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AGGIORNAMENTO AL 29.11.2013 |
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IN EVIDENZA |
Una rondine non fa primavera: ma nel (solo) Veneto
sì !! |
Uno contro tutti: la Sez. di controllo della Corte
dei Conti veneta si distingue da tutti (in
controtendenza all'orientamento ormai pacifico)
laddove afferma che l'incentivo alla progettazione
in materia di pianificazione urbanistica ai pubblici
dipendenti, ex art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006,
spetta a prescindere che la pianificazione sia o
meno correlata al compimento di un'opera pubblica.
Che dire: fortunati gli U.T.C. dei comuni veneti,
laddove la Corte dei Conti non solleverà rilievi
sulla liquidazione dell'incentivo de quo e,
soprattutto, il firmatario del mandato di pagamento
potrà dormire sonni tranquilli ... ai restanti
comuni italiani non resta che "far buon viso a
cattiva sorte" sperando che, presto o tardi,
sulla questione si esprimano le Sezioni Riunite in
sede di controllo della Corte dei Conti affinché ci
possa (debba) essere una uniformità di
interpretazione della norma e conseguente omogeneo
comportamento sull'intero territorio nazionale.
A seguire si ripropone il recentissimo parere di cui
sopra.
02.12.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L'incentivo alla progettazione previsto a favore dei
dipendenti pubblici che materialmente redigono atti
di pianificazione spetta sempre e comunque, a
prescindere dal fatto che sia collegata o meno al
compimento di opere pubbliche.
La
Sezione ritiene che la previsione dell’art. 92,
comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 contenga una
esplicita norma di incentivazione che deroga al
principio di onnicomprensività. La norma introduce
quindi una previsione derogatoria autonoma e
distinta rispetto a quella contenuta nel comma 5,
ricavabile da numerosi fattori.
Tale conclusione è avvalorata, in particolare, sia
dalla analisi dell’evoluzione storica della norma
che dalla verifica della sua trasposizione nel
corpus del codice dei contratti.
Essa trova conferma altresì nella esplicita
previsione testuale della norma (atto di
pianificazione comunque denominato), nonché dalla
previsione di una diversa commisurazione del
compenso rispetto a quanto previsto in tema di
progettazione di opere pubbliche.
L’oggettiva e dimostrata maggiore complessità delle
funzioni di pianificazione trova una sua
esplicitazione a livello normativo nella
documentazione che viene allegata alle varianti agli
strumenti urbanistici rispetto alle modifiche
puntuali di essi connesse alla progettazione delle
opere pubbliche.
Tali attività di elaborazione sono pertanto di uno
scrutinio comparativo alla luce dei principi
dell’ordinamento e in particolare di ragionevolezza
e di quelli enunciati all’art. 36 della
Costituzione.
Anche sul piano soggettivo, le mansioni di
pianificazione generali –a differenza di quelle di
progettazione di opera pubblica- non sono
ascrivibili alla specifica competenza di un solo
soggetto, ma richiedono una attività
multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga
alcuna attese le tassatività delle competenze
professionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse
richiedono comunque una intensa attività di
coordinamento che trova esplicita conferma testuale
nella norma del comma 6 nel rinvio alle modalità e
criteri del regolamento di cui al comma precedente.
La stessa commisurazione del compenso, in modo
sensibilmente diverso rispetto a quella di
progettazione dell’opera pubblica, dimostra come
l’intenzione del legislatore è stata quella di
attribuire la giusta retribuzione all’attività di
pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo
collegamento con un’opera pubblica.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cadoneghe (PD), formula a
questa Sezione una richiesta di parere, ai
sensi dell'articolo 7, comma 8, della Legge
131/2003, in merito alla corretta interpretazione
dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006.
La predetta disposizione prevede che il trenta per
cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato, sia ripartito tra i dipendenti che lo
hanno redatto, con le modalità ed i criteri previsti
nel regolamento in materia approvato
dall’Amministrazione.
La richiesta di parere verte sull’individuazione
del campo di applicazione del sopra richiamato art.
92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, in particolare
“se tale dettato riguardi anche la redazione
degli atti di pianificazione urbanistica non
esclusivamente finalizzati alla realizzazione di
un’opera pubblica, come è stato recentemente
confermato dall’Avcp – Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture
con parere n. AG 22/12 del 21.11.2012”.
...
2.
Il quesito proposto a questa Sezione involge alcune
questioni di carattere generale e altre più
specifiche tra le quali rileva, in primo luogo, la
portata del principio di onnicomprensività, avuto
specificamente riguardo al fatto che l'art. 92,
comma 6, del D.L. n. 163/2006 prevede che "Il
trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le modalità ed
i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5
tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto".
In termini generali, la Sezione sottolinea che la
questione va risolta alla luce delle disposizioni
che regolano la materia della retribuzione
corrisposta ai dipendenti come controprestazione del
proprio apporto professionale all’amministrazione,
ove vige come regola generale il principio di
onnicomprensività: il trattamento
economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2
dell’art. 24 del D.Lgs. 165/2001 remunera «tutte
le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in
base a quanto previsto dal presente decreto, nonché
qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del
loro ufficio o comunque conferito
dall’amministrazione presso cui prestano servizio o
su designazione della stessa», mentre per il
personale non dirigente, esso trova la sua
enunciazione nella norma contenuta nell’art. 45 del
D.Lgs. n. 165/2001.
In virtù di tale principio, nulla è
dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale
ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al
dipendente che ha svolto una prestazione che rientra
nei suoi doveri d’ufficio
(cfr. Corte dei Conti Puglia, Sezione
giurisdizionale,
sentenza
20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza
02.08.2010 n. 487).
Il principio si coniuga con quello,
previsto parimenti dalle norme citate, della riserva
alla contrattazione collettiva in tema di
determinazione del corrispettivo delle prestazione
dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che solo il
contratto collettivo nazionale può fissare
onnicomprensivamente il trattamento economico,
mentre quello decentrato assume rilevanza nei limiti
di quanto disposto dalle fonti nazionali.
Al di là dei casi citati, solo la
legge può derogare a tale sistema, prevedendo talora
ulteriori specifici compensi
(cfr.
parere 26.07.2011 n. 337
di questa Sezione) o addirittura la
possibilità di una diversa strutturazione del
trattamento economico
(cfr., ad esempio, gli artt. 24 e 45 del D.Lgs. n.
165 del 2001), sia sul piano
qualitativo che su quello quantitativo: con la
conseguenza che il contratto individuale o una
determinazione unilaterale dell’ente (ad esempio un
regolamento) non possono determinare il
corrispettivo e, dall’altro, che tale corrispettivo
retribuisce ogni attività che ricade nei doveri
d’ufficio (principio di onnicomprensività:
cfr., ex multis,
parere 16.01.2013 n. 22
di questa Sezione).
Premesso quindi che la materia è demandata alle
leggi ed ai contratti collettivi nazionali, non
derogabile a livello regolamentare locale,
l’interrogativo cui è chiamata a rispondere la
Sezione concerne propriamente l’individuazione della
previsione normativa che consente l’attribuzione di
tale compenso derogatorio nel caso di che trattasi,
e verte altresì sul significato del rinvio alla
norma regolamentare operato dal comma 6 al comma 5
dell’art. 92 D.Lgs. 165/2001.
Al riguardo, questa Sezione aveva osservato (parere
26.07.2011 n. 337,
cit.) che la norma di legge che regola tale
disciplina, contenuta nell’art. 92, comma 6,
rappresenta una autonoma e distinta previsione di
legge che legittima la erogazione dell’incentivo per
l'attività di pianificazione, oltretutto commisurato
in modo diverso, rispetto a quanto previsto in tema
in caso di progettazione interna dal comma 5 ivi
citato: l’attribuzione di tale incentivo prescinde
dal collegamento con la progettazione di una opera
pubblica e il rinvio al comma 5 concernerebbe solo
le modalità, da stabilirsi con regolamento, di
erogazione.
3.
Venendo al merito della richiesta giova premettere
come il Collegio non ignora,
peraltro, che l’indirizzo giurisprudenziale
prevalente
(Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
la Lombardia,
Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 452;
Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
il Piemonte,
cfr.
parere 30.08.2012 n. 290;
Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
la Puglia,
Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
la Toscana,
Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213;
Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per
la Toscana, con il
parere 27.11.2012 n. 389)
abbia escluso dall'incentivazione la
pianificazione di strumenti urbanistici non connessi
ad un’opera pubblica, optando per una
interpretazione che fa leva sull’individuazione di
un’unica previsione normativa di incentivazione,
contenuta nell’art. 92 citato.
Secondo la richiamata posizione,
l’esclusione della incentivazione delle attività
pianificatorie, non attinenti alla progettazione di
opere pubbliche sembrerebbe trovare supporto nella
formulazione letterale della norma dell’art. 92,
comma 6, che fa riferimento ad una Amministrazione
aggiudicatrice, presupponendo -secondo tale ottica-
la realizzazione di un'opera pubblica da attuare
mediante evidenza pubblica: la qual cosa
risulterebbe confermata dalla sedes materiae
della disciplina, ricompresa nella Sezione I del
Capo IV del Codice dei contratti relativa alla
progettazione interna ed esterna delle opere
pubbliche.
Nel restringere l’ipotesi di
incentivazione ai soli atti di pianificazione
collegati alla realizzazione di un’opera pubblica,
un indirizzo siffatto postula, in ragione della
sedes materiae, e della locuzione
Amministrazione aggiudicatrice contenuta nell'art.
92, comma 6, la necessaria ascrizione della attività
di progettazione urbanistica ai compiti
istituzionali degli Uffici, ricompresa nei doveri
d’ufficio (art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001) e
pertanto non suscettibile della liquidazione
dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del
D.lgs. n. 163/2006.
Sul punto, la Sezione è di diverso avviso e, in
questa sede, non può che ribadire il proprio
precedente orientamento che appare supportato da una
serie di argomenti di seguito evidenziati.
3.1. Argomento letterale
La Sezione ritiene, in primo luogo,
di non aderire alla interpretazione secondo cui la
formulazione letterale della norma presuppone
necessariamente l’esistenza di un'opera pubblica, da
realizzare mediante evidenza pubblica, senza
possibilità di estensione analogica della previsione
incentivante.
Al riguardo, questa Sezione ha già avuto modo di
sottolineare che "il comma 6... [dell'art. 92 del
Codice] ha una valenza ben più ampia, esprimendo la
qualificazione operata dalla vigente normativa
dell'attività di pianificazione urbanistica e la
similitudine con la progettazione di lavori pubblici"
che esplicita il necessario collegamento con
l'affidamento della progettazione urbanistica: essa
rientra, al pari della progettazione delle opere
pubbliche, nel Codice dei contratti, tanto che è
ricompresa nella categoria degli appalti pubblici di
servizi elencati nell’allegato IIA del Codice dei
contratti pubblici (C. Conti Sez. controllo, Veneto,
parere 26.07.2011 n. 337)
e deve essere affidata mediante un appalto (ex
multis C. Conti Sez. controllo, Veneto,
deliberazione 11.06.2013 n. 146).
Al contrario, è proprio la stessa
formulazione letterale, nell’utilizzo della
locuzione atto di pianificazione “comunque
denominato”, lungi dall’autorizzare
interpretazioni restrittive, a consentire di
ascrivere all’ambito oggettivo della norma ogni atto
di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento
alla progettazione di un’opera pubblica: anzi, al
contrario, il legislatore non ha inteso fare un
distinguo tra le tipologie di redazione degli
elaborati tecnici, generali o particolari,
intendendo utilizzare una dizione sufficientemente
generale ed aperta quale “atto di pianificazione
comunque denominato”, senza entrare nel merito
di ulteriori distinzioni.
Il Collegio non ignora nemmeno che tale distonia
interpretativa è stata posta in evidenza, da ultimo,
nell’atto
di segnalazione 25.09.2013 n. 4 dall’Autorità di
Vigilanza dei contratti pubblici.
In particolare, l’Autorità, richiamando la
determinazione 25.09.2000 n. 43,
la
deliberazione 13.06.2000 ed il
parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10
e
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12,
ha sottolineato che l’applicazione
della norma è particolarmente ampia al punto che
possano essere ritenuti assoggettati alla categoria
di “atti di pianificazione comunque denominati”
i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti
produttivi, i piani di zona, i piani
particolareggiati, i piani regolatori, i piani
urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi
contenuto normativo e connessi alla pianificazione,
quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché
completi per essere approvati dagli organi
competenti, ribadendo la considerazione, svolta
nelle citate note precedenti, che “tali atti
afferiscono, sia pure mediatamente, alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel
tessuto urbano“.
L’Autorità ha, dunque, sottolineato il nesso
comunque esistente tra pianificazione urbanistica e
realizzazione di opere pubbliche (“…i piani
regolatori contengono tra le altre previsioni di
c.d. zonizzazione …sia norma di localizzazione di
aree destinate a formare spazi di uso pubblico,
ovvero riservate ad edifici pubblici o di uso
pubblico…”). In tale atto, l’Autorità ha
segnalato al Governo ed al Parlamento la necessità
di superare il predetto contrasto ermeneutico e la
contestuale opportunità di procedere ad un
definitivo chiarimento interpretativo dell’art. 92,
comma 6, del Codice, volto ad individuare in maniera
chiara la tipologia di atti di pianificazione in
relazione ai quali è possibile riconoscere
l’incentivo ivi contemplato in favore dei tecnici
interni che li hanno redatti.
In realtà, come può evincersi dal
tenore letterale della norma
(ed è sottolineato dalla citata delibera della
Autorità), la stessa non individua
la tipologia di documenti pianificatori la cui
redazione dà luogo al riconoscimento dei predetti
compensi, ma ne fornisce una definizione generica,
tale da ricomprendere in tale categoria gli atti di
pianificazione “comunque denominati”: di
talché, è la norma ad affidare l’individuazione
degli atti di pianificazione che possono dar luogo
al riconoscimento del predetto compenso incentivante
all’autonomia regolamentare dell’amministrazione
interessata.
Peraltro, anche la giurisprudenza delle Sezioni
riunite per la Regione Sicilia in sede consultiva (parere
03.01.2013 n. 2)
ha ricompreso nell'atto di pianificazione comunque
denominato "qualsiasi elaborato complesso,
previsto dalla legislazione statale o regionale,
composto da parte grafica/cartografica, da testi
illustrativi e da testi normativi (es. norme
tecniche d'attuazione) finalizzato a programmare,
definire e regolare, in tutto o in parte, il
corretto assetto del territorio comunale".
Tuttavia, anche a volere accedere
alla interpretazione avversata, è utile richiamare
che "la natura stessa e il contenuto della
pianificazione urbanistica e in particolare dei
piani regolatori consente l'erogazione
dell'incentivo ex art. 92, comma 6, del Codice dei
contratti a favore dei dipendenti che abbiano
partecipato alla redazione di tali strumenti
urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia
pure mediatamente, alla progettazione di opere o
impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali
definiscono l'ubicazione nel tessuto urbano"
(parere
sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12).
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di
sottolineare (cfr. pareri n. 148/2013, n. 150/2013,
n. 151/2013, n. 155/2013) che la “conformazione
della proprietà”, condizione necessaria del
procedimento di esproprio, (…) nasce proprio dalle
prescrizioni urbanistiche contenute nei piani, in
guisa che tra i due procedimenti, pianificatorio ed
espropriativo, esiste un legame molto stretto ed
ineludibile. La richiamata evoluzione in senso
sociale della proprietà privata ha condotto ad un
notevole sviluppo delle regole cd. conformative che
disciplinano e limitano le facoltà di godimento del
bene (si pensi alla zonizzazione urbanistica, alle
prescrizioni in materia edilizia, ai vincoli
paesaggistici e di rispetto, alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria
ecc.): in guisa, dunque, che qualsiasi limitazione o
divieto che incida su uno dei due elementi –nella
specie, procedimento di esproprio ma (…) non solo–
si ripercuoterà anche sull’altro.
Il registro prettamente letterale
della disposizione di legge in questione ("atto
di pianificazione comunque denominato") non può
quindi che far propendere per un'applicazione
dell'istituto premiale estesa a ogni atto di
pianificazione, anche di carattere mediato.
3.2. Argomento “storico
sistematico”
La posizione interpretativa della Sezione viene
corroborata anche dalla interpretazione “storico-sistematica”
della disposizione in questione che solamente una
accurata disamina analitica consente di confermare.
Ai fini di un corretto inquadramento della questione
è d’obbligo pertanto un rapido excursus
sull’evoluzione normativa dell’istituto de quo.
Va premesso che la disciplina normativa vigente sul
punto, vale a dire l’art. 92 del c.d. Codice dei
contratti, rappresenta la trasposizione del testo
dell’art. 18 della legge n. 109/1994, la cui
versione primigenia, prevedeva la possibilità di
erogazione degli incentivi, limitatamente agli
autori del progetto esecutivo di un’opera o lavoro e
per una percentuale non superiore all’1%.
Con l’art. 6 del D.L. n. 101/1995, il suddetto
incentivo era stato esteso anche ai progetti (di
opere o lavori) preliminari e definitivi, alle
indagini geologiche e geognostiche nonché agli studi
di impatto ambientale, ed all’aggiornamento dei
progetti già esistenti “di cui sia riscontrato il
perdurare dell’interesse pubblico alla realizzazione
dell’opera”. Il testo prevedeva che: “le
amministrazioni competenti destinano una quota
complessiva non superiore al 10 per cento del totale
degli stanziamenti stessi alle spese necessarie alla
stesura dei preliminari di progetto, nonché dei
progetti definitivi ed esecutivi, incluse indagini
geologiche e geognostiche, studi di impatto
ambientale od altre rilevazioni, e agli studi per il
finanziamento dei progetti, nonché all'aggiornamento
ed adeguamento alla normativa sopravvenuta dei
progetti già esistenti d'intervento di cui sia
riscontrato il perdurare dell'interesse pubblico
alla realizzazione dell'opera.”
Successivamente, la Legge 15.05.1997, n. 127
disponeva (con l'art. 6, comma 13) la modifica
dell'art. 18, comma 1, e l'introduzione del comma
1-bis prevedendo che: "1. L'1 per cento del costo
preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50
per cento della tariffa professionale relativa a un
atto di pianificazione generale, particolareggiata o
esecutiva sono destinati alla costituzione di un
fondo interno da ripartire tra il personale degli
uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o
titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi
abbiano redatto direttamente i progetti o i piani,
il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il
responsabile del procedimento e i loro
collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per
ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla
base di un regolamento dell'amministrazione
aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione, nel quale vengono indicati i criteri
di ripartizione che tengano conto delle
responsabilità professionali assunte dagli autori
dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati
della direzione dei lavori e del collaudo in corso
d'opera."
La novella del 1997 estendeva quindi,
inequivocabilmente, alla pianificazione urbanistica
generale od attuativa l’incentivo già riconosciuto
in favore degli Uffici che avessero svolto attività
di progettazione di opere pubbliche (ovvero studi di
impatto ambientale o indagini geognostiche): in
questo senso assume rilevanza sia l’espressa
disgiunzione recepita dal Legislatore (opera “ovvero”
atto di pianificazione), sia il riferimento esteso
alla “Amministrazione titolare dell’atto di
pianificazione”.
Una siffatta voluntas legis
emerge, inoltre, dall'esame dei lavori preparatori
in Commissione parlamentare ove si desume con
sufficiente chiarezza l’intento normativo di
riconoscere il 50% della tariffa professionale in
favore degli Uffici che avevano redatto atti di
pianificazione generale, senza qualificazione o
restrizione alcuna.
La Legge 16.06.1998, n. 191, all’art. 2, comma 18,
modificava l’articolato prevedendo l’inserimento di
“… criteri di ripartizione che tengano conto
delle responsabilità professionali assunte dagli
autori dei progetti e dei piani, nonché dagli
incaricati della direzione dei lavori e del collaudo
in corso d'opera".
Successivamente, la legge 17.05.1999, n. 144, art.
13, comma 4, sostituiva i commi 1, 1-bis e 2
dell'articolo 18 della legge 11.02.1994, n. 109, e
successive modificazioni, con il seguente testo “1.
Una somma non superiore all'1,5 per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di
un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti
di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita, per
ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i
criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata ed assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile unico del
procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione
dei lavori, del collaudo nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite
massimo dell'1,5 per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all’entità e alla
complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità
professionali connesse alle specifiche prestazioni
da svolgere. Le quote parti della predetta somma
corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai
predetti dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima,
costituiscono economie. I commi quarto e quinto
dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio
decreto 23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I
soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, lettera b),
possono adottare con proprio provvedimento analoghi
criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le modalità ed
i criteri previsti nel regolamento di cui al comma
1, tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
La Sezione non può quindi fare a meno di rilevare
che l’entrata in vigore del Codice dei contratti
(decreto legislativo 12.04.2006, n. 163), non ha
alterato in alcun modo il suddetto quadro
definitorio, posto che il testo sopraccitato è stato
fedelmente recepito continuando ad usare la dizione
“atto di pianificazione comunque denominato”:
anche i più recenti interventi normativi (cfr., ad
esempio, il Decreto 22.04.2013, n. 66) hanno
privilegiato il dettaglio di aspetti estranei alla
questione in esame.
A partire dalla novella introdotta nel 1999, ad
opera della legge 144, e rimasta immutata nel corpus
normativo del codice dei contratti, il Legislatore
ha provveduto quindi ad articolare in due diversi
commi le due previsioni originariamente contenute in
un'unica proposizione, l'una dedicata agli incentivi
dovuti per le opere (art. 18, comma 1, L. n.
109/1994), l'altra concernente la progettazione
urbanistica (art. 18, comma 2, L. n. 109/1994).
In altri termini, a partire dal
1999, gli incentivi per la progettazione delle opere
pubbliche e gli incentivi spettanti per la
pianificazione urbanistica sono oggetto di due
autonome, distinte previsioni, disponendo altresì
che il diritto all'incentivo spetti per gli atti di
pianificazione "comunque denominati".
Il Collegio osserva quindi, al riguardo, che la
formulazione del 1999, recepita nel Codice dei
contratti del 2006 (art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs.
n. 163/2006), è rimasta in concreto invariata sino
ad oggi e che non a caso, fin dal 2000, l’AVCP aveva
già avuto modo di assumere la posizione favorevole
ad un'interpretazione estensiva riguardo all'art. 18
del codice dei contratti (determinazione
25.09.2000 n. 43),
mentre, più di recente (parere
sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12),
ha ritenuto che esso “riguardi anche la redazione
degli atti di pianificazione urbanistica non
esclusivamente finalizzati alla realizzazione di
un’opera pubblica”.
In questo quadro definitorio, non
assume rilievo, ad avviso del Collegio, la
circostanza della collocazione sedes materiae
della disposizione, atteso che la norma riproduce la
disposizione vigente sin dal 1997 volta a
ricomprendere tra le attività incentivate anche la
pianificazione urbanistica generale od attuativa,
alla luce della formulazione all’epoca recepita: né
d’altro canto, in nessun passo della previsione
originaria relativa alla progettazione urbanistica
(art. 18, comma 2, L. 109/1994), il Legislatore
àncora la spettanza dell'incentivo all’adozione di
una variante puntuale, propedeutica all’approvazione
del progetto di opera pubblica.
3.3. Fonti dell’incentivo
Come si è avuto modo di vedere, è dunque dal 1997 e
poi nel 1999, ad opera della legge 144, che il
Legislatore individua due autonome, distinte
previsioni, volte ad incentivare rispettivamente la
progettazione delle opere pubbliche e la
pianificazione urbanistica.
Il recepimento nel Codice dei contratti del 2006
(art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006),
della previsione del comma 1-bis del medesimo art.
18 della legge Merloni consacra quindi una diversa
articolazione, in due diversi commi, delle due
previsioni originariamente contenute in un'unica
proposizione, l'una dedicata agli incentivi dovuti
per le opere (art. 18, comma 1, L. n. 109/1994),
l'altra concernente la progettazione urbanistica
(art. 18, comma 2, L. 109/1994). Il Codice dei
contratti ripropone, infatti, all'art. 92, commi 5 e
6, la previgente disciplina senza sostanziali
innovazioni: in particolare, l'ambito applicativo
della previsione incentivante non pare aver subito
delimitazioni ulteriori a quelle già desumibili
dall'art. 18, comma 2, della legge Merloni, come
innovato nel 1999, che all’epoca, imponeva
l’incentivo per gli strumenti urbanistici (generali
od attuativi) redatti dall’Amministrazione titolare
dell’atto di pianificazione comunque denominato.
La formulazione del 1999, rimasta
in concreto invariata sino ad oggi, induce pertanto
a ritenere che vi siano due distinte ipotesi di
incentivazione. Non si tratta quindi di una unica
previsione normativa di deroga al principio di
onnicomprensività, collegabile alla progettazione di
opera pubblica, ma di due distinte ipotesi che
trovano riferimento in norme diverse e che, non a
caso, sono compensate in modo del tutto differente.
3.4.
Sotto un profilo sostanziale, le disposizioni in
esame devono essere interpretate, ai fini del
rispetto del canone di ragionevolezza di cui
all'art. 3 Cost. e dei principi generali di tutela
del lavoro (artt. 35 e 36 Cost. e D.Lgs. n. 165 del
2001).
L’interpretazione secondo cui il
compenso incentivante spetta solo in caso di
pianificazione urbanistica collegata alla
progettazione di un’opera pubblica reca infatti con
se un insanabile vulnus ai principi dettati
dall'art. 36 della Costituzione, la cui diretta
applicabilità al rapporto di pubblico impiego non
può non implicare “l'obbligo di integrare il
trattamento economico del dipendente nella misura
della quantità del lavoro effettivamente prestato”
(Corte Cost. 23.02.1989 n. 57; Corte Cost. ord.
26.07.1988 n. 908; Corte Cost. 27.05.1992 n. 236;
Corte Cost. 19.06.1990 n. 296).
Superato infatti l’antico orientamento della
giurisprudenza amministrativa volto al diniego
dell'applicabilità dell'art. 36 Cost. al pubblico
impiego -sul presupposto che la suddetta norma volta
al rispetto della giusta retribuzione dovessero
prevalere gli artt. 97 e 98 Cost. (cfr. per tale
indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V,
28.02.2001 n. 1073; Cons. Stato, Sez VI, 04.12.2000
n. 6466; Cons. Stato, Sez. V, 12.10. n. 1438; Cons.
Stato, Sez. VI, 29.09.1999 n. 1291)- il principio
della corrispondenza ex art. 36 Cost. della
retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità
del lavoro prestato, non può non trovare
applicazione sulla base dell’insegnamento del
giudice delle leggi anche nel caso di specie.
Sul versante fattuale, poi, l'estensione della norma
costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede
in ogni caso che la ben più complessa attività di
pianificazione generale non possa avere un
trattamento deteriore rispetto alla attività di
modesta pianificazione in variante collegata alla
realizzazione di un’opera pubblica.
Le anzidette circostanze ben possono ritenersi
provate sulla base del dettato normativo che
richiede, nel primo caso, unicamente la
documentazione inerente all’approvazione in
Consiglio Comunale dell’opera pubblica e degli
elaborati grafici inerenti la variante urbanistica,
una relazione tecnico-esplicativa, una tavola di
confronto del P.R.G./P.I. con l’indicazione della
modifica della destinazione di zona, una copia delle
tavole planimetriche dell'area.
Nel secondo caso, invece, le norme specifiche
richiedono una documentazione ben più ampia ed
approfondita. Sul piano oggettivo la variante
urbanistica va normalmente ad interessare vari
aspetti: il dimensionamento ai sensi del D.M.
1444/1968; la verifica della compatibilità con agli
strumenti di pianificazione superiore (P.T.R.C. -
P.T.P.C. - Piani Paesaggistici, ecc.); la verifica
delle invarianti di natura paesaggistica,
ambientale, storica, monumentale ed architettonica;
la dimostrazione dell'eventuale modifica della SAT
(superficie agricola trasformabile), oltre a tutta
una serie di elaborati grafici per la lettura delle
modifiche di Z.T.O., della viabilità e quant'altro
necessario, ovviamente anche sul piano normativo
(Norme Tecniche di Attuazione).
Sul piano soggettivo, le anzidette
elaborazioni sono, inoltre, frutto di competenze
espresse a vario titolo da varie professionalità: a
titolo esemplificativo, la norma dell’art. 10 della
L.R. n. 11/2004 richiede un quadro conoscitivo,
preliminare alla progettazione, inteso come “il
sistema integrato delle informazioni e dei dati
necessari alla comprensione delle tematiche svolte
dagli strumenti di pianificazione territoriale ed
urbanistica. Le basi informative che costituiscono
il quadro conoscitivo sono parte del sistema
informativo comunale, provinciale, regionale e dei
soggetti pubblici e privati, ivi compresi i soggetti
gestori di impianti di distribuzione di energia, che
svolgono funzioni di raccolta, elaborazione e
aggiornamento di dati conoscitivi e di informazioni
relativi al territorio e all'ambiente; dette basi
informative contengono dati ed informazioni
finalizzati alla conoscenza sistematica degli
aspetti fisici e socio-economici del territorio,
della pianificazione territoriale e della
programmazione regionale e locale”.
Orbene, attribuire il compenso
incentivante solo nel caso in cui si elabori una
variante puntuale e non attribuirlo nel caso di
variante complessa appare, oltreché irragionevole,
palesemente in contrasto con i canoni costituzionali
sopra ricordati; i quali canoni invece postulano
che, nell'ipotesi di un particolare ulteriore
impegno -il quale (pur riconducibile nell’ambito del
rapporto di lavoro) richieda, continuativamente o
per un determinato periodo di tempo, un'abnegazione
di particolare intensità e l'assunzione di
specifiche responsabilità- debba essere compensato
mediante un adeguamento della prefissata
retribuzione ai sensi dell'art. 36, primo comma,
Cost., in quanto norma applicabile ad ogni categoria
di lavoratori
(Cassazione Sezione Lavoro sentenza 05.03.1987, n.
2350 nonché n. 28728 del 23.12.2011).
3.5.
Né, al fine di patrocinare una interpretazione del
dato normativo diversa da quella seguita sulla scia
della giurisprudenza costituzionale, è utile
prospettare la possibilità di ritenere ascrivibile
tout court alle specifiche professionalità
del personale tecnico la elaborazione di una analisi
che richiede una complessità superiore, frutto del
necessario, imprescindibile apporto di una pluralità
di professionalità.
Osta a ciò il chiaro dettato normativo che
esplicitamente prevede l’erogazione di un compenso
per l’attività di pianificazione comunque denominata
e, soprattutto, il necessario discrimine stabilito
dalla legge circa le competenze dei diversi ordini
professionali, il cui eventuale superamento rileva
sul piano privatistico come causa di nullità
dell’incarico professionale (Cons. Stato, Sez. IV
28.11.2012 n. 6036).
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente
giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, sez. I, 29.10.2008
n. 1466, Cons. St. Sez. IV 03.09.2001 n. 4620) la
redazione di un piano di lottizzazione e, in genere,
di uno strumento di programmazione urbanistica
costituisce attività che richiede una competenza
specifica in tale settore attraverso una visione di
insieme e la capacità di affrontare e risolvere i
problemi di carattere programmatorio che postulano
valutazioni complessive non rientranti nella
competenza professionale del geometra, così come
definita dall'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.09.2010 n.
3354).
Occorre poi sottolineare l’ampiezza delle competenze
riconosciute -rispettivamente- agli ingegneri ed
agli architetti ai sensi del combinato disposto
dagli articoli 51 e 52 del regio decreto 23.10.1925,
n. 2537 (“Approvazione del regolamento per le
professioni di ingegnere e di architetto”), la
cui disciplina, contemplata dal citato regio decreto
n. 2537 del 1925, è stata più volte vagliata dalla
giurisprudenza, che ne ha dovuto sottolineare con
maggior dettaglio le fattispecie comprese.
Parimenti, è devoluta alla fonte legislativa la
disciplina delle competenze professionali
dell’agronomo (Legge 07.01.1976 n. 3, modificata ed
integrata dalla legge 10.02.1992 n. 152 e dal D.P.R.
08.07.2005, n. 169).
Dal quadro così risultante si palesa che le indicate
attività professionali non possono che restare
limitate alle specifiche previsioni normative, che
non implicano alcuna possibilità di estensione,
anche in considerazione di motivi di ordine pubblico
e di tutela della sicurezza collettiva (Cons. St.,
Sez. V, n. 25 del 13.01.1999; n. 3 del 03.01.1992;
Cass. civ. sez. II 14.04.2005 n. 7778).
In conseguenza del complesso quadro
sopra descritto non può, per le ragioni sopra
riferite, aderirsi alla tesi di quella parte della
giurisprudenza della Corte dei Conti, che,
argomentando proprio sulla natura di “attività
vincolata espressamente prevista dalla normativa di
riferimento”, assume che “se l’attività
rientra nelle funzioni istituzionali dell’ente, il
dipendente che abbia redatto materialmente l’atto
“svolge un’attività lavorativa ordinaria che deve
essere ricompresa nei compiti e nei doveri d’ufficio
(art. 53 del D.lgs. n. 165/2001) non suscettibile
della liquidazione dell’incentivo di cui all’art.
92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006”
(Sezione regionale di controllo della Corte dei
conti della Lombardia, Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259).
Al contrario, l’attività di che
trattasi, sia che essa sia svolta all’interno o che
sia affidata all’esterno, per via della necessaria
ed inderogabile competenza professionale ex lege,
implica una non trascurabile attività di
coordinamento delle diverse attività, della platea
d'interventori esterni e di verifica tecnica degli
elaborati predisposti da progettisti esterni, ai
fini dell'approvazione di tali documenti da parte
dei competenti organi politici: ma assai spesso una
siffatta attività è preceduta da un’attività
extra ordinem, di ricerca, organizzazione e/o
rielaborazione di dati storici a carattere edilizio,
urbanistico e ambientale, da mettere a disposizione
degli incaricati esterni.
Ne deriva, da un lato, la palese
non conformità al dettato di legge della tesi che
ascrive senz’altro alle competenze d’ufficio
l’attività di pianificazione, obliterando il quadro
normativo che richiede il necessario coinvolgimento
di molteplici figure professionali: alle “Analisi
urbanistiche di rito” (edificazioni,
urbanizzazioni primarie, servizi secondari, edilizia
pubblica, presenza di aree e/o manufatti di
interesse ambientale, storico, monumentale,
archeologico, interessate da una puntuale
schedatura), si aggiungono, come si è visto, le
prescritte analisi ambientali, idrogeologiche e
sull’inquinamento affidate ex lege a
professionalità specifiche e non surrogabili.
Diviene allora maggiormente rispondente alla
voluntas legislatoris, considerata anche alla
luce dei provvedimenti legislativi approvati
successivamente al D.L. n. 78/2010 in tema di
contrazione della spesa degli incarichi, una
soluzione che consenta comunque di operare un
risparmio -quantificato già dalla norma nel “massimo”
del 70 per cento della tariffa professionale-
rispetto all’affidamento all’esterno: di talché
solamente un’interpretazione logico-sistematica
delle due disposizioni permette di ritenere che la
contrattazione delegata possa prevedere
l’attribuzione di compensi incentivanti al
personale, operando nel contempo un sensibile
risparmio rispetto all’attingimento all’esterno
delle professionalità richieste, e rispettando in
tal modo la ratio della normativa in
questione.
3.6.
La medesima soluzione, peraltro, trova anche dei
referenti indiretti di matrice costituzionale negli
artt. 97 e 2 della Carta fondamentale in quanto,
ponendosi in linea con le finalità di economicità
dell’azione amministrativa, consente una compiuta e
meditata attuazione di tale principio che deve
reggere l’azione amministrativa. Già da queste
riflessioni, sinteticamente riportate, si può
inferire, ad avviso del Collegio, come sia in realtà
il principio solidaristico ex art. 2 Cost. a fungere
da ago valoriale di riferimento per operare, in
un’ottica di necessario risparmio delle risorse
utilizzate, l’indispensabile bilanciamento con i
diritti riconosciuti ai singoli dalla nostra carta
costituzionale, ma anche con gli altri principi
fondanti della stessa.
Questa Sezione ha già avuto modo di sottolineare in
passato (deliberazione n. 185/2012/PAR) sul piano
pratico, che, per attingere a risorse esterne in
ambito tecnico e legale, l’Amministrazione ben può
(e anzi deve) ricorrere a procedure di appalto
(cfr., per la progettazione,
parere 26.07.2011 n. 337
di questa Sezione nonché Autorità di Vigilanza sui
Contratti Pubblici (AVCP) Determinazione n. 4/2007 e
Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture, Deliberazione n. 296 -
Adunanza del 25.10.2007; cfr., per la resistenza in
giudizio Corte dei conti, Sezione Basilicata
deliberazione n. 19/2009/PAR; Corte dei conti,
Sezione Veneto deliberazione n. 7/2009/PAR; TAR
Puglia-Lecce, II Sez., n. 5023 del 25/10/2006).
Ove per l’espletamento di un determinato servizio si
possa attingere al mercato attraverso il ricorso a
professionisti esterni con possibili aggravi di
costi per il bilancio dell’ente interessato (Corte
dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51),
l’Amministrazione può e deve effettuare una
valutazione sull’economicità della spesa affidando
tale servizio a risorse interne e compensandole in
modo specifico, escludendo nel contempo che le
risorse siano potenzialmente destinabili alla
generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo
svolgimento della contrattazione integrativa (Corte
dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51).
L’alternativa make or buy che connota
imprescindibilmente quindi (nella lettura datane
dalle SS.RR. -volta a garantire un più economico uso
delle risorse mediante il suo approvvigionamento
interno)- la ratio delle esclusioni alle
ipotesi sancite dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L.
n. 78/2010, sembra senz’altro praticabile
all’attività di pianificazione, dove il legislatore
prefissa la quantificazione dell’economia nella
misura del trenta per cento della tariffa
professionale.
La ragione è chiara: ove per
l’espletamento di un determinato servizio si possa
attingere al mercato attraverso il ricorso a
professionisti esterni con possibili aggravi di
costi per il bilancio dell’ente interessato
(Corte dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51)
-il che solo spiega anche il riferimento
testuale, contenuto nella norma del comma 6, ai
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice-
l’Amministrazione può e deve effettuare una
valutazione sull’economicità della spesa affidando
tale servizio a risorse interne e compensandole in
modo specifico, escludendo nel contempo che le
risorse siano potenzialmente destinabili alla
generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo
svolgimento della contrattazione integrativa
(Corte dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51).
Proprio per questo, l’attingimento
a risorse interne, congiunto all’applicazione
dell’altro principio in precedenza evidenziato
secondo cui non potrebbe attribuirsi un trattamento
economico deteriore oltretutto a chi svolge
un’attività ben più complessa rispetto a una
semplice variante puntuale, non deve tuttavia
obliterare altri principi: in primis quello
in base al quale le prestazioni affidate a personale
esterno all’organico dell’Ente determinano
corrispondenti economie di bilancio
(Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per
la Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008),
né tantomeno, in nessun caso, assorbire
l'incentivazione correlata all’apporto di liberi
professionisti o di altre Amministrazioni pubbliche.
E’ stato chiarito, del resto, sia pure nell’ambito
della realizzazione di un'opera pubblica, che
costituisce danno erariale la liquidazione integrale
dell'incentivo ex art. 18, comma 1, L. n. 109 del
1994 (ora art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 193 del
2006) quando parte delle prestazioni progettuali
sono affidate a tecnici esterni all'Amministrazione
(Corte dei conti, sezione Calabria,
sentenza 28.09.2007 n. 801).
L’analisi dell’evoluzione normativa su descritta fa
emergere, in primis, che evidente e costante
è stato nel tempo l’intento del legislatore di
affidare la redazione di atti tecnici all’interno
della PA, incentivando economicamente tali attività:
ciò nell’ottica del contenimento dei costi pubblici,
derivante dal mancato affidamento a liberi
professionisti interni e, al contempo, della
valorizzazione del personale interno altamente
qualificato.
La esplicita previsione testuale
della normativa de qua di un ammontare “massimo”
dell'incentivo pari al 30% della tariffa
professionale attribuibile al personale interno
giustifica allora la conclusione secondo cui
spetterà stabilire, con le modalità ed i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata, la
misura della quota parte spettante al responsabile
del procedimento tecnico, senza che a questi possa
essere liquidata, in caso di mancato svolgimento
dell’attività da parte di questi, la quota relativa
alla pianificazione esterna o che questa possa
essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che
la pianificazione, se affidata a privati
professionisti (cd. esterna) o ad uffici di altre
amministrazioni pubbliche di cui l’ente si possa
avvalere (cd. interna), determina comunque economie
di bilancio nell’applicazione dell’incentivo e
presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi previsti
(in termini, cfr. Corte dei conti, Sezione regionale
di controllo per la Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’analogia con il comma 5 in caso di lavori
implica quindi il doveroso frazionamento
dell’incentivo totale della “redazione di atti
urbanistici” in quote di prestazioni parziali,
sì da poter corrispondere l’incentivo -anche in caso
di prestazioni parzialmente esternalizzate-
limitatamente a quelle svolte da personale interno.
Milita a favore della suddetta conclusione uno
specifico argomento testuale. Non è un caso,
infatti, che il rinvio operato dal comma 6 alla
previsione del comma 5 non sia integrale, ma
riguardi espressamente unicamente “le modalità e
i criteri previsti nel regolamento”, e non già
l’ambito dell’attività, cui ancorare
l’incentivazione: modalità e criteri tra i quali si
annovereranno -in base ai criteri contenuti nel
comma 5- quelli riferiti, secondo la norma,
all’accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti, nonché, inter
alios, le quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima.
Si spiega solamente così, ad avviso del Collegio, la
collocazione sedes materiae della
disposizione, atteso che la norma riproduce la
disposizione vigente sin dal 1997 volta a
ricomprendere tra le attività incentivate anche la
pianificazione urbanistica generale od attuativa,
alla luce della formulazione all’epoca recepita.
In altri termini, una attenta
lettura della disposizione dimostra che il rinvio da
essa operato non concerne l’an, ovverosia
l’ambito (che per i motivi sopradescritti non è
riferibile alla necessaria progettazione dell’opera
pubblica, bensì alla pianificazione urbanistica), ma
solamente il quomodo (ovverosia, secondo
l’esplicito tenore testuale della norma, le modalità
e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma
5) della incentivazione.
4.
Conclusivamente la Sezione ritiene
che la previsione dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs.
n. 163/2006 contenga una esplicita norma di
incentivazione che deroga al principio di
onnicomprensività. La norma introduce quindi una
previsione derogatoria autonoma e distinta rispetto
a quella contenuta nel comma 5, ricavabile da
numerosi fattori.
Tale conclusione è avvalorata, in particolare, sia
dalla analisi dell’evoluzione storica della norma
che dalla verifica della sua trasposizione nel
corpus del codice dei contratti.
Essa trova conferma altresì nella esplicita
previsione testuale della norma (atto di
pianificazione comunque denominato), nonché dalla
previsione di una diversa commisurazione del
compenso rispetto a quanto previsto in tema di
progettazione di opere pubbliche.
L’oggettiva e dimostrata maggiore complessità delle
funzioni di pianificazione trova una sua
esplicitazione a livello normativo nella
documentazione che viene allegata alle varianti agli
strumenti urbanistici rispetto alle modifiche
puntuali di essi connesse alla progettazione delle
opere pubbliche.
Tali attività di elaborazione sono
pertanto di uno scrutinio comparativo alla luce dei
principi dell’ordinamento e in particolare di
ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36
della Costituzione.
Anche sul piano soggettivo, le mansioni di
pianificazione generali –a differenza di quelle di
progettazione di opera pubblica- non sono
ascrivibili alla specifica competenza di un solo
soggetto, ma richiedono una attività
multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga
alcuna attese le tassatività delle competenze
professionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse
richiedono comunque una intensa attività di
coordinamento che trova esplicita conferma testuale
nella norma del comma 6 nel rinvio alle modalità e
criteri del regolamento di cui al comma precedente.
La stessa commisurazione del compenso, in modo
sensibilmente diverso rispetto a quella di
progettazione dell’opera pubblica, dimostra come
l’intenzione del legislatore è stata quella di
attribuire la giusta retribuzione all’attività di
pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo
collegamento con un’opera pubblica
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 22.11.2013 n. 361). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2013,
"Istituzione della Festa regionale lombarda in occasione
del 29 maggio, ricorrenza della battaglia di Legnano" (L.R.
26.11.2013 n. 15). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2013, "Rideterminazione
dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di
allevamento e dei fertilizzanti azotati per la stagione
autunno vernina 2013/2014 - ai sensi del d.m. 07.04.2006"
(deliberazione
G.R. 26.11.2013 n. 10925). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Stefanelli,
Il parere negativo espresso dalla soprintendenza in sede di
conferenza dei servizi non deve essere preceduto dal
preavviso di rigetto. Non è impugnabile il dissenso
espresso da una amministrazione in sede di conferenza dei
servizi, in quanto lo stesso ha effetti interni al
procedimento - Nota a Consiglio di Stato n. 5084, Sez. VI
del 21.10.2013 (25.11.2013 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Stefanelli,
Compatibilità paesaggistica: la mancata osservanza da parte
della soprintendenza del termine perentorio per il rilascio
del parere ne determina la perdita del carattere vincolante
- Nota a TAR Puglia-Lecce, Sez. I, n. 1681 del 12.07.2013
(22.11.2013 - link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
M. Rinaldi,
Demansionamento del lavoratore: rassegna giurisprudenziale
(19.11.2013 - link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
D. David,
Il d.lgs. 33/2013 in tema di trasparenza: ricognizione dei
nuovi oneri per le amministrazioni pubbliche interessate
(19.11.2013 - link a www.diritto.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI:
INDAGINE CAMPIONARIA INCARICHI ESTERNI AFFIDATI
DAGLI ENTI LOCALI VENETI NEL TRIENNIO 2009–2011.
---------------
L'indagine della
Corte dei Conti del Veneto la possiamo definire un
utilissimo vademecum sul come, quando e perché affidare
legittimamente incarichi professionali/progettuali
all'esterno dell'Ente senza incappare nel possibile
risarcimento del danno circa il modus operandi non conforme
alla legge.
Buona lettura e, soprattutto, memorizzate ogni singola
parola ...
02.12.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
INDICE
SEZIONE I
PREMESSA E QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO |
§1. Quadro normativo di riferimento
§2. Affidamento di incarico, sana gestione e comportamenti
elusivi
§3. La distinzione con la fattispecie del contratto di
lavoro subordinato
§4. La distinzione con l’ appalto di servizi
§5. Presupposti e disciplina dell’affidamento di incarichi
esterni
5.1 Presupposti di legittimità di carattere sostanziale
5.1.1 Il preliminare accertamento dell'impossibilità
oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo
interno
5.1.1.1 Le caratteristiche dell’accertamento
5.1.1.2 Il problema delle competenze specifiche e delle
funzioni ordinarie
5.1.1.3 La necessaria caratteristica oggettiva
dell’impossibilità
5.1.2 La corrispondenza della prestazione alle
competenze attribuite dall'ordinamento all’ente
5.1.3 La corrispondenza dell’oggetto della prestazione
ad obiettivi e progetti specifici e determinati
5.1.4 L’alta qualificazione della prestazione
5.1.5 La preventiva determinazione della durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione
5.1.5.1 Durata
5.1.5.2 Oggetto
5.1.5.3 Luogo
5.1.5.4 Compenso
5.1.5.5 Forma
5.2 Presupposti di legittimità di carattere procedimentale
5.2.1 L’obbligo di motivazione della determinazione (o
in generale del provvedimento) con cui viene affidato
l’incarico esterno
5.2.2 L’obbligo di effettuare una procedura comparativa
per la selezione dell’affidatario
5.2.3 La previa approvazione di un apposito regolamento
(art. 3, c. 56, L. 24-12-2007 n. 244, art. 89 del T.U.E.L)
5.2.4 Il vincolo quantitativo di spesa
5.2.5 I limiti di spesa stabiliti dalla legge
5.2.6 Il possibile superamento del limite di spesa
5.2.7 L’obbligo di pubblicazione sul sito web
5.2.8 Le novità introdotte dalla Legge 190/2012 e dal
D.Lgs. 33/2013
5.2.9 La valutazione dell’organo di revisione
5.2.10 Gli obblighi di comunicazione degli atti di
spesa susseguenti al conferimento di incarichi esterni
5.3 Conclusioni
§6. L’orientamento interpretativo
assunto dalla Sezione
§7. Tipologie di incarico
7.1 Contratti di studio, ricerca e consulenza
7.2 Collaborazione coordinata e continuativa
§8. Particolare tipologie di rapporti
8.1 Portavoce e Ufficio stampa
8.2 Direttore generale e dirigenti a contratto
8.3 Personale con incarichi all’interno dello staff di organi di
governo
8.4 Incarichi esterni a personale in quiescenza
8.5 L’incarico all’assistente sociale
8.6 L’incarico di responsabile del servizio prevenzione e
protezione ex D.Lgs. 09.04.2008, n. 81
8.7 L’affidamento al broker
8.8 L’affidamento degli incarichi legali
8.9 Servizi di formazione professionale |
SEZIONE II
ANALISI GENERALE DEI DATI RICEVUTI |
§9. Premessa metodologica
§10. Analisi generale dei dati pervenuti |
SEZIONE III
LE RISULTANZE DELL’INDAGINE: ANALISI DELLA DOCUMENTAZIONE |
§11. Le criticità rilevate. Premessa
§12. Criticità derivanti dalla distinzione del concetto di
lavoro subordinato con quello di affidamento di incarico
§13. Criticità generate da carenze o violazioni dei
presupposti dei contratti d’opera
§14. Criticità generate dalla distinzione tra la fattispecie
del contratto d’opera e quello di appalto di servizi
§15. Altre criticità |
SEZIONE IV
CONCLUSIONI E SUGGERIMENTI OPERATIVI |
§16. Gli esiti collaborativi dell’indagine
§17. L’applicazione necessaria del principio di
concorsualità
§18. L’indispensabile utilizzo del controllo interno
successivo di regolarità amministrativa (art. 147-bis del
Tuel) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Veneto,
deliberazione 11.06.2013 n. 146). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
●
Possono ritenersi compresi nella categoria degli atti di
pianificazione, i piani di lottizzazione, i piani per
insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani
particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del
traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e
connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi,
le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli
organi competenti.
