, nonché, per quanto concerne il segretario comunale, dall'attestazione resa ai sensi dell'art. 17, comma 68, lettera c), della legge 15.05.1997, n. 127. Qualora, poi, nella proposta di deliberazione emergano elementi inerenti alla necessità di provvedere, con costi a carico del comune, ad oneri specifici di spesa, altresì necessario il parere di regolarità contabile, reso, ai sensi dell'art. 153, comma 1, della legge 142/1990, da parte del responsabile del servizio finanziario.».
[2] Nota prot. n. 15900/1517/1-bis/5.1.8 del 26.11.1998.
[3] Pareri del Ministero dell'Interno 09.01.2003, 28.01.2003, 23.03.2005, reperibili sul relativo sito internet.
[4] Sentenze TAR Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268, citata costantemente dal Ministero anche nei pareri più recenti; TAR Puglia 04.02.2004, n. 1022; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 25.07.2001, n. 4278.
[5] A titolo esemplificativo, si cita quanto espresso dal Ministero dell'Interno con il parere del 07.11.2005 riguardante materie non espressamente di competenza del consiglio comunale e, in particolare, l'argomento 'installazione di un ripetitore per la telefonia mobile', nonché la citata sentenza TAR Puglia n. 1022/2004, che ha ritenuto «legittima la questione pregiudiziale impeditiva del passaggio in discussione di una mozione che abbia la finalità di modificare una procedura tipizzata descritta da legge, che incida su diritti ed interessi indisponibili dalla stessa assemblea, sia in quanto posti a tutela dei cittadini, sia in quanto posti a tutela delle prerogative dei componenti dell'assemblea stessi».
[6] Cfr. Parere Ministero dell'Interno 07.11.2003.
[7] Cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 18.02.2009, n. 351.
[8] L'articolo 49, comma 1, testualmente recita: «1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, da parte del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione».
[9] E. Maggiora, Il funzionamento del consiglio comunale e provinciale, Milano, 2000, pagg. 111 e segg. Cfr. Parere del Ministero dell'Interno 29.12.2013.
[10] L'elemento di novità del testo dell'articolo 49 è costituito dal rafforzamento delle competenze del dirigente o responsabile finanziario, che non si deve limitare a verificare la copertura degli oneri nel bilancio dell'ente e la correttezza della sua imputazione, dovendo il suo giudizio estendersi alla attestazione che l'atto non determini il maturare di condizioni di squilibrio nella gestione delle risorse.
[11] L'articolo 53 del Regolamento recita: «1. La questione pregiudiziale si ha quando viene richiesto che un argomento non sia discusso, precisandone i motivi. La questione pregiudiziale può essere posta anche prima della votazione della deliberazione, proponendone il ritiro.
2. La questione sospensiva si ha quando viene richiesto il rinvio della trattazione dell'argomento ad altra adunanza, precisandone i motivi. Può essere posta anche prima della votazione della deliberazione, richiedendo che la stessa sia rinviata ad altra riunione.
3. Le questioni pregiudiziali e sospensive poste prima dell'inizio della discussione di merito vengono esaminate e poste in votazione prima di procedere all'esame dell'argomento cui si riferiscono. Sulle relative proposte può parlare, oltre al proponente -o ad uno di essi, nel caso che la proposta sia stata presentata da più consiglieri- un consigliere per ciascun gruppo, per non oltre tre minuti. Il consiglio decide a maggioranza dei presenti, con votazione palese.».
[12] TAR Puglia 04.02.2004, n. 1022
(21.12.2013 -
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GIURISPRUDENZA

URBANISTICA: In caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi, quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di approvazione nell'albo del Comune.
Sennonché, osserva il Collegio come –essendo gli odierni ricorrenti estranei al Piano esecutivo di Via Zini– gli stessi correttamente non abbiano ricevuto comunicazione in forma individuale delle deliberazioni di adozione e approvazione del predetto Piano (cfr., in tal senso, la giurisprudenza consolidata per cui, in caso d’impugnazione di strumenti urbanistici attuativi, quali piani di lottizzazione o piani di recupero, da parte di soggetti terzi perché non direttamente contemplati in essi, quali i confinanti, il termine per l'impugnazione decorre dall'ultimo giorno di pubblicazione della deliberazione di approvazione nell'albo del Comune.
Così, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, sent. 18.11.2013 n. 5454; id., 29.12.2010 n. 9537, id. sent. 25.07.2005 n. 3930, id. sent. 10.04.2003 n. 1910, nonché, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 9.11.2012, n. 2729) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.01.2014 n. 64 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe valutazioni, di competenza della Soprintendenza, costituiscono espressione di un potere non di mero controllo, ma di amministrazione attiva –da intendere come co-gestione del vincolo, in funzione di “estrema difesa” del medesimo– con riferimento a qualsiasi vizio di legittimità, riscontrabile nella concreta attività di gestione dell’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
In tale contesto, può ritenersi che la medesima Soprintendenza conservi margini di discrezionalità tecnica nell’esercizio del proprio potere di riesame, ma senza per questo potersi sostituire all’apprezzamento, rimesso all’Autorità comunale sub-delegata.
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E' illegittimo il provvedimento della Soprintendenza che ha annullato l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal comune, riferita ad un allargamento di 70 centimetri della porta di ingresso di un locale adibito a deposito, per consentirne l’utilizzo come autorimessa, laddove sono state addotte le ragioni esposte nei seguenti termini: “l’allargamento di una porta di ingresso…provoca la trasformazione negativa delle valide cornici in pietra esistenti e la modifica delle proporzioni vuoti/piani della facciata”.
Invero, la motivazione dell’atto di annullamento impugnato non fornisce adeguato riscontro della propria logica ispiratrice, tenuto conto della situazione reale: una situazione che –ove ritenuta peggiorativa e degradata dell’assetto preesistente– non avrebbe impedito alla Soprintendenza di operare a tutela del residuo pregio dei luoghi, ma non senza che detto apprezzamento risultasse percepibile (mentre va sottolineato come, al contrario, la parte appellante affermi –senza che emergano puntuali controdeduzioni al riguardo– l’avvenuto allargamento di molti portali di accesso con l’assenso della stessa Soprintendenza).

Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise, sez. I, n. 640/12 del 22.11.2012 (che non risulta notificata), è stato respinto il ricorso n. 345 del 2006, proposto dai signori F.M. e T.M. avverso il provvedimento n. 13855 del 15.12.2005, notificato il 14.01.2006, con il quale la Soprintendenza ha annullato l’autorizzazione paesaggistica n. 47 in data 11.11.2005, riferita ad un allargamento di 70 centimetri della porta di ingresso di un locale adibito a deposito, per consentirne l’utilizzo come autorimessa.
Le ragioni espresse dalla citata Soprintendenza, risultavano esposte nei seguenti termini: “l’allargamento di una porta di ingresso…provoca la trasformazione negativa delle valide cornici in pietra esistenti e la modifica delle proporzioni vuoti/piani della facciata”.
Nella citata sentenza si riteneva pertanto che il provvedimento impugnato fosse fornito di “adeguato ed oggettivo supporto giustificativo”, non censurabile nel merito in considerazione degli ampi margini di discrezionalità tecnica attribuiti all’Amministrazione, fatti salvi “eventuali manifesti travisamenti dei fatti o …palesi illogicità o incongruenze”, non rilevati nel caso di specie.
In sede di appello (n. 1787/13, notificato il 06.03.2013) si sottolineava viceversa come la nuova apertura fosse destinata ad essere “rifinita con il riutilizzo degli elementi attuali del portale esistente”, con “recupero della cornice in pietra e sostituzione dell’attuale (antiestetica) saracinesca in metallo con un portone in legno, dello stesso tipo di quello utilizzato sia per l’altro portone di ingresso dei ricorrenti, sia per i portoni dell’immobile immediatamente adiacente, in modo da rendere l’intervento anche esteticamente più coerente con l’intero contesto circostante”.
Veniva ulteriormente affermato (e documentato con allegazioni fotografiche) come interventi dello stesso tipo risultassero “assentiti e realizzati su molte altre abitazioni”.
...
Il Collegio ritiene fondate ed assorbenti le censure di eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
Le motivazioni dell’atto di annullamento, come sopra sintetizzate, sarebbero infatti idonee, in astratto, a giustificare l’esercizio del potere di annullamento della Soprintendenza –senza sconfinare in rinnovate (e, in quanto tali, inammissibili) valutazioni di merito– se l’autorizzazione annullata consentisse di comprendere l’iter logico seguito dalla predetta Autorità, sulla base di un compiuto accertamento, da parte di quest’ultima, della natura dell’intervento edilizio autorizzato, del contesto circostante e dei valori paesaggistici da preservare.
Deve essere infatti ricordato che le valutazioni, di competenza della Soprintendenza, costituiscono espressione di un potere non di mero controllo, ma di amministrazione attiva –da intendere come co-gestione del vincolo, in funzione di “estrema difesa” del medesimo (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437)– con riferimento a qualsiasi vizio di legittimità, riscontrabile nella concreta attività di gestione dell’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta: cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9).
In tale contesto, può ritenersi che la medesima Soprintendenza conservasse margini di discrezionalità tecnica nell’esercizio del proprio potere di riesame, ma senza per questo potersi sostituire all’apprezzamento, rimesso all’Autorità comunale sub-delegata.
In linea di principio ben si poteva, pertanto, affermare nell’atto impugnato che l’intervento edilizio in questione comportasse “la realizzazione di opere non compatibili con le imprescindibili esigenze di tutela e conservazione dei valori paesistici…..esigenze che rappresentano la ragione costitutiva del vincolo stesso”, di modo che la valutazione di compatibilità –contenuta nell’autorizzazione paesaggistica comunale– si sarebbe tradotta “in una obiettiva deroga al vincolo stesso”, con conseguente illegittimità della medesima.
Tale peculiare valutazione, tuttavia, doveva trovare riscontro logico e fattuale in una corretta rappresentazione dello stato dei luoghi, nonché nella compiuta valutazione del progetto presentato: circostanze, quelle appena indicate, che non trovano immediato riscontro nel caso di specie.
La parte appellante, infatti, ha prodotto una convincente ed abbondante documentazione fotografica, circa la sussistenza –nell’area di cui trattasi– di portali di differenti ampiezze, dalle caratteristiche del tutto analoghe a quelle che la medesima parte appellante vorrebbe realizzare, peraltro con integrale ripristino della cornice in pietra del portale e sostituzione dell’attuale serranda metallica con materiali più consoni, in rapporto al pregio dell’area circostante.
Ove si consideri che il vincolo esistente riguarda non specificamente l’immobile, su cui si vorrebbe intervenire, ma l’intero contesto ambientale, non si vede come fosse possibile ignorare l’esistenza di edifici, caratterizzati in gran numero da portali di diverse dimensioni, a cui si sarebbe adeguato il progetto da autorizzare, con caratteristiche anche migliorative, per quanto riguarda i materiali da utilizzare (con sostituzione del legno alla saracinesca in metallo).
La motivazione dell’atto di annullamento impugnato, in altre parole, non fornisce adeguato riscontro della propria logica ispiratrice, tenuto conto della situazione reale: una situazione che –ove ritenuta peggiorativa e degradata dell’assetto preesistente– non avrebbe impedito alla Soprintendenza di operare a tutela del residuo pregio dei luoghi, ma non senza che detto apprezzamento risultasse percepibile (mentre va sottolineato come, al contrario, la parte appellante affermi –senza che emergano puntuali controdeduzioni al riguardo– l’avvenuto allargamento di molti portali di accesso con l’assenso della stessa Soprintendenza).
Anche qualora, in ogni caso, le contraddittorietà di giudizi di cui sopra non trovassero conferma, sarebbe comunque stato doveroso specificare le ragioni di ritenuta immodificabilità del singolo immobile di cui trattasi (non direttamente oggetto di vincolo) proprio sotto il profilo del rapporto fra pieni e vuoti delle facciate, essendo detto profilo del tutto eterogeneo nel contesto edificatorio circostante (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2014 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il progetto dei lavori, assentito ai confinanti controinteressati con il permesso di costruire oggetto di impugnativa, prevede la demolizione totale dei due corpi di fabbrica esistenti, e la costruzione di un unico fabbricato su quattro piani e sottotetto, con piano interrato.
Resta dunque evidente come la volumetria preesistente –distribuita su due manufatti limitrofi- venga spostata ed accentrata, senza alcuna continuità ontologica (neanche di sedime) rispetto allo status quo ante.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica" (nella originaria versione che precedeva la novella ex art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002, n. 301, si argomentava di “fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche di materiali a quello preesistente”).
Pertanto, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che debbono essere rispettate quantomeno le “linee essenziali” della sagoma.
Come ben puntualizzato dalla giurisprudenza amministrativa, “è così necessaria l’identità della complessiva volumetria del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio diverso, coerentemente con la ratio di recupero del patrimonio esistente (… così che…) se anche l’attuale art. 3 non contiene più il riferimento alla fedele ricostruzione , occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto”.
In buona sostanza, a fronte della modifica della nozione di ristrutturazione introdotta dal D.Lgs. 301/2002, è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente, così da esigere la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi.
Sulla base dei suesposti principi, non può revocarsi in dubbio che la progettazione assentita con l’impugnato titolo edilizio attiene ad una fattispecie di nuova costruzione (dalla demolizione dei due edifici si ricava un unico immobile sovradimensionato), erroneamente qualificata dal Comune come ristrutturazione edilizia, con conseguente applicazione dei non pertinenti benefit di superficie previsti dall’articolo 17 della locale Normativa Urbanistica (relativo a differenti ipotesi di “interventi su edifici esistenti”).
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Restano comunque recessive le argomentazioni mirate a valorizzare il disposto delle normative territoriali, per ampliare il concetto di ristrutturazione edilizia oltre i limiti imposti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, e ciò anche in relazione a quanto di recente statuito dal giudice delle leggi.
Infatti, in presenza di una legge regionale interpretata dal giudice a quo nel delineato contesto “ampliativo” (L.R. Lombardia n. 7/2010 con cui sarebbe stata eliminata la sagoma quale vincolo da rispettare nella ristrutturazione), la Corte Costituzionale con sentenza 23.11.2011 n. 309 ha chiarito che sono principi fondamentali della materia del governo del territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del 2001 che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.

Il ricorso va accolto.
Trova al riguardo assorbente fondamento la censura in ordine alla errata qualificazione data dal Comune all’intervento avversato sull’edificio preesistente, intervento qualificato come “ristrutturazione” edilizia, in luogo di “nuova costruzione”.
Va precisato che il progetto dei lavori, assentito ai confinanti controinteressati con il permesso di costruire oggetto di impugnativa, prevede la demolizione totale dei due corpi di fabbrica esistenti, e la costruzione di un unico fabbricato su quattro piani e sottotetto, con piano interrato.
Resta dunque evidente come la volumetria preesistente –distribuita su due manufatti limitrofi- venga spostata ed accentrata, senza alcuna continuità ontologica (neanche di sedime) rispetto allo status quo ante.
Ai sensi dell'art. 3, c. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 sono "interventi di ristrutturazione edilizia" (...) "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica" (nella originaria versione che precedeva la novella ex art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002, n. 301, si argomentava di “fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche di materiali a quello preesistente”).
Pertanto, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che debbono essere rispettate quantomeno le “linee essenziali” della sagoma.
Come ben puntualizzato dalla giurisprudenza amministrativa, “è così necessaria l’identità della complessiva volumetria del fabbricato e, per l’area di sedime, il fabbricato deve occupare la stessa area e sorgere sulla stessa superficie utilizzata dal precedente senza compromettere un territorio diverso, coerentemente con la ratio di recupero del patrimonio esistente (… così che…) se anche l’attuale art. 3 non contiene più il riferimento alla fedele ricostruzione , occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell’istituto” (da ultimo C.S. sez. IV sent. n. 2972/2013 del 30.03.2013).
In buona sostanza, a fronte della modifica della nozione di ristrutturazione introdotta dal D.Lgs. 301/2002, è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente, così da esigere la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente, nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi (così, Cons. Stato, IV, 28.07.2005, n. 4011; Cons. Stato, V, 14.04.2006, n. 2085, Cons. Stato sez. IV, 18.03.2008 n. 1177).
Sulla base dei suesposti principi, non può revocarsi in dubbio che la progettazione assentita con l’impugnato titolo edilizio attiene ad una fattispecie di nuova costruzione (dalla demolizione dei due edifici si ricava un unico immobile sovradimensionato), erroneamente qualificata dal Comune come ristrutturazione edilizia, con conseguente applicazione dei non pertinenti benefit di superficie previsti dall’articolo 17 della locale Normativa Urbanistica (relativo a differenti ipotesi di “interventi su edifici esistenti”).
Come correttamente dedotto dalla ricorrente, si sarebbero dovuti applicare nella specie i più rigorosi parametri di cui all’articolo 14 della N.U., relativo (fra gli altri) ad “interventi di nuova costruzione”, senza che in contrario rilevi quanto invocato dal patrono civico a proposito di una presunta alternatività dei criteri previsti dalle due citate norme urbanistiche (l’art. 14 seguirebbe un calcolo basato sulla superficie, mentre l’articolo 17 presenterebbe un criterio volumetrico). Non si vede infatti quale relazione ostativa possa determinare tale alternatività con la corretta applicazione di ciascuna delle due disposizioni all’interno della rispettiva fattispecie di appartenenza. Resta così inteso che in presenza di nuove costruzioni (e non di ristrutturazioni del preesistente) resterà applicabile il criterio volumetrico dell’art. 14 e non quello “superficiario” dell’art. 17.
A tutto voler concedere, poi, va detto più in generale che restano comunque recessive le argomentazioni mirate a valorizzare il disposto delle normative territoriali, per ampliare il concetto di ristrutturazione edilizia oltre i limiti imposti dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, e ciò anche in relazione a quanto di recente statuito dal giudice delle leggi.
Infatti, in presenza di una legge regionale interpretata dal giudice a quo nel delineato contesto “ampliativo” (L.R. Lombardia n. 7/2010 con cui sarebbe stata eliminata la sagoma quale vincolo da rispettare nella ristrutturazione), la Corte Costituzionale con sentenza 23.11.2011 n. 309 ha chiarito che sono principi fondamentali della materia del governo del territorio le disposizioni d.P.R. n. 380 del 2001 che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
In conclusione il ricorso trova accoglimento per le suesposte ragioni, assorbito ogni altro motivo. Ne consegue l’annullamento dell’impugnato permesso di costruire (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 09.01.2014 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto.
Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.

Il terzo motivo di ricorso con il quale è contestata la valutazione di anomalia dell’offerta è infondato.
In merito occorre rammentare che il complesso delle contestazioni economiche delle ricorrenti, oltre ad essere generalmente prive di prova, raggiungono a malapena il complesso degli utili dichiarati dall’aggiudicataria. E’ sufficiente quindi che una sola di esse sia infondata per ritenere infondato l’intero motivo di ricorso.
In merito la giurisprudenza prevalente ha infatti ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme (Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495) e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto (TAR Lazio Roma, sez. I-ter – 14/10/2011 n. 7957; Consiglio di Stato, sez. V – 11/03/2010 n. 1414; sez. IV – 20/05/2008 n. 2348).
Al contempo occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; stessa Sezione 08/02/2012 n. 195; TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1445).
Nel merito è infondato il primo profilo del motivo nella parte in cui contesta che in un appalto siffatto sarebbe impossibile offrire alcune figure professionali non remunerative a fronte di altre in largo attivo. In merito occorre rilevare che non è contestato che l’aggiudicataria abbia correttamente imputato tutti i costi del personale secondo le tabelle ministeriali e che l’offerta richiesta dalla stazione appaltante avesse carattere globale.
In questo quadro è legittimo che l’offerente distribuisca i costi del personale tra le varie figure in modo da offrire il mix più conveniente per la stazione appaltante. Né coglie nel segno la contestazione relativa alla creazione di scenari di utilizzo del personale irragionevoli in quanto si tratta di valutazioni del tutto apodittiche e prive di riscontri concreti.
In applicazione del principio di globalità della verifica di anomalia dell’offerta il motivo di ricorso dev’essere quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 08.01.2014 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000.
Poiché dunque, in materia, vi è una competenza esclusiva del Sindaco (che non consta abbia, nel caso di specie, specificamente delegato i propri poteri alla dirigenza), la determinazione dirigenziale impugnata è viziata per incompetenza e deve essere annullata.

... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 3876 in data 22.01.2013, notificata in data 04.02.2013, con cui è fatto ordine al sig. G.F., quale proprietario, di provvedere alla rimozione dei rifiuti di qualsiasi specie presenti nella “suddetta area”, ed al ripristino dello stato dei luoghi
...
Riveste carattere decisivo il vizio di incompetenza.
Infatti, l’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, previste dal comma 2.
Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 29.08.2012, n. 4635).
Poiché dunque, in materia, vi è una competenza esclusiva del Sindaco (che non consta abbia, nel caso di specie, specificamente delegato i propri poteri alla dirigenza di Roma Capitale), la determinazione dirigenziale impugnata è viziata per incompetenza e deve essere annullata
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 07.01.2014 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo è ancora valido il principio generale secondo cui “l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata (nel senso, etimologico, di “pre-giudicata”) da quella in precedenza svolta dall’organo incompetente”.
L’unica eccezione, rispetto a ciò, può verificarsi nei casi in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso (come pure è in sua facoltà, stante la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa e la conseguente disponibilità di parte dei motivi di ricorso); ma, anche in tal caso, la subordinazione dell’esame del motivo di incompetenza agli altri di merito non può che intendersi come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via principale.
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Va ancora soggiunto che, nonostante il codice del processo amministrativo non abbia riprodotto la disposizione contenuta nella l. n. 1034/1971 secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di ricorso afferente al merito della causa in presenza di un vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
E’ poi evidente che la “prima sede” per l’esercizio del potere amministrativo, rispetto a cui è vietata la cognizione preventiva del giudice, è soltanto quella in cui agisca l’organo dichiarato competente.

Ciò posto, è bene precisare che, in assenza di graduazione dei motivi di ricorso, il vizio di incompetenza riveste carattere “assorbente”.
In primo luogo, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo è ancora valido il principio generale secondo cui “l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata (nel senso, etimologico, di “pre-giudicata”) da quella in precedenza svolta dall’organo incompetente” (così, in termini, CGA, 06.03.2012, n. 273)
L’unica eccezione, rispetto a ciò, può verificarsi nei casi in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso (come pure è in sua facoltà, stante la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa e la conseguente disponibilità di parte dei motivi di ricorso); ma, anche in tal caso, la subordinazione dell’esame del motivo di incompetenza agli altri di merito non può che intendersi come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via principale (così, ancora, la decisione n. 273/2012).
Non è questo però il caso di cui si verte, in cui, dall’esposizione ricorsuale, non è riscontrabile alcuna forma di graduazione e/o subordinazione dei motivi di gravame.
Va ancora soggiunto che, nonostante il codice del processo amministrativo non abbia riprodotto la disposizione contenuta nella l. n. 1034/1971 secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di ricorso afferente al merito della causa in presenza di un vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
E’ poi evidente che la “prima sede” per l’esercizio del potere amministrativo, rispetto a cui è vietata la cognizione preventiva del giudice, è soltanto quella in cui agisca l’organo dichiarato competente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 07.01.2014 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’intervento di risanamento conservativo, così come disciplinato all’art. 3, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, non consente la demolizione del manufatto, a tal uopo essendo necessario dar corso quantomeno ad un intervento di “ristrutturazione edilizia” (art. 3, lett. d) d.P.R. 380/2001).
L’intervento edilizio realizzato dagli odierni appellanti a seguito di d.i.a prodotta il 04.08.2006 riguardava lavori relativi ad opere di risanamento conservativo, manutenzione ordinaria e straordinaria. Sennonché i lavori in concreto eseguiti sono consistiti nella demolizione e nella ricostruzione del vano tecnico posto al terzo piano, ciò che non era consentito dal titolo edilizio formatosi a seguito della presentazione della suddetta d.i.a..
L’intervento di risanamento conservativo, così come disciplinato all’art. 3, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, non consente la demolizione del manufatto, a tal uopo essendo necessario dar corso quantomeno ad un intervento di “ristrutturazione edilizia” (art. 3, lett. d) d.P.R. cit.).
E tuttavia tale tipologia di intervento edilizio era in ogni caso inibita ai ricorrenti in ragione della disciplina urbanistica dell’area ove ricade il loro fabbricato, azzonata nel p.r.g. comunale come “A2- risanamento conservativo”.
Corretta pertanto appare, come rilevato dal giudice di primo grado, la determinazione del Comune di Tivoli che ha negato accoglimento all’istanza di permesso di costruire per accertamento di conformità presentata dagli appellanti ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo consentita la ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione degli immobili posti in zona A2.
Donde la legittimità dell’ordine di demolizione del vano posto al terzo piano e della riduzione in pristino delle altre opere interne realizzate al secondo piano in difformità dal titolo (per questa parte, tuttavia, non constano specifici motivi di censura) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.01.2014 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che la declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce manifestazione di attività vincolata della pubblica amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti della decadenza richiedono un rigoroso e completo accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria, che non può basarsi su affermazioni apodittiche né prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso concreto.
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In disparte le giustificazioni addotte dalla ricorrente a proposito dell’ostruzionismo praticato dai vicini nel rendere inagibile l’unica strada di accesso al fondo, è dirimente osservare che il permesso di costruire di cui trattasi è stato rilasciato alla Società nella giornata di venerdì, 28.12.2012, in pieno periodo feriale, per l’approssimarsi del Capodanno ed in una stagione con condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma 2°, del codice di procedura civile).
In siffatte circostanze appare al Collegio irragionevole la pretesa del Comune di far discendere la prova dell’intento costruttivo dalla realizzazione, nell’ultimo scorcio dell’anno 2012, in pieno periodo feriale ed in pieno inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio dell’opera.
Si tratta, a ben vedere, di una pretesa non rispettosa del principio di proporzionalità che dovrebbe presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, anche in sede di accertamento della decadenza di cui al citato art. 15, oltre che in contrasto con il principio della buona fede oggettiva che deve comunque caratterizzare il rapporto fra privato e pubblica amministrazione.
Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del d.P.R. n. 380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto –realisticamente– che sussista un fisiologico intervallo temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio dell’attività edilizia.
Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione del menzionato art. 15 effettuata da parte dell’Amministrazione di Como.

Il ricorso merita parziale accoglimento, secondo quanto di seguito meglio specificato.
Preliminarmente, il Collegio ritiene di soprassedere rispetto all’eccezione di irricevibilità sollevata da parte resistente in ordine all’impugnazione dei provvedimenti elencati in premessa sub nn. 4 e ss., stante l’evidente inammissibilità del ricorso rispetto all’impugnazione predetta, non assistita dall’articolazione di specifiche censure, in violazione dell’art. 40, co. 1, lett. d), c.p.a.
Per il resto, e nel merito, il Collegio ritiene di confermare l’orientamento già espresso in ordine all’interpretazione del combinato disposto degli artt. 15, co. 4, del d.P.R. n. 380/2001, 25, co. 1-quater, della legge regionale n. 12/2005.
In tal senso, è sufficiente richiamare quanto di recente affermato da questa stessa Sezione in un caso analogo a quello per cui è causa, in cui era stato impugnato da altra società un provvedimento di decadenza di un permesso di costruire, emesso in circostanze analoghe a quelle per cui è causa da parte del Comune di Como (cfr. sentenza TAR Milano, Sez. II, del 24.07.2013, n. 1943).
Ivi, è stato così chiarito che l’art. 15, comma 4°, del d.P.R. n. 380/2001 (in forza del quale <<Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio>>), non può essere letto, come affermato dal resistente, nel senso di poter dichiarare la decadenza di un titolo edilizio, rilasciato a distanza di pochi giorni, a causa della sopravvenienza dell’art. 25, comma 1-quater, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, assunto alla stregua di previsione urbanistica contrastante con l’intervento assentito.
Il comma da ultimo citato (oggi abrogato, come meglio si dirà in seguito, ma vigente a gennaio 2013), ha stabilito che -nei comuni che entro il 31.12.2012 non avessero ancora approvato il Piano di Governo del Territorio (PGT, ai sensi dell’art. 13 della già citata LR 12/2005)- sarebbero stati ammessi, nelle zone omogenee A, B, C e D, soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, con esclusione degli interventi, come quello di cui è causa, di nuova costruzione.
Ebbene, nella fattispecie in esame, se da un lato il Comune di Como –la circostanza è pacifica– non aveva ancora approvato il proprio PGT al 31.12.2012, dall’altro, almeno stando al provvedimento impugnato, Stradivari non aveva avviato, al 01.01.2013, l’attività edilizia oggetto dell’intervento assentito.
In siffatte evenienze, a parere del resistente, l’art. 25, co. 1–quater cit., giustificherebbe l’impugnata decadenza del titolo edilizio rilasciato, giova ribadire, il 28.12.2012, in esecuzione del già richiamato art. 15, comma 4°, del Testo Unico dell’edilizia.
Nei motivi di ricorso sopra sintetizzati la Società contesta la violazione e l’erronea applicazione, sotto vari profili, delle norme –statali e regionali– poste dall’Amministrazione di Como a fondamento della determinazione di decadenza del permesso di costruire.
La Sezione, pur ritenendo assorbente il terzo motivo di ricorso (su cui ci si diffonderà nel prosieguo), ritiene utile accennare anche ai profili di fondatezza emergenti in relazione al primo motivo di ricorso, con cui si contesta l’affermazione del Comune, secondo cui la Società non avrebbe avviato alcuna attività edilizia al 31.12.2012, sicché non sarebbe ravvisabile in capo ad essa alcun “serio intento costruttivo”.
Al riguardo, preme al Collegio richiamare, in primo luogo il proprio orientamento, secondo cui, se è vero che la declaratoria di decadenza di un titolo edilizio costituisce manifestazione di attività vincolata della pubblica amministrazione, è parimenti innegabile che i presupposti della decadenza richiedono un rigoroso e completo accertamento in fatto, vale a dire una adeguata istruttoria, che non può basarsi su affermazioni apodittiche né prescindere dall’esame di tutte le circostanze del caso concreto (cfr. sul punto TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.1.2013, n. 189).
Nel caso di specie, il permesso di costruire è stato adottato il 18.12.2012 e rilasciato all’interessata in data 28.12.2012 (cfr. il doc. 8 della ricorrente e il doc. 14 della resistente), mentre la comunicazione di inizio lavori è stata protocollata lo stesso 28.12.2012 (cfr. il doc. 13 della ricorrente e il doc. 16 della resistente).
Il Comune di Como ha effettuato il sopralluogo assunto a presupposto della decadenza in data 11.01.2013 (cfr. il doc. 17 della resistente).
Ebbene, in disparte le giustificazioni addotte dalla ricorrente a proposito dell’ostruzionismo praticato dai vicini nel rendere inagibile l’unica strada di accesso al fondo, è dirimente osservare che il permesso di costruire di cui trattasi è stato rilasciato alla Società nella giornata di venerdì, 28.12.2012, in pieno periodo feriale, per l’approssimarsi del Capodanno ed in una stagione con condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma 2°, del codice di procedura civile).
In siffatte circostanze appare al Collegio irragionevole la pretesa del Comune di far discendere la prova dell’intento costruttivo dalla realizzazione, nell’ultimo scorcio dell’anno 2012, in pieno periodo feriale ed in pieno inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio dell’opera (a nulla rilevando quanto successivamente accertato, ma non emergente dal provvedimento qui gravato).
Si tratta, a ben vedere, di una pretesa non rispettosa del principio di proporzionalità che dovrebbe presiedere all’esercizio dell’azione amministrativa, anche in sede di accertamento della decadenza di cui al citato art. 15, oltre che in contrasto con il principio della buona fede oggettiva che deve comunque caratterizzare il rapporto fra privato e pubblica amministrazione (cfr. sul punto, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012, n. 5692, nonché TAR Milano, II, sent. n. 1943/2013).
Del resto, la norma di legge sopra menzionata prevede ordinariamente il termine di un anno dal rilascio del titolo per l’inizio dei lavori (cfr. art. 15, comma 2°, del d.P.R. n. 380/2001), in quanto il legislatore ha ritenuto –realisticamente– che sussista un fisiologico intervallo temporale fra l’ottenimento del titolo ed il concreto avvio dell’attività edilizia.
Non appare, di conseguenza, corretta l’applicazione del menzionato art. 15 effettuata da parte dell’Amministrazione di Como.
Passando, a questo punto, ad esaminare il terzo motivo, il Collegio osserva quanto segue.
L’esponente contesta, qui, l’interpretazione dell’art. 25 della legge regionale n. 12/2005, come modificato dalla legge regionale n. 21/2012, assunta dal Comune a fondamento del provvedimento di decadenza, sul presupposto che la normativa regionale costituisca una nuova previsione urbanistica –di rango legislativo– volta a precludere definitivamente ogni attività edilizia con essa contrastante.
Il comma 1-quater, giova ribadire, permetteva a partire dal 01.01.2013 nei Comuni sprovvisti di Piano di Governo del Territorio una limitatissima attività edilizia, consentendo soltanto gli interventi di manutenzione, restauro e risanamento, vietando -al contempo- altri interventi edilizi, come quelli di ristrutturazione e di nuova costruzione, fra cui l’attività di cui al permesso ottenuto da Stradivari, che rientra in tale ultima categoria.
L’interpretazione degli uffici comunali non era stata condivisa dallo scrivente Collegio che, in sede di cognizione sommaria (cfr. l’ordinanza cautelare n. 439/2013), aveva disatteso l’impostazione comunale e, in un’altra coeva ordinanza (n. 363/2013, poi confermata con la sentenza n. 1943/2013 già citata), aveva offerto una diversa esegesi dei commi da 1-ter a 1-quinquies dell’art. 25 della LR 12/2005, ritenendo che gli stessi imponessero non la decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi, in attesa dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico generale (PGT).
Si trattava di un’interpretazione del dettato legislativo regionale rispettosa del canone di ragionevolezza che –ex art. 3 della Costituzione– deve sempre accompagnare l’esercizio della funzione legislativa, anche da parte delle Regioni (sulla rilevanza della “ragionevolezza”, quale parametro costituzionale, si veda, fra le decisioni più recenti, Corte Costituzionale, 27.6.2013, n. 160).
La questione interpretativa dei menzionati commi dell’art. 25 della LR 12/2005 ha, tuttavia, perso rilevanza, visto che la stessa Regione Lombardia, con la legge regionale 04.06.2013, n. 1, ha espressamente abrogato i commi in questione (cfr. l’art. 2, comma 2, della citata legge), fissando un nuovo termine per l’approvazione del PGT per i Comuni rimasti ancora inerti, al 30.06.2014.
In ordine alle conseguenze derivanti dalla recente modifica legislativa, preme segnalare che, con circolare del 19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL 21.06.2013, n. 25), Regione Lombardia ha stabilito che possono essere riattivate le istanze di intervento presentate entro il 31.12.2012 ma non definite per effetto della pregressa disciplina restrittiva, sicché le novità della LR 1/2013 finiscono per avere un effetto sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Di fronte a tale efficacia retroattiva, si potrebbe addirittura dubitare dell’applicabilità, alla presente fattispecie, dell’art. 15, comma 4°, del d.P.R. n. 380/2001, visto che alla data del 31.12.2012 non è stata, in realtà, introdotta, da parte della legislazione regionale, alcuna nuova normativa urbanistica.
Da ultimo e con riguardo alla rilevanza sull’intervento di cui è causa del nuovo Piano di Governo del Territorio (PGT) del Comune di Como, approvato definitivamente il 13.06.2013, valgano le considerazioni seguenti.
Il permesso di costruire più volte ricordato, è stato rilasciato il 28.12.2012 in conformità allo strumento urbanistico generale allora vigente; il P.G.T. oggi in vigore è stato adottato il 20.12.2012 ed il relativo avviso è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia (BURL) il successivo 16.01.2013.
E’ quindi evidente che, attesa l’anteriorità del rilascio del titolo rispetto all’adozione del P.G.T., le prescrizioni di quest’ultimo non potevano di per sé incidere sull’attività edilizia già regolarmente autorizzata, tanto è vero che il provvedimento impugnato nulla dice in ordine al P.G.T. adottato.
Parimenti, l’intervenuta approvazione definitiva del P.G.T. in data 13.06.2013 non rileva in alcun modo, trattandosi di circostanza sopravvenuta al provvedimento ivi gravato.
Di conseguenza, qualsivoglia richiamo ad un preteso contrasto del titolo edilizio di Stradivari con le prescrizioni del P.G.T., contenuto negli scritti difensivi del Comune, non può che rappresentare un inammissibile tentativo di integrazione della motivazione attraverso gli atti di causa (cfr. sull’impossibilità dell’integrazione “postuma” della motivazione dell’atto amministrativo, Consiglio di Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1808).
Per le suesposte considerazioni, assorbiti i mezzi non espressamente scrutinati, il ricorso in epigrafe specificato deve essere accolto, limitatamente all’impugnazione del provvedimento di decadenza del 15.01.2013 che, per l’effetto, deve essere annullato; deve, per contro, essere dichiarata inammissibile la restante parte del gravame.
Quanto alla domanda di risarcimento dei danni, la stessa deve essere respinta, attesa la mancata dimostrazione dei presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c. in ordine, in particolare, al nesso di causalità ai fini della riconducibilità dei lamentati danni all’agire illegittimo della p.a., nonché alla colpevolezza della resistente amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.01.2014 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge "sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati ".
La giurisprudenza amministrativa ha fissato precisi limiti per il legittimo esercizio del suindicato potere di autotutela, ritenendo che l'interesse pubblico specifico all'eliminazione dell'atto illegittimo non possa identificarsi, sic et simpliciter, nell'interesse al ripristino dell'ordine giuridico violato, ma debba essere individuato in relazione ad esigenze concrete ed attuali.
Invero, è stato affermato che "in tema di adozione di atti amministrativi, il potere di annullamento è immanente al potere di autotutela e ne condivide i limiti, con particolare riguardo all'obbligo di motivazione, alla presenza di concrete ragioni di pubblico interesse non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità, alla valutazione dell'affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, al rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale, ivi compreso l'avviso di avvio del procedimento di ritiro, all'adeguata istruttoria”.
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Il recente arresto del Supremo Consesso amministrativo conferma come l’orientamento maggioritario in giurisprudenza inclini a ritenere che detto potere di autotutela al cospetto di una d.i.a. non si distingua, quanto ai presupposti applicativi, dall’autotutela in via generale prevista dalla legge generale sul procedimento amministrativo.
Invero, maggiore è il lasso di tempo trascorso tra l'avvio dell'attività dichiarata e l'esercizio, da parte della p.a., del potere inibitorio e/o di autotutela, e maggiore deve essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle al mero ripristino della legalità, che deve connotare il relativo provvedimento amministrativo, anche alla luce di quanto previsto espressamente dall'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Analogamente, in applicazione del su richiamato disposto normativo, deve emergere dalla motivazione dell’atto la valutazione comparativa degli interessi in ipotesi in conflitto, di cui l’amministrazione deve dare conto.

Ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge "sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati ".
La giurisprudenza amministrativa ha fissato precisi limiti per il legittimo esercizio del suindicato potere di autotutela, ritenendo che l'interesse pubblico specifico all'eliminazione dell'atto illegittimo non possa identificarsi, sic et simpliciter, nell'interesse al ripristino dell'ordine giuridico violato, ma debba essere individuato in relazione ad esigenze concrete ed attuali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2009, n. 8529, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 02.02.2012, n. 64, per cui: "in tema di adozione di atti amministrativi, il potere di annullamento è immanente al potere di autotutela e ne condivide i limiti, con particolare riguardo all'obbligo di motivazione, alla presenza di concrete ragioni di pubblico interesse non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità, alla valutazione dell'affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, al rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale, ivi compreso l'avviso di avvio del procedimento di ritiro, all'adeguata istruttoria.”; analogamente, cfr. ancora TAR Sicilia, Palermo, 11.01.2010, n. 235; TAR Veneto, Sez. II, 30.09.2010, n. 5242).
Con specifico riguardo alla fattispecie in esame va poi ulteriormente richiamato il recente arresto del Supremo Consesso amministrativo (cfr. Consiglio di Stato, IV sez., sent. 06.12.2013, n. 5822) che conferma come l’orientamento maggioritario in giurisprudenza inclini a ritenere che detto potere di autotutela al cospetto di una d.i.a. non si distingua, quanto ai presupposti applicativi, dall’autotutela in via generale prevista dalla legge generale sul procedimento amministrativo (cfr. anche TAR Toscana, Firenze, sez. II, sent. 24.08.2010, n. 4882, secondo cui maggiore è il lasso di tempo trascorso tra l'avvio dell'attività dichiarata e l'esercizio, da parte della p.a., del potere inibitorio e/o di autotutela, e maggiore deve essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle al mero ripristino della legalità, che deve connotare il relativo provvedimento amministrativo, anche alla luce di quanto previsto espressamente dall'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990).
Analogamente, in applicazione del su richiamato disposto normativo, deve emergere dalla motivazione dell’atto la valutazione comparativa degli interessi in ipotesi in conflitto, di cui l’amministrazione deve dare conto (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, 11.02.2008, n. 701).
Sennonché, avuto riguardo al provvedimento qui contestato, deve convenirsi con la difesa ricorrente in ordine alla mancanza, sia della rappresentazione di un interesse pubblico, concreto e attuale, alla rimozione dei titoli abilitativi formatisi a seguito della presentazione della dia del 01.04.2003, che in ordine alla valutazione dell’interesse del destinatario dell’atto medesimo.
Né si può poi ritenere, come adombra la difesa dell’amministrazione, che nel caso di specie alcuna dia si sarebbe perfezionata, a cagione della falsa attestazione da parte ricorrente della destinazione residenziale di una parte dell’immobile, attesa la sussistenza di un documento (cfr. allegato n. 3 di parte ricorrente) proveniente dalla stessa amministrazione in causa, che attesta la presenza, alla data del 05.04.1967, della destinazione ad uso abitazione di una parte, ivi meglio descritta, del ridetto immobile.
Ne consegue che non può parlarsi, qui, di esercizio di un potere sanzionatorio da parte comunale, esercitabile in ogni tempo siccome avulso dall’esercizio del potere di autotutela decisoria, non potendo il Comune disconoscere la presenza di un titolo edilizio (la dia del 2003 e ss. varianti) che lo stesso Comune, a ben vedere, ha contribuito a consolidare, non intervenendo nei termini prescritti e con i poteri inibitori all’uopo previsti.
Risulta, poi, inammissibile, alla stregua di motivazione “postuma” del provvedimento impugnato, l’ulteriore ragione, addotta in memoria da parte resistente a fondamento del proprio operato, che fa leva sulla circostanza che la nuova destinazione comporterebbe un aggravio del carico urbanistico di cui l’amministrazione non avrebbe tenuto conto ai fini del pagamento degli oneri di urbanizzazione e dello standard (in disparte, poi, la circostanza che si tratta di profili rispetto ai quali è indimostrata, da parte comunale, l’impossibilità di addivenire ad una regolarizzazione dei medesimi aspetti).
Per le suesposte considerazioni, quindi, assorbiti i mezzi non espressamente scrutinati, il ricorso in epigrafe specificato deve essere accolto, con conseguente annullamento del provvedimento con esso impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.01.2014 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E' annullabile il provvedimento amministrativo laddove nello stesso sia riportata una barra sul gruppo firma "Il Sindaco ..." ed una sigla per la quale non sia possibile possibile risalire all'effettiva persona firmataria.
Esaminando il provvedimento impugnato è possibile constatare che lo stesso, ancorché in fondo riporti la dicitura “Il Sindaco – Lorenzo Alessandrini“, presenta una barra sul gruppo firma ed una sigla che non è possibile ricondurre ad alcuno.
Ciò significa che il provvedimento risulta emanato da persona diversa dal Sindaco e della quale non è possibile verificare l’identità e quindi l’esistenza del potere, anche in virtù di delega, di dare giuridica esistenza all’atto.
Il provvedimento, pertanto, non può produrre alcun utile effetto e deve essere di conseguenza annullato prescindendo dall’esame della fondatezza degli ulteriori motivi di ricorso.

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell'ordinanza n. 335/1997 in data 11/11/1997, notificata al ricorrente il 19/11/1997, con la quale il Sindaco del Comune di Seravezza, testualmente: "DICHIARA DECADUTA la concessione edilizia n. 148 rilasciata in data 27.01.1996 a B.P.G., nato a M., il ... e residente in Pietrasanta, Via ..., per accertato mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno dal suo rilascio, come da accertamento dell'Ufficio di cui in premessa: ORDINA la immediata sospensione di ogni e qualunque opera posta in essere sull'area oggetto della concessione edilizia decaduta per mancato inizio dei lavori".
...
Il ricorso è fondato in accoglimento del primo motivo che assume carattere assorbente.
Esaminando il provvedimento impugnato è possibile constatare che lo stesso, ancorché in fondo riporti la dicitura “Il Sindaco – Lorenzo Alessandrini“, presenta una barra sul gruppo firma ed una sigla che non è possibile ricondurre ad alcuno.
Ciò significa che il provvedimento risulta emanato da persona diversa dal Sindaco e della quale non è possibile verificare l’identità e quindi l’esistenza del potere, anche in virtù di delega, di dare giuridica esistenza all’atto.
Il provvedimento, pertanto, non può produrre alcun utile effetto e deve essere di conseguenza annullato prescindendo dall’esame della fondatezza degli ulteriori motivi di ricorso (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 24.12.2013 n. 1771 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal citato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
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L’asserito impedimento, qualificato dalla ricorrente come ritardo incolpevole, derivante dal preteso ritardo dell’azienda titolare del servizio pubblico elettrico nell’operare lo spostamento della linea elettrica -peraltro tardivamente allegato soltanto dopo l’adozione degli impugnati provvedimenti- non è comunque idoneo ad integrare gli estremi della forza maggiore che, dunque, nel caso di specie deve escludersi.
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L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi configurabile quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e dei materiali da costruzione.
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Per la pronuncia di decadenza, in quanto tipico atto d'ufficio, la comunicazione ai sensi dell’art. 10-bis della l. 241/1990 risulta esclusa.

La giurisprudenza è pacifica nell'affermare che la pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, sia connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal citato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4206; id. sez. III, 04.04.2013, n. 1870).
D’altra parte, l’asserito impedimento, qualificato dalla ricorrente come ritardo incolpevole, derivante dal preteso ritardo dell’azienda titolare del servizio pubblico elettrico nell’operare lo spostamento della linea elettrica -peraltro tardivamente allegato soltanto dopo l’adozione degli impugnati provvedimenti- non sarebbe comunque idoneo ad integrare gli estremi della forza maggiore che, dunque, nel caso di specie deve escludersi.
Ciò posto deve rammentarsi che, per costante giurisprudenza, l'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi configurabile quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l'effettiva volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e dei materiali da costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3823).
Nel caso in esame, al di là di affermazioni opinabili per cui l’abbozzo della canaletta per l’elettrodotto rappresenterebbe inizio dei lavori, non risultano neanche tali attività minime; dunque non è contestato che la costruzione non sia stata iniziata, per cui non vi è dubbio che il Comune dovesse emettere un provvedimento di natura dichiarativa sul mancato rispetto del termine annuale decadenziale, già prorogato.
Stante l’adottata decadenza dai titoli era, dunque, inevitabile che venisse negata la proroga degli stessi risultando, dunque, la comunicazione ai sensi dell’art. 10-bis un atto meramente formale posto in essere solo perché in presenza di atti a istanza di parte.
Viceversa, per la pronuncia di decadenza, in quanto tipico atto d'ufficio, tale comunicazione risulta esclusa (TAR Veneto sez. II, 14.11.2008, n. 3550) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 18.12.2013 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Definizione e scopo dell'abbandono e della raccolta - Artt. 255 e 256, c. 2, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, la volontà che sottende all'abbandono è sostanzialmente diretta a disfarsi ed a disinteressarsi completamente della cosa, mentre quella relativa alla raccolta è diretta a conservare i materiali per poter poi compiere sugli stessi una attività successiva, sia di riutilizzo o di smaltimento (Cass. Sez. III n. 17256, 07/05/2007).
RIFIUTI – Gestione rifiuti - Definizione di raccolta, gestione e stoccaggio o deposito preliminare - Operazioni di messa in riserva di rifiuti – Definizione di deposito temporaneo - Artt. 183, 255 e 256, d.lgs. n. 152/2006.
Per «raccolta» di rifiuti si intende, secondo quanto stabilito dall'art. 183, comma 1, lettera o), d.lgs. n. 152/2006 «il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta (definiti nel medesimo comma) ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento», mentre la lettera aa) del medesimo articolo definisce lo stoccaggio come «le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'Allegato B alla parte quarta del decreto (e cioè il deposito preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti) nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell'Allegato C alla medesima parte quarta (e cioè la messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».
RIFIUTI – Discarica di rifiuti - Definizione legislativa e giuridica – Stoccaggio di rifiuti - Periodo inferiore a un anno - Art. 2, c. 1, lett. g), d.lgs. 36/2003.
Una definizione di discarica di rifiuti è rinvenibile nell'articolo 2, comma primo, lettera g) d.lgs. 36/2003, ove si afferma che per discarica deve intendersi un'area "adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno".
Aggiunge la richiamata disposizione che "sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno", consentendo così, grazie all'indicazione del dato temporale, di distinguere la discarica da altre attività di gestione (anche se lo stesso, come si è ritenuto nel caso di protrazione del deposito dei rifiuti per un periodo superiore all'anno in Cass. Sez. III n. 9849, 04/03/2009, non individua un elemento costitutivo della fattispecie).
RIFIUTI – Concetto di discarica – Deposito con ammasso definitivo - Nozione di "smaltimento" - Scopo di profitto - Mero abbandono di rifiuti - Natura occasionale e discontinua - Giurisprudenza – Art. 256 d.lgs. 152/2006.
Nell'individuazione del concetto di discarica, con riferimento al reato di cui al terzo comma dell'articolo 256 del d.lgs. n. 152/2006, la giurisprudenza ha sottolineato la differenza con la nozione di "smaltimento" rilevando che trattasi di due attività diversamente disciplinate, perché pur avendo in comune talune operazioni (quali il conferimento dei materiali e la loro deposito), si differenziano radicalmente: nello smaltimento i rifiuti vengono interamente sfruttati a scopo di profitto con specifiche modalità (cernita, trasformazione, utilizzo e riciclo previo recupero), nella discarica, invece, i beni non ricevono alcun trattamento ulteriore e vengono abbandonati a tempo indeterminato, mediante deposito ed ammasso. Si ha quindi discarica abusiva "tutte le volte in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato" (Cass. Sez. III n. 27296, 17/06/2004).
Anche la differenza con il mero abbandono di rifiuti è stata individuata evidenziando la natura occasionale e discontinua di tale attività rispetto a quella, abituale o organizzata, di discarica (Sez. III n. 25463, 15.04.2004).
Concludendo, la discarica abusiva dovrebbe presentare, tendenzialmente, una o più tra le seguenti caratteristiche, la presenza delle quali costituisce valido elemento per ritenere configurata la condotta vietata: accumulo, più o meno sistematico, ma comunque non occasionale, di rifiuti in un'area determinata; eterogeneità dell'ammasso dei materiali; definitività del loro abbandono; degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza dei materiali in questione.
Si è ulteriormente precisato che il reato di discarica abusiva è configurabile anche in caso di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell'area su cui insistono, anche se collocata all'interno dello stabilimento produttivo (Cass. Sez. III n. 41351, 06/11/2008; n. 2485, 17/01/2008; n. 10358, 09/03/2007).
Con riferimento al reato di abbandono, ai fini della sua configurabilità rileva anche la posizione di titolare di imprese o responsabile di ente dell'agente, come tale dovendosi intendere chiunque abbandoni rifiuti nell'ambito di una attività economica esercitata anche di fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o dell'attività medesima (principio ribadito in Cass. Sez. III n. 38364, 18/09/2013).
RIFIUTI – Discarica abusiva o abbandono di rifiuti - Semplice inerzia del proprietario o possessore del terreno - Concorso nel reato – Esclusione - Art. 40 cod. pen..
In tema di rifiuti, il concorso del proprietario o possessore del terreno interessato dalla presenza di rifiuti, la giurisprudenza ha più volte precisato che la semplice inerzia, conseguente all'abbandono da parte di terzi o la consapevolezza di tale condotta da altri posta in essere non sono idonee a configurare il reato di abbandono e ciò sul presupposto che una condotta omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo dell'art. 40 cod. pen., ovvero sussista l'obbligo giuridico di impedire l'evento (Cass. Sez. III n. 31488, 29/07/2008; Sez. III n. 32158, 01/07/2002; Sez. III n. 8944, 02/07/1997), altrettanto si è affermato con riferimento alle ipotesi di discarica abusiva (Cass. Sez. III n. 23091, 29/05/2013; Sez. III n. 46072, 15/12/2008; Sez. III n. 41838, 07/11/2008; Sez. III n. 39641, 28/10/2007; Sez. III n. 2206,19/1/2006; Sez. III n. 21966, 10/06/2005) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2013 n. 47501 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl preavviso di rigetto nei procedimenti ad istanza di parte, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, ha natura endoprocedimentale e non è immediatamente impugnabile, né di norma sussiste per l’interessato l’onere di impugnarlo congiuntamente al provvedimento negativo finale.
E' invero pacifico che il preavviso di rigetto nei procedimenti ad istanza di parte, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, ha natura endoprocedimentale e non è immediatamente impugnabile, né di norma sussiste per l’interessato l’onere di impugnarlo congiuntamente al provvedimento negativo finale (cfr., per tutte: Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007 n. 4828) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.11.2013 n. 1200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale riguarda anche gli edifici sparsi utilizzati per il ricovero di attrezzi agricoli o aventi destinazione diversa da quella abitativa, ponendosi persino rispetto ad essi l'esigenza, perseguita dall'art. 338, comma 1, del R.D. n. 1265/1934, di salvaguardare la salubrità pubblica e di consentire futuri ampliamenti del cimitero.
Infatti, l'apposizione del vincolo in questione persegue una molteplicità di interessi pubblici: la tutela di esigenze igienico sanitarie e della sacralità del luogo, l'interesse a mantenere un'area di possibile espansione del perimetro cimiteriale; pertanto anche la costruzione di case sparse, e persino la realizzazione di edifici isolati non destinati ad abitazione, deve rispettare la distanza minima di 200 metri, senza che sia richiesta all'Ente pubblico una valutazione in concreto della compatibilità della presenza del manufatto rispetto al vincolo de quo.

Il ricorso è infondato.
Si prescinde dalla questione dell’ammissibilità di un’azione volta alla conferma della parte dispositiva del provvedimento impugnato e alla modifica, invece, della sua motivazione, concretando tale azione la richiesta di una pronuncia di accertamento negativo di natura dichiarativa non ammissibile nell’ambito della giurisdizione di legittimità qual è quella oggetto del presente scrutinio giurisdizionale.
Va innanzi tutto rilevato che il provvedimento impugnato è conseguente a due espresse domande di sanatoria presentate dal ricorrente che obbligava l’Amministrazione comunale a istruire il relativo procedimento e a concluderlo con un provvedimenti definitivi, come correttamente avvenuto.
La tesi, poi, che nella specie si tratterebbe di manufatti privi di rilievo urbanistico-edilizio è smentita per tabulas dalla consistenza dei manufatti stessi (due capanne agricole che ricoprono l’una una superficie di mq. 53,64 e l’altra una superficie di mq. 15,84), confermata dalla documentazione fotografica che evidenzia che si tratta di opere che, se pur realizzate con materiale precario, insistono stabilmente sul terreno sul quale sono collocate. In base, pertanto, all’art. 10 del t.u. n. 380 del 2001, concretandosi una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio le stesse opere erano soggette al permesso di costruire. Donde il loro rilievo sotto il profilo del rispetto dell’area di vincolo cimiteriale.
E dal momento che non è contestato che le stesse capanne insistono entro la fascia di 200 metri del vincolo cimiteriale, come indicato nei provvedimenti di diniego impugnati, e che la sussistenza di un tale vincolo sia ostativo alla permanenza di opere rilevanti sul piano urbanistico-edilizio, le opere realizzate abusivamente non sono sanabili stante l’inedificabilità assoluta derivante dal disposto dell’art. 338 del testo unico sulla sanità.
Va comunque rilevato, per completezza, che il vincolo cimiteriale riguarda anche gli edifici sparsi (Cons. Stato, V, 14/09/2010, n. 6671; idem, 03/05/2007, n. 1933; TAR Campania, Napoli, II, 13/02/2009, n. 802; idem, 25/01/2007, n. 711) utilizzati per il ricovero di attrezzi agricoli o aventi destinazione diversa da quella abitativa (Cons. Stato, V, 23/08/2000, n. 4574), ponendosi persino rispetto ad essi l'esigenza, perseguita dall'art. 338, comma 1, del R.D. n. 1265/1934, di salvaguardare la salubrità pubblica e di consentire futuri ampliamenti del cimitero (TAR Toscana, sez. III, 25.10.2011 n. 1542; TAR Abruzzo, L'Aquila, I, 14/10/2008, n. 1141).
Infatti, l'apposizione del vincolo in questione persegue una molteplicità di interessi pubblici: la tutela di esigenze igienico sanitarie e della sacralità del luogo, l'interesse a mantenere un'area di possibile espansione del perimetro cimiteriale; pertanto anche la costruzione di case sparse, e persino la realizzazione di edifici isolati non destinati ad abitazione, deve rispettare la distanza minima di 200 metri, senza che sia richiesta all'Ente pubblico una valutazione in concreto della compatibilità della presenza del manufatto rispetto al vincolo de quo (Tar Toscana, sez. II, 27.11.2008, n. 3046; Cons. Stato, sez. V, 03.05.2007, n. 1933; idem, 27.08.1999, n. 1006) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.11.2013 n. 1553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile a un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua conseguente funzione di co-gestione del vincolo.
Infondato è anche l’ulteriore motivo col quale si denuncia l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente il vizio di mancata acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, tornando parte appellante a insistere nella propria tesi secondo cui tale assenso sarebbe implicito nella mancata partecipazione della competente Soprintendenza alla conferenza di servizi che ha istruito il permesso di costruire de quo.
Al riguardo, in disparte i rilievi svolti dal primo giudice in ordine alla non significatività di tale mancata partecipazione anche per le circostanze di tempo e di luogo in cui si è verificata, la Sezione non ritiene di doversi discostare dal consolidato indirizzo secondo cui il modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile a un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua conseguente funzione di co-gestione del vincolo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.04.2011, nr. 2378; id., 11.12.2008, nr. 5620)  (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2013 n. 3755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva punibile anche per colpa.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva, sia negoziale sia materiale, possa essere commessa anche per colpa, non è ravvisabile, infatti, alcuna eccezione al principio generale stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4° comma, cod. pen..
Il venditore non può predisporre l'alienazione degli immobili in una situazione produttrice di alterazione o immutazione circa la programmata destinazione della zona in cui gli stessi sono situati ed i soggetti che acquistano devono essere cauti e diligenti nell'acquisire conoscenza delle previsioni urbanistiche e pianificatorie di zona
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.11.2013 n. 45611 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Necessità di valutazione unitaria dell'intervento edilizio.
Un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non posso essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.11.2013 n. 45598 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Legittimità ordinanza del Sindaco dall’art. 17, comma 2, del d.lgs. 22/1997 per bonifica e ripristino ambientale.
E’ legittima l’ordinanza del Sindaco con la quale è stato ordinato di provvedere, secondo quanto previsto dall’art. 17, comma 2, del D.Lgs. n. 22/1997 e s.m.i., alla messa in sicurezza, alla bonifica ed al ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali derivi pericolo di inquinamento.
E’ stato affermato in giurisprudenza che la responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da quella del proprietario non inquinatore, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate.
Dalla natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997, in connessione con una condotta «anche accidentale», ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/ o il suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario «chi inquina paga», principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15, direttiva n. 91/156, di cui il d.lgs. del 1997 costituisce recepimento
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sviluppo sostenibile. Legittimità autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di un impianto fotovoltaico in zona agricola.
L’art. 12, settimo comma, del d.lgs. 29.12.2003, n. 387, esplicitamente ammette la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili anche nelle zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici.
La norma costituisce, più che espressione di un principio, attuazione dell’obbligo assunto dalla Repubblica nei confronti dell’Unione Europea di rispetto della normativa dettata da quest’ultima con la richiamata direttiva 2001/77/CE.
Di conseguenza, la stessa vincola l’interpretazione della pur sopravvenuta legge regionale del Veneto 23.04.2004, n. 44, che non può essere intesa nel senso dell’implicita abrogazione della norma statale
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013, n. 4755 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità computo ai fini del costo di costruzione della superficie interrata destinata a parcheggi pertinenziali.
L’art. 9 della legge n. 122/1989 trova applicazione soltanto nelle ipotesi di creazione di parcheggi a favore del patrimonio edilizio già esistente e che sia privo di superfici con tale destinazione, ma non può estendersi anche alla diversa ipotesi inerente la edificazione di nuovi fabbricati in cui siano contestualmente previste anche superfici per parcheggio, da realizzare obbligatoriamente nella misura di legge.
La norma anzidetta stabilisce che l’esecuzione dei parcheggi interrati, assentibile previa autorizzazione gratuita, anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, deve essere destinata a pertinenza delle singole unità immobiliari esistenti, con riferimento alle quali soltanto è possibile realizzare, nel sottosuolo o nel piano terreno del fabbricato, un parcheggio, che nasce come pertinenza dell’unità medesima.
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I parcheggi obbligatori di cui all'art. 2, comma 2, l. 122/1989 costituiscono pertinenza in senso civilistico dell’unità immobiliare principale e, quindi, ne seguono la sorte ai fini del computo delle SNR e del calcolo dei corrispondenti oneri concessori.
La norma dell’art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga “agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti” è di stretta interpretazione per cui deve trovare rigorosa applicazione solo nelle fattispecie in essa espressamente previsti.
La norma anzidetta stabilisce che l’esecuzione dei parcheggi interrati, assentibile previa autorizzazione gratuita, anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, deve essere destinata a pertinenza delle singole unità immobiliari esistenti, con riferimento alle quali soltanto è possibile realizzare, nel sottosuolo o nel piano terreno del fabbricato, un parcheggio, che nasce come pertinenza dell’unità medesima.
Dalla natura “eccezionale” della disposizione legislativa de qua, discende, in coerenza con il divieto di cui all’art. 14 delle Disposizioni Preliminari al Codice Civile, che l’art. 9 della legge n. 122/1989 trova applicazione soltanto nelle ipotesi di creazione di parcheggi a favore del patrimonio edilizio già esistente e che sia privo di superfici con tale destinazione, ma non può estendersi anche alla diversa ipotesi inerente la edificazione di nuovi fabbricati in cui siano contestualmente previste anche superfici per parcheggio, da realizzare obbligatoriamente nella misura di legge.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente, cui questa sezione intende dare continuità, l’art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, concerne i soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l’art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l’art. 41-sexies, della legge fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l’obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.03.2011 n. 1565; sez. V, 24.10.2000 n. 5676; 27.09.1999 n. 1185).
Nella specie, poiché non è controverso che l’intervento edilizio abbia riguardato una costruzione di nuova realizzazione, devono, per l’effetto, ritenersi prive di consistenza le doglianze della parte ricorrente, poiché i parcheggi obbligatori di cui al richiamato art. 2, comma 2, costituiscono pertinenza in senso civilistico dell’unità immobiliare principale e, quindi, ne seguono la sorte ai fini del computo delle SNR e del calcolo dei corrispondenti oneri concessori (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.09.2013 n. 2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di conformità), comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto, con conseguente onere impugnatorio immediato da parte del soggetto richiedente del diniego tacito in tal modo formatosi sulla sua istanza.
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L'accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 investe profili distinti ed autonomi rispetto all'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004. Cosicché le vicende concernenti il primo procedimento non sono da reputarsi suscettibili di incidere sull'iter corrispondente al secondo.

L’art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di conformità), comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto (Cons. St., sez. IV, 13.01.2010, n. 100), con conseguente onere impugnatorio immediato da parte del soggetto richiedente del diniego tacito in tal modo formatosi sulla sua istanza.
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In particolare, la giurisprudenza ha precisato che “L'accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 investe profili distinti ed autonomi rispetto all'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004. Cosicché le vicende concernenti il primo procedimento non sono da reputarsi suscettibili di incidere sull'iter corrispondente al secondo” (Tar Napoli, sez. VIII, 01.09.2011, n. 4270) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGOIl Collegio condivide la tesi del ricorrente, circa la natura speciale della normativa che disciplina il funzionamento della Polizia Municipale, aspetto questo che la giurisprudenza pacificamente presuppone perché la considera una condizione di autonomia del Corpo rispetto all’organizzazione dell’Ente, servente e funzionale alla garanzia delle peculiari funzioni di vigilanza, ordine pubblico, controllo del territorio e così via.
Per tali ragioni, la giurisprudenza consolidata statuisce che, nell'ambito dell'organizzazione comunale deve essere sempre garantita la totale autonomia del Corpo di polizia municipale per quanto concerne le competenze di cui all'art. 9 l. n. 65 del 1986 ed è anche per tali ragioni che, una volta eretta in Corpo, la polizia municipale non può essere considerata una struttura intermedia in una struttura burocratica più ampia, per esempio un settore amministrativo, né essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo di tale struttura.
Si è quindi espressamente riconosciuto che la legge quadro n. 65/1986 riveste, tuttora, carattere di "legge generale", per quanto attiene alla definizione dei principi organizzativi dei comuni nello specifico settore della polizia municipale -dal momento che è diretta a fissare i principi generali cui dovranno adeguarsi la legislazione regionale ed il potere regolamentare dell'ente locale-, nonché possiede un indubbio carattere di "specialità" che non consente l'abrogazione implicita da parte della sopravvenuta legge di riforma del sistema delle autonomie locali (TAR Lazio Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305, già richiamata, secondo cui la materia della polizia amministrativa locale, afferendo piuttosto al "governo del territorio", non rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, c. 2, lett. h, Cost., bensì in quella concorrente Stato-Regione (art. 117, c. III, Cost.).
Dunque, la particolarità delle funzioni che la Polizia Municipale è chiamata ad assolvere ne rende l’ordinamento distinto dalle disposizioni generali in tema di organizzazione degli Enti locali, che possono trovare applicazione ad esso solamente laddove non diversamente disposto dalla normativa speciale e di settore, e solo a fini di coordinamento tra l’organizzazione della Polizia Municipale ed il resto dell’organizzazione comunale.
In questo senso, ed ancora richiamando quanto affermato in giurisprudenza, tra le due discipline sussiste un “punto di equilibrio” che “consiste …nel riconoscere la piena autonomia del comandante limitatamente alla sfera di competenze che con carattere di tassatività sono state individuate nei competenti articoli della legge quadro nazionale e regionale di settore, come la gestione delle risorse assegnate, l'impiego tecnico-operativo, la disciplina e l'addestramento degli appartenenti al corpo o al servizio….. mentre la suddetta autonomia esclusiva non può, in astratto, impedire che il Comandante della P.M., per gli aspetti organizzativi che esulano appunto dall'impiego tecnico operativo, dall'addestramento e dalla disciplina dei vigili, possa formalmente essere inquadrato in un settore amministrativo.
Viene in gioco, al riguardo, la (discrezionale) potestà amministrativa che consente al comune di organizzare la polizia locale, anziché come "Corpo", in "Servizio" autonomo all'interno di un più vasto "Settore" (macro organizzazione), nell'ambito del quale possono confluire, per ragioni di economicità ed efficienza, anche altri "Servizi" oltre quello di vigilanza.
In tali casi, è legittimo che la direzione dell'intero "settore" (comprensivo di più "servizi") sia affidata ad un dirigente amministrativo (non graduato); si tratta, infatti, di una scelta in linea non solo con la temporaneità ed interscambiabilità degli incarichi dirigenziali (art. 109, D.Lvo n. 267/2000; art. 2103 Cod. civ.) bensì, anche con il principio, posto dal buon senso, prima ancora che dalla legge, della esclusività e necessità delle funzioni di polizia per cui é ragionevole che chi deve controllare sia ed appaia "terzo" rispetto alle situazioni oggetto del controllo; una scelta volta anche ad eliminare possibili situazioni di incompatibilità della funzione di comandante con altre funzioni o incarichi all'interno dell'amministrazione comunale.
L'unica condizione dovrà essere che al Comandante collocato alle dipendenze del dirigente del settore non siano sottratte le esclusive attribuzioni garantitegli dalla legge".
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Non può negarsi il potere del Comune di modificare l’assetto di un Settore di Polizia Municipale trasformandolo in Servizio.
Infatti, la giurisprudenza riconosce, sul piano delle scelte di politica organizzativa interna dell’Ente, il potere del Comune di strutturare la propria Polizia Municipale in Settore oppure in Corpo e tale potere non può essere scisso dalla possibilità di trasformare l’uno nell’altro e viceversa, a seconda delle esigenze organizzative dell’Ente, le sue dimensioni, e nel rispetto dei presupposti di legge e con la precisazione che, in ogni caso il vertice della Polizia Municipale deve essere salvaguardato nella sua autonomia rispetto all’organo politico ed alle rimanenti strutture amministrative dell’Ente, nell’esercizio delle proprie funzioni.
Tuttavia, si deve trarre da quanto esposto l’ulteriore corollario che la possibilità di trasformare un Settore di Polizia Municipale in Servizio è una scelta non rimessa alla mera discrezionalità dell’Ente, ma da esercitarsi in un contesto generale di razionalità, e con caratteristiche tali da palesarne la logica in termini di efficacia, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa, sul piano organizzativo.
Sebbene è vero che gli atti di organizzazione non richiedono una puntuale motivazione, è altrettanto vero che la contestazione di atti di macroorganizzazione che è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo, comporta necessariamente che sia possibile censurare da parte del ricorrente la coerenza dell’organizzazione dell’Ente con gli scopi istituzionali che quell’organizzazione deve presupporre e perseguire, ciò che fonda l’obbligo processuale dell’Amministrazione di dimostrare in giudizio la sussistenza di criteri di razionalità ed efficienza nella scelta organizzativa oggetto di causa.
In altri termini, ciò che difetta, ex lege 241/1990, in termini di obbligo puntuale di motivazione negli atti di macroorganizzazione, è compensato dalla necessità di sindacarne i limiti in relazione al principio di legalità di cui all’art. 97 della Cost. a norma del quale i pubblici uffici sono organizzati secondo legge. Tale previsione radica un obbligo di conformazione delle scelte organizzative di un Ente locale ai principi informatori che la legge pone come scopo funzionale dell’organizzazione medesima: invero, l’organizzazione di un pubblico ufficio altro non è, sul piano strutturale, che la precondizione necessaria allo svolgimento delle funzioni che la PA è chiamata ad assolvere e la sua struttura deve possedere i requisiti necessari a consentire in termini di effettività e di efficacia lo svolgimento di esse.
Si deve quindi affermare che può formare oggetto di giudizio e dunque di sindacato del giudice amministrativo la coerenza delle scelte di macroorganizzazione di un Ente con le finalità specifiche di servizio che la legge, o gli atti regolamentari e statutari che, in forza di legge, sono adottati dagli Enti locali, pongono in relazione all’organizzazione della PA, sotto il profilo dell’accertamento dell’attitudine dell’organizzazione e della sua struttura ad assolvere i compiti di istituto assegnati.
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La censura con la quale si lamenta l’immotivata ed irrazionale destrutturazione della Polizia Municipale mediante la sostituzione integrale della originaria dotazione organica di sette unità di categoria “C” e “D” in sei unità di categoria “B” ed una di categoria “D”, senza alcuna utilità sul piano organizzativo e dell’assolvimento del servizio, va ritenuta fondata, analogamente a quanto già statuito in fattispecie analoghe.
Infatti, dalle difese comunali e dagli atti amministrativi impugnati o quelli comunque versati in giudizio, non risulta emergere alcuna coerenza nel depotenziamento della Polizia Municipale del Comune mediante la dequalificazione radicale del suo organico, rispetto alle esigenze di servizio che la legge prefigge.
A fronte di un organico perfettamente idoneo –per qualifiche previste- a svolgere tutti i compiti che la legge assegna alla Polizia Municipale, con particolare riferimento a quelli, di delicata natura, di accertamento e prevenzione, tutela dell’ordine pubblico e funzioni di polizia giudiziaria, la Polizia Municipale riformata in un servizio composto per la quasi totale prevalenza da ausiliari alla sosta è strutturalmente posta nelle condizioni di non poter più adempiere a quasi nessuno dei propri compiti istituzionali e tutto ciò senza che si possa ravvisare dal complesso degli atti versati in giudizio, alcuna ragionevole motivazione organizzativa in tal senso.
Né soccorre, anche in via meramente ipotetica, una eventuale ragione di esigenze di risparmio di spesa, peraltro insufficienti di per sé a giustificare un così drastico ridimensionamento di un settore così complesso, perché, in ogni caso, avrebbero richiesto una efficace dimostrazione anche in giudizio (per chiarire, ad esempio, la convenienza di un minimo risparmio in termini di organico rispetto ai mancati introiti derivanti all’Ente dalla cessazione dei controlli sul territorio dal punto di vista delle violazioni commerciali ed edilizie, per non parlare dell’accertamento dei tributi e delle tariffe in sede locale e così via).
Le deliberazioni impugnate sono dunque illegittime, e, nella parte di interesse, vanno annullate, con conseguente riviviscenza delle deliberazioni in precedenza adottate che istituivano e disciplinavano il Corpo di Polizia Municipale e la sua dotazione organica di sei unità di ctg “C”.
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La natura speciale della disciplina della Polizia Municipale conduce a negare che la disposizione di cui all’art. 53 della l. 23.12.2000, n. 338 (L.F. 2001), così come modificato dall’art. 29, comma 4, L. 28.12.2001, n. 448 (L.F. 2002) trovi applicazione alla Polizia Municipale, il cui ordinamento è retto dalla l. 65/1986 che dispone puntualmente (ed in maniera disomogenea rispetto alle previsioni generali di cui all’art. 107 Dlgs 267/2000) quanto alla responsabilità ed alla direzione delle relative unità organizzative, una volta istituito il Corpo di Polizia Municipale.
La disposizione, infatti, così recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Di conseguenza la disposizione eccezionale, come tale di stretta interpretazione (e che, come anticipato prima, presuppone l’attuazione della deroga in via necessariamente regolamentare e non per mero atto del Sindaco) consente di derogare solamente alle disposizioni generali costituite dall’art. 107 del Dlgs 267/2000, oltre che del Dlgs 29/1993 e dunque non permette alcuna interpretazione estensiva che conduca a ritenere di poter consentire la deroga della l. 65/1986 (e, di conseguenza, alle LR in materia di Polizia Municipale).
Peraltro, sotto il profilo della ratio di questa differenziazione, la normativa di cui alla l. 65/1986 non è assimilabile alla disciplina generale di cui al menzionato art. 107, perché delinea un rapporto tra Sindaco e Comandante della Polizia Municipale che è particolare ed esclusivo, in quanto è fondato sulla dualità delle funzioni, che non possono sommarsi nella medesima persona o nel medesimo organo e che va comunque assicurata (e si è visto sub I che la giurisprudenza ritiene speciale la disciplina di cui alla legge 65/1986 rispetto a quella generale degli impieghi) anche perché il responsabile di un ufficio di Polizia Municipale ha compiti di legge che presuppongono l’appartenenza organica all’Ente e non può quindi comunque identificarsi nel Sindaco.