●
Il responsabile del procedimento ha diritto all’incentivo
anche nell’ipotesi di affidamento esterno della
progettazione, alla luce dell’art. 18, co. 1, della legge
11.02.1994 n. 109 e s.m., che stabilisce che costituiranno
economie solo le quote del compenso incentivante per
prestazioni affidate all’esterno
(deliberazione
13.06.2000 - link a www.autoritalavoripubblici.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La legge quadro, all’art. 17, riconosce ai diplomati
dipendenti la facoltà di svolgere attività di progettazione,
ma rimanda ai singoli ordinamenti professionali la
definizione di tipologie dei progetti la cui redazione può
essere affidata ai tecnici diplomati ed i relativi limiti (deliberazione
13.06.2000 - link a www.autoritalavoripubblici.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Perché si applichi la disciplina inderogabile di
legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe
le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente
che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che: “la norma
dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di
distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione
dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere
derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va
interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri
è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti
fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale
parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio
preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di
tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona
della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo
una parte di essa si trovi a distanza minore da quella
prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della
distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che
sono in parte privi di finestre".
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio
dire anticipato- tale approdo, affermando che: “la distanza
di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti
si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi
sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo
edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata
sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza
di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e
non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero
fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo".
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma
più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti.
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte
appellante era munito di una porta finestra, e che per tal
motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si
sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto
argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale,
palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che
assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del
ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez.
I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non
solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte
le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di
veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche
la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”).
---------------
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed
amministrativa in ordine al principio per cui, “nella
materia delle distanze nelle costruzioni, il principio
secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m.
02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i
privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte
degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito
non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma
anche di applicare direttamente la disposizione del
menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata
disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione
del Collegio, è stato in passato affermato che “in tema di
distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m.
02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d.
legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato,
sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di
densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali
successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica.”.
---------------
Di recente è stato affermato il principio secondo il quale
"ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n.
1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si
precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò.”.
Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che
“la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di
norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che
prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando
tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò”.
Altra decisione del Consiglio di Stato, per il vero,
contiene questa significativa affermazione: “secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi
aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata
dall’edificio, costituendo solo un prolungamento
dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna
funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come
viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello
incassate nel corpo dell’edificio, con la conseguenza che
mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume
dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo
dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione
del volume.”.
Il Collegio infatti condivide
la consolidata giurisprudenza di legittimità civile ed
amministrativa, secondo la quale, perché si applichi la
disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non
è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano
finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di
esse.
Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez.
II, 20.06.2011, n. 13547):
“la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in
materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in
attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765,
non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari
locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di
dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle
pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente
se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella
dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per
l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in
qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore
da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto
della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete
che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass.
civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio
dire anticipato- tale approdo (Cons. Stato Sez. IV,
05.12.2005, n. 6909), affermando che:
“la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate,
indipendentemente dalla circostanza che una sola delle
pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o
della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi
alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza
di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in posizione
parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero
fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo" (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n.
6909).
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti
quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano,
devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di
"vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e
considerato altresì che basta che sia finestrata anche una
sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III,
04.12.2001, n.
1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565;
TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte
appellante era munito di una porta finestra, e che per tal
motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si
sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto
argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale,
palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che
assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del
ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila
Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono
intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo
avvicinamento”, ma anche TAR Puglia Lecce Sez. III,
Sent., 28.09.2012, n. 1624).
Pur potendosi –alla luce di quanto si è dianzi precisato- assorbire le restanti censure, a cagione della già
avvenuta dimostrazione della illegittimità del titolo
abilitativo edilizio rilasciato a parte contro interessata,
in quanto non rispettoso del principio della prevenzione in
punto di rispetto delle distanze, ritiene il Collegio di
affrontare la tematica che ha costituito l’elemento centrale
della decisione di primo grado (motivo n. 1 del mezzo
introduttivo del giudizio di prime cure).
Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui
all’art. 9 del d.M. 02.04.1968 n. 1444 così prevede: “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e
per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml.
7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche.”.
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed
amministrativa in ordine al principio per cui, “nella
materia delle distanze nelle costruzioni, il principio
secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i
privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte
degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito
non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma
anche di applicare direttamente la disposizione del
menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata
disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione
del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ.
Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953) “in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le
sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
La gravata decisione ha applicato il principio –di
recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa–
secondo il quale (TAR Toscana Firenze Sez. III,
09.06.2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico
l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza
minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può
essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo
nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella
richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la
giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di
norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che
prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando
tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR
Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).”.
La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008
n. 3381, per il vero, contiene questa significativa
affermazione: “secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che
sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un
prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non
svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria
copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17.07.2007, n. 15913;
07.09.1996, n. 8159),
con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti,
non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi
costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi
alla determinazione del volume.”.
Sennonché, anche sotto tale profilo, la censura
dell’appellante appare persuasiva sotto un ulteriore
aspetto: la norma del regolamento comunale (articolo 3 comma
8 delle NTA del Piano delle Regole: “nella verifica delle
distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di
balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di
altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi
spessori delle murature perimetrali determinati dalla
realizzazione di “cappotti termici”) costituisce norma
eccezionale e di favore, in quanto integra e “deroga” (con
il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di
dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di
ordine pubblico di cui all’art. 9 del dM più volte
richiamato".
Non v’è dubbio che tali “deroghe/integrazioni” debbano
essere interpretate in senso restrittivo: ai fini del
calcolo della distanza, quindi, il balcone aggettante
comunque non può che essere calcolato partendo dalle
finestre, arretrate rispetto al fronte dell’edificio: come
rimasto incontestato, in tale ipotesi il balcone avrebbe un
aggetto di mt. 2,40, e quindi non rientrerebbe nel precetto
“di favore” di cui alla norma regolamentare comunale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5557 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
ricorrente richiama impropriamente la decisione n. 36/2012
dell’Adunanza Plenaria, la quale, in realtà, non ha ritenuto
che il RUP abbia competenza esclusiva in ordine alla
verifica di congruità delle offerte, ma solo che, nelle gare
d'appalto da aggiudicare col criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, egli ha la facoltà di
scegliere, secondo quanto previsto dall’art. 121 del d.P.R.
nr. 207 del 2010, a seconda delle specifiche esigenze di
approfondimento richieste dalla verifica, se procedere
personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla
commissione aggiudicatrice.
Nel caso di specie il RUP ha preferito delegare la verifica
di congruità delle offerte alla commissione tecnica, e ciò
non solo non configura alcun profilo di illegittimità della
procedura, ma semmai conferisce a tale adempimento le
garanzie di approfondimento e di (maggiore) ponderazione
proprie delle valutazioni collegiali.
Con un terzo
profilo di censura, infine, la ricorrente ha lamentato che
la verifica di anomalia sia stata svolta dalla commissione
tecnica anziché dal R.U.P.
Anche tale doglianza è infondata.
La ricorrente richiama impropriamente la decisione n.
36/2012 dell’Adunanza Plenaria, la quale, in realtà, non ha
ritenuto che il RUP abbia competenza esclusiva in ordine
alla verifica di congruità delle offerte, ma solo che, nelle
gare d'appalto da aggiudicare col criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, egli ha la facoltà di
scegliere, secondo quanto previsto dall’art. 121 del d.P.R.
nr. 207 del 2010, a seconda delle specifiche esigenze di
approfondimento richieste dalla verifica, se procedere
personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla
commissione aggiudicatrice.
Nel caso di specie il RUP ha preferito delegare la verifica
di congruità delle offerte alla commissione tecnica, e ciò
non solo non configura alcun profilo di illegittimità della
procedura, ma semmai conferisce a tale adempimento le
garanzie di approfondimento e di (maggiore) ponderazione
proprie delle valutazioni collegiali
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Le
norme del Codice dei Contratti Pubblici che prevedono
l’obbligo per le stazioni appaltanti di specificare i c.d.
“oneri da interferenza” nei bandi di gara e l’obbligo per i
concorrenti di specificare i c.d. “oneri da rischio
specifico” nelle proprie offerte economiche sono sanciti
dall’art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dall’art. 87, comma 4,
del Codice dei Contratti.
Tali norme, per la loro stretta specificità di dettaglio,
sono inidonee ad integrare principi generali, salvo che non
si voglia ravvisarne uno in ogni frammento del reticolato
normativo del Codice, secondo un ordine di idee che sarebbe,
però, incompatibile con la ben diversa logica selettiva
sottesa ai suoi articoli 20 e 27.
Non integrando principi generali, le predette norme non sono
applicabili -neppure in via di eterointegrazione degli atti
di gara- alle procedure che abbiano ad oggetto, come nel
caso di specie, servizi di cui all’allegato II B, se non
nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia
auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente
nella legge di gara.
---------------
Nella gara in esame non era sancito l’obbligo per le imprese
concorrenti di indicare già in sede di offerta economica
l’importo degli oneri della sicurezza.
Ne consegue ulteriormente che la mancata indicazione degli
oneri della sicurezza nell’offerta economica non avrebbe
potuto comportare l’esclusione del concorrente, in base al
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
all’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei Contratti.
Tale conclusione, peraltro, non comporta che nelle gare
aventi ad oggetto servizi esclusi dall’applicazione del
Codice dei Contratti i concorrenti, in mancanza di una
previsione specifica della legge di gara, siano esentati dal
dovere di indicare gli oneri della sicurezza e
dall’osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro:
comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia
auto-vincolata nella legge di gara ad osservare la
disciplina di dettaglio dettata dagli art. 86, commi 3-bis e
3-ter, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti, il
concorrente che non abbia indicato gli oneri della sicurezza
nella propria offerta, dovrà essere chiamato a specificarli
successivamente nell’ambito della fase, eventuale, di
verifica della congruità dell’offerta.
Ai predetti rilievi va aggiunto che, nella fattispecie in
esame, neppure il modulo di offerta economica allegato alla
lettera di invito contemplava uno spazio per l’indicazione
degli oneri di sicurezza, con ciò rafforzando il legittimo
affidamento dei concorrenti sulla correttezza di una
formulazione dell’offerta economica che non contemplasse
anche l’indicazione degli oneri della sicurezza.
Recentemente, il Consiglio di Stato -con affermazione che
travalica il ristretto ambito degli appalti esclusi di cui
all’allegato II B per estendersi, invece, a qualsivoglia
procedura di gara– afferma che “l’Amministrazione che
ricorre a moduli per la stipula di contratti pubblici,
allorché vi siano contrasti tra prescrizioni predisposte per
la gara, è tenuta al rispetto dei principi di buona fede e
affidamento delle imprese nella lex specialis al fine di
negare che ciò possa risolversi in un danno per le stesse,
attraverso la loro espulsione dalla procedura, ed
all’adempimento dell’obbligo di comunicare le cause di
invalidità di cui abbia conoscenza, la cui violazione non
può essere addossata alla parte privata”.
Se tale principio vale nel caso in cui il modulo di offerta
sia difforme dalla legge di gara, come nel caso esaminato
dalla sentenza da ultimo citata, a maggior ragione esso deve
valere nel caso in cui esso sia invece conforme alla lex
specialis, come nel caso in esame.
L’appalto di cui si discute rientra, per
concorde ammissione delle parti, tra quelli di cui
all’allegato II B del Codice dei Contratti, ed in
particolare nella categoria n. 23: “Servizi di
investigazione e di sicurezza, eccettuati i servizi con
furgoni blindati”.
E’ noto che gli appalti di cui all’allegato II B del
Codice dei Contratti sono esclusi dall’applicazione delle
norme di dettaglio dello stesso Codice, fatta eccezione per
quelle specificamente richiamate dall’art. 20 ma non
conferenti al caso in esame (art. 68, specifiche tecniche;
art. 65, avviso sui risultati della procedura di
affidamento; art. 225, avvisi relativi agli appalti
aggiudicati). Gli stessi appalti, secondo la previsione
dell’art. 27 del Codice, sono assoggettati soltanto al
rispetto del principi generali di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e
proporzionalità.
Le norme del Codice dei Contratti Pubblici che
prevedono l’obbligo per le stazioni appaltanti di
specificare i c.d. “oneri da interferenza” nei bandi di gara
e l’obbligo per i concorrenti di specificare i c.d. “oneri
da rischio specifico” nelle proprie offerte economiche sono
sanciti dall’art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dall’art. 87,
comma 4, del Codice dei Contratti.
Tali norme, per la loro stretta specificità di dettaglio,
sono inidonee ad integrare principi generali, salvo che non
si voglia ravvisarne uno in ogni frammento del reticolato
normativo del Codice, secondo un ordine di idee che sarebbe,
però, incompatibile con la ben diversa logica selettiva
sottesa ai suoi articoli 20 e 27.
Non integrando principi generali, le predette norme non sono
applicabili -neppure in via di eterointegrazione degli atti
di gara- alle procedure che abbiano ad oggetto, come nel
caso di specie, servizi di cui all’allegato II B, se non
nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia
auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente
nella legge di gara.
Non è questo il caso, però.
Nel caso di specie, infatti, la legge di gara (art. 1.26 del
bando) richiamava esclusivamente l’art. 86, comma 1, in
relazione ai casi in cui si sarebbe proceduto alla verifica
di anomalia, e l’art. 87, comma 2, in relazione agli elementi
che avrebbero potuto costituire oggetto di giustificazione
in sede di verifica di congruità.
La legge di gara non richiamava, invece, né l’art. 86 ,commi
3-bis e 3-ter, né l’art. 87, comma 4, ossia gli unici
articoli del Codice dei Contratti conferenti al caso di
specie.
Ne consegue che nella gara in esame non era sancito
l’obbligo per le imprese concorrenti di indicare già in sede
di offerta economica l’importo degli oneri della sicurezza.
Ne consegue ulteriormente che la mancata indicazione degli
oneri della sicurezza nell’offerta economica non avrebbe
potuto comportare l’esclusione del concorrente, in base al
principio di tassatività delle cause di esclusione di cui
all’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei Contratti.
Tale conclusione, peraltro, non comporta che nelle gare
aventi ad oggetto servizi esclusi dall’applicazione del
Codice dei Contratti i concorrenti, in mancanza di una
previsione specifica della legge di gara, siano esentati dal
dovere di indicare gli oneri della sicurezza e
dall’osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro:
comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia
auto-vincolata nella legge di gara ad osservare la
disciplina di dettaglio dettata dagli art. 86, commi 3-bis e
3-ter, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti, il concorrente
che non abbia indicato gli oneri della sicurezza nella
propria offerta, dovrà essere chiamato a specificarli
successivamente nell’ambito della fase, eventuale, di
verifica della congruità dell’offerta.
In questi termini la Sezione si è già pronunciata con
sentenza n. 1376 del 21.12.2012, alle cui più ampie
considerazioni si rinvia e dalle quali non v’è motivo per
discostarsi (in senso analogo, anche Consiglio di Stato,
sez. V, 06.08.2012, n. 4510).
Ai predetti rilievi va aggiunto che, nella fattispecie
in esame, neppure il modulo di offerta economica allegato
alla lettera di invito contemplava uno spazio per
l’indicazione degli oneri di sicurezza, con ciò rafforzando
il legittimo affidamento dei concorrenti sulla correttezza
di una formulazione dell’offerta economica che non
contemplasse anche l’indicazione degli oneri della
sicurezza.
Anche su questo punto la Sezione ha già avuto modo di
pronunciarsi, oltre che nel precedente già citato, con
sentenza n. 5 del 09.01.2012.
In senso conforme: Consiglio di Stato, sez. V, 06.08.2012
n. 4510, in cui si richiama il principio di prevalenza, in
tali fattispecie, del favor partecipationis, e, soprattutto,
la recentissima pronuncia della stessa Sezione del Consiglio
di Stato 24.10.2013 n. 5155, in cui -con affermazione
che travalica il ristretto ambito degli appalti esclusi di
cui all’allegato II B per estendersi, invece, a qualsivoglia
procedura di gara– si afferma che “l’Amministrazione che
ricorre a moduli per la stipula di contratti pubblici,
allorché vi siano contrasti tra prescrizioni predisposte per
la gara, è tenuta al rispetto dei principi di buona fede e
affidamento delle imprese nella lex specialis al fine di
negare che ciò possa risolversi in un danno per le stesse,
attraverso la loro espulsione dalla procedura, ed
all’adempimento dell’obbligo di comunicare le cause di
invalidità di cui abbia conoscenza, la cui violazione non
può essere addossata alla parte privata”.
Se tale principio vale nel caso in cui il modulo di offerta
sia difforme dalla legge di gara, come nel caso esaminato
dalla sentenza da ultimo citata, a maggior ragione esso deve
valere nel caso in cui esso sia invece conforme alla lex
specialis, come nel caso in esame (in termini analoghi, e
con specifico riferimento all’indicazione degli oneri
aziendali per la sicurezza, cfr. Consiglio di Stato, sez.
III, 14.01.2013 n. 145)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Nelle
procedure aventi ad oggetto gli appalti di cui all’allegato
II B, l’obbligo di specificare gli oneri della sicurezza
nella offerta economica a pena di esclusione dalla gara non
può farsi discendere automaticamente dall’art. 26, comma 6,
del D. L.vo 81/2008, il quale si limita a prescrivere che
gli enti aggiudicatori, “nella predisposizione delle gare di
appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte”
valutino l’adeguatezza del valore economico al costo del
lavoro e della sicurezza: é ben vero che quest’ultimo deve
essere “indicato e risultare congruo rispetto all’entità ed
alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle
forniture”, ma la norma non prescrive affatto che questa
indicazione debba essere effettuata, dai partecipanti alla
gara, a pena di esclusione nella offerta economica.
Tale conclusione non equivale ad esentare le imprese
concorrenti dall’onere di indicare in gara gli oneri da
rischio specifico, ma solo a rimandare l’esposizione di tali
oneri nella sede, eventuale, del controllo di anomalia
dell’offerta, sede nella quale il concorrente dovrà
giustificare la sostenibilità e l’attendibilità della
propria offerta economica anche alla luce dell’incidenza sul
prezzo offerto degli oneri per la sicurezza, che in tale
occasione -ma solo in questa- dovranno essere specificamente
indicati.
---------------
Ancora di recente, alcune condivisibili decisioni del
giudice amministrativo hanno evidenziato che “nell’ipotesi
in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine
all’onere d’indicare -a pena di esclusione- i costi di
sicurezza aziendale, l’esclusione della ditta che abbia
omesso tale indicazione verrebbe a colpire (in contrasto con
i principi di certezza del diritto, di tutela
dell’affidamento e del favor partecipationis) i concorrenti
che hanno presentato un’offerta perfettamente conforme alle
prescrizioni stabilite dal bando e dall’allegato modulo
d’offerta; legittimamente, pertanto, la stazione appaltante,
in osservanza del suddetto principio del favor
partecipationis, ammette a partecipare alla procedura di
evidenza pubblica la medesima ditta".
La Sezione è consapevole che il tema degli oneri della
sicurezza nella gare d’appalto è tuttora oggetto di
orientamenti non univoci nella giurisprudenza
amministrativa, sia di primo che di secondo grado (e talora
anche all’interno della stessa Sezione del giudice
d’appello), con effetti che possono talora produrre
disorientamento negli operatori e disfunzionalità nel
sistema.
Tuttavia, al di là del fatto che, ad un esame più
approfondito, talune apparenti divergenze giurisprudenziali
sembrano trovare fondamento e giustificazione nelle
peculiarità delle singole fattispecie esaminate nelle varie
decisioni -e in attesa, in ogni caso, di un opportuno
intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria- vi è da
osservare che l’orientamento più recente del giudice di
appello, che il collegio reputa più ragionevole e
decisamente più convincente, è quello efficacemente
riassunto da Consiglio di Stato, sez, III, 10.07.2013, n.
3706, il quale, anche in riferimento ad appalti di servizi
di cui all’allegato II A del Codice dei Contratti, sembra
ormai orientato ad escludere che la mancata indicazione
degli oneri di sicurezza nell’offerta economica possa
comportare ex se l’esclusione del concorrente, potendo
l’esclusione conseguire “soltanto all’esito –s’intende, ove
negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla
sostenibilità dell’offerta economica del suo insieme”.
Osserva il
collegio che nelle procedure aventi ad oggetto gli appalti
di cui all’allegato II B, l’obbligo di specificare gli oneri
della sicurezza nella offerta economica a pena di esclusione
dalla gara non può farsi discendere automaticamente
dall’art. 26, comma 6, del D. L.vo 81/2008, il quale si limita a
prescrivere che gli enti aggiudicatori, “nella
predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione
dell’anomalia delle offerte” valutino l’adeguatezza del
valore economico al costo del lavoro e della sicurezza: é
ben vero che quest’ultimo deve essere “indicato e risultare
congruo rispetto all’entità ed alle caratteristiche dei
lavori, dei servizi e delle forniture”, ma la norma non
prescrive affatto che questa indicazione debba essere
effettuata, dai partecipanti alla gara, a pena di esclusione
nella offerta economica (TAR Piemonte, sez. I, 21.12.2012 n. 1376).
Naturalmente, va ribadito che tale conclusione non equivale
ad esentare le imprese concorrenti dall’onere di indicare in
gara gli oneri da rischio specifico, ma solo a rimandare
l’esposizione di tali oneri nella sede, eventuale, del
controllo di anomalia dell’offerta, sede nella quale il
concorrente dovrà giustificare la sostenibilità e
l’attendibilità della propria offerta economica anche alla
luce dell’incidenza sul prezzo offerto degli oneri per la
sicurezza, che in tale occasione -ma solo in questa-
dovranno essere specificamente indicati.
---------------
Ancora di
recente, alcune condivisibili decisioni del giudice
amministrativo hanno evidenziato che “nell’ipotesi in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine all’onere
d’indicare -a pena di esclusione- i costi di sicurezza
aziendale, l’esclusione della ditta che abbia omesso tale
indicazione verrebbe a colpire (in contrasto con i principi
di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento e del favor partecipationis) i concorrenti che hanno presentato
un’offerta perfettamente conforme alle prescrizioni
stabilite dal bando e dall’allegato modulo d’offerta;
legittimamente, pertanto, la stazione appaltante, in
osservanza del suddetto principio del favor partecipationis,
ammette a partecipare alla procedura di evidenza pubblica la
medesima ditta" (TAR Bari, sez. II, 22.10.2013 n. 1429).
La Sezione è consapevole che il tema degli oneri della
sicurezza nella gare d’appalto è tuttora oggetto di
orientamenti non univoci nella giurisprudenza
amministrativa, sia di primo che di secondo grado (e talora
anche all’interno della stessa Sezione del giudice
d’appello), con effetti che possono talora produrre
disorientamento negli operatori e disfunzionalità nel
sistema.
Tuttavia, al di là del fatto che, ad un esame più
approfondito, talune apparenti divergenze giurisprudenziali
sembrano trovare fondamento e giustificazione nelle
peculiarità delle singole fattispecie esaminate nelle varie
decisioni -e in attesa, in ogni caso, di un opportuno
intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria- vi è da
osservare che l’orientamento più recente del giudice di
appello, che il collegio reputa più ragionevole e
decisamente più convincente, è quello efficacemente
riassunto da Consiglio di Stato, sez, III, 10.07.2013,
n. 3706, il quale, anche in riferimento ad appalti di
servizi di cui all’allegato II A del Codice dei Contratti,
sembra ormai orientato ad escludere che la mancata
indicazione degli oneri di sicurezza nell’offerta economica
possa comportare ex se l’esclusione del concorrente, potendo
l’esclusione conseguire “soltanto all’esito –s’intende, ove
negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla
sostenibilità dell’offerta economica del suo insieme” (in
senso analogo, ancora più di recente, Cons. Stato, sez. III,
18.10.2013, n. 5070).
Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che, nel caso di
specie, tale verifica a posteriori è stata effettuata dalla
commissione di gara in sede di verifica di congruità e si è
conclusa positivamente per entrambi i raggruppamenti
aggiudicatari (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: I
valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta sotto tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del
decreto legislativo 12.04.2006, nr. 163: di modo che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia,
potendo essere accettato quando risulti puntualmente
giustificato.
-----------------
La verifica di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la
congruità dell'offerta economica non con riferimento a
ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e
globalità, servendo le giustificazioni dell'impresa, e il
contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del
citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e
affidabilità dell'offerta nel suo complesso.
Al riguardo, giova
preliminarmente richiamare l'indirizzo giurisprudenziale
-che questa Sezione condivide- secondo cui i valori del
costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non
costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un
parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto
tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del decreto legislativo
12.04.2006, nr. 163: di modo che l'eventuale scostamento da
tali parametri delle relative voci di costo non legittima
ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato
quando risulti puntualmente giustificato.
Del pari consolidato è l'indirizzo secondo cui la verifica
di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la congruità
dell'offerta economica non con riferimento a ciascuna
singola voce di essa, ma nella sua interezza e globalità,
servendo le giustificazioni dell'impresa, e il
contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del
citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e
affidabilità dell'offerta nel suo complesso
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art.
84 del Codice dei Contratti dispone che la commissione
valutatrice “è presieduta di norma da un dirigente della
stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da
un funzionario della stazione appaltante incaricato di
funzioni apicali, nominato dall’organo competente” (comma
3); inoltre, (comma 8) “I commissari diversi dal presidente
sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante.
In caso di accertata carenza in organico di adeguate
professionalità, nonché negli altri casi previsti dal
regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e
comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti
tra funzionari di amministrazione aggiudicatrici di cui
all’art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione
tra gli appartenenti alle seguenti categorie:….”
(professionisti e professori universitari di ruolo con
determinati requisiti).
Il complessivo meccanismo dettato dall'art. 84, d.lgs.
12.04.2006 n. 163 impone dunque, innanzitutto, di
individuare i commissari all'interno della stazione
appaltante, ritenendo il legislatore tale soluzione
evidentemente non solo la più efficiente in termini di
economicità e di semplificazione procedimentale, ma anche di
imparzialità, e solo ove vi siano obiettive carenze di
organico o professionalità tali da poter inficiare la bontà
delle valutazioni dell'offerta tecnica, è ammesso rivolgersi
all'esterno, rispettando per altro precisi requisiti di
professionalità dei prescelti, oltre che meccanismi
selettivi trasparenti.
Per quanto riguarda il requisito relativo alla competenza
tecnica dei singoli commissari, è principio consolidato in
giurisprudenza quello per cui il requisito richiesto
dall’art. 84, comma 2, del Codice dei Contratti (essere
“esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto
del contratto”) debba essere valutato compatibilmente con la
struttura degli enti appaltanti, senza esigere,
necessariamente, che l’esperienza professionale copra tutti
gli aspetti oggetto di gara.
Sotto un primo
profilo, la ricorrente ha lamentato che la delibera di
nomina della commissione tecnica non avrebbe evidenziato
alcuna specifica competenza in capo ai soggetti chiamati a
far parte dell’organo; secondo la ricorrente, non si
comprenderebbe di quale competenza possano essere dotati il
direttore dell’ufficio S.C. I.C.T. (presidente) e il
direttore dell’Ufficio Provveditorato negli specifici
settori della vigilanza armata, del telecontrollo e del
portierato.
La censura è infondata.
L’art. 84 del Codice dei Contratti dispone che la
commissione valutatrice “è presieduta di norma da un
dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza
in organico, da un funzionario della stazione appaltante
incaricato di funzioni apicali, nominato dall’organo
competente” (comma 3); inoltre, (comma 8) “I commissari
diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari
della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in
organico di adeguate professionalità, nonché negli altri
casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze
oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente
sono scelti tra funzionari di amministrazione aggiudicatrici
di cui all’art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di
rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:….”
(professionisti e professori universitari di ruolo con
determinati requisiti).
Il complessivo meccanismo dettato dall'art. 84, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 impone dunque, innanzitutto, di
individuare i commissari all'interno della stazione
appaltante, ritenendo il legislatore tale soluzione
evidentemente non solo la più efficiente in termini di
economicità e di semplificazione procedimentale, ma anche di
imparzialità, e solo ove vi siano obiettive carenze di
organico o professionalità tali da poter inficiare la bontà
delle valutazioni dell'offerta tecnica, è ammesso rivolgersi
all'esterno, rispettando per altro precisi requisiti di
professionalità dei prescelti, oltre che meccanismi
selettivi trasparenti.
Per quanto riguarda il requisito relativo alla competenza
tecnica dei singoli commissari, è principio consolidato in
giurisprudenza quello per cui il requisito richiesto
dall’art. 84, comma 2, del Codice dei Contratti (essere
“esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto
del contratto”) debba essere valutato compatibilmente con la
struttura degli enti appaltanti, senza esigere,
necessariamente, che l’esperienza professionale copra tutti
gli aspetti oggetto di gara (Cons. Stato, sez. III, 12.09.2012, n. 4836; Cons. Stato, sez. V, 28.05.2012, n. 3124; TAR Piemonte, sez. I, n.
88/2010) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E’
noto che nelle gare pubbliche spettano in via esclusiva alla
commissione giudicatrice le sole attività di valutazione che
implicano un giudizio connotato da discrezionalità, mentre
qualora si tratti di espletare attività che non implicano
valutazione o scelta non sussiste alcuna riserva di
esclusività in capo alla commissione giudicatrice, potendo
le stesse essere svolte da organi ordinari
dell'Amministrazione.
L'attività valutativa demandata alla commissione tecnica
dall’art. 84 del Codice dei Contratti non comprende le
attività amministrative afferenti alla verifica della
tempestività delle offerte e della regolarità della
documentazione a corredo, compiti che, non presupponendo il
possesso di alcuna competenza tecnica relativa allo
specifico oggetto dell’appalto, possono essere senz’altro
affidati agli organi ordinari della stazione appaltante.
Sotto un
diverso profilo, la ricorrente ha lamentato la violazione
del principio di unicità della commissione, sul presupposto
che una prima commissione avrebbe proceduto all’apertura
delle buste contenenti la documentazione amministrativa e le
offerte economiche e all’attribuzione del punteggio a queste
ultime, mentre una diversa commissione avrebbe proceduto
all’esame delle offerte tecniche e alla valutazione di non
anomalia
Anche tale profilo di censura è infondato.
E’ noto che nelle gare pubbliche spettano in via esclusiva
alla commissione giudicatrice le sole attività di
valutazione che implicano un giudizio connotato da
discrezionalità, mentre qualora si tratti di espletare
attività che non implicano valutazione o scelta non sussiste
alcuna riserva di esclusività in capo alla commissione
giudicatrice, potendo le stesse essere svolte da organi
ordinari dell'Amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 12.09.2012, n. 4836).
Questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare che
l’attività valutativa demandata alla commissione tecnica
dall’art. 84 del Codice dei Contratti non comprende le
attività amministrative afferenti alla verifica della
tempestività delle offerte e della regolarità della
documentazione a corredo, compiti che, non presupponendo il
possesso di alcuna competenza tecnica relativa allo
specifico oggetto dell’appalto, possono essere senz’altro
affidati agli organi ordinari della stazione appaltante
(TAR Piemonte, sez. I, 30.06.2011, n. 711; TAR
Piemonte, sez. I, 16.07.2010, n. 3132).
Alla stregua di tali principi, la procedura di gara in esame
non appare affetta dal vizio denunciato dalla ricorrente, in
quanto la commissione tecnica ha proceduto correttamente
alla valutazione delle offerte tecniche, mentre il seggio di
gara (composto da altri dipendenti della stessa ASL: dr.
C.A., direttore struttura complessa economato, in
qualità di presidente; dr.ssa S.S., collaboratore
amministrativo con funzioni di assistenza alle operazioni di
gara; e dr.ssa C.C., assistente amministrativo
con funzioni di segretario verbalizzante) si è occupato solo
di adempimenti privi di aspetti valutativi, quali la
verifica della regolarità della documentazione
amministrativa e all’attribuzione dei punteggi alle offerte
economiche.
Il tutto in perfetto ossequio ai principi giurisprudenziali
sopra menzionati
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 27.11.2013 |
ã |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI:
OGGETTO: Legge di conversione del decreto legge
21.06.2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia. Modifica dell'art. 202 del Codice
della Strada (Ministero dell'Interno,
nota 22.11.2013 n. 8799 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: Definizione di “socio di maggioranza”
rilevante per le dichiarazioni prescritte ai fini della
partecipazione alle procedure di gara d’appalto pubblico
(ANCE Bergamo,
circolare 22.11.2013 n. 250). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Registrazione contratti di locazione a seguito
dell’introduzione dell’obbligo di allegazione dell’Attestato
di prestazione energetica (APE) (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 22.11.2013 n. 83/E). |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Trattamento agli effetti dell’IVA dei contributi
erogati da amministrazioni pubbliche - Criteri generali per
la definizione giuridica e tributaria delle erogazioni, da
parte delle pubbliche amministrazioni, come contributi o
corrispettivi (Agenzia delle Entrate,
circolare 21.11.2013 n. 34/E). |
APPALTI:
Oggetto: Dall’01.01.2014 in vigore il sistema denominato
“AVCpass” per la verifica dei requisiti per la
partecipazione alle gare d’appalto (ANCE Bergamo,
circolare 19.11.2013 n. 249). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Variazioni disponibilità autoveicoli sottoposti alla
disciplina SISTRI
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali,
nota 05.11.2013 n. 1192 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Partecipate, no eccezioni sulla spending review.
Gli enti locali devono procedere alla verifica dei reciproci
rapporti di debito/credito anche rispetto alle società da
essi partecipate indirettamente ovvero per quote minimali.
Lo ha precisato la Sezione regionale di controllo della
Corte conti Lombardia nel
parere
11.11.2013 n. 479, chiarendo la
portata dell'art. 6, c. 4, del dl 95/2012 (spending review).
Tale disposizione prevede che, a decorrere dallo scorso
esercizio finanziario, i comuni e le province debbano
allegare al rendiconto della gestione una nota informativa
contenente la verifica dei crediti e debiti con le proprie
società partecipate. La nota deve evidenziare analiticamente
e motivare eventuali discordanze, nel qual caso occorre
adottare senza indugio, e comunque non oltre il termine
dell'esercizio finanziario in corso, i necessari
provvedimenti di riconciliazione.
Nell'ottica di un sempre
maggiore controllo sugli strumenti societari, spesso
utilizzati (come ricorda il parere) per scopi poco nobili
(ovvero per dribblare i vincoli di finanza pubblica), la
suddetta norma mira, quindi, ad arginare il disallineamento
delle poste debitorie e creditorie che spesso si riscontra
nei bilanci. L'obiettivo, pertanto, è quello di offrire dati
certi circa i rapporti finanziari tra l'ente pubblico e la
partecipata e di stimolare, se serve, correzioni di
eventuali discordanze. Se questa è la ratio
dell'intervento normativo, è allora evidente, secondo i
giudici, che la latitudine oggettiva della norma non può
essere circoscritta alle sole partecipazioni di primo grado,
con esclusione di tutte le partecipazioni indirette.
Per le stesse ragioni, il focus non può essere limitato alle
partecipazioni qualificate, ma deve essere esteso anche ai
casi in cui l'ente detiene quote minimali. Unica soluzione
in grado di offrire una rappresentazione trasparente e
veritiera dei rapporti finanziari ente pubblico-partecipate
(articolo ItaliaOggi del
20.11.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2013, "Avvio
del procedimento di approvazione della variante finalizzata
alla revisione del piano territoriale regionale e della
relativa procedura di valutazione ambientale strategica" (deliberazione
G.R. 14.11.2013 n. 937). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2013, "Termini
del procedimento amministrativo per il rilascio
dell’autorizzazione alla riduzione delle distanze legali
dalla linea ferroviaria in concessione, ai sensi dell’art.
60 del d.p.r. 11.07.1980 n. 753" (deliberazione
G.R. 21.11.2013 n. 936). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Travaglini,
Annotazioni critiche sul documento ITACA - Conferenza delle
Regioni “Realizzazione delle opere di urbanizzazione a
scomputo dei relativi oneri” (26.11.2013 -
link a http://venetoius.it). |
URBANISTICA:
A. Galbiati,
Piani attuativi e obblighi di trasmissione alla Regione:
commento a Corte Costituzionale 14.11.2013 n. 272 (25.11.2013
- link a www.studiospallino.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI: C.
Trovò,
I professionisti e l’obbligo di polizza - Per i
professionisti iscritti ad Albi è entrato in vigore, lo
scorso 15 agosto, l’obbligo di stipulare un’assicurazione
rischi professionali al fine di garantire il soddisfacimento
risarcitorio dei clienti. L’obbligo è stato introdotto dalla
Riforma delle professioni (Consulente
Immobiliare n. 941/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: E.
Ditta,
Il diritto al panorama - Si assiste sempre più spesso
alla enunciazione del diritto al panorama, ma nella pratica
la formula si rivela molte volte problematica e solo in
alcuni casi il proprietario di un immobile può usufruire di
una effettiva tutela del panorama di cui gode (Consulente
Immobiliare n. 941/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
G. Benedetti,
Cantieri: ‘‘intreccio’’ delle responsabilità tra
appaltatore, datore di lavoro e committente -
Cassazione nn. 35826/2013 e 35827/2013
(Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
E. Cuzzola,
Irap mai a carico del dipendente (Guida
al Pubblico Impiego n. 10/2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: A.
Bianco,
Uffici tecnici: le regole per l’incentivazione (Guida
al Pubblico Impiego n. 10/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Fumagalli,
UNA NORMATIVA ALL’ESAME DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA:
L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA IN SANATORIA - Le norme
italiane che vietano in determinati casi il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, sono
rispettose dei principi sanciti dalla normativa comunitaria? (AL
n. 494/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
W. Fumagalli.
In Lombardia chi può costruire nelle zone agricole?
NUOVI DUBBI DI INCOSTITUZIONALITÀ POTREBBERO INVESTIRE LA
LEGGE REGIONALE N. 12/2005 -
La disciplina regionale relativa all’edificazione nelle zone
agricole forse non è compatibile con l’articolo 117 della
Costituzione (AL n. 493/2013). |
QUESITI & PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri: Quali le sanzioni previste nel periodo transitorio?
Domanda
Dopo l'entrata in vigore del SISTRI, come e' punito il
trasporto di rifiuti pericolosi senza il formulario, o con
formulario con dati incompleti o inesatti?
Risposta
In seguito all’istituzione del SISTRI (2009), il legislatore
ha modificato le norme sanzionatorie di cui al TUA:
• eliminando il riferimento ai registri di carico e scarico
e ai formulari;
• prevedendo sanzioni soltanto per i trasportatori di
rifiuti non pericolosi senza formulario o con formulario
incompleto o inesatto, perché solo quest’ultimi avevano la
facoltà di decidere di iscriversi, o meno, al SISTRI;
• introducendo per gli altri soggetti le nuove sanzioni di
cui agli artt. 260-bis e 260-ter del TUA.
Tuttavia, a partire dal 2010 si sono succedute numerose
proroghe dell’operatività del SISTRI che hanno comportato la
contestuale sospensione delle novità normative in materia
sanzionatoria.
In particolare, l’art. 39 del D.Lgs. n. 205/2010 ha superato
la questione circa l’applicabilità o meno delle sanzioni
previste dall’art. 258 del TUA, attraverso un’apposita
disposizione interpretativa nella quale si è disposto che i
soggetti che hanno l’obbligo, o anche solo la facoltà, di
iscriversi al SISTRI, fino a quando le nuove prescrizioni
del SISTRI non divengono pienamente operative, grazie al
superamento della fase transitoria di proroga, qualora non
adempiono agli obblighi di tenuta dei registri di carico e
scarico e del formulario “sono soggetti alle relative
sanzioni previste dall’articolo 258 del TUA nella
formulazione precedente all’entrata in vigore del presente
decreto.”
In sostanza, sono soggetti alle sanzioni di cui all’art. 258
del D.Lgs. n. 152/2006 nella formulazione antecedente al
D.Lgs. n. 205/2010 (22.11.2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni senza paletti.
La dinamica dei gruppi incide sulla formazione.
L'indagine sull'appartenenza alla maggioranza va condotta in
concreto.
È possibile nominare, quali rappresentanti di minoranza
presso le commissioni consiliari, alcuni consiglieri
comunali originariamente appartenenti alla maggioranza
consiliare che, nel corso della consiliatura, sono
transitati all'opposizione?
Le commissioni consiliari sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze
politiche presenti in consiglio devono essere il più
possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che
in ciascuna ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
La
fattispecie si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti
che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche
presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti. Il principio generale del divieto
di mandato imperativo sancito dall'articolo 67 della
Costituzione, applicabile ad ogni assemblea elettiva,
assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato
ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi
la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi
compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto
alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza.
Tali mutamenti, pertanto, modificano i rapporti tra le forze
politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei
gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, con
evidenti effetti sulla composizione delle commissioni
consiliari che deve adeguarsi ai nuovi assetti. Quanto al
rispetto del criterio proporzionale il legislatore non
precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. È
da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate
la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità
dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne
l'osservanza. L'indirizzo giurisprudenziale e dottrinario
formatosi stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi
rispettato solo ove sia assicurata la presenza in ogni
commissione di ciascun gruppo (anche se formato da un solo
consigliere) presente in consiglio.
Peraltro il Tar
Lombardia, con la sentenza n. 567/1996, ha specificato che
il criterio proporzionale è posto dal legislatore come
direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative,
egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel
principio sottende, che consiste nell'assicurare in seno
alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al
raggiungimento di questo risultato concorrono, non soltanto
la rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza
delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma
anche –quando la varietà di consistenza e di numero dei
gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo con precisione
aritmetica, per quozienti interi– meccanismi tecnici (quali
il voto ponderato, il voto plurimo e simili) idonei ad
assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a
quello della forza politica che rappresenta.
Nel caso di specie, un articolo del regolamento delle
commissioni consiliari permanenti del comune in oggetto ha
previsto che le commissioni consiliari debbano essere
composte da tre consiglieri espressi dalla maggioranza e da
due dalla minoranza consiliare. La legge non fornisce una
definizione di maggioranza o di minoranza. Per maggioranza
non può che intendersi il gruppo o la coalizione che esprime
il sindaco, mentre per minoranza si intendono le liste che
non sostengono il sindaco e, dunque, i gruppi di
opposizione. Secondo il Tar Latina, nella sentenza n. 649
del 2004, «l'appartenenza o meno a una maggioranza
consiliare è di per sé soggetta alla mutevolezza delle
opinioni dei singoli consiglieri. Né si rinviene norma o
principio su una possibile cristallizzazione dell'appartenenza alla maggioranza o alla minoranza in relazione, esemplificativamente,
ad apposita dichiarazione».
Il medesimo giudice amministrativo ha ritenuto, inoltre, che
«lo stabilire se si appartenga o meno a una maggioranza
per essersi mutata idea dopo la consultazione elettorale ed,
eventualmente, anche successivamente ad un già intervenuto
mutamento, è indagine di fatto, la cui conclusione è da
assumere con le cautele del caso, dovendo un mutamento
ritenersi avvenuto soltanto allorquando sussistano univoci
indizi nel senso». La collocazione dinamica dei
consiglieri nei vari gruppi costituisce il parametro di
individuazione della loro posizione maggioritaria o
minoritaria ai fini della corretta formazione delle varie
commissioni
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorimessa
da ricostruire.
Domanda
Dovendo ristrutturare un'autorimessa pertinenziale
all'abitazione principale, mediante demolizione e
ricostruzione nel rispetto della volumetria esistente, ma
variando la sagoma, alla luce delle innovazioni introdotte
con il dl n. 69/2013 tale intervento ricade in quelli di
ristrutturazione edilizia oggetto della detrazione fiscale
del 50%?
Risposta
La risposta è affermativa. L'art. 30 del dl «del Fare» (n.
69 del 21.06.2013, convertito dalla legge 09.08.2013
n. 98) ha introdotto una nuova definizione di
ristrutturazione edilizia ampliando la nozione di cui
all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr n. 380/2001, alla
quale fanno riferimento molte importanti norme della
fiscalità immobiliare, anche per quanto riguarda le
detrazioni sul recupero edilizio ed energetico.
La nuova
definizione –valida dal 21.08.2013– ricomprende ora
fra le ristrutturazioni edilizie attuate mediante
demolizione e fedele ricostruzione, con l'eccezione degli
immobili vincolati, anche quelle che nella riedificazione
rispettano il solo volume dell'edificio preesistente, mentre
in precedenza era richiesto il doppio requisito consistente
nel rispetto sia del volume che della sagoma, in mancanza
dei quali si ricadeva nella ben diversa fattispecie della
nuova costruzione.
Peraltro, ricordiamo che anche la realizzazione ex novo di
autorimesse o posti auto pertinenziali, anche a proprietà
comune, rientra, al pari della ristrutturazione, fra gli
interventi che possono beneficiare della detrazione per il
recupero edilizio ai sensi dell'art. 16-bis, 1° comma,
lettera d), del Tuir).
Nessuna rilevanza ha la circostanza che l'unità immobiliare
costituisca o meno abitazione principale di chi esegue i
lavori, l'importante è che si tratti di un'abitazione
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - SICUREZZA LAVORO: Esposizione
a campi elettromagnetici.
Domanda
Vorrei sapere se è obbligatorio effettuare la valutazione
dei rischi da esposizione a campi elettromagnetici sui
luoghi di lavoro.
Risposta
Nella Gazzetta Ufficiale Europea del 29.06.2013 è stata
pubblicata la direttiva n. 2013/35/Ce, sulle esposizioni
occupazionali ai campi elettromagnetici, che abroga e
sostituisce la precedente direttiva 2004/40. Il termine
ultimo di recepimento della nuova direttiva è il 01.07.2016. Bisogna tuttavia considerare che sono immediatamente
vigenti le disposizioni generali sulla protezione dagli
agenti fisici, contenute nel capo I del titolo VIII del dlgs
81/2008, indipendentemente dall'entrata in vigore dei
successivi capi specifici.
Il vincolo più stringente ad oggi
in vigore riguarda pertanto l'obbligatorietà della
valutazione del rischio elettromagnetico, la cui mancanza è
sanzionabile già attualmente. Come chiarito dagli organi
istituzionali, ad oggi la valutazione del rischio
elettromagnetico va condotta confrontandosi con il nuovo
sistema di limiti, contenuto nella nuova direttiva e non più
con quello proposto dalla precedente direttiva 2004/40 e
ripreso dal dlgs 81/2008, al titolo VIII, capo IV (che sarà
riscritto).
L'impianto della valutazione di rischi da
esposizione a campi elettromagnetici si presenta fortemente
rinnovato a partire dal sistema di limiti. Se la direttiva
2004/40 presentava lo stesso sistema di limiti che Icnirp ha
proposto con le linee guida emanate nel 1998, il sistema di
limiti presente nella nuova direttiva è aggiornato con le
revisioni che la stessa Icnirp ha compiuto delle proprie
linee guida nel 2009, con riferimento ai campi magnetici
statici e nel 2010, con riferimento ai campi elettrici e
magnetici nell'intervallo di frequenze 1 Hz-10 MHz.
La
Commissione europea ha inoltre arricchito il sistema di
limiti Icnirp alle basse frequenze, introducendo altre due
soglie non di derivazione Icnirp denominate «livelli di
azione superiori» e «livelli di azione per gli arti».
La nuova direttiva identifica inoltre in modo esplicito il
metodo del picco ponderato come quello elettivo ai fini
della valutazione dell'esposizione
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Potere
dei sindaci.
Domanda
Il Sindaco, in forza dei suoi poteri, può emettere
un'ordinanza con tingibile e urgente nel caso di abbandono
di rifiuti?
Risposta
È da dire che il ricorso allo strumento dell' ordinanza
contingibile e urgente da parte dei sindaci presuppone
situazioni eccezionali e non prevedibili.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 04.04.2011,
numero 115, ha escluso che in tema di ordinanze sindacali contingibili ed urgenti vi sia un potere generale dei
Sindaci; ha dichiarato, pertanto, costituzionalmente
illegittimo l'articolo 54, comma 4, del decreto legislativo
numero 267, del 2000, come sostituito dall'articolo 6 del
decreto legge n. 92, del 2008, convertito con legge
numero 125, del 2008, su cui detto potere extra ordinem si
fonda, nella parte relativa alla locuzione «anche» prima
delle parole «contingibili ed urgenti».
In materia di abbandono incontrollato di rifiuti il
Tribunale regionale amministrativo (Tar) della Campania,
Sezione V, con la sentenza dell'11.05.2010, numero 3683,
ha escluso la possibilità del ricorso allo strumento atipico
ed eccezionale costituito dall'ordinanza contingibile ed
urgente, atteso che l'articolo 192 del decreto legislativo
numero 152, del 03.04.2006, porta in sé uno specifico
rimedio a fronte di situazioni di inquinamento ambientale.
Peraltro, aggiungono i predetti giudici, «l'utilizzo dello
strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente ex articoli
117 del decreto legislativo numero 112, del 1998, e 54 del
decreto legislativo numero 267, del 2000, presupponendo la
necessità di provvedere con immediatezza in ordine a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile cui non si
potrebbe far fronte con il ricorso agli ordinari strumenti
apprestati dall'ordinamento, non appare legittimo per
disporre in ordine alla bonifica di un sito contaminato»
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Energia
da fonti rinnovabili.
Domanda
Si chiede se le regioni, con propria normativa, possano
imporre un limite massimo alla produzione di energia da
fonte rinnovabile.
Risposta
In tema di produzione di energia da fonte rinnovabile, la
direttiva 2001/77/Ce promuove «un maggior contributo delle
fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità
nel relativo mercato interno_» (articolo 1), e ordina agli
stati membri di adottare «misure appropriate atte a
promuovere l'aumento del consumo di elettricità prodotta da
fonti energetiche rinnovabili» (articolo 3).
La successiva direttiva 2009/28/Ce, che ha sostituito la
suddetta direttiva 2001/77/Ce, invita gli stati membri a
«stimolare lo sviluppo costante di tecnologie capaci di
generare energia a partire da ogni tipo di fonte
rinnovabile».
Lo Stato italiano, con il decreto legislativo 29.12.2003, numero 387, recependo la citata direttiva 2001/77/Ce,
ha stabilito che le regioni possono adottare «misure per
promuovere l'aumento del consumo di elettricità da fonti
rinnovabili nei rispettivi territori, aggiuntive rispetto a
quelle nazionali».
Il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 10.09.2012, numero 4768, ha puntualizzato che qualsiasi
normativa interna che preveda un valore quantitativo massimo
consentito di produzione di energia elettrica rinnovabile si
pone in contrasto con il favor che, al riguardo, la
normativa europea accorda allo sviluppo ed al potenziamento
della produzione di energia da fonti rinnovabili. Pertanto,
per i supremi giudici amministrativi, qualsiasi normativa
interna che preveda un limite massimo alla produzione di
energia elettrica da fonte rinnovabile si pone in contrasto
con la normativa europea e, per questo motivo, deve essere
disapplicata.
Per inciso, si sottolinea che l'Unione europea, con la
summenzionata direttiva 2001/77/Ce, aveva posto un limite
minimo alla produzione di energia elettrica da fonte
rinnovabile. Infatti, all'articolo 3, detta direttiva aveva
disposto, fra l'altro, «l'obiettivo indicativo globale
del 12% del consumo interno lordo di energia entro il 2010»,
e, al riguardo, aveva invitato gli Stati membri a rimuovere
gli «ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento della
produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili»
(articolo 6)
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Competenza al rilascio delle autorizzazioni
paesaggistiche delegate ai Comuni in caso di perdita della
delega dopo l'invio degli atti al Soprintendente - Comune di
Pomezia (Regione Lazio,
parere
04.11.2013 n. 318130 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla operatività della delega conferita
ai comuni per il rilascio del parere paesaggistico in
sanatoria agli abusi realizzati sui beni culturali vincolati
ai sensi della parte II del d.lgs. 42/2004 - Comune di
Civitavecchia (Regione Lazio,
parere
16.10.2013 n. 76446 di prot.). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Niente registro né bollo sull'Ape.
Ape senza registro né bollo. L'attestato di prestazione
energetica presentato all'ufficio dell'Agenzia delle entrate
in sede di registrazione di un contratto di locazione non
sconta un'imposta autonoma. Il prelievo fiscale scatta solo
se il contribuente registra volontariamente l'Ape in un
secondo momento, per esempio per conferirgli data certa: in
questo caso si pagano 168 euro.
È quanto ha chiarito
l'amministrazione finanziaria con la
risoluzione
22.11.2013 n. 83/E.
Il documento di prassi precisa il trattamento fiscale
dell'attestato a seguito delle modifiche introdotte dal dl
n. 63/2013, che ha imposto l'allegazione dell'Ape in tutti i
contratti di vendita, donazione e locazione di immobili. La
pena prevista, in caso di inadempimento, è la nullità
dell'atto (tuttavia, in uno dei prossimi provvedimenti del
governo la sanzione sarà sostituita con una penalità
economica pari a 500 euro, si veda ItaliaOggi dell'8
novembre scorso).
L'Agenzia evidenzia che la regola standard da seguire è
quella dettata dall'articolo 11, comma 7, del dpr n. 131/1986
(Tur): la richiesta di registrazione di un atto vale anche
per gli allegati. Se però per questi ultimi non vige
l'obbligo di registrazione, come appunto nel caso dell'Ape,
non si applica un'imposta autonoma. Peraltro le Entrate
sottolineano che per i contratti di locazione registrati in
via telematica non è possibile trasmettere gli allegati, che
devono semmai essere prodotti in forma cartacea insieme alla
ricevuta di avvenuta registrazione, anche in questo caso
senza oneri. Come detto, invece, l'Ape sconta il registro in
misura fissa (168 euro) qualora il contribuente abbia
interesse a registrarlo separatamente, a prescindere dalla
disciplina applicabile al contratto immobiliare «principale».
Anche ai fini dell'imposta di bollo l'Ape resta esente, sia
se prodotto in originale sia in copia semplice. Fa
eccezione, però, l'attestato con dichiarazione di conformità
all'originale rilasciata da un pubblico ufficiale: in tale
ipotesi, va applicato il bollo nella misura di 16 euro per
ciascun foglio, ai sensi delle previsioni recate dal dpr n.
642/1972
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Due vie per tracciare i rifiuti.
Invio online dei dati contestuale o successivo alla raccolta.
Raffica di istruzioni operative
dal ministero dell'ambiente per le imprese tenute al Sistri.
Doppio binario procedurale per il Sistri. La tracciabilità
dei rifiuti si potrà realizzare attraverso una procedura che
prevede l'utilizzo contestuale dei dispositivi elettronici
Usb oppure successivo. In sostanza, i dati potranno essere
inviati contestualmente alla tracciatura dei rifiuti o anche
in seconda battuta.
Le due procedure possono essere utilizzate entrambe in
funzione delle esigenze operative dei soggetti coinvolti
nella movimentazione. E' possibile adottarle anche in
modalità mista. Pertanto la procedura adottata per la presa
in carico dei rifiuti e per la consegna degli stessi possono
differire senza alcun problema. Nella procedura con utilizzo
non contestuale dei dispositivi Usb le operazioni di presa
in carico e consegna dei rifiuti vengono svolte dal
conducente attraverso la sola annotazione di data e ora
sulla copia cartacea della scheda Sistri e senza dunque
inserire il dispositivo Usb del veicolo nel pc del
produttore e/o del destinatario.
Queste sono le due risposte
fornite dal Ministero dell'ambiente con
la Faq n. 109 e la
Faq n. 107 datate 21.11.2013 alle domande in merito
alle procedure operative per la tracciabilità dei rifiuti.
Ma il ministero formula altre risposte (con 15 ulteriori Faq)
che di seguito tracciamo.
Non appena riscontrato il
malfunzionamento del dispositivo Usb del veicolo occorre
contattare il contact center sistri per attivare le
opportune procedure volte alla risoluzione del problema. In
caso di malfunzionamento del dispositivo Usb, la
compilazione della scheda Sistri (aree produttore e
trasportatore) viene comunque effettuata dal trasportatore
oppure, in caso di sua indisponibilità, dal gestore.
La
movimentazione del rifiuto viene eseguita normalmente con le
copie cartacee della scheda sistri sulle quali viene
annotato che il dispositivo Usb del veicolo non è
funzionante e che dunque non sono state effettuate la
sincronizzazione e gli inserimenti nella black box.
L'inserimento del dispositivo Usb del veicolo nella black
box deve essere effettuato, a prescindere dal numero di
prese in carico e di consegne di rifiuti previsti nella
giornata, una prima volta all'avvio del trasporto, dopo aver
dunque effettuato la presa in carico dei rifiuti presso il
produttore e, una seconda volta, successivamente alla
consegna al destinatario.
In presenza di più viaggi nella
stessa giornata lavorativa, l'inserimento del dispositivo
Usb del veicolo nella black box deve essere effettuato
solamente dopo la prima presa in carico presso il primo
produttore e successivamente all'ultima consegna presso
l'ultimo impianto Per la movimentazione dei rifiuti devono
essere prodotte due copie cartacee della scheda sistri e
comunque in un numero pari a quello dei soggetti coinvolti
nella movimentazione (es. presenza di più trasportatori).
La stampa delle schede sistri in bianco si effettua
accedendo al sistri con il dispositivo Usb, selezionando
nella homepage utente «moduli in bianco per schede sistri»
e digitando il numero di moduli desiderati ognuno dei quali
riporterà un proprio numero identificativo. La
riconciliazione della scheda sistri in bianco si effettua
accedendo al Sistri con il dispositivo Usb, selezionando
nella homepage utente «moduli in bianco per schede Sistri»
e digitando il numero identificativo, della scheda Sistri in
bianco che si intende riconciliare, nell'apposita sezione
della schermata relativa a tale operazione.
Il destinatario è tenuto ad effettuare la registrazione
cronologica di carico per il rifiuto accettato entro 2
giorni lavorativi pertanto anche la compilazione e firma
della sezione della scheda sistri di propria competenza deve
effettuarsi entro tali termini
(articolo ItaliaOggi del
23.11.2013). |
ENTI LOCALI: Contributi, confini Iva.
Imposta solo se c'è servizio o bene ceduto.
P.A./ Circolare delle Entrate sui trattamenti per
le somme erogate.
I contributi dati dalla pubblica amministrazione a soggetti,
pubblici o privati, rientrano in campo Iva quando
costituiscono il compenso per un servizio effettuato o per
un bene ceduto. Al contrario, non si applica l'Iva quando
chi riceve il contributo non è obbligato a rendere alcuna
controprestazione.
Con la
circolare 21.11.2013 n. 34/E
l'Agenzia delle entrate detta le regole, condivise con la
Ragioneria generale dello stato, da seguire per inquadrare,
caso per caso, le somme erogate dalla p.a. e tracciare il
confine tra le due tipologie di pagamenti ai fini Iva,
laddove non siano immediatamente riconducibili al quadro
normativo di riferimento.
Differenze tra contributi e corrispettivi. Si parla di
contributi pubblici, spiega un comunicato dell'Agenzia,
quando la p.a. non opera all'interno di un rapporto
contrattuale, cioè quando le erogazioni sono effettuate
secondo norme che prevedono l'erogazione di benefici al
verificarsi di presupposti definiti. Si parla, invece, di
corrispettivi quando le erogazioni sono conseguenti alla
stipula di contratti pubblici, oppure, al di fuori di
questi, nelle ipotesi in cui ciò è consentito dalla
legislazione sulle attività negoziali delle p.a.
C'è Iva se i risultati dell'attività finanziata vanno alla
p.a. I pagamenti della p.a. destinati a un privato
«attraggono» l'Iva se prevedono un rapporto di scambio tra i
due attori da cui deriva un vantaggio diretto ed esclusivo
per la pubblica amministrazione perché, per esempio,
acquisisce la proprietà del bene. In questo caso, infatti,
ci si trova davanti a una prestazione e controprestazione
che rientra nello schema contrattuale.
Clausole risolutive o penalità per inadempimento portano «corrispettività».
Le erogazioni della pubblica amministrazione rientrano
nell'ambito del rapporto contrattuale quando in convenzione,
anche tramite norme di rinvio, sono presenti clausole
risolutive o di penalità per inadempimento. L'Agenzia
precisa che anche se mancano queste clausole ci si può
comunque trovare di fronte a un'erogazione corrispettiva.
L'attività finanziata, infatti, può comunque concretizzare
un'obbligazione il cui inadempimento comporterebbe una
responsabilità contrattuale
(articolo ItaliaOggi del
22.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Auto, variazioni Sistri via web.
Comunicazioni dalle sezioni dell'albo gestori ambientali.
Circolare ministeriale sulle
procedure relative al sistema di tracciamento dei rifiuti.
In caso di cessione della disponibilità degli autoveicoli
sottoposti alla disciplina Sistri saranno le sezioni
regionali dell'albo gestori ambientali che comunicheranno al
Sistri le variazioni. Le sezioni regionali dell'albo
dovranno così provvedere a trasmettere in via telematica al
Sistri gli estremi del fascicolo Sistri e del veicolo a
motore, oggetto della cancellazione dall'albo. Specificando
la causale: compravendita, usufrutto, locazione e comodato
senza conducente.
È quanto si legge nella
nota 05.11.2013 n. 1192 di prot. del ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio rubricata «variazioni della disponibilità degli
autoveicoli sottoposti alla disciplina Sistri».
Con questa
nota di prassi il comitato nazionale, in accordo con il
concessionario Sistri, ha stabilito le procedure per la
variazione dell'iscrizione all'albo del parco dei veicoli a
motore sottoposti alla disciplina sul Sistri. I casi di
variazione che comportano una variazione dell' iscrizione
all'albo del parco veicoli a motore dell'azienda riguardano
la compravendita, l'usufrutto, la locazione senza
conducente, e il comodato senza conducente.
L'impresa
cedente presenta alla sezione regionale la richiesta di
cancellazione dell'autoveicolo e contestualmente riconsegna
alla sezione i dispositivi Ubs associati al veicolo. Con
questa richiesta l'impresa dichiara di mantenere la
responsabilità della black box installata. In assenza di
questa domanda dell'acquirente, il cedente è obbligato entro
60 giorni dalla presentazione della domanda di cancellazione
a provvedere alla immediata disinstallazione della black box
fissando con la sezione regionale dell'albo l'appuntamento
presso l'officina autorizzata.
Le sezioni regionali
dell'albo, deliberata la variazione dell'iscrizione nei casi
in cui è richiesta l'emanazione del provvedimento, oppure
effettuate le opportune modifiche negli altri casi, dovranno
trasmettere in via telematica al Sistri gli estremi del
fascicolo Sistri e del veicolo a motore, oggetto della
cancellazione dall'albo. Specificando la causale
(compravendita, usufrutto, locazione e comodato senza
conducente). Il Sistri provvede immediatamente alla
disattivazione del dispositivo oggetto della cancellazione
dall'albo nonché a trasmettere contestualmente per via
telematica alla sezione regionale l'accoglimento della
domanda di cancellazione senza disinstallazione.
L'impresa
acquirente presenta la richiesta di variazione per
incremento dell'autoveicolo del quale l'impresa cedente ha
già chiesto la cancellazione. La sezione regionale
dell'albo, deliberata la variazione dell'iscrizione invia
telematicamente al Sistri gli estremi del fascicolo Sistri e
dell'autoveicolo oggetto dell'incremento all'albo. Questa
circolare completa e integra i contenuti della circolare n.
350/2011 relativa alle modalità di installazione e di
disinstallazione della black box in caso di inserimento o di
cancellazione di mezzi dal parco veicoli aziendale
(articolo ItaliaOggi del
20.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, registri fino ad agosto.
Gli obblighi tradizionali vanno in parallelo con il Sistri.
Tutti i chiarimenti sulla
tracciabilità nel quadro sinottico diffuso dal Minambiente.
Sistri obbligatorio per i vettori stranieri che eseguono
anche solo brevi spostamenti di rifiuti sul territorio
nazionale. Divieto di applicazione del regime agevolato per
la «micro-raccolta» dei rifiuti oltre ai casi previsti.
Necessità di osservare fino al 01.08.2014, insieme a
quelli Sistri, i tradizionali obblighi di tracciamento dei
rifiuti costituiti da registri di carico/scarico e
formulario di trasporto.
Questi alcuni dei chiarimenti rintracciabili nelle risposte
fornite dal Minambiente ai diversi quesiti posti dalle
associazioni di categoria sugli aspetti applicativi del
nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti e
cristallizzate in un «Quadro sinottico» pubblicato sul
portale www.sistri.it lo scorso 11.11.2013.
Il contesto. Il documento segue a stretto giro la circolare
del 31.10.2013 n. 1 con la quale lo stesso Dicastero ha
recato i primi chiarimenti sulla legge 125/2013 che, nel
convertire il dl 101/2013, ha confermato la partenza del
Sistri dal 01.10.2013 per i gestori di rifiuti speciali
pericolosi e dal 03.03.2014 per i produttori iniziali
degli stessi. Il tutto allungando fino al 01.08.2014 il
periodo di sospensione delle relative sanzioni ma
pretendendo, parallelamente ai nuovi obblighi, l'adempimento
di quelli già vigenti relativi alle storiche scritture
ambientali (cd. «regime transitorio binario»).
Soggetti obbligati al Sistri. A parere del Dicastero gli
unici «nuovi produttori» di rifiuti (soggetti rientranti tra
i gestori) non soggetti agli obblighi Sistri (in quanto
tali, dalla citata data del 01.10.2013) sono quelli che
trattano esclusivamente rifiuti «non pericolosi» dai quali
producono «rifiuti non pericolosi». Sono invece soggetti al
Sistri i vettori esteri che effettuano anche piccoli servizi
di autotrasporto all'interno del territorio Italiano (cd.
«trasporto di cabotaggio»).
Termini di operatività del sistema. I gestori di veicoli
fuori uso sono tenuti ad adottare il Sistri già dal 01.10.2013, e ciò sia nelle loro vesti di recuperatori o
smaltitori sia in quelle di «nuovi produttori» di rifiuti.
Dalla stessa data del 01.10.2013 sono obbligati i
produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che
effettuano anche operazioni di trattamento, recupero e
smaltimento dei propri rifiuti. Ciò in quanto, limitatamente
a tali operazioni, essi rientrano nel novero dei «gestori».
Scatta invece solo dal 03.03.2014 (ossia secondo il
termine iniziale stabilito per la generalità dei «produttori
iniziali» di rifiuti) l'obbligo Sistri per gli enti e le
imprese che trasportano rifiuti speciali pericolosi da loro
prodotti.
Obblighi procedurali Sistri. Per il Dicastero la procedura
di tracciamento semplificato Sistri prevista per la «micro-raccolta»
non è estensibile a tutte le procedure di movimentazione dei
rifiuti. La procedura agevolata disegnata dal dm 52/2011
(cd. «Testo unico Sistri) che consente flessibilità di
itinerario ed elasticità nei modi e tempi di compilazione
delle schede Sistri va infatti applicata solo alle ipotesi
cui espressamente si riferisce. Per quanto attiene, infine,
agli obblighi dei produttori di rifiuti pericolosi che li
consegnano a trasportatori, il Dicastero ricorda come la
procedura Sistri imponga la conservazione della copia
stampata della scheda Sistri - Area Movimentazione che gli
trasmette il gestore (cui i rifiuti sono recapitati) o la
segnalazione che la scheda non gli è pervenuta.
Regime transitorio. In più di uno dei pareri recati dal
nuovo «Quadro sinottico» il Minambiente sottolinea come
durante il (citato) «doppio binario» la copia della nuova
«scheda Sistri» prodotta dal trasportatore di rifiuti non
sostituisce il tradizionale formulario di movimentazione dei
rifiuti, la cui omessa tenuta è sanzionata
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
AMBIENTE ECOLOGIA: Autorizzazione unica per tutte. Escluse soltanto le imprese
sottoposte ad Aia e Via. Nella
circolare del 7 novembre meglio definita la platea degli
obbligati alla nuova Aua.
L'Autorizzazione unica ambientale si applica a tutte le
imprese, grandi o piccole che siano, non soggette alla
diversa procedura di «Aia» (o di «Via» non parziale). Per
esse l'«Aua» costituisce la strada su cui occorre
obbligatoriamente transitare per chiedere i titoli
abilitativi individuati dal dpr 59/2013, tranne nei casi in
cui essi coincidano con una mera «comunicazione»
all'Autorità o con l'adesione ad una sua «autorizzazione
generale».
Questi i primi chiarimenti offerti dal Minambiente con la propria
circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot. sul campo di applicazione della nuova
disciplina autorizzatoria ambientale attivabile
esclusivamente tramite i Suap (gli Sportelli unici delle
attività produttive di competenza comunale) recata dal dpr
59/2013 e in vigore dallo scorso 13.06.2013.
Soggetti ammessi e soggetti esclusi. Il dpr 59/2013 prevede
a monte che l'Aua trovi applicazione in relazione a tre
categorie di soggetti: piccole e medie imprese rientranti
nei parametri disegnati dal dm 18.04.2005; imprese non
soggette ad Autorizzazione integrata ambientale (c.d. Aia»);
imprese obbligate a Valutazione di impatto ambientale solo
«parziale» (la «Via» da integrare con altri e necessari atti autorizzatori). Il Minambiente affronta, in particolare, il
rapporto tra il primo e il secondo dei citati presupposti
applicativi, chiarendo come quest'ultimo criterio «assorba»
(nel tenore letterale della circolare) il primo.
Ragion per
cui, deduce il dicastero, è soggetto ad Aua ogni impianto
non obbligato alla diversa disciplina Aia, anche quando il
gestore sia una grande impresa. Dal carattere di preminenza
evidenziato dal Minambiente appare quindi desumibile che
anche le piccole e medie imprese devono ben essere escluse
dalla procedura di «Aua» se svolgono una delle attività
particolari per le quali l'Allegato VIII alla Parte II del
dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») impone l'Aia
(attività tra le quali figurano alcune lavorazioni proprie
dell'industria chimica e della gestione dei rifiuti).
Quando è obbligatoria. Il dpr 59/2013 riconduce nell'Aua
sette «titoli» autorizzatori base (cui regioni e province
autonome hanno facoltà di aggiungerne ulteriori) lasciando
però la facoltà agli interessati di richiedere quelli per
propria natura già oggetto di procedura semplificata (come
le «comunicazioni» e l'adesione alle c.d. «autorizzazioni
generali») in via autonoma e senza ricorrere alla nuova
procedura unica, purché si agisca sempre tramite il «Suap».
È sulla collocazione di tale soglia (obbligo/facoltà) che il
dicastero interviene, offrendo chiarimenti in merito ad
alcuni casi particolari che vedono il concorso di più titoli
tra i «sette» previsti dall'articolo 3, comma 1, del dlgs
59/2013, ossia: autorizzazione allo scarico nelle acque ex
dlgs 152/2006; comunicazione preventiva per utilizzo
agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione
di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del
settore ex dlgs 152/2006; autorizzazione alle emissioni in
atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex articolo 269,
dlgs 152/2006; «autorizzazione generale» per le emissioni
scarsamente rilevanti in aria ex articolo 272, dlgs
152/2006; nulla osta alle emissioni sonore ex legge 447/1995
da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi
commerciali; autorizzazione per utilizzo fanghi da
depurazione in agricoltura ex dlgs 99/1992; comunicazione
per auto-smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura
semplificata ex dlgs 152/2006.
Il dicastero sottolinea
innanzitutto che il ricorso all'Aua è obbligatorio
ogniqualvolta l'impianto debba ottenere il rilascio, la
formazione, il rinnovo o l'aggiornamento di uno dei «titoli
abilitativi» previsti dal citato articolo 3, comma 1, del dpr
59/2013 ma non inclusi (anche) tra quelli oggetto di
espressa eccezione da successive disposizioni del decreto
stesso.
E quando non lo è. Chiarisce di conseguenza la circolare che
il gestore non è obbligato ad utilizzare l'Aua: ove
l'impianto sia soggetto esclusivamente a «comunicazione» e/o
ad «autorizzazione generale alle emissioni» (eccezione
prevista dall'articolo 3, comma 3); qualora intenda aderire
alla citata «autorizzazione generale alle emissioni» (deroga
ex articolo 7, comma 1).
In particolare, il dicastero fa
luce su tre situazioni limite che vedono il concorso di più
titoli. In caso di attività sottoposta sia a «comunicazione»
che a ordinario titolo abilitativo di carattere autorizzatorio il ricorso all'Aua è obbligatorio per tutti
gli adempimenti; ciò in quanto non si rientra (sottolinea il
Minambiente) né sotto l'eccezione prevista dal citato comma
3, articolo 3, del dpr 59/2013 (che rende facoltativa l'Aua
se si deve effettuare esclusivamente una comunicazione e/o
aderire ad una autorizzazione generale) né sotto l'eccezione
prevista dal ricordato comma 1, articolo 7, del dpr 59/2013
(che fa sempre salva l'autonomia della procedura di adesione
all'«autorizzazione generale» alle emissioni).
Ancora, in
caso di attività sottoposta sia alla «autorizzazione di
carattere generale» che a ordinari titoli abilitativi di
carattere autorizzatorio il gestore conserva la facoltà di
presentare autonoma istanza di adesione (sempre tramite «Suap»)
solo in relazione alla «autorizzazione generale». Infine,
nel caso di attività sottoposte unicamente a più
comunicazioni o autorizzazioni di carattere generale, il
ricorso all'Aua è sempre facoltativo.
Quando fare la prima richiesta. La nuova disciplina Aua si
applica, per espressa disposizione dpr 59/2013, alle domande
di autorizzazione da presentarsi dal 13.06.2013 in poi
(data di entrata in vigore del provvedimento) in occasione
della scadenza del primo titolo abilitativo da essa
sostituito. La circolare del minambiente chiarisce che in
caso di titolo autorizzatorio per il quale l'Aua è
obbligatoria, la domanda deve necessariamente (e non
facoltativamente) essere presentata entro la scadenza
indicata. E per il dicastero il termine di scadenza cui fare
riferimento è quello previsto dalle norme di settore che
disciplinano il titolo da rinnovare.
L'applicazione della disciplina di settore in luogo di
quella generale ex dpr 59/2013, sottolinea il ministero, è
infatti in questo caso (più che un ossequio al principio di
specialità) un atto necessario per consentire ai richiedenti
la prosecuzione della propria attività nelle more del
rilascio dell'Aua, facoltà che solo le specifiche norme
prevedono (tacendo invece il decreto sul punto)
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Autoclave, caldaie, cancelli: il problema va segnalato
all'amministratore.
Una delle principali fonti di discussione tra condomini è
rappresentata dal rumore proveniente dai vicini. Ma accade
spesso che il singolo condomino sia disturbato anche dal
rumore eccessivo proveniente dagli impianti comuni
(ascensore, autoclave, caldaia, scatto automatico del
cancello comune ecc.).
In tale ultimo caso è opportuno denunciare il problema al
responsabile della gestione degli impianti comuni, cioè
all'amministratore di condominio. Quest'ultimo, al fine di
verificare il rispetto dei limiti massimi di rumorosità, si
può rivolgere a un tecnico competente in acustica (o al
comune, che inoltra la richiesta all'Arpa, Agenzia regionale
protezione ambiente).
Se l'amministratore non interviene o
non prende provvedimenti in un tempo ragionevole non resta
che ricorrere all'autorità giudiziaria (competente in questa
materia è il giudice di pace) con una causa che va intentata
contro il condominio.
Quando il rumore degli impianti è intollerabile.
Il condomino che è disturbato dai rumori provenienti dagli
impianti condominiali si può tutelare chiedendo al
condominio il rispetto del limite della cosiddetta normale
tollerabilità prevista dalla legge. Stabilire quando tale
limite è superato non è facile perché lo stesso è variabile
da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona. In
ogni caso se il rumore degli impianti rimane entro i livelli
massimi fissati dalle normative di tutela ambientale ciò non
costituisce circostanza sufficiente a escludere in concreto
l'intollerabilità delle immissioni mentre, al contrario, il
superamento di detti livelli deve ritenersi senz'altro
illecito.
Secondo i giudici, però, per valutare se un rumore
supera o meno il limite di legge è necessario effettuare due
misurazioni: quella relativa all'immissione di rumore,
quando la sorgente in esame è funzionante, e quella del
cosiddetto rumore di fondo, quando detta sorgente non è
funzionante. L'immissione di rumore non deve superare il
limite massimo della normale tollerabilità, che è uguale a 3
decibel oltre il rumore di fondo. Da sottolineare che se
questo limite in una prima rilevazione non risulta superato
non è detto che invece risulti intollerabile poco tempo
dopo.
Come hanno spiegato recentemente i giudici, infatti, i
rumori degli impianti possono cambiare nel tempo in
relazione a una molteplicità di fattori (frequenza d'uso
della fonte, sua manutenzione, intensità volumetrica,
additivi di ogni tipo, modifica del rumore di fondo ecc.).
In altre parole il funzionamento per lunghi periodi degli
impianti rende inevitabile il deteriorarsi di meccanismi,
cuscinetti e guarnizioni che assicurano nei macchinari la
riduzione del rumore metallico.
La stanza da letto del condomino vicino alla caldaia.
Non c'è dubbio, per esempio, che un condomino abbia il pieno
diritto di godere secondo le sue personali abitudini ed
esigenze la propria camera da letto, anche se questa sia
confinante con il vano caldaia che emette rumori fastidiosi
anche di notte. In tal caso, come già accaduto, il giudice
può ordinare, invece che il divieto dell'uso dell'impianto,
l'esecuzione di opere atte a eliminare i rumori o a
ricondurli nei limiti della tollerabilità.
Così, per
esempio, la centrale termica può essere collocata su un
pavimento galleggiante, si possono installare giunti
elastici sulle tubazioni, elementi antivibranti di supporto
delle pompe di circolazione, una cuffia sul bruciatore ecc.
Se però tali rimedi non sono sufficienti è possibile pure
ordinare al condominio la rimozione della centrale termica
condominiale dal luogo in cui era stata installata in altro
locale insonorizzato.
Il problema dell'autoclave e dell'ascensore
Un disturbo insopportabile può provenire anche da
un'autoclave o dall'ascensore condominiale, anche se tali
impianti producono una rumorosità discontinua dovuta agli
avviamenti e alle fermate: in tal caso il livello sonoro che
meglio rappresenta il disturbo è rappresentato dai picchi
massimi raggiunti. Tuttavia anche in queste ipotesi le
immissioni intollerabili, seppure discontinue, sono da
considerare certamente dannose.
Per l'ascensore è possibile eliminare il disturbo imponendo
al condominio di intervenire con l'installazione di supporti
antivibranti dell'argano-motore, l'insonorizzazione del
locale tecnico e, negli ascensori vecchi, di attutire
l'impatto della chiusura delle ante della cabina. Per quanto
riguarda l'autoclave, se il ricorso all'installazione di
pannelli isolanti o rimedi simili non risolve i problemi del
singolo condomino, non rimane che ordinare la rimozione
dell'autoclave da collocare poi in altro luogo
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: La trasparenza della Pa finisce in un maxi-ingorgo.
Entro gennaio vanno adottati 12 tra piani e codici.
Dodici documenti tra piani, codici e relazioni da adottare
nel giro di 75 giorni. Tanti ne restano da qui al 31
gennaio, scadenza-simbolo alla quale è ancorata
l'approvazione sia del primo piano anti-corruzione, sia del
programma triennale per l'integrità e la trasparenza.
La situazione è il frutto dell'accavallarsi di una serie di
leggi e norme tutte nate con l'obiettivo di rendere più
trasparente, limpida e corretta l'azione amministrativa:
dalla legge 190/2012 anti-corruzione, ai decreti legislativi
33 e 39 del 2013, rispettivamente sulla trasparenza e
sull'incompatibilità degli incarichi.
Il risultato concreto è che ora le amministrazioni pubbliche
si trovano alle prese con un maxi-ingorgo di adempimenti,
con il rischio che l'adesione a queste norme si trasformi in
un ulteriore diluvio di carta, perdendo di vista gli
obiettivi iniziali. Ma vediamo il calendario.
Appena archiviati gli ultimi due impegni (il 20 ottobre era
il termine ultimo per pubblicare online i dati sull'attività
amministrativa aggregata, mentre il 1° novembre andava
completata la relazione sui servizi accessibili in rete), la
maratona della trasparenza riparte con l'appuntamento del 18
dicembre. Entro questa data, infatti, tutti gli enti
pubblici dovranno dotarsi di un Codice di comportamento
integrativo di quello nazionale. Peccato che le istruzioni
della Civit (appena trasformata in Anac, autorità
anti-corruzione) siano state rese note solo il 7 novembre
scorso. E le questioni controverse sono ancora molte.
Giuliano Palagi, direttore generale della provincia di Pisa
e docente ai corsi sulla legalità, cita il caso dei regali
ai dipendenti pubblici: «Molti si interrogano su dove va
posizionata l'asticella dei regali ammessi».
Chi supera lo scoglio del Codice non ha tempo per tirare il
fiato: oltre ai classici rendiconti e relazioni di fine anno
(tra queste quelle degli organismi interni di valutazione su
come ogni amministrazione sta reagendo agli obblighi di
trasparenza) c'è in vista il traguardo più importante: il
primo Piano triennale di prevenzione della corruzione da
approvare, insieme con il programma triennale per la
trasparenza e l'integrità entro il prossimo 31 gennaio. E,
sempre entro gennaio, va concluso il lavoro anche sul piano
della performance, senza il quale -particolare non da poco- l'ente pubblico non può assumere né distribuire i premi di
risultato.
Facile immaginare l'affanno in cui si trova la gran parte
delle amministrazioni. Le grandi realtà hanno cominciato a
muoversi per tempo (a Milano, per esempio, si lavora al
piano anti-corruzione da febbraio); molto più difficile è la
situazione nei piccoli Comuni che, almeno dal punto di vista
degli adempimenti, non hanno sconti. Ovvio che le adesioni
ai corsi e ai seminari per i tecnici sono massicce: oltre
alle attività del Formez, anche altre associazioni si stanno
muovendo. Sommersa di richieste, per esempio, è Avviso
pubblico, l'associazione che riunisce 240 tra Comuni,
Province e Regioni nata per diffondere la cultura della
legalità e della trasparenza nella Pubblica amministrazione..
«Nei nostri ultimi due seminari gratuiti con Anci Lombardia
abbiamo dovuto chiudere in anticipo le iscrizioni» commenta
il coordinatore nazionale Pierpaolo Romani. L'associazione
offre alle Pa due strumenti concreti: la «Carta di Pisa», un
codice etico già adottato da 22 enti locali, e una matrice
di valutazione del rischio, sperimentata nel comune milanese
di Corsico. Si inseriscono alcuni parametri indicatori della
propria realtà e si riesce così a definire, caso per caso,
gli indici di rischio corruzione nei vari settori.
«Altrimenti il pericolo è di assistere a un generale copia-e-incolla dei piani che vanificherebbe la portata di
questi importanti presidi» sottolinea Romani.
Del resto, proprio la valutazione del rischio richiesta dal
piano anti-corruzione è una novità per la Pa: «Finora era
riservata solo alle assicurazioni -commenta Palagi- e
pochi sanno come impostarla in modo efficace nelle pubbliche
amministrazioni». La traccia da seguire è quella del Piano
nazionale, prediposto dalla Funzione pubblica e approvato
dalla Civit l'11 settembre scorso.
«Sono ottimista, credo che molte amministrazioni
rispetteranno la scadenza di gennaio -prevede Andrea Campinoti, sindaco di Certaldo (Firenze) e presidente di
Avviso pubblico- anche se proprio l'arrivo del Piano
nazionale sta spingendo molti in questo momento a fermarsi
per rivedere il lavoro svolto finora»
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
CONDOMINIO: Via rapida per riscuotere le spese condominiali.
Prima applicazione dell'obbligo di agire entro sei mesi.
Dopo la riforma. All'amministratore non serve più
l'autorizzazione dell'assemblea.
Corsia rapida per recuperare i contributi dai condomini
morosi. L'amministratore, infatti, può ottenere un decreto
di ingiunzione al pagamento immediatamente esecutivo in base
allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea senza
che ci sia bisogno di un'autorizzazione ad hoc da parte
dell'assemblea stessa. Né è necessario mettere in mora
preventivamente il condomino inadempiente, neanche quando lo
preveda una clausola del regolamento di condominio.
Sono
questi alcuni dei profili precisati dalla giurisprudenza
negli ultimi mesi, dopo l'entrata in vigore, lo scorso 18
giugno, delle novità introdotte dalla riforma del condominio
(legge 220 del 2012).
Inoltre, sempre secondo la riforma, l'amministratore deve
agire entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale
il credito esigibile è compreso. Attenzione: nel caso –piuttosto comune– degli esercizi scaduti al 30 giugno, al
termine mancano poche settimane.
La riscossione
In particolare, la riforma ha modificato l'articolo 63 delle
disposizioni di attuazione del Codice civile, in parte
ricalcando una prassi condominiale consolidata. Il nuovo
articolo 63 chiarisce, appunto, che all'amministratore non
occorre l'autorizzazione dell'assemblea per ottenere un
decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante
opposizione, per riscuotere i crediti dai condomini morosi.
Ma il decreto non può essere emesso se la spesa non è stata
prima approvata dall'assemblea. Infatti, perché il giudice
pronunci ingiunzione di pagamento, in base all'articolo 633
del Codice di procedura civile, è necessario che sia dia
prova scritta del diritto fatto valere. Questa prova
scritta, nel caso dei contributi condominiali, è costituita
dal documento da cui risulta l'approvazione da parte
dell'assemblea della relativa spesa.
Il mancato puntuale pagamento delle quote da parte dei
condomini potrebbe creare problemi all'amministratore, non
essendo in grado di fronteggiare gli impegni assunti per
conto dei condòmini. Tuttavia, l'amministratore che non
avvia la procedura esecutiva per riscuotere gli oneri
condominiali dai condomini morosi non commette
automaticamente un atto di cattiva gestione. Infatti,
l'amministratore non è responsabile se prova di avere
notificato ai condomini gli atti di precetto. Poi, il fatto
di non avere intrapreso la procedura esecutiva vera e
propria si giustifica –secondo l'ordinanza 20100 del 2
settembre scorso della Cassazione– sulla base della non
sicura solvibilità dei condomini.
I rapporti con i terzi
La tempestività nella riscossione forzosa delle somme da
parte dell'amministratore, che –in base al nuovo testo
dell'articolo 1129, comma 9, del Codice civile– deve essere
fatta entro sei mesi dalla chiusura del l'esercizio nel
quale il credito esigibile è compreso, evita di esporre i
condomini morosi alle azioni di recupero da parte dei terzi
creditori.
In passato, la responsabilità dei condomini per le
obbligazioni assunte dal condominio seguiva la regola della
solidarietà verso i creditori e della parziarietà nei
rapporti interni. In caso di morosità nei pagamenti di
alcuni condomini per un debito del condominio verso terzi
(ad esempio, per lavori), il creditore poteva agire, per il
recupero del suo credito, per l'intero importo direttamente
nei confronti di un solo condomino il quale, a sua volta,
poteva agire, in via di regresso, pro quota, nei confronti
dei morosi.
La situazione è cambiata dopo la sentenza 9148 del 2008
delle Sezioni unite della Cassazione, che ha introdotto il
principio della parziarietà, per cui le obbligazioni e la
conseguente responsabilità dei condomini sono passate a
essere governate dal criterio della parziarietà: vale a dire
che ogni condomino risponde soltanto per la propria quota di
competenza. Secondo le Sezioni unite, infatti, «considerato
che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché
comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro, che la
solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna
disposizione di legge e che l'articolo 1123 del Codice
civile non distingue il profilo esterno da quello interno
(...), le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei
condomini sono governate dal criterio della parziarietà».
La riforma del condominio ha ora reintrodotto la solidarietà
del debito del condominio, precisando, però, che i creditori
non possono agire nei confronti degli obbligati in regola
con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri
condomini. I creditori devono cioè dimostrare di avere agito
nei confronti del moroso che non vuole pagare e di non
potersi soddisfare sul patrimonio di quest'ultimo prima di
rivolgersi ai condomini in regola.
Inoltre, per rendere il quadro trasparente, l'amministratore
è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti
che lo interpellino i dati dei condomini morosi
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
APPALTI: Il credito certo con la Pa ora «sblocca» il Durc.
Rilascio possibile anche se c'è un debito previdenziale.
Regolarità contributiva. Resta il potere
di riscossione coattiva degli enti coinvolti.
Le aziende che hanno crediti nei confronti della Pubblica
amministrazione non perdono il diritto a ottenere dagli
uffici il documento unico di regolarità contributiva (Durc).
È il chiarimento principale contenuto nella
circolare
21.10.2013 n. 40/2013, emanata dal ministero del Lavoro.
In realtà, le specifiche ministeriali seguono le
disposizioni normative introdotte su questa materia dal Dm
del 13.03.2013 (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 165
del 16.07.2013), che ha dato attuazione al comma 5
dell'articolo 13-bis, del decreto legge 52/2012 (convertito
dalla legge 94/2012): questa norma stabilisce, infatti, che
il Durc «positivo» possa essere rilasciato in presenza di
una certificazione che attesti la sussistenza e l'importo di
crediti certi, liquidi ed esigibili nei confronti delle
pubbliche amministrazioni, di importo almeno pari agli oneri
contributivi accertati e non ancora versati da uno stesso
soggetto.
In sostanza, con questo intervento, è stata finalmente
superata la criticità di ottenere il Durc, per le imprese
che –pur avendo posizioni debitorie nei confronti di Inps,
Inail e/o Casse edili– a loro volta sono creditrici nei
confronti della Pubblica amministrazione.
Il principio generale
Il principio che regola il rilascio del Durc in queste
situazioni, però, è strettamente correlato al regime che
disciplina l'intervento sostitutivo delle stazioni
appaltanti, in caso di irregolarità contributiva
dell'operatore economico. Nell'alveo dei contratti pubblici,
questo principio (articolo 3, comma 1, lettera b), del Dpr
207/2010) comporta che il pagamento dell'importo oggetto di
liquidazione da parte della stazione appaltante in relazione
alla fase del contratto, sia effettuato a favore degli
istituti creditori dei contributi omessi dall'operatore
economico.
Lo stesso meccanismo scatta altresì quando il Durc è stato
richiesto per l'erogazione di sovvenzioni, benefici
normativi e contributivi e altri sussidi. Anche questo
aspetto, infatti, è stato toccato dal Dl 69/2013. Il
ministero del Lavoro, con la circolare 36/2013, ha chiarito
che la Pa deve acquisire il Durc prima di erogare alle
imprese sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi
economici.
La circolare 40/2013 dello stesso ministero sottolinea,
dunque, che: «data la sostanziale posizione debitoria nei
confronti degli Istituti e/o delle Casse edili, gli stessi
conservano tutte le facoltà inerenti il potere sanzionatorio
e di riscossione coattiva previste in caso di inadempimento
dei versamenti contributivi», tra cui, appunto, l'intervento
sostitutivo.
I crediti vanno certificati
Passando invece ai dettagli operativi per ottenere il Durc
in presenza delle situazioni descritte, gli enti
previdenziali e le Casse edili sono tenuti a rilasciare il
documento alle imprese che hanno ottenuto la certificazione
di uno o più crediti nei confronti della Pa. Il presupposto
per poter operare in questo ambito è dunque che i crediti
siano stati certificati, secondo quanto previsto in materia
dalle indicazioni di prassi del ministero dell'Economia e,
in particolare, dalle circolari 35/2012, e 17, 19, 30 del
2013.
La richiesta
Sulle modalità di rilascio, se ci si trova in una delle
ipotesi in cui a richiedere il Durc è un ufficio della Pa,
sarà l'azienda interessata –nella fase di avvio del
procedimento– a dover dichiarare l'esistenza del credito,
indicando la data della certificazione, il numero di
protocollo, l'importo del credito stesso e l'amministrazione
che ha rilasciato la relativa certificazione.
Sarà necessario, inoltre, fornire il codice tramite il quale
potrà essere verificata la certificazione, nella piattaforma
informatica costituita ad hoc: in pratica, si tratta di un
archivio a cui accedono gli Istituti previdenziali e le
Casse edili per verificare l'esistenza del credito.
A livello operativo, senza passare attraverso
l'amministrazione richiedente, la certificazione potrà
essere presentata direttamente agli enti previdenziali e/o
alle Casse edili dall'azienda, nel momento in cui riceve il
preavviso dell'irregolarità (ed entro la scadenza assegnata
per sanarla).
Quando il canale informatico avrà raggiunto la sua piena
funzionalità (la piattaforma deve essere ancora
implementata), l'interessato non dovrà più comunicare agli
enti tutti i dati sulla certificazione, ma saranno
direttamente questi a poterli visualizzare (lo ha precisato
anche l'Inail con la circolare 53/2013 dell'11 novembre).
Gli enti coinvolti nel rilascio del Durc, verificata la
certificazione del credito tramite il sistema della
piattaforma, potranno quindi emettere il documento, che
dovrà riportare la dicitura «Durc ex art. 13-bis, comma 5,
Dl n. 52/2012».
Anche nel caso in cui il Durc sia richiesto direttamente
dall'interessato (usando il portale
www.sportellounicoprevidenziale.it) si possono inviare i
dati tramite posta elettronica certificata (Pec), o con
esibizione agli Istituti e alle Casse.
--------------
Per il saldo lavori il documento va sempre chiesto.
Le regole sul Durc sono in continua evoluzione: l'ultimo
intervento sulla materia è avvenuto con il Dl 69/2013
(convertito dalla legge 98/2013).
Sulla validità, è stato previsto che il Durc acquisito ai
fini dei contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture
abbia una durata di 120 giorni dalla data del rilascio.
Questa disciplina, essendo stata introdotta in sede di
conversione del Dl, è entrata in vigore il 21 agosto scorso
ed è applicabile esclusivamente ai documenti rilasciati a
partire da quella data: quelli emessi prima godono invece di
una validità di 90 giorni, così come previsto dal regime
precedente.
Le modifiche introdotte riguardano poi la previsione in base
alla quale –dopo il primo Durc (richiesto dalla Pa ai
vincitori di gare d'appalto a conferma
dell'autocertificazione del concorrente)– gli enti non
devono richiedere un altro documento di regolarità
contributiva, dopo la stipula del contratto, ma solo al
verificarsi, concretamente, delle ipotesi di pagamento degli
stati di avanzamento lavori e per il certificato di
collaudo, di regolare esecuzione, di verifica di conformità.
In sostanza, viene così meno l'obbligo per le stazioni
appaltanti di acquisire diversi Durc in occasione di ogni
stato di avanzamento lavori ma si realizzano tre distinte
fattispecie, in relazione alle fasi del contratto pubblico.
In base alla prima, il Durc per la verifica della
dichiarazione sostitutiva sulla regolarità contributiva
previsto dall'articolo 38 del Codice dei contratti (Dlgs
163/2006) e quello previsto per l'aggiudicazione e la
stipula del contratto, ha validità di 120 giorni, con
decorrenza dalla data di verifica della dichiarazione
sostitutiva, indicata nel documento.
La seconda casistica si riferisce invece alle fasi
successive alla stipula del contratto: pagamento di fatture
o stati di avanzamento lavori (Sal), certificato di
collaudo, certificato di regolare esecuzione o verifica di
conformità, attestazione di regolare esecuzione.
In questi casi, il Durc è richiesto solo per lo stato di
avanzamento lavori e il certificato di collaudo o di
regolare esecuzione, ferma restando la validità per ogni
documento, confermata a 120 giorni.
Nell'ultima fase, quella del pagamento del saldo finale,
bisogna sempre acquisire un nuovo Durc, poiché non è
prevista l'estensione di validità dei documenti richiesti
nelle fasi precedenti, anche se non ancora scaduti.
L'articolo 31, comma 3, del Dl 69/2013 ha ribadito quanto
già previsto dal regolamento di esecuzione e attuazione del
codice dei contratti pubblici: nell'ipotesi in cui il Durc
segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più
soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le
amministrazioni sono tenute a trattenere dal certificato di
pagamento l'importo corrispondente all'inottemperanza,
versando quanto dovuto dall'appaltatore o dal subappaltatore
direttamente all'Inps, all'Inail o alla Cassa edile
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
TRIBUTI: Bilanci. Caos a dieci giorni dall'adozione dei bilanci, ma
la legge 102/2013 prevede espressamente il ritorno ai vecchi
tributi.
Impossibile lo stop alla Tarsu.
Nonostante la frenata del Governo, i Comuni possono
scegliere fra sei prelievi.
Nel 2013 i Comuni possono applicare sei diverse forme di
prelievo sui rifiuti.
È questo il quadro che emerge dopo
l'approvazione della legge 124/2013. Ma a 10 giorni
dall'adozione dei bilanci sono ancora molti gli enti che non
hanno deciso cosa fare, in attesa di chiarimenti ufficiali
che forse non arriveranno mai. Come la risoluzione
ministeriale che avrebbe dovuto stoppare i Comuni con i
bilanci già approvati, cioè quelli più efficienti ma
penalizzati dall'impossibilità di tornare indietro. Oppure
come l'intervento urgente del Governo, chiesto da più parti
anche alla luce degli ulteriori dubbi alimentati dalla
recente risposta del sottosegretario alle Finanze (si veda
Il Sole 24 Ore del 14 novembre), che mette in discussione la
possibilità di riapplicare i vecchi prelievi (Tarsu, Tia1,
Tia2). Salvo poi affermare, in altra risposta, che i Comuni
passati alla Tarsu possono utilizzare gli stessi codici
tributo della Tares.
Il comma 4-quater dell'articolo 5 è confuso, ma traspare
chiaramente l'intenzione del legislatore di rendere
applicabili i vecchi prelievi. Altrimenti non avrebbe alcun
senso la deroga all'articolo 14, comma 46, del Dl 201/2011 e
l'espresso riferimento al «caso in cui il Comune continui ad
applicare per l'anno 2013 la Tarsu». In sostanza quest'anno
ci sono sei alternative: Tares ordinaria, Tares derogata,
Tares semplificata, Tarsu, Tia1, Tia2.
La prima riguarda i Comuni che applicano integralmente
l'articolo 14 del Dl 201/2011 con i criteri del Dpr 158/1999. Ma
per gli enti a Tarsu il passaggio alla Tares si è rivelato
traumatico, specie per alcune categorie di contribuenti che
si sono viste moltiplicare le tariffe, tanto da causare
sommosse in diversi centri. Da qui l'esigenza di introdurre
alcune deroghe all'impianto originario. Si passa così alla
seconda opzione, quella cioè offerta dal comma 1
dell'articolo 5 del Dl 102/2013, che consente di commisurare
le tariffe sulla base delle quantità e qualità medie
ordinarie di rifiuti, oppure applicando appositi
coefficienti.
Peccato però che il Dipartimento delle Finanze
non ha chiarito che si trattava di criteri alternativi al Dpr 158/1999 e non cumulativi, circostanza che invece viene
precisata nella disciplina del nuovo Trise. Con la
conseguenza di rendere difficilmente applicabile tale
opzione, di fatto superata dalla Tares semplificata
contenuta nella parte centrale del comma 4-quater.
La norma
consente di applicare i costi e le tariffe sulla base dei
criteri previsti nel 2012 (Tarsu, Tia1, Tia2), mantenendo
tuttavia la veste giuridica di Tares. Con l'unico limite di
garantire la copertura integrale dei costi, pur senza
considerare le voci del Dpr 158/1999. Si tratta dell'opzione
al momento più gettonata insieme al ritorno ai vecchi
prelievi. Scelta, quest'ultima, che alletta molto i comuni a Tarsu, che continuerebbero così ad applicare le stesse
tariffe dell'anno scorso senza la necessità di coprire
integralmente i costi del servizio.