E' necessario, per esaminare le diverse censure proposte dal ricorrente, premettere una sintetica analisi del contesto normativo di riferimento.
A tale proposito, il Collegio condivide la tesi del ricorrente, circa la natura speciale della normativa che disciplina il funzionamento della Polizia Municipale, aspetto questo che la giurisprudenza pacificamente presuppone perché la considera una condizione di autonomia del Corpo rispetto all’organizzazione dell’Ente, servente e funzionale alla garanzia delle peculiari funzioni di vigilanza, ordine pubblico, controllo del territorio e così via.
Per tali ragioni, la giurisprudenza consolidata statuisce che, nell'ambito dell'organizzazione comunale deve essere sempre garantita la totale autonomia del Corpo di polizia municipale per quanto concerne le competenze di cui all'art. 9 l. n. 65 del 1986 (TAR Lombardia Milano, sez. III, 10.09.2009, n. 4639, che richiama Cass. 09.05.2006, n. 10628; Consiglio Stato, sez. V, 20.01.2003, n. 173; Consiglio Stato , sez. V, 17.02.2006, n. 616; TAR Puglia Bari, sez. II, 12.03.2004, n. 1288; TAR Lazio Roma, sez. II, 10.03.1998 , n. 385; TAR Veneto, sez. II, 30.05.1997, n. 915; TAR Marche, 09.11.1995, n. 547) ed è anche per tali ragioni che, una volta eretta in Corpo, la polizia municipale non può essere considerata una struttura intermedia in una struttura burocratica più ampia, per esempio un settore amministrativo, né essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo di tale struttura (TAR Lazio Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305 che richiama Tar Sicilia, Catania, sez. I, 13.04.2006, n. 589; C.d.s. 04/09/2000 n. 4663).
Si è quindi espressamente riconosciuto che la legge quadro n. 65/1986 riveste, tuttora, carattere di "legge generale", per quanto attiene alla definizione dei principi organizzativi dei comuni nello specifico settore della polizia municipale -dal momento che è diretta a fissare i principi generali cui dovranno adeguarsi la legislazione regionale ed il potere regolamentare dell'ente locale-, nonché possiede un indubbio carattere di "specialità" che non consente l'abrogazione implicita da parte della sopravvenuta legge di riforma del sistema delle autonomie locali (TAR Lazio Latina, sez. I, 28.04.2007, n. 305, già richiamata, secondo cui la materia della polizia amministrativa locale, afferendo piuttosto al "governo del territorio", non rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, c. 2, lett. h, Cost., bensì in quella concorrente Stato-Regione (art. 117, c. III, Cost.).
Dunque, la particolarità delle funzioni che la Polizia Municipale è chiamata ad assolvere ne rende l’ordinamento distinto dalle disposizioni generali in tema di organizzazione degli Enti locali, che possono trovare applicazione ad esso solamente laddove non diversamente disposto dalla normativa speciale e di settore, e solo a fini di coordinamento tra l’organizzazione della Polizia Municipale ed il resto dell’organizzazione comunale.
In questo senso, ed ancora richiamando quanto affermato in giurisprudenza, tra le due discipline sussiste un “punto di equilibrio” che “consiste …nel riconoscere la piena autonomia del comandante limitatamente alla sfera di competenze che con carattere di tassatività sono state individuate nei competenti articoli della legge quadro nazionale e regionale di settore, come la gestione delle risorse assegnate, l'impiego tecnico-operativo, la disciplina e l'addestramento degli appartenenti al corpo o al servizio….. mentre la suddetta autonomia esclusiva non può, in astratto, impedire che il Comandante della P.M., per gli aspetti organizzativi che esulano appunto dall'impiego tecnico operativo, dall'addestramento e dalla disciplina dei vigili, possa formalmente essere inquadrato in un settore amministrativo.
Viene in gioco, al riguardo, la (discrezionale) potestà amministrativa che consente al comune di organizzare la polizia locale, anziché come "Corpo", in "Servizio" autonomo all'interno di un più vasto "Settore" (macro organizzazione), nell'ambito del quale possono confluire, per ragioni di economicità ed efficienza, anche altri "Servizi" oltre quello di vigilanza.
In tali casi, è legittimo che la direzione dell'intero "settore" (comprensivo di più "servizi") sia affidata ad un dirigente amministrativo (non graduato); si tratta, infatti, di una scelta in linea non solo con la temporaneità ed interscambiabilità degli incarichi dirigenziali (art. 109, D.Lvo n. 267/2000; art. 2103 Cod. civ.) bensì, anche con il principio, posto dal buon senso, prima ancora che dalla legge, della esclusività e necessità delle funzioni di polizia per cui é ragionevole che chi deve controllare sia ed appaia "terzo" rispetto alle situazioni oggetto del controllo; una scelta volta anche ad eliminare possibili situazioni di incompatibilità della funzione di comandante con altre funzioni o incarichi all'interno dell'amministrazione comunale.
L'unica condizione dovrà essere che al Comandante collocato alle dipendenze del dirigente del settore non siano sottratte le esclusive attribuzioni garantitegli dalla legge
” (TAR Lazio, sent. nr. 305/2007, che nei casi in cui il comune organizza le proprie strutture in Settori, ha ritenuto legittimo che l'attività di polizia municipale venga organizzata, ai sensi dell'art. 12, c. I, l.r. Lazio n. 1/2005, in "servizio" all'interno della più vasta struttura (il "settore") articolata in una pluralità di "servizi" con al vertice un dirigente amministrativo con compiti di coordinamento strutturale, con la sola condizione, per la legittimità dell'opzione, di salvaguardare l'autonomia funzionale e gerarchica del comandante, limitatamente all'esercizio delle prerogative di cui all'art. 9, L. n. 65/1986, per le quali il comandante deve rapportarsi unicamente ed esclusivamente al sindaco).
Dal quadro appena esposto, emerge dunque che non può negarsi il potere del Comune di modificare l’assetto di un Settore di Polizia Municipale trasformandolo in Servizio, ed in questo la tesi difensiva di parte ricorrente va disattesa.
Infatti, la giurisprudenza riconosce, sul piano delle scelte di politica organizzativa interna dell’Ente, il potere del Comune di strutturare la propria Polizia Municipale in Settore oppure in Corpo e tale potere non può essere scisso dalla possibilità di trasformare l’uno nell’altro e viceversa, a seconda delle esigenze organizzative dell’Ente, le sue dimensioni, e nel rispetto dei presupposti di legge e con la precisazione che, in ogni caso il vertice della Polizia Municipale deve essere salvaguardato nella sua autonomia rispetto all’organo politico ed alle rimanenti strutture amministrative dell’Ente, nell’esercizio delle proprie funzioni.
Tuttavia, a vantaggio delle tesi di parte ricorrente, si deve trarre da quanto esposto l’ulteriore corollario che la possibilità di trasformare un Settore di Polizia Municipale in Servizio è una scelta non rimessa alla mera discrezionalità dell’Ente, ma da esercitarsi in un contesto generale di razionalità, e con caratteristiche tali da palesarne la logica in termini di efficacia, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa, sul piano organizzativo.
Sebbene è vero che gli atti di organizzazione non richiedono una puntuale motivazione, è altrettanto vero che la contestazione di atti di macroorganizzazione che è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo, comporta necessariamente che sia possibile censurare da parte del ricorrente la coerenza dell’organizzazione dell’Ente con gli scopi istituzionali che quell’organizzazione deve presupporre e perseguire, ciò che fonda l’obbligo processuale dell’Amministrazione di dimostrare in giudizio la sussistenza di criteri di razionalità ed efficienza nella scelta organizzativa oggetto di causa.
In altri termini, ciò che difetta, ex lege 241/1990, in termini di obbligo puntuale di motivazione negli atti di macroorganizzazione, è compensato dalla necessità di sindacarne i limiti in relazione al principio di legalità di cui all’art. 97 della Cost. a norma del quale i pubblici uffici sono organizzati secondo legge. Tale previsione radica un obbligo di conformazione delle scelte organizzative di un Ente locale ai principi informatori che la legge pone come scopo funzionale dell’organizzazione medesima: invero, l’organizzazione di un pubblico ufficio altro non è, sul piano strutturale, che la precondizione necessaria allo svolgimento delle funzioni che la PA è chiamata ad assolvere e la sua struttura deve possedere i requisiti necessari a consentire in termini di effettività e di efficacia lo svolgimento di esse.
Si deve quindi affermare che può formare oggetto di giudizio e dunque di sindacato del giudice amministrativo la coerenza delle scelte di macroorganizzazione di un Ente con le finalità specifiche di servizio che la legge, o gli atti regolamentari e statutari che, in forza di legge, sono adottati dagli Enti locali, pongono in relazione all’organizzazione della PA, sotto il profilo dell’accertamento dell’attitudine dell’organizzazione e della sua struttura ad assolvere i compiti di istituto assegnati.
Alla luce di ciò, la censura con la quale si lamenta l’immotivata ed irrazionale destrutturazione della Polizia Municipale mediante la sostituzione integrale della originaria dotazione organica di sette unità di categoria “C” e “D” in sei unità di categoria “B” ed una di categoria “D”, senza alcuna utilità sul piano organizzativo e dell’assolvimento del servizio, va ritenuta fondata, analogamente a quanto già statuito in fattispecie analoghe (cfr. TAR Sicilia Catania, sez. I, 13.04.2006, n. 589, alla cui approfondita motivazione si rinvia).
Infatti, dalle difese comunali e dagli atti amministrativi impugnati o quelli comunque versati in giudizio, non risulta emergere alcuna coerenza nel depotenziamento della Polizia Municipale del Comune di Bova Marina mediante la dequalificazione radicale del suo organico, rispetto alle esigenze di servizio che la legge prefigge.
A fronte di un organico perfettamente idoneo –per qualifiche previste- a svolgere tutti i compiti che la legge assegna alla Polizia Municipale, con particolare riferimento a quelli, di delicata natura, di accertamento e prevenzione, tutela dell’ordine pubblico e funzioni di polizia giudiziaria, la Polizia Municipale riformata in un servizio composto per la quasi totale prevalenza da ausiliari alla sosta è strutturalmente posta nelle condizioni di non poter più adempiere a quasi nessuno dei propri compiti istituzionali e tutto ciò senza che si possa ravvisare dal complesso degli atti versati in giudizio, alcuna ragionevole motivazione organizzativa in tal senso.
Né soccorre, anche in via meramente ipotetica, una eventuale ragione di esigenze di risparmio di spesa, peraltro insufficienti di per sé a giustificare un così drastico ridimensionamento di un settore così complesso, perché, in ogni caso, avrebbero richiesto una efficace dimostrazione anche in giudizio (per chiarire, ad esempio, la convenienza di un minimo risparmio in termini di organico rispetto ai mancati introiti derivanti all’Ente dalla cessazione dei controlli sul territorio dal punto di vista delle violazioni commerciali ed edilizie, per non parlare dell’accertamento dei tributi e delle tariffe in sede locale e così via).
Le deliberazioni impugnate sono dunque illegittime, e, nella parte di interesse, vanno annullate, con conseguente riviviscenza delle deliberazioni in precedenza adottate che istituivano e disciplinavano il Corpo di Polizia Municipale e la sua dotazione organica di sei unità di ctg “C”.
Quanto al decreto sindacale nr. 1652 dell’08.03.2010, la riconosciuta interdipendenza funzionale tra la deliberazione di Giunta nr. 7/2010 ed il decreto nr. 1652/10 conduce intanto a rilevare che l’annullamento della prima comporta l’automatica caducazione del secondo (naturalmente nelle parti di interesse).
In ogni caso, richiamando quanto già esposto sub I, la natura speciale della disciplina della Polizia Municipale conduce a negare che la disposizione di cui all’art. 53 della l. 23.12.2000, n. 338 (L.F. 2001), così come modificato dall’art. 29, comma 4, L. 28.12.2001, n. 448 (L.F. 2002) trovi applicazione alla Polizia Municipale, il cui ordinamento è retto dalla l. 65/1986 che dispone puntualmente (ed in maniera disomogenea rispetto alle previsioni generali di cui all’art. 107 Dlgs 267/2000) quanto alla responsabilità ed alla direzione delle relative unità organizzative, una volta istituito il Corpo di Polizia Municipale.
La disposizione, infatti, così recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Di conseguenza la disposizione eccezionale, come tale di stretta interpretazione (e che, come anticipato prima, presuppone l’attuazione della deroga in via necessariamente regolamentare e non per mero atto del Sindaco) consente di derogare solamente alle disposizioni generali costituite dall’art. 107 del Dlgs 267/2000, oltre che del Dlgs 29/1993 e dunque non permette alcuna interpretazione estensiva che conduca a ritenere di poter consentire la deroga della l. 65/1986 (e, di conseguenza, alle LR in materia di Polizia Municipale).
Peraltro, sotto il profilo della ratio di questa differenziazione, la normativa di cui alla l. 65/1986 non è assimilabile alla disciplina generale di cui al menzionato art. 107, perché delinea un rapporto tra Sindaco e Comandante della Polizia Municipale che è particolare ed esclusivo, in quanto è fondato sulla dualità delle funzioni, che non possono sommarsi nella medesima persona o nel medesimo organo e che va comunque assicurata (e si è visto sub I che la giurisprudenza ritiene speciale la disciplina di cui alla legge 65/1986 rispetto a quella generale degli impieghi) anche perché il responsabile di un ufficio di Polizia Municipale ha compiti di legge che presuppongono l’appartenenza organica all’Ente e non può quindi comunque identificarsi nel Sindaco.
Tale principio è ancor più chiaramente rafforzato dalla LR Calabria nr. 24/1990 che all’art. 2 distingue chiaramente le funzioni del Sindaco da quelle non solo del Comandante, ma anche da quelle del responsabile del servizio.
Pertanto, anche sotto questo profilo, il ricorso è fondato e come tale va accolto, conseguendone l’annullamento degli atti impugnati, nella parte di interesse (ossia limitatamente alle disposizioni organizzative relative alla Polizia Municipale).
Allo scopo di dare compiuta attuazione alla pronuncia, ai sensi dell’art. 34, lett. “e” del c.p.a., il Collegio dispone che il Sindaco del Comune di Bova Marina provveda con proprio atto all’assegnazione della responsabilità del Corpo di Polizia Municipale a favore del ricorrente entro il termine di giorni 15 dalla comunicazione della presente sentenza o sua notifica a cura di parte, se anteriore e, con deliberazione di Giunta, si adegui il piano triennale delle risorse umane al fine di prevedere le necessarie forme di copertura del personale in dotazione organica che è individuato, salve ulteriori e motivate decisioni del Comune, nella dotazione risultante dalle deliberazioni anteriori a quelle impugnate che, per effetto dell’annullamento di queste ultime, trovano piena applicazione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 22.03.2011 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 07.01.2014

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IN EVIDENZA

Lombardia: il Tar boccia il Pgt che non prevede moschee.
Reazione a catena in tutta la Regione??

URBANISTICA: La delibera di approvazione del PGT va annullata nella parte in cui omette di apprezzare, attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e quante realtà sociali espressione di religioni non cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e di decidere motivatamente se e in che misura esse possano essere soddisfatte nel Piano dei servizi.
Il Piano dei servizi, che ai sensi dell’art. 7 della l.r. 12/2005 è una delle articolazioni del PGT, ai sensi del successivo art. 9, comma 4, “valuta prioritariamente l'insieme delle attrezzature al servizio delle funzioni insediate nel territorio comunale… e, in caso di accertata insufficienza o inadeguatezza delle attrezzature stesse, quantifica i costi per il loro adeguamento e individua le modalità di intervento. Analogamente il piano indica… le necessità di sviluppo e integrazione dei servizi esistenti, ne quantifica i costi e ne prefigura le modalità di attuazione..”.
Ai sensi degli artt. 71 e 72 della stessa l. 12/2005, fanno poi parte dei “servizi” che il relativo Piano deve considerare anche le “attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi”, da pianificare “valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Quest’ultima norma, infine, considera confessioni religiose le cui istanze vanno valutate non solo la Chiesa cattolica, ma anche tutte le altre “confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune ove siano effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo, ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali”. E’ poi del tutto manifesto che tali caratteri si riconoscono in una religione diffusa a livello mondiale come l’Islam.
La stessa norma richiama anche una “previa convenzione” fra le associazioni ed il Comune interessato, richiamo che però va interpretato in senso conforme alle norme che nel nostro ordinamento garantiscono la libertà di culto, ovvero l’art. 19 Cost., l’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848 e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tali termini, la stipula di una convenzione deve ritenersi richiesta per realizzare opere con “contributi e provvidenze” pubblici, non già semplicemente per essere presi in considerazione come realtà sociale ai fini della programmazione dei servizi religiosi, perché a pensarla altrimenti ogni Comune potrebbe scegliere in modo discrezionale di promuovere o avversare una qualche confessione religiosa rispetto ad altre.
Ciò posto, e a prescindere dalla generica possibilità, allegata dal Comune, di realizzare altrimenti i servizi religiosi in base alle norme comuni sulla modifica della destinazione d’uso di immobili esistenti, possibilità secondo logica dipendente dalle norme di zona, è accertato quanto l’associazione afferma, ovvero che (v. doc. 12 ricorrente, copia catalogo servizi esistenti; doc. 11 ricorrente, copia relazione generale al PGT, p. 92 § 10) nel redigere il Piano dei servizi sono stati considerati soltanto i servizi religiosi collegati alla Chiesa cattolica. Per conto, la presenza in Brescia di comunità di cittadini di religione musulmana è dato notorio a livello locale e nazionale.
La delibera di approvazione del PGT va pertanto annullata nella parte in cui omette di apprezzare, attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e quante realtà sociali espressione di religioni non cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e di decidere motivatamente se e in che misura esse possano essere soddisfatte nel Piano dei servizi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2013 n. 1176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Commenti a caldo sulla sentenza de qua:
Il Tar boccia il Pgt: non prevede moschee, l’ira di Maroni: «ricorsi contro questo virus» - Tutto il centrodestra contro la decisione. «Beccalossi: a Brescia la moschea c’è già. La Loggia impugni il provvedimento» (06.01.2014 - link a http://brescia.corriere.it).
Decide il Tar: una moschea per ogni città (06.01.2014 - link a http://www.laprovinciadilecco.it).
Brescia, il Tar boccia il Pgt per discriminazione contro l’Islam - Il presidente lombardo Maroni: “Sentenza-vergogna, fermeremo il virus (05.01.2014 - link a http://www.lastampa.it).
Bocciato il Pgt «Discrimina i non cattolici» - Il Tar contro la norma anti-moschee: «Ignorate le esigenze dei cittadini di altre religioni, in particolare degli islamici» (04.01.2014 - link a http://www.bresciaoggi.it).
Tar boccia Pgt Brescia perché non prevede aree per luoghi di culto per non cattolici - “Una sentenza che si farà sentire anche al di là dei confini” dice l’architetto Luciano Lussignoli, urbanista e tra i consulenti dell’associazione mussulmana al momento del ricorso. “La stragrande maggioranza dei Pgt dei centri lombardi e forse anche fuori dalla regione è scritta infatti come quello di Brescia" (03.01.2014 - link a http://www.ilfattoquotidiano.it).

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI - APPALTI: Sul riconoscimento, o meno, dei debiti fuori bilancio.
Il riconoscimento dei debiti fuori bilancio afferisce ad un istituto pubblicistico previsto dagli artt. 191 e 194 TUEL, che impone al Comune di valutare e apprezzare eventuali prestazioni rese in suo favore, ancorché in violazione formale delle norme di contabilità.
Trattasi di una novità rispetto al precedente assetto normativo della finanza locale (art. 35, comma 4, d.lgs. 25.02.1995, n.77 che prevedeva unicamente, in caso di acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi di contabilità, che “il rapporto obbligatorio intercorre(sse), ai fini della controprestazione, e per ogni effetto di legge, tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che (aveva) consentito la fornitura”).
L’art. 4 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, confluito nell’art. 191 del TUEL, ha introdotto il principio della validità del rapporto obbligatorio direttamente con l’Amministrazione, a condizione che la prestazione o il bene fornito siano riconoscibili come dei debiti fuori bilancio (art. 194) e, quindi, che siano passibili di dichiarazione di utilità da parte dell’ente, con conseguente previsione di spesa, anche fuori bilancio, nel caso in cui il relativo impegno non sia stato ancora previsto.
La ratio della disciplina contenuta nel TUEL è, quindi, quella di garantire il riconoscimento di debiti per prestazioni e servizi resi in favore dell’ente locale che, benché privi di titolo, siano considerati utili per l’amministrazione.
Si è recepita in definitiva quella che è stata l'elaborazione giurisprudenziale, in particolare della Corte dei conti, ma anche del giudice ordinario, stabilendo che sono permanentemente sanabili i debiti derivanti da acquisizioni di beni e servizi, relativi a spese assunte in violazione delle norme giuscontabili, per la parte di cui sia accertata e dimostrata l'utilità e l'arricchimento che ne ha tratto l'ente locale, sempre che rientrino nelle funzioni di competenza dell'ente.
Il riconoscimento del debito fuori bilancio costituisce, pertanto, atto dovuto come si desume dall’art. 194 del TUEL e l’amministrazione non può sottrarsi attraverso una semplice e immotivata comunicazione di un qualunque ufficio, essendo invece necessario un procedimento ad hoc.
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Quanto al procedimento per il riconoscimento del debito fuori bilancio, l’art. 194 del TUEL stabilisce che “con deliberazione consiliare di cui all’art. 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:… e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2, 3 dell’art. 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente, nell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
La proposta della deliberazione per il riconoscimento dei debiti spetta al responsabile del servizio competente per materia che dovrà accertare l’eventuale effettiva utilità che l'ente ha tratto dalla prestazione altrui, che è un concetto di carattere funzionale, costituendo l'arricchimento un concetto derivato, teso alla misurazione dell'utilità ricavata.
E’ quindi necessaria un’attività istruttoria da parte del responsabile del settore formalizzata in una relazione che contenga i riferimenti della situazione debitoria dell’ente da riconoscere eventualmente ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), del D.Lgs. n. 267/2000, la sussistenza dei requisiti oggettivi richiesti per il legittimo riconoscimento di ciascun debito, ovvero l’utilità e l’arricchimento per l’Ente di servizi acquisiti nell’ambito dell’espletamento di servizi di competenza.

E’ utile rammentare che il riconoscimento dei debiti fuori bilancio afferisce ad un istituto pubblicistico previsto dagli artt. 191 e 194 TUEL, che impone al Comune di valutare e apprezzare eventuali prestazioni rese in suo favore, ancorché in violazione formale delle norme di contabilità.
Trattasi di una novità rispetto al precedente assetto normativo della finanza locale (art. 35, comma 4, d.lgs. 25.02.1995, n. 77 che prevedeva unicamente, in caso di acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi di contabilità, che “il rapporto obbligatorio intercorre(sse), ai fini della controprestazione, e per ogni effetto di legge, tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che (aveva) consentito la fornitura”).
L’art. 4 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, confluito nell’art. 191 del TUEL, ha introdotto il principio della validità del rapporto obbligatorio direttamente con l’Amministrazione, a condizione che la prestazione o il bene fornito siano riconoscibili come dei debiti fuori bilancio (art. 194) e, quindi, che siano passibili di dichiarazione di utilità da parte dell’ente, con conseguente previsione di spesa, anche fuori bilancio, nel caso in cui il relativo impegno non sia stato ancora previsto.
La ratio della disciplina contenuta nel TUEL è, quindi, quella di garantire il riconoscimento di debiti per prestazioni e servizi resi in favore dell’ente locale che, benché privi di titolo, siano considerati utili per l’amministrazione.
Si è recepita in definitiva quella che è stata l'elaborazione giurisprudenziale, in particolare della Corte dei conti, ma anche del giudice ordinario, stabilendo che sono permanentemente sanabili i debiti derivanti da acquisizioni di beni e servizi, relativi a spese assunte in violazione delle norme giuscontabili, per la parte di cui sia accertata e dimostrata l'utilità e l'arricchimento che ne ha tratto l'ente locale, sempre che rientrino nelle funzioni di competenza dell'ente.
Il riconoscimento del debito fuori bilancio costituisce, pertanto, atto dovuto come si desume dall’art. 194 del TUEL e l’amministrazione non può sottrarsi attraverso una semplice e immotivata comunicazione di un qualunque ufficio, essendo invece necessario un procedimento ad hoc.
Quanto al procedimento per il riconoscimento del debito fuori bilancio, l’art. 194 del TUEL stabilisce che “con deliberazione consiliare di cui all’art. 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:… e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2, 3 dell’art. 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente, nell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
La proposta della deliberazione per il riconoscimento dei debiti spetta al responsabile del servizio competente per materia che dovrà accertare l’eventuale effettiva utilità che l'ente ha tratto dalla prestazione altrui, che è un concetto di carattere funzionale, costituendo l'arricchimento un concetto derivato, teso alla misurazione dell'utilità ricavata (Cassazione Civile, Sezione I, 12.07.1996, n. 6332).
E’ quindi necessaria un’attività istruttoria da parte del responsabile del settore formalizzata in una relazione che contenga i riferimenti della situazione debitoria dell’ente da riconoscere eventualmente ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), del D.Lgs. n. 267/2000, la sussistenza dei requisiti oggettivi richiesti per il legittimo riconoscimento di ciascun debito, ovvero l’utilità e l’arricchimento per l’Ente di servizi acquisiti nell’ambito dell’espletamento di servizi di competenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 05.08.2013 avevamo posto in evidenza la questione dal titolo "Sul termine ordinatorio e non perentorio dei 90 gg. entro cui bisogna approvare il PGT a pena di inefficacia degli atti assunti", sollevata dal TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508.
     Ora, anche il TAR Lombardia-Brescia, con due pronunce recentissime, affronta il tema -seppur di striscio- ed afferma che "... L’effettivo significato della norma è controverso in giurisprudenza".
     Bene, non ci resta far altro che attendere la presa di posizione del Consiglio di Stato (presto o tardi che sia ...).
07.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

URBANISTICA: Va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma è controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del termine “inefficacia”.
Salva e impregiudicata la relativa questione, è però certo che la procedura è regolarmente conclusa allorquando la delibera di approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal deposito.

... per l’annullamento, previa sospensione, della deliberazione 19.03.2012 n. 57, pubblicata sul BURL il 24.10.2012, con la quale il Consiglio comunale di Brescia ha approvato in via definitiva le controdeduzioni al Piano di governo del territorio – PGT e il PGT stesso, nella parte in cui ha disposto sull’area denominata unità di intervento L 2 1 “Pietra Curva” di proprietà della ricorrente, non consentendo di realizzarvi una grande struttura di vendita;
...
- con il secondo motivo, corrispondente alla censura seconda alle pp. 29-30, deduce violazione dell’art. 13, comma 7, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, per esser stato a suo dire superato il termine di 90 giorni accordato, sempre a suo dire a pena di decadenza di tutti gli atti, dalla norma suddetta per controdedurre alle osservazioni e approvare il PGT adottato;
...
Il secondo motivo di impugnazione è invece infondato in fatto.
Per chiarezza, va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma, così come ricordato anche dal Comune resistente e riportato in premesse, è controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del termine “inefficacia”. Salva e impregiudicata la relativa questione, è però certo che la procedura è regolarmente conclusa allorquando la delibera di approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal deposito
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005 dispone che "Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508- non va estesa agli atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una inutilizzabilità, che però non è nella legge.

Il primo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti va respinto.
La ricorrente invoca il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005, per cui “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508, citata anche dal Comune (memoria 02.11.2013 p. 18)- non va estesa agli atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Nulla vietava quindi che il Comune riadattasse il Piano con la precedente istruttoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici. Utilizzo del sistema AVCpass per la verifica dei requisiti.
Avviato il sistema AVCpass come previsto dalla Deliberazione n. 111 del 20.12.2012 e s.m.i. Oltre al Comunicato del Presidente del 17.12.2013, l’Avcp ha messo a disposizione di operatori economici e stazioni appaltanti una serie di servizi e strumenti per l’utilizzo del sistema.
Nella sezione Servizi del portale dell’Autorità, è presente un’area dedicata alla formazione da cui è possibile accedere a quattro moduli formativi sul sistema AVCpass: Registrazione e profilazione; Delibera n. 111/2012; AVCpass, nelle due componenti Operatore Economico e Stazione Appaltante. Ogni modulo formativo comprende sessioni basate su tecnologia WBT (Web Based Training), liberamente fruibili.
Tra i servizi on-line sono infine disponibili i manuali per l'utilizzo del sistema AVCpass, suddivisi per utenti (operatori economici o stazioni appaltanti) ed argomenti.
Si ricorda anche che il testo della Delibera AVCpass è stato aggiornato e corredato da una relazione (02.01.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: C. Volpe, La Corte di Giustizia dà il via libera all’avvalimento plurimo e frazionato (link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: M. Grisanti, Il MIBAC è assente! Le Soprintendenze locali, i Comuni e le Regioni si inventano le procedure e i controlli riguardo alla formazione degli strumenti urbanistici, mandando in soffitta l’art. 9 della Costituzione (20.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Sanzioni amministrative in edilizia. Clamorosa topica del Consiglio di Stato (commento a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.10.2013 n. 5158).
Di questi tempi (…) quando si verte in tema di sanzioni amministrative è sempre bene iniziare a precisare.
Il caso portato all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada era bene che non fosse nemmeno sorto, tanto che è finito peggio!
La vicenda riguarda l’elevazione di una sanzione pecuniaria amministrativa di £ 426.762.000 relativa ad opere realizzate (udite udite!) in “parziale difformità” dalla licenza comunale n. 4 rilasciata dal Sindaco di Napoli nell’anno 1949 che autorizzava la costruzione di un edificio residenziale condominiale.
La mia meraviglia non sta nel fatto che il provvedimento comunale riguarda una licenza del 1949, ma che il Comune abbia proceduto a comminare una sanzione amministrativa per una fattispecie di illecito –la parziale difformità– che è stata introdotta dal legislatore statale soltanto nel 1977 con la c.d. Legge Bucalossi.
Ma quando le cose nascono male, non possono che finire peggio! (... continua) (18.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Cassazione, inquinamento da leggi e trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario (11.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Gestione di rifiuti e responsabilità del Sindaco (08.11.2013 - link a www.industrieambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, Non è possibile costruire in assenza di fognature e impianti di depurazione anche in lotti interclusi (03.11.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Albanese, Inapplicabile il silenzio-assenso ex art. 13 della legge 394 del 1991, “Legge quadro sulle aree protette”. Il Consiglio di Stato ribalta la propria posizione: NO al silenzio-assenso nei Parchi (30.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G. Aiello, Gestione illecita dei rifiuti derivanti dalla demolizione in edilizia (28.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: M. Grisanti, E ora manca all’appello il Giudice amministrativo sempreché abbia competenza a decidere (commento a Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n. 23591).
Alla fine, dopo la Cassazione penale è arrivata anche quella civile.
E’ nullo il contratto preliminare di compravendita che abbia ad oggetto la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il fatto che l’art. 40, secondo comma, della legge n. 47/1985 faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia reale immediata, mentre il contratto preliminare di cui si discute abbia efficacia semplicemente obbligatoria non elimina dal punto di vista logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo per contrarietà alla legge
.” – Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n. 23591.
In sostanza, il Giudice civile ha implicitamente aderito alla tesi sostanzialistica del Giudice penale allorquando quest’ultimo statuisce che è abusivo l’immobile costruito in forza di un permesso di costruire sostanzialmente illegittimo. Non ponendosi quindi il problema di disapplicazione dell’atto amministrativo, ma quello di accertare, nel concreto, l’effettiva rispondenza dell’immobile alle leggi, ai regolamenti e agli strumenti urbanistici.
A questo punto rimane indietro il Giudice amministrativo, ma forse perché non è competente per giurisdizione. (... continua) (25.10.2013 - tratto da  www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, L'ineducazione dei comuni nel fare i propri interessi nella gestione dei rifiuti di imballaggi: prime osservazioni (25.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il parere vincolante del Soprintendente e la conferenza dei servizi nel procedimento di autorizzazione paesaggistica (all’indomani della sentenza n. 4914/2013 del Consiglio di Stato) (22.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: C. Basciu, Impianti fotovoltaici in zona agricola: i diritti degli agricoltori e gli obblighi nei confronti dell’Unione Europea (16.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il parere vincolante del Soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica è indefettibile. Sono finite le larghe intese sul paesaggio? (11.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Verderosa, Gli atti di assenso preventivi al rilascio del Permesso di Costruire quale presupposto legittimante per la validità del titolo edilizio (01.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. M. d'Eril, Reflui industriali, acque meteoriche di dilavamento: arresti (e qualche inciampo) nella giurisprudenza (link a www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. Ruga Riva, Il reato di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione: norma penale in bianco-verde per ogni irregolarità? (link a www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013).

URBANISTICA: M. G. Boccia, Primi orientamenti giurisprudenziali in merito alla procedura VAS (link a www.lexambiente.it - Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'effetto sospensivo della presentazione della domanda di accertamento di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego (art. 13, L. n. 47/1985; hodie art. 36, T.U. di cui al D.P.R. n. 380 del 2001).
Decorso questo termine, è onere della parte agire tempestivamente in giudizio per avversare le negative determinazioni o l’inerzia serbata dall’Amministrazione; in mancanza di che, il rigetto (espresso o tacito), diventa inoppugnabile e rende nuovamente operativa l'ingiunzione di demolizione senza che l'Amministrazione debba necessariamente rideterminarsi in proposito.
Il provvedimento demolitorio impugnato resta, dunque, valido ed efficace a fronte o del diniego esplicito oppure del silenzio serbato dall’Amministrazione (e non opposto dall’interessato) sulla domanda di sanatoria edilizia.
Più in particolare, l'avvenuta presentazione di un'istanza di accertamento di conformità non rende invalida l'ordinanza di demolizione ma la pone, in forza della pendenza del procedimento di sanatoria, in uno stato di momentanea quiescenza con la conseguenza che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l'ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell'Amministrazione (con conseguente sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul ricorso); mentre in caso di rigetto -anche silenzioso- dell'istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riprende efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione , dalla comunicazione del provvedimento con il quale è stata respinta la domanda di conservazione

La Sezione ha già avuto modo di chiarire che l'effetto sospensivo della presentazione della domanda di accertamento di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego (art. 13, L. n. 47/1985; hodie art. 36, T.U. di cui al D.P.R. n. 380 del 2001).
Decorso questo termine, è onere della parte agire tempestivamente in giudizio per avversare le negative determinazioni o l’inerzia serbata dall’Amministrazione; in mancanza di che, il rigetto (espresso o tacito), diventa inoppugnabile e rende nuovamente operativa l'ingiunzione di demolizione senza che l'Amministrazione debba necessariamente rideterminarsi in proposito.
Il provvedimento demolitorio impugnato resta, dunque, valido ed efficace a fronte o del diniego esplicito oppure del silenzio serbato dall’Amministrazione (e non opposto dall’interessato) sulla domanda di sanatoria edilizia (Tar Lazio, sez. II-ter, sent. n. 6911/2013).
Più in particolare, l'avvenuta presentazione di un'istanza di accertamento di conformità non rende invalida l'ordinanza di demolizione ma la pone, in forza della pendenza del procedimento di sanatoria, in uno stato di momentanea quiescenza con la conseguenza che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l'ordinanza demolitoria viene travolta dalla successiva contraria e positiva determinazione dell'Amministrazione (con conseguente sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul ricorso); mentre in caso di rigetto -anche silenzioso- dell'istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riprende efficacia, decorrendo, peraltro, il termine di 90 giorni per far luogo alla demolizione, dalla comunicazione del provvedimento con il quale è stata respinta la domanda di conservazione (ex plurimis, TAR Napoli Campania sez. III, 15.01.2013 n. 301) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 30.12.2013 n. 11171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea di massima, trattandosi di interventi di restauro e risanamento conservativo (art. 31, lett. c, L. n. 458 del 1978) gli stessi sconterebbero l’autorizzazione amministrativa e non la concessione edilizia.
E nel caso di tali opere "abusive" l’Amministrazione comunale dovrebbe infliggere, a fronte della riscontrata violazione (id est, assenza di autorizzazione) soltanto una sanzione pecuniaria (ex art. 10 della L. n. 47 del 1985).
Tuttavia, sussiste un'eccezione alla regola laddove l'ambito è vincolato dal punto di vista paesaggistico. Invero, l’art. 10, c. 3, della legge n. 47 del 1985 statuisce che: “Quando le opere realizzate senza autorizzazione consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457, eseguiti su immobili comunque vincolati da leggi statali e regionali nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l'autorità competente a vigilare sull'osservanza del vincolo, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del contravventore ....“.
In tal senso depone anche il Regolamento comunale di Ponza il cui art. 6, evocato dalle stesse ricorrenti, assoggetta a mera autorizzazione “le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti purché non sottoposti a vincoli ...”.
Acclarato, dunque, che le opere realizzate dalle ricorrenti ricadono in zona sottoposta a vincolo per le quali:
- l’art. 10, c. 3, della L. n. 47 del 1985 prevede la demolizione in funzione della “restituzione in pristino” dei luoghi;
- l’art. 6 del Regolamento comunale di Ponza esclude –ratione temporis- il regime semplificato dell’autorizzazione,
ne consegue che il provvedimento impugnato (di demolizione) resiste alle rubricate censure ed il ricorso, perciò, s’appalesa infondato.