Anche il ritorno alla Tia è possibile in virtù della deroga al comma 46, senza che
possa costituire ostacolo il riferimento alla sola Tarsu,
riguardante però il ricorso alla fiscalità generale
dell'ente per coprire i costi eventualmente non coperti dal
gettito della tassa. Indicazione superflua nel caso della
Tia, che agisce nella logica del pareggio costi-ricavi e
deve ovviamente coprire i costi del servizio in conformità
al piano finanziario
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
PATRIMONIO: Federalismo demaniale. Gli effetti dell'«obolo» del 10 per
cento.
L'incognita del Patto frena le alienazioni.
Il 10% dei proventi netti derivanti dalle alienazioni
immobiliari di Comuni e Province va destinato al fondo per
l'ammortamento dei titoli di Stato.
Secondo l'articolo 56-bis, comma 11, del Dl 69/2013 gli enti
territoriali devono destinare al bilancio statale parte
delle risorse nette ricavabili dalla vendita dell'originario
patrimonio immobiliare disponibile, salvo l'obbligo di
utilizzo delle entrate per il ripristino dei limiti massimi
di indebitamento consentiti dall'ordinamento contabile
vigente.
La restante parte di risorse non destinabili al Fondo dovrà
essere utilizzata per la copertura di spese di investimento
oppure, per la parte eccedente, per la riduzione del debito
(articolo 1, comma 443, della legge 228/2012).
Le modalità attuative andranno definite con decreto, ma i
rischi di censura costituzionale della norma sono evidenti.
Già con la sentenza 63 del 26.03.2013, la Consulta ha
dichiarato l'illegittimità di una regola analoga, con cui si
prevedeva questo vincolo di destinazione in caso di vendita
di terreni agricoli regionali.
Resta il fatto che, in assenza di chiarimenti ufficiali, i
bilanci di Comuni e Province dovranno tenere conto della
norma e prevedere uno stanziamento in conto capitale per
l'ammortamento dei titoli di Stato, oppure costituire un
vincolo di destinazione all'eventuale avanzo di
amministrazione 2013.
Occorre tuttavia riflettere su alcune difficoltà
applicative.
La valorizzazione del patrimonio degli enti locali può
infatti comportare la necessità di cessione tramite permuta
dei propri immobili, oppure il loro utilizzo secondo le
finalità fissate dall'articolo 53, comma 6, del Dlgs 163/2006:
in base a questa norma, l'appalto di lavori pubblici può
prevedere, a titolo di corrispettivo totale o parziale, il
trasferimento all'affidatario della proprietà di beni
immobili appartenenti all'amministrazione aggiudicatrice,
In questo caso, l'obbligo di destinazione al bilancio
statale di parte dei proventi derivanti dalle alienazioni
impone la contabilizzazione netta del valore degli immobili,
con evidenti effetti negativi a livello finanziario,
economico e patrimoniale per gli enti cedenti.
Anche sulla cessione di aree Peep (piani di edilizia
economica popolare), in quanto tecnicamente configurabile
alienazione patrimoniale, dovrebbe gravare il vincolo di
destinazione imposto dall'articolo 56-bis.
Poiché i proventi da dismissione patrimoniale costituiscono
entrata rilevante per il calcolo dei saldi finanziari utili
al rispetto del Patto di stabilità interno, occorrerebbe poi
chiarire se anche l'uscita ad essi inerente, ma finalizzata
ad alimentare il Fondo per l'ammortamento dei titolo di
Stato, debba essere considerata, con segno negativo, ai fini
della verifica degli obiettivi di finanza pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
ENTI
LOCALI - PATRIMONIO: Indirette. Da gennaio aumenti del 300%.
Dal registro stangata per gli enti locali.
È destinata a colpire soprattutto gli enti locali la riforma
della tassazione indiretta -Registro e imposte ipocatastali- che dal
01.01.2014 riguarderà i trasferimenti
immobiliari. Per tutte le operazioni dei Comuni non
assoggettate ad Iva la botta sarà pesante: sul versante
delle vendite, ad esempio, non saranno più agevolate le
cessioni di alloggi sociali, di aree Peep e/o Pip, di aree o
opere di urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di
convenzioni di lottizzazione, di immobili di interesse
storico-artistico; sul versante degli acquisti, poi, nuove e
più pesanti aliquote di tassazione riguarderanno tutti gli
acquisti di beni immobili (terreni o fabbricati), compresi
gli espropri e i trasferimenti da privati.
A delineare questo scenario è l'articolo 10 del Dlgs
23/2011, che entrerà in vigore dall'anno prossimo. La norma
modifica radicalmente la tassazione a Registro dei
trasferimenti immobiliari, e incrementa l'imposta fissa da
168 a 200 euro. Nelle operazioni imponibili ad Iva, invece,
non ci saranno modifiche apprezabili, dal momento che per,
effetto della alternativa Iva/Registro, troverà applicazione
l'imposta fissa.
Per la generalità degli atti, l'aliquota base passa dall'8
al 9 per cento; l'unica deroga riguarderà le prime case non
di lusso, il cui trasferimento sconterà un'aliquota che
passa dal 3 al 2 per cento. Tutte le altre ipotesi di
tassazione dei trasferimenti immobiliari previste
dall'articolo 1 della Tariffa, parte I° -di solito più
favorevoli rispetto all'aliquota dell'8%- vengono abrogate.
Allo stesso tempo, l'articolo 10 sopprime tutte le ulteriori
agevolazioni, e introduce un minimo fisso da mille euro per
i trasferimenti immobiliari.
Altre novità sono state poi introdotte dall'articolo 26 del
Dl 104/2013. Per i soli trasferimenti immobiliari, dal 1°
gennaio le attuali imposte ipotecarie e catastali verranno
sostituite da una tassa fissa di 50 euro per ognuna delle
due imposte; nelle altre ipotesi di tassazione l'imposta
fissa, oggi fissata in 168 euro per ognuna delle tre imposte
(Registro, ipotecaria e catastale), aumenta a 200 euro.
Queste novità rivoluzionano l'articolo 1 della Tariffa, che
ora prevede due sole ipotesi di tassazione a Registro degli
atti di trasferimenti della proprietà e dei diritti reali su
immobili: l'aliquota ordinaria passa dall'8 al 9%, e resta
una sola aliquota ridotta per i trasferimenti di prime case
non di lusso, che passa dal 3 al 2%: resta in ogni caso
ferma la misura minima di 1000 euro: una tassazione che
risulta quanto mai regressiva e penalizzante in relazione ai
tanti provvedimenti di esproprio di modesto importo. La
costituzione di un diritto di servitù o l'esproprio di un
reliquato stradale da poche centinaia di euro subirà aumenti
di tassazione anche oltre il 300%.
A colpire gli enti locali è anche l'abrogazione di molti
"regimi speciali". Rispetto all'attuale imposta fissa di
Registro, verrà applicata l'aliquota proporzionale del 9%
sugli atti di trasferimento di aree Peep o Pip, le
concessioni del diritto di superficie, le cessioni gratuite
di aree a Comuni, atti e contratti di attuazione di
programmi di edilizia residenziale, gli espropri di aree
produttive, gli atti di redistribuzione immobiliare e le
operazioni di ricomposizione fondiaria. Stesso incremento di
aliquote per le cessioni di aree o opere a scomputo: dato
atto che l'articolo 51 della legge 342/2000 esclude da Iva
le cessioni nei confronti dei Comuni di aree od opere di
urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di
lottizzazione. Dal 2014 l'agevolazione sarà ridotta per
effetto dell'inasprimento dell'aliquota di Registro, che
compenserà quasi del tutto l'esclusione da Iva di queste
operazioni.
Molti aumenti colpiranno poi le cessioni di alloggi sociali
non soggette ad Iva da parte di Comuni e Iacp, che al posto
del Registro fisso di 168 euro sconteranno 100 euro di
ipotecaria e catastale più il 2% di Registro
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rispetto del divieto
di edificazione di cui all'art. 338, t.u. leggi sanitarie
27.07.1934 n. 1265, va calcolato con riferimento ad una
fascia di rispetto di 200 metri, misurata dal muro di cinta
del cimitero, ed entro tale fascia è da escludersi qualsiasi
intervento edificatorio, anche se realizzabile in attuazione
di atti di natura urbanistica.
---------------
Non può considerarsi edificabile un suolo rientrante nella
zona di rispetto cimiteriale, ed assoggettato al relativo
vincolo, trattandosi di limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del
bene e non suscettibile di deroghe di fatto, siccome
riconducibile a previsione generale, concernente tutti i
cittadini, in quanto proprietari di beni che si trovino in
una determinata situazione, e perciò individuabili "a
priori".
---------------
La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338
t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire
dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo
assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a
contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che
non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che
di opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che sono da
individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale
vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai
fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del
vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200
metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la
continuità del vincolo.
Ed invero: “il rispetto del divieto di
edificazione di cui all'art. 338, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, va calcolato con riferimento ad una
fascia di rispetto di 200 metri, misurata dal muro di cinta
del cimitero, ed entro tale fascia è da escludersi qualsiasi
intervento edificatorio, anche se realizzabile in attuazione
di atti di natura urbanistica" (Consiglio di Stato, sez. IV,
n. 1645 del 2011; meno recentemente ma nello stesso senso,
v. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4403 del 2011).
Analogamente la giurisprudenza civile ha ritenuto, in tema
di determinazione di indennità espropriativa, che “Non può
considerarsi edificabile un suolo rientrante nella zona di
rispetto cimiteriale, ed assoggettato al relativo vincolo,
trattandosi di limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del
bene e non suscettibile di deroghe di fatto, siccome
riconducibile a previsione generale, concernente tutti i
cittadini, in quanto proprietari di beni che si trovino in
una determinata situazione, e perciò individuabili "a
priori"” ….” (Cass. civ. sez. I, n. 25364/2006).
Né appare potersi derogare a detti principi considerando che
tra il muro del cimitero e l’area degli appellati esiste
nella fattispecie una grande strada comunale; la “ratio” del
vincolo non risiede nella sola tutela delle prospettive di
ampliamento ma anche in ragioni di igiene che suggeriscono
di tenere le abitazioni sufficientemente distanti dai luoghi
cimiteriali.
Del resto, con specifico riferimento
all’esistenza di una strada pubblica che interseca l’area di
rispetto, la giurisprudenza della Sezione ha già affermato
che: “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art.
338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a
partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un
vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a
contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che
non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che
di opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che sono da
individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale
vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai
fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del
vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200
metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la
continuità del vincolo” (Consiglio di Stato, sez. IV, n.
4403 del 2011)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5571 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di rilascio del permesso di costruire
l'amministrazione non è tenuta a svolgere complessi
accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare
le limitazioni negoziali al diritto di costruire, e in
specie, verificata l'esistenza di un titolo (in se
incontestato) costitutivo di servitù di passaggio carrabile
e pedonale a favore del fondo dominante, e come tale idoneo
a legittimare la domanda di permesso di costruire, non è
tenuta ad operare approfondimenti in ordine alle modalità di
esercizio dello jus in re aliena, al fine di valutare se le
opere edilizie, finalizzate all'esercizio della servitù,
modificative e/o sostitutive di altre opere preesistenti,
costituiscano innovazioni più o meno gravose, e quindi
escluse ai sensi degli artt. 1065 e 1069 cod. civ., tenuto
conto che il permesso è rilasciato con salvezza dei diritti
dei terzi, con la connessa facoltà del proprietario del
fondo servente di agire dinanzi alla competente autorità
giurisdizionale ordinaria per far dichiarare l'illiceità
delle nuove e più gravose modalità di esercizio, ai sensi
dell'art. 1079 cod. civ..
In sede di rilascio del permesso di
costruire l'amministrazione non è tenuta a svolgere
complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le
vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a
ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire
(cfr. Cons. Stato. Sez. IV, 08.06.2011 n. 3508 e 10.12.2007, n. 6332), e in specie, verificata l'esistenza
di un titolo (in se incontestato) costitutivo di servitù di
passaggio carrabile e pedonale a favore del fondo dominante,
e come tale idoneo a legittimare la domanda di permesso di
costruire (principio affatto pacifico secondo giurisprudenza
risalente: cfr. Cons. Stato, Sez. IV 16.03.1984 n. 141)
non è tenuta ad operare approfondimenti in ordine alle
modalità di esercizio dello jus in re aliena, al fine di
valutare se le opere edilizie, finalizzate all'esercizio
della servitù, modificative e/o sostitutive di altre opere
preesistenti, costituiscano innovazioni più o meno gravose,
e quindi escluse ai sensi degli artt. 1065 e 1069 cod. civ.,
tenuto conto che il permesso è rilasciato con salvezza dei
diritti dei terzi, con la connessa facoltà del proprietario
del fondo servente di agire dinanzi alla competente autorità
giurisdizionale ordinaria per far dichiarare l'illiceità
delle nuove e più gravose modalità di esercizio, ai sensi
dell'art. 1079 cod. civ. (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5563 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il carattere conformativo dei vincoli non dipende
dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura
e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare
tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili
nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di
parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni,
nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti,
in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i
beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche
intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con
un'opera pubblica.
Di contro il vincolo, se incide su beni determinati, in
funzione non già di una generale destinazione di zona, ma
della localizzazione di un'opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata,
deve essere qualificato come preordinato alla relativa
espropriazione.
Il carattere conformativo dei vincoli non
dipende dalla collocazione in una specifica categoria di
strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti
oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi,
ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi
vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero
territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di
una generalità di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione
dell'intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle
sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più
spaziale, con un'opera pubblica; di contro il vincolo, se
incide su beni determinati, in funzione non già di una
generale destinazione di zona, ma della localizzazione di
un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere
con la proprietà privata, deve essere qualificato come
preordinato alla relativa espropriazione (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV 30.07.2012 n. 4321; Consiglio di Stato,
Sez. IV 19.01.2012 n. 244)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale di inedificabilità viene
ad imporsi ex se, con efficacia diretta ed immediata,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla esistenza o sui limiti di tal
vincolo.
---------------
Poiché sia la disposizione di cui all'art. 338, primo comma,
del testo unico approvato col R.D. n. 1265/1934, sia quella
di cui all'art. 57 del D.P.R. n. 285/1990, dispongono il
divieto di costruire o ampliare edifici intorno ai cimiteri,
imponendo una fascia di rispetto, si deve ritenere che tali
disposizioni determinino il regime giuridico delle aree
rientranti nella fascia di rispetto cimiteriale e si
applichino indipendentemente da quale sia la loro
destinazione prevista dal piano regolatore.
---------------
La giurisprudenza amministrativa si è orientata per la
necessità di rispettare il vincolo cimiteriale anche nelle
fattispecie di riedificazione di edifici preesistenti e
distrutti anche antecedentemente alla data imposizione del
vincolo.
Tale orientamento muove dal concetto per cui la
riedificazione di un edificio distrutto, comportando
necessariamente la demolizione dei resti, ha natura di nuova
costruzione; se così è, deve rilevarsi che tale tipologia
non è assolutamente collocabile su aree di rispetto
cimiteriale, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che detto vincolo assoluto intende tutelare.
Inoltre, il divieto in parola “è riferibile ad ogni tipo di
fabbricato o di costruzione … rendendo del tutto
inedificabile l'area colpita dal divieto medesimo".
Il ricorso incidentale è
fondato, alla luce del motivo in esame, che ha carattere
assorbente.
Preliminarmente, e con riferimento alla
previsione dell’intervento da parte del PUC (che secondo la
ricorrente eviterebbe l’incidenza negativa del vincolo
cimiteriale), il Collegio deve ricordare che la
giurisprudenza si è da tempo orientata verso il principio
opposto, per cui “il vincolo cimiteriale di inedificabilità
viene ad imporsi ex se, con efficacia diretta ed immediata,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla esistenza o sui limiti di tal
vincolo” (Cons. di Stato, sez. V, n. 519/1996).
Ed ancora è
stato sottolineato che: “Poiché sia la disposizione di cui
all'art. 338, primo comma, del testo unico approvato col
R.D. n. 1265/1934, sia quella di cui all'art. 57 del D.P.R.
n. 285/1990, dispongono il divieto di costruire o ampliare
edifici intorno ai cimiteri, imponendo una fascia di
rispetto, si deve ritenere che tali disposizioni determinino
il regime giuridico delle aree rientranti nella fascia di
rispetto cimiteriale e si applichino indipendentemente da
quale sia la loro destinazione prevista dal piano regolatore"
(Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4415/2007).
Nello specifico, poi, rileva il Collegio che la
giurisprudenza amministrativa si è orientata per la
necessità di rispettare il vincolo cimiteriale anche nelle
fattispecie di riedificazione di edifici preesistenti e
distrutti anche antecedentemente alla data imposizione del
vincolo. Tale orientamento muove dal concetto per cui la
riedificazione di un edificio distrutto, comportando
necessariamente la demolizione dei resti, ha natura di nuova
costruzione (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 2020/2011); se
così è, deve rilevarsi che tale tipologia non è
assolutamente collocabile su aree di rispetto cimiteriale,
in considerazione dei molteplici interessi pubblici che
detto vincolo assoluto intende tutelare (Cons. di Stato,
sez. V, n. 1933/2007). Inoltre, il divieto in parola “è
riferibile ad ogni tipo di fabbricato o di costruzione …
rendendo del tutto inedificabile l'area colpita dal divieto
medesimo" (Cons. di Stato, sez. II, n. 3031/1996)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5544 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
c.d. “sdemanializzazione tacita” di una strada è altro
discorso, dovendosi considerare, a tale proposito, che
secondo la giurisprudenza tale evenienza ricorre solo
quando, oltre al prolungato disuso di un bene demaniale da
parte dell’ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza
osservata da quest’ultimo rispetto ad una occupazione da
parte di privati, si constati l’esistenza di comportamenti
inequivocabili ed incompatibili con la volontà di conservare
quella destinazione, così da non lasciare adito ad altre
ipotesi se non a quella che l’Amministrazione abbia
definitivamente rinunciato al ripristino del bene pubblico.
Che “la via vecchia di Novi Ligure” non sia
stata, per decenni, utilizzata in tutta la sua lunghezza
quale via pubblica, ossia quale viabilità di collegamento
con altre strade pubbliche, non pare dunque seriamente
contestabile.
Che detta circostanza abbia comportato anche la c.d.
“sdemanializzazione tacita” della strada è invece altro
discorso, dovendosi considerare, a tale proposito, che
secondo la giurisprudenza tale evenienza ricorre solo
quando, oltre al prolungato disuso di un bene demaniale da
parte dell’ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza
osservata da quest’ultimo rispetto ad una occupazione da
parte di privati, si constati l’esistenza di comportamenti
inequivocabili ed incompatibili con la volontà di conservare
quella destinazione, così da non lasciare adito ad altre
ipotesi se non a quella che l’Amministrazione abbia
definitivamente rinunciato al ripristino del bene pubblico
(ex multis: C.d.S. sez. V, 30.11.2011 n. 6338) (TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza 22.11.2013 n. 1251
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In caso di risarcimento dei danni, la somma
complessivamente liquidata in sentenza a titolo di
risarcimento, va incrementata con la rivalutazione monetaria
secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito di valore
con decorrenza dalla data in cui si è verificato il danno
(ovvero, nel caso di specie, in cui è stato revocato
l’appalto), fino al deposito della decisione: a decorrere da
tale momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale,
il debito di valore si trasforma in debito di valuta.
Inoltre, spettano gli interessi nella misura legale dalla
data di pubblicazione della sentenza di condanna fino al
soddisfo.
Si tratta in entrambi i casi di conseguenze automatiche
direttamente discendenti dalla condanna al risarcimento del
danno, a differenza della condanna al pagamento degli
ulteriori interessi compensativi che, invece, deve essere
appositamente oggetto di domanda giudiziale e che non è
stata comunque riconosciuta dall’ottemperanda sentenza.
Infatti, la rivalutazione monetaria e gli interessi
costituiscono una componente dell'obbligazione di
risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal
giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, pur se non
specificamente richiesti (ovvero richiesti per la prima
volta durante il corso della verificazione), atteso che essi
devono ritenersi compresi nell'originario petitum della
domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente
esclusi.
Secondo il Collegio, come esattamente rilevato nel presente ricorso
per l’ottemperanza, in caso di risarcimento dei danni, la
somma complessivamente liquidata in sentenza a titolo di
risarcimento, va incrementata con la rivalutazione monetaria
secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito di valore
con decorrenza dalla data in cui si è verificato il danno
(ovvero, nel caso di specie, in cui è stato revocato
l’appalto), fino al deposito della decisione: a decorrere da
tale momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale,
il debito di valore si trasforma in debito di valuta.
Inoltre, spettano gli interessi nella misura legale dalla
data di pubblicazione della sentenza di condanna fino al
soddisfo.
Si tratta in entrambi i casi di conseguenze automatiche
direttamente discendenti dalla condanna al risarcimento del
danno, a differenza della condanna al pagamento degli
ulteriori interessi compensativi che, invece, deve essere
appositamente oggetto di domanda giudiziale e che non è
stata comunque riconosciuta dall’ottemperanda sentenza
(cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, n. 550/2011 e
Sez. VI, n. 3144/2009).
Infatti, la rivalutazione monetaria e gli interessi
costituiscono una componente dell'obbligazione di
risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal
giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, pur se non
specificamente richiesti (ovvero richiesti per la prima
volta durante il corso della verificazione), atteso che essi
devono ritenersi compresi nell'originario petitum
della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati
espressamente esclusi (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
23.02.2012, n. 1052) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2013 n.
5471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ legittima la sua collocazione in zona agricola
in quanto l’impianto di distribuzione di carburanti per la
sua natura di opera di urbanizzazione secondaria può essere
collocato, salvo particolari ragioni, in qualsiasi parte del
territorio comunale.
E’ legittima la sua collocazione in zona agricola in quanto
l’impianto di distribuzione di carburanti per la sua natura
di opera di urbanizzazione secondaria può essere collocato,
salvo particolari ragioni, in qualsiasi parte del territorio
comunale (C. di S., V, 23.01.2007, n. 192) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2013 n.
5469 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il preliminare di vendita legittima il
promissario a richiedere il permesso di costruire sul fondo
Il preliminare di vendita legittima il promissario a
richiedere il permesso di costruire sul fondo (C. di S., IV,
27.04.2005, n. 1947) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2013 n.
5469 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: Pur
rivestendo, “in subiecta materia”, un rilievo determinante
l’attività preparatoria dell’U.T.C., circa il sito ritenuto
più idoneo per la realizzazione dell’isola ecologica– pur
tuttavia, la concreta adozione della conseguente
determinazione esuli dalle competenze immediatamente
riferibili ai dirigenti, ai sensi delle richiamate
disposizioni del d. l.vo 267/2000, essendo il Tribunale, in
tale decisione, confortato dalla massima, in termini, che
segue: “L’approvazione del progetto e la localizzazione di
un impianto di smaltimento di rifiuti esulano dal mero
esercizio della funzione tecnico-amministrativa spettante al
dirigente per ricadere nell’ambito più ampio della funzione
di indirizzo e di programmazione, affidata all’organo
elettivo, quantomeno in relazione alla scelta discrezionale
del sito”.
Tanto stabilito, va respinta la prima
censura dei motivi aggiunti de quibus, con la quale s’è
denunziata l’incompetenza della G.M. a licenziare la
deliberazione gravata, ai sensi degli artt. 48 e 107 del T.U.E.L. (atto che rientrerebbe, ad avviso dei ricorrenti,
nelle dirette competenze dell’ufficio tecnico comunale); al
riguardo, ritiene il Tribunale che –pur rivestendo, “in subiecta materia”, un rilievo determinante l’attività
preparatoria dell’U.T.C., circa il sito ritenuto più
idoneo per la realizzazione dell’isola ecologica– pur
tuttavia, la concreta adozione della conseguente
determinazione esuli dalle competenze immediatamente
riferibili ai dirigenti, ai sensi delle richiamate
disposizioni del d. l.vo 267/2000, essendo il Tribunale, in
tale decisione, confortato dalla massima, in termini, che
segue: “L’approvazione del progetto e la localizzazione di
un impianto di smaltimento di rifiuti esulano dal mero
esercizio della funzione tecnico-amministrativa spettante al
dirigente per ricadere nell’ambito più ampio della funzione
di indirizzo e di programmazione, affidata all’organo
elettivo, quantomeno in relazione alla scelta discrezionale
del sito” (TAR Lazio – Sez. I, 22/05/2000, n. 4176)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 20.11.2013 n. 2290 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Poiché
il piano di recupero, inteso quale strumento urbanistico
attuativo, è equivalente al piano particolareggiato
esecutivo lo stesso deve intendersi del pari soggetto al
medesimo limite d’efficacia temporale (10 anni).
---------------
In giurisprudenza, per la descrizione degli effetti
conseguenti allo spirare del termine decennale di efficacia
dei piani particolareggiati, tra cui va compreso, come detto
sopra, quello di recupero, si è affermato:
● Il piano
per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall’art.
27. l. n. 865/1971 è uno strumento urbanistico di natura
attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di
approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di
esecuzione. Come tale, trascorsi i dieci anni,
l’Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello
stesso, potendo invece unicamente valutare l’opportunità di
predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione
della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata.
Pertanto alla scadenza del termine di dieci anni
legislativamente previsto, la inefficacia del piano è un
effetto automatico di legge che, segnando il venir meno dei
presupposti per il perfezionamento dell’espropriazione,
rende dovuta la revoca dell’assegnazione previamente
disposta dell’area destinata alla realizzazione del detto
P.I.P. e la restituzione al proprietario, di tal che la
stessa revoca non presenta profili di discrezionalità;
●
in tema di piano di lottizzazione: “Con il decorso del
termine di dieci anni diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano di lottizzazione che non hanno avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con le prescrizioni del piano
attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte
ha efficacia ultrattiva”.
S’osserva, infatti, che l’art. 16 della l.
1150/1942, rubricato “Approvazione dei piani
particolareggiati” (articolo abrogato dall’art. 58, D. Lgs.
08.06.2001, n. 325, con la decorrenza indicata nell’art.
59 dello stesso decreto e dall’art. 58, d. P. R. 08.06.2001, n. 327, come modificato dall’art. 5, comma 1, l.
01.08.2002, n. 166, ma solo “limitatamente alle norme
riguardanti l’espropriazione” e con la decorrenza indicata
nell’art. 59 dello stesso decreto), prevede al comma 5: “Col
decreto di approvazione sono decise le opposizioni e sono
fissati il tempo, non maggiore di anni 10, entro il quale il
piano particolareggiato dovrà essere attuato ed i termini
entro cui dovranno essere compiute le relative
espropriazioni”.
Poiché il piano di recupero, inteso quale strumento
urbanistico attuativo, è equivalente al piano
particolareggiato esecutivo (cfr., ex multis, TAR
Campania–Napoli, Sez. VIII, 09/12/2010, n. 27126; TAR
Sicilia–Palermo, Sez. II, 28/01/1998, n. 81) lo stesso
deve intendersi del pari soggetto al suddetto limite
d’efficacia temporale.
Per di più –stante in ogni caso la vigenza e la cogenza del
termine, in tal modo legislativamente fissato– nel decreto
di approvazione dei Piani di Recupero dei Centri Storici di Castellabate Capoluogo, S. Maria e S. Marco, prot. 12407 del
28.02–27.05.2002, a firma del Responsabile del Servizio
Urbanistica del Comune di Castellabate, in atti, per quanto
qui rileva è stabilito, conformemente al dettato di legge,
quanto segue: “Si è deciso di: (…) approvare i Piani di
Recupero dei Centri Storici di Castellabate Capoluogo, S.
Maria e S. Marco; stabilire in anni dieci il termine entro
il quale il P. di R. dovrà essere attuato; stabilire in anni
cinque il termine entro il quale dovranno essere compiute le
espropriazioni previste”.
In giurisprudenza, per la descrizione degli effetti
conseguenti allo spirare del termine decennale di efficacia
dei piani particolareggiati, tra cui va compreso, come detto
sopra, quello di recupero, si legga, da ultimo, la massima
che segue: “Il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall’art. 27. l. n. 865/1971 è uno strumento
urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia
decennale dalla data di approvazione ed avente valore di
piano particolareggiato di esecuzione. Come tale, trascorsi
i dieci anni, l’Amministrazione non può disporre alcuna
proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare
l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con
conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria
attuativa rimasta inattuata. Pertanto alla scadenza del
termine di dieci anni legislativamente previsto, la
inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che,
segnando il venir meno dei presupposti per il
perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca
dell’assegnazione previamente disposta dell’area destinata
alla realizzazione del detto P.I.P. e la restituzione al
proprietario, di tal che la stessa revoca non presenta
profili di discrezionalità” (TAR Lazio–Roma, Sez. I,
02/10/2013, n. 8551); cfr. anche, in tema di piano di
lottizzazione, la seguente ulteriore decisione: “Con il
decorso del termine di dieci anni diventano inefficaci
unicamente le previsioni del piano di lottizzazione che non
hanno avuto concreta attuazione, nel senso che non è più
consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità
di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni
del piano regolatore generale e con le prescrizioni del
piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa
parte ha efficacia ultrattiva” (Consiglio di Stato – Sez. IV,
04/12/2007, n. 6170) (TAR Campania-Salerno,
Sez. I,
sentenza 20.11.2013 n. 2284 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: L'adottata
delibera di giunta comunale ha stabilito che “tra le
competenze professionali dei geometri e dei geometri
laureati iscritti al Collegio professionale, possa rientrare
la progettazione e direzione dei lavori di modeste
costruzioni almeno fino a mc. 1500 adottando quindi il
criterio tecnico-qualitativo in relazione alle
caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere
caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi
sia pur con la presenza del cemento armato, che non
richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche,
riservate per legge ad un diverso professionista, con
esclusione di ogni ulteriore aggravio procedimentale a
carico del richiedente”.
Orbene, l’impugnata deliberazione comunale deve farsi
rientrare nell’ambito degli atti d’indirizzo
politico-amministrativo con i quali gli organi politici
degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta) fissano le
linee generali cui gli uffici devono attenersi
nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali.
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì
evidenziare che la deliberazione in esame non assume
carattere vincolante per gli uffici amministrativi cui essa
è rivolta, atteso che questi dovranno pur sempre verificare,
in base alla normativa di riferimento, se i progetti
sottoposti al loro esame rientrino nella competenza
professionale dei geometri, sulla scorta delle
caratteristiche dell’opera da realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel
caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera
impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della
determinazione della competenza professionale dei geometri
in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un
limite quantitativo entro il quale una costruzione in
conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da
un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la
progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri
rimane comunque subordinata all’applicazione del
fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del
quale il progetto non deve implicare la soluzione di
problemi particolari (devoluti esclusivamente ai
professionisti di rango superiore) con riguardo alla
struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive.
---------------
... per
l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della
delibera di giunta comunale del Comune di Torri del Benaco
in data 09.07.2012, n. 96, recante indirizzi in tema di
competenze professionali dei geometri; nonché di ogni atto
annesso, connesso o presupposto.
...
Con l’odierno gravame, l’Ordine degli Ingegneri di Verona e
Provincia ha adito l’intestato Tribunale per chiedere
l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della
delibera del Comune di Torri del Benaco in data 09.07.2012,
n. 96, con la quale la giunta comunale ha stabilito che “tra
le competenze professionali dei geometri e dei geometri
laureati iscritti al Collegio professionale, possa rientrare
la progettazione e direzione dei lavori di modeste
costruzioni almeno fino a mc. 1500 adottando quindi il
criterio tecnico-qualitativo in relazione alle
caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere
caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi
sia pur con la presenza del cemento armato, che non
richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche,
riservate per legge ad un diverso professionista, con
esclusione di ogni ulteriore aggravio procedimentale a
carico del richiedente”.
Nei confronti dell’impugnata delibera, parte ricorrente ha
eccepito, in via principale, la carenza assoluta di potere
in capo alla giunta comunale per aver esercitato de facto
funzioni a carattere normativo in tema di competenze
professionali, in assenza di una norma attributiva di tale
potere; in subordine, è stata dedotta la violazione di legge
e l’eccesso di potere nelle forme dell’illogicità, dello
sviamento di potere e del difetto di motivazione.
...
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente ha
asserito la nullità dell’impugnata deliberazione per il
difetto assoluto di attribuzione, deducendo che la giunta
comunale avrebbe esercitato de facto funzioni a carattere
normativo in tema di competenze professionali, in assenza di
una norma attributiva di tale potere.
Il motivo è infondato e, pertanto, deve essere rigettato.
Infatti, ad avviso del Collegio, l’impugnata deliberazione
comunale deve farsi rientrare nell’ambito degli atti
d’indirizzo politico-amministrativo con i quali gli organi
politici degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta)
fissano le linee generali cui gli uffici devono attenersi
nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. V, 07.04.2011, n. 2154).
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì
evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto da parte
ricorrente, la deliberazione in esame non assume carattere
vincolante per gli uffici amministrativi cui essa è rivolta,
atteso che questi dovranno pur sempre verificare, in base
alla normativa di riferimento, se i progetti sottoposti al
loro esame rientrino nella competenza professionale dei
geometri, sulla scorta delle caratteristiche dell’opera da
realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel
caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera
impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della
determinazione della competenza professionale dei geometri
in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un
limite quantitativo entro il quale una costruzione in
conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da
un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la
progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri
rimane comunque subordinata all’applicazione del
fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del
quale il progetto non deve implicare la soluzione di
problemi particolari (devoluti esclusivamente ai
professionisti di rango superiore) con riguardo alla
struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive (cfr.,
ex multis, Cass. Civ., sez. II, 27.01.1988, n. 736;
Cons. St., sez. V, 03.10.2002, n. 5208).
Deve, altresì, essere respinto il secondo motivo di
ricorso con cui parte ricorrente deduce che la normativa
di specie escluderebbe in toto la competenza del geometra in
ordine alla progettazione di costruzioni civili in cemento
armato, posto che il d.lgs. 13.12.2010, n. 212 ha abrogato
il r.d. 16.11.1939, n. 2229, ai sensi del quale “Ogni
opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui
stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle
persone, deve essere costruita in base ad un progetto
esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto
iscritto all’albo”.
Va, infine, rigettata la censura con la quale l’ordine
professionale ricorrente ha rilevato il difetto di
motivazione della delibera in esame, avendo invero la giunta
comunale accuratamente specificato le ragioni sottese
all’adozione di tale atto
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 20.11.2013 n. 1312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, in società paga l'eco-addetto.
Responsabilità penale in chiaro.
Sì alla responsabilità penale del delegato ambientale di una
società per il trattamento non autorizzato dei rifiuti. Una
volta provata la sussistenza delle condizioni richieste per
il rilascio della delega di funzioni in materia ambientale,
la responsabilità penale del delegato non è in discussione.
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di
Cassazione –Sez. III penale– con la sentenza 19.11.2013 n. 46237.
Il fatto in concreto: risultava che
il deposito dei rifiuti era avvenuto sia all'interno di una
vasca di decantazione, ove erano stati rinvenuti fanghi
induriti, sia, mediante tubazione, nelle acque del torrente Bugliesina, ove erano stati rinvenuti, sulla scorta delle
analisi sul campioni prelevati il 30.09.2008,
tensioattivi, ossia sostanzialmente di detersivi. I giudici
di cassazione ricordano che è stata ritenuta la rilevanza
penale della delega di funzioni e, conseguentemente, la
responsabilità dell'imputato, quale delegato all'ambiente
per il reato di cui all'art. 256 dlgs 03.04.2013 n. 152.
Gli ermellini poi evidenziano anche i rapporti tra la
contravvenzione di cui all'art. 674 codice penale e il reato
ambientale: «Il reato di getto pericoloso di cose può
concorrere con i reati di gestione non autorizzata di
rifiuti (art. 256, dlgs. 03.04.2006, n. 152) e di scarico
di reflui industriali senza autorizzazione (art. 137, dlgs.
03.04.2006, n. 152), purché si accerti la potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il getto avvenga
in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato di
comune o altrui uso».
Ricordiamo anche come la sentenza del
26.02.2013 n. 9187 la Corte di cassazione stabilì che
il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti previsto
dall'articolo 256 del dlgs 152/2006 non richiede la
continuità dell'attività illecita e si configura anche a
seguito di una condotta occasionale. Gli ermellini affermano
la configurabilità del reato di trasporto illecito dei
rifiuti anche nel caso di attività occasionale
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare
comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio
del procedimento diretto al rilascio di concessione
edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal
provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia
del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere
difficilmente individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Con riguardo alla pretesa
della comunicazione e alle esigenze di partecipazione dei
vicini (Consiglio Stato sez. IV, 31.07.2009, n. 4847)
non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare
comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio
del procedimento diretto al rilascio di concessione
edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal
provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia
del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere
difficilmente individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2013 n. 5454 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed
analitica ove si concluda in senso sfavorevole
all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della
verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare
per relationem con riferimento alle giustificazioni
presentate dal concorrente (sempre che a loro volta
adeguate).
Il quarto motivo di ricorso è infondato in
quanto la giurisprudenza ha chiarito che il giudizio di
anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove
si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non
si richiede, di contro, una motivazione analitica
nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia,
nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con
riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente
(sempre che a loro volta adeguate) (C.d.S, V, 29/02/2012 n.
1183) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.11.2013 n. 991 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti, il costo del lavoro rileva solo per l'anomalia.
In appalto pubblico è vietato prevedere l'esclusione
dell'offerente in caso di mancata dichiarazione del rispetto
dei contratti collettivi di lavoro e delle norme
previdenziali; il rispetto delle norme sul costo del lavoro
rileva invece ai soli fini della verifica di anomalia
dell'offerta.
È quanto afferma il TAR Campania-Napoli,
Sez. IV, con
la
sentenza 15.11.2013 n. 5143 rispetto a una
clausola di un bando di gara che imponeva ai concorrenti, a
pena di esclusione dalla gara, di rendere una dichiarazione
sul rispetto dell'art. 86 del codice dei contratti pubblici.
In particolare la stazione appaltante aveva previsto
l'obbligo di dichiarare che l'offerta fosse formulata
«considerando il costo del lavoro calcolato sulla base dei
valori economici previsti dalla contrattazione collettiva e
dalle norme in materia previdenziale e assistenziale
applicabili».
La stazione appaltante aveva disposto
l'esclusione ma il Tar annulla il provvedimento: l'omissione
della dichiarazione, si legge nella sentenza, non integra
alcuna delle cause di esclusione tassativamente previste dal
comma 1-bis dell'articolo 46 del codice dei contratti
pubblici, non essendo espressamente prevista
dall'ordinamento vigente.
La dichiarazione relativa al costo
del lavoro attiene solo alla valutazione di possibile
anomalia dell'offerta ex art. 86 codice di contratti
pubblici, da effettuare, se del caso, in un momento
successivo della procedura, cioè in sede di verifica
dell'anomalia. Semmai la stazione appaltante potrebbe
comunque chiedere al concorrente di sanare l'omissione
mediante richiesta di integrazione ex art. 46, comma 1 del
codice dei contratti pubblici. Per i giudici, quindi, dal
punto di vista sostanziale, l'aspetto del costo del lavoro
ai fini dell'anomalia dell'offerta non assume significato
determinante tale da comportare l'esclusione.
Infatti,
secondo giurisprudenza, il mancato rispetto dei limiti
tabellari afferenti il costo del lavoro o, in mancanza, dei
valori indicati dalla contrattazione collettiva, non
determina l'automatica esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa alla quale si imputa tale trasgressione, ma
costituisce un importante indice di anomalia dell'offerta,
che dovrà essere verificata mediante un giudizio complessivo
di remuneratività, in contraddittorio con l'offerente
(articolo ItaliaOggi del
20.11.2013). |
URBANISTICA:
I piani attuativi approvati dal comune devono essere
inviati, in copia, in regione. A rischio di
incostituzionalità anche l'art. 14 della L.R. lombarda n. 12/2005??
L’art. 24 della
legge n. 47 del 1985, compreso nel Capo II, relativo allo
snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie,
testualmente dispone: «Salvo che per le aree e per gli
ambiti territoriali individuati dalle regioni come di
interesse regionale in sede di piano territoriale di
coordinamento o, in mancanza, con specifica deliberazione,
non è soggetto ad approvazione regionale lo strumento
attuativo di strumenti urbanistici generali, compresi i
piani per l’edilizia economica e popolare nonché i piani per
gli insediamenti produttivi» (primo comma). «Le regioni
emanano norme cui i comuni debbono attenersi per
l’approvazione degli strumenti di cui al comma precedente,
al fine di garantire la snellezza del procedimento e le
necessarie forme di pubblicità e di partecipazione dei
soggetti pubblici e privati. I comuni sono comunque tenuti a
trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli
strumenti attuativi di cui al presente articolo. Sulle
eventuali osservazioni della regione i comuni devono
esprimersi con motivazioni puntuali» (secondo comma).
Al riguardo, occorre anzitutto osservare che
la legge n. 47
del 1985 da una parte istituzionalizza il disegno di
semplificazione delle procedure in materia urbanistica,
eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi,
dall’altra, però, accentua le forme di pubblicità e di
partecipazione dei soggetti pubblici e privati. Tale
disposizione non è pertanto derogabile dalle leggi
regionali, come si evince dal precedente articolo 1, primo
comma, della medesima legge secondo cui le Regioni emanano
norme in materia di controllo dell’attività urbanistica ed
edilizia e di sanzioni in conformità ai principî definiti
dai Capi I, II e III della stessa legge, senza che possa
trarsi argomento in contrario dal secondo comma per il
quale, fino all’emanazione delle norme regionali, si
applicano le norme contenute nella legge statale.
Al riguardo, questa Corte ha già affermato che «La
statuizione dell’art. 24, secondo comma, della legge n. 47
del 1985, nella parte in cui prescrive l’invio degli
strumenti attuativi comunali alla Regione, è chiaramente
preordinata a soddisfare un’esigenza, oltre che di
conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento
dell’operato delle Amministrazioni locali ed, in questo
senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di
formulare “osservazioni” sulle quali i Comuni devono
“esprimersi”» (sentenza n. 343 del 2005).
Ne consegue che, secondo quanto previsto dalla norma
interposta invocata nel presente giudizio,
«Il contrappeso
all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito
dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il
piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni
riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale
motivazione», con la conclusione che «Il meccanismo
istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985 […], in
relazione allo scopo perseguito dalla legge, configurando
l’obbligo dei Comuni di trasmettere i piani urbanistici
attuativi alla Regione, assume il carattere di principio
fondamentale».
Quindi la mancata previsione
(regionale) dell’obbligo di trasmissione
contrasta con un principio fondamentale della legge statale
e determina l’illegittimità costituzionale della norma
censurata, nella parte in cui non prevede che copia dei
piani attuativi conformi allo strumento urbanistico, per i
quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia
trasmessa dai Comuni alla Regione.
---------------
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 1, della legge reg. Molise n. 18 del 2012, è fondata.
7.1.— Occorre preliminarmente osservare che l’ambito
materiale su cui incide la norma impugnata è
inequivocabilmente ascrivibile ai settori dell’edilizia e
dell’urbanistica. Ne consegue l’inclusione della stessa
nella sfera delle potestà legislative inerenti alla materia
concorrente del «governo del territorio», come costantemente
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis,
sentenze n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011;
n. 340 del 2009; nonché sentenze n. 196 del 2004 e n. 362
del 2003).
Questa Corte ha già chiarito, in più pronunce, l’ampiezza e
l’area di operatività dei “principi fondamentali” riservati
alla legislazione statale nelle materie di potestà
concorrente, affermando, tra l’altro, che «il rapporto tra
normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve
essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere
criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta
l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere quegli obiettivi» (sentenza n. 237 del 2009,
nonché sentenze n. 200 del 2009, n. 336 e n. 50 del 2005).
Né può ritenersi che la specificità delle prescrizioni di
per sé possa escludere il carattere di principio di una
norma, «qualora essa risulti legata al principio stesso da
un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria
integrazione» (sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007;
nonché n. 211 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 326 del
2010 e n. 297 del 2009).
Ne consegue che l’ambito materiale relativo al presente
giudizio rientra nel «governo del territorio», ed è quindi
oggetto di legislazione concorrente, nell’ambito della quale
le Regioni debbono osservare i principî fondamentali
ricavabili dalla legislazione statale.
7.2.— Quanto alla norma interposta invocata nel presente
giudizio, occorre anzitutto ricordare che l’art. 24 della
legge n. 47 del 1985, compreso nel Capo II, relativo allo
snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie,
testualmente dispone: «Salvo che per le aree e per gli
ambiti territoriali individuati dalle regioni come di
interesse regionale in sede di piano territoriale di
coordinamento o, in mancanza, con specifica deliberazione,
non è soggetto ad approvazione regionale lo strumento
attuativo di strumenti urbanistici generali, compresi i
piani per l’edilizia economica e popolare nonché i piani per
gli insediamenti produttivi» (primo comma). «Le regioni
emanano norme cui i comuni debbono attenersi per
l’approvazione degli strumenti di cui al comma precedente,
al fine di garantire la snellezza del procedimento e le
necessarie forme di pubblicità e di partecipazione dei
soggetti pubblici e privati. I comuni sono comunque tenuti a
trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli
strumenti attuativi di cui al presente articolo. Sulle
eventuali osservazioni della regione i comuni devono
esprimersi con motivazioni puntuali» (secondo comma).
Al riguardo, occorre anzitutto osservare che
la legge n. 47
del 1985 da una parte istituzionalizza il disegno di
semplificazione delle procedure in materia urbanistica,
eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi,
dall’altra, però, accentua le forme di pubblicità e di
partecipazione dei soggetti pubblici e privati. Tale
disposizione non è pertanto derogabile dalle leggi
regionali, come si evince dal precedente articolo 1, primo
comma, della medesima legge secondo cui le Regioni emanano
norme in materia di controllo dell’attività urbanistica ed
edilizia e di sanzioni in conformità ai principî definiti
dai Capi I, II e III della stessa legge, senza che possa
trarsi argomento in contrario dal secondo comma per il
quale, fino all’emanazione delle norme regionali, si
applicano le norme contenute nella legge statale.
Al riguardo, questa Corte ha già affermato che «La
statuizione dell’art. 24, secondo comma, della legge n. 47
del 1985, nella parte in cui prescrive l’invio degli
strumenti attuativi comunali alla Regione, è chiaramente
preordinata a soddisfare un’esigenza, oltre che di
conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento
dell’operato delle Amministrazioni locali ed, in questo
senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di
formulare “osservazioni” sulle quali i Comuni devono
“esprimersi”» (sentenza n. 343 del 2005).
Ne consegue che, secondo quanto previsto dalla norma
interposta invocata nel presente giudizio, «Il contrappeso
all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito
dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il
piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni
riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale
motivazione», con la conclusione che «Il meccanismo
istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985 […], in
relazione allo scopo perseguito dalla legge, configurando
l’obbligo dei Comuni di trasmettere i piani urbanistici
attuativi alla Regione, assume il carattere di principio
fondamentale» (così, la già citata sentenza n. 343 del
2005).
L’art. 1, comma 1, della legge reg. Molise 07.08.2012, n.
18, nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate
dall’art. 1, comma 3, della legge reg. 02.01.2013, n. 1,
nello stabilire che i piani attuativi conformi allo
strumento urbanistico siano approvati in via definitiva
dalla Giunta comunale, senza che essa sia tenuta a
trasmetterli alla Regione, si pone in contrasto con l’art.
24, secondo comma, della legge n. 47 del 1985.
Quindi la mancata previsione dell’obbligo di trasmissione
contrasta con un principio fondamentale della legge statale
e determina l’illegittimità costituzionale della norma
censurata, nella parte in cui non prevede che copia dei
piani attuativi conformi allo strumento urbanistico, per i
quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia
trasmessa dai Comuni alla Regione.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Molise 07.08.2012,
n. 18, nel testo vigente anteriormente all’aggiunta del
comma 1-bis, inserito dall’art. 1, comma 3, della legge reg.
Molise n. 1 del 2013.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1,
comma 1, della legge della Regione Molise 07.08.2012, n.
18 (Disposizioni in merito all’approvazione dei piani
attuativi conformi alle norme degli strumenti urbanistici
generali vigenti), nel testo vigente anteriormente
all’aggiunta del comma 1-bis, inserito dall’art. 1, comma 3,
della legge della Regione Molise 02.01.2013, n. 1
(Abrogazioni e modifiche urgenti di norme di leggi
regionali), nella parte in cui non prevede
che copia dei piani attuativi conformi allo strumento
urbanistico generale, per i quali non è prevista
l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla
Regione
(Corte Costituzionale,
sentenza
14.11.2013 n. 272). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire,
ai sensi dell’art. 11 D.P.R. 380/2001, può essere chiesto
dal proprietario e da chi ne ha titolo. E’ peraltro pacifico
che il diritto di usufrutto, in quanto ricomprende anche la
possibilità di sfruttare pienamente la potenzialità
edificatoria del suolo, costituisca titolo idoneo a
legittimare la richiesta di permesso di costruire.
Pertanto, con la produzione dell’atto di donazione il
ricorrente ha assolto al proprio onere di documentare il
titolo necessario per ottenere il permesso di costruire in
sanatoria, dimostrando di avere la disponibilità
dell’immobile interessato dall’intervento edificatorio e
delle pertinenze dello stesso.
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta
un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si
estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi
limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente, ma solo la verifica
dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire
in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la
potenzialità edificatoria dell’immobile, senza che a tale
allegazione debba seguire un’ulteriore indagine in ordine
alle implicazioni, di diritto civilistico derivanti dal
rilascio del titolo autorizzativo, considerato anche che
detto rilascio avviene sempre con la clausola di salvezza
dei diritti dei terzi, proprio al fine di lasciare
impregiudicate eventuali posizioni soggettive di terzi
configgenti.
Con il presente gravame il ricorrente, usufruttuario di un
immobile residenziale sito in Lazise (VR), ha impugnato il
provvedimento del Servizio Edilizia Privata comunale del 10.05.2012 n. 10757, con cui gli è stato negato il rilascio
del permesso di costruire in sanatoria in relazione ad
alcune opere consistenti nella realizzazione di una
piattaforma elevatrice (ascensore) e di un cappotto termico.
...
In secondo luogo, quanto ai dubbi
manifestati dall’amministrazione sulla legittimazione
dell’odierno ricorrente a richiedere il titolo in questione,
si osserva che dall’atto notarile del 21.12.1991, pure
consegnato all’amministrazione comunale, risulta che De Carli Antonio è usufruttuario dell’immobile oggetto
dell’intervento e delle aree ad esso pertinenti, avendo
egli, con il predetto atto, donato la nuda proprietà ai
figli.
Ebbene, il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11
D.P.R. 380/2001, può essere chiesto dal proprietario e da
chi ne ha titolo. E’ peraltro pacifico che il diritto di
usufrutto, in quanto ricomprende anche la possibilità di
sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria del suolo,
costituisca titolo idoneo a legittimare la richiesta di
permesso di costruire.
Pertanto, con la produzione dell’atto di donazione del 21.12.1991, il ricorrente ha assolto al proprio onere di
documentare il titolo necessario per ottenere il permesso di
costruire in sanatoria, dimostrando di avere la
disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento
edificatorio e delle pertinenze dello stesso.
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta
un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si
estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi
limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente (Cons. St, sez. V, 22.06.2000, n. 3525), ma solo la verifica dell’esistenza di
un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a
quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità
edificatoria dell’immobile, senza che a tale allegazione
debba seguire un’ulteriore indagine in ordine alle
implicazioni, di diritto civilistico derivanti dal rilascio
del titolo autorizzativo, considerato anche che detto
rilascio avviene sempre con la clausola di salvezza dei
diritti dei terzi, proprio al fine di lasciare
impregiudicate eventuali posizioni soggettive di terzi
configgenti (cfr. Cons. St. n. 368/2004).
D’altra parte (e questo sembra essere lo scrupolo
dell’amministrazione) non si comprende come i figli
dell’odierno ricorrente, nudi proprietari, possano
legittimamente opporsi alla realizzazione degli interventi
edilizi posti in essere dal loro padre.
In particolare, dall’atto notarile depositato non risulta
che il cortile di pertinenza dell’abitazione sia escluso dal
diritto di usufrutto che De Carli Antonio ha mantenuto su
tutto il compendio immobiliare in origine di sua proprietà,
comprensivo delle pertinenze, né che tale cortile sia, come
prospettato dalla Commissione Edilizia, di piena proprietà
dei figli di De Carli Antonio. Elemento limitativo, questo,
che andrebbe comunque provato da parte dell’amministrazione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La stessa ratio che in materia urbanistica induce
ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria
edificabile vale ugualmente per escludere tali volumi dal
divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano
dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici
rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett.
a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto suscettibili
di accertamento della compatibilità paesaggistica.
---------------
Si è ritenuto come “...esulino dalla eccezione prevista
dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che
abbiano contestualmente determinato la realizzazione di
nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso,
siano suscettibili di accertamento della compatibilità
paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi
tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei
caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera
priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non
risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio,
sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio
eccedente la costruzione principale".
Infine, la
Commissione Edilizia, nel proprio parere, ha chiesto
all’odierno ricorrente di “dimostrare che le opere
realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica non
hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, al fine
di poter accedere alla possibilità di regolarizzazione delle
stesse sotto il profilo paesaggistico. Si rileva infatti che
l’elevatore realizzato configurerebbe un incremento di
volume ai fini urbanistici che, sebbene assentibile sotto il
profilo edilizio-urbanistico ai sensi della L.R. 16/2007,
non rientrerebbe nella fattispecie delle opere sanabili ai
sensi del D.Lgs. 42/2004”.
Anche tale richiesta è ingiustificata, essendo fondata su di
una interpretazione delle norme in argomento non
condivisibile.
Infatti, premesso che nella fattispecie oggetto di gravame è
pacifico che l’intervento abusivo consiste in un “vano
tecnico”, ciò che la Commissione Edilizia sembra negare è
che la realizzazione di un vano tecnico possa rientrare tra
i cosiddetti “abusi minori” per i quali è ammissibile la
relativa sanatoria ai sensi del combinato disposto degli
artt. 146, comma 4 e 167, comma 4, del decreto legislativo
n. 42 del 2004.
Invero, la giurisprudenza prevalente, al quale questo
Collegio ritiene di aderire, è di contrario avviso, essendo
stato chiarito, che “la stessa ratio che in materia
urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo
della volumetria edificabile vale ugualmente per escludere
tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli
interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli
volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167,
comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto
suscettibili di accertamento della compatibilità
paesaggistica” (v. TAR Campania, Napoli, sez. VII 14.01.2011, n. 176; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 15.09.2010, n. 435; TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
03.11.2009, n. 6827). Ed inoltre, si è ritenuto come
“...esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma
4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente
determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di
nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di
accertamento della compatibilità paesistica anche i
soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che
i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li
contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma
rilevanza urbanistico-funzionale che non risulta
particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono
inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente
la costruzione principale” (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. III, 11.01.2013, n. 35; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Pertanto, nel caso in esame, non sembra si possa dubitare
dell’astratta sanabilità paesaggistica delle opere oggetto
di causa ai sensi del D.lgs. 42/2004
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La funzione della
motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito
dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al
destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base
al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale
atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di
verificare la correttezza del potere in concreto esercitato,
nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per
caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato.
Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti
inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso
siano sempre esternate le ragioni che giustificano la
determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa
in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile.
In proposito, deve osservarsi,
innanzitutto, che la funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo, come chiarito dalla
consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al
destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base
al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale
atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di
verificare la correttezza del potere in concreto esercitato,
nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per
caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato
(Cons. Stato, sez. V, 04.04.2006, n. 1750; sez. IV, 22.02.2001 n. 938, sez. V, 25.09.2000 n. 5069).
Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti
inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso
siano sempre esternate le ragioni che giustificano la
determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa
in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione a
provvedimenti negativi in materia di nulla osta
paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a
motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità
del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici
tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le
opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle
caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che
deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi
nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una
generica insanabilità delle opere.
---------------
Nel caso in esame, mentre le ragioni del diniego di condono
delle tettoie non sono state proprio espresse, quelle
relative al box in lamiera appaiono, invece, contenute
nell’espressione “per tipologia e materiali altera
negativamente il contesto tutelato ai sensi della L.
1497/1939”, che per il solo riferimento generico alla
tipologia della costruzione e alla scelta dei materiali
utilizzati nella edificazione, non appare di certo
sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in
sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto
poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere
edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere
pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie.
In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in
ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione
apodittica che non appare soddisfare i requisiti minimali
della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera
affermazione secondo cui il manufatto in questione mal si
inserirebbe nel contesto ambientale per i materiali
utilizzati e la tipologia costruttiva, atteso che nulla
viene specificato nel concreto per dimostrare il contrasto
con l'interesse ambientale tutelato.
Inoltre, con riferimento al diniego di sanatoria delle
tettoie, vi è proprio un’assenza di motivazione, venendo
solo direttamente e semplicemente richiesta l’eliminazione
delle stesse senza alcuna previa valutazione dell’incidenza
delle opere rispetto all’ambiente tutelato; il che implica
una palese illegittimità di tale parte del provvedimento
impugnato.
Tale
motivazione non appare, all’evidenza, idonea a sorreggere in
modo puntuale il diniego della domanda di sanatoria.
Infatti, in relazione a provvedimenti negativi in materia di
nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente
tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta
incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i
valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche
ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si
ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette,
motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel
caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato,
onde evitare una generica insanabilità delle opere (cfr.
Cons. Stato, VI, 08.05.2008, n. 2111).
Nel caso in esame, mentre le ragioni del diniego di condono
delle tettoie non sono state proprio espresse, quelle
relative al box in lamiera appaiono, invece, contenute
nell’espressione “per tipologia e materiali altera
negativamente il contesto tutelato ai sensi della L.
1497/1939”, che per il solo riferimento generico alla
tipologia della costruzione e alla scelta dei materiali
utilizzati nella edificazione, non appare di certo
sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in
sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto
poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere
edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie.
D’altra parte, salva ogni valutazione di merito riservata
all’amministrazione, l’idoneità del manufatto in questione a
ledere il bene paesaggistico oggetto di tutela non appare,
almeno allo stato degli atti, così evidente e manifesta da
non richiedere una motivazione più approfondita. Considerato
che, come risulta dalle fotografie prodotte dalla difesa del
ricorrente, si tratta di una costruzione realizzata in un
cortile interno, non visibile dall’esterno, e che il
contesto ambientale immediatamente interessato (sempre
osservando il materiale fotografico prodotto) non sembra
presentare caratteristiche di eccezionale pregio tali da
rendere stridente e palese il contrasto con il manufatto in
oggetto.
In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in
ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione
apodittica che non appare soddisfare -come evidenziato dal
ricorrente- i requisiti minimali della motivazione, non
essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo
cui il manufatto in questione mal si inserirebbe nel
contesto ambientale per i materiali utilizzati e la
tipologia costruttiva, atteso che nulla viene specificato
nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse
ambientale tutelato.
Inoltre, con riferimento al diniego di sanatoria delle
tettoie, vi è proprio un’assenza di motivazione, venendo
solo direttamente e semplicemente richiesta l’eliminazione
delle stesse senza alcuna previa valutazione dell’incidenza
delle opere rispetto all’ambiente tutelato; il che implica
una palese illegittimità di tale parte del provvedimento
impugnato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La previsione normativa di cui all'art. 34, comma
secondo, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) deve essere
interpretata -in conformità alla natura di illecito posto in
essere ed alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola
generale posta dal primo comma- nel senso che si applica la
sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia
oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso. Né in tale
contesto, pertanto, possono assumere rilievo aspetti
relativi alla eccessiva onerosità dell'intervento.
---------------
In materia di abusivismo edilizio l'art. 34 d.p.r.
06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) deve essere interpretata
nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel
caso in cui sia "oggettivamente impossibile" procedere alla
demolizione del manufatto abusivo.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
---------------
Questo Collegio è a conoscenza di quell’orientamento
giurisprudenziale diretto ad affermare come l’interesse
pubblico alla demolizione non necessiti di una specifica
motivazione, rilevando il carattere “dovuto” dei
provvedimenti sanzionatori.
Detto orientamento, tuttavia, deve considerarsi recessivo
rispetto alla particolarità della fattispecie in esame,
laddove si era accertato come l’abuso fosse da circoscrivere
ad un periodo così antecedente nel tempo; laddove
l’Amministrazione comunale aveva accertato, seppur
implicitamente, la legittimità del manufatto originario.
Tutto queste circostanze avrebbero dovuto determinare
l’Amministrazione nel valutare se sussistessero reali ed
effettivi motivi per reprimere l’abuso, ragioni di interesse
pubblico che evidentemente non avrebbero potuto essere
individuate nell’esigenza di preservare la salubrità dei
luoghi, esigenza quest’ultima tutelata dall’emanazione
dell’Ordinanza n. 4 del 04/05/2011 diretta all’esecuzione
delle opere necessarie alla messa in sicurezza dei luoghi.
Sul punto è possibile applicare quell’orientamento diretto a
sancire che “Nel sistema sanzionatorio delineato dall'art.
13 L. 06.08.1967, n. 765, la scelta della sanzione
(demolizione o sanzione pecuniaria) di volta in volta
applicabile è di regola sottratta ad una valutazione del
pubblico interesse; tale principio subisce però
un'attenuazione:
a) nell'ipotesi in cui l'attività privata, anche se
formalmente in contrasto con l'art. 13, perché priva
dell'autorizzazione, risulta comunque conforme allo
strumento di pianificazione territoriale comunale e,
b) nell'ipotesi in cui l'inerzia del comune di fronte
all'abuso perpetrato si sia protratta per un notevole lasso
di tempo: in entrambi questi casi non si può infatti
dubitare della prevalenza di principi generali di natura
diversa da quelli fissati dall'art. 13, con conseguente
obbligo per il sindaco di motivare sul pubblico interesse
alla demolizione.
Nel ricorso di cui all’RG 1069/11 è
fondato, in particolare, il primo motivo e, ciò, nella parte
in cui si rileva la violazione dell’art. 34 sopra citato,
risultando dirimente sul punto l’accertamento della
circostanza in base alla quale si rileva come si sia in
presenza di un intero fabbricato (quello preesistente) che è
del tutto autonomo e distinto dalla nuova costruzione, in
proprietà della ricorrente e realizzata sulla base dell’autorizzazione del 1961 sopra ricordata.
Si consideri, ancora, come l’Amministrazione non abbia
dimostrato la pregiudizialità della demolizione rispetto
alla parte del fabbricato autorizzato, presupposto
quest’ultimo anch’esso indispensabile al fine di applicare
la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
In considerazione di quanto sopra precisato è possibile
applicare quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti si
veda Cons. Stato Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912) che ha
sancito che “La previsione normativa di cui all'art. 34,
comma secondo, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) deve
essere interpretata -in conformità alla natura di illecito
posto in essere ed alla sua valenza derogatoria rispetto
alla regola generale posta dal primo comma- nel senso che
si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui
sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso. Né in tale
contesto, pertanto, possono assumere rilievo aspetti
relativi alla eccessiva onerosità dell'intervento”.
Un’analoga pronuncia (Cons. Stato Sez. VI, 09.04.2013,
n. 1912) ha sancito che “In materia di abusivismo edilizio
l'art. 34 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) deve
essere interpretata nel senso che si applica la sanzione
pecuniaria soltanto nel caso in cui sia "oggettivamente
impossibile" procedere alla demolizione del manufatto
abusivo. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che
la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso
(Riforma della sentenza del Tar Emilia Romagna, sez. I, 28.11.2012, n. 733)”.
Ne consegue come, in applicazione dei principi sopra
richiamati l’Amministrazione comunale abbia applicato i
principi di cui all’art. 34 citato in una fattispecie del
tutto esorbitante e differente rispetto a quella
disciplinata dalla stessa disposizione.
Il ricorso di cui all’RG 1069/11 può, pertanto, essere
accolto limitatamente a quanto sopra affermato.
---------------
Questo
Collegio è a conoscenza di quell’orientamento
giurisprudenziale diretto ad affermare come l’interesse
pubblico alla demolizione non necessiti di una specifica
motivazione, rilevando il carattere “dovuto” dei
provvedimenti sanzionatori.
Detto orientamento, tuttavia, deve considerarsi
recessivo rispetto alla particolarità della fattispecie in
esame, laddove si era accertato come l’abuso fosse da
circoscrivere ad un periodo così antecedente nel tempo;
laddove l’Amministrazione comunale aveva accertato, seppur
implicitamente, la legittimità del manufatto originario.
Tutto queste circostanze avrebbero dovuto determinare
l’Amministrazione nel valutare se sussistessero reali ed
effettivi motivi per reprimere l’abuso, ragioni di interesse
pubblico che evidentemente non avrebbero potuto essere
individuate nell’esigenza di preservare la salubrità dei
luoghi, esigenza quest’ultima tutelata dall’emanazione
dell’Ordinanza n. 4 del 04/05/2011 diretta all’esecuzione
delle opere necessarie alla messa in sicurezza dei luoghi.
Sul punto è possibile applicare quell’orientamento
(TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 06.09.2007, n. 1399)
diretto a sancire che “Nel sistema sanzionatorio delineato
dall'art. 13 L. 06.08.1967, n. 765, la scelta della
sanzione (demolizione o sanzione pecuniaria) di volta in
volta applicabile è di regola sottratta ad una valutazione
del pubblico interesse; tale principio subisce però
un'attenuazione:
a) nell'ipotesi in cui l'attività privata,
anche se formalmente in contrasto con l'art. 13, perché
priva dell'autorizzazione, risulta comunque conforme allo
strumento di pianificazione territoriale comunale e,
b)
nell'ipotesi in cui l'inerzia del comune di fronte all'abuso
perpetrato si sia protratta per un notevole lasso di tempo:
in entrambi questi casi non si può infatti dubitare della
prevalenza di principi generali di natura diversa da quelli
fissati dall'art. 13, con conseguente obbligo per il sindaco
di motivare sul pubblico interesse alla demolizione
(Consiglio Stato a.plen., 19.05.1983, n. 12)”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.11.2013 n. 1268 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Bloccato l'ascensore rumoroso.
Stop all'impianto che produce immissioni intollerabili.
La Cassazione conferma le ragioni di una condomina e la
condanna del condominio.
Stop agli impianti di ascensore rumorosi in condominio. La
Cassazione ha infatti individuato nelle disposizioni
speciali a tutela dell'ambiente i parametri oggettivi per
valutare la soglia di normale tollerabilità delle immissioni
rumorose anche nei rapporti tra i privati.
Questa
l'interessante conclusione contenuta nella
sentenza
06.11.2013 n. 25019
pronunciata dalla II Sez. civile della Suprema.
Il caso concreto. Nella specie una condomina aveva citato dinanzi al giudice
di pace di Ancona il proprio condominio, in persona
dell'amministratore pro tempore, perché fossero dichiarate
illegittime le immissioni acustiche provenienti
dall'ascensore condominiale e perché, conseguentemente, ne
fosse ordinata la cessazione con condanna alla realizzazione
di tutte le conseguenti opere necessarie. Nonostante le
eccezioni difensive formulate dal condominio costituitosi in
giudizio, il giudice, in parziale accoglimento della domanda
della condomina, aveva riconosciuto l'illegittimità delle
immissioni acustiche provenienti dall'ascensore, ordinandone
la cessazione e demandando all'assemblea, sulla scorta della
relazione resa dal consulente tecnico d'ufficio, di
provvedere all'attuazione dei rimedi indispensabili allo
scopo.
Il condominio, per nulla soddisfatto dell'esito del
procedimento, aveva quindi impugnato la sentenza dinanzi al
tribunale. Anche detto giudice, tuttavia, accogliendo
pienamente le valutazioni operate dal consulente tecnico
d'ufficio, il quale aveva rilevato che l'ascensore produceva
emissioni rumorose superiori ai limiti imposti dalla legge,
aveva confermato la valutazione di intollerabilità di queste
ultime.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile
della Cassazione, nel respingere a sua volta l'impugnazione
proposta dal condominio avverso la sentenza di appello, ha
chiarito che i criteri per la determinazione dei limiti
massimi di esposizione al rumore indicati dal dpcm del 01.03.1991, ancorché dettati per la tutela generale del
territorio, possono essere utilizzati come parametro di
riferimento anche per stabilire l'intensità e quindi la
soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei
rapporti tra privati, dunque anche in ambito condominiale.
Tuttavia i giudici di legittimità hanno ritenuto che tali
criteri debbano essere considerati come un limite minimo e
non massimo, dato che gli stessi sono meno rigorosi di
quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844
c.c., norma generale sulle immissioni, con la conseguenza
che, in difetto di altri eventuali elementi, il loro
superamento è idoneo a determinare la violazione della
predetta disposizione codicistica.
Nella specie, sulla base delle risultanze della consulenza
tecnica d'ufficio, era stato accertato il superamento della
normale tollerabilità delle emissioni provenienti
dall'ascensore condominiale prendendo come parametro di
riferimento il criterio comparativo tra il rumore con e
senza la sorgente disturbante nella differenza massima di 3
decibel. La Suprema corte ha comunque inteso chiarire come i
parametri di cui al dpcm del 01.03.1991, pur potendo
essere considerati come criteri minimali di partenza al fine
di stabilire l'intollerabilità delle emissioni che li
eccedano, non siano vincolanti per il giudice civile che,
nell'accertamento discrezionale dell'entità delle immissioni
nell'ambito privatistico, può anche motivatamente
discostarsene, pervenendo a un giudizio di intollerabilità
ex art. 844 c.c. anche nelle ipotesi in cui i limiti minimi
di legge non siano stati superati
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.11.2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Forniture, niente automatismi per l'ok ai debiti fuori
bilancio. Tar Marche. Il
riconoscimento da parte della Pa è discrezionale.
Non c'è l'obbligo incondizionato per gli enti locali di
riconoscere, con la procedura fissata dall'articolo 194,
comma 1 del Tuel, i debiti fuori bilancio per acquisizione
di beni e servizi avvenuta in violazione delle norme
giuscontabili.
Per il TAR Marche (sentenza
25.10.2013
n. 749), a differenza di
quanto previsto dalla lettera a) dello stesso articolo 194,
che configura come atto dovuto il riconoscimento di debiti
fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, la lettera
e) consente la valutazione discrezionale dell'opportunità e
della coerenza con l'interesse pubblico del riconoscimento
del debiti di fornitura.
Nel caso, una società ha chiesto la declaratoria
d'illegittimità dell'inerzia della Pa sull'istanza di
riconoscimento di un debito relativo a lavori urgenti di
sistemazione idrica.
Sul punto il Tar è stato chiaro: il potere di riconoscimento
del debito fuori bilancio da acquisizione di beni e servizi
in violazione delle regole d'impegno della spesa (articolo
191 del Tuel) non può ritenersi vincolato.
Nella delibera di riconoscimento l'ente deve chiarire:
- le ragioni della conformità dell'accollo del debito
all'interesse pubblico;
- la riconducibilità dell'acquisizione dei beni e servizi
all'espletamento delle funzioni e dei servizi di competenza;
- l'utilità e l'arricchimento derivanti dal riconoscimento.
Per la parte non riconoscibile, infatti, l'articolo 191,
comma 4, del Tuel prevede che l'obbligazione sussista tra il
privato e l'amministratore o funzionario che hanno
consentito la fornitura. In questo caso, dunque, il
creditore non ha la garanzia patrimoniale della Pubblica
amministrazione, ma solo del soggetto che ha indebitamente
ordinato la spesa.
In tempi di risorse scarse e di cronici ritardi di pagamento
della Pa, la posizione del Tar riveste grande interesse sia
per l'amministrazione sia per i fornitori.
La decisione, infatti, da un lato richiama gli enti locali a
motivare compiutamente circa l'utilità e l'arricchimento
conseguenti al riconoscimento del debito fuori bilancio,
dall'altro invece rappresenta per i privati un monito al
rispetto delle regole che disciplinano i rapporti finanziari
con gli enti. In base all'articolo 194, comma 1, del Tuel,
gli enti possono infatti eseguire spese solo a fronte
dell'impegno sul capitolo e dell'attestazione di copertura
finanziaria ex articolo 153, comma 5, dello stesso Tuel.
Questi vanno comunicati al fornitore contestualmente
all'ordinazione della prestazione e la successiva fattura
deve essere completata con gli estremi della comunicazione.
In caso contrario, sino alla comunicazione, il privato ha
facoltà di non eseguire la prestazione
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.11.2013). |
PATRIMONIO:
Insidia stradale e condotta negligente del danneggiato: P.A.
senza responsabilità.
Nel danno da insidia stradale, la
concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o
prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di
pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità
dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A.
per difetto di manutenzione della strada pubblica.
Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può
prescindere da un modello relazionale, per cui la cosa deve
essere vista nel suo normale interagire con il contesto dato
talché una cosa inerte può definirsi pericolosa quando
determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di
normale interazione con la realtà circostante.
Pertanto, se il contatto con la cosa provochi un danno per
l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il
presupposto per l’operare della presunzione di
responsabilità di cui l’art. 2051 cod. civ., atteggiandosi
in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del
danno. In particolare, poi, in tema di danno da insidia
stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato
di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la
situazione di pericolo occulto vale ad escludere la
configurabilità dell’insidia e della conseguente
responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della
strada pubblica, dato che quanto più la situazione di
pericolo è suscettibile di essere prevista e superata
attraverso l’adozione di normali cautele da parte del
danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi
l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel
dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che
detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto
ed evento dannoso.
In applicazione degli enunciati principi, già espressi in
precedenti pronunce, la Corte di cassazione ha ritenuto di
confermare la decisione con la quale il la corte di merito,
in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la
domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti di
un’amministrazione comunale dal conducente di un ciclomotore
rimasto vittima di lesioni personali in conseguenza di una
caduta dovuta ad una buca presente sul manto stradale.
Facendo corretta applicazione del suddetto criterio
relazionale, osserva il giudice di legittimità nella parte
motiva, si rileva come nel caso in esame il conducente del
motorino fosse ben a conoscenza dell’esistenza di buche
sulla strada da lui percorsa per cui avrebbe dovuto tenere
un comportamento idoneo ad evitarle.
Inoltre, affrontando sia il problema dell’applicabilità
dell’art. 2051 cod. civ. alla custodia esercitata dagli enti
territoriali sulle strade demaniali, sia quello relativo al
valore da attribuire alla non visibilità e non prevedibilità
dei dissesti del manto stradale, la corte del merito,
conclude la Cassazione, ha rilevato che la buca in
corrispondenza della quale il conducente è caduto era
ampiamente prevedibile e che tanto risulta sia dalle
dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo ai Vigili Urbani,
sia dal verbale degli stessi, sia da quanto dichiarato da un
testimone. In conclusione, non opera pertanto nel caso in
esame la presunzione di responsabilità ex art. 2051 cod.
civ. in quanto, essendo il conducente del motorino a
conoscenza dell’esistenza di buche, ben avrebbe potuto
evitarle.
In seguito a tale conoscenza gravava su di lui la prova
della non visibilità e non prevedibilità, il cui onere nel
caso specifico, non è stato adempiuto (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile,
sentenza 22.10.2013 n. 23919). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: I fanghi di cemento sono rifiuti, non altro.
I fanghi di cemento sono rifiuti e non sottoprodotti. I
residui derivanti dal lavaggio delle betoniere, come la
breccia o il sabbione di cemento, non rientrano nella
nozione di sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis del
Codice dell'ambiente (dlgs 152/2006), e quindi devono essere
trattati come rifiuti.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione,
con la
sentenza 15.10.2013 n. 42338.
I giudici di Cassazione precisano che affinché una sostanza
possa essere considerata come sottoprodotto, è necessario,
tra l'altro, che la stessa: «possa essere utilizzata
direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla
normale pratica industriale e che soddisfi, per l'utilizzo
specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i
prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente» e
«sia originata da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è
la sua produzione»
(articolo ItaliaOggi del
21.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Abbisogna
del permesso di costruire
l’installazione della roulotte, in quanto non si tratta di
strutture precarie e contingenti, destinate a soddisfare
bisogni occasionali e ad essere definitivamente rimosse dopo
un breve uso, ma di beni adibiti ad usi ripetuti nel tempo,
come conferma la presenza degli allacciamenti fognari ed
elettrici.
Si tratta pertanto, di costruzioni urbanisticamente
rilevanti, giacché ciò che rileva a tal fine è l'idoneità
del manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio
in modo non occasionale.
In relazione al secondo motivo di ricorso, che per comodità
espositiva viene esaminato prioritariamente, va rilevato che
i manufatti per cui è causa hanno caratteristiche tali da
indurre univocamente a ritenere che si è in presenza di
costruzioni che alterano visibilmente e notevolmente lo
stato dei luoghi, modificano in maniera permanente e
significativa l'assetto urbanistico-edilizio del territorio
e come tali sono senz'altro abbisognevoli del preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Tale qualificazione si attaglia a tutti i manufatti per cui
è causa, nonché all’installazione della roulotte, in quanto
non si tratta di strutture precarie e contingenti, destinate
a soddisfare bisogni occasionali e ad essere definitivamente
rimosse dopo un breve uso, ma di beni adibiti ad usi
ripetuti nel tempo, come conferma la presenza degli
allacciamenti fognari ed elettrici. Si tratta pertanto, di
costruzioni urbanisticamente rilevanti, giacché ciò che
rileva a tal fine è l'idoneità del manufatto ad incidere sul
preesistente assetto edilizio in modo non occasionale (cfr.,
TAR Toscana, III, 11.04.2008, n. 1020).
Alla luce della tipologia delle opere qui rinvenibile e come
esattamente qualificata dall'amministrazione, il regime
giuridico da applicarsi risulta, quindi, essere quello
descritto dalla previsioni di cui al coordinato disposto
degli artt. 78, lett. b) (il quale annovera tra gli
interventi sottoposti a permesso di costruire “l’installazione
di manufatti, anche prefabbricati e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee, quali esplicitamente risultino in base alle
vigenti disposizioni”) e 132 della legge regionale n.
12/2005, con la sottoposizione dei realizzati abusi alle
sanzioni ivi previste per le "opere in assenza di
permesso di costruire" (TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza
17.09.2013 n. 1263 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il vizio di incompetenza
da cui possa essere affetto un provvedimento amministrativo,
soprattutto quando si contesta che la competenza appartiene
ad un organo diverso dello stesso ente, come nel caso di
specie, e non ad un ente radicalmente diverso, è un mero
vizio procedimentale e, dunque, sanabile –ove, come nella
fattispecie che ci occupa, il provvedimento abbia natura
vincolata (ndr: ordinanza di demolizione) e l’irrilevanza
del vizio sul contenuto dispositivo sia palese– ai sensi
dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241/1990,
come introdotto dall’art. 14, comma 1, della legge
11.02.2005, n. 15, la cui natura processuale è ormai
pacifica.
Dalle considerazioni
che precedono emerge l’infondatezza anche del primo motivo
di ricorso, con cui si lamenta che il provvedimento
impugnato avrebbe dovuto essere firmato dal dirigente o dal
responsabile del competente ufficio comunale e non da un
funzionario del servizio non dirigente né responsabile del
competente ufficio.
Infatti, il vizio di incompetenza da cui possa essere
affetto un provvedimento amministrativo, soprattutto quando
si contesta che la competenza appartiene ad un organo
diverso dello stesso ente, come nel caso di specie, e non ad
un ente radicalmente diverso, è un mero vizio procedimentale
e, dunque, sanabile –ove, come nella fattispecie che ci
occupa, il provvedimento abbia natura vincolata e
l’irrilevanza del vizio sul contenuto dispositivo sia
palese– ai sensi dell’art. 21-octies, secondo comma, della
legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14, comma 1,
della legge 11.02.2005, n. 15, la cui natura processuale è
ormai pacifica (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV,
23.01.2012, n. 282) (TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza
17.09.2013 n. 1263 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Lo
jus variandi (in materia di appalti di oo.pp.) spetta al
committente solo in casi tassativi e nessuna variazione o
addizione al progetto approvato può essere introdotta
dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori
e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel
rispetto delle condizioni e dei limiti indicati all’articolo
25 della Legge (n. 109/1994 n.d.s.).
Il mancato rispetto di tale disposizione non da titolo al
pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la rimessa
in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e delle
opere nella situazione originaria secondo le disposizioni
del direttore lavori.
---------------
All’appaltatore che abbia eseguito variazioni a addizioni
arbitrarie (perché non richieste od autorizzate
dall’amministrazione committente) non spetta nemmeno
l’indennizzo ex. art. 2041 c.c.. Non già, beninteso, per
l’inammissibilità dell’actio de in rem verso nei confronti
della pubblica amministrazione –costituendo, anzi,
l’ammissibilità di siffatta azione nei confronti di essa
principio ormai saldamente acquisito- ma per l’assorbente
ragione della vigenza di un precetto legislativo che, in
materia di variazioni apportate dall’appaltatore di opera
pubblica unilateralmente ed in carenza di qualsiasi
richiesta dell’amministrazione committente, esclude in modo
espresso il diritto a qualunque compenso.
Devono allora trovare applicazione gli artt. 132 d.lgs.
163/2006 e art. 134 d.p.r. 554/1999 per i quali lo jus
variandi spetta al committente solo in casi tassativi e
nessuna variazione o addizione al progetto approvato può
essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal
direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla
stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei
limiti indicati all’articolo 25 della Legge (n. 109/1994
n.d.s.). Il mancato rispetto di tale disposizione non da
titolo al pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la
rimessa in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e
delle opere nella situazione originaria secondo le
disposizioni del direttore lavori.
Nel caso in esame è pacifico che gli sforamenti non siano
mai stati autorizzati dal direttore lavori, né dalla
stazione appaltante, e che anzi il primo abbia colpevolmente
perso il controllo della contabilità continuando a liquidare
i SAL in via provvisoria su misurazioni presuntive, anziché
effettive. Dal canto suo l’appaltatore, ben consapevole
dello stato dei luoghi e delle opere da realizzare, ha
accettato il dimensionamento economico del contratto ad ha
seguito dei rilievi sulla profondità della roccia ha
realizzato addizioni senza verificare che i lavori spinti
così avanti senza rilevazione metrica avrebbero portato allo
sforamento dell’importo stanziato.
Come però correttamente osservato del Ctu, l’impresa non era
titolata ad introdurre addizioni al progetto e dunque doveva
verificare che ciò non avvenisse. Le predette violazioni
della normativa in tema di appalti pubblici non danno allora
titolo ad alcun pagamento delle addizioni non autorizzate, a
nulla rilevando che le stesse siano state funzionali
all’opera, atteso che la disciplina pubblicistica non deroga
mai alla prescrizione per cui tutte le varianti o addizioni
al progetto devono sempre essere disposte dal direttore dei
lavori e dalla stazione appaltante, cosa che nel caso di
specie non è avvenuto visto che la committente, tramite il
direttore lavori, non ha nemmeno realizzato in tempo che
l’appalto stava superando l’importo stanziato.
Peraltro, all’appaltatore che abbia eseguito variazioni o
addizioni arbitrarie (perché non richieste od autorizzate
dall’amministrazione committente) non spetta nemmeno
l’indennizzo ex. art. 2041 c.c.. Non già, beninteso, per
l’inammissibilità dell’actio de in rem verso nei
confronti della pubblica amministrazione –costituendo, anzi,
l’ammissibilità di siffatta azione nei confronti di essa
principio ormai saldamente acquisito- ma per l’assorbente
ragione della vigenza di un precetto legislativo che, in
materia di variazioni apportate dall’appaltatore di opera
pubblica unilateralmente ed in carenza di qualsiasi
richiesta dell’amministrazione committente, esclude in modo
espresso il diritto a qualunque compenso (arg. ex Cassazione
n. 12681/2004)
(TRIBUNALE di Lecco, Sez. I civile,
sentenza 17.08.2012 n. 510 - tratta dal sito web del
comune ricorrente). |
AGGIORNAMENTO AL 20.11.2013 |
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dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
URBANISTICA:
A. Di Mario,
Il Tar Lombardia
riafferma l’avvenuta abrogazione del potere comunale di
regolazione commerciale inserita nei piani regolatori
urbanistici (29.10.2013). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
OPERE DI URBANIZZAZIONE A SCOMPUTO
DEGLI ONERI DI URBANIZZAZIONE.
Approvate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome, nella seduta del 07.11.2013, le linee guida ITACA
recanti “Realizzazione delle opere a scomputo degli oneri
di urbanizzazione”.
Le Linee Guida sono il
risultato dell’attività di uno specifico gruppo di lavoro
costituito presso Itaca e coordinato dalla Regione Veneto,
allo scopo di fornire strumenti operativi di ausilio alle
piccole e medie amministrazioni aggiudicatrici nella
realizzazione delle opere di urbanizzazione attraverso
l’istituto dello scomputo dei relativi oneri.
Tale esigenza è nata dalla considerazione della particolare
complessità della materia, dovuta principalmente al suo
assoggettamento alla disciplina degli appalti pubblici,
affermato per la prima volta dalla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee nella sentenza 12.07.2001, (C-399/98), con
obbligo per l’operatore edilizio di realizzare le opere di
urbanizzazione a scomputo agendo come stazione appaltante
mediante indizione di procedure di evidenza pubblica.
I ripetuti interventi normativi finalizzati ad adeguare
l’ordinamento interno ai principi comunitari hanno formato
oggetto di numerosi indirizzi interpretativi nel tentativo
di risolvere le questioni lasciate irrisolte dal
legislatore, senza tuttavia offrire un quadro organico e
sistematico utile per la concreta gestione dei procedimenti
connessi all’attuazione degli interventi di urbanizzazione.
Le linee guida ITACA muovono da un differente approccio,
che, partendo dalla corretta qualificazione giuridica della
fattispecie normativa, si propone di individuare e
diffondere best practices che possano costituire
guida per gli enti locali ed operatori economici privati
nella strutturazione dei reciproci rapporti in rispondenza a
criteri di opportunità ed efficienza. Inoltre, il supporto
operativo è fornito anche attraverso l’elaborazione di una
convenzione urbanistica tipo che contempla la realizzazione
delle opere di urbanizzazione a scomputo, predisposta in
forma modulare a seconda dell’opzione prescelta tra quelle
consentite dalla legge.
Il documento si articola pertanto in:
- linee guida (allegato 1), volte ad indicare le best
pratices che le amministrazioni dovrebbero seguire
operativamente nella gestione del procedimento di
realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo;
- due schemi di convenzione-tipo rispettivamente per le
opere di urbanizzazione sopra (allegato 2) e sottosoglia
(allegato 3).
Nelle linee guida sono trattate le questioni fondamentali
della materia, sia con riferimento agli aspetti urbanistici
sia con riguardo a quelli appaltistici: i punti più
significativi e qualificanti attengono infatti alla
enucleazione dei poteri di controllo delle amministrazioni
comunali durante tutta la fase di attuazione delle opere
previste in convenzione, al ruolo del responsabile del
procedimento, alle opere “ulteriori” rispetto a
quelle da realizzare a scomputo, alla individuazione delle
fattispecie di realizzazione diretta da parte dell’operatore
edilizio delle opere di urbanizzazione primaria sotto
soglia.
“Le linee guida Itaca approvate oggi dalla Conferenza
delle Regioni –afferma l’assessore Massimo Giorgetti di
Regione Veneto, Vicepresidente di ITACA– forniranno un
importante ausilio alle piccole e medie amministrazioni
comunali, impegnate nella delicata gestione delle gare per
l’affidamento delle opere, ed al rapporto convenzionale tra
l’operatore edilizio e la stessa amministrazione”.
“Tale esigenza –sottolinea Giorgetti– deriva dalla
circostanza che si tratta pur sempre di opere pubbliche e
che, una volta realizzate, sono destinate ad essere
acquisite al patrimonio pubblico, e quindi, la qualità delle
opere e la rispondenza delle stesse alle esigenze
dell’amministrazione, sono fattori determinanti ai fini del
corretto agire pubblico”
(11.11.2013 - link a www.itaca.org) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Consip,
Spending review: AGGIORNATA la tabella obblighi/facoltà per
gli acquisti di beni e servizi.
E' stata pubblicata sul Portale degli acquisti
(www.acquistinretepa.it) la
tabella aggiornata a ottobre 2013 che riassume il
quadro relativo all'obbligo/facoltà di utilizzo degli
strumenti d'acquisto di Consip e delle centrali regionali di
committenza.
La tabella, elaborata da Consip con il Ministero
dell'Economia e delle Finanze, intende orientare e
facilitare le pubbliche amministrazioni nell'acquisto di
beni e servizi, ponendosi come agile strumento di
consultazione.
Le amministrazioni, attraverso la tabella, avranno rapido
accesso alla normativa applicabile in base alla propria
categoria di appartenenza (amministrazione centrale,
regionale, territoriale, ente del servizio sanitario
nazionale, scuola/università, organismo di diritto
pubblico), alla tipologia di acquisto (sopra la soglia
comunitaria o sotto la soglia comunitaria) e alla categoria
merceologica a cui appartengono i beni o servizi oggetto di
acquisto
(03.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
REGOLAZIONE REGIONALE DELLA GENERAZIONE ELETTRICA DA FONTI
RINNOVABILI (GSE, settembre 2013). |
ARAN & SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Malattia e visite specialistiche nel pubblico
impiego. La conversione in legge del d.l. 101/2013
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 12.11.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Abolizione delle province - Tra i due litiganti
l'importante è non farsi usare
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 11.11.2013). |
SEGRETARI COMUNALI: Il badge per il segretario non è più un tabù.
Nonostante l'orario di lavoro del segretario comunale non
preveda alcuna quantificazione di tale prestazione
fondandosi, come noto, su un sistema di «autoresponsabilizzazione»
del segretario stesso, non è preclusa all'amministrazione
comunale la possibilità di dotarsi di un sistema di
rilevazione delle sue presenze e assenze, al solo fine della
redazione della valutazione annuale, dell'erogazione della
retribuzione di risultato e della gestione delle ferie o
delle malattie.
È quanto ha precisato l'Aran nel recente
parere
24.10.2013 n. 34/2013, con cui fa luce sulla possibilità per un
comune di dotare il proprio segretario di un tesserino
magnetico per la rilevazione delle sue presenze e assenze.
Secondo la disciplina contrattuale prevista dall'articolo 19
del Ccnl, che sostanzialmente ricalca le norme previste per
la dirigenza del comparto regioni e autonomie locali, per il
segretario comunale non è prevista alcuna quantificazione
complessiva dell'orario di lavoro, neppure attraverso la
sola definizione di un limite massimo di durata delle
prestazioni lavorative dovute. Spetta, invece, al segretario
l'organizzazione complessiva del proprio tempo di lavoro, in
modo da assicurare il completo soddisfacimento dei compiti
affidati e degli obiettivi assegnati.
Pertanto, adottando
una linea di pensiero sostanzialmente analoga a quella per
la dirigenza, l'Aran ammette che se il nuovo sistema è
basato su una sorta di «autoresponsabilizzazione» del
segretario nell'organizzazione del proprio orario di lavoro,
l'ente locale può sempre assumere iniziative per l'adozione
di sistemi di rilevazione e accertamento delle presenze e
delle assenze del segretario. Un sistema che sarà poi utile
ai fini della valutazione annuale del segretario,
dell'erogazione della retribuzione di risultato nonché per
la gestione degli altri istituti connessi al rapporto di
lavoro, quali, per esempio, le ferie e la malattia.
In pratica, ciò che non è ammesso è che l'ente utilizzi la
rilevazione automatica per fini diversi da quella del
semplice accertamento delle presenze e delle assenze.
Ovvero, che la «strisciata» del badge da parte del
segretario possa essere rilevante ai fini della «quantità
oraria» delle prestazioni giornaliere. Possibilità
espressamente preclusa dalla norma contrattuale sopra
rilevata che non prevede per i segretari alcuna
quantificazione dell'orario di lavoro dovuto settimanalmente
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 47 del 19.11.2013,
"Approvazione di criteri per la redazione dei piani di
assestamento forestale (PAF)" (deliberazione
G.R. 08.11.2013 n. 901). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 47 del 19.11.2013,
"Modifiche alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo
unico delle leggi regionali in materia di agricoltura,
foreste, pesca e sviluppo rurale) concernente i mercati
rurali e la promozione dei prodotti locali"
(L.R.
18.11.2013 n. 14). |
LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 18.11.2013, "Approvazione
criteri per l’assegnazione di contributi per la
riqualificazione di impianti sportivi scolastici di uso
pubblico" (deliberazione
G.R. 08.11.2013 n. 902). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U.
11.11.2013 n. 264 "Testo
del decreto-legge 12.09.2013, n. 104, coordinato con la
legge di conversione 08.11.2013, n. 128, recante:
«Misure urgenti in materia di istruzione, università e
ricerca»".
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Di interesse si leggano:
● Art. 10 - Mutui
per l’edilizia scolastica e per l’edilizia residenziale
universitaria e detrazioni fiscali
● Art. 10-bis - Disposizioni in materia di prevenzione degli
incendi negli edifici scolastici
● Art. 10-ter - Interventi di edilizia scolastica |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M.
Ferrari,
Il codice di comportamento di ente
(tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it n. 56 -
novembre 2013).
---------------
Mario Ferrari ha fornito un’analisi sintetica del compito
a cui sono chiamate tutte le amministrazioni pubbliche:
adottare, entro il 15.12.2013, un codice di comportamento
specifico di ente. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale News
(tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it,
05.11.2013 n. 20). |
ESPROPRIAZIONE:
Di Giulio Veltri,
LA TUTELA RESTITUTORIA IN MATERIA ESPROPRIATIVA: LO STATO
DELLA GIURISPRUDENZA ED I NODI ANCORA IRRISOLTI (novembre
2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
A. Di Mario,
Standard urbanistici e
distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il
‘‘decreto del fare’’ (per gentile concessione
dell'autore - Urbanistica e appalti n. 11/2013). |
TRIBUTI:
Tributi News (tratto
dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 22.10.2013
n. 20). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Linee guida su programmazione, progettazione ed
esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture (determinazione
06.11.2013 n. 5). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Sentenza della Corte costituzionale n. 203 del
03.07.2013 - Estensione del diritto al congedo di cui all’art. 42, comma 5, decreto legislativo n. 151 del 26.03.2001
a parente o affine entro il terzo grado convivente con la
persona in situazione di disabilità grave (INPS,
circolare 15.11.2013 n. 159 - link a www.inps.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Oggetto: Art. 20, comma 5-bis, lett. a), D.L. 21.06.2013,
n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n.
98. Modifica all'art. 202 del D.Lgs. 18.05.1998, n. 285
(Codice della Strada) . Prime indicazioni operative
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
lettera-circolare 11.11.02013 n. 19442 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Rilascio del Documento unico di regolarità
contributiva anche in presenza di una certificazione che
attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi, liquidi
ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche
amministrazioni di importo almeno pari agli oneri
contributivi accertati e non ancora versati da parte di un
medesimo soggetto - D.M. 13.03.2013 (INAIL,
circolare 11.11.2013 n. 53 -
link a www.inail.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n.
4035/2013 del 31.07.2013 in materia di diritto di accesso
alle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede
ispettiva. Istruzioni operative (Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali,
circolare 08.11.2013 n.
43/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive
modificazioni e integrazioni - risposta al quesito sulla
formazione degli addetti alla gestione delle emergenze
per la prevenzione incendi, DM 10.03.1998
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 24.10.2013 n. 10/2013). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Monetizzazione delle ferie.
Le ferie spettanti al dipendente e da
questi non godute entro i limiti legali e/o contrattuali, a
tal fine, previsti nel singolo comparto di appartenenza
prima della vigenza del d.l. 95/2012 (convertito), non
possano ritenersi assoggettate al divieto di monetizzazione,
trattandosi di un diritto ormai sorto ovvero di una
fattispecie già perfezionata, della quale, cioè, sono venuti
ad esistenza tutti i presupposti (ove, naturalmente, ciò sia
effettivamente accaduto, secondo le disposizioni
contrattuali e di legge, in concreto, operanti nel caso
specifico).
In mancanza di una disciplina “intertemporale” che abbia
esteso gli effetti del divieto anche alle ferie non più
fruibili alla data di entrata in vigore della norma –come
nella specie– dunque, non può che concludersi nel senso
della esclusione delle stesse (e del conseguente diritto
alla monetizzazione) dalla relativa previsione.
---------------
Il Sindaco del Comune di Porto Tolle, con la suindicata
nota, ha sollecitato l’esercizio della funzione consultiva
da parte di questa Sezione, ponendo i seguenti quesiti:
- se sia possibile riconoscere, in favore di una
dipendente del comune, collocata in quiescenza per inabilità
totale al lavoro, la monetizzazione delle ferie maturate e
non godute prima della entrata in vigore dell’art. 5, comma
8, del D.L. n. 95 del 06.07.2012, conv. nella Legge n. 135
del 07.08.2012, a norma del quale “le ferie, i riposi
ed i permessi spettanti al personale … sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai
rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla
corresponsione di trattamenti economici sostitutivi”)
ovvero se tale riconoscimento sia suscettibile di generare,
in capo al responsabile del servizio finanziario che ne
disponga la liquidazione, responsabilità disciplinare ed
amministrativa, così come previsto dall’ultimo capoverso
della citata disposizione;
- se il suddetto riconoscimento possa estendersi anche
alle ferie maturate dopo l’entrata in vigore del citato
Decreto, in ragione del fatto che la mancata fruizione delle
stesse debba imputarsi alla cessazione del rapporto per
sopravvenuta inabilità al lavoro e, dunque, per causa non
imputabile alla dipendente.
...
Nel caso di specie, i quesiti formulati, sia pure in forma
estremamente concreta e circostanziata, vertono, in ultima
analisi, sulla interpretazione ed applicazione di una norma
vincolistica avente quale finalità quella di conseguire una
riduzione della spesa di personale, in un’ottica di
razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica, di
sicura rilevanza rispetto alla nozione di contabilità dianzi
delineata.
La Sezione, tuttavia, onde non travalicare i limiti della
funzione consultiva e non esprimersi su di una vicenda
concreta, suscettibile di avere ripercussioni sia sul piano
delle scelte gestionali dell’ente, sia su quello della
responsabilità amministrativo-contabile, si limiterà ad
esprimere alcune considerazioni generali sull’ambito di
operatività della disposizione.
Quest’ultima, come si è detto, al fine di conseguire
un’ulteriore razionalizzazione della spesa pubblica, ha
introdotto il divieto di “monetizzazione”, tra l’altro,
delle ferie maturate e non godute dal personale dipendente
delle pubbliche amministrazioni, escludendo la
corresponsione di qualsivoglia trattamento sostitutivo e
rendendo obbligatoria la fruizione delle ferie medesime nei
tempi e nei modi previsti dai singoli comparti di
contrattazione.
La stessa, inoltre, ha espressamente esteso il divieto ai
casi di mancata fruizione per cessazione del rapporto di
lavoro, mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e
raggiungimento del limite di età, prevedendo, tra l’altro,
la cessazione dell’applicazione, a decorrere dalla entrata
in vigore del decreto, di tutte le disposizioni “più
favorevoli”, sia di natura normativa che di natura
contrattuale.
In forza del generale principio di irretroattività, le leggi
“in materia civile” –per quelle in materia penale, il
principio è di rango costituzionale (art. 25 Cost.)–
dispongono, di norma, solo per l’avvenire e non possono
investire fattispecie che abbiano già prodotto o esaurito i
loro effetti, applicandosi soltanto a fattispecie, status e
situazioni esistenti o sopravvenute alla data di entrata in
vigore della legge medesima e, in quest’ultimo caso, anche
se scaturenti da un fatto verificatosi anteriormente, quando
debbano essere prese in considerazione in se stesse,
prescindendo dal fatto che le ha generate (art. 11 delle
Disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice
civile).