Parte ricorrente sostiene che le opere de quibus scontino l’autorizzazione amministrativa e non la concessione edilizia, trattandosi di interventi di restauro e risanamento conservativo (art. 31, lett. c, L. n. 458 del 1978).
A fronte del regime permissivo meno rigoroso, l’Amministrazione comunale, dunque, avrebbe dovuto infliggere, a fronte della riscontrata violazione (id est, assenza di autorizzazione) soltanto una sanzione pecuniaria (ex art. 10 della L. n. 47 del 1985).
Ancor più, ove considerato l’art. 6 del regolamento comunale di Ponza (v. relazione tecnica allegata alla domanda di sanatoria) secondo cui rientrano tra gli interventi di restauro e risanamento conservativo, soggetti a mera autorizzazione (e non a concessione edilizia), “le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti ... ossia: opere accessorie ... ascensori, cantine, autorimesse private, rampe ecc., sistemazioni interne, scale sicurezza ecc.; 2)... volumi tecnici ...”.
Poiché nel caso di specie si tratta della “collocazione all’interno del cortile di una cisterna idrica, creazione di un’area per parcheggio privato scoperto, servito da una scala di collegamento”, le opere in questione dovrebbero scontare, ai sensi dell’art. 31, lett. c), della L. n. 458 del 1978 e dell’art. 6 del regolamento comunale di Ponza, l’autorizzazione comunale e non la concessione edilizia.
Il Collegio, pur condividendo la tesi che si tratti di opere astrattamente riconducibili alla categoria del ”restauro e risanamento conservativo”, non condivide, tuttavia, le conclusioni che parte ricorrente ne trae.
La zona in cui ricadono le opere de quibus risulta, infatti, soggetta a vincolo ambientale.
Tale circostanza (vincolo ambientale) risulta inequivocabilmente dall’esame della documentazione versata in atti (v. parere datato 14.09.1995, rilasciato ai sensi dell’art. 32 della L. n. 47 del 1985 dalla Regione Lazio -Assessorato urbanistica, Assetto del Territorio, Tutela Ambientale–, per il completamento funzionale del manufatto su cui insistono le opere abusive).
Ebbene, l’art. 10, c. 3, della citata legge n. 47 del 1985 statuisce che: “Quando le opere realizzate senza autorizzazione consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) del primo comma dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457, eseguiti su immobili comunque vincolati da leggi statali e regionali nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l'autorità competente a vigilare sull'osservanza del vincolo, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del contravventore ....“.
In tal senso depone anche il Regolamento comunale di Ponza il cui art. 6, evocato dalle stesse ricorrenti, assoggetta a mera autorizzazione “le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti purché non sottoposti a vincoli ...”.
Acclarato, dunque, che le opere realizzate dalle ricorrenti ricadono in zona sottoposta a vincolo per le quali:
- l’art. 10, c. 3, della L. n. 47 del 1985 prevede la demolizione in funzione della “restituzione in pristino” dei luoghi;
- l’art. 6 del Regolamento comunale di Ponza esclude –ratione temporis- il regime semplificato dell’autorizzazione,
ne consegue che il provvedimento impugnato resiste alle rubricate censure ed il ricorso, perciò, s’appalesa infondato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 30.12.2013 n. 11171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'effetto sospensivo della presentazione della domanda di accertamento di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego (art. 13, L. n. 47/1985).
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione di una costruzione abusiva non risulta, perciò, pregiudicata dalla presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 13, L. 47 del 1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 T.U. Edilizia), posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto; sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.

Il Collegio –in adesione all’orientamento della Sezione- premette che l'effetto sospensivo della presentazione della domanda di accertamento di conformità opera esclusivamente entro il lasso di tempo previsto dalla legge per la conclusione del procedimento di sanatoria edilizia o per il formarsi del silenzio-diniego (art. 13, L. n. 47/1985).
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione di una costruzione abusiva non risulta, perciò, pregiudicata dalla presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 13, L. 47 del 1985 (ora art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 T.U. Edilizia), posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto; sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l'istituto dell'accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 30.12.2013 n. 11166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 31, comma 1, lettera c), della L. 05.08.1978, n. 457 qualifica come interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili.
Ai sensi della richiamata disposizione tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso nonché l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio.
Interpretando le disposizioni ora trascritte, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo chiarito che possono qualificarsi come interventi di restauro e risanamento conservativo quegli interventi sistematici i quali, pur con rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio preesistente, ne conservano tipologia, forma e struttura.
Per contro, rientrano nella nozione di ristrutturazione edilizia le opere rivolte a creare un organismo in tutto o in parte diverso da quello oggetto di intervento.
Infatti la finalità specifica degli interventi di risanamento e restauro –che è appunto quella di rinnovare l’edificio in modo sistematico e globale- va perseguita nel rispetto dei suoi elementi essenziali dal punto di vista tipologico, formale e strutturale.

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Il manufatto realizzato dalla ricorrente ha, rispetto al fabbricato esistente, sia una cubatura diversa, notevolmente più ampia, stante la realizzazione di una “tromba piano garage in cemento armato di mt. 30 x 4 e 40 x 2,70 di altezza circa” funzionale al collegamento del piano terra al garage sottostante, che una sagoma diversa a cagione della realizzazione di cordoli perimetrali tra la gronda ed il colmo del tetto.
Sicché, tali opere necessitavano della concessione edilizia (ora permesso di costruire) e, conseguentemente, è legittimo l'ordine di demolizione (in assenza del titolo edilizio abilitativo).
L’affermazione, infine, per cui non sarebbe possibile l’abbattimento delle opere di cui all’ordinanza di demolizione impugnata a cagione del “pericolo di crollo di restanti parti regolari dell’edificio” s’appalesa del tutto apodittica non essendo stata, dalla ricorrente, meglio supportata e comprovata sul piano tecnico e scientifico.

Reputa il Collegio che l'impugnato ordine di demolizione deve senz'altro reputarsi legittimo, essendo stato emesso all'esito dell'accertata insussistenza della concessione edilizia (oggi, permesso di costruire).
L’art. 31, comma 1, lettera c), della L. 05.08.1978, n. 457, nel testo all’epoca vigente, qualifica come interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili.
Ai sensi della richiamata disposizione tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso nonché l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio.
Interpretando le disposizioni ora trascritte, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo chiarito che possono qualificarsi come interventi di restauro e risanamento conservativo quegli interventi sistematici i quali, pur con rinnovo di elementi costitutivi dell’edificio preesistente, ne conservano tipologia, forma e struttura (cfr. per tutte V Sez. n. 5273 del 2007).
Per contro, rientrano nella nozione di ristrutturazione edilizia le opere rivolte a creare un organismo in tutto o in parte diverso da quello oggetto di intervento.
Infatti la finalità specifica degli interventi di risanamento e restauro –che è appunto quella di rinnovare l’edificio in modo sistematico e globale- va perseguita nel rispetto dei suoi elementi essenziali dal punto di vista tipologico, formale e strutturale.
Ciò premesso, nel caso all’esame è acclarato –in base ai documenti versati nel corso del giudizio- che il manufatto realizzato dalla ricorrente ha, rispetto al fabbricato esistente, sia una cubatura diversa, notevolmente più ampia, stante la realizzazione di una “tromba piano garage in cemento armato di mt. 30 x 4 e 40 x 2,70 di altezza circa” funzionale al collegamento del piano terra al garage sottostante, che una sagoma diversa a cagione della realizzazione di cordoli perimetrali tra la gronda ed il colmo del tetto.
E che si tratti di opere diverse da quelle esistenti è comprovato dal fatto che di esse non è stata fatta menzione nella domanda di condono edilizio presentata dalla ricorrente ai sensi dell’art. 39 della L. n. 724 del 1994; omissione che l’interessata imputa al proprio, implausibile, convincimento che si trattasse di opere assoggettabili a denuncia di inizio attività (vedi perizia di parte par. 4).
L’affermazione, infine, per cui non sarebbe possibile l’abbattimento delle opere di cui all’ordinanza di demolizione impugnata a cagione del “pericolo di crollo di restanti parti regolari dell’edificio” (v. perizia di parte, pag. 4) s’appalesa del tutto apodittica non essendo stata, dalla ricorrente, meglio supportata e comprovata sul piano tecnico e scientifico
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 30.12.2013 n. 11166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di demolizione per effetto della presentazione della nuova domanda di condono ha perso, in parte qua, la propria efficacia lesiva con conseguente improcedibilità del ricorso.
Invero, ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso deve pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di demolizione, risulti successivamente presentata domanda per conseguire il condono edilizio; ciò in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40 comma 1, L. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie, con conseguente traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.

L’ordinanza di demolizione aveva contestato al ricorrente anche l’esecuzione di opere interne all’appartamento collegato alla veranda.
Per queste opere (unitamente ad altre successivamente realizzate e che hanno comportato una ristrutturazione dell’immobile), il ricorrente ha dichiarato di avere presentato nuova istanza di condono edilizio ai sensi della legge 24.11.2003, n. 326 sulla quale gli uffici capitolini sono in procinto di pronunciarsi (in atti è stata depositata la nuova domanda di condono del 10.09.2003).
Ebbene, l'ordinanza di demolizione per effetto della presentazione della nuova domanda di condono ha perso, in parte qua, la propria efficacia lesiva con conseguente improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. Stato Sez. V 21/11/2006 n. 6789; Tar Lazio Roma Sez. II 04/05/2007 n. 3837; Tar Campania Napoli Sez. IV 03/05/2007 n. 4657; Tar Lombardia Milano Sez. II 06/10/2009 n. 4762).
La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, chiarito che ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso deve pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di demolizione, risulti successivamente presentata domanda per conseguire il condono edilizio; ciò in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40, comma 1, L. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie, con conseguente traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva (v. Tar Campania, Napoli, 07/03/2013 n. 1310 e 03/04/2013 n. 1708) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 30.12.2013 n. 11164 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Giusto il disposto dell’art. 155 c.p.c., il termine che scade in un giorno festivo è prorogato di diritto al primo giorno successivo non festivo.
Si tratta infatti di norma del tutto generale sul computo dei termini, non certo specifica del solo processo civile: esattamente in termini, di recente, C.d.S. sez. VI 07.09.2012 n. 4752, che evidenzia come la regola sia posta anche da altre norme, l’art. 2963 c.c. in tema di prescrizione e l’art. 1187 c.c. in tema di obbligazioni.

Contrariamente a quanto afferma la ricorrente (memoria 15.11.2013 p. 7 prime righe) non vi è motivo alcuno per considerare non applicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 155 c.p.c., per cui il termine che scade in un giorno festivo è prorogato di diritto al primo giorno successivo non festivo.
Si tratta infatti di norma del tutto generale sul computo dei termini, non certo specifica del solo processo civile: esattamente in termini, di recente, C.d.S. sez. VI 07.09.2012 n. 4752, che evidenzia come la regola sia posta anche da altre norme, l’art. 2963 c.c. in tema di prescrizione e l’art. 1187 c.c. in tema di obbligazioni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le prescrizioni di un piano urbanistico attuativo (tale è il piano di lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino all’intervento di un nuovo piano urbanistico.
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a) è del tutto irrilevante che sia decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un nuovo atto di pianificazione.
Si è detto che le prescrizioni previste dal piano attuativo scaduto devono continuare ad essere osservate in applicazione dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942, n. 1150 (è stato precisato che l’efficacia decennale attiene ai poteri espropriativi, mentre restano inalterati a tempo indeterminato gli allineamenti, le prescrizioni, le destinazioni di piano e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio);
b) la circostanza che non sia intervenuta l’intavolazione delle servitù di uso pubblico di viabilità, parcheggio e sosta non pregiudica la disponibilità e la utilizzazione da parte del Comune delle aree a ciò destinate, atteso che l’uso pubblico non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto reale;
c) l’inadempimento della società C. C. SPA e dei suoi aventi causa alle obbligazioni assunte con la convenzione e, quindi, la omessa intavolazione nei libri fondiari delle servitù di uso pubblico che nel sistema tavolare vigente nella Provincia di Trento è costitutiva del diritto reale, non ne compromette l’uso pubblico da parte del Comune.

E’ fin troppo noto il principio secondo cui le prescrizioni di un piano urbanistico attuativo (tale è il piano di lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino all’intervento di un nuovo piano urbanistico (in tal senso da ultimo Cons. Stato, Adunanza plenaria 20.07.2012, n. 28; conforme Cons. Stato, V, 20.03.2008, n. 1216; IV 27.10.2009, n. 6572).
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Da quanto detto consegue che:
a) è del tutto irrilevante che sia decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un nuovo atto di pianificazione.
Si è detto che le prescrizioni previste dal piano attuativo scaduto devono continuare ad essere osservate in applicazione dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942, n. 1150 (in tal senso cfr. Cons. Stato, IV, 353 del 2013; 2045 del 2012; VI, n. 305 del 2012; IV, 27.10.2009, n. 6572 che precisa come l’efficacia decennale attiene ai poteri espropriativi, mentre restano inalterati a tempo indeterminato gli allineamenti, le prescrizioni, le destinazioni di piano e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio);
b) la circostanza che non sia intervenuta l’intavolazione delle servitù di uso pubblico di viabilità, parcheggio e sosta non pregiudica la disponibilità e la utilizzazione da parte del Comune delle aree a ciò destinate, atteso che l’uso pubblico non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto reale;
c) l’inadempimento della società Chini Costruzioni s.p.a. e dei suoi aventi causa alle obbligazioni assunte con la convenzione e, quindi, la omessa intavolazione nei libri fondiari delle servitù di uso pubblico che nel sistema tavolare vigente nella Provincia di Trento è costitutiva del diritto reale, non ne compromette l’uso pubblico da parte del Comune.
Il fatto, poi, che alcune delle aree gravate da uso pubblico di viabilità e sosta siano state cedute a titolo oneroso a singoli condomini che hanno provveduto alla tempestiva intavolazione e, quindi, la questione della opponibilità ai medesimi del diritto di uso pubblico gravante sulle aree acquistate, non può che essere risolta secondo le regole generali in materia di trascrizioni dei diritti reali e, quindi, in base alla priorità dell’annotazione sui libri fondiari dei titoli contrapposti, fermo restando che l’avvenuta “prenotazione” della convenzione di lottizzazione effettuata sui libri fondiari già nel 1993, rendeva conoscibile ai terzi i vincoli esistenti sulle singole aree.
Ne consegue che gli acquirenti delle aree a parcheggio erano a conoscenza della destinazione ad uso pubblico gravante sulle suddette aree, essendovi stata annotazione della convenzione di lottizzazione alla stregua di “prenotazione”, mancando il titolo formale che ne consentisse l’intavolazione.
Da ultimo deve ritenersi assolutamente ininfluente ai fini qui in considerazione, ovvero al legittimo esercizio da parte del Comune del diritto di uso pubblico sulle aree a ciò destinate dal piano di lottizzazione, l’accertamento della sussistenza o meno dell’inadempimento delle obbligazioni di cessione o di costituzioni di diritti reali di servitù in favore del Comune sulle aree a ciò destinate da parte della Chini Costruzioni s.p.a. o dai suoi aventi causa, atteso che la destinazione ad uso pubblico riviene direttamente dallo strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine stabilito dall'articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la conclusione del procedimento di rilascio dell'autorizzazione unica è di natura perentoria, in quanto costituisce principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia elettrica, che risulta ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, garantendo in modo uniforme sull'intero territorio nazionale la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo.
Pertanto, la mancata adozione del provvedimento finale entro detto termine massimo legittima l'istante a proporre ricorso avverso il silenzio inadempimento serbato dall'Amministrazione procedente secondo il rito dell'articolo 117 del d.lgs. n. 104/2010, con obbligo di concludere il procedimento entro 180 giorni, cui la Regione deve inderogabilmente uniformarsi, senza che assuma rilievo il mero compimento di atti soprassessori e infraprocedimentali.

Ed invero, come più volte precisato dalla giurisprudenza della Sezione, il termine stabilito dall'articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la conclusione del procedimento di rilascio dell'autorizzazione unica è di natura perentoria, in quanto costituisce principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia elettrica, che risulta ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, garantendo in modo uniforme sull'intero territorio nazionale la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo.
Pertanto, la mancata adozione del provvedimento finale entro detto termine massimo legittima l'istante a proporre ricorso avverso il silenzio inadempimento serbato dall'Amministrazione procedente secondo il rito dell'articolo 117 del d.lgs. n. 104/2010, con obbligo di concludere il procedimento entro 180 giorni, cui la Regione deve inderogabilmente uniformarsi, senza che assuma rilievo il mero compimento di atti soprassessori e infraprocedimentali (cfr., tra le tante, Cds, V, 14.10.2013 n. 5000; 23.10.2012 n. 5413; 07.11.2011 n. 5878) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: E' di competenza dirigenziale l'atto di nomina della commissione di concorso.
L’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 167 riserva alla competenza dei dirigenti l’adozione di tutti gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione all’esterno, compresa la responsabilità delle procedure concorsuali.
Giova soggiungere che non milita a favore della tesi del ricorrente il riferimento alla disciplina dettata dall’art. 63 del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi in quanto, ai sensi della suddetta normativa di legge, richiamata dall’articolo 25 dello Statuto comunale, solo la disciplina statutaria è idonea a integrare il regime legale delle competenze degli organi.
Ne deriva l’illegittimità e la conseguente disapplicazione della normativa regolamentare in esame che ha ampliato la sfera giuntale di competenza in assenza della necessaria legittimazione di fonte statutaria.

E’ infondata, in primo luogo, la censura diretta a stigmatizzare il vizio di incompetenza che affliggerebbe l’atto dirigenziale di nomina della commissione di concorso in ragione della dedotta invasione della sfera di competenza della Giunta.
L’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 167, infatti, riserva alla competenza dei dirigenti l’adozione di tutti gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione all’esterno, compresa la responsabilità delle procedure concorsuali. Giova soggiungere che non milita a favore della tesi del ricorrente il riferimento alla disciplina dettata dall’art. 63 del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi in quanto, ai sensi della suddetta normativa di legge, richiamata dall’articolo 25 dello Statuto comunale, solo la disciplina statutaria è idonea a integrare il regime legale delle competenze degli organi. Ne deriva l’illegittimità e la conseguente disapplicazione della normativa regolamentare in esame che ha ampliato la sfera giuntale di competenza in assenza della necessaria legittimazione di fonte statutaria (Cons. Sato, sez. V, 04.03.2011, n. 1408).
Va in ogni caso soggiunto per completezza che il supposto vizio di incompetenza è stato sanato, con effetto ex tunc, attraverso la delibera di Giunta Comunale n. 99 del 30.06.2011 (sull’efficacia retroattiva dell’esercizio del potere di convalida o ratifica vedi Cons. Sato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3121) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo l'ordine di non esecuzione delle opere previste dalla presentata DIA laddove le stesse pregiudichino gli interessi pubblicistici sottesi alla conservazione del paesaggio.
S
e è pur vero che “la collocazione ad incasso nella copertura dell’edificio non rende visibile i pannelli solari dalla strada o da altri fabbricati”, va tuttavia considerato che il provvedimento impugnato pare invece aver valorizzato la percezione “dall’alto” delle opere di che trattasi, in considerazione della particolare morfologia del territorio.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento prot. n. 12249 del 01.08.2013 di diffida all’esecuzione dei lavori oggetto di D.I.A. n. 7088 del 18.04.2013, per l’installazione di pannelli solari per la produzione di acqua sanitaria in immobile residenziale sito in Via Visconti Venosta 30, e di ogni altro atto preordinato, e consequenziale.
...
- Ritenuto che, ad un sommario esame, il ricorso non sia assistito dal fumus boni iuris, atteso che il provvedimento impugnato pare sufficientemente motivato con riferimento alle peculiarità del caso di specie. In particolare, se è pur vero che “la collocazione ad incasso nella copertura dell’edificio non rende visibile i pannelli dalla strada o da altri fabbricati” (v. pag. 10 del ricorso), va tuttavia considerato che il provvedimento impugnato pare invece aver valorizzato la percezione “dall’alto” delle opere di che trattasi, in considerazione della particolare morfologia del territorio.
- Ritenuto inoltre, quanto al periculum, di doversi privilegiare gli interessi pubblicistici sottesi alla conservazione del paesaggio, anche in relazione alla risarcibilità dei pregiudizi economici eventualmente derivanti alla ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, ordinanza 23.12.2013 n. 1453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAi sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva.
Nella fattispecie in esame il DURC di una delle imprese indicate quale esecutrice indicava una irregolarità nel versamento degli oneri assicurativi, che la stazione appaltante non poteva che considerare grave.
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Non può essere considerata irregolare ai fini contributi o assistenziali la posizione della impresa qualora sia pendente il termine per la proposizione della impugnazione o non sia, comunque, stato definito con sentenza passata in giudicato il contenzioso instaurato.
A tale conclusione il Consiglio di Stato è addivenuto sulla base dell’art. 8, comma 2, lettera b, del decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 24.10.2007 e della circolare della Agenzia delle entrate n. 34/E del 25.05.2007.
L’art. 8 surrichiamato, nel disciplinare le “cause non ostative al rilascio del DURC”, espressamente prevede che: “b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, salvo l'ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del giudizio ai sensi dell'art. 24 del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46”;.
La circolare succitata afferma, invece, espressamente che: “la regolarità fiscale richiesta dal Codice dei contratti pubblici possa (rectius può) essere certificata, in riferimento alla data o al periodo indicati dal richiedente, dall’Ufficio locale competente secondo il domicilio fiscale del soggetto d’imposta quando risulti, in base alle informazioni ed ai documenti di cui dispone, che l’Amministrazione finanziaria non abbia contestato al contribuente una qualsiasi violazione di obblighi in materia di tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate, mediante atto che si sia reso definitivo per effetto del decorso del termine di impugnazione ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, del passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale (cfr. ris. n. 2/E del 03.01.2005).
Si ritiene, inoltre, che l’irregolarità fiscale viene meno qualora, alla data rispetto alla quale viene richiesta la certificazione, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria sia stata integralmente soddisfatta, anche mediante definizione agevolata”.
Nella specie dalla documentazione in atti risulta, come anticipato, che il DURC costituente presupposto della revoca impugnata è stato impugnato innanzi al Tribunale del lavoro di Catania, che, per quanto risulta dal fascicolo, non si è ancora pronunciato. Ne consegue che la controversia non è stata definita con pronuncia passata in giudicato e che va esclusa la definitività dell’accertamento.

Tutto ciò premesso può procedersi all’esame del primo motivo, con il quale si deduce che l’amministrazione avrebbe illegittimamente omesso qualunque verifica in ordine alla sussistenza del requisito della gravità della irregolarità contributiva risultante dal DURC della società cooperativa “Il Sorriso”.
Nella fattispecie tale requisito, in particolare, difetterebbe avuto riguardo alla irrisorietà della irregolarità (pari ad € 462,00 rapportate ad un biennio) a fronte del consistente valore dell’appalto (€ 18.133.200,00), nonché alla circostanza della sua addebitabilità ad una delle due imprese esecutrici indicate dal “Consorzio Sol. Calatino” soc. coop. avente una quota di partecipazione del 25%.
La doglianza è infondata avuto riguardo al principio di diritto enunciato dalla adunanza plenaria nella decisione n. 8/2012, che si ritiene opportuno riportare letteralmente: "ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva”.
Nella fattispecie in esame il DURC di una delle imprese indicate quale esecutrice indicava una irregolarità nel versamento degli oneri assicurativi, che la stazione appaltante non poteva che considerare grave.
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Va adesso esaminato il secondo motivo, con il quale si deduce la violazione degli artt. 49, 56 e 101 del TFUE, poiché la nozione di “violazione contributiva grave” di cui all’art. 38 del codice degli appalti, in quanto rigida, contrasterebbe con i principi comunitari di proporzionalità e ragionevolezza dagli stessi enunciati.
Come ritenuto nella condivisa ordinanza n. 1969/2012 della III sezione del TAR Lombardia Milano richiamata nel ricorso, alle cui ampie motivazioni per esigenze di sintesi si rinvia, la questione è fondata nel senso che consente la devoluzione alla Corte di Giustizia e non la disapplicazione della normativa nazionale.
Tale devoluzione non è, però, nella fattispecie in esame necessaria, in quanto il collegio, ad una più attenta valutazione tipica della fase di merito, ritiene fondato il terzo motivo, con il quale si deduce che non sussisterebbe il presupposto della definitività dell’accertamento della irregolarità previsto dall’art. 38.
Dalla documentazione in atti risulta, infatti, che il DURC in questione è stato impugnato innanzi al giudice del lavoro di Catania.
Orbene, come ritenuto nella decisione della V sezione del Consiglio di Stato n. 2213 del 20.04.2010, alle cui ampie motivazioni per esigenze di sintesi si rinvia, non può essere considerata irregolare ai fini contributi o assistenziali la posizione della impresa qualora sia pendente il termine per la proposizione della impugnazione o non sia, comunque, stato definito con sentenza passata in giudicato il contenzioso instaurato (negli stessi termini più di recente la decisione n. 261/2013).
A tale conclusione il Consiglio di Stato è addivenuto sulla base dell’art. 8, comma 2, lettera b, del decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 24.10.2007 e della circolare della Agenzia delle entrate n. 34/E del 25.05.2007.
L’art. 8 surrichiamato, nel disciplinare le “cause non ostative al rilascio del DURC”, espressamente prevede che: “b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, salvo l'ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del giudizio ai sensi dell'art. 24 del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46”;.
La circolare succitata afferma, invece, espressamente che: “la regolarità fiscale richiesta dal Codice dei contratti pubblici possa (rectius può) essere certificata, in riferimento alla data o al periodo indicati dal richiedente, dall’Ufficio locale competente secondo il domicilio fiscale del soggetto d’imposta quando risulti, in base alle informazioni ed ai documenti di cui dispone, che l’Amministrazione finanziaria non abbia contestato al contribuente una qualsiasi violazione di obblighi in materia di tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate, mediante atto che si sia reso definitivo per effetto del decorso del termine di impugnazione ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, del passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale (cfr. ris. n. 2/E del 03.01.2005). Si ritiene, inoltre, che l’irregolarità fiscale viene meno qualora, alla data rispetto alla quale viene richiesta la certificazione, la pretesa dell’Amministrazione finanziaria sia stata integralmente soddisfatta, anche mediante definizione agevolata”.
Nella specie dalla documentazione in atti risulta, come anticipato, che il DURC costituente presupposto della revoca impugnata è stato impugnato innanzi al Tribunale del lavoro di Catania, che, per quanto risulta dal fascicolo, non si è ancora pronunciato. Ne consegue che la controversia non è stata definita con pronuncia passata in giudicato e che va esclusa la definitività dell’accertamento.
Concludendo, per le ragioni suesposte, il ricorso è fondato e va accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 19.12.2013 n. 2497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i condomini”, altrettanto lo è anche l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento”.
A tale proposito il Collegio ritiene che, sebbene sia condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il Comune non è tenuto a “procedere ad un’accurata ed approfondita disamina dei rapporti tra i condomini” (Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2546), altrettanto lo sia anche l’ulteriore specificazione secondo cui, “qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell'effettiva corrispondenza tra l'istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento” (cfr TAR Campania Napoli Sez. II, Sent., 07.06.2013, n. 3019) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2013 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il Collegio si allinea al prevalente indirizzo giurisprudenziale che ritiene di sussumere il servizio di illuminazione votiva nella categoria dei servizi pubblici comunali, mentre l’eventuale affidamento a privati della gestione è qualificabile quale concessione di servizio pubblico.
Come ha evidenziato l’organo di appello il tratto distintivo della concessione di pubblico servizio è dato: <<a) dall'assunzione del rischio a carico del concessionario per la gestione del servizio;
b) dalla circostanza che il corrispettivo non sia versato dall'amministrazione, come nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, la quale, anzi, percepisce un canone da parte del concessionario;
c) dalla diversità dell'oggetto del rapporto, che nella concessione di servizi è trilaterale (coinvolgendo l'amministrazione, il gestore e gli utenti), mentre nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante - appaltatore).>>
Peraltro, sulla questione si può anche richiamare l’orientamento di questo Tribunale secondo cui: “In forza di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di pubblica illuminazione debba essere considerato servizio pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente la collettività (o il singolo utente) senza alcuna intermediazione del Comune nello svolgimento del processo produttivo”.
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L
'illuminazione elettrica di aree cimiteriali da parte del privato costituisce oggetto di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza economica, perché richiede che il concessionario impegni capitali, mezzi e personale da destinare a un’attività suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto concorrenziale del mercato di settore.
A conferma di ciò si può richiamare la regola generale sancita dall'art. 172, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 267/2000, che impone di allegare al bilancio di previsione, fra gli altri documenti, le deliberazioni con le quali sono determinati le tariffe per i servizi locali.
Sono considerati privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono un’organizzazione di impresa in senso obiettivo, e in questo quadro appare indubbia la riconducibilità del servizio di illuminazione votiva tra quelli che rivestono spessore economico, e detta impostazione non è smentita dall’eventuale irrisorietà del guadagno che in concreto il servizio produca.

Anzitutto il Collegio si allinea al prevalente indirizzo giurisprudenziale che ritiene di sussumere il servizio di illuminazione votiva nella categoria dei servizi pubblici comunali, mentre l’eventuale affidamento a privati della gestione è qualificabile quale concessione di servizio pubblico (TAR Sicilia Catania, sez. II – 07/12/2012 n. 2851; Consiglio di Stato, sez. V – 29/03/2010 n. 1790). Come ha evidenziato l’organo di appello (sez. V – 11/08/2010 n. 5620) il tratto distintivo della concessione di pubblico servizio è dato: <<a) dall'assunzione del rischio a carico del concessionario per la gestione del servizio (cfr. Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, n. 196, caso Acoset);
b) dalla circostanza che il corrispettivo non sia versato dall'amministrazione, come nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, la quale, anzi, percepisce un canone da parte del concessionario (cfr. Cons. St., sez. VI, 05.06.2006, n. 3333; Sez. V 05.12.2008 n. 6049);
c) dalla diversità dell'oggetto del rapporto, che nella concessione di servizi è trilaterale (coinvolgendo l'amministrazione, il gestore e gli utenti), mentre nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante - appaltatore).
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I predetti connotati sono rintracciabili nella convenzione del 30/09/1983, visto che sono previsti interventi gratuiti del concessionario i quali sostanziano l’erogazione del compenso dovuto al Comune (art. 11), e che l’utente instaura un rapporto diretto con il gestore versando a suo favore un corrispettivo (prezzo di abbonamento – allegato A della convenzione): dunque la Società Epis assume direttamente il rischio correlato all’equilibrio economico dell’operazione condotta.
Peraltro sulla questione si può anche richiamare l’orientamento di questo Tribunale (cfr. sentenza 27/12/2007 n. 1373 richiamata dalla sez. II – 15/01/2013 n. 26, che risulta appellata) secondo cui: “In forza di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di pubblica illuminazione debba essere considerato servizio pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente la collettività (o il singolo utente) senza alcuna intermediazione del Comune nello svolgimento del processo produttivo”.
In secondo luogo, l'illuminazione elettrica di aree cimiteriali da parte del privato costituisce oggetto di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza economica, perché richiede che il concessionario impegni capitali, mezzi e personale da destinare a un’attività suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto concorrenziale del mercato di settore (Consiglio di Stato, sez. V – 24/01/2013 n. 435). A conferma di ciò si può richiamare la regola generale sancita dall'art. 172, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 267/2000, che impone di allegare al bilancio di previsione, fra gli altri documenti, le deliberazioni con le quali sono determinati le tariffe per i servizi locali. Sono considerati privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono un’organizzazione di impresa in senso obiettivo, e in questo quadro appare indubbia la riconducibilità del servizio di illuminazione votiva tra quelli che rivestono spessore economico (Consiglio di Stato, sez. V – 23/10/2012 n. 5409), e detta impostazione non è smentita dall’eventuale irrisorietà del guadagno che in concreto il servizio produca.
In presenza di una concessione di pubblico servizio non risultano applicabili le invocate disposizioni di cui agli artt. 30 e 143 del D.Lgs. 163/2006, che imporrebbero di adottare provvedimenti di riequilibrio economico finanziario degli investimenti effettuati al mutare delle condizioni di fatto e dei presupposti. Detta conclusione discende anzitutto dal rilievo che l’art. 143 riguarda le concessioni di lavori pubblici, mentre nella fattispecie già si è argomentato nel senso del riconoscimento della natura di concessione di servizio pubblico (cfr. sulla specifica questione Consiglio di Stato, sez. V – 29/03/2010 n. 1790).
Inoltre, l’art. 30 fa riferimento al perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio secondo una valutazione compiuta ex ante (al momento di avviare la gara), mentre nella fattispecie non si rinviene alcuna disposizione nella convenzione stipulata tra le parti.
Infine, la ricorrente ha soltanto genericamente prospettato l’omessa rideterminazione delle nuove condizioni, e non ha fornito –con l’ausilio di un dettagliato quadro economico– un resoconto puntuale delle circostanze sopravvenute che avrebbero inciso sull’equilibrio del sinallagma, in disparte la non insignificante questione dell’imminente cessazione del rapporto concessorio, come si vedrà in seguito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.12.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Parte della giurisprudenza sostiene che ogni cittadino residente in un dato Comune potrebbe per ciò solo impugnare gli atti di adozione e approvazione del relativo strumento urbanistico generale, indipendentemente da un diretto e immediato pregiudizio da essi derivante per un bene a lui riconducibile, poiché sarebbe titolare di un interesse alla riedizione dell’attività amministrativa, nel senso che ove il suo ricorso fosse accolto l’amministrazione sarebbe tenuta a riapprovare il piano annullato, con possibilità di un risultato più favorevole.
Il Collegio peraltro condivide l’orientamento maggioritario, ove citata anche la giurisprudenza minoritaria, osservando che poter trarre dall’accoglimento del ricorso una qualche utilità non significa automaticamente essere titolari di una posizione legittimante che consenta di proporlo: se i due concetti si identificassero, si finirebbe per consentire il ricorso stesso anche ai portatori di interessi di mero fatto e lo si configurerebbe, in ultima analisi, come un’azione popolare.
Nel caso del piano urbanistico poi, come evidenziato sempre da TAR Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si cita, l’impugnazione generalizzata contraddice la natura stessa dello strumento urbanistico generale, costituito “essenzialmente da un insieme di prescrizioni valevoli per le singole zone omogenee del territorio comunale o per singole aree o fabbricati… scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale”, annullamento che va “circoscritto alle aree o ai lotti interessati dalle prescrizioni giudicate illegittime” senza che si possa annullare l’intero piano per far conseguire al privato un’utilità solo strumentale.

In ordine al secondo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti, sussiste il difetto di interesse evidenziato nei termini di cui in narrativa, poiché la ricorrente non ha evidenziato alcun concreto pregiudizio che le deriverebbe dalla presunta mancata predisposizione del PUGSS.
Come è noto, parte della giurisprudenza sostiene che ogni cittadino residente in un dato Comune potrebbe per ciò solo impugnare gli atti di adozione e approvazione del relativo strumento urbanistico generale, indipendentemente da un diretto e immediato pregiudizio da essi derivante per un bene a lui riconducibile, poiché sarebbe titolare di un interesse alla riedizione dell’attività amministrativa, nel senso che ove il suo ricorso fosse accolto l’amministrazione sarebbe tenuta a riapprovare il piano annullato, con possibilità di un risultato più favorevole.
Il Collegio peraltro condivide l’orientamento maggioritario, enunciato per tutte da C.d.S. sez. IV 13.07.2010 n. 4542 e da TAR Sardegna sez. II 06.10.2008 n. 1815, ove citata anche la giurisprudenza minoritaria, osservando che poter trarre dall’accoglimento del ricorso una qualche utilità non significa automaticamente essere titolari di una posizione legittimante che consenta di proporlo: se i due concetti si identificassero, si finirebbe per consentire il ricorso stesso anche ai portatori di interessi di mero fatto e lo si configurerebbe, in ultima analisi, come un’azione popolare.
Nel caso del piano urbanistico poi, come evidenziato sempre da TAR Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si cita, l’impugnazione generalizzata contraddice la natura stessa dello strumento urbanistico generale, costituito “essenzialmente da un insieme di prescrizioni valevoli per le singole zone omogenee del territorio comunale o per singole aree o fabbricati… scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale”, annullamento che va “circoscritto alle aree o ai lotti interessati dalle prescrizioni giudicate illegittime” senza che si possa annullare l’intero piano per far conseguire al privato un’utilità solo strumentale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte adottate dal Comune in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale, anche se opinabili, sono espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di illogicità o travisamento dei fatti di carattere manifesto.
I motivi quarto e quinto del secondo ricorso per motivi aggiunti vanno esaminati congiuntamente, in quanto vanno respinti per identico ordine di ragioni.
Va ripetuto l’insegnamento costante, per tutte da ultimo C.d.S. sez. VI 13.06.2013 n. 3310, per cui le scelte adottate dal Comune in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale, anche se opinabili, sono espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di illogicità o travisamento dei fatti di carattere manifesto.
Nella specie, tali fattispecie non ricorrono, perché banalmente le scelte di ampliare la dotazione di standard a parcheggio di un dato lotto e di variare i criteri di calcolo dell’altezza massima ammessa per i nuovi edifici appartengono alla prassi usuale del settore, né appaiono nella specie particolarmente innovative, ancorché a dire della ricorrente non soddisfino le sue aspettative
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il paesaggio è un valore costituzionale primario e le valutazioni di compatibilità ambientale concretano un apprezzamento tecnico-discrezionale rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella formulazione di giudizi che spettano solo all’autorità competente: ciò presuppone, però, lo svolgimento di un accertamento in concreto per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la realizzazione (o la conservazione, nell’ipotesi di sanatoria) dell'intervento sia da ritenersi incompatibile con i valori tutelati.
E’ stato specificato che il diniego emesso dall’autorità preposta alla tutela del vincolo deve essere assistito da un apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali che sconsigliano di assentire un determinato intervento: devono quindi emergere in concreto i profili per i quali il manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa, degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il vincolo è preordinato.
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La motivazione che assiste i provvedimenti sfavorevoli appare lacunosa e –seppur non prescindendo da un’effettiva conoscenza dello stato dei luoghi– non tiene conto di alcuni elementi di fatto esibiti in giudizio (cfr. materiale fotografico).
Non è assolutamente chiara la produzione di un “forte disturbo” al prospetto verso lago derivante dalla mera trasformazione di due porte-finestre separate da un setto di muro (di 190 cm) in un’unica ampia apertura di 410 x 220 cm..
In particolare non si comprende ancora come la nuova immagine sia (rispetto alla precedente) inaccettabile da un punto di vista estetico, e in particolare la ragione della dedotta “perdita dell’identità figurativa del sistema edilizio che si percepisce nel contesto del Lungolago”: va ribadito che in presenza di un intervento obiettivamente modesto e di portata sostanzialmente neutra (unica parete finestrata in luogo di 2 finestre intervallate dal muro) devono essere evidenziati in modo puntuale i profili di incompatibilità del nuovo profilo con l’ambiente.
L’ampia discrezionalità “estetica” della valutazione deve essere ancorata su argomentazioni coerenti con lo stato effettivo dei luoghi e con la portata dell’intervento, che nella specie mancano. Non intelleggibile è il dichiarato stravolgimento del “sistema proporzionale sia nei rapporti pieni-vuoti della facciata”, mentre il rapporto dimensionale base-altezza dell’apertura non risulta modificato, contrariamente a quanto dichiarato dagli esperti.