Sulla scorta di tale principio, è evidente che le ferie
spettanti al dipendente e da questi non godute entro i
limiti legali e/o contrattuali, a tal fine, previsti nel
singolo comparto di appartenenza prima della vigenza del
decreto legge (convertito), non possano ritenersi
assoggettate al divieto di monetizzazione, trattandosi di un
diritto ormai sorto ovvero di una fattispecie già
perfezionata, della quale, cioè, sono venuti ad esistenza
tutti i presupposti (ove, naturalmente, ciò sia
effettivamente accaduto, secondo le disposizioni
contrattuali e di legge, in concreto, operanti nel caso
specifico).
In mancanza di una disciplina “intertemporale” che abbia
esteso gli effetti del divieto anche alle ferie non più
fruibili alla data di entrata in vigore della norma –come
nella specie– dunque, non può che concludersi nel senso
della esclusione delle stesse (e del conseguente diritto
alla monetizzazione) dalla relativa previsione. Nello stesso
senso, peraltro, si è espresso anche il Dipartimento della
Funzione Pubblica, nella nota del 06.08.2012, in risposta
ad analogo quesito dell’ANCI.
In merito al secondo quesito ed, in generale, alla
estensione del divieto anche alle ipotesi nelle quali la
mancata fruizione delle ferie sia dovuta al sopravvenire di
una vicenda estintiva del rapporto di lavoro non “dipendente
dalla volontà dell’interessato” (nella specie, collocamento
in quiescenza per inabilità assoluta alla prestazione
lavorativa), deve rilevarsi come proprio la formulazione
della norma, oltre a ragioni di equità e di ragionevolezza,
conducano alla esclusione di una interpretazione di tal
genere.
L’espressa individuazione dei casi nei quali l’intervenuta
cessazione del rapporto di lavoro non fa venir meno la
preclusione alla monetizzazione, all’evidenza, è indice
della volontà del Legislatore di lasciare al di fuori
dell’ambito di operatività della norma le ipotesi non
contemplate; inoltre, la natura dei casi indicati –fattispecie nelle quali il dipendente determina o concorre a
determinare, con propri atti o comportamenti, la cessazione
del rapporto o, comunque, nelle quali è ben possibile, in
previsione dell’evento, pianificare il godimento delle ferie
(mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e
raggiungimento del limite di età)– lascia chiaramente
intendere che la prevedibilità e, quindi, la
riconducibilità, anche mediata, della fattispecie estintiva
alla volontà del dipendente costituisca elemento determinate
ai fini della delimitazione della portata del divieto di
corresponsione di trattamenti economici “sostitutivi”;
divieto che, dunque, non può ritenersi operante, in
generale, per le ferie delle quali, nel singolo contesto
normativo e contrattuale del comparto di riferimento, non è
più possibile godere in ragione della sopravvenuta
interruzione del rapporto di impiego per cause diverse da
quelle previste dalla norma in esame (Corte dei Conti, Sez.
controllo Veneto,
parere 12.11.2013 n.
342). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli atti di pianificazione
indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006
non possono che riferirsi ed essere collegati alla
realizzazione di lavori pubblici con la conseguenza che i
corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che
materialmente redigono atti di pianificazione devono essere
collegati al compimento di opere pubbliche.
Nella specie, la partecipazione alla
predisposizione del piano di azione e della mappatura
acustica, i quali
sono atti solo potenzialmente e non specificamente collegati
alla realizzazione di singole opere pubbliche, rientra nell’espletamento di un’attività
riconducibile ad una funzione istituzionale, rispetto alla
quale il dipendente che abbia materialmente redatto l’atto
svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da
ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2011) e come
tale non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di
cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
---------------
Dato il carattere multidisciplinare
dell’attività di pianificazione delle opere pubbliche,
l’incentivo può essere riconosciuto a tutti i soggetti che
hanno partecipato alla redazione dell’atto, senza che sia
necessario assumere il ruolo di progettista del piano.
---------------
Il Commissario Straordinario della Provincia di Genova ha
formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta
interpretazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs.
12.04.2006, n. 163, che prevede la corresponsione di
incentivi a favore del personale dipendente
dell’amministrazione aggiudicatrice che abbiano partecipato
alla redazione di un atto di pianificazione, nell’ipotesi di
attività previste dal d.lgs. 19.08.2005, n. 194 relative
alla bonifica acustica della rete viabile.
La Provincia, nel formulare la richiesta di parere, muove da
un precedente di questa Sezione (parere 21.12.2012 n. 109),
in occasione del quale è stato affermato che i corrispettivi
previsti a favore dei dipendenti per la partecipazione alla
redazione di atti di pianificazione devono essere collegati
al compimento di opere pubbliche. Ritiene al riguardo la
Provincia che questa Sezione, nel citato parere, abbia
inteso affermare uno stretto collegamento tra pianificazione
e progettazione di opere pubbliche laddove in altri
precedenti di diverse Sezioni regionali sembrerebbe –ad
avviso della Provincia– ammettersi la corresponsione
dell’incentivo correlato all’attività di pianificazione
anche nel caso di prestazione affidata a professionisti
esterni, qualora alcune attività siano comunque svolte dai
dipendenti pubblici (Sez. regionale di controllo per il
Veneto
parere 26.07.2011 n. 337).
Riferisce, inoltre, la Provincia che la normativa relativa
alle attività di bonifica acustica della rete viabile, nel
prevedere una serie di adempimenti che consistono in una
mappatura acustica e nella definizione di un piano di azione
per le zone con supero, la cui mancata adozione è dalla
legge sanzionata, configura tali atti nel loro insieme come
attività di pianificazione e programmazione finalizzate a
valutare il sistema infrastrutturale provinciale dal punto
di vista delle criticità acustiche, definendo tali atti gli
obiettivi a medio e lungo termine ed identificando gli
interventi e la stima presuntiva dei costi oltreché il grado
di priorità esecutiva per ciascun intervento. Sicché il
piano di azione comporta interventi di risanamento acustico
che possono anche riguardare la realizzazione di opere
(posizionamento di barriere antirumore, ecc.) riconducibili
alle categorie dei lavori pubblici previste dal d.P.R.
05.10.2010, n. 207 e che in ogni caso devono essere recepiti
nel piano triennale delle opere pubbliche.
Di qui il primo quesito concernente la possibilità o meno
di riconoscere l’incentivo al personale che partecipa alla
predisposizione del piano di azione e della mappatura
acustica che ne costituisce il presupposto.
Il secondo quesito, subordinato al primo, che muove
da un orientamento della Sezione regionale di controllo per
la Lombardia (deliberazioni n. 9 del 2009 e n. 430 del
2011), secondo cui gli atti di pianificazione richiamati
dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, devono
presentare un contenuto tecnico documentale rientrante nelle
competenze professionali degli architetti e degli ingegneri,
concerne, invece, la possibilità o meno che l’incentivo
sia riconosciuto a tutte le professionalità necessarie per
la redazione del piano d’azione e cioè non solo agli
architetti ed agli ingegneri.
A sostegno della tesi prospettata, la Provincia richiama il
precedente citato della Sezione regionale di controllo per
il Veneto (parere
26.07.2011 n. 337), nel quale si
afferma il carattere multidisciplinare dell’attività di
pianificazione con la possibilità, quindi, che l’incentivo
possa essere riconosciuto a tutti i soggetti che hanno
partecipato alla redazione dell’atto, senza che sia
necessario assumere il ruolo di progettista del piano.
...
Nel merito, occorre richiamare il comma 6 dell’art. 92 del
d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui “il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con
le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
Sulla portata applicativa della norma si sono più volte
pronunciate, in sede consultiva, diverse Sezioni regionali
di controllo della Corte dei conti (Sez. contr. Puglia
parere 16.01.2012 n. 1, Sez. contr. Campania n. 14 del 2008, Sez. contr.
Toscana
parere 18.10.2011 n. 213), tra cui anche questa Sezione con
il
parere 21.12.2012 n. 109, richiamato nella richiesta
di parere.
E’ stato al riguardo affermato che l’analisi delle
fattispecie non può prescindere dalla collocazione
sistematica della norma nel Codice dei contratti e più
specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata alla
progettazione interna ed esterna relativa a lavori pubblici.
Sicché, come precisato da questa Sezione nel citato parere
n. 109 del 2012, gli atti di pianificazione
indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006
non possono che riferirsi ed essere collegati alla
realizzazione di lavori pubblici con la conseguenza che i
corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che
materialmente redigono atti di pianificazione devono essere
collegati al compimento di opere pubbliche.
Nella specie, la partecipazione alla
predisposizione del piano di azione e della mappatura
acustica, i quali
sono atti solo potenzialmente e non specificamente collegati
alla realizzazione di singole opere pubbliche,
rientra nell’espletamento di un’attività
riconducibile ad una funzione istituzionale, rispetto alla
quale il dipendente che abbia materialmente redatto l’atto
svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da
ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2011) e come
tale non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di
cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Rimane, pertanto, assorbito il secondo quesito concernente
la possibilità o meno che l’incentivo sia riconosciuto a
tutte le professionalità necessarie per la redazione del
piano d’azione e cioè non solo agli architetti ed agli
ingegneri, fermo restando che –ad avviso del Collegio– vale
quanto affermato dalla Sezione regionale di controllo per il
Veneto nel citato
parere 26.07.2011 n. 337 a proposito della
pianificazione e progettazione delle opere pubbliche,
secondo cui, dato il carattere
multidisciplinare dell’attività di pianificazione delle
opere pubbliche, l’incentivo può essere riconosciuto a tutti
i soggetti che hanno partecipato alla redazione dell’atto,
senza che sia necessario assumere il ruolo di progettista
del piano
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 11.11.2013 n. 80). |
ENTI LOCALI: Dismissioni, l'holding non salva.
Illegittimo costituire una capogruppo per dribblare i tagli.
La Corte conti Lombardia
sull'obbligo di mettere in liquidazione le società
strumentali.
Niente escamotage sulla dismissione delle società
partecipate. Non basta infatti costituire una holding per
dribblare gli obblighi che impongono (entro il 31 dicembre)
ai comuni sotto i 30.000 abitanti di liberarsi di tutte le
società strumentali, lasciando al contempo agli enti tra
30.000 e 50.000 abitanti la possibilità di mantenere la
partecipazione in una sola società detenuta. Se infatti si
consentisse ai comuni di avere una partecipazione diretta in
una società la quale a sua volta ne controlla svariate
altre, si legittimerebbe una condotta elusiva di una norma
di legge. Poiché la ratio dell'art. 14, comma 32 del dl
78/2010 è quella di ridurre le partecipazioni societarie
detenute dai comuni.
Lo ha chiarito con il
parere
04.11.2013 n. 474 la Corte dei Conti della Lombardia,
Sez. controllo.
A rivolgersi ai giudici contabili è stato il comune di
Bollate (Mi) che chiedeva un parere sulla legittimità di
un'operazione realizzata nel 2007, ma divenuta a rischio
alla luce del dl 78/2010. L'ente aveva costituito una srl,
interamente partecipata, la quale, a seguito di
trasferimento di quote, era salita fino a detenere il 100%
di due ulteriori società: una, affidataria di servizi
socio-assistenziali e delle farmacie comunali e un'altra
affidataria di servizi per il territorio. Nella richiesta di
parere, il sindaco chiedeva se fosse possibile unificare le
due partecipazioni trasformando la società partecipata in
una holding (detentrice di sole partecipazioni e quindi
connotabile come holding strategica). Ma l'operazione ha
ricevuto l'altolà della Corte conti lombarda.
I giudici erariali hanno sottolineato che le società
strumentali per essere tali devono avere un oggetto sociale
esclusivo. Se infatti si consentisse a questo tipo di
società la possibilità di svolgere ulteriori attività a
favore di altri soggetti pubblici o privati, «si
verificherebbe un'alterazione o comunque una distorsione
della concorrenza all'interno del mercato locale». Ma la
gestione di partecipazioni societarie esula dal concetto di
«oggetto sociale esclusivo», perché non è ammissibile
che «la stessa società che opera in house svolga, per
conto di uno o più enti, sia attività strumentali sia di
gestione di servizi pubblici locali».
Ma a parte questo vizio di fondo, l'operazione congegnata
dal comune di Bollate è da cassare soprattutto perché «collide
con la disposizione prevista dall'art. 14, comma 32, del dl
78/2010 e con il principio di eliminazione quantitativa
delle partecipazioni societarie detenute e non più
detenibili». L'unica chance per gli enti è ampliare la
compagine societaria coinvolgendo altri comuni in modo da
superare i limiti demografici previsti. Una possibilità già
ammessa dalla stessa Corte conti Lombardia (delibera n.
66/2013)
(articolo ItaliaOggi
del 14.11.2013). |
APPALTI:
In materia di regolarizzazione delle spese di "somma
urgenza" e di debiti fuori bilancio.
La regolarizzazione delle spese “di somma urgenza”
senza attivare la procedura di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio può essere disposta in tutti i casi in cui
esistono stanziamenti in bilancio (anche ordinari)
sufficientemente capienti all’effettuazione della spesa di
somma urgenza.
Nel caso in cui non vi siano idonei stanziamenti in
bilancio, la Giunta, su proposta del responsabile del
procedimento, attiva la procedura di riconoscimento dei
debiti fuori bilancio di competenza consiliare.
Il rinvio all’art. 194 TUEL è da intendersi unicamente
riferito alla forma dell’atto e alla competenza dell’Organo
(Consiglio) e quindi si ritiene che in nessun caso debba
operare, per il riconoscimento della spesa, il limite “degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’Ente”.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Presidente della
Provincia di Torino chiede:
1) se, ai sensi dell’art. 191 TUEL la regolarizzazione delle
spese “di somma urgenza” possa essere disposta dalla Giunta
solo ed esclusivamente nelle ipotesi di stanziamenti
appositamente intestati a tale finalità;
2) se, invece, la competenza dell’esecutivo si possa
ritenere radicata anche nell’ipotesi di ricorso agli
ordinari stanziamenti di bilancio per la manutenzione
ordinaria o straordinaria purché preesistenti, anche in
ordine alla capienza, all’effettuazione della spesa
regolarizzata;
3) se le regolarizzazioni di che trattasi costituiscono,
sempre, debito fuori bilancio anche quando allocate sugli
ordinari stanziamenti di bilancio o solo nell’ipotesi di
competenza consiliare;
4) se, pertanto, le regolarizzazioni attuate con
provvedimento dell’esecutivo siano indenni dall’onere del
riconoscimento solo nei limiti dell’utilità conseguita;
5) se, in sede di prima applicazione della norma, le
regolarizzazioni effettuate con deliberazione consiliare,
anche quando potevano esserlo con provvedimento di giunta,
possano essere ugualmente escluse dall’assimilazione ai
debiti fuori bilancio facendo prevalere considerazioni di
ordine sostanziale rispetto a quelle di ordine formale.
...
L’art. 191, comma 3, del TUEL, nel testo modificato dal
D.L. n. 174/2012, convertito nella L. n. 213/2012 così
dispone:
“Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal
verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la
Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio
si dimostrino insufficienti, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la
relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della
proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare”.
Nella relazione illustrativa della nuova norma, come
innovata dall’art. 3, comma 1, lett. i) del D.L. n.
174/2012, come convertito nella L. n. 213/2012, si evidenzia
che “si prevede una maggiore responsabilizzazione degli
organi di governo per l’effettuazione di lavori pubblici di
somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile. La norma mira, infatti, a
ricondurre al sistema di bilancio le spese effettuate con
procedure non tipiche in considerazione dell’urgenza di
realizzare gli interventi eccezionali ed imprevedibili”.
In effetti, l’art. 191, comma 3, del TUEL nel testo
antecedente alla novella del 2012 prevedeva unicamente che
“per i lavori di somma urgenza cagionati dal verificarsi di
un evento eccezionale od imprevedibile, l’ordinazione fatta
a terzi è regolarizzata, a pena di decadenza entro trenta
giorni e comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La
comunicazione al terzo interessato è data contestualmente
alla regolarizzazione.”
Immutato invece è rimasto il tenore del comma 4 dell’art.
191 TUEL che prevede:
“Comma 4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni
e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2
e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi
dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato
fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che
hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o
continuative detto effetto si estende a coloro che hanno
reso possibili le singole prestazioni”.
Come noto, l'art. 191 TUEL fissa le "Regole per l'assunzione
di impegni e per l'effettuazione di spese".
Il primo comma dell’articolo individua l'ordinaria procedura
di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se sussiste
l'impegno contabile registrato sul competente intervento o
capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della
copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo
dopo il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività
del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato
l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente
all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria, il comma 3
dell’art. 191 risulta essere una deroga alla disciplina
ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del
legislatore a diversamente procedere in presenza di
situazioni che richiedono un intervento immediato (somma
urgenza) a tutela di interessi primari.
Tuttavia, proprio perché si tratta di una procedura
derogatoria a quella ordinaria di spesa, deve essere
applicata in maniera restrittiva e deve, in ogni caso,
essere seguita da una rigorosa “regolarizzazione” a
posteriori, che riconduca tale spesa anomala nell’ambito
della contabilità ordinaria dell’Ente.
Nell’ambito della disciplina antecedente al D.L. n.
174/2012, la norma contenuta nel comma 3 dell’art. 191 TUEL,
nello stabilire che, per i lavori di somma urgenza,
l'ordinazione fatta a terzi andava regolarizzata dall'Ente
locale improrogabilmente entro 30 giorni -e, comunque,
entro la fine dell'esercizio, a pena di decadenza-, serviva
ad evitare che, alla fine di ciascun esercizio
s'accumulassero ordinativi di pagamento per lavori di somma
urgenza che, non trovando debita copertura finanziaria, si
trasformavano in debiti fuori bilancio (cfr. in tal senso
Cass. n. 20763/2009; Cons. Stato, Sez. 5, 23/04/2001, n.
2419).
Nell’ambito di questa logica normativa ancora attuale, la
finalità della novella legislativa del 2012 sembra essere
quella di responsabilizzare maggiormente gli organi di
governo dell’Ente.
Come già evidenziato da questa Corte, “appare chiara la
volontà del legislatore di consentire una deroga alla
procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di
somma urgenza ma solo allorquando non vi siano difatti,
sufficienti fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza,
non è possibile per l'Ente procedere all'impegno di somme
sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto,
appunto perché fondi non ve ne sono o non sono sufficienti"
(Sez. controllo Liguria, deliberaz. n. 12/2013 e n.
22/2013).
Pertanto,
il dirigente responsabile del centro di costo su
cui deve essere fatta gravare la spesa deve procedere a
verificare la presenza in bilancio di risorse disponibili da
utilizzare per i lavori di somma urgenza e, nel caso di
esito positivo, deve predisporre la determinazione
dirigenziale per l’assunzione dell’impegno dei fondi.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga appurata
l’indisponibilità, in toto o in quota parte, delle risorse
in bilancio, il dirigente responsabile del centro di costo
deve predisporre una proposta di deliberazione di
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio
ex art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, nei limiti delle
accertate necessità per la rimozione dello stato di
pregiudizio alla pubblica incolumità, sottoponendo tale
delibera alla Giunta, la quale, in base al nuovo dettato
dell’art. 191 TUEL, deve attivare la procedura di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194 di
competenza dell’Organo consiliare entro il termine breve
indicato dalla norma.
“Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano
trovarsi all'interno del bilancio dell'Ente non interessa al
fine della corretta applicazione della norma. Altro non farà
l'Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello
che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio
di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193
(Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL”
(Sez.
controllo Liguria, deliberaz. n. 12/2013 e n. 22/2013).
Si ritiene, pertanto, che ai quesiti posti
dall’Amministrazione provinciale possano essere date le
seguenti risposte:
- la regolarizzazione delle spese “di somma urgenza” senza
attivare la procedura di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio può essere disposta in tutti i casi in cui esistono
stanziamenti in bilancio (anche ordinari) sufficientemente
capienti all’effettuazione della spesa di somma urgenza;
- nel caso in cui non vi siano idonei stanziamenti in
bilancio, la Giunta, su proposta del responsabile del
procedimento, attiva la procedura di riconoscimento dei
debiti fuori bilancio di competenza consiliare;
- il rinvio all’art. 194 TUEL è da intendersi unicamente
riferito alla forma dell’atto e alla competenza dell’Organo
(Consiglio) e quindi si ritiene che in nessun caso debba
operare, per il riconoscimento della spesa, il limite “degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’Ente”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 24.10.2013 n. 360). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli
atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, dlgs
163/2006 non possono che riferirsi ed essere collegati alla
realizzazione di lavori pubblici come confermato tra l’altro
dal testo della norma in esame allorquando dispone che il
compenso deve essere ripartito tra i “dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Pertanto i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti
che materialmente redigono atti di pianificazione devono
essere collegati al compimento di opere pubbliche.
Solo in tal modo si giustifica una deroga al principio di
onnicomprensività della retribuzione sancito dall’art. 45
del D.lgs. n. 165 del 2001, in quanto nell’ambito dei lavori
pubblici il legislatore vede con favore l’espletamento dei
compiti di progettazione e di pianificazione da parte del
personale interno dotato nelle necessarie professionalità in
modo sa valorizzare queste ultime e conseguire risparmi di
spesa in conseguenza del mancato ricorso a professionalità
esterne.
Ne consegue che l’attività ordinaria d’ufficio, tra cui
rientra la variante al PRG oggetto della richiesta di
parere, deve essere svolta dal personale dipendente
dell’Amministrazione locale che nel caso di specie, proprio
in virtù del tenore letterale del quesito posto e della
finalità sottesa allo stesso, è in possesso delle
professionalità richieste dalla redazione della variante in
esame che, come detto, costituisce atto rientrante tra i
doveri d’ufficio.
Pertanto questa Sezione ritiene nel senso che
non sia possibile attribuire compensi
incentivanti per atti di pianificazione che non siano
direttamente collegati alla realizzazione di opere
pubbliche, atti di pianificazione che devono essere affidati
a risorse interne all’Ente al fine di non incorrere nelle
conseguenze previste dalla legge per l’ingiustificato
ricorso a professionalità esterne.
---------------
... la Commissione straordinaria presso il Comune di
Bordighera chiede alla Sezione di controllo un parere in
ordine al corretto ambito applicativo dell’art. 92, comma 6,
del D.lgs. n.163/2007 (Codice degli appalti) in base a cui “il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Nello specifico si evidenzia che a seguito di ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica proposto da una
società immobiliare sono stati impugnati il DPGR della
Liguria, di approvazione condizionata della variante
integrale al Piano regolatore generale del comune di
Bordighera, e la Delibera di Consiglio comunale, con cui è
stata disposta l’accettazione delle prescrizioni imposte
dalla regione Liguria per l’approvazione del PRG. Il
Presidente della Repubblica ha accolto l’impugnazione e
conseguentemente annullato gli atti citati determinando in
capo al Comune la necessità di adottare una variante al PRG
vigente per dotare di opportuna disciplina urbanistica le
aree interessate appartenenti alla società ricorrente.
Potendo la variante essere predisposta dal personale interno
in possesso dei requisiti professionali necessari, la
Commissione straordinaria chiede se sia legittimo il
riconoscimento agli stessi dell’incentivo di cui al comma 6,
dell’art. 92 sopra citato (pari al 30% della tariffa
professionale) evitando così di ricorrere all’affidamento di
incarico professionale esterno mediante la procedura di cui
all’art. 124 del D.Lgs. 163/2006, ed ottenendo
conseguentemente un notevole risparmio di spesa.
...
Con la richiesta di parere in esame la Commissione
straordinaria presso il comune di Bordighera chiede di
sapere se la variante al Piano regolatore generale possa
essere ricompresa tra gli atti di pianificazione richiamati
dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 e
giustificare, pertanto, l’attribuzione dell’incentivo ivi
individuato al personale dipendente dell’amministrazione che
provvederà materialmente alla redazione dello strumento
urbanistico.
Dispone infatti la citata norma che “il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con
le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto”.
Questo Collegio nel dare risposta al quesito in esame non
può che ripercorrere gli stessi passaggi argomentativi già
svolti nei confronti della richiesta di parere presentata
dal medesimo Comune in pari data per una questione pressoché
identica.
Per rispondere compiutamente al quesito occorre, sulla base
di un’analisi testuale della norma in esame, individuare
quali siano gli atti di pianificazione ricompresi nel
dettato normativo.
Come già affermato da altre Sezioni regionali (Sez.
controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1,
Sez. controllo Campania parere 10.07.2008 n. 14, Sez.
controllo Toscana
parere 18.10.2011 n. 213)
l’analisi non può prescindere dalla collocazione sistematica
della norma che trova posto nel cd. Codice dei contratti e
più specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata
alla progettazione interna ed esterna relativa a lavori
pubblici.
Pertanto gli atti di pianificazione
indicati dall’art. 92, comma 6, citato non possono che
riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori
pubblici come confermato tra l’altro dal testo della norma
in esame allorquando dispone che il compenso deve essere
ripartito tra i “dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Pertanto i
corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che
materialmente redigono atti di pianificazione devono essere
collegati al compimento di opere pubbliche.
Solo in tal modo si giustifica una deroga
al principio di onnicomprensività della retribuzione sancito
dall’art. 45 del D.lgs. n. 165 del 2001, in quanto
nell’ambito dei lavori pubblici il legislatore vede con
favore l’espletamento dei compiti di progettazione e di
pianificazione da parte del personale interno dotato nelle
necessarie professionalità in modo sa valorizzare queste
ultime e conseguire risparmi di spesa in conseguenza del
mancato ricorso a professionalità esterne.
Nel caso di specie appare di tutta evidenza che la variante
al PRG non è necessitata dalla realizzazione di un’opera
pubblica bensì discende dalla necessita di adempiere ad
obblighi imposti dal Decreto del Presidente della Repubblica
(in accoglimento di un ricorso proposto da privati),
obblighi che si sostanziano in atti amministrativi
finalizzati a disciplinare l’assetto urbanistico che
pertanto rientrano nell’espletamento “di una funzione
istituzionale” e “il dipendente/i che abbia redatto
materialmente l’atto regolamentare, svolge un’attività
lavorativa ordinaria che è da ricomprendersi nei compiti e
doveri d'ufficio (art. 53 D.lgs. n. 165/2001), non
suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui
all’art. 92, c. 6, D.lgs. n. 163/2006” (Sez. controllo
Toscana sopra richiamata).
Ne consegue che l’attività ordinaria
d’ufficio, tra cui rientra la variante al PRG oggetto della
richiesta di parere, deve essere svolta dal personale
dipendente dell’Amministrazione locale che nel caso di
specie, proprio in virtù del tenore letterale del quesito
posto e della finalità sottesa allo stesso, è in possesso
delle professionalità richieste dalla redazione della
variante in esame che, come detto, costituisce atto
rientrante tra i doveri d’ufficio
(si veda l’articolo 21, commi 3 e 4, della legge 05.05.2009,
n. 42 richiamato anche dall’art. 3 del d.lgs. 26.11.2010, n.
216 in materia di funzioni fondamentali degli Enti locali).
Pertanto questa Sezione ritiene nel senso che
non sia possibile attribuire compensi incentivanti
per atti di pianificazione che non siano direttamente
collegati alla realizzazione di opere pubbliche, atti di
pianificazione che devono essere affidati a risorse interne
all’Ente al fine di non incorrere nelle conseguenze previste
dalla legge per l’ingiustificato ricorso a professionalità
esterne
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 21.12.2012 n. 109). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Spogliatoi per la polizia locale, tempo di vestizione della
divisa.
La giurisprudenza (C. Cass. sez. lav.
08.04.2011, n. 8063), pronunciandosi in generale sul 'tempo
tuta' ha così affermato: 'La giurisprudenza di questa Corte
ha già avuto occasione di affermare che ai fini di valutare
se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale
debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla
disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia
data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo
ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria
abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività
fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo
svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve
essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal
datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di
esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il
tempo ad esso necessario deve essere retribuito (Cass.
21.10.2003, n. 15374, 08.09.2006, n. 19273)'.
Il Comune formula un quesito in merito alla sussistenza di
un eventuale obbligo di 'reperire adeguati ed idonei
locali, suddivisi uomini e donne, da adibire a locali
spogliatoio per il personale dipendente della Polizia locale'.
Un tanto -afferma sempre il Comune- in relazione a quello
che lo stesso Comune dice sia un 'conclamato principio'
di attuare le operazioni di vestizione e svestizione durante
l'orario di servizio.
L'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs 66/2003 da la
definizione di orario di lavoro: 'Qualsiasi periodo in
cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore
di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue
funzioni'. Nulla viene detto espressamente riguardo alle
attività preparatorie alla prestazione lavorativa quale il
tempo di vestizione.
Si ritiene quindi, sentito il Servizio organizzazione,
formazione e relazioni sindacali di comparto di questa
Direzione centrale che il quadro giuridico di riferimento
possa essere correttamente interpretato ricorrendo a
pronunce giurisprudenziali.
Non sono state reperite specifiche sentenze riguardanti la
presente fattispecie in relazione alla 'polizia locale',
ma ve ne sono inerenti, in generale, 'il tempo tuta':
'la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto occasione
di affermare che ai fini di valutare se il tempo occorrente
per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o
meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale
specifica: in particolare, ove sia data facoltà al
lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo ove indossare
la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima
di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli
atti di diligenza preparatoria allo svolgimento
dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere
retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore
di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di
esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il
tempo ad esso necessario deve essere retribuito (Cass.
21.10.2003, n. 15374, 08.09.2006, n. 19273)'
[1].
All'Aran era stato sottoposto un quesito
[2] che riguardava
'la possibilità di computare nell'orario di lavoro, anche
a fini retributivi, il tempo impiegato dal personale della
polizia municipale per indossare la divisa'; la stessa
così rispondeva 'Utili indicazioni possono essere tratte
anche da alcune pronunce giurisprudenziali (Corte di
Cassazione, sez. lav., n. 8063/2011
[3], Corte
di Cassazione sez. lav., n. 19358/2010...) che sembrerebbero
escludere che, in casi analoghi a quello esposto, il tempo
per indossare la divisa possa essere considerato orario di
lavoro'.
Sembra perciò non sussistere alcun obbligo per
l'Amministrazione di dotarsi di spogliatoi per il personale
di polizia locale.
---------------
[1] C. Cass. sez. lav. 08.04.2011, n. 8063; si veda anche
C. Cass., sez. lav., 07.06.2012, 9215 e, da ultimo, C. Cass.
sez. lav. 16.05.2013, n. 11828.
[2] RAL 1281.
[3] Che è quella della nota 1 (18.11.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Richiamo in servizio dalle
ferie.
L'ARAN ha chiarito come il dipendente
richiamato in servizio dalle ferie ai sensi dell'art. 18,
comma 11, del CCNL del 6 luglio 1995, sia tenuto a rendere
l'ordinaria prestazione di lavoro, anche sotto il profilo
della durata. Pertanto, per detta attività non può essere
riconosciuto alcun compenso a titolo di lavoro
straordinario.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche concernenti il richiamo dalle ferie di un
dipendente per motivi di servizio. In particolare, l'Ente si
è posto le seguenti questioni:
- se sia corretto non riconoscere, in detta fattispecie, il
compenso per lavoro straordinario, considerando il servizio
svolto come ordinario;
- se sia corretto applicare un istituto specifico del
contratto decentrato (indennità di disagio per
disponibilità) con riferimento ad una disposizione
contrattuale, l'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, che non
sembra riconoscere benefici di questo tipo.
Preliminarmente si osserva che esula dalle competenze dello
scrivente Ufficio valutare la correttezza o meno del
concreto operato delle amministrazioni locali, dovendo
limitarsi a fornire consulenza giuridico-amministrativa su
fattispecie generali ed astratte.
Tutto ciò premesso, in via collaborativa, si esprime quanto
segue.
L'art. 18, comma 11, del CCNL del 06.07.1995
[1],
prevede che, qualora le ferie già in godimento siano
interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente
ha diritto al rimborso delle spese documentate per il
viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo
di svolgimento delle ferie, nonché all'indennità di missione
per la durata del medesimo viaggio. Il dipendente ha inoltre
diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di
ferie non goduto.
L'Aran [2]
ha ritenuto che, in mancanza di una diversa e specifica
disciplina nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 18,
comma 11, citato, il dipendente richiamato dalle ferie per
motivi di servizio sia tenuto a rendere l'ordinaria
prestazione di lavoro, anche sotto il profilo della durata.
Conseguentemente la giornata del rientro in servizio si
configura quale ordinaria giornata lavorativa, e non può
dare diritto al compenso per prestazioni straordinarie se
non si protrae oltre l'ordinario orario giornaliero di
lavoro.
Per quanto concerne la seconda problematica prospettata
(corresponsione di indennità di disagio per disponibilità),
si precisa che lo scrivente non può esprimersi in merito.
Compete, infatti, esclusivamente all'Ente istante
interpretare le clausole approvate in contrattazione
decentrata integrativa, tenendo conto della reale volontà
delle parti negoziali.
---------------
[1]
Applicabile agli enti locali della Regione Friuli Venezia
Giulia, in virtù del disposto di cui all'art. 83 del CCRL
del 07.12.2006.
[2] Cfr. parere RAL 1428
(15.11.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Quote rosa senza vincoli.
Assessori donna esterni solo se è possibile.
Nei comuni sotto i 15 mila abitanti non c'è obbligo di
nomina.
La legge 23.11.2012, n. 215 prevede che sia garantita
la «presenza di entrambi i sessi» nelle giunte comunali. Per
adeguarsi alle modifiche recate dalla citata legge ,
sussiste l'obbligo di modificare lo statuto nelle ipotesi in
cui, nei comuni con popolazione inferiore a 15 mila
abitanti, non sia prevista la facoltà di nominare gli
assessori tra «cittadini non facenti parte del consiglio»?
La legge n. 215/2012 ha modificato il comma 3 dell'art. 6
del dlgs n. 267/2000, prevedendo che gli statuti comunali e
provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna e per «garantire» la
presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi
collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti.
Inoltre la presenza di entrambi i sessi deve essere resa
effettiva nei consigli comunali, sia nella formazione delle
liste dei candidati, sia prevedendo l'obbligo, per
l'elettore che voglia esprimere due voti di preferenza, di
indicare persone di sesso diverso. La giurisprudenza aveva
già affermato l'effettività della previsione costituzionale
sulla «parità di genere» recata dall'art. 51, precisando,
con riguardo alla nomina della giunta, che «la mancanza di
specifiche norme statutarie sulla rappresentanza di genere è
irrilevante, in quanto per previsione legislativa,
attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata,
il sindaco è vincolato a formulare le proprie scelte in modo
da conseguire anche tale obbiettivo».
La scelta del sindaco,
nel designare i componenti della giunta, seppur
discrezionale, deve cedere alla sindacabilità dell'atto da
parte del giudice amministrativo in quanto vincolata dalla
specifica disposizione normativa, proprio per quanto
riguarda la presenza di cittadini di entrambi i sessi.
Peraltro, l'obbligo di garantire la presenza nella giunta di
persone di entrambi i sessi «si scioglie solo se il sindaco
offre la dimostrazione di non aver potuto in concreto
individuare un assessore di genere femminile. A tal fine non
possono essere utilizzate motivazioni di tipo meramente
soggettivo e neppure ragioni di opportunità collegate agli
equilibri tra i gruppi politici di maggioranza».
In ordine
ai comuni con popolazione fino a 15 mila abitanti, la
novella legislativa, all'art. 1, comma 2, se da un lato
impone all'ente di adeguare il proprio statuto alle
previsioni volte a garantire la presenza di entrambi i sessi
nelle giunte, dall'altro non reca in modo espresso l'obbligo
di prevedere la nomina di assessori c.d. esterni, rimanendo
nelle prerogative dell'ente la facoltà di autodeterminarsi
in tal senso. Una recente pronuncia giurisprudenziale ha
affrontato proprio l'argomento in esame, relativo a un ente
con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, il cui statuto
prevede espressamente che, nel caso di rinuncia o di assenza
di donne nella maggioranza consiliare, «il verificarsi di
tali circostanze non obbliga il sindaco a nominare assessori
di sesso femminile persone estranee al consiglio».
Il
giudice, al riguardo, ha stabilito che al fine di
contemperare gli opposti interessi, in caso di assenza di
donne all'interno della maggioranza consiliare il sindaco
non può ritenersi obbligato a individuare assessori di sesso
femminile al di fuori della maggioranza consiliare, oppure
al di fuori della compagine consiliare, ma neppure può
ritenersi tout court esonerato dall'obbligo di nomina di
assessori di sesso femminile, occorrendo invece che egli
svolga un minimum di indagini conoscitive, tese a
individuare, all'interno della società civile, nel solo
bacino territoriale di riferimento del comune, personalità
femminili in possesso di quelle qualità necessarie per
ricoprire l'incarico di componente la giunta municipale.
È
ovvio che tali indagini e, con esse la nomina di assessori
di sesso femminile al di fuori della maggioranza consiliare,
avranno ragion d'essere solo se compatibili con l'esigenza
primaria della «governabilità», cioè se non pregiudicano
l'esistenza del «governo locale» espresso dalle urne. Di
tali indagini, e del loro esito, dovrà darsi conto nel
decreto sindacale con il quale vengano eventualmente
nominati unicamente assessori di sesso maschile. Solo entro
tali termini, pertanto, può dirsi che non vi sia obbligo per
il sindaco a nominare assessori di sesso femminile persone
estranee al Consiglio «e solo se così interpretata la
disposizione statutaria su richiamata» può dirsi «in linea
con le suddette coordinate comunitarie e nazionali in punto
di tutela della parità dei sessi nell'accesso alle cariche
elettive».
È, pertanto, evidente la necessità di
contemperare l'obbligo di garantire la rappresentanza di
entrambi i sessi con quello di assicurare il potere di
organizzazione dell'ente che cede, in via di eccezione, al
verificarsi di una concreta necessità di ricorrere a
cittadini non presenti in consiglio. Entro tali termini va
ricondotto l'obbligo, per il comune, di adeguare il proprio
statuto alle disposizioni recate dalla legge n. 215/2012,
intervenendo con un'apposita previsione nel senso indicato.
Invero, le prescrizioni sulla presentazione delle
candidature e sull'obbligo di indicare nella doppia
preferenza di voto persone di entrambi i sessi potrebbero,
in concreto, consentire al sindaco di comporre la giunta nel
rispetto della normativa qui richiamata rendendo remoto il
ricorso alle citate eccezioni
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Videoregistrazioni.
Domanda
Sono utilizzabili in sede penale, ai fini della prova di un
reato commesso dal dipendente, le videoregistrazioni
effettuate direttamente dal datore di lavoro?
Risposta
L'art. 4 St. Lav. è una disposizione mirata e limitata al
divieto di controllo della attività lavorativa in quanto
tale, ovvero al divieto di controllo della corretta
esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore
subordinato, ma tale stessa disposizione non impedisce,
invece, i controlli destinati alla difesa dell'impresa
rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o,
comunque, a tutela del patrimonio aziendale.
Secondo la Giurisprudenza vale la piena utilizzabilità ai
fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni
effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario
del divieto, laddove agisca non per il controllo della
prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela
dell'azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò non è esatto affermare che dalla citata disposizione
dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio
che riguardi la polizia giudiziaria, sia perché il divieto,
coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito
al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il
controllo dell'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Come
si configura il mobbing?
Il c.d. «mobbing» è una condotta protrattasi nel tempo con
le caratteristiche della persecuzione finalizzata
all'emarginazione del dipendente, in violazione degli
obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. Esso si può
realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali
dello stesso datore di lavoro, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali
previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi
alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva
della condotta del datore di lavoro, che può essere
dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della
violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
ENTI LOCALI:
Partecipazioni societarie dei comuni con popolazione
inferiore a 30.000 abitanti.
L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010
stabilisce, per i comuni con popolazione fino a 30.000
abitanti, oltre al divieto di nuove partecipazioni
societarie, la dismissione di tutte quelle già acquisite,
salve le eccezioni previste dalla norma e salvo, inoltre,
quanto disposto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge
244/2007.
In merito a quest'ultima 'clausola di salvezza', la
giurisprudenza attualmente prevalente ha interpretato tale
disposto secondo la regola del 'doppio binario', nel senso,
cioè, che le uniche partecipazioni societarie ammesse sono
quelle che rispondono sia ai criteri teleologici di cui
all'art. 3, comma 27, della L. n. 244/2007, sia ai criteri
demografici di cui all'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010.
E' stato, inoltre, puntualizzato che tale regime
vincolistico può essere derogato anche in presenza di norme,
di carattere speciale, che prevedano il necessario esercizio
di attività e funzioni comunali solo a mezzo di organismi
partecipati.
Il Comune, avente una popolazione inferiore a 30.000
abitanti, pone un articolato quesito in materia di
partecipazioni societarie degli enti locali. Vengono, in
particolare, chiesti i seguenti chiarimenti:
1) come si deve interpretare l'espressione 'fermo quanto
previsto dall'art. 3, comma 27, della legge 24.12.2007, n.
244 [1]',
utilizzata dall'art. 14, comma 32, del decreto legge
31.05.2010, n. 78 [2];
2) quale arco temporale deve essere preso in considerazione
per la verifica delle eventuali riduzioni di capitale o
degli eventuali ripiani delle perdite delle società
partecipate ai quali fa riferimento l'art. 14, comma 32,
lettere b) e c), del D.L. 78/2010.
Si osserva che le disposizioni citate fanno parte di una
serie di misure che il legislatore ha deciso per ridurre
considerevolmente il ricorso allo strumento delle società
partecipate da parte degli enti pubblici e favorire,
conseguentemente, il contenimento della spesa pubblica
nonché il ricorso a procedure comparative per la scelta
degli operatori privati ai quali affidare la realizzazione
di attività di pubblico interesse.
L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010 è, tra queste, la
norma più impattante in quanto correla la possibilità di
mantenere partecipazioni societarie alla dimensione
demografica dell'ente locale. In particolare, per i comuni
con popolazione fino a 30.000 abitanti, è stabilita, oltre
al divieto di nuove partecipazioni societarie, la
dismissione di tutte quelle già acquisite, salve le
eccezioni previste dalla norma e salvo, inoltre, quanto
disposto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge
244/2007.
In merito a quest'ultima 'clausola di salvezza', la
giurisprudenza attualmente prevalente ha interpretato tale
disposto secondo la regola del 'doppio binario', nel senso,
cioè, che le uniche partecipazioni societarie ammesse sono
quelle che rispondono sia ai criteri teleologici di cui
all'art. 3, comma 27, della L. n. 244/2007, sia ai criteri
demografici di cui all'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010
[3].
La giurisprudenza ha, inoltre, puntualizzato che tale regime
vincolistico presenta la possibilità di essere derogato
anche in presenza di norme, di carattere speciale, che
prevedano il necessario esercizio di attività e funzioni
comunali solo a mezzo di organismi partecipati
[4].
Con riferimento all'art. 14, comma 32, lettere b) e c), del
D.L. 78/2010, si osserva che la normativa, utilizzando
l'espressione 'nei precedenti esercizi', non sembra definire
l'arco temporale in cui debba essere accertato se nella
società partecipata vi siano state riduzioni di capitale
conseguenti a perdite di bilancio ovvero perdite di bilancio
in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato
dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.
Tale aspetto, criticato dalla dottrina [5],
è stato oggetto di un parere della Corte dei conti, la quale
ha sostenuto che 'per stabilire il mantenimento della
partecipazione, il comune dovrà verificare se, a partire
dall'esercizio 2009, a ritroso, sino alla data di
costituzione della società [6],
la medesima non abbia subito riduzioni di capitale
conseguenti a perdite di bilancio, ovvero non abbia subito
perdite di bilancio in conseguenza delle quali l'ente socio
sia stato gravato dall'obbligo di procedere al ripiano delle
perdite medesime'. Tale opzione interpretativa è stata
preferita 'in ragione della maggiore aderenza alle
esigenze di coordinamento della finanza pubblica che pone
per i comuni demograficamente minori la dismissione delle
partecipazioni come regola e il mantenimento entro
stringenti limiti come eccezione' [7].
---------------
[1] L'art. 3, comma 27, della L. 244/2007 stabilisce che:
'Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non possono costituire
società aventi per oggetto attività di produzione di beni e
di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento
delle proprie finalità istituzionali, né assumere o
mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza,
in tali società. E' sempre ammessa la costituzione di
società che producono servizi di interesse generale e che
forniscono servizi di committenza o di centrali di
committenza a livello regionale a supporto di enti senza
scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui
all'articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, e l'assunzione di
partecipazioni in tali società da parte delle
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, nell'ambito dei rispettivi
livelli di competenza'.
[2] L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010 (convertito dalla
legge 30.07.2010, n. 122) prevede che: 'Fermo quanto
previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge
24.12.2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a
30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il
31.12.2012 i comuni mettono in liquidazione le società già
costituite alla data di entrata in vigore del presente
decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. Le disposizioni
di cui al secondo periodo non si applicano ai comuni con
popolazione fino a 30.000 abitanti nel caso in cui le
società già costituite:
a) abbiano, al 31.12.2012, il bilancio in utile negli ultimi tre
esercizi;
b) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di
capitale conseguenti a perdite di bilancio;
c) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio
in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato
dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.
La disposizione di cui al presente comma non si applica alle
società, con partecipazione paritaria ovvero con
partecipazione proporzionale al numero degli abitanti,
costituite da più comuni la cui popolazione complessiva
superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa
tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la
partecipazione di una sola società; entro il 31.12.2011 i
predetto comuni mettono in liquidazione le altre società già
costituite'.
[3] V. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per l'Emilia
Romagna, del. 13.02.2012, n. 9/Par e sez. reg. di controllo
della Basilicata, del. 13.07.2012, n. 15. Anche l'Autorità
di vigilanza sui contratti pubblici, in un suo parere, si è
espressa nel senso che 'le amministrazioni pubbliche che
intendano costituire società sono soggette ad un vincolo di
scopo, mentre i comuni con popolazione inferiore a 50.000 o
30.000 abitanti sono sottoposti anche ad un vincolo di tipo
quantitativo (una società, nessuna società, obbligo di
aggregazione con altri comuni)' (Parere 04.04.2012, AG
40/11).
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Friuli
Venezia Giulia, del. n. FVG/69/2012/Par e sez. reg. di
controllo per la Lombardia, del. 15.09.2010, n. 861.
[5] Il rimando alla vita intera della società e, quindi,
anche ad epoche assai risalenti, sembra, infatti, poco
opportuno se l'intendimento del legislatore fosse quello di
salvare le partecipazioni pubbliche di società che risultano
essere in stato di salute e non fonte di debiti per gli enti
locali (V. 'Limiti all'utilizzabilità dello strumento
societario da parte dei comuni di piccole e medie
dimensioni', di Fabio Moretti, in Azienditalia, 2012, 7,
554).
[6] Ovvero sino alla data di acquisizione della
partecipazione pubblica, come la Corte dei conti precisa
nella medesima deliberazione.
[7] Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Lombardia, del. 27.02.2013, n. 66 (08.11.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Inabilità temporanea.
Nel caso di dipendente dichiarato
inabile temporaneamente, per un determinato periodo, si
ritiene che lo stesso debba comunque produrre il certificato
medico a giustificazione di detta assenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche concernenti l'inabilità temporanea ed assoluta
al servizio d'istituto e a proficuo lavoro, per la durata di
180 giorni, di un dipendente, riscontrata a seguito di
visita medico collegiale. L'ente si è posto, in particolare,
la questione se detto periodo debba essere considerato quale
malattia.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni
sindacali comparto, si osserva quanto segue.
Si evidenzia in proposito che l'ARAN, nell'esprimersi in
relazione ad un dipendente dichiarato temporaneamente
inidoneo a qualsiasi attività lavorativa, ha affermato il
principio, sancito dalla giurisprudenza, per cui deve essere
considerata malattia ogni alterazione patologica in atto di
organi e delle loro funzioni (anche dell'organismo nel suo
complesso) che, per i sintomi con cui si manifesta e per le
conseguenze che produce sull'organismo del lavoratore
impedisce temporaneamente l'esecuzione della prestazione
lavorativa dovuta, in quanto risulta del tutto incompatibile
con l'ulteriore svolgimento delle attività necessarie
all'espletamento della prestazione stessa
[1].
L'ANCI ha evidenziato specificamente come i periodi di
inidoneità a qualsiasi proficuo lavoro sono assolutamente da
ricondurre all'interno del giustificativo per malattia, non
potendo in alcun modo essere gestiti a diverso titolo
[2].
Conseguentemente il relativo periodo è da considerarsi
malattia a tutti gli effetti, anche ai fini del periodo di
comporto, previsto dall'art. 9, comma 1, del CCRL del
06.05.2008, e del necessario certificato medico
[3].
Relativamente al computo dei predetti 180 giorni, si ritiene
vadano conteggiati ordinariamente, da calendario, non
rilevando a tal fine il fatto che lo stipendio si calcoli in
trentesimi.
Con riferimento, da ultimo, all'obbligo o meno di richiedere
la visita fiscale, si rinvia alle considerazioni espresse
dal Dipartimento della funzione pubblica
[4]. In
particolare, il predetto Dipartimento ha ricondotto alla
discrezionalità del dirigente/titolare di posizione
organizzativa la decisione di richiedere la visita fiscale,
tenendo conto della condotta complessiva del dipendente e
degli oneri connessi all'effettuazione della visita
medesima.
Inoltre si precisa che le fattispecie di esclusione
dall'obbligo di reperibilità, in caso di visita fiscale,
sono elencate all'art. 2 del D.M. n. 206 del 18.12.2009
[5]. Nello
specifico, sono esclusi dall'obbligo di rispettare le fasce
di reperibilità i dipendenti per i quali l'assenza è
riconducibile ad una delle seguenti circostanze:
a) patologie gravi che richiedono terapie salvavita;
b) infortuni sul lavoro;
c) malattie per le quali è stata riconosciuta la causa di
servizio;
d) stati patologici sottesi o connessi alla situazione di
invalidità riconosciuta.