Va premesso che il paesaggio è un valore costituzionale primario (TAR Campania Salerno, sez. I – 21/06/2013 n. 1380) e che le valutazioni di compatibilità ambientale concretano un apprezzamento tecnico-discrezionale rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella formulazione di giudizi che spettano solo all’autorità competente (TAR Abruzzo Pescara – 20/06/2009 n. 448): ciò presuppone, però, lo svolgimento di un accertamento in concreto per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la realizzazione (o la conservazione, nell’ipotesi di sanatoria) dell'intervento sia da ritenersi incompatibile con i valori tutelati (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 22/10/2013 n. 2340).
E’ stato specificato (sentenza sez. II Bs – 02/02/2011 n. 224, che richiama TAR Toscana, sez. II – 14/3/2008 n. 295; TAR Liguria, sez. I – 22/12/2008 n. 2187) che il diniego emesso dall’autorità preposta alla tutela del vincolo deve essere assistito da un apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali che sconsigliano di assentire un determinato intervento: devono quindi emergere in concreto i profili per i quali il manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa, degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il vincolo è preordinato.
Nella fattispecie affrontata in questa sede, la motivazione che assiste i provvedimenti sfavorevoli appare lacunosa e –seppur non prescindendo da un’effettiva conoscenza dello stato dei luoghi– non tiene conto di alcuni elementi di fatto esibiti in giudizio (cfr. materiale fotografico). Non è assolutamente chiara la produzione di un “forte disturbo” al prospetto verso lago derivante dalla mera trasformazione di due porte-finestre separate da un setto di muro (di 190 cm) in un’unica ampia apertura di 410 x 220 cm. Tenuto conto della natura del vincolo introdotto con D.M. 06/02/1959 e della ridotta percezione degli elementi modificati –per la localizzazione nella rientranza di un terrazzo circondato da una protezione in muratura– non si comprende la fonte della distonia dell’intervento con il contesto tutelato.
L’amministrazione ha evidenziato che non si tratta di un intervento innocuo poiché la finestra prospetta direttamente sulla passeggiata e, nonostante la parete sia parzialmente ritratta, la modificazione sarebbe perfettamente percepibile. Tale asserzione appare smentita dall’esame del materiale fotografico, dal quale risulta un’attenuazione nella visuale della parete per l’interferenza del parapetto. Né assume spessore il fatto che la collocazione renda la finestra visibile da ogni angolazione, poiché ciò che difetta è l’esternazione delle ragioni per le quali il nuovo profilo (unica parete finestrata) inciderebbe in negativo sul paesaggio rispetto all’immagine percepita in precedenza (con due finestre intervallate dal muro).
La fondatezza della censura principale permette di assorbire l’ulteriore doglianza sulla mancata indicazione degli accorgimenti alternativi.
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E’ parimenti fondato il ricorso r.g. 1687/2005, per violazione dell’art. 32 della L. 326/2003, dell’art. 32 della L. 47/1985, dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004, illegittimità per carenza di motivazione e difetto di istruttoria, in quanto la Commissione edilizia non ha dato conto del tipo di giudizio sotteso al parere.
E’ in effetti mancata –anche in questo caso– una valutazione in concreto dell’impatto dei lavori sul paesaggio, in assenza di una variazione nell’altezza dell’apertura. In particolare non si comprende ancora come la nuova immagine sia (rispetto alla precedente) inaccettabile da un punto di vista estetico, e in particolare la ragione della dedotta “perdita dell’identità figurativa del sistema edilizio che si percepisce nel contesto del Lungolago”: va ribadito che in presenza di un intervento obiettivamente modesto e di portata sostanzialmente neutra (unica parete finestrata in luogo di 2 finestre intervallate dal muro) devono essere evidenziati in modo puntuale i profili di incompatibilità del nuovo profilo con l’ambiente.
L’ampia discrezionalità “estetica” della valutazione deve essere ancorata su argomentazioni coerenti con lo stato effettivo dei luoghi e con la portata dell’intervento, che nella specie mancano. Non intelleggibile è il dichiarato stravolgimento del “sistema proporzionale sia nei rapporti pieni-vuoti della facciata”, mentre il rapporto dimensionale base-altezza dell’apertura non risulta modificato, contrariamente a quanto dichiarato dagli esperti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.12.2013 n. 1112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego della Soprintendenza al rilascio della richiesta autorizzazione paesaggistica per l'installazione di pannelli fotovoltaici laddove è stata addotta la motivazione che "i pannelli fotovoltaici, interrompendo la continuità delle coperture tradizionali, creerebbero un elemento di interferenza visiva che “stonerebbe rispetto all’insieme costituito dalla bellezza naturale dei luoghi e dalla sua antropizzazione secondo tipologie costruttive tradizionali (la somma della bellezza naturale dei luoghi e della loro antropizzazione in forme tradizionali costituisce il paesaggio)”.
Né si ravvisano elementi di incoerenza, irragionevolezza o errore tecnico, se si considera come obiettivo primario e come interesse pubblico perseguito quello alla conservazione del panorama nel suo complesso considerato, secondo la definizione sopra datane.".

... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9666 del 17/12/2010, recante diniego dell'istanza di autorizzazione paesaggistica per le opere consistenti in installazione di pannelli fotovoltaici.
...
Come già evidenziato da questo Tribunale nella pronuncia adottata in sede cautelare -dalle cui conclusioni il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, nemmeno alla luce delle ulteriori considerazioni di parte ricorrente (sostanzialmente riproduttive del ricorso)-, la Soprintendenza ha, nel caso di specie, formulato un giudizio sul caso concreto sottoposto alla sua attenzione (così come richiesto dalla giurisprudenza citata anche da parte ricorrente, tra cui si segnala la sentenza TAR Veneto, II, 25.01.2012, n. 48 e l’ordinanza di questo Tribunale n. 904/2010).
Tale giudizio rientra nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, a fronte della quale il giudice amministrativo incontra il limite del sindacato debole allo stesso riconosciuto, con la conseguenza che il giudizio stesso potrebbe essere ritenuto illegittimo solo se incoerente, irragionevole o frutto di errore tecnico.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha ritenuto che i pannelli fotovoltaici, interrompendo la continuità delle coperture tradizionali, creerebbero un elemento di interferenza visiva che “stonerebbe rispetto all’insieme costituito dalla bellezza naturale dei luoghi e dalla sua antropizzazione secondo tipologie costruttive tradizionali (la somma della bellezza naturale dei luoghi e della loro antropizzazione in forme tradizionali costituisce il paesaggio)” (così l’ordinanza di questo Tribunale n. 206/2011).
Né -anche alla luce di quanto rappresentato nella propria difesa finale dal ricorrente, che sostanzialmente non aggiunge nuovi elementi alla tesi sostenuta nel ricorso-, si ravvisano elementi di incoerenza, irragionevolezza o errore tecnico, se si considera come obiettivo primario e come interesse pubblico perseguito quello alla conservazione del panorama nel suo complesso considerato, secondo la definizione sopra datane.
Il ricorso deve, dunque, essere rigettato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 03.12.2013 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Deve essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le circostanze che possono influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest'ultimo.
La provenienza di detto documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo contenuto.
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Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio della tassatività delle cause di esclusione dalla gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non costituisce norma di principio estensibile al di fuori di tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione (se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis, autovincolante per l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, altresì, la norma, espressiva invece di un principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere di soccorso”, atteso che, una volta constatata la sostanziale assenza di un requisito essenziale per la partecipazione in corso di gara, la conseguente regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in un'integrazione della domanda proposta, configurandosi perciò come una violazione del principio della "par condicio" nei riguardi di altri concorrenti.

Peraltro, come si evince da pag. 12 del predetto avviso, con inciso riportato con caratteri in grassetto ed opportunamente sottolineato, la lex specialis ha disposto che “La mancata presentazione di uno solo dei documenti, dichiarazioni o della cauzione costituisce automatica esclusione dalla partecipazione alla gara”.
Inoltre, l’art. 4 della lex specialis prescrive chiaramente che il concorrente doveva presentare, per ogni singolo lotto cui intendeva partecipare, a pena di esclusione, un plico contenente un’elencazione di documenti, tra cui, per la busta relativa alla documentazione amministrativa, l’attestazione per cui è causa; l’art. 9, relativo alle disposizioni di carattere generale, ribadiva che “L’assenza dei requisiti richiesti per la partecipazione alla gara e la violazione delle prescrizioni previste dal presente avviso determineranno l’esclusione dalla gara”.
Né tale omissione è surrogabile da un’autocertificazione ex d.P.R. 28.12.2000, n. 445 poiché l’efficacia probatoria equivalente di quest’ultima è stata espressamente esclusa, nella specie, dalla lex specialis, che ha prescritto un mezzo di prova più rigoroso.
Come d’altra parte ha già statuito la Sezione in caso analogo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03.07.2012, n. 3881, attinente agli appalti pubblici di lavori), deve essere esclusa dalla gara pubblica l'impresa che non ha prodotto l'attestazione del R.U.P. di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta a pena di esclusione dal disciplinare di gara; ciò in quanto, con il richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le circostanze che possono influire sull'esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest'ultimo. La provenienza di detto documento dall'Amministrazione aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, all'individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, e, dunque, in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione.
Infatti, l'attestazione è qualcosa in più della semplice dichiarazione da parte della stessa ditta partecipante ad una gara, dovendosi trattare di una dichiarazione proveniente da un terzo ritenuto (per la particolare posizione rivestita) abilitato a renderla, in tal modo garantendosi (fino a prova contraria) la veridicità del suo contenuto.
Non è, invece, applicabile la norma contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006 che ha codificato il principio della tassatività delle cause di esclusione dalla gare pubbliche, la quale è circoscritta al solo ambito della disposizioni di cui al Codice dei contratti pubblici e non costituisce norma di principio estensibile al di fuori di tale ambito.
Infatti, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione (se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis, autovincolante per l’Amministrazione) nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche.
Né è applicabile, invece, la norma, espressiva invece di un principio generale, ex art. 6, l. 241/1990, di cui all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, che prevede il cd. “potere di soccorso”, atteso che, una volta constatata la sostanziale assenza di un requisito essenziale per la partecipazione in corso di gara, la conseguente regolarizzazione postuma si tradurrebbe, essenzialmente, in un'integrazione della domanda proposta, configurandosi perciò come una violazione del principio della "par condicio" nei riguardi di altri concorrenti.
Non rilevanti sono le questioni relativa alla numerosità delle prescrizioni a pena di esclusione e non sono fondate quelle in ordine alla violazione del cd. favor partecipationis (come appena detto, non applicabile nel caso di violazione del principio della par condicio dei concorrenti) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2013 n. 5470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.
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La giurisprudenza ha in passato osservato –e non v’è ragione per discostarsi da tale approdo- che, perché possa configurarsi la responsabilità della p.a. è sufficiente la colpa, anche lieve dell'apparato amministrativo.
E parimenti si è avuto modo in passato di evidenziare il ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul privato, atteso che “fermo restando l'inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all'interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un'espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.”

La Sezione condivide infatti l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa che ha ancora di recente affermato che “l'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01.10.2007, n. 5052).
In sintesi: avuto riguardo al petitum proposto, sarà necessario valutare se sia riscontrabile l’elemento della colpa a carico dell’Amministrazione: per fare ciò sarà altresì necessario individuare l’incidenza della condotta posta in essere dalla parte controinteressata latrice del provvedimento ampliativo favorevole successivamente oggetto di atto di autotutela e, lo si ripete,dovrà essere parimenti valutata, ex art. 1227 del codice civile, la condotta spiegata dalla odierna parte appellante e l’incidenza complessiva della medesima sia in termini di causazione dell’illegittimità che di produzione del danno.
Anticipa a tale proposito il Collegio che l’approdo valutativo cui è giunto il primo giudice appare senz’altro corretto sotto l’assorbente profilo dell’assenza di colpa in capo all’Amministrazione odierna appellata.
Nel caso di specie infatti si ritiene che l’operato dell’apparato amministrativo sia del tutto immune da censure sotto il profilo della sussistenza dell’elemento colposo.
Come già accennato, la giurisprudenza ha in passato osservato –e non v’è ragione per discostarsi da tale approdo- che, perché possa configurarsi la responsabilità della p.a. è sufficiente la colpa, anche lieve dell'apparato amministrativo (Consiglio Stato, sez. VI, 23.06.2006, n. 3981).
E parimenti si è avuto modo in passato di evidenziare il ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul privato, atteso che “fermo restando l'inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all'interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un'espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata
.” (Consiglio Stato , sez. VI, 23.06.2006, n. 3981) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2013 n. 5458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Polizia giudiziaria. Guardie volontarie WWF.
Alle Guardie volontarie del WWF non può essere attribuita la qualifica di agenti di polizia giudiziaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2013 n. 44426 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o parziali.
È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2013 n. 44189 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione.
L'art. 38 L. 865/1971, come success. modif., prevede che «I piani nonché i loro aggiornamenti di cui al precedente art. 31 hanno efficacia per 18 anni e sono attuati a mezzo di programmi pluriennali.» (comma 2) e che "In assenza del programma o della individuazione di cui alla lett. b) del precedente secondo comma l'utilizzazione delle aree può avvenire esclusivamente in regime di superficie e la relativa determinazione è vincolante in sede di approvazione dei programmi pluriennali di attuazione (comma 4).
Per le aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione i permessi di costruire sono rilasciati quando si tratti di aree comprese nei Piani di zona, ma in tal caso però, come prevede l'art. 38, comma 4, l'utilizzazione delle aree può avvenire soltanto in regime di superficie, a meno che non siano state individuate comunque le aree di cui alla lett. b)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.10.2013 n. 44294 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Sequestro preventivo intervento abusivo in zona vincolata.
Con riferimento agli interventi abusivi eseguiti in zona sottoposta a vincoli, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro preventivo rileva la sola esistenza di una struttura abusiva che integra il requisito dell'attualità del pericolo, indipendentemente all'essere l'edificazione illecita ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione all'utilizzazione della costruzione ultimata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42363 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva ed esecuzione opere di urbanizzazione.
Il percorso criminoso intrapreso con il frazionamento e la vendita dei terreni, attività già da sole sufficienti ad integrare il reato di lottizzazione abusiva, prosegue comunque con i successivi interventi che incidono sull'assetto urbanistico, perché l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42361 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Raccolta e trasporto di rifiuti speciali in difetto di titoli abilitativi.
L'attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali in difetto di titoli abilitativi costituisce reato anche in mancanza della qualità di imprenditore ovvero di un'organizzazione imprenditoriale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42338 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia non qualificabile pertinenza.
La costruzione di una tettoia di copertura non può qualificarsi come pertinenza, in quanto si tratta di un’opera priva del requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata.
La costruzione di una tettoia, pertanto, in difetto del preventivo rilascio dei permesso di costruire, integra il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lettera b)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42330 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Scarico reflui provenienti da molitura delle olive.
Lo scarico senza autorizzazione di acque reflue derivanti dall’attività di molitura delle olive integra il reato di cui all’art. 137 del d.lgs. n. 152 del 2006, non essendo tali reflui assimilabili alle acque urbane in base al disposto dell’art. 101, comma 7, lettera c), dello stesso decreto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2013 n. 42149 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Computo ai fini volumetrici dei locali interrati.
In tema di attività edilizia, anche i locali interrati devono essere computati ai fini volumetrici, perché detto calcolo deve essere effettuato, salvo che non viga un’espressa disposizione contraria, con riferimento all’opera in ogni suo elemento, ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati funzionalmente asserviti, giacché nel concetto di costruzione rientra ogni intervento edilizio che abbia rilevanza urbanistica, in quanto incide sull’assetto del territorio ed aumenta il c.d. carico urbanistico e tali sono pure i piani interrati cioè sottostanti al livello stradale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2013 n. 42147 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Confisca mezzi utilizzati per il trasporto illecito di rifiuti.
La confisca dei mezzi utilizzati per l’illecito trasporto di rifiuti è obbligatoria, ai sensi dell’art. 259, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, con la conseguenza che la sopravvenuta iscrizione all’Albo gestori ambientali del titolare dell’automezzo adibito al trasporto di rifiuti non esclude la confisca del mezzo stesso, precedentemente sottoposto a sequestro preventivo per la mancanza di detta iscrizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2013 n. 42140 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza penale della materiale aggiunta di un testo su d.i.a. già presentata.
La materiale aggiunta di un testo sulla d.i.a. già presentata, esclusa la sua natura provvedimentale, non può configurare il delitto di cui all'art. 476 cod. pen., in quanto il deposito presso l'ufficio competente a riceverla non le attribuisce natura di atto pubblico, mantenendo essa l'originaria caratteristica di mera dichiarazione corredata dalla relazione di asseverazione e dagli elaborati progettuali aventi valore di certificazione che ne costituiscono parte integrante e l'alterazione dei quali assume, invece, diversa rilevanza penale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2013 n. 41480 - tratto da www.lexambiente.it).

PATRIMONIO: Beni culturali. Degrado monumenti e responsabilità enti pubblici.
L'ente pubblico proprietario del complesso monumentale lasciato in stato di abbandono, al degrado e alla vandalizzazione altrui, e altresì tutti coloro che erano tenuti alla conservazione ed alla vigilanza del medesimo bene culturale, rispondono innanzitutto ai sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei danneggiamenti strutturali e dei pericoli di crollo che siano stati immediatamente e direttamente causati dalla mancanza di manutenzione ordinaria (e che nulla abbiano a che fare con l'opera di eventuali ignoti occupanti abusivi o con gli abusi edilizi consumati all'interno dello stesso sito o con la condotta di chi lo ha usato come discarica di rifiuti -come avvenuto nella specie-).
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Gravano inoltre sul sindaco, e o sul dirigente in suo luogo delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati pericoli di crollo (nella specie più volte denunziati e già avvenuti), anche attraverso l'esercizio dei poteri di ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Se poi sul medesimo sito gravano specifici vincoli storico monumentale, paesaggistico, idrogeologico, di inedificabilità assoluta, o di altra natura, i predetti enti tenuti alla manutenzione e conservazione e tutela del bene, nelle persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondono delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal mancato esercizio della doverosa vigilanza.
In particolare i danneggiamenti strutturali, gli abusi edilizi compiuti all'interno del monumento, così come il conferimento di rifiuti presso il suo sito (come è avvenuto nella specie) costituiscono condotte di violazione dei vincoli monumentale e paesaggistico su esso gravanti, ai sensi dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del Dlgs. 42/2004; e sono in concreto riconducibili alla responsabilità immediata e diretta dei predetti enti pubblici proprietari o tenuti alla conservazione e alla tutela, relativamente ai danni da mancanza di manutenzione; i medesimi enti, relativamente alle violazioni dei vincoli, compiute da terzi attraverso abusi edilizi e conferimenti incontrollati di rifiuti, risponderanno a titolo di concorso laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi- abbia assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
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La totale omissione di ogni vigilanza sul monumento, ove sotto gli occhi di tutti vi si continuino a consumare per anni abusi edilizi, conferimenti di rifiuti, adibizioni abusive e deturpanti di ogni sorta, palesa i caratteri dell'acquiescenza (a tali abusi) da parte degli enti responsabili della sorte del monumento, diffondendo nella popolazione la convinzione del loro disinteresse e della loro chiara volontà di lasciarne fare a chiunque quel che creda.
L'ordinamento nel suo complesso appresta al patrimonio storico e artistico una accentuata tutela conto le azioni dannose, prevedendo poteri-doveri di tutela di altrettanta pregnanza, che ricevono particolari riconoscimento e copertura costituzionale (cfr. tra gli altri gli artt. 838 c.c., l'art. 733, gli artt. 169 e 181 cod. beni culturali, e innanzitutto l'art. 9 Cost.).
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L'abbandono impietoso di un monumento, costituisce un aperto dispregio dell'obbligo giuridico di natura generale di gestione del bene di interesse pubblico secondo i criteri del buon padre di famiglia.
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La funzione di vigilanza e di tutela di un bene immobile di notevole importanza monumentale, da esercitarsi innanzitutto mediante una gestione e una manutenzione ordinaria adeguate, non afferiscono a profili di discrezionalità del proprietario o di chi sia investito ad altro titolo della sua conservazione, anche ove questi siano delle pubbliche amministrazioni, ma a ben specifici obblighi giuridici di agire, che si traggono agevolmente dalla disciplina penale (che incrimina condotte di violazione della integrità del bene culturale, cfr. artt. 733 e 677 c.p., artt.169 e 181 cod. beni culturali; dalla disciplina civilistica (art. 838 c.c.), dalla normativa di natura amministrativa, che regolamenta l'esercizio di relativi compiti e poteri affidati a diversi organismi della p.a., e dal fondamentale principio di rango costituzionale di tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione (art. 9 Cost. e cfr. inoltre art. 117 Cost., comma 2, lett. S)
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - TRIBUNALE di Palermo, G.I.P., ordinanza 08.10.2013 n. 16090).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di falsità ideologica in certificati (DIA).
Integra il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.), non solo la falsificazione della dichiarazione di inizio attività, ma anche quella riguardante la relazione di accompagnamento alla stessa, avendo essa natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2013 n. 40975 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Falso in atto pubblico per induzione.
Sulla configurabilità del falso in atto pubblico per induzione (artt. 48-479 cod. pen.) in caso di presentazione di una dichiarazione di variazione catastale ideologicamente falsa, attestante un frazionamento in realtà non avvenuto e la sua ricezione da parte dell'agenzia del territorio nella scheda catastale (fattispecie relativa a falso in condono edilizio e lottizzazione abusiva per trasformazione di un immobile da alberghiero a residenziale (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 02.10.2013 n. 40785 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Nozione di veicolo fuori uso.
Deve considerarsi "fuori uso" non solo quel veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, ma anche tanto quello destinato alla demolizione, privo delle targhe di immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un centro di raccolta, quanto quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se giacente in area privata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2013 n. 40747 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Complesso multisala cinematografiche, diniego esclusione dal contributo di concessione spazi promiscui e parcheggi.
In funzione dell'inesistenza di un vincolo di pertinenzialità esclusiva con l'attività di pubblico spettacolo cinematografico non possono escludersi dal computo della volumetria i c.d. spazi "promiscui", ossia ingressi, uscite, atrii, servizi igienici, salvo che non ne sia possibile una delimitazione fisica e strutturale tale da renderli funzionali ai soli spettatori delle proiezioni cinematografiche.
Inoltre, poiché non sussiste, né è stato comprovato, un vincolo d'asservimento esclusivo degli spazi a parcheggio alla sola attività di spettacolo cinematografico, non può invocarsi una relazione di pertinenzialità tra i parcheggi e le sale cinematografiche, quindi, non possono essere esclusi dal calcolo della volumetria gli spazi adibiti a parcheggio
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio.
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione, ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione, con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge, o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Rifiuti. Tariffa rifiuti aree produttive.
Con l’art. 195, comma 2, lett. e), del d. lgs. n. 152 del 2006 si è dettata una normativa chiara e coerente con i principi comunitari, essendosi stabilito che “non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei locali di servizio dei lavoratori o comunque aperti al pubblico”.
In quanto non assimilabili, i rifiuti che si formano nelle aree produttive, salve le eccezioni sopra elencate, sfuggono al regime transitorio e si pongono al di fuori della privativa comunale. Il che comporta che questi rifiuti non possono essere conferiti al servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, ma come stabilisce l’art. 188, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 152 del 2006 e la remunerazione del servizio deve essere assicurata attraverso apposita convenzione e, quindi, attraverso un canone o tariffa rapportata prevalentemente ai volumi e pesi conferit
i (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog. Delocalizzazione di impianto ripetitore per telefonia cellulare.
Deve considerarsi legittima la previsione di spostamento di un impianto per telefonia cellulare inserita nel piano di localizzazione delle stazioni radio base di un comune, integrando essa una prescrizione non generalizzata attinente all'urbanistica ed alla pianificazione del territorio che ha natura consentita dalla legge quadro n. 36/2001.
L'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 è necessaria, perché espressamente prevista anche per “la modifica delle caratteristiche di emissione" e l’intervento eseguito nella fattispecie, per le sue connotazioni innovative concrete, non può considerarsi di mera manutenzione dell’esistente ma (essendo anche assimilato in via normativa ad un incremento dell’urbanizzazione primaria) non può ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure sotto il profilo urbanistico.
Il silenzio-assenso di cui al comma 9 dell’art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 non può ritenersi formato in mancanza di conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni contenute nell’anzidetto piano di localizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2013 n. 39415 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Esercizio di impianto o attività inquinante ed elemento soggettivo del reato.
La responsabilità penale posta dalla norma incriminatrice (art. 279, comma 2, d.lgs. 152/2006) a carico dei soggetti che esercitano un impianto o un’attività inquinante discende da colpa, intesa in senso ampio, ossia negligenza, imprudenza o imperizia, conseguente non solo a comportamenti commissivi, ma anche ad inosservanza di prescrizioni pure individuali impartite dall’autorità competente nel generale contesto del dovere positivo di adozione di tutte le misure tecniche ed organizzative di prevenzione del danno ambientale.
Si configura, nella materia, un dovere di controllo e di prudente vigilanza di colui che esercita l'impianto, imposto per legge, e soltanto un evento eccezionale del tutto imponderabile ed imprevedibile (non ravvisabile in relazione ad eventi riconducibili ad omissioni negligenti) può costituire causa di esclusione della punibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2013 n. 39404 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordine di chiusura di allevamento suinicolo.
L’originaria localizzazione dell’allevamento (va ricordato, industria insalubre di prima classe, in base, da ultimo, all’elenco allegato al d.m. 05.09.1994, attuativo dell’art. 216 del T.U.LL.SS.) in zona agricola non esentava il ricorrente, ai sensi dell’art. 216, cit., dal tenere l’azienda “isolata nella campagna” e comunque “lontana dalle abitazioni”.
E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Interventi di minima entità.
Nel testo dell’art. 181 del D.L.vo 42/2004, non si fa alcun riferimento alla nozione di “interventi di minima entità", concetto elaborato in via giurisprudenziale ed attualmente ritenuto l'unico criterio valido di riferimento al fine di distinguere i casi di totale irrilevanza, come tali non punibili, da quelli, certamente modesti, ma inclusi nell’area della punibilità penale per quelle ragioni connesse alla prioritaria esigenza di salvaguardia del territorio sotto il profilo ambientale e paesaggistico nel suo complesso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2013 n. 39049 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione ordinata dal giudice ed ambito di applicazione.
La demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto l’immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito successivamente che, per la sua accessorietà all'opera abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo consentirsi che un qualunque intervento additivo, abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse, si finirebbe per incentivare le più diverse forme di abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo indefinito la demolizione di opere in precedenza illegalmente realizzate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.09.2013 n. 38947 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Nozione di titolare di impresa o responsabile di ente.
Il reato di cui all'art. 256, comma secondo, del d.lgs. n. 152 del 2006 è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'ambito di una attività economica esercitata anche di fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o dell'attività medesima, così dovendosi intendere il «titolare di impresa o responsabile di ente» menzionato dalla norma (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38364 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica dei prospetti e titolo abilitativo necessario.
Non può ritenersi sufficiente la mera denuncia d'inizio attività per gli interventi edilizi comportanti una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", rientrando nella previsione dell’art. 10, lett. c), DPR 380/2001 secondo cui “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici...» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38338 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica stagionale.
E’ legittimo l’atto con cui la Soprintendenza ha autorizzato la realizzazione di strutture precarie nell’ambito dello stabilimento balneare a condizione che le stesse siano rimosse al termine della stagione estiva. La Soprintendenza, infatti, ha ritenuto che i valori paesaggistici della zona non subiscono alterazioni soltanto se il manufatto viene mantenuto per il solo periodo estivo.
A tale proposito, questa Sezione ha già avuto modo di affermare, in relazione a fattispecie analoghe, che i contesti, estivo e invernale, in cui gli stabilimenti si inseriscono sono diversi, il che implica che differente può essere l’impatto che un manufatto può avere a seconda del periodo che viene in rilievo.
Si tenga conto, inoltre, che la concessione per il solo periodo estivo si giustifica anche alla luce di un complessivo bilanciamento degli interessi rilevanti e in considerazione che l’incidenza sull’ambiente è comunque temporalmente limitata
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.09.2013 n. 4642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esenzione contributo ex art. 3 legge 10/1977.
Il requisito c.d. soggettivo, necessario per accordare l’esenzione dal contributo di cui all’art. 3 della l. 10 del 1977, sussiste non solo nel caso in cui l’opera sia realizzata direttamente da un ente pubblico nell’esercizio delle proprie competenze istituzionali, ma anche nel caso in cui l’opus venga realizzato da un soggetto privato, purché per conto di un ente pubblico, come nel caso della concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie, in cui l’opera sia realizzata da soggetti che non agiscano per scopo di lucro, o che accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione volta alla cura di interessi pubblici (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive e uso pubblico della strada.
La circostanza che il Comune non sia intervenuto tempestivamente nell'assumere iniziative per il ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non può ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle strade pubbliche.
Per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865 n. 2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche quando da tempo la strada non è stata utilizzata dalla collettività ed anche quando sia diventata impraticabile al carreggio
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d'uso e strumenti di pianificazione.
La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi.
L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38005 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di veranda.
Una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando cosi il godimento dell'immobile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Posizionamento stabile di case mobili o di roulotte.
Il posizionamento stabile di case mobili o di roulotte non può essere considerato circostanza neutra ai fini della disciplina urbanistica e che la necessità o meno di titolo autorizzativo trova ragion d'essere nelle concrete modalità e caratteristiche della condotta tenuta, essendo il titolo necessario nell'insediamento che ha carattere di sostanziale stabilità e si concreta in una effettiva incidenza sull'assetto del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37572 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e materie fecali.
L’esclusione dalla disciplina dei rifiuti materie fecali opera a condizione che le stesse provengano da attività agricola e che siano riutilizzate nella stessa attività agricola (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37548 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e responsabilità dell'appaltatore.
Risponde del reato di abusiva gestione di rifiuti l'appaltatore di lavori edili, in quanto grava su di lui l'obbligo di garanzia in relazione all'interesse tutelato ed al corretto espletamento delle operazioni di raccolta e smaltimento dei rifiuti connessi all'attività edificatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37547 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Disciplina dei rifiuti e ruolo del sindaco.
Sebbene l'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267) distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico–operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37544 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Inerti provenienti da demolizioni di edifici.
Gli inerti provenienti da demolizioni di edifici continuano ad essere considerati rifiuti speciali anche in base al decreto legislativo n. 152 del 2006, trattandosi di materiale espressamente qualificato come rifiuto dalla legge, del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o al recupero o allo smaltimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37541 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e rilevanza penale della condotta.
Le diverse modalità con le quali la lottizzazione abusiva può essere attuata inquadrano la contravvenzione come reato a forma libera, permanente e progressivo nell’evento, del quale è inoltre pacifica la natura di reato di pericolo, cosicché la sua lesività non può ritenersi confinata nella sola trasformazione effettiva del territorio ma deve, al contrario, essere riferita alla potenzialità di tale trasformazione intesa come il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata.
La condotta posta in essere assume pertanto rilevanza penale con il compimento di qualsiasi atto che, obiettivamente valutato, risulti funzionalmente diretto alla illegittima lottizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.09.2013 n. 37383 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia e differenza con nuova costruzione.
La ristrutturazione edilizia si caratterizza anche per la previsione di possibili incrementi volumetrici, che devono essere senz’altro contenuti, in modo da mantenere netta la differenza con gli interventi di “nuova costruzione”, tanto che si è ritenuto che le modifiche volumetriche, ora previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra "ristrutturazione edilizia" e "nuova costruzione" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.09.2013 n. 37249 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Art. 142 d.lgs. n. 42/2004 - Fiumi, torrenti e corsi d’acqua - Vincolo paesaggistico - Fiumi e torrenti - Imposizione del vincolo ex lege - Iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche - Necessità per i soli corsi d’acqua diversi da fiumi e torrenti.
 L’art. 142 del D.Lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui dispone che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo ... i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi previsti dal … regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri” va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé (ex art. 822 c.c.) ed anche il vincolo paesaggistico è imposto ex lege senza necessità di iscrizione negli elenchi. Tale interpretazione è avvalorata dalla modifica apportata dal legislatore al testo dell’art. 146 del d.lgs. n. 490/1999, che operava riferimento a “i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti…”.
La scomparsa della congiunzione ed e l’inserimento al suo posto di una virgola, quale segno di separazione, risulta indicativa della volontà del legislatore di evidenziare una cesura tra le diverse tipologie di acque fluenti e, per l’effetto, di sottolineare con maggiore evidenza che il requisito della iscrizione è riferito ai soli corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti.
ACQUA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Denominazione ufficiale di fiume o torrente - Successiva perdita delle caratteristiche proprie della categoria - Irrilevanza - Verifica sostanziale - Limiti.
La denominazione ufficiale di fiume o torrente, in quanto frutto dell’accertamento, da parte di soggetti qualificati, delle caratteristiche proprie della categoria non è dato liberamente disapplicabile. Una volta qualificato ufficialmente, il bene risulta vincolato, irrilevante essendo il dato sostanziale della mancanza ovvero della perdita delle caratteristiche proprie della categoria. Tali elementi rilevano, al fine del venir meno del vincolo, solo all’esito di un peculiare procedimento amministrativo di declassificazione.
La verifica sostanziale, pertanto, è consentita solo quando manchi una denominazione ufficiale ovvero quando questa sia contraddittoria, perplessa o ancora quando, in presenza di una pluralità di denominazioni, non sia certa l’appartenenza di uno specifico tratto del corso d’acqua all’una o all’altra qualificazione (fattispecie relativa ad un corso d’acqua per un tratto denominato nelle carte IGM “torrente” e per un tratto “fosso”) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 18.07.2008 n. 2172 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAI fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, e a prescindere dalla iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico.
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Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R. 24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312, conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica, nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>> non è di per sé significativa e dirimente, al fine dell’accogliere la tesi che riferisce la iscrizione in elenco ai soli corsi d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>, che va desunto dal sistema normativo complessivo, in cui si inserisce la previsione in commento, e dal significato letterale delle parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi, torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>> sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana, si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo scorrere delle acque in movimento>>, ed è il <<nome generico di fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua caratterizzato da notevoli variazioni di regime, con periodi in cui scorre gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi completamente secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua, ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>), fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto di affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
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Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici, distintamente per province, in elenchi da approvarsi per decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha portata costitutiva della natura giuridica del bene medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del 1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod. civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti, rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.

Da una interpretazione letterale, logica e sistematica, si evince che i fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, e a prescindere dalla iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico.
Sul piano letterale, l’art. 82, comma 5, lett. c), D.P.R. 24.07.1977, n. 616, introdotto dal D.L. 27.06.1985, n. 312, conv. nella L. 08.08.1985, n. 431, assoggetta a tutela <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La previsione è stata riprodotta, con formulazione identica, nell’art. 146, comma 1, lett. c), D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali, a norma del quale sono soggetti a tutela: <<i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna>>.
La collocazione delle virgole e delle congiunzioni tra le parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>> non è di per sé significativa e dirimente, al fine dell’accogliere la tesi che riferisce la iscrizione in elenco ai soli corsi d’acqua ovvero anche ai fiumi e ai torrenti.
Occorre piuttosto soffermarsi sul significato delle parole <<fiumi>>, <<torrenti>>, <<corsi d’acqua>>, che va desunto dal sistema normativo complessivo, in cui si inserisce la previsione in commento, e dal significato letterale delle parole utilizzate.
Sul piano strettamente letterale, il dato comune a fiumi, torrenti e corsi d’acqua, è di essere acque <<fluenti>>.
Si può anche aggiungere che a rigore i <<corsi d’acqua>> sono un genere, in cui si collocano, quali specie, i fiumi e i torrenti.
Dal significato proprio delle parole nella lingua italiana, si apprende, infatti, che:
- il <<corso d’acqua>> indica semplicemente <<lo scorrere delle acque in movimento>>, ed è il <<nome generico di fiumi, torrenti, etc..>>;
- il <<fiume>> è un <<corso d’acqua a corrente perenne>>;
- mentre il <<torrente>> è un <<corso d’acqua caratterizzato da notevoli variazioni di regime, con periodi in cui scorre gonfio e impetuoso ed altri in cui è quasi completamente secco>>.
Se, dunque, anche i fiumi e i torrenti sono corsi d’acqua, ci si deve interrogare sulla ragione di una loro autonoma previsione accanto ai corsi d’acqua: sarebbe stato sufficiente, da parte del legislatore, prevedere i soli corsi d’acqua, salvo poi ad optare per la necessità o meno della iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche.
La previsione autonoma assume allora una sola, plausibile spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di minore portata (p. es. ruscelli (<<piccolo corso d’acqua>>), fiumicelli (<<piccolo fiume>>), sorgenti (<<punto di affioramento di una falda d’acqua>>), fiumare (<<corso d’acqua a carattere torrentizio>>), etc..).
In tale logica, solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, al fine della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Ulteriori argomenti esegetici a sostegno di tale tesi si colgono sul piano della interpretazione sistematica.
Il testo unico delle acque pubbliche, approvato con R.D. 11.12.1933, n. 1775, all’art. 1 stabilisce che <<Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono iscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici, distintamente per province, in elenchi da approvarsi per decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento>>.
Da tale norma si evince che la pubblicità di un’acqua discende dal requisito sostanziale di avere attitudine ad uso di pubblico interesse generale, mentre la iscrizione in elenco ha una portata solo dichiarativa e ricognitiva, ma non costitutiva della pubblicità.
Anche l’art. 822 cod. civ. nell’individuare il demanio pubblico, considera beni demaniali <<i fiumi, i torrenti e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia>>.
Da tale disamina si evince che fiumi e torrenti sono considerati beni pubblici demaniali di per sé, senza necessità alcuna di inserzione costitutiva in elenchi.
Le altre acque fluenti, che hanno minore importanza e che sono una categoria residuale, sono pubbliche se abbiano attitudine ad uso pubblico di interesse generale.
In nessun caso la inserzione in elenco ha portata costitutiva della pubblicità dell’acqua, ma solo ricognitiva della attitudine dell’acqua all’uso pubblico di interesse generale.
Se dunque, dal sistema normativo è dato evincere che la iscrizione di un bene in un elenco di beni pubblici non ha portata costitutiva della natura giuridica del bene medesimo, siffatta regola non può non essere stata seguita dal legislatore anche nella individuazione dei beni soggetti a vincolo paesistico.
Significativo è poi l’uso, da parte della L. n. 431 del 1985, della stessa terminologia impiegata nell’art. 822 cod. civ.: in entrambe le norme si parla di fiumi e torrenti, rispetto ai quali si collocano le altre acque, per le quali si richiede, ai fini della individuazione, la iscrizione in elenco.
Sicché, per fiumi e torrenti la pubblicità degli stessi esiste di per sé, in base all’art. 822 cod. civ., e conseguentemente anche il vincolo paesistico è imposto ex lege a prescindere dalla iscrizione in elenchi.
Ne consegue, nel caso di specie, che il Testene, in quanto fiume, è soggetto a tutela paesaggistica per legge, e non occorre perciò verificare se sia o meno inserito in elenchi delle acque pubbliche (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.02.2002 n. 657).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche nel caso delle organizzazioni sindacali, ai fini della valutazione sull’accessibilità o meno d’un documento (o di parti esso) occorre verificare il tipo di interesse perseguito che, ovviamente, deve essere giuridicamente rilevante e di cui il sindacato deve essere direttamente portatore in relazione a ciascuna fattispecie.
Nella specie, la richiesta del sindacato istante di conoscere i nominativi del personale (impegnato nel perseguimento dei progetti obiettivo) sembra invece essere implicitamente preordinata alla tutela di interessi di singoli associati.
Invero, in sede di accesso alla delibera direttoriale di approvazione dei progetti obiettivo per l’anno 2012, il sindacato ricorrente non può pretendere -con particolare riferimento all’allegato 3, costituito dalle schede dei progetti e dai progetti obiettivo presentati dalle diverse unità operative approvati (o meno) dall’amministrazione- di conoscere i nominativi del personale dipendente impegnato negli stessi poiché ciò eccede le finalità (sicuramente in sé legittime e, anzi, riconducibili ai compiti istituzionale d’un sindacato presente nell’azienda in questione) di verifica sul se e sul come i sopramenzionati criteri (oggetto di trattativa con la controparte datoriale) sono stati rispettati, sia dal punto di vista strettamente finanziario e sia sotto il profilo più spiccatamente organizzativo.
Le schede riepilogative allegate alla delibera riportano, per ciascun progetto, i contenuti del progetto, gli obiettivi, i tempi, i costi, gli altri indicatori numerici nonché il profilo (appunto) organizzativo del progetto che ovviamente comprende l’indicazione delle unità operative o delle strutture coinvolte e il numero di unità di personale impegnate con la corrispondente qualifica e articolazione di appartenenza.
Trattasi, come già si è detto, d’una completa radiografia di ciascun progetto obiettivo approvato, attraverso il quale il sindacato ben può svolgere la propria funzione di controllo sulle modalità con cui si intendono spendere i fondi destinati a tale segmento dell’attività aziendale senza pregiudizio alcuno riconducibile alla non conoscenza dei nominativi in questione.

... per l'annullamento della nota prot. n. 20120043180 del 27/11/2012 con la quale l’Azienda Ospedaliera intimata negava l’accesso, richiesto con nota del 23/10/2012, ad oggetto: “Approvazione dei progetti obiettivo per l’anno 2012 relativi alle tre aree contrattuali” e per la declaratoria del diritto del sindacato ricorrente a detto accesso e quindi a prendere visione ed estrarre copia integrale del documento richiesto con ordine all’amministrazione di esibizione della documentazione.
...
Deve essere premesso che il sindacato ricorrente, sulla base dei CCNL dell’area comparto sanità e dell’area della dirigenza medica, ha partecipato alla trattativa con la parte pubblica volta a definire, per quanto riguarda l’Azienda Ospedaliera S. Carlo di Potenza:
a) i fondi, con le relative quote, da destinare, per il miglioramento delle attività aziendali, alla dirigenza medica e alla dirigenza SPTA;
b) la percentuale di fondo da destinare alla remunerazione della quota di budget e della quota progetti.
In particolare, nella riunione del 09/05/2012 (verbale n. 2 richiamato nella delibera di approvazione), per quanto riguarda i criteri di distribuzione del fondo di produttività per l’anno 2012 era stato stabilito che il 30% del fondo sarebbe stato utilizzato per finanziare progetti ritenuti prioritari dalla Direzione destinando la parte rimanete al budget. Il direttore amministrativo in tale sede aveva pure informato i sindacati che sarebbero stati scelti, tra i progetti obiettivo presentati, quelli in linea con gli obiettivi indicati dalla Regione (richiamati nelle premesse della delibera) poiché in tal modo quest’ultima avrebbe potuto accedere a risorse aggiuntive del F.S.R.
Tanto premesso, risulta evidente che, in sede di accesso alla delibera direttoriale di approvazione dei progetti obiettivo per l’anno 2012, il sindacato ricorrente non può pretendere -con particolare riferimento all’allegato 3, costituito dalle schede dei progetti e dai progetti obiettivo presentati dalle diverse unità operative approvati (o meno) dall’amministrazione- di conoscere i nominativi del personale dipendente impegnato negli stessi poiché ciò eccede le finalità (sicuramente in sé legittime e, anzi, riconducibili ai compiti istituzionale d’un sindacato presente nell’azienda in questione) di verifica sul se e sul come i sopramenzionati criteri (oggetto di trattativa con la controparte datoriale) sono stati rispettati, sia dal punto di vista strettamente finanziario e sia sotto il profilo più spiccatamente organizzativo.
Le schede riepilogative allegate alla delibera riportano, per ciascun progetto, i contenuti del progetto, gli obiettivi, i tempi, i costi, gli altri indicatori numerici nonché il profilo (appunto) organizzativo del progetto che ovviamente comprende l’indicazione delle unità operative o delle strutture coinvolte e il numero di unità di personale impegnate con la corrispondente qualifica e articolazione di appartenenza. Trattasi, come già si è detto, d’una completa radiografia di ciascun progetto obiettivo approvato, attraverso il quale il sindacato ben può svolgere la propria funzione di controllo sulle modalità con cui si intendono spendere i fondi destinati a tale segmento dell’attività aziendale senza pregiudizio alcuno riconducibile alla non conoscenza dei nominativi in questione.
Del resto, la “ratio” di fondo di tale conclusione è la medesima che, sotto il distinto, benché collegato, profilo delle norme di protezione dei dati personali, percorre le disposizioni richiamate dall’amministrazione, in particolare l’art. 11 del d.lgs. n. 196/2003 che, in tema di modalità del trattamento e requisiti dei dati personali, impone (lett. d) che gli stessi siano pertinenti, completi e “non eccedenti” rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati.
In questa falsariga, giova anzi ricordare che le linee guida del Garante per la protezione dei dati personali (deliberazione del 14/06/2007 richiamata nel provvedimento n. 431 del 20/12/2012 che nega la trasmissione di nominativi relativamente alle ore di straordinario svolte), al punto 5.2 (rapporti con le organizzazioni sindacali), autorizzano l’amministrazione a fornire ai sindacati dati numerici o aggregati e non anche quelli riferibili ad uno o più lavoratori individuabili ogni qual volta (come nel caso di specie) manchi una disposizione di contratto collettivo che preveda espressamente che l’informazione sindacale abbia ad oggetto anche dati nominativi del personale per verificare la corretta attuazione di taluni atti organizzativi.
In altri termini -e per stare alle norme di cui all’art. 22 della legge n. 241/1990- è avviso del collegio che, anche nel caso delle organizzazioni sindacali, ai fini della valutazione sull’accessibilità o meno d’un documento (o di parti esso) occorre verificare il tipo di interesse perseguito che, ovviamente, deve essere giuridicamente rilevante e di cui il sindacato deve essere direttamente portatore in relazione a ciascuna fattispecie.
Nella specie, la richiesta del sindacato istante di conoscere i nominativi del personale predetto sembra invece essere implicitamente preordinata alla tutela di interessi di singoli associati. In quest’ultima ottica poi, anche a voler prendere in considerazione i richiami giurisprudenziali esposti dal ricorrente, c’è da dire che, nella fattispecie, si è in presenza non di una delibera che liquidi ai singoli dipendenti emolumenti o incrementi di natura stipendiale bensì solo di un atto organizzativo di carattere generale che assegna importi destinati alla successiva attuazione dei progetti obiettivo.
Di tal ché, per quanto sopra esposto, va ribadita la reiezione del presente gravame (
TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.01.2014

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 02.01.2014, "Approvazione del documento “Indicazioni per gli operatori forestali in applicazione del regolamento (UE) n. 995/2010”" (decreto D.S. 23.12.2013 n. 12634).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013, "Direzione generale Territorio,urbanistica e difesa del suolo - Esame e valutazione delle domande di iscrizione all’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale, istituito con legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto A.R. 23.12.2013 n. 12733).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013, "Disposizioni attuative finalizzate alla valutazione delle istanze per l’autorizzazione all’apertura o alla modificazione delle grandi strutture di vendita conseguenti alla d.c.r. 12.11.2013 n. X/187 “Nuove linee per lo sviluppo delle imprese del settore commerciale"" (deliberazione G.R. 20.12.2013 n. 1193).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013, "Criteri e parametri per l’individuazione e la classificazione dei piccoli comuni non montani, dei comuni montani e parzialmente montani ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11 e dell’art. 3 della legge regionale 15.10.2007, n. 25" (deliberazione G.R. 20.12.2013 n. 1182).

PATRIMONIO - VARI: G.U. 30.12.2013 n. 304 "Disposizioni di carattere finanziario indifferibili finalizzate a garantire la funzionalità di enti locali, la realizzazione di misure in tema di infrastrutture, trasporti ed opere pubbliche nonché a consentire interventi in favore di popolazioni colpite da calamità naturali" (D.L. 30.12.2013 n. 151).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 30.12.2013 n. 304 "Proroga di termini previsti da disposizioni legislative" (D.L. 30.12.2013 n. 150).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2013, "Criteri e modalità per la presentazione delle domande di autorizzazione in deroga al regime proprio dei parchi, per la realizzazione di opere pubbliche e di reti ed interventi infrastrutturali (art. 18, comma 6-ter, l.r. 86/1983)" (deliberazione G.R. 29.11.2013 n. 990).

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EDILIZIA PRIVATACambio di sagoma senza «Scia». Se la ricostruzione modifica la facciata serve il permesso di costruire o la «Dia».
Ristrutturazioni. La semplificazione voluta dal decreto «del fare» contrasta con l'obbligo di rispettare i prospetti dell'edificio
Anche dopo gli interventi di semplificazione del legislatore, la ristrutturazione senza rispetto della sagoma resta un intervento edilizio ancora incerto, almeno sotto il profilo delle autorizzazioni necessarie.
Il decreto del fare (Dl 69/2013), infatti, ha introdotto rilevanti modifiche in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia, con demolizione e ricostruzione senza rispetto della sagoma.
Innanzitutto il decreto ha rivisto la stessa definizione generale di ristrutturazione edilizia, contenuta all'articolo 3 del Testo unico in materia edilizia (Dpr 380/2001), eliminando il riferimento all'identità di sagoma, con l'effetto che, oggi, gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione dei fabbricati (non vincolati ai sensi del Dlgs 42/2004), con la stessa volumetria di quello preesistente, seppure con sagoma differente, costituiscono a tutti gli effetti «ristrutturazione edilizia» e non più nuova costruzione.
Il decreto ha poi introdotto ulteriori rilevanti modifiche. Il legislatore ha infatti modificato anche l'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico, cioè la norma che individua gli interventi di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, ossia quelle ristrutturazioni attuabili previo rilascio del permesso di costruire (ovvero mediante Dia alternativa) e non mediante semplice Scia (segnalazione certificata di inizio attività). Anche qui il decreto ha eliminato –in relazione agli edifici non vincolati– il riferimento alla sagoma, prima contenuto nella disposizione.
La correzione sembra, quindi, essere stata volta a consentire l'assoggettamento a semplice Scia anche di quelle ristrutturazioni che prevedano alterazioni della sagoma dell'edificio. Ma il legislatore potrebbe aver mancato l'obiettivo.
Le difficoltà
La nuova nozione di ristrutturazione edilizia pesante, infatti, continua a richiamare i prospetti dell'edificio e, pertanto, un parametro tecnico che varia, o quantomeno può variare, al variare della sagoma.
Ad oggi, costituiscono ristrutturazione edilizia pesante, soggetta a permesso di costruire o, in alternativa a Dia, quegli interventi di ristrutturazione che portino a «un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
Ebbene, poiché la giurisprudenza ha chiarito che si ha ristrutturazione edilizia "pesante" tutte le volte in cui venga alterato anche solamente uno dei parametri elencati nella norma (aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o modifiche di prospetti o superfici; si veda Cassazione penale, Sezione terza, sentenza 01.03.2007, n. 8669), è corretto ritenere che una ristrutturazione che porti a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con modifica della sagoma e –al tempo stesso– con modifica dei prospetti (pur senza aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici) continui a costituire una ristrutturazione edilizia "pesante", soggetta a permesso di costruire o a Dia.
È chiaro che questa conclusione rappresenta una forte limitazione per la recente semplificazione, la cui sfera di applicazione viene notevolmente ridotta. Del resto, ipotizzare un intervento di ristrutturazione che implichi una modifica della sagoma, ma che al tempo stesso non comporti modifiche ai prospetti dell'edificio si rivela piuttosto arduo.
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che la sagoma di un edificio è la «conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti» (Tar Lombardia-Milano, sezione II, sentenza n. 1441/2012).
Per prospetti (o alzati) si intendono, invece, gli sviluppi in verticale di un edificio e, dunque, le facciate di un fabbricato (Tar Lazio Roma, sentenza n. 8380/2009). Ebbene, è evidente che le soluzioni progettuali che consentano la modifica della sagoma di un edificio senza alterare le facciate del fabbricato sono piuttosto ridotte.
Per conseguire pienamente l'obiettivo di semplificazione legato alla modifica del decreto fare e, quindi, per completare il percorso di riforma intrapreso, potrebbe quindi essere opportuno che il legislatore metta nuovamente mano al Testo unico, stralciando il riferimento ai "prospetti", tuttora presente all'articolo 10.
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Titoli abilitativi strutturati su quattro livelli.
Sono numerosi gli interventi, le modifiche e le riscritture intervenute nella materia dei titoli abilitativi in edilizia dal 2010 a oggi.
Tra le modifiche al Testo unico (Dpr 380/2001) più rilevanti, occorre richiamare quelle introdotte dal Dl 40/2010, che ha ampliato le fattispecie di attività edilizia libera, distinguendo tra attività totalmente libere ed attività soggette a preventiva «Comunicazione di inizio lavori» (Cil, ma a Milano e in altri Comuni è definita Comunicazione di inizio attività libera, Cial). E ancora: le modifiche di cui al Dl 78/2010 che è intervenuto sul'articolo 19 della legge 241/1990 prevedendo la «Segnalazione certificata di inizio attività» (Scia) in luogo della Denuncia di inizio attività (Dia), in precedenza disciplinato dalla stessa norma.
Infine, le correzioni apportate con i decreti legge n. 70/2011 e n. 83/2012, con i quali, tra l'altro, è stato introdotto il silenzio assenso per il rilascio del permesso di costruire e, in generale, sono stati modificati i procedimenti volti al rilascio dei distinti titoli edilizi.
A seguito di queste riforme l'ambito di applicazione della Dia si è notevolmente ridotto in favore della Scia. Ma il modello procedimentale della Dia è ancora attuale. E infatti, come chiarito all'articolo 5, comma 2, lettera c) del Dl 70/2011, le disposizioni sulla Scia si applicano alle Dia in materia edilizia disciplinate dal Testo unico, ma con esclusione di tutti i casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno,dunque, delineato un sistema composto da quattro principali modelli abilitativi, ciascuno corrispondente a determinate categorie di interventi edilizi:
- l'attività soggetta a Cil, realizzabile immediatamente previa comunicazione all'amministrazione;
- l'attività soggetta a Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla presentazione della prevista documentazione;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia), realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire, espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Dopo queste riforme, il modello procedimentale della Dia risulta, dunque, ancora applicabile a una serie di importanti fattispecie. La denuncia potrà infatti essere utilizzata rispetto agli interventi di ristrutturazione edilizia "pesante", la cui definizione –contenuta all'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico– è stata recentemente modificata dal decreto "del fare" (si veda l'articolo a fianco), riguardo agli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive e, infine, in merito agli interventi di nuova costruzione, qualora questi siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
Inoltre, rimangono soggetti a Dia gli interventi per i quali le Regioni abbiano indicato la possibilità di ricorso a questo modello abilitativo in alternativa o in sostituzione al permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno, dunque, certamente semplificato e snellito le procedure per conseguire i titoli abilitativi. Ma nell'apprestare i progetti gli operatori devono comunque porre particolare attenzione alla classificazione delle opere alla luce delle disposizioni del Testo unico e alla identificazione del conseguente modello abilitativo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici. Il sistema informatico Avcpass. Appalti, la verifica dei requisiti attende istruzioni.
Manca solo un mese all'operatività del sistema Avcpass per la verifica dei requisiti degli operatori economici partecipanti alle gare di appalto da parte delle amministrazioni pubbliche, ma emergono criticità che devono essere risolte e le stazioni appaltanti non dispongono di una versione dimostrativa per esercitarsi.

Il particolare percorso procedurale gestito in modo totalmente informatizzato è disciplinato dalla deliberazione dell'Avcp n. 111/2012, che fa riferimento all'articolo 6-bis del Codice dei contratti. Dal 01.01.2014 le amministrazioni aggiudicatrici potranno verificare i requisiti di ordine generale e di capacità solo mediante tale sistema, che consente l'accesso ai documenti depositati nella banca dati nazionale dei contratti pubblici.
L'impostazione dell'Avcpass desumibile dai tutorial e dai materiali formativi messi a disposizione dall'Autorità prefigura il suo utilizzo per la verifica in corso di gara sia dei requisiti di capacità (economico-finanziaria e tecnico-profesisonale), in base all'articolo 48 del Codice, sia di quelli di ordine generale, riferiti alle dichiarazioni sostitutive rese in ordine alle varie fattispecie previste dall'articolo 38, quindi secondo i criteri stabiliti per il riscontro della veridicità delle autocertificazioni.
Tuttavia i diagrammi di flusso proposti sembrano concentrare le verifiche sull'aggiudicatario e sul secondo classificato subito dopo la formazione della graduatoria di merito (dopo la valutazione delle offerte e l'eventuale verifica di quelle anomale), ma prima di pervenire all'aggiudicazione provvisoria, non sembrando utilizzabile per i controlli in sede di aggiudicazione definitiva e di stipulazione del contratto.
Un aspetto di ulteriore criticità si rileva in ordine alle ipotesi nelle quali la gara sia gestita da una centrale di committenza o da una stazione unica appaltante: in tal caso, infatti, la creazione della gara avviene da parte di un responsabile del procedimento (quello dell'amministrazione che approva il progetto e avvia la procedura) diverso da quello che dovrà gestire l'accesso all'Avcpass, con conseguente necessità di permettere a quest'ultimo la gestione del Cig per l'effettuazione delle varie operazioni nel sistema, in quanto deve registrarsi come soggetto tenuto alla verifica dei requisiti.
Il sistema presenta alcune criticità anche per gli operatori economici, i quali, comunque, dispongono nel sito dell'Autorità di una specifica versione dimostrativa.
Secondo la deliberazione n. 111/2012 le imprese che intendono concorrere a una gara devono inserire nel sistema solo alcune tipologie di documenti inerenti i requisiti di capacità economico-finanziaria (ad esempio le attestazioni bancarie) e di capacità tecnico-professionale (ad esempio i contratti e le fatture comprovanti i servizi o le forniture precedentemente svolti a favore di amministrazioni pubbliche), mentre i documenti inerenti i requisiti di ordine generale sono acquisiti dall'Avcpass mediante rapporto diretto con gli enti certificanti.
Tuttavia la simulazione dimostrativa evidenzia nella libreria (la repository dove l'operatore economico può inserire i file firmati digitalmente) e nella funzionalità di associazione dei documenti al «PassOe» numerose sezioni riferite al caricamento di documenti inerenti requisiti di ordine generale, che devono essere acquisiti d'ufficio dalla stazione appaltante, come il Durc relativo alla regolarità contributiva.
L'inserimento dei documenti relativi ai requisiti di ordine generale (collegati alle dichiarazioni sostitutive rese in sede di partecipazione alla gara) non è peraltro possibile per l'operatore economico, in quanto, in molti casi, si tratta di certificati, i quali, in base alle norme sulla decertificazione, non possono essere utilizzati nei rapporti con le amministrazioni pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2013 -  tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: AVVOCATI/ Un parere del Cnf dopo due sentenze emanate dal Tribunale di Verona.
Parcelle vidimate dall'Ordine. Strada obbligata per l'emissione di decreti ingiuntivi. Il recupero del compenso dell'avvocato passa ancora dall'ordine forense di appartenenza.

Il Consiglio nazionale forense fa chiarezza in merito all'iter procedurale volto a recuperare onorari e spese impagati dei legali, ribadendo la sussistenza del potere di «opinamento» delle parcelle in capo agli Ordini forensi (parere del 23.10.2013 in risposta al quesito n. 330, Unione Triveneta, Rel. Cons. Perfetti).
La pronuncia del Cnf nasce da due recenti sentenze del Tribunale di Verona, secondo le quali l'art. 9 del cd. decreto legge n. 1/2012 (cd. «Cresci-Italia»), che ha mandato in soffitta le tariffe forensi, avrebbe tacitamente abrogato anche gli articoli 633, comma 1 n. 2 e 3, e 636 del Codice procedura civile, facendo così venire meno la necessità di rivolgersi al competente ordine professionale per il prescritto parere sul quantum richiesto.
Le conseguenze pratiche delle pronunce sono evidenti: per ottenere un decreto ingiuntivo i professionisti avrebbero dovuto allegare al ricorso il contratto sottoscritto dal cliente, con l'indicazione analitica del compenso pattuiti. Secondo questo orientamento, insomma, i legali, per avvalersi dello strumento più veloce e snello del procedimento monitorio, avrebbero dovuto fornire la prova scritta dell'accordo con il cliente, come previsto dal primo comma n. 1 dell'art. 633 cpc.
La mancanza del contratto sarebbe stata supplita dalla liquidazione del giudice, operata sulla scorta dei parametri stabiliti con decreto dal ministero della giustizia.
Divenuta superflua la vidimazione della parcella, per effetto delle pronunce in questione, il Coa scaligero ha invitato i propri iscritti ad astenersi dal richiedere pareri di congruità delle parcelle. Da qui il quesito che la presidenza dell'Unione Triveneta ha posto al Consiglio nazionale forense e il conseguente parere reso dagli esperti romani lo scorso 23 ottobre. Per il vertice istituzionale delle toghe, l'interpretazione che i giudici di merito veneti hanno dato alla norma non può essere condivisa. «La portata abrogativa della norma», chiarisce il Cnf, «riguarda le tariffe come criterio di determinazione del compenso, e dunque incide sui criteri attraverso cui è esercitato il potere di opinamento, e non investe la sua persistenza in capo al Consiglio dell'Ordine forense». Dunque, gli avvocati che intendono chiedere l'emissione di un decreto ingiuntivo devono continuare a munire le proprie parcelle dell'obbligatorio parere di conformità dei consigli dell'ordine.
Qualche problema in più sorge nel caso in cui il credito fatto valere del professionista sia contestato. In caso di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal legale, questi dovrà provare in giudizio, non solo il conferimento dell'incarico, ma anche l'attività effettivamente svolta. È quanto ha affermato la Suprema corte (Corte di cassazione, sentenza n. 2456831 del 31.10.2013), in merito al credito di un professionista la cui attività, limitatasi alla fase stragiudiziale, non era stata adeguatamente documentata e provata in giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Formazione in materia di anticorruzione e limiti di spesa.
Il Comune può legittimamente derogare, per l’attività formativa in materia di anticorruzione, al tetto di spesa definito dall’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, con l’avvertenza, peraltro, che le iniziative formative devono tenere conto anche del possibile contributo degli operatori interni, “inseriti come docenti nell’ambito di percorsi di aggiornamento e formativi in house” (da Piano Nazionale Anticorruzione).
Un'ulteriore avvertenza sta nel fatto che
la previsione del comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010, nell’ottica della necessarietà del contenimento della spesa pubblica, con l’introduzione di un tetto di spesa per le attività formative, evidenzia, comunque, “la volontà del Legislatore di indurre le Amministrazioni a procedere ad un’attenta attività di programmazione dei fabbisogni formativi e di correlata individuazione delle risorse finanziarie all’uopo necessarie, realizzando per tale via obiettivi di razionalizzazione dell’azione amministrativa, oltre che di risparmio di spesa” con limitazione, pertanto, della deroga, all’esigenza assoluta di effettuare la formazione obbligatoria in un determinato esercizio, ovvero “limitatamente alle spese necessarie per corrispondere a precisi obblighi normativi che non possano essere disattesi o differiti ad altro esercizio.
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Il Sindaco del Comune di Pellegrino Parmense ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di parere in merito all’applicazione del limite delle spese di formazione, statuito all’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, all’attività formativa prevista dalla L. 190/2012 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, ovvero se questa debba considerarsi obbligatoria e quindi sottratta ai summenzionati vincoli di spesa.
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Ai fini della soluzione del quesito occorre, preliminarmente, richiamare l’ambito di applicazione del comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010 per cui “A decorrere dall’anno 2011 la spesa annua sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, incluse le autorità indipendenti, per attività esclusivamente di formazione, deve essere non superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell’anno 2009. ….”.
Al proposito, si sono già espresse, in modo assolutamente uniforme, più Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti secondo le quali
il contenimento della spesa per attività di formazione implica che l’ente pubblico sia titolare di un potere discrezionale circa la relativa assunzione. Pertanto, nell’ipotesi di attività formativa richiesta ex lege, in assenza di discrezionalità circa l’autorizzazione della spesa relativa, si è fuori dell’ambito applicativo della normativa surrichiamata (cfr. ex multis, Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia n. 106/2012 e Sezione regionale di controllo per la Lombardia n. 116/2011).
Per rispondere compiutamente al quesito, si procede, quindi, ad un’esegesi del dato normativo di cui alla L. 190/2012 circa ogni eventuale prescrizione di attività formativa del personale, con il consequenziale carattere vincolato della spesa necessaria per il relativo espletamento.
Occorre, altresì, premettere che, circa la cogenza della normativa anche per i Comuni, il comma 59 dell’art. 1 della L. 190/2012, testualmente recita che “Le disposizioni di prevenzione della corruzione di cui ai commi da 1 a 57 del presente articolo, di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione, sono applicate in tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni”.
In tema di formazione, il comma 8 dell’art. 1 prescrive che il responsabile della prevenzione della corruzione, entro il 31 gennaio di ogni anno, definisca “procedure appropriate per selezionare e formare, ai sensi del comma 10, i dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. ….”; il comma 10 statuisce, inoltre, che il responsabile della prevenzione della corruzione provveda anche “c) ad individuare il personale da inserire nei programmi di formazione di cui al comma 11”, ovvero sui temi dell’etica e della legalità ed, infine, il comma 44, rubricato “codice di comportamento”, prescrive che “le pubbliche amministrazioni verificano annualmente lo stato di applicazione dei codici e organizzano attività di formazione del personale per la conoscenza e la corretta applicazione degli stessi”.
L’attività formativa, normativamente prescritta, trova una concreta articolazione nel Piano triennale di prevenzione della corruzione adottato dalle amministrazioni pubbliche e per cui è richiesto, altresì, ai sensi della lettera b) del comma 9, di prevedere “meccanismi di formazione idonei a prevenire il rischio di corruzione”.
Come puntualmente richiamato dal Piano nazionale anticorruzione -che definisce gli ambiti/macro settori che devono essere presenti all’interno del Piano triennale per una sua adeguata articolazione- avente per destinatari tutte le P.A di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, oggetto di recente approvazione da parte della Civit “
Le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 debbono programmare adeguati livelli di formazione, tenendo presente una strutturazione su due livelli: livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguarda l’aggiornamento delle competenze (approccio contenutistico) e le tematiche dell’etica e della legalità (approccio valoriale); livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai dirigenti e funzionari addetti alle aree a rischio: riguarda le politiche, i programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da ciascun soggetto nell’amministrazione. I fabbisogni formativi sono individuati dal responsabile della prevenzione in raccordo con i dirigenti responsabili delle risorse umane e le iniziative formative vanno inserite anche nel P.T.F. di cui all’art. 7-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. ….”.
In sintesi, il necessario oggetto dell’azione formativa si articola in:
1) un livello generale, per tutti i dipendenti, afferente l’aggiornamento delle competenze, i temi dell’etica e della legalità e i codici di comportamento;
2) un livello specifico, per il responsabile anticorruzione, i componenti degli organismi di controllo, i dirigenti e funzionari addetti alle aree a rischio, che afferisce temi settoriali, in relazione al ruolo svolto da ciascun soggetto nell’amministrazione.
Il carattere imprescindibile della summenzionata attività formativa è, tra le altre motivazioni, desumibile anche dalla finalità della stessa, testualmente richiamata nell’allegato 1 al Piano nazionale anticorruzione, per cui “la formazione riveste un’importanza cruciale nell’ambito della prevenzione della corruzione”. Infatti si riduce il rischio che l’illecito sia commesso inconsapevolmente; si crea una omogenea base di conoscenze, che è presupposto indispensabile per rendere operativo una coerente programmazione di rotazione del personale e per la creazione di specifiche competenze nelle aree operative a più alto rischio corruttivo; si diffondono buone pratiche amministrative ed orientamenti giurisprudenziali su vari aspetti dell’esercizio della funzione amministrativa; si diffondono valori etici, con insegnamento di “principi di comportamento eticamente e giuridicamente adeguati”.
Da ultimo, la cogenza della specifica attività formativa è imposta dalle richiamate fattispecie di responsabilità delineate nell’ipotesi di una sua mancanza. Infatti, il comma 8 dell’art. 1 stabilisce che “La mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti costituiscono elementi di valutazione della responsabilità dirigenziale”, ma, ancora più rilevante è il comma 12 per cui, nell’ipotesi di un reato di corruzione commesso da personale dell’amministrazione e accertato con sentenza passata in giudicato, si configura, per il responsabile anticorruzione, un’ipotesi di responsabilità dirigenziale e disciplinare nonché per danno erariale e all’immagine dell’ente di afferenza, salvo la prova dell’adozione del Piano triennale di prevenzione della corruzione e la previsione degli obblighi di formazione specifica e generale, nonché di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano (“a- di aver predisposto, prima della commissione del fatto, il piano di cui al comma 5 e di aver osservato le prescrizioni di cui ai commi 9 e 10 del presente articolo; b- di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano”).
Alla luce dell’impianto normativo richiamato e della salvaguardia dei valori costituzionali consacrati dall’art. 97 della Costituzione cui è funzionale anche tale tipologia di attività di formazione, si rileva il carattere obbligatorio del suo svolgimento e, stante l’assenza di discrezionalità circa l’autorizzazione della spesa relativa, nella fattispecie si è fuori dell’ambito applicativo di cui al comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010.
Peraltro, come puntualmente richiamato, recentemente, dalla Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia n. 106/2012,
la previsione del comma 13 dell’art. 6 del D.L. 78/2010, nell’ottica della necessarietà del contenimento della spesa pubblica, con l’introduzione di un tetto di spesa per le attività formative, evidenzia, comunque, “la volontà del Legislatore di indurre le Amministrazioni a procedere ad un’attenta attività di programmazione dei fabbisogni formativi e di correlata individuazione delle risorse finanziarie all’uopo necessarie, realizzando per tale via obiettivi di razionalizzazione dell’azione amministrativa, oltre che di risparmio di spesa” con limitazione, pertanto, della deroga, all’esigenza assoluta di effettuare la formazione obbligatoria in un determinato esercizio, ovvero “limitatamente alle spese necessarie per corrispondere a precisi obblighi normativi che non possano essere disattesi o differiti ad altro esercizio (Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna n. 18/2011).
In conclusione,
il Comune potrà legittimamente derogare, per l’attività formativa di cui al quesito e con l’avvertenza di cui al punto precedente, al tetto di spesa definito dall’art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010, con l’ulteriore avvertenza, peraltro, che le iniziative formative devono tenere conto anche del possibile contributo degli operatori interni, “inseriti come docenti nell’ambito di percorsi di aggiornamento e formativi in house” (da Piano Nazionale Anticorruzione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 20.11.2013 n. 276).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non sempre la mobilità con altri enti pubblici è neutra per il Comune.
La mobilità, come strumento per una più razionale distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni –preliminare alla decisione di bandire procedure concorsuali e prima di procedere alla immissione in ruolo di nuovo personale, nei limiti consentiti dall’ordinamento– può essere configurata in termini di neutralità di spesa (e, quindi non assimilabile ad una assunzione o dimissione dal rapporto di lavoro), solo se intervenga tra amministrazioni, entrambe, sottoposte a dei vincoli assunzionali. Dunque, il requisito per riconoscere il carattere di neutralità di una procedura di mobilità è costituito dalla sussistenza o meno di un regime vincolistico in materia di assunzione di personale per gli enti coinvolti dall’operazione.
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iverso è invece il caso in cui l’ente sottoposto a limitazioni dia l’assenso al trasferimento di un proprio dipendente presso amministrazioni non soggette a vincoli assunzionali. In questo caso, infatti, “per l’ente ricevente, la mobilità in entrata si configura a tutti gli effetti come ingresso di una nuova unità di personale, risultato che potrebbe essere alternativamente ottenuto attraverso il ricorso alle normali procedure di reclutamento, non ponendosi il problema dell’imputazione del trasferimento ad un non previsto contingente di nuove assunzioni”.
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La mobilità intercompartimentale tra un ente locale soggetto al rispetto del patto di stabilità ed un ente del Servizio sanitario nazionale, afferente ad un regione non soggetta all’attuazione di un piano di rientro dal disavanzo sanitario, non può essere configurata in termini di neutralità.