Sono altresì esclusi i dipendenti nei confronti dei quali
sia già stata effettuata la visita fiscale per il periodo di
prognosi indicato nel certificato.
---------------
[1] Cfr. parere RAL517, consultabile sul
sito:www.aranagenzia.it
[2] Cfr. parere del 30.07.2003.
[3] Si osserva ad ogni buon conto che l'art. 13 del medesimo
contratto, richiamato dal Comune istante, disciplina invece
le assenze per malattia in caso di terapia salvavita.
[4] Cfr. circolare n. 10/2011.
[5] Cfr. anche Dipartimento della funzione pubblica, parere
del 15.03.2010 (08.11.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Oneri assicurativi per convenzioni con associazioni.
Compete alle associazioni/imprese
agricole, con cui il Comune stipula una convenzione per
l'attività di pulizia a titolo gratuito, provvedere alla
copertura assicurativa dei propri collaboratori. Nel caso di
convenzione con le organizzazioni di volontariato o le
associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) i relativi
oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la
convenzione è stipulata.
Il Comune intende stipulare una convenzione con delle
associazioni locali e delle aziende agricole che si sono
rese disponibili, a titolo gratuito, ad attività di pulizia
del territorio.
Il Comune, che si limiterà unicamente a fornire il
carburante, chiede di conoscere i propri eventuali profili
di responsabilità tanto nel caso di infortunio che dovesse
occorrere ad un soggetto operante per conto di taluna delle
suddette associazioni e/o aziende agricole, quanto nel caso
di danni arrecati a terzi nello svolgimento delle attività
dedotte in convenzione.
In ambedue i casi l'ente chiede di conoscere se sia
legittima la stipula di idonea polizza assicurativa.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni
premettendo che non compete allo scrivente Ufficio
esprimersi in ordine alla legittimità di atti/attività posti
in essere dagli enti locali.
Si osserva, innanzi tutto, come secondo la giurisprudenza
del Consiglio di Stato [1]
gli aderenti alle associazioni che presteranno la loro
attività in forma volontaria non pare possano essere
assimilati ai prestatori di lavoro subordinato di cui
all'articolo 2094 del codice civile. Un tanto come già
chiarito nel parere prot. 13600 dd. 06.03.2012, reso dallo
scrivente, che s'intende qui integralmente richiamato
[2].
Inoltre, tanto le associazioni quanto le aziende agricole in
commento, nella misura in cui per lo svolgimento della
propria attività si avvalgono di singoli soggetti a vario
titolo (volontari, associati, lavoratori dipendenti etc.),
dovrebbero essere dotate di un'organizzazione interna
facente capo ad uno o più responsabili i quali saranno
tenuti all'osservanza delle disposizioni di cui al d.lgs.
09.04.2008, n. 81, recante 'Attuazione dell'articolo 1
della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro'.
Un tanto pare poter escludere che eventuali profili di
responsabilità del Comune siano riconducibili a quella del
datore di lavoro ai sensi del summenzionato d.lgs. 81/2008.
Da quanto premesso sembra potersi affermare che compete alle
associazioni/imprese agricole in commento provvedere alla
copertura assicurativa dei propri collaboratori. Un tanto,
peraltro, è espressamente previsto dalla disciplina delle
organizzazioni di volontariato e delle associazioni di
promozione sociale (lr 23/2012) la quale dispone (mediante
un rinvio alla disciplina statale di cui rispettivamente
all'art. 4 della l. 266/1991 e all'art. 30 della l.
383/2000) che le predette organizzazioni/associazioni che
svolgono attività mediante convenzioni devono assicurare i
propri aderenti, che prestano tale attività, contro gli
infortuni e le malattie connessi con lo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso terzi e che i relativi oneri assicurativi sono a
carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Si suggerisce, in ogni caso, che tanto le attività che
verranno poste in essere dalle associazioni e/o aziende
agricole, quanto gli obblighi relativi alla sicurezza,
gravanti sui responsabili di queste, vadano espressamente
riscontrati nelle convenzioni, che verranno approvate tanto
dagli organi competenti delle associazioni e/o aziende
agricole quanto dell'Ente locale.
Va inoltre tenuto presente che i singoli soggetti incaricati
delle attività dedotte in convenzione opereranno su immobili
di proprietà dell'Ente instante e, presumibilmente, secondo
le direttive con esso concordate. Sulla base di tali
presupposti sembra opportuno che il Comune adotti, comunque,
tutte le precauzioni ritenute utili, in ossequio ai criteri
di diligenza e prudenza che, in via preventiva, possano
escludere o ridurre, per quanto possibile, i fattori di
rischio nell'impiego dei predetti soggetti, in ossequio del
principio del neminem laedere, a tutela dei diritti
soggettivi primari, quali la salute fisica e morale e degli
altri principi che sicuramente informano lo statuto
dell'Ente, quali la salvaguardia del benessere e della
sicurezza dei propri cittadini.
---------------
[1] Consiglio di Stato, Sez. I, 21.01.2004, n. 2040.
[2] Il parere è reperibile sul portale delle autonomie
locali all'indirizzo internet:
http://autonomielocali.regione.fvg.it (06.11.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI: Società
pubbliche tra due fuochi. Crisi
d'impresa. La Corte di cassazione precisa che possono anche
essere soggette a fallimento a tutela dei creditori.
Possibile apertura delle Sezioni unite al danno erariale per
gli amministratori
Le società pubbliche possono fallire. E questo testimonia
della loro natura privatistica. Ma i loro amministratori
potrebbero essere considerati funzionari pubblici e quindi
essere chiamati a risarcire il danno erariale provocato.
A queste due conclusioni arriva la Corte di Cassazione con
la sentenza
n. 22209/2013, di poche
settimane fa e con una altra pronuncia delle Sezioni unite
che verrà resa nota nei prossimi giorni.
Le novità sono emerse al convegno organizzato dalla
Associazione albese di studi di diritto commerciale, che ha
celebrato quest'anno il ventennale, sul tema «I debitori
non fallibili: alternative e punti critici del nuovo diritto
fallimentare». Il convegno ha visto l'intervento di
magistrati come Luigi Rovelli, Presidente aggiunto della
Cassazione, Luciano Panzani, Presidente del tribunale di
Torino, e Alida Paluchovsky; docenti come Alberto Jorio e
Michele Sandulli; professionisti come Davide Di Russo.
Il punto di partenza è rappresentato da una situazione di
rilevante problematicità visto che soprattutto sul fronte
delle società in house, si discute da tempo se in caso di
insolvenza si deve dichiarare il fallimento e se, di
conseguenza i loro amministratori devono rispondere davanti
alla Corte dei conti al pari dei pubblici funzionari.
Su questi punti, a quanto emerso, la Cassazione ha provato a
fare chiarezza, stabilendo innanzitutto (il caso riguardava
una Srl, che aveva il compito di realizzare e gestire un
impianto per lo stoccaggio e smaltimento di rifiuti,
detenuta per una quota) che la scelta del legislatore di
consentire l'esercizio di determinate attività a società di
capitali, e pertanto di perseguire l'interesse pubblico
attraverso lo strumento privatistico, ha come conseguenza
anche che queste assumono i rischi collegati alla loro
insolvenza. In caso contrario, a venire compromessi,
sarebbero i principi di uguaglianza e di affidamento dei
soggetti che con la società entrano in rapporto, ai quali
deve essere permesso di fare ricorso a tutti gli strumenti
offerti dall'ordinamento.
Inoltre, la Cassazione ha precisato che il fallimento della
partecipata non impedisce comunque all'ente locale, rimasto
proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel
servizio, di affidarne la gestione a un nuovo soggetto. Nel
frattempo, qualsiasi rischio collegato all'interruzione del
servizio potrebbe essere evitato attraverso il ricorso
all'esercizio provvisorio previsto dall'articolo 104 della
legge fallimentare.
Per quanto riguarda la responsabilità degli amministratori
della società partecipata dall'ente pubblico, le Sezioni
unite della Cassazione si apprestano a depositare (il
relatore è Renato Rordorf) un'importante sentenza che
dovrebbe mettere in luce (ma bisognerà leggere le
motivazioni) come possono essere equiparati a pubblici
funzionari e, di conseguenza, essere chiamati dalla Procura
della Corte dei conti a dovere rispondere per danno
erariale. La questione, che riguarda municipalizzate come
anche aziende erogatrici di servizi, ha una considerevole
rilevanza pratica e ha visto sinora sovrapporsi da parte
della stessa Cassazione pronunce con orientamenti
contrastanti.
Il Convegno si però soffermato anche, con dovizia di
riferimenti giurisprudenziali, su altri due temi "caldi"
della crisi d'impresa. Da una parte è stato fatto il punto
sugli accorgimenti dei giudici nell'affrontare una delle
grandi assenze della nostra legislazione, la mancata
previsione di norme dedicate al concordato preventivo nei
gruppi d'impresa. Escamotage per coordinare le procedure
relative alle diverse società con un unico piano, ma masse
attive e passive separate a tutela della posizione dei
creditori di ciascuna società. Sottolineato anche che il
principio secondo cui il debitore risponde delle proprie
obbligazioni con tutti i suoi beni, può forse trovare deroga
in sede di concordato preventivo con l'assenso dei
creditori.
Sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
crisi, infine, è stato rilevato come questa procedura sia
inadeguata e non trasparente, prestandosi alle scelte del
ministero delle Attività produttive, mentre sarebbe
auspicabile un ritorno alla competenza del giudice
ordinario, anche perché le pretese grandi imprese sono in
realtà società di medie dimensioni, sottratte alla sorte
delle loro consorelle senza un vero interesse pubblico che
lo giustifichi
(articolo Il Sole 24 Ore
del 17.11.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Contributi, la p.a. non fa nomi.
Se le delibere contengono dati sanitari o reddituali.
Rispondendo a un comune, la Civit ha chiarito l'applicazione
del dlgs sulla trasparenza.
Niente nomi nella pubblicazione delle deliberazioni delle
pubbliche amministrazioni, se contengono dati sanitari o
sulla situazione reddituale e patrimoniale dei beneficiari
di vantaggi economici.
Lo ha chiarito la Civit, con
parere prot. n. 8746/2013, rispondendo a un quesito posto dal
comune di Trezzano sul Naviglio, relativo all'applicazione
dell'articolo del decreto legislativo 33/2013.
Al centro della questione è l'interpretazione dell'articolo
26, comma 4, del dlgs 33/2013, che, per motivi di privacy, in
alcuni casi, esclude la pubblicazione dei dati
identificativi delle persone fisiche destinatarie dei
provvedimenti di concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi e attribuzione di vantaggi economici. Il divieto di
pubblicazione, si legge nella norma, scatta «qualora da tali
dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato
di salute ovvero alla situazione di disagio
economico-sociale degli interessati».
Il problema posto dal quesito è di natura strettamente
interpretativa di una disposizione non scritta bene, con
notevoli risvolti pratici. In effetti la norma vieta la
pubblicazione di dati identificativi, dai quali sia
desumibile un dato sanitario o un dato economico della
persona. Tuttavia correttamente il comune ha evidenziato che
dai dati identificativi (nome e cognome) non pare potersi
mai desumere alcuna informazione relativa allo stato di
salute o alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati. Non è certamente dal nome di una persona che si
può desumere se è malata o se è povera.
Tra l'altro i
provvedimenti amministrativi devono essere completi in tutti
i loro elementi e uno di questi è certamente l'indicazione
delle persone destinatarie dello stesso. Nel quesito,
dunque, si chiedeva se sia possibile indicare nome e cognome
del destinatario del beneficio nel provvedimento di
assegnazione di un contributo economico di una
sovvenzione/sussidio a una persona fisica, omettendo nel
contempo, le motivazioni della concessione, oppure se
occorra in ogni caso anonimizzare il beneficiario, (ad
esempio, inserendo le iniziali del cognome e nome o un
numero identificativo interno), ed esplicitare la
motivazione della concessione effettuata.
L'alternativa, dunque, è tra la omissione di nome e cognome
o la omissione del dato sanitario o economico. La Civit ha
esaminato la questione nella seduta del 17.10.2013 e ha
espresso un indirizzo, che per la prima volta prende
posizione netta. La commissione ha espresso l'avviso che,
qualora «dalla norma o dal titolo a base dell'attribuzione
del vantaggio economico, da pubblicare ai sensi dell'art.
27, comma 1, lettera c), del dlgs. n. 33/2013, sia possibile
ricavare informazioni relative allo stato di salute o alla
situazione economica dei soggetti beneficiari,
l'amministrazione deve omettere i nominativi di questi
ultimi».
Dunque, ai sensi dell'articolo 26 del dlgs 33/2013, le
pubbliche amministrazioni devono pubblicano gli atti di
concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili
finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati di
importo superiore a mille euro. L'obbligo di pubblicazione
comprende la divulgazione anche della la norma o del titolo
a base dell'attribuzione (articolo 27, comma 1, lettera c),
del dlgs 33/2013). Per il comma 4 dell'articolo 26, sempre
del dlgs 33/2013, è esclusa la pubblicazione dei dati
identificativi delle persone fisiche destinatarie dei
provvedimenti, qualora da tali dati sia possibile ricavare
informazioni relative allo stato di salute ovvero alla
situazione di disagio economico-sociale degli interessati.
La Civit, nel parere in commento, compie un'interpretazione
sistematica e alla luce dello scopo della legge ritiene che
si deve anonimizzare l'atto pubblicato, quando dalla norma o
dal titolo a base dell'elargizione economica (e quindi non
dai dati identificativi, come invece si legge nel comma 4
del citato articolo 26) si ricavano dati sanitari o sulla
situazione economica dei beneficiari.
Il parere in commento
ha sottolineato, infine, che per la tutela della
riservatezza, ci sono altre precauzioni da osservare: oltre
al divieto di pubblicare i nomi, le pubbliche
amministrazioni devono rendere non intelligibili i dati
personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non
indispensabili. Si tratta, si aggiunge, di misure da
osservare nella pubblicazione, poiché nella stesura degli
atti istruttori e del provvedimento definitivo il nominativo
del beneficiario va indicato; d'altra parte è ammessa la
circolazione interna o la comunicazione tra enti pubblici
(trattamenti, questi, differenti dalla pubblicazione)
dell'atto completo, senza omissis, quando sia motivata da
necessità di servizio
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente stabilizzazioni per gli incarichi fiduciari.
Per la loro stessa natura sono
contratti a tempo determinato.
Niente stabilizzazioni per i lavoratori assunti ai sensi
dell'articolo 110 del dlgs 267/2000, anche se non in
possesso della qualifica dirigenziale.
Il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013, riserva la
possibilità di attivare le procedure per assumere a tempo
indeterminato i lavoratori precari ai soli dipendenti non
aventi qualifica dirigenziale, che abbiano prestato servizio
per tre anni negli ultimi cinque o che dispongano dei
requisiti per la stabilizzazione a suo tempo fissati dalle
leggi 296/2006 e 244/2007.
L'articolo 110 del Testo unico degli enti locali consente di
effettuare assunzioni a termine non solo per acquisire
«dirigenti a contratto», ma anche per «la copertura dei
posti di responsabili dei servizi o degli uffici» e per le
qualifiche «di alta specializzazione». Si tratta di
incarichi attribuibili anche senza la qualifica
dirigenziale. Anzi, nella grandissima maggioranza degli enti
locali, priva della dirigenza, gli incarichi a contratto
riguardano proprio i «quadri».
Il dl 101/2013, come, del resto, le precedenti norme sulle
stabilizzazioni, sul punto si presta a possibili equivoci:
escludendo espressamente, infatti, le sole qualifiche
dirigenziali in apparenza consente di stabilizzare i
responsabili di servizio assunti con incarichi a contratto a
termine.
Si tratta, però, di una lettura non condivisibile.
Sostanzialmente, le stabilizzazioni hanno lo scopo di
rimediare all'utilizzo improprio dei contratti a tempo
determinato e, dunque, si rivolge a situazioni di fatto
nelle quali i «precari» sono stati a ben vedere assunti non
in presenza delle legittime condizioni per apporre il
termine al contratto di lavoro, ma per fare fronte a
fabbisogni lavorativi stabili, violando così le disposizioni
contenute nell'articolo 36, comma 1, del dlgs 165/2001 e i
principi contenuti nel Testo unico sul rapporto di lavoro a
termine, il dlgs 368/2001.
Gli incarichi regolati dall'articolo 110 del dlgs 267/2000,
invece, sono per loro stessa natura a tempo determinato.
L'attribuzione anche reiterata nel tempo di detti incarichi
non può comportare la «precarizzazione», perché è proprio la
legge che configura tali contratti come destinati a
concludersi entro una scadenza precisa, che coincide, come
termine massimo, con la fine del mandato elettorale.
Peraltro, la stretta connessione tra questi incarichi e gli
organi di governo, dovuta alla loro configurazione
«fiduciaria» è un'altra decisiva ragione per escluderli
dalle stabilizzazioni, anche se non si tratta di qualifiche
dirigenziali.
Non è un caso che l'articolo 4, comma 6, del dl 101/2013
vieti di considerare ai fini del computo dei tre anni di
servizio nell'ultimo quinquennio, necessari per accedere
alle stabilizzazioni, i servizi prestati in staff agli
organi di governo. Lo stretto legame fiduciario tra
incaricati e organi politici costituisce un impedimento alla
costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato,
perché se così non fosse si renderebbe duraturo nel tempo un
incarico che trova le sue ragioni e causa esclusivamente
nella attualità del mandato elettorale
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo ampio per assistere i disabili.
La platea dei beneficiari del congedo straordinario
comprende i parenti e gli affini entro il terzo grado
conviventi della persona con grave disabilità.
Lo spiega
l'Inps nella
circolare
15.11.2013 n. 159 recependo la sentenza n.
203/2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato
l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001
(T.u. maternità). L'Inps riesaminerà le richieste nel
termine di prescrizione della relativa indennità (un anno
dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario spetta per un massimo di due anni
nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto
disabile assistito. Durante la fruizione si ha diritto ad
un'indennità pari all'ultima retribuzione e il periodo è
coperto da contribuzione figurativa. Indennità e
contribuzione figurativa spettano fino a un importo massimo
di euro 46.836 per il congedo di durata annuale (valore per
l'anno 2013).
La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale del citato art. 42, nella parte in cui, in
assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della
persona disabile in situazione di gravità, non include nel
novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo
straordinario il parente o l'affine entro il terzo grado
convivente della persona disabile grave.
Alla luce della sentenza, l'Inps spiega che il congedo va
riconosciuto a seguenti familiari o affini entro il terzo
grado convivente del disabile grave, secondo il seguente
ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile,
in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge
convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il
coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano
mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel
caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e
figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o
invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del
disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i
genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle
conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quanto ai requisiti di «mancanza», di affezione da «patologie
invalidanti» e di «convivenza», l'Inps conferma
le istruzioni precedenti (circolare n. 32/2012). Per «mancanza»
va intesa non solo l'assenza naturale e giuridica (celibato
o stato di figlio naturale non riconosciuto), ma anche ogni
altra condizione giuridicamente assimilabile quale:
divorzio, separazione legale o abbandono. Mentre per
l'individuazione delle «patologie invalidanti», in
assenza di un'esplicita definizione di legge, sentito il
ministero della salute, l'Inps stabilisce di prendere a
riferimento solo quelle a carattere permanente indicate
dall'art. 2, comma 1, lettera d, numeri 1, 2 e 3 del dm n.
278/2000
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti pagati dopo la verifica.
L'appaltatore non potrà emettere la fattura fino al
controllo della sua attività.
Pubblica amministrazione. Diffuse le
linee guida dell'Autorità di vigilanza sul regolamento
attuativo del Codice dei contratti.
Le stazioni
appaltanti devono effettuare controlli accurati
sull'esecuzione degli appalti di servizi e forniture,
facendo leva sulla figura del direttore dell'esecuzione,
anche per gestire correttamente le eventuali varianti.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha
definito nella
determinazione
06.11.2013 n. 5, pubblicata ieri, le
Linee guida per l'applicazione del Dpr 207/2010 (regolamento
attuativo del Codice appalti) relative alla programmazione,
alla progettazione, all'esecuzione, alle verifiche e alla
gestione delle variazioni negli appalti di beni e servizi.
L'Autorità evidenzia anzitutto che la programmazione degli
acquisti, pur essendo facoltativa (articolo 271 del
regolamento) è essenziale per la gestione delle risorse e un
efficace sviluppo delle procedure selettive.
La linea di maggior attenzione è dedicata al flusso di
gestione degli appalti, definito in sede di progettazione e
modulato nei suoi effetti concreti attraverso le verifiche
di esecuzione.
Il progetto di ogni appalto di beni e servizi (obbligatorio
in base all'articolo 279 del Dpr 207/2010) deve essere
predisposto dai dipendenti della stazione appaltante, anche
ampliando i contenuti essenziali con elementi quali la stima
analitica delle prestazioni, il cronoprogramma, la
specificazione dei livelli di servizio mediante indicatori
numerici o quantitativi e le modalità di esercizio del
controllo.
Nell'analisi dell'Authority, proprio il controllo delle
prestazioni rese dagli appaltatori costituisce
l'elemento-chiave dell'intero processo di gestione
dell'appalto di fornitura o di servizi.
In questo quadro, l'attore principale diviene la nuova
figura del direttore dell'esecuzione, che deve essere
distinto dal responsabile del procedimento quando l'appalto
presenti rilevanti profili di complessità, come nel caso
degli affidamenti di servizi sanitari o informatici.
L'Autorità evidenzia che i contratti di appalto devono
prevedere clausole specifiche e dettagliate in ordine alle
verifiche di conformità dell'esecuzione (disciplinate dagli
articoli 312-325 del regolamento attuativo). I controlli,
infatti, sono finalizzati a garantire la stazione appaltante
dai comportamenti degli appaltatori riconducibili al "moral
hazard", determinando una maggiore responsabilizzazione
degli stessi, a fronte del rischio di risoluzione del
contratto e della conseguente impossibilità di partecipare,
per un certo periodo, a gare indette dalla stessa
amministrazione.
Le verifiche, inoltre, sono indicate dall'Authority come
passaggio propedeutico necessario per i pagamenti delle
prestazioni (articolo 307, comma 2, del regolamento), per cui
l'appaltatore non potrà emettere fattura sino
all'intervenuto controllo della sua attività.
L'equilibrio nel rapporto deve essere garantito da penali
specifiche, correlate ai possibili inadempimenti e definite
in relazione ai livelli qualitativi delle prestazioni.
La determinazione 5/2013 focalizza l'attenzione sulle
varianti in corso di esecuzione (regolate dagli articoli 310
e 311 del Dpr 207/2010), evidenziando come la stazione
appaltante non possa richiedere alcuna variazione ai
contratti stipulati, se non nei casi previsti dalle
disposizioni del regolamento attuativo del Codice. La deroga
al principio di immodificabilità del contratto è dunque di
stretta interpretazione ed agisce in presenza di specifici
presupposti.
Secondo l'Autorità, infatti, è nel quadro della rigorosa
disciplina delle varianti (sia necessitate che migliorative)
che si colloca, tra l'altro, il divieto delle proroghe e dei
rinnovi taciti o espressi per gli appalti di servizi e
forniture, poiché in tali casi l'uso di questi strumenti
modifica la prestazione e il suo valore economico, fatta
salva la disciplina prevista dall'articolo 57, comma 5,
lettere a) e b), del Codice per i servizi analoghi e
complementari (articolo Il Sole 24 Ore
del 16.11.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe a ruolo senza interessi.
Importi raddoppiati, ma senza maggiorazione del 10%.
Il parere dell'Avvocatura generale dello stato
sulle cartelle esattoriali per violazioni stradali.
L'automobilista che non paga la multa presa per strada o non
propone ricorso al verbale riceverà una cartella esattoriale
contenente un importo raddoppiato, ma senza più
l'applicazione dei pesanti interessi previsti dalla legge.
La maggiorazione semestrale del 10% non si applica, infatti,
alle violazioni stradali che sono disciplinate dall'art. 203
del codice senza più rinvio alle penalità previste dalla
legge 689/1981.
Lo ha chiarito l'Avvocatura generale dello
stato con il parere prot. cs 32494 del 31.07.2013, solo
ora divulgato dalla Prefettura di Novara con la
nota
09.10.2013 n. 41901 di prot..
La questione della riscossione dei
proventi delle multe stradali è da sempre ritenuta legata a
doppio filo alle disposizioni della legge di
depenalizzazione n. 689/1981, la quale prevede all'art. 27
una maggiorazione del 10% per ogni semestre di ritardato
pagamento dei verbali in generale. In buona sostanza, anche
per l'espresso rinvio contenuto nell'art. 206 del codice
della strada, le cartelle esattoriali vengono da sempre
maggiorate oltre che dell'importo raddoppiato della multa
anche delle spese del procedimento e degli interessi
semestrali del 10%.
Con una recente pronuncia però la Corte
di cassazione, sez. II civile, ha disposto diversamente
(sentenza n. 3701 del 16.02.2007), ovvero che la
maggiorazione del 10% semestrale non si può applicare alle
multe stradali in virtù di quanto evidenziato dall'art. 203
del codice stradale. Ovvero che qualora non sia stato
effettuato il pagamento del verbale o non sia stato proposto
nessun tipo di ricorso la multa costituirà titolo esecutivo
per la riscossione di una somma pari alla metà del massimo
edittale, corrispondente in genere al doppio del minimo (o
meglio al raddoppio dell'importo che si poteva pagare entro
60 giorni).
L'Avvocatura generale dello stato conferma
questa interpretazione che però non ha precedenti
giurisprudenziali. Infatti, specifica la nota del 31.07.2013, «alle sanzioni, come nella specie stradali, si applica
l'art. 203 cds, comma 3, che, in deroga alla legge n. 689
del 1981, art. 27, in caso di ritardo nel pagamento della
sanzione irrogata nell'ordinanza ingiunzione, prevede
l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e
non anche degli aumenti semestrali del 10%». In pratica
saranno da rivedere tutte le cartelle esattoriali in
spedizione per multe non pagate dai trasgressori. E gestire
l'inevitabile contenzioso che potrà avviarsi nelle prossime
settimane in riferimento alle posizioni già consolidate.
Seguendo l'interpretazione dell'Avvocatura le multe non
pagate d'ora in poi raddoppieranno semplicemente e potranno
essere iscritte a ruolo per questo importo ulteriormente
implementato solo delle spese del procedimento. Ma senza più
applicare una penalizzazione del 10% su base semestrale
calcolata dal giorno in cui la sanzione è divenuta
esigibile. Ovvero per importi considerevolmente ridotti
rispetto al passato
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti tracciati su carta e web.
Doppio adempimento per le imprese vincolate al Sistri.
Il ministero dell'ambiente diffonde in un quadro
sinottico le risposte a 25 quesiti delle imprese.
Doppio regime degli adempimenti per il Sistri. La
tracciabilità dei rifiuti viaggia sia in formato cartaceo
sia informatico. Infatti, fino a che non entreranno in
vigore le sanzioni sul Sistri la copia della scheda
informatica «movimentazione» non sostituisce il formulario
cartaceo di identificazione dei rifiuti. Dunque, per i
produttori iniziali dei rifiuti pericolosi sono mantenuti al
momento gli adempimenti cartacei.
La conferma giunge dal
nuovo quadro sinottico redatto dal
ministero dell'ambiente, volto a chiarire alcuni degli
aspetti operativi relativi all'applicazione del sistema di
tracciabilità dei rifiuti alla luce degli interventi
legislativi in materia.
L'articolo 11 del decreto legge n.
101/2013, così come modificato in sede di conversione in
legge, dispone infatti per i primi dieci mesi di operatività
del Sistri una sorta di doppio regime degli adempimenti. Il
quadro sinottico riporta i 25 pareri del ministero in
riferimento alle richieste avanzate da alcune organizzazioni
di categoria: Confindustria, Fise, Assoelettrica, Fai_sistri,
le associazioni gestori rifiuti, Ansep-Unitam e Selex.
Il ministero dell'ambiente è intervenuto anche in materia di
trasporto dei rifiuti pericolosi a titolo professionale,
chiarendo che in questo caso l'obbligo di adesione al Sistri
decorre dal 03.03.2014. E precisando che la locuzione «enti
o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a
titolo professionale», contenuta al comma 2
dell'articolo 11 del dl n. 101/2013, si riferisce agli enti
e imprese che trasportano rifiuti pericolosi prodotti da
terzi.
Si sottolinea inoltre che sono altresì tenuti ad aderire al
Sistri, in caso di trasporto intermodale, i soggetti ai
quali sono affidati i rifiuti speciali pericolosi in attesa
della presa in carico degli stessi da parte dell'impresa
navale o ferroviaria o dell'impresa che effettua il
successivo trasporto. Entro fine anno, uno o più decreti del
ministro dell'ambiente definiranno le modalità di
applicazione a regime del Sistri al trasporto intermodale
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
APPALTI: Appalti, ribassi selvaggi verso il tramonto.
Il decreto con i nuovi criteri alla
firma del ministro.
È finita (forse) l'era delle liberalizzazioni selvagge nei
bandi per la pubblica amministrazione. L'era in cui cioè,
con l'eliminazione delle tariffe, le gare per i servizi di
ingegneria e architettura venivano aggiudicate a prezzi
stracciati con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo
iniziale.
Dopo la recente firma del ministero delle infrastrutture
Maurizio Lupi (che ha seguito quello della giustizia),
infatti, il decreto ministeriale che determina «i
corrispettivi a base di gare per gli affidamenti di
contratti di servizi attinenti all'architettura e
all'ingegneria», sia avvia a saltare l'ultimo ostacolo:
il visto di legittimità della Corte dei conti, alla cui
attenzione è attualmente.
Si tratta di un testo dall'elaborazione complessa (prima le
consultazioni con le categorie tecniche, poi le bocciature
del Consiglio e dell'Autorità superiore dei lavori pubblici)
ma indispensabile per il settore degli appalti pubblici per
superare, come rileva il Consiglio di stato nel suo recente
parere (n. 3626/2013), «la situazione di indeterminatezza
venutasi a creare a seguito dell'elaborazione di tutta la
disciplina in materia di tariffe professionali». Ma
soprattutto, un testo fondamentale dopo che il decreto legge
sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto cancellato ogni
riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di
regole per calcolare gli importi e per determinare, di
conseguenza, le corrette procedure per l'affidamento.
Un'assenza di regole denunciata a gran voce dai periti
industriali e dalle categorie tecniche tutte, che ha
alimentato tra le altre cose un'eccessiva discrezionalità
delle stazioni appaltanti. Queste ultime, infatti, in caso
di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi
all'ingegneria e all'architettura, non disponevano più di
riferimenti certi per la definizione dell'importo da porre a
base di gara. Ecco perché, per sanare tale criticità il
governo era intervenuto con il decreto sviluppo stabilendo
che per la determinazione dei corrispettivi da porre a base
di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici
dei servizi tecnici, si sarebbero applicati i parametri
individuati appunto con un decreto interministeriale che
avrebbe anche definito «le classificazioni delle
prestazioni professionali relative ai predetti servizi».
Nel frattempo per disciplinare la fase transitoria, il
legislatore aveva previsto che nelle more dell'emanazione di
tale decreto si sarebbero potute applicare le tariffe
professionali stabilite nel dm 4/4/01(Aggiornamento degli
onorari spettanti agli ingegneri e architetti).
Il punto è che tale opzione è stata disattesa dalla grande
maggioranza delle stazioni appaltanti. Secondo i numeri
forniti dal Centro studi del Consiglio nazionale degli
ingegneri infatti, il 61% dei bandi non dà alcun chiarimento
sul criterio utilizzato per la determinazione dell'importo a
base d'asta, un ulteriore 4,6% segue i dettami della legge
143/1949, il 4,5% quelli del decreto 207/10, mentre nel 14%
vengono menzionati altri riferimenti normativi. Insomma
l'offerta economica calcolata su basi fittizie, è diventata
tristemente negli ultimi anni l'unica variabile nelle
aggiudicazioni e le corse al ribasso per firmare contratti
un po' usa e getta sono state la maggioranza. Ma non solo,
perché nonostante l'evidente abnormità dei ribassi, le
stazioni appaltanti, forse perseguendo un miope criterio di
risparmio, non hanno quasi mai dato applicazione al concetto
di offerta anomala.
Uno scenario quasi da Far West che sull'onda delle selvagge
liberalizzazioni ha assimilato le attività professionali a
quelle dell'impresa dove prevale il minor costo anche a
scapito della qualità dei servizi. Ecco perché questo
decreto è fondamentale ed è urgente sia approvato al più
presto. Solo così, per i periti industriali si potrà
risollevare l'alto livello qualitativo che, da sempre, ha
caratterizzato gli studi di progettazione in Italia
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Programmi triennali per gli appalti pubblici.
L'Autorità di vigilanza detta le
linee guida alle p.a..
Obbligo di programmazione triennale anche per gli appalti
pubblici di servizi e di forniture; verifica annuale sulla
fattibilità tecnica, economica e amministrativa di ogni
intervento; affidamenti a terzi solo per complessità
dell'intervento.
Sono queste alcune delle indicazioni
fornite dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici con la
determinazione
06.11.2013 n. 5 che detta
le linee guida su programmazione, progettazione ed
esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture, alla
luce delle diffuse criticità rilevate dall'organismo di
vigilanza.
L'intervento dell'Autorità presieduta da Sergio Santoro,
deriva dall'aver rilevato problemi in termini sia di
«debolezza» dei contratti (mancanza di chiarezza o
incompletezza nell'articolato) sia in termini di scarsa
attenzione prestata alla fase postaggiudicazione, che
invece, dice l'Autorità, «appare di preminente rilievo ai
fini della corretta esecuzione della prestazione».
La
materia, regolata dal dpr 207/2010 (il regolamento del
codice dei contratti pubblici), secondo una disciplina in
larga parte modellata su quella dei contratti di lavori
viene affrontata dalla determina partendo dalla fase di
programmazione (facoltativa per questi contratti), in
relazione alla quale l'Autorità auspica l'introduzione
dell'obbligo di programmazione triennale anche negli appalti
di servizi e forniture, per garantire una visione di insieme
dell'intero ciclo di realizzazione dell'appalto.
La determina afferma inoltre che le amministrazioni
aggiudicatrici dovrebbero, in ogni caso, provvedere
all'adozione del programma annuale per l'acquisizione di
beni e servizi e, successivamente, effettuare una verifica
della fattibilità tecnica, economica e amministrativa di
ogni singolo intervento.
Per quel che riguarda la fase di progettazione, la determina
mette in evidenza che la predisposizione di un progetto
preciso e di dettaglio, atto a descrivere in modo puntuale
le prestazioni necessarie a soddisfare specifici fabbisogni
della stazione appaltante, appare come uno strumento
indispensabile per ovviare al fenomeno di porre in gara non
specifici servizi, ma categorie di servizi; ciò avviene in
particolare nel settore informatico ove spesso accade che il
cui contenuto sia oggetto di specificazione successiva
all'atto della richiesta di esecuzione.
Sull'affidamento a terzi di questa fase, la determina
ricorda che soltanto in casi di particolare complessità si
può appaltare a soggetti privati e che al progettista si
applica il divieto di esecuzione, «posto a tutela della
concorrenza, altrimenti alterata da situazioni di evidente
asimmetria informativa».
Per l'esecuzione del contratti la determina chiarisce che il
direttore dell'esecuzione è figura che coincide con quella
del Responsabile unico del procedimento (Rup), salvo diversa
indicazione della stazione appaltante, mentre il direttore
dell'esecuzione deve essere sempre distinto dal Rup se il
contratto vale più di 500.000 euro, o se si tratta di
prestazioni complesse. In fase di esecuzione del contratto
l'Autorità afferma l'opportunità di prevedere penali
strettamente correlate ai livelli di servizio stabiliti nel
capitolato prestazionale
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri obbligatorio per gli autodemolitori.
Ambiente. Le istruzioni del
ministero alle associazioni.
Chi gestisce autoveicoli fuori uso doveva aderire al Sistri
dal 01.10.2013.
È questa una delle 25 risposte fornite dalla
Direzione generale per la tutela del territorio e delle
risorse idriche ad altrettanti quesiti sul Sistri, da tempo
posti al ministero dell'Ambiente dalle seguenti Associazioni
di categoria: Confindustria, Fise, Assoelettrica,
Fai-Sistri, Associazione Gestori Rifiuti tramite Assofermet
e Ansep Unitam.
Le risposte sono pubblicate in www.sistri.it e sono fornite
in forma tabellare come "quadro sinottico-aspetti normativi"
e contengono il parere della Direzione sulle tematiche
presentate dalle associazioni. La posizione ministeriale su
alcuni punti mutua la Circolare dello scorso 31 ottobre
(relativa all'articolo 11, legge 125/2013) salvo discostarsene
in modo eclatante per alcuni aspetti, come quello relativo
al solo stoccaggio dei rifiuti prodotti che per la Circolare
obbliga al Sistri il produttore iniziale di rifiuti
pericolosi dal 03.03.2014 «anche con riferimento» alle
attività di stoccaggio (R13 e D15).
Secondo la nuova nota, invece, costui inizia il Sistri
dall'01.10.2013 poiché il soggetto interessato «prima
ancora che produttore» è gestore (risposta n. 8). Con
riguardo ai soggetti obbligati la nota riprende, poi, la
legge 125/2013 quando riferisce che i nuovi produttori sono
obbligati ad aderire se trattano o producono rifiuti
pericolosi.
Sul punto, la Direzione individua tre ipotesi: trattamento
di rifiuti pericolosi e produzione di rifiuti pericolosi;
trattamento di rifiuti non pericolosi e produzione di
rifiuti pericolosi; trattamento di rifiuti pericolosi e
produzione di rifiuti non pericolosi. In tali casi «sarà
obbligatorio aderire al Sistri, come gestori e anche come
produttori».
Il che, come ricorda la Circolare, «nelle more delle
modifiche delle procedure informatiche» ripropone il tema
della doppia iscrizione del nuovo produttore sia nella
categoria dei produttori, sia in quella dei gestori.
L'obbligo non scatta se si trattano e si producono rifiuti
non pericolosi.
Su altri punti la nota rinvia a norme da rivedere o da
implementare. Tuttavia, alcune problematiche sono rese più
esplicite: la risposta n. 5 precisa che i «raccomandatari
marittimi delegati da armatore o noleggiatore che
intervengono nel trasporto navale sono comunque ricompresi
nella nozione di trasporto a titolo professionale». I
soggetti che gestiscono veicoli fuori uso dovevano aderire
al Sistri dall'01.10.2013, come recuperatori o
smaltitori, o nuovi produttori, secondo l'attività che
svolgono.
Per una serie di cose, invece, la nota della Direzione
rinvia a una nuova e futura normativa come gli obblighi
dell'intermediario. La nota ventila la possibilità di
semplificare ulteriormente la procedura agevolata per la
microraccolta di cui all'articolo 18, comma 4-bis, del Dm
52/2011. Mentre per la non ripudiabilità dei dati in sede di
convalida massiva, si riserva chiarimenti con l'Agenzia per
l'Italia digitale.
Sulla interoperabilità, dice la nota, il «problema potrebbe
essere parzialmente superato grazie alla creazione da parte
delle software houses (e/o di Selex) di software in grado di
consentire una gestione asincrona delle comunicazioni Sistri
rispetto alle attività di compilazione delle schede, che
rimarrebbero nella sfera delle attività gestionali
aziendali. Rimane da definire un sistema di certificazione
dei sistemi di interfaccia tra software gestionali e Sistri.
Potrà essere considerata anche l'ipotesi di una modifica del
Sistri per consentire il funzionamento del sistema
off-line» (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.11.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI: Appalti, progettisti più liberi.
Possono partecipare ai lavori di cui hanno fatto i progetti.
L'apertura nel ddl europea 2013-bis.
Unico limite: dimostrare di non avere vantaggi.
Negli appalti integrati di progettazione e costruzione il
progettista potrà partecipare alla procedura per
l'affidamento dei lavori pubblici se riuscirà a dimostrare
che l'avere predisposto il progetto posto a base di gara non
lo favorisce rispetto agli altri concorrenti.
È quanto
prevede il disegno di legge europea 2013-bis all'esame del
Parlamento con una modifica al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici)
relativamente agli affidatari di incarichi di progettazione
che partecipano alla successiva fase di affidamento dell'
appalto o della concessione di lavori dell'opera progettata.
Attualmente il codice dei contratti pubblici, all'articolo
90, comma 8, stabilisce il divieto per l'affidatario di un
incarico di progettazione di partecipare agli appalti o alle
concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali
subappalti o cottimi per i quali hanno svolto le prestazioni
progettuali. La norma riguarda i casi di progettisti che
intendono partecipare con una impresa di costruzioni ad una
procedura di affidamento di un appalto di lavori (appalto
integrato) e, di fatto, sono esclusi da ogni possibile
ruolo: non possono essere in raggruppamento con l'impresa,
né essere indicati dal momento che hanno predisposto la
progettazione posta a base di gara.
In passato su questa disposizione il Consiglio di stato
(sez. VI, 02.10.2007 n. 5087) aveva affermato che il
divieto opera «nella sola ipotesi in cui il progettista
partecipi della esecuzione dei lavori, e non nel caso in cui
un soggetto che abbia eseguito lavori partecipi ad una gara
per l'affidamento di un incarico di progettazione»; inoltre
era stato precisato che la regola è «espressione del
principio generale di trasparenza ed imparzialità, la cui
applicazione è necessaria per garantire parità di
trattamento, che ha per suo indefettibile presupposto il
fatto che i concorrenti ad una procedura di evidenza
pubblica debbano rivestire la medesima posizione».
Nella modifica proposta all'esame del Parlamento si prevede
un divieto non, tout court, a partecipare alle gare, bensì
ad «essere affidatari degli appalti o delle concessioni di
lavori pubblici, nonché degli eventuali subappalti o
cottimi». Fin qui la norma non sembra cambiare molto la
situazione attuale. È invece il comma aggiuntivo 8-bis ad
introdurre un elemento rilevante laddove stabilisce che il
divieto non si applica laddove il progettista dimostri «che
l'esperienza acquisita nell'espletamento degli incarichi di
progettazione non sia tale da determinare un vantaggio che
possa falsare la concorrenza con gli altri operatori.».
In tal senso si era espressa in passato la Corte di
giustizia europea, ma quel che è certo è che la
dimostrazione di non avere assunto posizioni di vantaggio
sarà sempre difficile da dimostrare, dal momento che non è
sempre detto che avere messo a disposizione di tutti i
concorrenti la progettazione redatta (e quindi posta a base
di gara) di per sé costituisca elemento tale da mettere
tutti i concorrenti sullo stesso piano. Chi ha studiato
l'intervento a fondo progettando a livello preliminare o
definitivo difficilmente sarà sullo stesso piano di chi non
sa nulla dell'opera
(articolo ItaliaOggi
del 14.11.2013). |
APPALTI: Patente a punti per gli appalti.
Requisiti di onorabilità e sicurezza certificata in azienda.
In arrivo il regolamento che istituisce la sezione speciale
edilizia in camera di commercio.
Serve un «responsabile tecnico in possesso di adeguate
competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro». E
la dimostrazione da parte delle imprese del possesso del
«requisito di onorabilità» (assenza di procedimenti in corso
a carico degli operatori) e della capacità
tecnico-finanziaria.
Queste alcune delle novità contenute nel regolamento per la
qualificazione delle imprese (che ha ottenuto il via libera
dal consiglio di stato e deliberato preliminarmente dal
consiglio dei ministri) previsto dall'articolo 6, comma 8,
lettera g), del dlgs 09.04.2008, n. 81.
Vengono dunque
stabilisce i requisiti inderogabili richiesti alle imprese
per il rilascio da parte della camera di commercio (sezione
speciale per l'edilizia) della «patente a punti» per
partecipare agli appalti. Il regolamento individua le
caratteristiche, attinenti alla salute e sicurezza sul
lavoro, delle quali le imprese devono essere in possesso per
avere titolo preferenziale alla partecipazione di gare
relative ad appalti e subappalti pubblici e per l'accesso ad
agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della
finanza pubblica.
La patente a punti sarà rilasciata dalla
sezione speciale per l'edilizia, istituita presso la camera
di commercio ove ha sede e domicilio l'operatore economico.
La sezione speciale dell'edilizia, entro dieci giorni dal
ricevimento della domanda, rilascia la patente oppure
rifiuta adducendone il motivo. L'impresa può comunque
iniziare provvisoriamente la sua attività nel caso in cui la
sezione speciale ritardi nel rispondere alla richiesta. Le
sezioni saranno interconnesse con le Asl, le direzioni
territoriali del lavoro e l'inail attraverso un rete
predisposta da unioncamere. La patente a punti verrà
rilasciata automaticamente alle imprese già iscritte alla
Camera di commercio, in possesso dell'attestazione soa e in
regola con il documento unico di regolarità contributiva.
Potranno ottenere la patente a punti anche quanti, in
possesso del Durc regolare e dei requisiti per la
qualificazione, non abbiano l'attestazione soa. Il punteggio
della patente professionale, comprensivo del valore
attribuito inizialmente, verrà segnato in un apposito
riquadro del documento unico di regolarità contributiva, il
quale assume la funzione di attestato per la patente
professionale. I requisiti che daranno diritto al rilascio
della patente sono la designazione di un responsabile
tecnico in possesso di adeguate competenze in materia di
salute e sicurezza sul lavoro e l'assenza di misure di
prevenzione per reati come riciclaggio, insolvenza
fraudolenta o usura.
L'impresa deve inoltre dimostrare di possedere un'idonea
attrezzatura tecnica, ma anche lo svolgimento di un
addestramento specifico per il suo utilizzo. Il valore
minimo dell'attrezzatura dovrà essere di 30 mila euro. Un
successivo decreto attuativo del Ministero del lavoro
definirà infine il punteggio iniziale, le procedure di
verifica periodica e il meccanismo di decurtazione dei punti
(articolo ItaliaOggi
del 12.11.2013). |
SICUREZZA LAVORO: L'accesso ai verbali è blindato. No alla consultazione delle
dichiarazioni dei lavoratori.
Il ministero del lavoro adegua le
istruzioni agli ispettori a una sentenza del Consiglio di
stato.
Blindate le dichiarazioni dei lavoratori. Gli ispettori,
infatti, devono negare al datore di lavoro e ai suoi
eventuali obbligati in solido il diritto di accesso alle
dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede di
ispezione. Un'eccezione, da valutarsi comunque caso per
caso: quando sia possibile adottare modalità che escludono
l'identificazione degli autori delle dichiarazioni (come ad
esempio con le cancellature e/o gli omissis).
Lo stabilisce il ministero del lavoro nella
circolare 08.11.2013 n.
43/2013 con cui invita gli uffici ad attenersi alla sentenza
n. 4035/2013 del consiglio di stato nelle decisioni sulle
richieste di accesso alla documentazione ispettiva.
Orientamenti contrastanti. La questione riguarda la
legittimità del diniego opposto dagli uffici ispettivi alle
richieste di accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori
nel corso di verifiche ispettive, avanzate da datori di
lavoro o loro coobbligati in solido. Una questione, spiega
il ministero, connotata da orientamenti contrastanti e
oscillanti nel tempo tra due opposti: la prevalenza del
diritto di difesa (quindi la illegittimità dei dinieghi agli
accessi); ovvero la prevalenza della tutela della
riservatezza dei lavoratori unitamente alla preservazione
della funzione pubblica di vigilanza (quindi la legittimità
dei dinieghi).
Orientamento a sfavore. L'orientamento che ritiene
illegittimo il diniego dato al datore di lavoro di prendere
visione delle dichiarazioni rilasciate agli ispettori dai
suoi collaboratori (lavoratori) si basa sul presupposto che
l'esigenza di riservatezza e di protezione dei lavoratori
intervistati è recessiva di fronte al diritto esercitato dal
richiedente (il datore di lavoro) per la difesa di un
interesse giuridico.
Peraltro, tale orientamento si fonda
anche sulla possibilità che gli ispettori possano
intervenire con opportuni accorgimenti (cancellature e
omissis per nascondere i nominativi dei dipendenti
interessati) al fine di consentire il giusto contemperamento
tra gli opposti interessi in gioco: diritto alla difesa e
tutela privacy.
Orientamento a favore. L'orientamento che ritiene legittimo
il diniego verte invece sulla prevalenza dell'interesse
pubblico all'acquisizione di ogni possibile informazione, a
tutela della sicurezza e regolarità dei rapporti di lavoro
rispetto al diritto di difesa della società o impresa
sottoposte a ispezione, poiché il primo non potrebbe non
essere compromesso dalla comprensibile reticenza dei
lavoratori, mentre il secondo è comunque garantito
dall'obbligo di motivazione per eventuali contestazioni e
dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a
possedere.
Peraltro questo orientamento dissente pure dalla
possibilità di adottare accorgimenti per celare l'identità
dei lavoratori (cancellature ecc.), in quanto tali cautele
risultano del tutto insufficienti nelle imprese di piccole
dimensioni in cui già il semplice contenuto delle
dichiarazioni consente facilmente di risalire alla persona
che le ha rese.
La sentenza n. 4035 del 31.07.2013.
In questo contesto di orientamenti contrastanti, e dopo un
biennio di pronunce del tutto favorevoli all'accesso, spiega
il ministero, è sopraggiunta la pronuncia n. 4035/2013 con
cui il consiglio di stato pur entro certi limiti e previa
valutazione caso per caso riafferma la legittimità per gli
ispettori (direzioni territoriali del lavoro) di sottrarre
all'accesso le dichiarazioni rese durante l'accesso
ispettivo (si veda tabella). Ad essa, in conclusione, invita
gli uffici a uniformare il proprio operato
(articolo ItaliaOggi
del 12.11.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Prevenzione incendi, insegna l'ingegnere.
I professionisti possono svolgere i
corsi per gli addetti.