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Il Sindaco del Comune di Arzignano, con la nota indicata in epigrafe, ha posto un quesito in ordine alla possibilità di attuare, in condizioni di neutralità finanziaria, un trasferimento di un proprio dipendente, dirigente tecnico con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, verso un’Azienda ULSS del Servizio sanitario nazionale e circa le possibilità assunzionali che avrebbe il Comune nel caso in cui il dipendente transitasse nei ruoli dell’Azienda ULSS richiedente.
A questo proposito, il Sindaco richiama l’art. 1, comma 47, della legge 30.12.2004, n. 311 che prevede che “in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente”, evidenziando la diversa disciplina che regola il regime assunzionale per i comparti coinvolti dall’operazione di mobilità in questione.
Infatti, la disciplina relativa all’acquisizione delle risorse umane negli enti del comparto del servizio sanitario nazionale è contenuta nell’art. 2, commi 71, 72 e 73 della legge 23.12.2009, n. 191 e nell’art. 15, comma 21, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135 che, sostanzialmente, applicano agli enti del servizio sanitario nazionale il vincolo che per gli enti locali è previsto dall’art. 1, comma 557 e 562 della citata legge n. 296/2006 e che attiene essenzialmente ad un vincolo di spesa.
Nell’ambito della disciplina in materia di spesa di personale del comparto degli enti locali, però, accanto ai vincoli di spesa di cui al citato comma 557, sono previsti ulteriori vincoli assunzionali, come quelli di cui all’art. 76, comma 7, del decreto legge 25.06.2008, n. 112, conv. dalla legge 06.08.2008, n. 133 (che, con riferimento alle assunzioni a tempo indeterminato, consente assunzioni nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni intervenute nell’esercizio precedente, a condizione che l’incidenza delle spese di personale non superi il 50% delle spese correnti), attualmente non previsti per gli enti appartenenti al servizio sanitario nazionale.
Pertanto, alla luce di tali considerazioni, il Sindaco del comune di Arzignano pone alla Sezione un duplice quesito.
Innanzitutto, si chiede se, ai sensi del citato art. 1, comma 47, della L 311/2004, sia possibile cedere il contratto di lavoro a tempo indeterminato di un proprio dirigente ad un’Azienda del Servizio sanitario nazionale nel rispetto della c.d. neutralità finanziaria (senza, cioè, che tale cessione possa configurarsi come cessazione del rapporto di lavoro) oppure, al contrario, essendo tale cessione realizzata nei confronti di un’Azienda Ulss, soggetta ad una diversificata disciplina in termini di assunzioni a tempo indeterminato, non possa essere considerata neutrale e si configuri per l’ente cedente come una cessazione del rapporto di lavoro.
In subordine, qualora la mobilità in questione possa essere considerata neutrale, si chiede se il Comune possa coprire il profilo professionale dirigenziale attuando una contestuale mobilità in entrata di un dirigente di ruolo presso una Comunità montana, senza che tale operazione configuri una nuova assunzione per l’ente medesimo.
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Sulla portata interpretativa ed applicativa dell’istituto della mobilità –anche intercompartimentale– questa Sezione si è già espressa con una serie deliberazioni, in particolare con le deliberazioni n. 287/2011/PAR, n. 281/2012/PAR, n. 65/2013/PAR e 162/2013/PAR, le cui considerazioni si intendono integralmente richiamate nelle presente pronuncia.
Con riferimento al caso specifico della mobilità intercompartimentale, cioè la mobilità di personale tra amministrazioni appartenenti a comparti diversi, il Collegio richiama, innanzitutto, la norma fondamentale di cui all’art. 1, comma 47, della L 311/2004 in base alla quale “
in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente”. La ratio di questa disposizione va individuata nell’intenzione di garantire una più razionale distribuzione delle risorse tra la pubbliche amministrazioni, senza tuttavia generare una variazione della spesa complessiva del comparto del pubblico impiego e favorendo, in questo modo, la stabilità dei livelli occupazionali in modo da evitare incrementi incontrollati di spesa, non solo in relazione al singolo ente ma all’intero comparto.
Questo permette di evitare che il trasferimento per mobilità possa essere utilizzato quale operazione per instaurare nuovi rapporti di lavoro al di fuori dei limiti numerici e di spesa previsti dalla disciplina vigente.
La giurisprudenza consultiva della corte dei conti ha chiarito la portata interpretativa ed applicativa della norma in questione.
Nella deliberazione delle Sezioni Riunite in sede di controllo n. 59/CONTR/2010, è stato chiarito, infatti, che
la mobilità, come strumento per una più razionale distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni –preliminare alla decisione di bandire procedure concorsuali e prima di procedere alla immissione in ruolo di nuovo personale, nei limiti consentiti dall’ordinamento– può essere configurata in termini di neutralità di spesa (e, quindi non assimilabile ad una assunzione o dimissione dal rapporto di lavoro), solo se intervenga tra amministrazioni, entrambe, sottoposte a dei vincoli assunzionali. Dunque, il requisito per riconoscere il carattere di neutralità di una procedura di mobilità è costituito dalla sussistenza o meno di un regime vincolistico in materia di assunzione di personale per gli enti coinvolti dall’operazione.
Nella medesima deliberazione viene, inoltre, precisato che
diverso è invece il caso in cui l’ente sottoposto a limitazioni dia l’assenso al trasferimento di un proprio dipendente presso amministrazioni non soggette a vincoli assunzionali. In questo caso, infatti, “per l’ente ricevente, la mobilità in entrata si configura a tutti gli effetti come ingresso di una nuova unità di personale, risultato che potrebbe essere alternativamente ottenuto attraverso il ricorso alle normali procedure di reclutamento, non ponendosi il problema dell’imputazione del trasferimento ad un non previsto contingente di nuove assunzioni”.
Tornando al caso in questione di mobilità intercompartimentale, bisognerà verificare se, sia per l’ente cedente l’unità di personale che per l’ente ricevente, la disciplina dei rispettivi settori di appartenenza preveda, in entrambi i comparti, dei vincoli assunzionali.
Come ben evidenziato dal Sindaco del Comune di Arizgnano, nel caso di mobilità intercompartimentale tra enti locali e ed enti appartenenti al Servizio sanitario nazionale, tale reciprocità manca. Mentre, infatti, per l’ente locale soggetto al rispetto del patto di stabilità sono previsti una serie di vincoli di spesa e di limitazioni assunzionali, gli enti del Servizio sanitario nazionale sono tenuti al solo obiettivo della riduzione della spesa del personale.
Infatti, l’art. 1, comma 565, della legge 296/2006, stabilendo le misure con cui quest’ultimi sono tenuti a concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica in relazione alla propria spesa complessiva del personale, ha disposto che le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’IRAP, non debbano superare per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1,4%.
Tale disposizione è stata ribadita anche dalla legge 23.12.2009, n. 191 (legge finanziaria 2010) per il triennio 2010–2012 (art. 2, commi da 71 a 73) e, successivamente, per il triennio 2013–2015, dall’art. 15, comma 1, del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135.
La Sezione, inoltre, fa presente che su tale questione si è espresso anche
il Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il parere 13731 del 19.03.2013 che, sulla base delle argomentazioni sopra illustrate, ha escluso gli enti del Servizio sanitario nazionale dal novero delle amministrazioni sottoposte a regime di limitazione, ai sensi dell’articolo unico, comma 47, della legge 311/2004, a meno che non afferiscano a Regioni soggette all’attuazione di piani di rientro dal disavanzo sanitario (nel qual caso, sono previste specifiche misure limitative delle assunzioni), condizione che dovrà essere verificata di volta in volta.
La conclusione che
la mobilità intercompartimentale tra un ente locale soggetto al rispetto del patto di stabilità ed un ente del Servizio sanitario nazionale, afferente ad un regione non soggetta all’attuazione di un piano di rientro dal disavanzo sanitario, non possa essere configurata in termini di neutralità, esclude la rilevanza del secondo quesito proposto dal Comune di Arzignano.
Infine, la Sezione richiama l’attenzione dell’amministrazione comunale a quanto disposto dall’art. 14, comma 7, del citato d.l. 95/2012. In tale norma, infatti, viene espressamente stabilito che
le cessazioni dal servizio per processi di mobilità, limitatamente al periodo di tempo necessario al raggiungimento dei requisiti previsti dall'art. 24 del d.l. 06.12.2011, n. 201, conv. dalla legge 22.12.2011, n. 214 -ai fini del diritto all'accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico- non possono essere calcolate come risparmio utile per definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in relazione alle limitazioni del turn-over (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 19.11.2013 n. 357).

LAVORI PUBBLICI: Il Collegio ritiene che la corretta interpretazione e, conseguentemente, la corretta applicazione della norma in esame (art. 191, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000) sia la seguente.
Non è indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo, evidenziare l'allocazione della norma all'interno del TUEL. L'art. 191, difatti, fissa le "Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese" nell'ambito dei "Principi di gestione e controllo di gestione".
Il primo comma della norma citata individua l'ordinaria procedura di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo dopo il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista dalla legge,
il comma 3 dell'articolato normativo risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del legislatore a diversamente procedere in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l'Ente può procedere all'ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano, difatti, sufficienti fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, 9 non è possibile per l'Ente procedere all'impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto, appunto, perché fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, in presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l'Ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto, la deroga è una sorta di autorizzazione del legislatore con cui l'Ente può procedere a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare interessi primari e consentire, successivamente, all'Ente di attivare un percorso che consenta l'individuazione delle risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in via d'urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano trovarsi all'interno del bilancio dell'Ente non interessa al fine della corretta applicazione della norma. Altro non farà l'Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL.
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... il Commissario straordinario presso la provincia di La Spezia chiede alla Sezione di controllo un parere in merito alla corretta interpretazione ed applicazione dell'art. 191, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000, (come modificato dall'art. 3, comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012), in base a cui "Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro dieci giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.″
A parere del Commissario straordinario sembrerebbe che il legislatore, utilizzando l'espressione "fondi specificatamente previsti" abbia voluto intendere che se in bilancio vi è iscritto un capitolo per somme urgenze generiche, capiente per la somma urgenza specifica, non si deve attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio, ancorché l'ordinativo all'impresa sia avvenuto prima dell'impegno della relativa somma.
Più frequentemente accade però che in bilancio non vi sia un capitolo ad hoc per le somme urgenze ma nell'ambito del PEG del servizio che attiva la somma urgenza vi possano essere stanziamenti adeguati sia in merito alla funzione che all'intervento.
Pertanto il Commissario chiede se anche in questo caso, mancando fondi specifici ma sussistendo fondi adeguati sia in merito al servizio che alla funzione che all'intervento (pur se non specificatamente previsti) l'Ente debba procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio.
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Come narrato in fatto, il Commissario straordinario presso la provincia di La Spezia chiede di sapere, a seguito di corretta interpretazione dell'art. 191, comma 3, del D.lgs. 267/2000, quale sia l'ambito di applicazione della suddetta norma ossia quando è necessario procedere al riconoscimento della spesa relativa ai lavori di somma urgenza con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), (riconoscimento dei debiti fuori bilancio).
Premesso che non appare corretta la ricostruzione effettuata dalla Provincia di La Spezia circa le presunte intenzioni del legislatore mediante l'utilizzo dell'inciso "fondi specificatamente previsti", il Collegio ritiene che la corretta interpretazione e, conseguentemente, la corretta applicazione della norma in esame sia la seguente.
Non è indifferente, al fine di un corretto percorso argomentativo, evidenziare l'allocazione della norma all'interno del TUEL. L'art. 191, difatti, fissa le "Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese" nell'ambito dei "Principi di gestione e controllo di gestione".
Il primo comma della norma citata individua l'ordinaria procedura di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo dopo il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria prevista dalla legge,
il comma 3 dell'articolato normativo risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del legislatore a diversamente procedere in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tale deroga è ammessa quindi solo in presenza dei presupposti indicati dal legislatore: necessità di lavori di somma urgenza e mancanza di fondi destinati a coprire la spesa relativa ai predetti lavori. Solo in presenza di tali presupposti l'Ente può procedere all'ordinazione dei lavori a terzi ed attivare la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio nei modi indicati dal terzo comma.
Accendendo un faro sui due requisiti appena evidenziati
appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano, difatti, sufficienti fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, 9 non è possibile per l'Ente procedere all'impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto, appunto, perché fondi non ve ne sono o non sono sufficienti.
Diversamente, in presenza di fondi a tal fine destinati o, in altre parole, quando l'Ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria ed attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Come detto,
la deroga è una sorta di autorizzazione del legislatore con cui l'Ente può procedere a costituire un debito fuori bilancio al fine di tutelare interessi primari e consentire, successivamente, all'Ente di attivare un percorso che consenta l'individuazione delle risorse da destinare alla copertura finanziaria dei lavori ordinati in via d'urgenza.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano trovarsi all'interno del bilancio dell'Ente non interessa al fine della corretta applicazione della norma. Altro non farà l'Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 18.03.2013 n. 12).

INCARICHI PROFESSIONALI: I rimborsi spese legali a seguito di archiviazione e/o sentenze di assoluzione non debbono essere considerati debiti fuori bilancio, ancorché non vi sia alcun impegno di spesa formale.
Sul punto, il Collegio ritiene che il procedimento di rimborso sia composto da una serie di valutazioni logicamente connesse tra loro, che vanno dalla richiesta dei diretti interessati corredata dalla documentazione giustificativa, alla verifica da parte dell’ente della sussistenza di tutti i presupposti richiesti ex lege per il rimborso.
L’eventuale decisione del rimborso può essere adottata solo all’esito di tali valutazioni, da formalizzare in un provvedimento gestionale che dia contezza –attraverso adeguata motivazione- della sussistenza delle condizioni sopra citate.
Solo in tale ipotesi può nascere l’eventuale obbligazione per l’ente che, divenutone soggetto passivo, può procedere con riferimento alle somme ritenute congrue ad adottare impegno contabile sul bilancio dell’esercizio in corso, coerentemente con il principio di competenza finanziaria, ex artt. 183 e 191 del TUEL.
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... il Sindaco del Comune di Castellammare del Golfo chiede di sapere:
1. se i rimborsi spese legali a seguito di archiviazione e/o sentenze di assoluzione debbano essere considerati debiti fuori bilancio –atteso che non vi è alcun impegno di spesa formale-;
2. se rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 194, c. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 267/2000;
3. se l’eventuale delibera di riconoscimento di debito fuori bilancio debba essere considerata dal Consiglio comunale come mero atto ricognitorio (delibera SSRR per la Regione siciliana in sede consultiva n. 2/2005) che presuppone a priori il pagamento con apposita determinazione dirigenziale o se invece debba soggiacere all’esclusiva competenza consiliare.
...
Venendo al merito, con il primo quesito, il comune chiede se il rimborso delle spese legali, ove ammissibile ex lege, costituisca debito fuori bilancio, vista l’assenza di formale impegno di spesa.
Sul punto, il Collegio ritiene che
il procedimento di rimborso sia composto da una serie di valutazioni logicamente connesse tra loro, che vanno dalla richiesta dei diretti interessati corredata dalla documentazione giustificativa, alla verifica da parte dell’ente della sussistenza di tutti i presupposti richiesti ex lege per il rimborso (che, con riferimento ai casi prospettati, esula dal presente quesito e compete esclusivamente all’ente, in possesso dei necessari elementi documentali e conoscitivi).
L’eventuale decisione del rimborso può essere adottata solo all’esito di tali valutazioni, da formalizzare in un provvedimento gestionale che dia contezza –attraverso adeguata motivazione- della sussistenza delle condizioni sopra citate.
Solo in tale ipotesi può nascere l’eventuale obbligazione per l’ente che, divenutone soggetto passivo, può procedere con riferimento alle somme ritenute congrue ad adottare impegno contabile sul bilancio dell’esercizio in corso, coerentemente con il principio di competenza finanziaria, ex artt. 183 e 191 del TUEL (in termini, Cfr. Sezione di controllo per la Lombardia, delibera n. 514/2010/PAR).
Non rientrando la fattispecie astrattamente prospettata nella fattispecie del debito fuori bilancio (peraltro oggetto di ampia revisione interpretativa da parte delle Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede di controllo nella relazione sullo stato della finanza locale 2011), restano assorbiti i quesiti n. 2 e 3 (Corte dei Conti, Sezz. riunite controllo Sicilia, parere 12.01.2012 n. 2).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’elaborazione dottrinale e le pronunce giurisprudenziali considerano il debito fuori bilancio obbligazione pecuniaria riferibile all’ente, assunta in violazione delle norme di contabilità pubblica che riguardano le fasi di erogazione delle spese ed in particolare di quelle che disciplinano l’assunzione di impegni di spese.
Sono dunque da ricondursi al concetto di “sopravvenienza passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni dell’art. 191 del TUEL ed in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui si manifestano.

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Il quesito proposto è indirizzato a conoscere se il debito scaturente da una fideiussione debba o meno rientrare nelle ipotesi di riconoscimento del debito fuori bilancio di cui alla lettera e) sopra riportata.
La fideiussione costituisce una garanzia personale fornita allo scopo di soddisfare un'obbligazione assunta da un terzo nel caso che questi risulti inadempiente.
L'obbligazione del fideiussore ha carattere accessorio. Ciò vuol dire che essa esiste nei limiti in cui esiste l'obbligazione garantita (debito altrui); il vincolo di accessorietà perdura nel corso di tutto il rapporto fideiussorio e quindi le vicende che attengono al rapporto principale si ripercuotono necessariamente sulla garanzia fideiussoria.
Da tutto ciò discende che il mantenimento dell’iscrizione in bilancio della posta inerente l’obbligazione di garanzia, fin tanto che sussista l’obbligazione principale, rappresenta un preciso obbligo da parte del Comune, dettato non a presidio di vincoli di prudenza o di opportunità, bensì di imprescindibili doveri di veridicità e chiarezza del bilancio, affermati dal principio contabile n. 1 (Finalità e postulati dei principi contabili degli enti locali), punto c. sezione II, approvato il 12.03.2008 dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali costituito presso il Ministero degli Interni, nonché, da ultimo, dall'Allegato 1 (punto 5) dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 118 del 23/06/2011.
Il rispetto di questa condizione fa sì che in ciascun esercizio finanziario (per la durata dell’obbligazione principale del terzo debitore) il Comune debba iscrivere in bilancio lo stanziamento per far fronte al debito scaturente dall’eventuale escussione; inoltre, rispondendo al principio di prudenza, sarà opportuno che lo stesso provveda ad impegnare la somma di cui trattasi ponendo, quindi, un vincolo sullo stanziamento di bilancio a presidio dell'obbligazione eventualmente dovuta, impegno che diverrà economia di bilancio al termine dell'esercizio in caso di adempimento del soggetto debitore; in presenza di tale corretto comportamento non sarà necessario per il comune procedere al riconoscimento di un debito fuori bilancio, ma al momento in cui sorge il suo obbligo a pagare sarà sufficiente provvedere a valere sull’impegno già previsto.
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... richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Castiglion Fibocchi, in cui chiede di conoscere se, in caso di insolvenza del debitore principale e di escussione della fideiussione a carico del Comune, occorre procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera e), del TUEL pur in presenza dello stanziamento in bilancio delle necessarie risorse finanziarie.
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Nel merito,
l’elaborazione dottrinale e le pronunce giurisprudenziali considerano il debito fuori bilancio obbligazione pecuniaria riferibile all’ente, assunta in violazione delle norme di contabilità pubblica che riguardano le fasi di erogazione delle spese ed in particolare di quelle che disciplinano l’assunzione di impegni di spese. Sono dunque da ricondursi al concetto di “sopravvenienza passiva”, trattandosi di debiti sorti al di fuori dell’impegno di spesa costituito secondo le prescrizioni dell’art. 191 del TUEL ed in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui si manifestano.
L’art. 194 del TUEL disciplina l’ambito e le procedure per riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio individuando tassativamente le tipologie per le quali è resa possibile l’imputazione dell’insorto obbligo in capo all’ente, con l’adozione di apposita deliberazione di riconoscimento di legittimità da parte del Consiglio. Precisamente, “gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza
.”
Il quesito proposto è indirizzato a conoscere se il debito scaturente da una fideiussione debba o meno rientrare nelle ipotesi di riconoscimento del debito fuori bilancio di cui alla lettera e) sopra riportata.
La fideiussione costituisce una garanzia personale fornita allo scopo di soddisfare un'obbligazione assunta da un terzo nel caso che questi risulti inadempiente.
L'obbligazione del fideiussore ha carattere accessorio. Ciò vuol dire che essa esiste nei limiti in cui esiste l'obbligazione garantita (debito altrui); il vincolo di accessorietà perdura nel corso di tutto il rapporto fideiussorio e quindi le vicende che attengono al rapporto principale si ripercuotono necessariamente sulla garanzia fideiussoria (Cassazione, sezione I civile, 14.12.2007, n. 26262).
Da tutto ciò discende che
il mantenimento dell’iscrizione in bilancio della posta inerente l’obbligazione di garanzia, fin tanto che sussista l’obbligazione principale, rappresenta un preciso obbligo da parte del Comune, dettato non a presidio di vincoli di prudenza o di opportunità, bensì di imprescindibili doveri di veridicità e chiarezza del bilancio, affermati dal principio contabile n. 1 (Finalità e postulati dei principi contabili degli enti locali), punto c. sezione II, approvato il 12.03.2008 dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali costituito presso il Ministero degli Interni, nonché, da ultimo, dall'Allegato 1 (punto 5) dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 118 del 23/06/2011 (in tal senso si esprime anche altra sezione della Corte dei conti: deliberazione Veneto n. 268 del 28.10.2011).
Il rispetto di questa condizione fa sì che in ciascun esercizio finanziario (per la durata dell’obbligazione principale del terzo debitore) il Comune debba iscrivere in bilancio lo stanziamento per far fronte al debito scaturente dall’eventuale escussione; inoltre, rispondendo al principio di prudenza, sarà opportuno che lo stesso provveda ad impegnare la somma di cui trattasi ponendo, quindi, un vincolo sullo stanziamento di bilancio a presidio dell'obbligazione eventualmente dovuta, impegno che diverrà economia di bilancio al termine dell'esercizio in caso di adempimento del soggetto debitore; in presenza di tale corretto comportamento non sarà necessario per il comune procedere al riconoscimento di un debito fuori bilancio, ma al momento in cui sorge il suo obbligo a pagare sarà sufficiente provvedere a valere sull’impegno già previsto.
Nelle sopra esposte considerazioni è il parere della Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Toscana- in relazione alla richiesta formulata dal Consiglio delle autonomie con nota Prot. n. 18987/1.13.9 (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 20.12.2011 n. 518).

APPALTI: Al momento del riconoscimento di un debito fuori bilancio, il Consiglio deve prendere atto, anzitutto, che l'obbligazione si riferisce a funzioni e servizi di propria competenza, per poi dichiarare l’effettiva utilità ricevuta dalla prestazione in termini di arricchimento per l'ente. L’accertamento della sussistenza dei predetti elementi attiene alla dimostrazione dell'effettiva utilità che l'ente ha tratto dalla prestazione altrui, in termini di misurazione dell'utilità ricavata dalla prestazione di beni o servizi eseguita dal terzo creditore.
Il legislatore ha correttamente indicato il requisito dell’“utilità” della prestazione, che deve essere accertata e dimostrata, “senza che si possa rinvenire nella legislazione una precisa nozione della fattispecie”, demandando alla delibera consiliare di riconoscimento l’individuazione delle singole fattispecie e dei requisiti delle spese in questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
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Con riferimento, poi, alla possibilità che il riconoscimento di debito possa comprendere anche ulteriori elementi come l’“utile d’impresa” deve richiamarsi l’orientamento secondo cui
l’utile d’impresa, in quanto rappresentativo della componente economica della controprestazione integrante il guadagno del privato, non può in alcun modo costituire, come tale, un arricchimento per l’Ente.
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Il Sindaco del comune di Bellaria Igea-Marina (RN), per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003 n. 131, richiesta di parere riguardante l’interpretazione dell’articolo 194, comma 1, lett. e), del TUEL con riferimento ai requisiti dell’“utilità e arricchimento dell’Ente”, che devono essere accertati e dimostrati, con riferimento alla possibilità di attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio per passività pregresse, emerse nel corso dell’anno 2010, ma riferibili ad annualità precedenti.
In particolare l’Ente chiede se il concetto di utilità debba essere connotato dal carattere dell’indispensabilità, necessità e urgenza e se nella determinazione del quantum dell’arricchimento debba essere decurtato il 15% costituito dall’utile d’impresa.
...
Nel merito, si osserva che l'art. 194 del T.U.E.L. (d.lgs. 167/2000) consente, infatti, la riconoscibilità della legittimità di un debito fuori bilancio per acquisizione di beni e servizi "nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza".
Al momento del riconoscimento, il Consiglio deve prendere atto, anzitutto, che l'obbligazione si riferisce a funzioni e servizi di propria competenza, per poi dichiarare l’effettiva utilità ricevuta dalla prestazione in termini di arricchimento per l'ente. L’accertamento della sussistenza dei predetti elementi attiene alla dimostrazione dell'effettiva utilità che l'ente ha tratto dalla prestazione altrui, in termini di misurazione dell'utilità ricavata dalla prestazione di beni o servizi eseguita dal terzo creditore.
Sull’argomento deve, altresì, richiamarsi il principio contabile n. 2, punto 98, Ministero dell’Interno - Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti locali .
Tanto premesso, occorre precisare che
il legislatore ha correttamente indicato il requisito dell’“utilità” della prestazione, che deve essere accertata e dimostrata, “senza che si possa rinvenire nella legislazione una precisa nozione della fattispecie”, demandando alla delibera consiliare di riconoscimento l’individuazione delle singole fattispecie e dei requisiti delle spese in questione, in un ottica di efficienza, efficacia e buona amministrazione.
Da tale orientamento, condiviso anche da altre Sezioni regionali di questa Corte (cfr. deliberazione 67/2007/Par. e 173/2009/Par. della Sezione di Controllo per la Calabria; deliberazione 10/2008/Par. della Sezione di Controllo per la Campania) il Collegio ritiene non sussistano sopravvenute argomentazioni giuridiche per discostarsene.
Con riferimento, poi, alla possibilità che il riconoscimento di debito possa comprendere anche ulteriori elementi come l’“utile d’impresa” deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte (Corte dei conti, Trentino Alto Adige, sezione giurisdizionale, 02.07.2008 n. 34) secondo cui
l’utile d’impresa, in quanto rappresentativo della componente economica della controprestazione integrante il guadagno del privato, non può in alcun modo costituire, come tale, un arricchimento per l’Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 28.07.2011 n. 32).
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[1]L'arricchimento non deve essere inteso necessariamente come accrescimento patrimoniale, potendo questo consistere anche in un risparmio di spesa (Cassazione Civile, Sezione I, 12.07.1996, n. 6332). Esso va stabilito con riferimento a criteri oggettivi (ad es. la congruità dei prezzi andrà valutata sulla base delle indicazioni e delle rilevazioni del mercato o dei prezzari e tariffe approvati da enti pubblici a ciò deputati, o dagli ordini professionali).
[2] Principio contabile n. 2, punto 98: Il riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio ascrivibili alla lettera (e) dell’art. 194 del TUEL comporta l’accertamento della sussistenza non solo dell’elemento dell’utilità pubblica, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, ma anche quello dell’arricchimento senza giusta causa.
Ai fini del riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio ascrivibili alla lettera e) dell’art. 194 del TUEL la sussistenza dell’utilità conseguita va valutata in relazione alla realizzazione dei vantaggi economici corrispondenti agli interessi istituzionali dell’ente. Sono, comunque, da qualificarsi utili e vantaggiose le spese specificatamente previste per legge.
L'arricchimento corrisponde alla diminuzione patrimoniale sofferta senza giusta causa dal soggetto privato e terzo che va indennizzato nei limiti dell'arricchimento ottenuto dall'ente.
[3] Principio contabile n. 2, punto 90: L’elaborazione dottrinale e le pronunce giurisprudenziali conducono a considerare il debito fuori bilancio quale obbligazione pecuniaria riferibile all’ente, assunta in violazione delle norme di contabilità pubblica che riguardano la fase della spesa ed in particolare di quelle che disciplinano l’assunzione di impegni di spesa.

APPALTI: I debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, per i quali è consentito il riconoscimento da parte del Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, conseguono all’imperatività del provvedimento giudiziale e pertanto come rilevato, al punto 101 dal principio contabile n. 2 redatto dall’Osservatorio per la Finanza e la Contabilità degli Enti locali in data 18/11/2008, il significato del provvedimento del Consiglio Comunale non è quello di riconoscere una legittimità del debito che già esiste, ma di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
Sussiste, pertanto, in presenza di una sentenza munita della formula esecutiva, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio Comunale per provvedere al riconoscimento del debito al fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali generate da eventuali azioni esecutive.

D’altronde, come precisato dal successivo punto 102 del su richiamato principio contabile n. 2: “il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune”.
Con il provvedimento consiliare di riconoscimento del debito fuori bilancio devono necessariamente individuarsi le fonti di finanziamento rilevata la sussistenza dell’obbligo di copertura finanziaria gravante sui provvedimenti di spesa sancita dall’art. 191 del D.Lgs. n. 267/2000.
Infatti, come noto, la fattispecie del debito fuori bilancio costituisce un’obbligazione pecuniaria dell’Ente locale perfezionatasi giuridicamente ma assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano l’assunzione di impegni di spesa ed il provvedimento del Consiglio Comunale di riconoscimento del debito consente di ricondurre l’obbligazione nell’osservanza delle norme di contabilità mediante la individuazione delle risorse per farvi fronte.
Invero,
deve dedursi dalla ratio del sistema normativo nel suo insieme che il debito, una volta riconosciuto dall’Ente, deve essere finanziato ed adempiuto con necessaria celerità nel rispetto degli equilibri di bilancio anche al fine di evitare ulteriore aggravio per le finanze pubbliche.
Deve, inoltre, aggiungersi che le linee guida per la predisposizione delle relazioni ai bilanci di previsione 2010 a cui devono attenersi gli Organi di Revisione Contabile degli Enti locali, approvate con la deliberazione della Sezione Autonomie n. 9/AUT/2010 depositata il 16/04/2010, richiedono, alla domanda preliminare n. 13), se sono previsti stanziamenti per il finanziamento di debiti fuori bilancio ancora non riconosciuti dal Consiglio Comunale manifestando particolare attenzione anche alle potenziali passività affinché gli Enti predispongano adeguati accantonamenti che permettano la copertura dei futuri debiti.
La Sezione ritiene, quindi, opportuno precisare che qualora il Giudice di Appello disponesse la sospensione dell’esecutività della sentenza con il conseguente venire meno dell’obbligo di provvedere al riconoscimento del debito da parte del Consiglio Comunale, l’Ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi di una sana e corretta gestione finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura del debito in caso di eventuale soccombenza.

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Il Sindaco del Comune di Castrignano del Capo (LE), con la nota riportata in epigrafe, illustra che l’Ente, risultato soccombente in un giudizio civile, è stato condannato al pagamento della somma di €. 2.700.000,00 circa con sentenza provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 del codice di procedura civile.
Il Sindaco evidenzia che il Comune ha tempestivamente affidato al proprio difensore l’incarico di proporre il giudizio di appello con contestuale istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza considerando “le gravissime ripercussioni” sul bilancio dell’Ente.
Pertanto, il Sindaco espone alla Sezione i seguenti quesiti al fine di conoscere:
- se sussista l’obbligo per la Giunta Comunale di sottoporre immediatamente all’esame del Consiglio il riconoscimento del debito fuori bilancio derivante dalla sentenza provvisoriamente esecutiva o se tale obbligo scaturisca soltanto con la notifica all’Ente della sentenza munita della formula esecutiva;
- e se il Consiglio Comunale possa limitarsi a prendere atto del debito e dell’istanza di sospensione dell’esecutività riservandosi all’esito dell’udienza o in seguito all’attivazione della procedura di esecuzione forzata di individuare le fonti di finanziamento del debito in sede di salvaguardia degli equilibri di bilancio.
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Il Collegio evidenzia che
i debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, per i quali è consentito il riconoscimento da parte del Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, conseguono all’imperatività del provvedimento giudiziale e pertanto come rilevato, al punto 101 dal principio contabile n. 2 redatto dall’Osservatorio per la Finanza e la Contabilità degli Enti locali in data 18/11/2008, il significato del provvedimento del Consiglio Comunale non è quello di riconoscere una legittimità del debito che già esiste, ma di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
Sussiste, pertanto, ad avviso della Sezione, in presenza di una sentenza munita della formula esecutiva, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio Comunale per provvedere al riconoscimento del debito al fine di impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali generate da eventuali azioni esecutive.
D’altronde, come precisato dal successivo punto 102 del su richiamato principio contabile n. 2: “il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune”.
Con il provvedimento consiliare di riconoscimento del debito fuori bilancio devono necessariamente individuarsi, ad avviso del Collegio, le fonti di finanziamento rilevata la sussistenza dell’obbligo di copertura finanziaria gravante sui provvedimenti di spesa sancita dall’art. 191 del D.Lgs. n. 267/2000.
Infatti, come noto,
la fattispecie del debito fuori bilancio costituisce un’obbligazione pecuniaria dell’Ente locale perfezionatasi giuridicamente ma assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano l’assunzione di impegni di spesa ed il provvedimento del Consiglio Comunale di riconoscimento del debito consente di ricondurre l’obbligazione nell’osservanza delle norme di contabilità mediante la individuazione delle risorse per farvi fronte.
Come precisato dalla Sezione Regionale di Controllo per l’Emilia Romagna con la deliberazione n. 20/2007 depositata in data 03/04/2007,
deve dedursi dalla ratio del sistema normativo nel suo insieme che il debito, una volta riconosciuto dall’Ente, deve essere finanziato ed adempiuto con necessaria celerità nel rispetto degli equilibri di bilancio anche al fine di evitare ulteriore aggravio per le finanze pubbliche.
Deve, inoltre, aggiungersi che le linee guida per la predisposizione delle relazioni ai bilanci di previsione 2010 a cui devono attenersi gli Organi di Revisione Contabile degli Enti locali, approvate con la deliberazione della Sezione Autonomie n. 9/AUT/2010 depositata il 16/04/2010, richiedono, alla domanda preliminare n. 13), se sono previsti stanziamenti per il finanziamento di debiti fuori bilancio ancora non riconosciuti dal Consiglio Comunale manifestando particolare attenzione anche alle potenziali passività affinché gli Enti predispongano adeguati accantonamenti che permettano la copertura dei futuri debiti.
La Sezione ritiene, quindi, opportuno precisare che
qualora il Giudice di Appello disponesse la sospensione dell’esecutività della sentenza con il conseguente venire meno dell’obbligo di provvedere al riconoscimento del debito da parte del Consiglio Comunale, l’Ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi di una sana e corretta gestione finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura del debito in caso di eventuale soccombenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 29.09.2010 n. 93).

LAVORI PUBBLICI: Nell’importo complessivo del debito fuori bilancio sono comprese sia le somme relative ai lavori pubblici sia altri oneri non strettamente connessi alle opere realizzate, ma conseguenti al comportamento del comune, quali interessi legali, gli oneri di fideiussione e gli onorari agli arbitri.
Ai fini dell’imputazione in bilancio vanno distinte le somme relative alle opere pubbliche da annoverare tra le spese in conto capitale dagli altri oneri che vanno invece allocati tra le spese di parte corrente.
Pertanto, a parere di questa Sezione, le somme corrisposte dall’ente, derivanti da un debito fuori bilancio per effetto di sentenza esecutiva (nel caso di specie lodo arbitrale), limitatamente alle spese per lavori pubblici, possono essere imputate come spese di capitale e, a tale titolo, possono concorrere a determinare, in termini di cassa, i risultati del saldo utile ai fini del rispetto dell’obiettivo del Patto di stabilità interno.

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Il Sindaco del Comune di Muggiò (MB) ha posto alla Sezione un quesito concernente l’imputazione della spesa derivante da un debito fuori bilancio per effetto di sentenza esecutiva (lodo arbitrale).
In particolare viene richiesto se sia possibile considerare il debito riconoscibile ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera a, del D.Lgs n. 267/2000, come spesa in conto capitale, poiché l’oggetto del contratto, da cui è derivato il contenzioso e dunque la sentenza di condanna, attiene a lavori di realizzazione di una strada provinciale.
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Dalla documentazione acquisita, a seguito di formale richiesta istruttoria, si evince che nell’importo complessivo del debito fuori bilancio sono comprese sia le somme relative ai lavori pubblici sia altri oneri non strettamente connessi alle opere realizzate, ma conseguenti al comportamento del comune, quali interessi legali, gli oneri di fideiussione e gli onorari agli arbitri.
Ai fini dell’imputazione in bilancio vanno distinte le somme relative alle opere pubbliche da annoverare tra le spese in conto capitale dagli altri oneri che vanno invece allocati tra le spese di parte corrente.
Pertanto, a parere di questa Sezione,
le somme corrisposte dall’ente, derivanti da un debito fuori bilancio per effetto di sentenza esecutiva (nel caso di specie lodo arbitrale), limitatamente alle spese per lavori pubblici, possono essere imputate come spese di capitale e, a tale titolo, possono concorrere a determinare, in termini di cassa, i risultati del saldo utile ai fini del rispetto dell’obiettivo del Patto di stabilità interno (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.11.2009 n. 1002).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Sin dal momento della designazione del responsabile unico del procedimento (RUP), l’Ente deve procedere all’assunzione di un regolare impegno di spesa (per la liquidazione dell'incentivo alla progettazione interna) rilevato che risultano già noti l’importo massimo della spesa e le somme a disposizione dell’Amministrazione per la realizzazione del progetto.
La mancata assunzione dell’impegno di spesa determina, inevitabilmente, un debito fuori bilancio che deve essere tempestivamente evidenziato e sottoposto alla valutazione discrezionale dell’Organo Consiliare per l’eventuale riconoscimento.
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Nel caso di riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa, ai sensi del’art. 194, lett. e), del TUEL, l’Organo Consiliare deve valutare, mediante specifica e motivata deliberazione che accerti anche l’eventuale prescrizione, che la spesa rientri tra quelle disposte per l’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dell’Ente nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento.
Il Collegio ritiene, quindi, che per gli Enti locali corrisponde a principi di prudenza e di sana gestione finanziaria procedere ad un’attenta pianificazione di bilancio che consenta la determinazione, almeno presunta, delle somme da corrispondere a terzi al fine di adottare i dovuti adempimenti contabili di impegno di spesa e di evitare l’insorgenza di debiti fuori bilancio.
Le eventuali passività insorte durante la gestione assumono, quindi, carattere eccezionale e devono essere tempestivamente segnalate per garantirne la copertura mediante i provvedimenti di riconoscimento di debito fuori bilancio in presenza dei presupposti sanciti dall’art. 194 del TUEL.

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Il Sindaco del Comune di Castellaneta (TA), con la nota indicata in epigrafe, richiede il parere della Sezione sull’esatta procedura contabile da applicare nel caso di debito gravante sull’Ente per il pagamento degli incentivi sulla progettazione interna previsti dall’art. 92 del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163 e spettanti al responsabile del procedimento ed ai dipendenti incaricati del progetto di un’opera pubblica.
Il Sindaco, dopo aver illustrato che il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica ed il Comune di Castellaneta avevano sottoscritto, in data 26/03/1998, apposita convenzione per la realizzazione di opere infrastrutturali di adeguamento del sistema idrico, precisa che, come richiesto dal Ministero, con deliberazione della Giunta Municipale n. 205 del 06/04/1998 era stata effettuata la designazione del responsabile unico del procedimento ma non era stato previsto alcun formale impegno di spesa.
Tuttavia, l’allora vigente art. 18 della L. n. 109/1994 poi trasfuso nell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 prevedeva, in favore del responsabile del procedimento e degli incaricati del progetto, la corresponsione di una somma non superiore all’1,5% dell’importo posto a base di gara da ripartire secondo i criteri assunti in un regolamento effettivamente adottato dall’Ente con deliberazione della Giunta Municipale n. 62 del 25/03/2003.
Il Sindaco ritiene che il responsabile del procedimento, coadiuvato dai funzionari amministrativi, designati con ordine di servizio del 29/10/1998, abbia svolto le proprie funzioni sino al collaudo delle opere avvenuto in data 30/01/2003 e pertanto richiede il parere della Sezione sull’esatta natura del debito per accertare se le somme spettanti debbano essere ascritte tra i debiti fuori bilancio del Comune o se ne sia consentita direttamente la liquidazione da parte del dirigente del Settore.
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Il debito fuori bilancio costituisce, come noto, un’obbligazione pecuniaria dell’Ente locale assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano l’assunzione di impegni di spesa.
L’art. 194 del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, recante il Testo Unico degli Enti Locali, consente il riconoscimento di debiti fuori bilancio soltanto in ipotesi espressamente e tassativamente determinate rilevato che costituisce regola generale, sancita dall’art. 191 del TUEL, che gli Enti locali effettuino spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo di bilancio ed in presenza di formale attestazione della copertura finanziaria.
La Sezione evidenzia che l’ordinamento contabile degli Enti locali è improntato a principi di universalità e di veridicità che impongono la completa rappresentazione in bilancio di tutte le entrate e di tutte le spese in modo veritiero ed attendibile.
Pertanto,
sin dal momento della designazione del responsabile unico del procedimento, l’Ente avrebbe dovuto procedere all’assunzione di un regolare impegno di spesa rilevato che risultavano già noti l’importo massimo della spesa e le somme a disposizione dell’Amministrazione per la realizzazione del progetto.
La mancata assunzione dell’impegno di spesa ha, quindi, inevitabilmente determinato un debito fuori bilancio che doveva essere tempestivamente evidenziato e sottoposto alla valutazione discrezionale dell’Organo Consiliare per l’eventuale riconoscimento atteso che il completamento ed il collaudo delle opere è avvenuto sin dall’esercizio 2003.
La disciplina per la salvaguardia degli equilibri di bilancio, prevista dall’art. 193, comma 2, del TUEL impone, infatti, che almeno annualmente entro il 30 settembre, l’Organo Consiliare adotti i provvedimenti necessari per il ripiano di eventuali debiti fuori bilancio.
Trattasi di normativa di peculiare rilevanza poiché la mancata adozione di tali provvedimenti comporta, ai sensi dell’art. 191, comma 5, del TUEL, il divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti dalla legge.
La Sezione precisa, inoltre, che
nel caso di riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’acquisizione di beni e servizi senza impegno di spesa, ai sensi del’art. 194, lett. e), del TUEL, l’Organo Consiliare deve valutare, mediante specifica e motivata deliberazione che accerti anche l’eventuale prescrizione, che la spesa rientri tra quelle disposte per l’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dell’Ente nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento.
Il Collegio ritiene, quindi, che
per gli Enti locali corrisponde a principi di prudenza e di sana gestione finanziaria procedere ad un’attenta pianificazione di bilancio che consenta la determinazione, almeno presunta, delle somme da corrispondere a terzi al fine di adottare i dovuti adempimenti contabili di impegno di spesa e di evitare l’insorgenza di debiti fuori bilancio.
Le eventuali passività insorte durante la gestione assumono, quindi, carattere eccezionale e devono essere tempestivamente segnalate per garantirne la copertura mediante i provvedimenti di riconoscimento di debito fuori bilancio in presenza dei presupposti sanciti dall’art. 194 del TUEL
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 12.02.2009 n. 6).

INCARICHI PROFESSIONALI: La spettanza del legale non è riconducibile ad una sentenza esecutiva quale obbligo cogente nei confronti dell’amministrazione, bensì al rapporto professionale intercorso e alla successiva circostanza dell’insolvenza che ha determinato l’insorgenza a carico dell’Ente locale di adempiere il debito.
Essendo tale obbligo insorto al momento della nuova richiesta può essere adempiuto mediante semplice integrazione dello stanziamento di bilancio.
Tuttavia, qualora intervenga nell’esercizio finanziario successivo ed il relativo capitolo non sia stato impegnato, non sussistendo residui si dovrà procedere con il riconoscimento di debito fuori bilancio.

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Il Comune di Frontone ha formulato richiesta di parere concernente la necessità o meno di procedere al riconoscimento di debito fuori bilancio derivante da una parcella professionale posta dall’Autorità Giudiziaria a carico della controparte insolvente ed irreperibile.
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La spettanza del legale non è riconducibile ad una sentenza esecutiva quale obbligo cogente nei confronti dell’amministrazione, bensì al rapporto professionale intercorso e alla successiva circostanza dell’insolvenza che ha determinato l’insorgenza a carico dell’Ente locale di adempiere il debito.
Essendo tale obbligo insorto al momento della nuova richiesta può essere adempiuto mediante semplice integrazione dello stanziamento di bilancio.
Tuttavia,
qualora intervenga nell’esercizio finanziario successivo ed il relativo capitolo non sia stato impegnato, non sussistendo residui si dovrà procedere con il riconoscimento di debito fuori bilancio (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 02.02.2009 n. 4).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sul recupero dei sottotetti, in deroga, in Lombardia.
In linea di principio, la quota di contributo commisurata al costo di costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio.
Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico.
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Nello specifico, il settimo comma, primo periodo, dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12 prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di urbanizzazione e del contributo riferito al costo di costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le opere di nuova costruzione.
In tal senso, il TAR ha ragione quanto ha escluso la legittimità di un conteggio che tenga conto della “superficie complessiva”, cioè la superficie utile più quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è esatto l’assunto per cui in materia di oneri di urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48 della L.R. n. 12/2005.
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Al fine del calcolo del costo di costruzione per gli interventi in questione deve dunque escludersi che possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione le superfici non destinate anche indirettamente ai fini residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine, deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle cantine ed ecc..
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Il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art. 64, co. 7, della detta L.R. 12/2005 implica che per la determinazione del costo di costruzione per le nuove costruzioni –sia pure con riferimento alle sole superfici lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al D.M. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione "calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48 ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p. resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
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Quindi, come visto, se ai fini dell’individuazione del fattore principale del calcolo si doveva tener conto solo della “superficie utile resa abitabile”, il ricordato rinvio alle “tariffe vigenti” comporta comunque la necessità di valorizzare in concreto la tipologia dell’immobile computando quindi le percentuali di incremento di cui al D.M. 10.05.1977 “Determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici” e ciò per la fondamentale ragione che le superfici degli accessori e dei servizi costituiscono un elemento indicativo ai fini della valorizzazione dell’immobile.
La legge sul recupero dei sottotetti ai fini residenziali, con il richiamo alle tariffe vigenti, implica che il costo a mq. possa, e debba, essere maggiorato con le percentuali di incremento connesse con la tipologia qualitativa dell’immobile di cui al D.M. n. 10/1977.
Pertanto, ferma restando la “volumetria o la superficie abitativa netta resa abitabile”, sebbene le superfici degli accessori in questione non possano essere ricomprese in uno dei fattori del calcolo, ciò non vuol dire che la loro esistenza non incida, e rilevi sul piano concreto della fruibilità e della qualità estetica ed abitativa degli immobili. Per questo devono essere considerate ai fini della individuazione della percentuale di maggiorazione del “costo di costruzione” relativo alla valorizzazione della qualità architettonica.
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In base all’art. 4 del D.M. 10.05.1977 una volta individuate le superfici abitabili ed il “costo unitario di costruzione” pro tempore, deve farsi luogo all’individuazione dei presupposti per l’applicazione delle maggiorazioni in misura non superiore al 50% che la predetta normativa prevede in caso di edifici che abbiano “caratteristiche tipologiche superiori” a quelle considerate dalla legge n. 1179 del 01.11.1965.
In concreto, per l’identificazione degli edifici soggetti agli incrementi percentuali di cui agli artt. 5, 6 e 7, si deve tener conto:
- della superficie utile abitabile (Su);
- della superficie netta non residenziale di servizi e accessori (Snr) e cioè ad esempio: a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi;
- delle caratteristiche specifiche.
Ciò premesso a norma dell’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10 i “lastrici” ancorché “tecnologici” sono comunque assimilabili alle logge ed alle terrazze, ma anche, se si considerano comunque i relativi box e vani di contenimento, alle cabine idriche, ed ai locali che contengono il motore dell’ascensore.
Inoltre l’elencazione di cui all’art. 2, dato che corrisponde allo stato delle tecnologie di oltre trentacinque anni fa, ha un valore chiaramente esemplificativo e non prescrittivo per cui di nessun rilievo interpretativo ha il riferimento al termine “locali” molto enfatizzato dalla società immobiliare odierna appellata.
Peraltro, come risulta dalle indicazioni istruttorie sulla Dia del 13.12.2005, nel caso le terrazze sono collegate da scale e sono accessibili e calpestabili. Come la comune esperienza dimostra, anche la presenza dei macchinari dell’ascensore, di riscaldamento, di condizionamento non ne preclude in assoluto l’utilizzo per le altre parti, per cui le relative superfici sono state esattamente computate ai fini della Snr utile, ai fini della individuazione degli incrementi percentuali.
Dalla superficie non residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non la “scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi” di cui al n. 2 dell’art. 7 del d.m. 1977 cit. che qui comunque non risulta).
Di qui l’illegittimità del computo delle scale nell’ambito delle percentuali di Snr utili ai fini degli incrementi percentuali.
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Ai sensi dell'art. 63, c. 6, l.reg. Lombardia n. 12/2005 "il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di metri 2,40, … calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa".
Questo è il limite minimo del quale si deve tener conto, e non quello del Regolamento in vigore al momento della costruzione, come dimostra anche l’inciso della predetta legge che consente modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde "unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6" cioè un'altezza media ponderale di metri 2,40 (ed anche invero di quelli di cui all'art. 64 primo comma, l.r. 12/2005).
Nel caso è dunque evidente che l’altezza di 3 mt. è ben superiore all'altezza media di 2,40 che il medesimo legislatore regionale ha ritenuto assicuri le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, la quale costituisce ad un tempo l’altezza minima per rilasciare l'abitabilità degli spazi dall'art. 63, c. 6, l.reg. Lombardia n. 12/2005.
Di conseguenza l’altezza di 3 metri ben giustificava l’attribuzione del relativo coefficiente di maggiorazione (del costo di costruzione).

L’Amministrazione, appellante principale, premette una propria autonoma ricostruzione delle disposizioni di cui gli artt. 44, 48 e 64 della L.R. Lombardia n. 12/2005 per cui il “costo di costruzione” non costituirebbe un corrispettivo per l'aumento del carico urbanistico derivante dall'intervento edilizio, ma avrebbe una natura impositiva, tanto da essere assimilabile alle prestazioni patrimoniali imposte di cui all'articolo 23 della Costituzione, ed essendo rapportato a quanto materialmente costruito, come indice di capacità retributiva.
Per gli interventi di ristrutturazione la L.R. cit. prevede, all'art. 44, 10º co., che gli “oneri di urbanizzazione” siano riferiti agli interventi di nuova costruzione ridotti della metà, mentre il “costo di costruzione” ex art. 48 della medesima legge, doveva essere fissato dalla Giunta Regionale con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata (1° comma) ed in relazione ad una quota variabile dal 5 al 20% a seconda delle caratteristiche delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione d'ubicazione (3º comma), al costo reale degli interventi stessi, così come individuato nel progetto presentato, senza però mai superare il valore determinato per le nuove costruzioni. Il D.M. 10.05.1977 ancora oggi rimarrebbe l'unica normativa di dettaglio sulla tecnica estimativa che consentirebbe di rapportare al valore economico del fabbricato la quota di contributo relativa al costo di costruzione dello stesso.
In definitiva il contributo di costruzione nel sistema lombardo dovrebbe essere calcolato applicando al costo reale dell'intervento la percentuale relativa alla classe derivante dall'applicazione della tabella del predetto D.M. senza fare alcun riferimento né al carico urbanistico né alla volumetria abitabile. Per il recupero dei sottotetti, l'art. 64 della cit. L.R. n. 12 prevede al 7° co. che oltre agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria si debba corrispondere il costo di costruzione calcolato sulla volumetria sulla “superficie lorda di pavimento” resa abitativa secondo le tariffe provate vigenti in ciascun Comune per le opere di nuova costruzione.
In conseguenza, con la prima rubrica, il Comune di Milano lamenta che il Giudice di prime cure avrebbe erroneamente affermato che il calcolo della quota del contributo di costruzione avrebbe dovuto avere come parametro di riferimento la “volumetria resa abitativa”, e non la superficie complessiva così come previsto dall'articolo 2 del D.M. 15.05.1977. Il riferimento alla “volumetria resa abitativa” avrebbe rilievo solamente per gli oneri di urbanizzazione. Se non fosse così si finirebbe per introdurre un criterio incompatibile con la ratio impositiva di tale contributo perché non si valorizzerebbe l'incremento patrimoniale determinato dalle opere, bensì l'incremento del carico insediativo già valorizzato con gli oneri di urbanizzazione.
L’assunto è fondato nei limiti e nei sensi che seguono.
Esattamente l’Amministrazione appellante ricorda, in linea di principio, che la quota di contributo commisurata al costo di costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V 21.04.2006 n. 2258; Cons. Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI 18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 14/10/2011 n. 5539).
Nello specifico però, il settimo comma, primo periodo, dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12 prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di urbanizzazione e del contributo riferito al costo di costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le opere di nuova costruzione.
In tal senso, il TAR ha ragione quanto ha escluso la legittimità di un conteggio che tenga conto della “superficie complessiva”, cioè la superficie utile più quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è esatto l’assunto per cui in materia di oneri di urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48 della L.R. n. 12/2005.
La Società, nella memoria del 03.10.2013, esattamente ricorda come tale individuazione è del tutto coerente sia con le finalità generali di recupero di patrimonio edilizio ai fini abitativi, sia con riferimento al fatto che non possano computarsi tutte le superfici non residenziali che spesso non appartengono nemmeno all’esecutore dell’intervento.
Al riguardo, al fine del calcolo del costo di costruzione per gli interventi in questione deve dunque escludersi che possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione le superfici non destinate anche indirettamente ai fini residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine, deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle cantine ed ecc. (ma al riguardo vedi anche infra).
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art. 64, co. 7, della detta L.R. implica che per la determinazione del costo di costruzione per le nuove costruzioni –sia pure con riferimento alle sole superfici lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al D.M. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione "calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48 ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p. resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Solo in relazione a quest’ultimo limitato profilo il primo motivo del Comune può, per tale parte, essere accolto.
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Deve in primo luogo escludersi l’attuale rilevanza della Tabella A della Delib. G.R. 1994/53844 nella fattispecie in esame, in quanto l'articolo 16, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, che ha sostituito l'articolo 6 della legge n. 10 del 1977 (nel testo pro tempore in vigore di cui all'articolo 7, comma 2, della legge n. 537 del 1993), e l'articolo 48, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005, dispongono che il costo di costruzione degli edifici residenziali, ai fini del calcolo della relativa quota del contributo di costruzione, sia determinato periodicamente dalle regioni, con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata, come individuati dalle stesse regioni a norma dell'articolo 4, primo comma, lettera g), della legge n. 457 del 1978, ma che -in caso di mancato aggiornamento da parte delle regioni- il Comune potesse annualmente, ed autonomamente procedere alla fissazione del costo di costruzione, in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT).
Ciò posto, successivamente alla prima individuazione in Lire 482.300 al metro quadro, attuata con la deliberazione della Giunta regionale della Regione Lombardia n. 53844 del 31.05.1994 (pubblicata sul B.U.R.L., 5° supplemento straordinario del 24.06.1994), non vi è stato più alcun intervento regionale in dichiarata considerazione della prevalenza dell’autonomia locale concessa dalla Costituzione. In tale direzione dunque del tutto legittimamente il Comune di Milano, nell’ambito della sua autonomia, ha fatto riferimento alla tabella allegata al D.M. 10.05.1977.
Quindi, come visto, se ai fini dell’individuazione del fattore principale del calcolo si doveva tener conto solo della “superficie utile resa abitabile”, il ricordato rinvio alle “tariffe vigenti” comporta comunque la necessità di valorizzare in concreto la tipologia dell’immobile computando quindi le percentuali di incremento di cui al D.M. 10.05.1977 “Determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici” e ciò per la fondamentale ragione che le superfici degli accessori e dei servizi costituiscono un elemento indicativo ai fini della valorizzazione dell’immobile.
La legge sul recupero dei sottotetti ai fini residenziali, con il richiamo alle tariffe vigenti, implica che il costo a mq. possa, e debba, essere maggiorato con le percentuali di incremento connesse con la tipologia qualitativa dell’immobile di cui al D.M. n. 10/1977.
Pertanto, ferma restando la “volumetria o la superficie abitativa netta resa abitabile”, sebbene le superfici degli accessori in questione non possano essere ricomprese in uno dei fattori del calcolo, ciò non vuol dire che la loro esistenza non incida, e rilevi sul piano concreto della fruibilità e della qualità estetica ed abitativa degli immobili. Per questo devono essere considerate ai fini della individuazione della percentuale di maggiorazione del “costo di costruzione” relativo alla valorizzazione della qualità architettonica.
E’ inesatta al riguardo la richiesta subordinata della società intesa ad una loro valorizzazione pro parte con la “quota uffici”, dato che si tratta di spazi che, proprio in quanto utilizzabili per impianti, sono esponenziali del maggiore pregio architettonico dell’intero immobile, e che quindi giustificano il relativo incremento.
In base all’art. 4 del D.M. 10.05.1977 una volta individuate le superfici abitabili ed il “costo unitario di costruzione” pro tempore, deve farsi luogo all’individuazione dei presupposti per l’applicazione delle maggiorazioni in misura non superiore al 50% che la predetta normativa prevede in caso di edifici che abbiano “caratteristiche tipologiche superiori” a quelle considerate dalla legge n. 1179 del 01.11.1965.
In concreto, per l’identificazione degli edifici soggetti agli incrementi percentuali di cui agli artt. 5, 6 e 7, si deve tener conto:
- della superficie utile abitabile (Su);
- della superficie netta non residenziale di servizi e accessori (Snr) e cioè ad esempio: a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi;
- delle caratteristiche specifiche.
Ciò premesso a norma dell’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10 i “lastrici” ancorché “tecnologici” sono comunque assimilabili alle logge ed alle terrazze, ma anche, se si considerano comunque i relativi box e vani di contenimento, alle cabine idriche, ed ai locali che contengono il motore dell’ascensore.
Inoltre l’elencazione di cui all’art. 2, dato che corrisponde allo stato delle tecnologie di oltre trentacinque anni fa, ha un valore chiaramente esemplificativo e non prescrittivo per cui di nessun rilievo interpretativo ha il riferimento al termine “locali” molto enfatizzato dalla società immobiliare odierna appellata.
Peraltro, come risulta dalle indicazioni istruttorie sulla Dia del 13.12.2005, nel caso le terrazze sono collegate da scale e sono accessibili e calpestabili. Come la comune esperienza dimostra, anche la presenza dei macchinari dell’ascensore, di riscaldamento, di condizionamento non ne preclude in assoluto l’utilizzo per le altre parti, per cui le relative superfici sono state esattamente computate ai fini della Snr utile, ai fini della individuazione degli incrementi percentuali.
Dalla superficie non residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non la “scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi” di cui al n. 2 dell’art. 7 del d.m. 1977 cit. che qui comunque non risulta).
Di qui l’illegittimità del computo delle scale nell’ambito delle percentuali di Snr utili ai fini degli incrementi percentuali.
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Infine per la Società immobiliare il Comune avrebbe sbagliato anche nel ritenere che l'edificio possedesse una “caratteristica particolare” costruita dall'altezza libera di piano superiore a 3 mt. a quella minima prescritta dalle norme regolamentari ai sensi dell'articolo 7 D.M. 10.05.1977. Il regolamento prescriverebbe infatti che gli edifici debbano avere l'altezza minima interna superiore a 3 mt., un’altezza maggior per cui tale requisito non potrebbe essere considerato una caratteristica particolare e quindi non potrebbe giustificare l'applicazione di un più elevato onere.
L’edificio in questione, costruito negli anni 50 del secolo scorso presenterebbe un'altezza netta interna che “non supera” quella prescritta dall'articolo 59 del Regolamento d'igiene vigente all'epoca della sua costruzione per cui la maggiorazione non poteva essere legittimamente approvata.
L’assunto non può essere condiviso.
Si deve infatti ricordare che ai sensi dell'art. 63, c. 6, l.reg. Lombardia n. 12/2005 "il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di metri 2,40, … calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa".
Questo è il limite minimo del quale si deve tener conto, e non quello del Regolamento in vigore al momento della costruzione, come dimostra anche l’inciso della predetta legge che consente modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde "unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6" cioè un'altezza media ponderale di metri 2,40 (ed anche invero di quelli di cui all'art. 64 primo comma, l.r. 12/2005).
Nel caso è dunque evidente che l’altezza di 3 mt. è ben superiore all'altezza media di 2,40 che il medesimo legislatore regionale ha ritenuto assicuri le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, la quale costituisce ad un tempo l’altezza minima per rilasciare l'abitabilità degli spazi dall'art. 63, c. 6, l.reg. Lombardia n. 12/2005.
Di conseguenza l’altezza di 3 metri ben giustificava l’attribuzione del relativo coefficiente di maggiorazione.
Il motivo va dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013 n. 6161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi" le denuncie di inizio attività "non costituiscono provvedimenti taciti".
Il legislatore ha fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge".
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L'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere agganciato non al tempo della presentazione della denuncia di inizio attività, ma al sorgere della giuridica possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a. per decorso del termine o intervenuto accertamento della conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta denuncia.
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Quando il privato ha parcellizzato l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA (nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà che essere quello corrispondente all’assetto finale dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso del diritto in danno dell’Amministrazione.

Come la Sezione ha più volte avuto modo di ricordare, ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi" (introdotto con l'articolo 6, co. 1°, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138) le denuncie di inizio attività "non costituiscono provvedimenti taciti". Il legislatore ha fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge".
In linea generale, l'efficacia abilitativa alla realizzazione dell'intervento edilizio non era conseguente all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere agganciato non al tempo della presentazione della denuncia di inizio attività, ma al sorgere della giuridica possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a. per decorso del termine o intervenuto accertamento della conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta denuncia (cfr. Cons. Stato Sez. IV 13.05.2010 n. 2922).
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di calcolo (come nel caso di specie), o anche il sopraggiungere di una nuova disciplina urbanistica).
In conseguenza del principio che precede, quando poi, come nel caso particolare, il privato abbia parcellizzato l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA (nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà che essere quello corrispondente all’assetto finale dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso del diritto in danno dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013 n. 6161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di opere di urbanizzazione <a scomputo> è prevista dall’art. 16, comma 2, del DPR n. 380 del 2001, a mente del quale “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’art. 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza maggioritaria interpreta il dato normativo nel senso che la possibilità di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione, a scomputo dei contributi, è sempre condizionata al preventivo assenso comunale, avendo l’Amministrazione anche il potere di indicare il tipo e l’entità delle opere, le modalità di esecuzione e le relative garanzie.

... per l'accertamento delle maggior somme indebitamente corrisposte al Comune di Calcinaia a titolo di oneri di urbanizzazione, con la conseguente condanna del Comune di Calcinaia alla restituzione alla ricorrente della somma complessiva di € 35.784,25 oltre interessi dal dì del dovuto al soddisfo, oppure quella diversa che risulterà di giustizia, sempre oltre interessi dal dì del dovuto al soddisfo.
...
 Il Collegio ritiene che il ricorso sia privo di fondamento, sulla base delle considerazioni che seguono.
La realizzazione di opere di urbanizzazione <a scomputo> è prevista dall’art. 16, comma 2, del DPR n. 380 del 2001, a mente del quale “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’art. 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza maggioritaria interpreta il dato normativo nel senso che la possibilità di realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione, a scomputo dei contributi, è sempre condizionata al preventivo assenso comunale, avendo l’Amministrazione anche il potere di indicare il tipo e l’entità delle opere, le modalità di esecuzione e le relative garanzie.
A tale impostazione si è ispirata anche la Sezione (sentenze 14.09.2004, n. 3782 e 01.07.2010, n. 2252), con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce.
Nel caso di specie non vi è stata consenso del Comune di Calcinaia in ordine alla realizzazione delle opere a scomputo di cui alla domanda giudiziaria, il che preclude quindi la possibilità di porre a carico dell’Amministrazione il relativo onere economico. La pretesa di parte ricorrente (che chiede il rimborso di opere realizzate senza il consenso del Comune) contrasta peraltro con la condotta seguita nella medesima vicenda in precedenti ipotesi, nelle quali la società ricorrente aveva previamente ottenuto l’assenso dell’Amministrazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione (con riferimento al marciapiede e alla fognatura) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.12.2013 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' necessario distinguere due diverse evenienze:
a) se si è in presenza di opere realizzate in eccedenza o difformità rispetto alla d.i.a. presentata, le stesse possono essere fatte oggetto in ogni tempo, da parte dell’Amministrazione, di ordine si sospensione e di ripristino;
b) se invece le opere realizzate sono conformi alla denuncia presentata e sono state realizzate senza che l’Amministrazione si sia attivata nei termini per vietare la prosecuzione dell’attività e disporre la rimozione degli effetti, allora l’emanazione dei provvedimenti di rimessa in pristino deve essere necessariamente preceduta dall’adozione di un atto di autotutela, nel rispetto della garanzie sostanziali e procedimentali che assistono lo stesso, finalizzato alla eliminazione del titolo formatosi implicitamente con il decorso del termine di legge dalla presentazione della d.i.a. senza interventi inibitori.

... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Monteriggioni Ordinanza n. 116 del 16.12.2010 notificata il 12.1.2011 con il quale è stata ordinata la demolizione delle seguenti opere realizzate nella superficie di terreno sita in Comune di Monteriggioni ed identificata al C.T. di detto comune al foglio n. 89 par.lle 1451, 1440,1457: Manufatto costituito da una gettata di cemento (o platea di cemento) delle dimensioni di m. 10 x 3 sulla quale è infissa e si eleva una struttura in ferro in forma di L che sorregge, ad una altezza dal suolo variabile dai m. 1,80 ai m. 2,00 una copertura in lamiera e plastica ondulina di pari dimensioni;
...
Con il secondo e terzo mezzo, che possono essere fatti oggetto di congiunta trattazione, parte ricorrente censura l’operato dell’Amministrazione, evidenziando che questa non poteva emettere l’ordinanza di demolizione, in presenza di titoli edilizi acquisiti con la presentazione delle varie d.i.a., senza prima procedere all’annullamento in autotutela dei titoli assentiti.
Le censure sono fondate.
Come la Sezione ha avuto più volte modo di evidenziare, è necessario distinguere due diverse evenienze:
a) se si è in presenza di opere realizzate in eccedenza o difformità rispetto alla d.i.a. presentata, le stesse possono essere fatte oggetto in ogni tempo, da parte dell’Amministrazione, di ordine si sospensione e di ripristino (in termini la sentenza della Sezione n. 806 del 2013, punto 16 della motivazione);
b) se invece le opere realizzate sono conformi alla denuncia presentata e sono state realizzate senza che l’Amministrazione si sia attivata nei termini per vietare la prosecuzione dell’attività e disporre la rimozione degli effetti, allora l’emanazione dei provvedimenti di rimessa in pristino (come quello gravato) deve essere necessariamente preceduta dall’adozione di un atto di autotutela, nel rispetto della garanzie sostanziali e procedimentali che assistono lo stesso, finalizzato alla eliminazione del titolo formatosi implicitamente con il decorso del termine di legge dalla presentazione della d.i.a. senza interventi inibitori (in termini le sentenze della Sezione n. 430 del 2009 e n. 1636 del 2013).
Nella specie l’Amministrazione non ha seguito la prima strada: infatti l’ordinanza gravata non motiva in alcun modo in punto di difformità tra opere denunziate e opere realizzate, cioè circa la difformità della platea di cemento realizzata rispetto alla soletta di cemento di cui alla d.i.a. del 2007 e non fornisce quindi la necessaria dimostrazione che gli interventi edilizi realizzati risultino diversi da quelli di cui alle d.i.a. presentate.
Né l’Amministrazione segue la seconda strada, perché l’ordine di demolizione qui gravato non risulta preceduto dalla procedura di autotutela volta a superare i titoli edilizi formatosi a fronte delle d.i.a. presentate e non inibite dall’Amministrazione nei termini di legge (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.12.2013 n. 1717 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARINiente multe con il cartello fantasma.
Il cartello di divieto di sosta è solo il mezzo con cui si porta a conoscenza degli utenti un provvedimento in materia di traffico ma in caso di ricorso spetta all'amministrazione comunale dimostrare la legittimità dell'imposizione sottesa.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 15.11.2013 n. 25771.
Un automobilista sanzionato dai carabinieri per divieto di sosta ha proposto ricorso con successo al giudice di pace evidenziando la mancanza sul retro del segnale del numero dell'ordinanza comunale. Contro questa determinazione, confermata in sede d'appello, il ministero dell'interno ha proposto ricorso in cassazione.
A parere degli ermellini il tribunale avrebbe dovuto ritenere sussistente la violazione stradale solo se fosse stata fornita la prova della legittimità dell'apposizione del cartello. In buona sostanza non basta dire che manca il timbro per annullare la multa. Occorre dimostrare che manca l'ordinanza oppure è viziata (articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2013).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego del Soprintendente all'installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto adducendo la motivazione "in quanto gli elementi da installare risulterebbero, in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante...".
Invero, detta valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta.
Si è già sostenuto che “attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione pubblici".

... per l'annullamento della condizione imposta dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Verona, Rovigo e Vicenza ed applicata dal Comune di Garda all'autorizzazione paesaggistica rilasciata ai ricorrenti in data 02/10/2013, prot. n. 14.509/2013, per l'esecuzione dei lavori di demolizione e ricostruzione della loro abitazione, con ampliamento ai sensi della L.R. 14/2009, contenente il divieto di installazione dei pannelli fotovoltaici sulla copertura dell'edificio e del parere negativo espresso dalla medesima Soprintendenza con nota in data 24/09/2013, prot. n. 26608, limitatamente all'imposizione della descritta condizione.
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- Ritenuto che la fattispecie in esame sia riconducibile ad analoghe controversie, nelle quali è stato ugualmente censurato il parere sfavorevole espresso dalla Soprintendenza relativamente all’installazione di impianti fotovoltaici, parere espresso con termini e motivazione del tutto identici a quelli qui contestati (“in quanto gli elementi da installare risulterebbero, in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante...”);
- che, conformemente all’orientamento già manifestato a tale riguardo, il ricorso è meritevole di accoglimento, in quanto la prescrizione contestata risulta viziata da eccesso di potere e difetto di motivazione;
- che, invero, detta valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta;
- che, infatti, nel provvedimento, non solo non vi è nessun riferimento alla metratura o al posizionamento dell’impianto, ma ancora risulta del tutto assente l’individuazione e la menzione di un elemento del paesaggio e dell’ambiente circostante che, in quanto tale, risulterebbe deturpato, o quanto meno pregiudicato, dalla realizzazione dell’impianto di cui si controverte;
- che quindi non è ammissibile una valutazione astratta e generica non supportata da un’effettiva dimostrazione dell’incompatibilità paesaggistica dell’impianto;
- che quindi, come già osservato dal Tribunale, cfr. sentenza n. 1104/2013, “Analogamente si è sostenuto che “attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione pubblici (in questo senso anche TAR Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 04.10.2010, n. 3726 e sempre TAR Brescia Sez. I 15.04.2009 n. 859)”;
- per le considerazioni così svolte, il ricorso va accolto e per l’effetto va annullata la condizione imposta dalla Soprintendenza di Verona all’autorizzazione paesaggistica e contenente il divieto alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico e/o solare (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.11.2013 n. 1294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di vincolo sopravvenuto, “l’accertamento della Soprintendenza deve essere concreto e approfondito e nelle motivazioni dell’atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell’intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati (nel caso di specie la sostanziale valutazione di automatica non sanabilità del manufatto perché contrastante con le prescrizioni del vincolo priva addirittura della descrizione delle concrete caratteristiche dell’edificio, non soddisfa certamente i requisiti motivazionali necessari per il diniego di sanatoria di fabbricati edificati prima dell’apposizione del vincolo essendo per contro richiesta una motivazione più puntuale nella quale si dia conto della reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali ricadono e delle ragioni di incompatibilità dell’opera con il contesto ambientale vincolato)”.
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Analogo orientamento era vigente nel momento in cui il provvedimento impugnato veniva emanato e, ciò, considerando come si fosse già previsto (si veda TAR Sardegna, 15.03.1995, n. 348) che “Poichè la l. 28.02.1985 n. 47 e la l.reg. Sardegna 11.10.1985 n. 23, nel prevedere la sanatoria delle opere abusive realizzate entro il 01.10.1983, hanno anche introdotto una serie di limitazioni alla stessa al fine di non consentire che l'edificazione in determinate aree contrastasse con rilevanti o prevalenti interessi pubblici, l'amministrazione comunale che intenda rigettare una domanda di sanatoria ha l'obbligo di indicare in motivazione la norma o il principio che rende insanabile l'opera abusiva, vertendo in materia di stretta interpretazione, in quanto i casi di esclusione dalla sanatoria sono stati previsti in maniera espressa e tassativa al fine di rendere quanto più possibile esteso il ricorso alla sanatoria e quanto più chiara l'individuazione di assoluta in edificabilità”.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Venezia di diniego di sanatoria ex L. n. 47/85 del 02/11/1995 (prot. nr. 54289/18940/00);
- del parere presupposto e contrario della Commissione per la Salvaguardia di Venezia ‘1 Agosto (prot. nr. 54289/18940/00).
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Il ricorso può essere accolto, risultando fondati il primo e il terzo motivo.
E’ necessario preliminarmente evidenziare come il Comune di Venezia, nel recepire il parere negativo della Commissione per la Salvaguardia, abbia fondato il provvedimento di diniego sulla base della sola considerazione che l’intervento costituirebbe “Eccessivo stravolgimento edilizio ed impatto ambientale”.
E’ del tutto evidente che la motivazione sopra citata non consente di ripercorrere le reali ragioni di incompatibilità con l’ambiente circostante e, ciò, peraltro considerando che, nel caso ora sottoposto all’esame di questo Collegio, si sia in presenza della chiusura di un terrazzino mediante la realizzazione di una struttura in vetro.
Dalle fotografie allegate è possibile condividere le argomentazioni di parte ricorrente e ritenere che la struttura di cui si tratta sia del tutto conforme alle strutture esistenti, senza che, in relazione alle stesse, sussista alcuna discontinuità.
Si consideri altresì come, sempre dal contenuto del provvedimento impugnato, non sia possibile evincere in relazione a quali aspetti, e a quali circostanze, detto giudizio di incompatibilità sia stato pronunciato; se riferito ad esempio ai materiali o a qualche elemento della struttura o, ancora, alla stessa opera nel suo complesso.
Detta assenza di elementi risulta stridente se rapportata alla terminologia usata dalla Commissione di Salvaguardia e, ciò, nella parte in cui ha sancito che la costruzione della veranda abbia determinato uno stravolgimento edilizio ed un impatto ambientale, in quanto tale definito “eccessivo”.
Sul punto è possibile applicare quanto disposto da un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda TAR Campania, Salerno sez. I 20.06.2012 n. 1236) nella parte in cui ha sancito che, in caso di vincolo sopravvenuto -circostanza quest’ultima pacificamente riconosciuta dalle parti in causa-, “l’accertamento della Soprintendenza deve essere concreto e approfondito e nelle motivazioni dell’atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell’intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati (nel caso di specie la sostanziale valutazione di automatica non sanabilità del manufatto perché contrastante con le prescrizioni del vincolo priva addirittura della descrizione delle concrete caratteristiche dell’edificio, non soddisfa certamente i requisiti motivazionali necessari per il diniego di sanatoria di fabbricati edificati prima dell’apposizione del vincolo essendo per contro richiesta una motivazione più puntuale nella quale si dia conto della reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali ricadono e delle ragioni di incompatibilità dell’opera con il contesto ambientale vincolato)”.
Analogo orientamento era vigente nel momento in cui il provvedimento impugnato veniva emanato e, ciò, considerando come si fosse già previsto (si veda TAR Sardegna, 15.03.1995, n. 348) che “Poichè la l. 28.02.1985 n. 47 e la l.reg. Sardegna 11.10.1985 n. 23, nel prevedere la sanatoria delle opere abusive realizzate entro il 01.10.1983, hanno anche introdotto una serie di limitazioni alla stessa al fine di non consentire che l'edificazione in determinate aree contrastasse con rilevanti o prevalenti interessi pubblici, l'amministrazione comunale che intenda rigettare una domanda di sanatoria ha l'obbligo di indicare in motivazione la norma o il principio che rende insanabile l'opera abusiva, vertendo in materia di stretta interpretazione, in quanto i casi di esclusione dalla sanatoria sono stati previsti in maniera espressa e tassativa al fine di rendere quanto più possibile esteso il ricorso alla sanatoria e quanto più chiara l'individuazione di assoluta in edificabilità”.
Ne consegue che, in considerazione di quanto sopra esplicitato, il ricorso possa essere accolto con assorbimento delle ulteriori deduzioni poste in essere dalla parte ricorrente e con conseguente annullamento dei provvedimenti così impugnati (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario.
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Con riferimento al presunto difetto di motivazione del parere della Soprintendenza va ricordato, per un costante orientamento giurisprudenziale, come l’Amministrazione non possa limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.

Con riferimento a dette eccezioni in primo luogo va confermato la natura obbligatoria e vincolante del parere di cui all’art. 146 sopra citato e, ciò, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (TAR Umbria Perugia Sez. I, 16.01.2013, n. 11) che ha sancito che “il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario...
Va, inoltre, rilevato come nel concreto siano rispettati anche i termini entro i quali il parere doveva essere emanato e, ciò, considerando che i termini sia di cui al comma 5 che al comma 8 decorrono dalla data di ricezione degli atti e non dalla data di deposito dell’istanza presso l’ufficio regionale competente come sostenuto dalla parte ricorrente.
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Con riferimento al presunto difetto di motivazione del parere della Soprintendenza va ricordato, per un costante orientamento giurisprudenziale (TAR Campania Salerno Sez. II, 01.08.2012, n. 1591 e Cons. Stato Sez. VI Sent., 25.02.2008, n. 653), come l’Amministrazione non possa limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei provvedimenti impugnati consente di rilevare che... ”l’intervento proposto …in un’area di eccezionale bellezza e di grande visibilità, qualora realizzato comporterebbe un’alterazione sostanziale dell’ambiente e inciderebbe negativamente sull’equilibrio del contesto sottoposto a tutela paesaggistica..”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che… ”negli ultimi anni si è avuta una trasformazione intensiva dei terreni rimboschiti della Valpolicella in vigneti portando ad un impoverimento del paesaggio locale e privandolo viepiù di quella variegazione evidenziata dal decreto di tutela: risulta pertanto essenziale la salvaguardia e il recupero di tali aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura della motivazione contenuta nei due atti sopra citati, lungi dal costituire l’applicazione di formule apodittiche, ha a riferimento l’area di cui si tratta, esprimendo una valutazione che, seppur sintetica, consente di ripercorrere l’iter logico seguito e a fondamento dei provvedimenti impugnati
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.08.2013 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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