Gli ingegneri possono svolgere i corsi per addetti
all'emergenza nella prevenzione incendi e, quindi, possono
rilasciare anche i relativi attestati di frequenza.
Lo
precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello 24.10.2013 n. 10/2013 in risposta ai quesiti
del Consiglio nazionale degli ingegneri.
Il Consiglio nazionale, in particolare, ha posto due quesiti
chiedendo di sapere:
a) se l'ingegnere sia un professionista adeguatamente
titolato ai sensi del dm 10.03.1998 quale soggetto
formatore per gli addetti alle aziende valutate a rischio
medio e basso;
b) se l'ingegnere sia un professionista abilitato al
rilascio degli attestati di frequenza per gli stessi corsi e
se tali attestati siano validi agli effetti della
documentazione e delle formazione prevista come obbligatoria
del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008).
Le risposte della commissione sono entrambe positive. Il
citato decreto 10.03.1998 (che reca i criteri generali di
sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei
luoghi di lavoro), spiega la commissione non prevede né
requisiti specifici né titoli ai fini dell'idoneità del
soggetto formatore per gli addetti all'emergenza. Infatti,
il provvedimento stabilisce che «i datori di lavoro
assicurano la formazione dei lavoratori addetti alla
prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione
dell'emergenza secondo quanto previsto nell'allegato IX»
(art. 7) e che «è obbligo del datore di lavoro fornire ai
lavoratori un'adeguata informazione e formazione sui
principi di base della prevenzione incendi e sulle azioni da
attuare in presenza di un incendio» (allegato VII).
Tuttavia, aggiunge la commissione, i soggetti formatori
devono possedere competenza nella specifica materia
antincendio. Pertanto, conclude nel ritenere che gli
ingegneri, abilitati ai sensi della legge n. 818/1984
possano svolgere i corsi per addetti all'emergenza e,
quindi, rilasciare i relativi attestati di frequenza.
La commissione, inoltre, sottolinea che, per le aziende
individuate nell'allegato X del predetto dm 10 marzo 1998
(si tratta dei luoghi di lavoro dove si svolgono attività a
rischio d'incidente rilevante quali fabbriche e depositi di
esplosivi; centrali termoelettriche; impianti di estrazione
di oli minerali e gas combustibili; impianti e laboratori
nucleari; depositi al chiuso di materiali combustibili
aventi superficie superiore a 10 mila metri quadrati;
attività commerciali e/o espositive con superficie aperta al
pubblico superiore a 5 mila metri quadrati; aeroporti,
infrastrutture ferroviarie e metropolitane; alberghi con
oltre 100 posti letto; ospedali, case di cura e case di
ricovero per anziani; scuole di ogni ordine e grado con
oltre 300 persone presenti; uffici con oltre 500 dipendenti
ecc.), «i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure
di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle
emergenze» debbano conseguire «l'attestato di idoneità
tecnica di cui all'art. 3 della legge n. 609/1996», ossia
l'attestato di formazione rilasciato dal corpo nazionale dei
vigili del fuoco.
Infine, la commissione precisa che i predetti attestati di
formazione sono validi anche ai fini della formazione degli
addetti alla prevenzione e alle emergenze (obbligo previsto
dall'art. 37, comma 9, del T.u. sicurezza)
(articolo ItaliaOggi
del 12.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti urbani, Sistri rinviato.
Obbligo al via il 30/6. Dai centri di raccolta in avanti.
Le istruzioni sulle prossime tappe
alla luce degli ultimi chiarimenti ministeriali.
Sistri obbligatorio dal 03.03.2014 per tutti gli enti e le
imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi,
indifferentemente dalle quantità generate. Rinvio, invece,
alla primavera del 2014 per la partenza (a titolo
sperimentale) dell'obbligo a carico dei gestori di rifiuti
urbani pericolosi (diversi dagli operatori della regione
Campania).
Arrivano dopo appena 24 ore dalla pubblicazione
della legge 125/2013 di conversione del dl 101/2013 i
chiarimenti del Minambiente sulle novità introdotte dal
nuovo provvedimento (pubblicato sulla Guri del 30.10.2013 n. 255 ed in vigore dal giorno successivo) in merito al
sistema di tracciamento telematico dei rifiuti già partito
lo scorso 1° ottobre e ora in procinto di entrare nella
«fase due».
Con la circolare 31.10.2013 n. 1
(pubblicata sul sito web del dicastero nella tarda serata
dello stesso giorno) il Minambiente prende atto delle
principali novità in materia (come la moratoria delle
sanzioni Sistri fino all'agosto del 2014 e la parallela
estensione dell'obbligo di tenere le ordinarie scritture
ambientali, Mud compreso) soffermandosi su alcuni punti
critici relativi al riformulato panorama dei soggetti tenuti
ad aderire al Sistema informatico.
Enti e imprese produttori iniziali di rifiuti «speciali»
pericolosi. La legge 125/2013 conferma la partenza dal
03.03.2014 degli obblighi Sistri per tale categoria di
soggetti. La nuova circolare Minambiente chiarisce ora come
tale data valga anche per i produttori in parola che si
spingono fino a effettuare lo stoccaggio (quindi,
tecnicamente, una vera e propria attività di gestione) dei
propri rifiuti all'interno del luogo di produzione. E ciò in
luogo della diversa (e precedente) data del 01.10.2013
che vale per i «puri» gestori di rifiuti speciali
pericolosi. Tale futura data, illustra il Minambiente, vale
sia per coloro che effettuano il deposito preliminare di cui
al punto D15, allegato B, sia per quelli che ricorrono alla
messa in riserva di cui al punto R13, allegato C alla Parte
IV del dlgs 152/2006.
Enti e imprese che trasportano rifiuti da loro stessi
prodotti. La nuova circolare chiarisce (evidentemente
riferendosi a una norma già presente nel dm 52/2011, cd. Tu
Sistri) come l'obbligo di adesione al Sistri valga per tutti
gli enti e le imprese che trasportano i rifiuti (speciali
pericolosi) da loro stessi prodotti. La nota del Dicastero
ricorda che tale obbligo riguarda infatti sia le imprese
iscritte all'Albo nazionale dei gestori ambientali secondo
il regime light dell'articolo 212, comma 8 (ossia le imprese
che effettuano raccolta e trasporto dei propri rifiuti
pericolosi in quantità non eccedenti 30 Kg o litri al giorno
e quale parte integrante e accessoria dell'organizzazione
aziendale che li produce) sia quelli iscritti alla categoria
5 dello stesso Albo (che raccoglie, invece, tutti quelli che
effettuano raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi).
Enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti
pericolosi a titolo professionale sul territorio nazionale.
La legge 125/2013 ha allargato il novero dei soggetti in
parola: da un lato prevedendo l'obbligo (sebbene a titolo
sperimentale e subordinatamente alla futura adozione di uno
specifico dm) anche per i gestori (nei quali rientrano i
raccoglitori e trasportatori) di rifiuti urbani pericolosi;
dall'altro includendo tra i trasportatori tenuti ad adottare
il Sistema anche i vettori stranieri. In relazione agli
urbani pericolosi la Circolare chiarisce come l'obbligo non
prenderà comunque via prima del 30.06.2014 (laddove per
gli speciali è già partito il 01.10.2013) e riguarderà
comunque solo coloro che gestiscono detti rifiuti dal
momento in cui sono conferiti nei centri di raccolta in
avanti.
In relazione ai vettori stranieri la stessa Nota,
interpretando le nuove norme unitamente a quelle recate dal dlgs 152/2006, sottolinea invece come l'obbligo Sistri valga
sia per i vettori stranieri che a titolo professionale
effettuano trasporti esclusivamente all'interno del
territorio nazionale sia per quelli che effettuano trasporto
transfrontaliero partendo dall'Italia verso Stati Esteri.
Per i vettori stranieri che invece effettuano trasporti
transfrontalieri dall'estero con destinazione Italia (o con
solo attraversamento di questa) è sufficiente il rispetto
delle regole sulla tracciabilità del trasporto previste dal
regolamento comunitario n. 1013/2006.
Enti e imprese di trattamento, recupero, smaltimento,
commercio, intermediazione di rifiuti pericolosi. L'obbligo
Sistri è già dall'originario dl 101/2013 posto in capo sia
ai gestori di rifiuti urbani che di speciali (sempre
pericolosi). La nuova circolare chiarisce però che (salve le
eccezioni per la Campania) in virtù dell'introduzione da
parte della legge 125/2013 della (già ricordata e futura)
fase sperimentale per la categoria gestori di rifiuti urbani
pericolosi, slitta anche per questi soggetti (che in tale
categoria rientrano) l'obbligo di adesione al Sistri. Ciò
mentre per la gestione degli speciali, lo ricordiamo,
l'obbligo vige dal 01.10.2013.
Nuovi produttori di rifiuti pericolosi. La legge 125/2013 ha
ulteriormente ritoccato la nozione di nuovi produttori di
rifiuti pericolosi già rivista dall'originario dl 101/2013,
identificandoli nei «nuovi produttori che trattano o
producono rifiuti pericolosi». Il Minambiente chiarisce
prontamente che si tratta sia dei soggetti che sottopongono
rifiuti pericolosi ad attività di trattamento e ottengono
nuovi rifiuti (eventualmente anche non pericolosi) diversi
da quelli trattati (per natura o composizione), sia coloro
che trattando rifiuti non pericolosi ottengono nuovi rifiuti
pericolosi. Ciò sottolineando l'obbligo per tali soggetti di
iscriversi al Sistri sia nella categoria gestori (alla quale
originariamente appartengono) sia in quella dei produttori.
Comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione
Campania. Sia in base all'originario dl 101/2013 che alla
relativa legge di conversione per tali soggetti l'obbligo
scatta dal 03.03.2014. La circolare ricorda il carattere
tassativo di tale previsione dal punto di vista geografico,
sottolineando però che saranno invece sottoposti a futuro
obbligo Sistri (seppur sperimentale) anche i raccoglitori e
trasportatori di rifiuti urbani (ma solo se) pericolosi
operanti in altre Regioni.
Operatori dell'intermodale. La legge 125/2013 ha posto tra i
soggetti obbligati, nell'ambito del trasporto intermodale,
anche coloro cui sono affidati i rifiuti speciali pericolosi
in attesa della presa in carico degli stessi da parte dei
successivi trasportatori.
In Minambiente chiarisce che trattasi dei cd. terminalisti e
degli altri operatori della fase intermedia del trasporto,
reinclusi tra gli obbligati al Sistri dopo la loro
espunzione dal dlgs 152/2006 ad opera dell'originaria
versione del dl 101/2013. Come ricorda il Dicastero con la
nuova circolare 31.10.2013 n. 1, sarà però un futuro
decreto dello stesso Minambiente a disciplinare le modalità
di applicazione del Sistri a tale categoria
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
VARI: Calze da neve, fermi tutti. Niente multa (per ora).
Circolare con le calze da neve in tessuto al posto dei
tradizionali dispositivi antislittamento al momento non può
essere sanzionato dalla polizia stradale. Almeno fino a
diversa determinazione del Ministero dei trasporti.
Lo ha
evidenziato il Ministero dell'interno con la circolare
05.11.2013 n.
300/A/8321/13/105/1/2.
La questione della regolarità o meno dell'impiego in Italia
di questi nuovi dispositivi in caso di maltempo dovrà essere
definita dal Consiglio di stato e dal Ministero dei
trasporti. In buona sostanza al momento tutto resta sospeso
perché mentre da una parte il Ministero dei trasporti
ritiene di non poter ancora concedere il via libera
dall'altra parte il Tar Lazio, sez. III, con la sentenza n.
6482 del 28.06.2013, ha annullato una determinazione
ministeriale limitativa e per questo l'organo tecnico
centrale ha proposto appello. In attesa della definizione
della vicenda la polizia stradale dovrà astenersi
dall'elevare verbali.
Quindi via libera, temporaneamente, alla catene di tessuto
sulle strade italiane
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: La locazione non dribbla l'attestato energetico.
Nullità e multe fino a 1.800 euro senza allegazione.
Efficienza in edilizia. Gli obblighi in attesa
dell'annunciato intervento del Governo.
In attesa di vedere se e come gli annunciati provvedimenti
del Governo interverranno sulla materia, resta obbligatoria
la produzione e l'allegazione del certificato energetico nel
caso di stipula di un nuovo contratto di locazione.
Lo
stabilisce il nuovo articolo 6, comma 3-bis, del Dlgs
192/2005 –in vigore dal 4 agosto scorso– introdotto dalla
legge 90/2013, di conversione del Dl 63.
Secondo la nuova norma, qualora l'unità immobiliare locata
non ne sia già dotata, il proprietario è tenuto a produrre
l'attestato di prestazione energetica (Ape), renderlo
disponibile al nuovo locatario già nel momento dell'avvio
delle trattative, consegnarglielo alla fine delle stesse e –infine– ad allegarlo al contratto a pena di nullità dello
stesso.
L'Ape, a regime, è un attestato di contenuto più ampio
dell'attestato di certificazione energetica (Ace), che ha lo
scopo di portare a conoscenza del conduttore l'effettivo
rendimento energetico dell'immobile locatogli e nel contempo
di suggerire al locatore gli eventuali miglioramenti
apportabili ai fini dell'ottenimento di un risparmio
energetico. Deve essere redatto con nuove modalità di
calcolo, che però sono ancora in fase di individuazione: di
conseguenza, per ora valgono i vecchi criteri indicati dalle
linee guida contenute nel Dpr n. 59 del 02.04.2009,
tradotte nelle norme Uni /Ts 11300.
Con l'introduzione dell'Ape, continua a poter essere
utilizzata la vecchia Ace (per cui era prevista una durata
decennale) rilasciata sino al 05.06.2013, sempre che dopo
il rilascio non sia intervenuta una notevole
ristrutturazione dell'immobile perché avrebbe perso di
validità. Sotto tale profilo, concorrono a modificare la
classe energetica, e quindi impongono la sostituzione con
l'Ape, il cambio degli infissi, la sostituzione
dell'impianto di riscaldamento e ogni intervento di
coibentazione di soffitti e/o pareti.
Sta di fatto che il proprietario dell'immobile, ancor prima
di concederlo in locazione ora deve dotarlo dell'Ape, cioè
di un "corredo" documentale che lo seguirà anche negli
eventuali avvicendamenti relativi la sua proprietà.
La scelta del certificatore deve ricadere su tecnici esperti
qualificati e indipendenti, in possesso di titolo di studio
che prepara a questa professione. L'incarico non può essere
conferito al coniuge del locatore o ad un suo parente sino
al quarto grado.
L'Ape deve essere messo a disposizione del conduttore già
dall'avvio delle trattative diretta a concludere il
contratto (articolo 6, comma 2, Dlgs 192/2005). In difetto
di specifiche precisazioni da parte della legge, si deve
intendere che il «mettere a disposizione» voglia dire almeno
mostrare al potenziale conduttore, prima che questo formuli
una proposta di locazione, la copia dell'Ape (o della
vecchia Ace) affinché la esamini e si renda conto del
consumo energetico del l'immobile che si appresta a condurre
in locazione. Non si tratta di una semplice formalità,
perché la legge adesso prevede che nel contratto debba
essere inserita una apposita clausola con cui il conduttore
dichiari di avere ricevuto le informazioni e la
documentazione in ordine alla attestazione della prestazione
energetica dell'unità immobiliare oggetto del contratto
stesso (articolo 6, comma 3).
Oltre alla sanzione della nullità, il proprietario che non
dota di Ape gli edifici o le unità immobiliari oggetto di
nuova locazione è punito con la sanzione amministrativa non
inferiore a 300 euro e non superiore a 1.800 euro.
Resta infine da valutare come ottemperare al rinato obbligo
di allegare l'Ape al nuovo contratto di locazione,
condizione questa che, se non rispettata, conduce alla
nullità del contratto, con le ben immaginabili conseguenze,
anche economiche, per entrambe le parti.
L'oggetto dell'allegazione è la copia dell'Ape, con firma in
originale del tecnico certificatore. Si può optare anche per
una fotocopia, a colori, in quanto le otto classi nelle
quali può rientrare l'unità immobiliare locata sono
rappresentate da un grafico a istogrammi orizzontali
colorati che le identificano. La fotocopia deve essere
possibilmente autenticata dallo stesso tecnico
certificatore. È necessario che nel contratto venga dato
atto, in modo chiaro e con apposita clausola, dell'eseguita
allegazione, a costituire anzi parte integrante del
contratto stesso. Non servono formule sacramentali, ma un
semplice richiamo al fatto che le parti reciprocamente
riconoscono l'avvenuta effettiva allegazione dell'Ape, del
cui contenuto hanno preso piena cognizione, al pari della
altre clausole contrattuali.
Sotto il profilo della materiare esecuzione
dell'allegazione, essa avviene mediante la semplice
pinzatura dell'Ape in calce al contratto o con altro mezzo
equipollente, in modo da formare un atto unico con il
contratto. Da qui la necessità per le parti di apporre una
firma di congiunzione tra il contratto e l'allegato Ape, in
segno di conferma e sicurezza che l'uno e l'altro non
vengano magari disgiunti e/o sostituiti.
---------------
Nelle Regioni. L'intreccio tra livello territoriale e
nazionale.
Regole locali prevalenti per il calcolo di prestazione.
A livello nazionale si chiama Ape. Anche se, in attesa delle
linee guida, viene ancora redatto alla vecchia maniera. Al
contrario, nelle Regioni che, in anticipo rispetto al
completamento della disciplina statale, hanno normato,
creando un proprio sistema per il rilascio delle targhe
verdi, il certificato da allegare anche in caso di contratto
di affitto continua a chiamarsi Ace o attestato di
certificazione energetica o segue, almeno in parte, le
regole di compilazione sancite a livello territoriale.
La situazione riguarda diverse Regioni, dalle province
autonome alla Lombardia, dalla Valle d'Aosta al Piemonte,
passando per Liguria, Toscana e Sicilia. Solo in Emilia
Romagna l'Ace si può anche chiamare Ape: l'equiparazione
infatti era già contenuta nella deliberazione del 26.09.2011, n. 1366. Al di là del nome, però, anche in
Emilia ciò che conta è che laddove è presente una disciplina
locale per la compilazione delle targhe, si procede ancora
con le regole fissate dalle singole Autonomie. Anche nel
caso in cui le leggi regionali non facciano ancora esplicito
riferimento alla direttiva 2010/31/Ce, ma siano ancora ferme
alla vecchia 2002/91/Ce.
A far luce su questo punto è venuta in soccorso, oltre alla
clausola di cedevolezza contenuta nella legge 90/2013, anche
la nota n. 16416 del ministero dello Sviluppo economico.
Successivamente, chiarimenti sono arrivati anche dalle
Regioni stesse (il comunicato n. 100 della Giunta regionale
della Lombardia dell'8 agosto 2013 e quello del 30.09.203 dell'Emilia Romagna), che avevano temuto –nei primi
giorni dopo la conversione nella legge 90/2013 del Dl
63/2013– un blocco delle pratiche sia di compravendita, ma
anche di affitto, sui propri territori.
Sovraordinato, invece, rispetto alle Regioni è l'obbligo di
allegare il certificato (comunque esso si chiami e con
qualunque forma si compili) ai contratti di locazione. Pena
la nullità: almeno fino a che il Governo, come annunciato,
non avrà imboccato la retromarcia su questo punto,
cancellando per la seconda volta quella che è una esplicita
richiesta da parte dell'Unione europea.
Più intricata è la questione delle sanzioni. Alcune regioni,
come Piemonte e Lombardia, avevano previsto – ben prima che
ci arrivasse lo Stato – una serie di multe per chi non
provvede a redigere correttamente gli attestati o a
corredare di Ape/Ace gli atti di cessione a titolo oneroso,
quindi anche gli affitti. «Nel caso della Lombardia –spiega
la dirigente del servizio, Alice Tura– le sanzioni restano
quelle stabilite a livello regionale. Non c'è, infatti,
tipologia di ammenda nella nostra legislazione che non sia
prevista anche dallo Stato. Solo le cifre sono più severe. E
sono quelle da applicare». Multe che, la Lombardia, caso
unico in Italia, ha anche iniziato a comminare in caso di
certificati non corretti.
Diversa la lettura di altre Regioni, come il Piemonte e
l'Emilia Romagna. Ad esempio, quest'ultima, in calce al
comunicato diffuso a fine settembre specifica: «Per quanto
riguarda gli obblighi di produzione e allegazione
dell'attestato devono invece essere rispettate le
disposizioni di cui al comma 1, 2, 3 e 3-bis del medesimo
articolo 6 del Dlgs 192/2005 e s.m.». La Lombardia,
tuttavia, rilancia. «A rendere più certa la nostra
interpretazione –conclude Tura– c'è il fatto che
l'articolo 9 della legge 24/2006, così come modificato dalla
legge 3/2011, cita l'ultima direttiva Ue del 2010. Cosa che
non avviene in tutte le discipline locali»
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.11.2013). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sponsor obbligato? Concussione.
Il sindaco che fa pressioni per la squadra di calcio locale
rischia l'incriminazione.
Cassazione. Secondo i magistrati bisogna però provare il
vantaggio politico personale del primo cittadino promotore
Il
sindaco che fa pressioni su un imprenditore per costringerlo
a sponsorizzare la squadra di calcio locale risponde di
concussione solo se l'accusa prova che in tal modo il primocittadino ha ottenuto un vantaggio di «natura politica»
e personale, e non invece solo di «natura istituzionale». In
questa seconda ipotesi, infatti, la sussistenza del reato è
esclusa perché il beneficio andrebbe nella direzione del
buon funzionamento della Pa che è il bene giuridico tutelato
dalla stessa norma incriminatrice.
Con l'articolata
sentenza
15.11.2013 n. 45970 la II Sez. penale
della Corte di Cassazione ha riaperto per la terza volta il processo
di appello all'ex sindaco di Altamura che a fine anni'90
avrebbe –tra le altre ipotesi di accusa– costretto una
cordata di imprenditori a impegnarsi in soccorso della
squadra di calcio locale.
Il caso era stato affrontato e risolto nei due gradi di
merito già nel 2002 –assoluzione in primo grado, condanna
in Appello– ma a un primo annullamento da parte della
Cassazione (21991/2006), di fatto ignorato dalla Corte di
appello barese, seguì una nuova condanna e, ieri,
l'ulteriore annullamento dei giudici di piazza Cavour.
Proprio con il primo annullamento di sette anni fa, la
Cassazione aveva affermato il principio secondo cui «ai fini
della configurabilità del delitto di concussione,
nell'espressione "altra utilità" di cui all'articolo 317 del
codice penale va ricompreso anche il vantaggio di natura
politica, da non identificarsi con il vantaggio di natura
istituzionale che, in quanto giova esclusivamente alla
Pubblica Amministrazione, esclude la sussistenza del reato».
"Spacchettando" il concetto, la Sesta penale, due anni più
tardi (33843/2008) aveva poi chiarito che nella concussione il
termine «utilità indica tutto ciò che rappresenta un
vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o
non patrimoniale. oggettivamente apprezzabile, consistente
tanto in un dare quanto in un facere e ritenuto rilevante
dalla consuetudine o dal convincimento comune,
conseguentemente rientrandovi anche il vantaggio di natura
politica».
Nel caso specifico, quindi, si tratta di verificare se il
sindaco della cittadina pugliese abbia agito per ottenere
visibilità politica (cioè un beneficio "personalizzato")
oppure per finalità istituzionali «nelle quali potrebbe di
fatto rientrare anche quello di promuovere l'attività
sportiva, finanziando una squadra di calcio», scrive il
giudice del rinvio.
Per la stessa Cassazione, comunque, il "promo" all'esercizio
fisico nelle vicende di causa sarebbe da considerare una
«mera evenienza» ma comunque sarebbe stata meritevole di
valutazione nel primo giudizio di rinvio. In sostanza il
pubblico ministero ha l'onere, di fronte all'ipotesi di
concussione formulata dagli investigatori, di dimostrare la
presenza di una «finalità personale» del sindaco, mentre non
spetta a quest'ultimo provare il contrario.
La Corte di appello di Bari, per la verità, nel secondo
giudizio di rinvio aveva provato a tracciare una definizione
del perimetro delle condotte lecite per il sindaco "amante"
dello sport, valutando che «l'impegno a reperire soggetti
disposti a sponsorizzare le squadre di calcio ovvero a
favorire la formazione di "cordate" di imprenditori che
rilevino la società da precedenti titolari non rientra fra i
fini istituzionali dell'ente ma solo ed esclusivamente a
quelli politici».
I giudici di piazza Cavour hanno però tacciato
quest'affermazione di essere «astratta ed apodittica,
prescindendo dalla specifica disamina del caso di specie,
ovvero dalla verifica di quello che era accaduto in
concreto» ignorando tra l'altro anche le direttive della
sentenza di rinvio. La stessa esclusione delle finalità
istituzionali dell'intervento in pressing del sindaco, e il
solo fine di visibilità politica, non sono stati motivati
nella sentenza nuovamente bocciata
(articolo Il Sole 24 Ore
del 16.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso in cui l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che
hanno impedito al titolare della concessione edilizia di
ultimare i lavori, la stessa non può adottare un
provvedimento di decadenza della concessione, trovando
applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la
proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti
estranei alla volontà del concessionario che siano
sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro
esecuzione.
... per l'annullamento del provvedimento di decadenza
permesso di costruire;
...
- Considerato che il mancato inizio dei lavori di cui al
permesso di costruire n. 31/2011 risulta correlato
all’adozione del provvedimento con il quale il Comune ha
negato il rilascio della concessione relativa
all’installazione di chiosco per la vendita di prodotti non
alimentari, annullato con sentenza n. 714/2013 del
25.06.2013 di questo Tribunale;
- Considerato che il ricorso risulta manifestamente fondato,
atteso che secondo la giurisprudenza, nel caso in cui
l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che hanno
impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare
i lavori, la stessa non può adottare un provvedimento di
decadenza della concessione, trovando applicazione, anche
senza richiesta del concessionario, la proroga del termine
per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla
volontà del concessionario che siano sopravvenuti a
ritardare i lavori durante la loro esecuzione (così, da
ultimo, TAR Calabria, Reggio Calabria, 20.04.2010 n. 420);
- Considerato che deve essere rigettata la domanda di
risarcimento del danno, in quanto l’annullamento del
provvedimento impugnato soddisfa l’interesse di parte
ricorrente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 15.11.2013 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Poiché dal combinato disposto di cui agli art. 87
e 88 del d.P.R. 24.07.1977 n. 616 si evince che le
valutazioni urbanistiche inerenti la realizzazione di
elettrodotti con tensione inferiore ai 150.000 volts
rientrano nella competenza delle regioni, l'ubicazione in
difformità delle previsioni di piano e le caratteristiche di
dette opere non sono subordinate al previo rilascio di
apposita variante agli strumenti urbanistici vigenti o di
intese Stato-regione, essendo al riguardo sufficiente
l'intervenuta intesa tra l'ENEL e la regione interessata.
Così coerentemente si esclude che per la costruzione di
dette opere sia necessaria la concessione edilizia o
l’autorizzazione comunale.
Con ricorso notificato in data 24.02.2001
e ritualmente depositato il 5 marzo successivo, la Società
Enel Distribuzione S.p.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, impugna l’ordinanza, meglio
distinta in epigrafe, colla quale il Comune di Ospidaletto
d’Alpinolo le ha ordinato di provvedere allo smontaggio “dei
tralicci in ferro per il sostegno di cavi di alta tensione
(elettrodotto)”, ubicati alla Via Utracchi, assumendone
l’abusività dal punto di vista urbanistico.
La ricorrente,
dopo aver premesso che l’elettrodotto da rimuovere esiste da
circa trenta anni ed è necessario per l’erogazione del
servizio elettricità, solleva, sotto distinti e concorrenti
profili, i vizi della violazione di legge e dell’eccesso di
potere, lamentando che l’installazione dell’elettrodotto è
stata a suo tempo autorizzata dalla Regione e si tratterebbe
di un intervento irrilevante sul piano urbanistico.
...
Il ricorso è fondato.
Parte ricorrente evidenzia, nel contesto del primo motivo di
ricorso, che l’elettrodotto, la cui realizzazione risale al
1980, è di tensione inferiore a 150 Kv e pertanto assume che
non rientrerebbe nella competenza comunale a norma del R.D.
11.12.1933, n. 1775. Si allega quindi al ricorso
decreto regionale prot. n. 10024 del 21.10.1980 con il quale
si autorizza l’ENEL “a costruire e a porre in esercizio la
linea elettrica in oggetto (Comuni di Avellino – Mercogliano
– Ospedaletto)”.
Le su citata disciplina invero prevede,
all’art. 108, che “Le linee di trasmissione e distribuzione
di energia elettrica aventi tensione non inferiore a 5000
volta sono autorizzate dal Ministro dei lavori pubblici”. La
successiva evoluzione della normativa, per effetto
dell’introduzione degli enti regionali, ha determinato lo
spostamento di competenza in favore di questi ultimi, invece
che dei Comuni, tant’è che si afferma in giurisprudenza:
“Poiché dal combinato disposto di cui agli art. 87 e 88 del d.P.R. 24.07.1977 n. 616 si evince che le valutazioni
urbanistiche inerenti la realizzazione di elettrodotti con
tensione inferiore ai 150.000 volts rientrano nella
competenza delle regioni, l'ubicazione in difformità delle
previsioni di piano e le caratteristiche di dette opere non
sono subordinate al previo rilascio di apposita variante
agli strumenti urbanistici vigenti o di intese Stato-regione,
essendo al riguardo sufficiente l'intervenuta intesa tra
l'ENEL e la regione interessata” (cfr. Tar Marche, 10.04.1992, n. 245). Così coerentemente si esclude che per la
costruzione di dette opere sia necessaria la concessione
edilizia o l’autorizzazione comunale (Tar Marche, 09.10.1992, n. 588).
Va conclusivamente rilavata la fondatezza del
rilievo in considerazione della estraneità della fattispecie
alla sfera di competenza dell’ente comunale.
Il ricorso è pertanto fondato, atteso il carattere
assorbente della censura in esame, e va accolto, con
conseguente annullamento dell’atto impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.11.2013 n. 2276 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della domanda di accertamento di
conformità ex art. 13 l. 28.02.1985, n. 47 impedisce
l'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione ed impone al
Comune il previo esame della domanda di sanatoria, con la
necessità, in caso di rigetto (espresso o tacito, ex art.
13, comma 2, l. n. 47 del 1985), dell'adozione di una nuova
misura demolitoria.
Da ciò consegue che, nel caso in cui il ricorso sia stato
proposto o contestualmente o dopo la presentazione della
predetta istanza, esso è inammissibile per carenza di
interesse ab origine.
Assume rilievo dirimente la presentazione
di istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della l.n.
47/1985, ora trasfuso nell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001,
avvenuta in data 2.12.1998, prot. n. 59096, quindi in data
antecedente al ricorso, siccome depositato l’11.12.1998.
Infatti, secondo un cospicuo indirizzo giurisprudenziale, al
quale il Collegio intende aderire, "la presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 13 l. 28.02.1985, n. 47 impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione
di demolizione ed impone al Comune il previo esame della
domanda di sanatoria, con la necessità, in caso di rigetto
(espresso o tacito, ex art. 13, comma 2, l. n. 47 del 1985),
dell'adozione di una nuova misura demolitoria. Da ciò
consegue che, nel caso in cui il ricorso sia stato proposto
o contestualmente o dopo la presentazione della predetta
istanza, esso è inammissibile per carenza di interesse ab
origine" (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 18.05.2006,
n. 4743)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.11.2013 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di sanatoria di
costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto
caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Così pedissequamente si afferma, con specifico riferimento
alla presentazione della domanda di condono ai sensi della
l. n. 326 del 2003 successivamente all'impugnazione
dell'ordinanza di demolizione che essa "produce l'effetto di
rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, l'impugnazione stessa. Invero, il riesame
dell'abusività dell'opera al fine di verificarne l'eventuale
sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati-
comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale,
comunque, a superare il provvedimento impugnato".
Secondo cospicuo orientamento della
giurisprudenza, al quale il Collegio intende aderire,
infatti, "La presentazione dell'istanza di sanatoria di
costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa"
(cfr. Tar Napoli, Sez. IV, n. 1542 del 03.04.2012).
Così
pedissequamente si afferma, con specifico riferimento alla
presentazione della domanda di condono ai sensi della l. n.
326 del 2003 successivamente all'impugnazione dell'ordinanza
di demolizione, come avvenuto nel caso di specie, che essa
"produce l'effetto di rendere improcedibile, per
sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa.
Invero, il riesame dell'abusività dell'opera al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità -provocato dall'istanza
degli interessati- comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento
impugnato" (cfr. Tar Napoli, Sez. VI, 09.05.2013, n.
2417)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.11.2013 n. 2272 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Di regola, gli atti amministrativi si
perfezionano e producono effetti fin dalla loro emanazione,
salvo che non sia altrimenti disposto da una norma, che
richieda un controllo preventivo di legittimità o che
preveda la comunicazione dell’atto al suo destinatario.
In via generale sono considerati come recettizi, ai sensi
dell’art. 21-bis della legge n. 241 del 1990, i soli
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati,
fatta salva l’immediata efficacia di quelli aventi carattere
cautelare ed urgente.
In ogni caso, anche per gli atti recettizi, la comunicazione
incide unicamente sull'efficacia del provvedimento, nonché
ovviamente sul decorso dei termini per l'impugnativa
giurisdizionale, ma comunque non influisce sull’esistenza e
sulla validità dell’atto.
---------------
Quanto al “protocollo interno”, esso dimostra appunto la
formalizzazione dell’atto, laddove la mancanza di un
protocollo generale o di uscita costituisce semmai una
omissione o dimenticanza inidonea a travolgere, eliminare o
escludere la esistenza dell’atto stesso.
Infatti è stato chiarito che l'omessa registrazione di
protocollo del provvedimento, prevista dall'art. 53 del
d.P.R. n. 445 del 2000 per ogni documento ricevuto o spedito
dalle pubbliche amministrazioni, non può ritenersi causa di
nullità o annullabilità dell’atto.
Il Comune resistente obietta, in primo
luogo, che il documento relativo all’annullamento d’ufficio
esibito dal ricorrente sarebbe in realtà una mera “bozza” di
provvedimento, che non si sarebbe mai concretizzata con la
formale emanazione di un atto di autotutela. Infatti, a
detta del Comune resistente, il responsabile dell’Area non
si sarebbe convinto della legittimità dell’annullamento,
tant’è che l’atto in questione non recherebbe né un numero
di protocollo generale (ma solo un numero di protocollo
interno all’ente), né un destinatario (visto che mancherebbe
una notifica all’interessato e ad Equitalia). La difesa
comunale soggiunge altresì che il Comune stesso non
conoscerebbe come il ricorrente sia entrato in possesso del
documento in questione.
Al riguardo giova osservare che il ricorrente ha prodotto in
giudizio un atto recante data, timbro del Comune e
sottoscrizione del Capo Area Tecnica, protocollato “prot.
int. n. 668” e inviato al ricorrente a mezzo plico
raccomandato in data 04/12/2010.
Giova premettere che, di regola, gli atti amministrativi si
perfezionano e producono effetti fin dalla loro emanazione,
salvo che non sia altrimenti disposto da una norma, che
richieda un controllo preventivo di legittimità o che
preveda la comunicazione dell’atto al suo destinatario (cfr.
Cons. St., sez VI, 18/06/2002, n. 3319). In via generale sono
considerati come recettizi, ai sensi dell’art. 21-bis della
legge n. 241 del 1990, i soli provvedimenti limitativi della
sfera giuridica dei privati, fatta salva l’immediata
efficacia di quelli aventi carattere cautelare ed urgente.
In ogni caso, anche per gli atti recettizi, la comunicazione
incide unicamente sull'efficacia del provvedimento, nonché
ovviamente sul decorso dei termini per l'impugnativa
giurisdizionale, ma comunque non influisce sull’esistenza e
sulla validità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. IV,
21/08/2006, n. 4860).
Nella specie va tuttavia rilevato che non è mancata la
comunicazione dell’atto all’interessato, il quale ha
prodotto, in originale, il documento in questione ed il
plico raccomandato, apparentemente proveniente dal Comune di
cui reca i timbri, a nulla rilevando, di fronte a tale
evidenza documentale, le asserzioni del difensore in ordine
allo “stupore” manifestato al riguardo dal funzionario
comunale.
Quanto al “protocollo interno”, esso dimostra appunto la
formalizzazione dell’atto, laddove la mancanza di un
protocollo generale o di uscita costituisce semmai una
omissione o dimenticanza inidonea a travolgere, eliminare o
escludere la esistenza dell’atto stesso.
Infatti è stato chiarito che l'omessa registrazione di
protocollo del provvedimento, prevista dall'art. 53 del
d.P.R. n. 445 del 2000 per ogni documento ricevuto o spedito
dalle pubbliche amministrazioni, non può ritenersi causa di
nullità o annullabilità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. VI,
06/08/2013, n. 4113).
Ne consegue che gli atti adottati dal Comune per la
determinazione dei contributi di costruzione risultano
annullati in sede di autotutela con il provvedimento n. 668
del 02/12/2010, che risulta adottato, comunicato e non
eliminato nelle forme previste dall’ordinamento.
Gli atti consequenziali di riscossione sono viziati da
illegittimità derivata (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 13.11.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lo sbancamento di un terreno, l’arretramento del
muro di contenimento e la pavimentazione cortilizia non
costituiscono interventi effettuati sull’edificio contiguo e
pertanto non sono configurabili come lavori di manutenzione
del medesimo.
---------------
Il muro di contenimento, determinando una durevole
trasformazione dell’area dallo stesso impegnata, non
rappresenta intervento di mera manutenzione.
Sennonché lo sbancamento di un
terreno, l’arretramento del muro di contenimento e la
pavimentazione cortilizia non costituiscono interventi
effettuati sull’edificio contiguo e pertanto non sono
configurabili come lavori di manutenzione del medesimo.
Peraltro è stato chiarito che il muro di contenimento,
determinando una durevole trasformazione dell’area dallo
stesso impegnata, non rappresenta intervento di mera
manutenzione (cfr. Cass., sez. pen. III, 03/03/2010, 15370)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 13.11.2013 n. 5076 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Si
rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione
europea la seguente questione pregiudiziale di corretta
interpretazione, che ancora una volta si trascrive: <<se i
princìpi dell’Unione europea in materia ambientale sanciti
dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del
21.04.2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13° e 24° considerando)
–in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”,
il principio di precauzione, il principio dell’azione
preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla
fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una
normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli
244, 245 e 253 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di
accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità
d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione
o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione,
non consenta all’autorità amministrativa d’imporre
l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e
bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento,
prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l’esecuzione degli interventi di bonifica>>.
In definitiva, alla luce di quanto esposto, si rimette
all’esame della Corte di giustizia dell’Unione europea la
seguente questione pregiudiziale di corretta
interpretazione, che ancora una volta si trascrive: <<se
i princìpi dell’Unione europea in materia ambientale sanciti
dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del
21.04.2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13° e 24° considerando)
–in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”,
il principio di precauzione, il principio dell’azione
preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla
fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una
normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli
244, 245 e 253 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di
accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità
d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione
o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione,
non consenta all’autorità amministrativa d’imporre
l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e
bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento,
prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l’esecuzione degli interventi di bonifica>> (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
ordinanza 13.11.2013 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce
un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento della
relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo
ad una delle fattispecie d’illecito previste dalla legge;
circostanza, questa, implicante che il provvedimento
sanzionatorio non richieda particolare motivazione, essendo
sufficiente la rappresentazione del carattere illecito
dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra
l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re
ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso.
Quanto alla riproposta (con il sesto
motivo) censura di carenza di motivazione, in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione
dell’abuso, a distanza di molto tempo dalla relativa
realizzazione, questo Collegio non reputa vi siano ragioni
per discostarsi dalla giurisprudenza dominante anche di
questa Sezione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 20.07.2011 n. 443; sez. VI, sent. 11.05.2011 n. 2781; sez. V,
sent. 27.04.2011 n 2526), secondo cui il provvedimento
di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto
dovuto in mera dipendenza dall’accertamento della relativa
realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una
delle fattispecie d’illecito previste dalla legge;
circostanza, questa, implicante che il provvedimento
sanzionatorio non richieda particolare motivazione, essendo
sufficiente la rappresentazione del carattere illecito
dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra
l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa,
e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se
l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.11.2013 n. 5368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
relazione all’art. 12, legge n. 47/1985 (ora, art. 34,
d.P.R. n. 380/2001), la valutazione sulla reale fattibilità,
pratica e giuridica, della demolizione deve essere
effettuata al momento dell’irrogazione della sanzione, in
quanto la tesi che vuol differita al procedimento di
esecuzione d’ufficio la valutazione di tale fattibilità
finisce col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo
ingiungere al privato un’attività demolitoria che
l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non
esserle possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva.
Inoltre, in materia di applicabilità dell'art. 12, legge n.
47/1985, la previsione di cui al comma secondo di detta
norma non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia
stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un
previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in
quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la
costruzione sia avvenuta in assenza di concessione edilizia,
essendo costituito il presupposto per l'applicazione della
disciplina sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo
di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della
parte non abusiva del manufatto e non anche dalla
circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale
difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio.
La
giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 12, legge n.
47/1985 (ora, art. 34, d.P.R. n. 380/2001), dopo alcune
oscillazioni, si è attestata sull’orientamento, che questo
collegio condivide, secondo cui la valutazione sulla reale
fattibilità, pratica e giuridica, della demolizione debba
essere effettuata al momento dell’irrogazione della
sanzione, in quanto la tesi che vuol differita al
procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione di tale
fattibilità finisce col tradursi nell’illogico assunto che
sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria
che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi
non esserle possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva.
Osserva, inoltre, il collegio, alla stregua della più
attenta giurisprudenza formatasi in materia di applicabilità
dell'art. 12, legge n. 47/1985, che la previsione di cui al
comma secondo di detta norma non può considerarsi limitata
ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale
difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo
abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare
applicazione anche quando la costruzione sia avvenuta in
assenza di concessione edilizia, essendo costituito il
presupposto per l'applicazione della disciplina
sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo di quella
reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non
abusiva del manufatto e non anche dalla circostanza che
l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità
rispetto ad un previo rilascio concessorio (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, sent. 29.09.2011 n. 5412, e sez. V, sent.
11.05.2007 n. 2339)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.11.2013 n. 5368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Ente civico è tenuto a
corrispondere il quantum che risulta essere stato
corrisposto dal ricorrente a titolo di oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria e di costi di
costruzione, maggiorato degli interessi legali, nella misura
vigente nel periodo dal versamento al soddisfo, e della
rivalutazione monetaria, ove nel periodo suindicato il tasso
d’inflazione sia superiore al tasso di interesse legale,
laddove il concessionario rinunci all'edificazione di quanto
richiesto.
---------------
Rinunciando all'esecuzione di una concessione edilizia
rilasciata, nulla deve invece essere restituito quali
diritti di segreteria, atteso che tale importo è una tariffa
stabilita per l’instaurazione e lo svolgimento del
procedimento amministrativo introdotto dalla domanda di
rilascio di permesso di costruire e non già correlata al
rilascio del titolo.
... avverso il silenzio inadempimento del Comune di Barletta
sull’istanza di restituzione degli oneri di urbanizzazione
relativi ad una domanda di permesso di costruire, mai
accolta ed oggetto di rinuncia da parte del ricorrente.
...
Considerato:
-
che, ai sensi dell’art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001,
“il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate nel presente
articolo”;
-
che è evidente che il contributo concessorio sopra
specificato è strettamente connesso all’attività di
trasformazione del territorio assentita col titolo edilizio
rilasciato e quindi, ove tale circostanza non si verifichi,
il relativo pagamento risulta privo della causa
dell’originaria obbligazione di dare;
-
che, in assenza di restituzione, si determinerebbe in favore
del Comune un indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033
c.c.;
-
che conseguentemente nella specie l’Ente civico intimato è
tenuto a corrispondere il quantum che risulta essere stato
corrisposto dal ricorrente a titolo di oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria e di costi di
costruzione, maggiorato degli interessi legali, nella misura
vigente nel periodo dal versamento al soddisfo, e della
rivalutazione monetaria, ove nel periodo suindicato il tasso
d’inflazione sia superiore al tasso di interesse legale;
-
che nulla deve invece essere restituito quali diritti di
segreteria, atteso che tale importo è una tariffa stabilita
per l’instaurazione e lo svolgimento del procedimento
amministrativo introdotto dalla domanda di rilascio di
permesso di costruire e non già correlata al rilascio del
titolo;
Ritenuto:
-
che, pertanto, il ricorso debba accogliersi, con le
precisazioni sopra fatte, e, per l’effetto, il Comune di
Barletta sia tenuto a riscontrare l’istanza del ricorrente
con provvedimento espresso, determinandosi a versare in suo
favore la somma suindicata nel termine indicato in
dispositivo, con l’avvertenza che, in assenza, sarà nominato
un commissario ad acta, che dovrà provvedere in sua
vece (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 08.11.2013 n. 1526 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del conseguimento del condono edilizio è
stato osservato che:
- la nozione di ultimazione delle opere cui occorre fare
riferimento coincide con l'esecuzione del rustico -da
intendersi come muratura priva di rifinitura- e da non
confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo
considerarsi come mere rifiniture;
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento
di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno
annoverate le tamponature esterne, che determinano
l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano
l'opera nella sua fondamentale volumetria;
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di
semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere
l'immobile da incursioni estranee non determina il
completamento della copertura;
- la semplice installazione di lamiere, che non consente una
precisa individuazione del volume e non esclude la possibile
modificazione dell'opera non può configurare una copertura
definitiva e stabile del fabbricato abusivo.
---------------
E' onere del richiedente il condono edilizio provare che
l'opera sia stata completata entro la data utile fissata
della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola
dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, che deve essere
supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente
indiziari, purché altamente probanti, specificandosi che la
prova del completamento dell'edificio entro la data prevista
dalla legge può essere validamente fornita attraverso la
produzione della documentazione, munita di data certa, delle
fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali
necessari per la realizzazione dell'opera.
Va rilevato che:
- il D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito
nella L. 24.11.2003, n. 326 -condono edilizio del
2003- consente la sanabilità delle "opere abusive che
risultino ultimate entro il 31.03.2003", rinviando alla
previsioni normative di cui alla legge n. 47 del 1985 per i
profili di disciplina generale dell'istituto;
- in particolare, per quanto qui interessa, la L. n. 47,
all'art. 31, comma 2, stabilisce che "si intendono ultimati
gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e
completata la copertura".
- a sua volta la definizione di "rustico" non può
prescindere, secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed
amministrativa, dall'intervenuto completamento di tutte le
strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature
esterne";
- tale interpretazione -come ha evidenziato la Corte
costituzionale nella sentenza 27.02.2009 n. 54- è
rafforzata dalla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti 7 dicembre 2005 n. 2699, che
riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che
l'esecuzione del rustico implica la tamponatura
dell'edificio stesso, con conseguente non sanabilità di
quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di
tamponamento".
Ancora, è stato osservato che:
- la nozione di ultimazione delle opere cui occorre fare
riferimento coincide con l'esecuzione del rustico -da
intendersi come muratura priva di rifinitura- e da non
confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo
considerarsi come mere rifiniture (cfr. TAR Campania sez. IV,
07.09.2012 n. 3803);
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento
di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno
annoverate le tamponature esterne, che determinano
l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano
l'opera nella sua fondamentale volumetria (cfr. TAR
Salerno, sez. II, 13.10.2006 n. 1745);
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di
semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere
l'immobile da incursioni estranee non determina il
completamento della copertura (cfr. Cassazione penale, sez. III,
02.12.2008 n. 8064);
- la semplice installazione di lamiere, che non consente una
precisa individuazione del volume e non esclude la possibile
modificazione dell'opera non può configurare una copertura
definitiva e stabile del fabbricato abusivo (cfr. TAR
Piemonte, I, 13.09.2007 n. 2925, TAR Liguria, Sez. 1,
19.03.2010 n. 1206).
Sotto altro profilo, va rilevato (cfr. Cons. St., Sez. V, 03.06.2013 n. 3034; Sez. IV,
06.06.2001 n. 3067; Sez. V,
14.03.2007 n. 1249) che è onere del richiedente il
condono edilizio provare che l'opera sia stata completata
entro la data utile fissata della legge, non essendo a tal
fine sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell'atto
notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri
documentali, eventualmente indiziari, purché altamente
probanti, specificandosi che la prova del completamento
dell'edificio entro la data prevista dalla legge può essere
validamente fornita attraverso la produzione della
documentazione, munita di data certa, delle fatture e delle
bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la
realizzazione dell'opera.
Con riguardo alla fattispecie all’esame, non solo non è
stata fornita alcuna prova del completamento del rustico del
primo piano entro la data del 31.03.2003, ma proprio dal
verbale di sopralluogo della Polizia municipale del
22.09.2004, al quale si richiama parte ricorrente, emerge
che -a tale data, successiva a quella limite del 31.03.2003-
erano stati eseguito il solo scheletro e non risultavano
ancora realizzati i tamponamenti laterali (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 08.11.2013 n. 1521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Diritto all’indennizzo – Bando di gara –
Previsione di modalità limitative della responsabilità per
fatti illeciti della P.A. – Illegittimità.
Il diritto all’indennizzo, previsto dalla legge, può essere
escluso legittimamente dall’Amministrazione con un proprio
atto –come ad es. il bando di gara– in tutti i casi in cui
la pretesa patrimoniale non si ricolleghi a un fatto
illecito dell’Amministrazione, come accade nelle ipotesi di
revoca (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990) e di
annullamento di ufficio (ex art. 1, co. 136, l. n.
311/2004).
Allorquando invece siffatto diritto si ricolleghi a un fatto
illecito, come accade nelle ipotesi di responsabilità
precontrattuale ex art. 1337 c.c., l’Amministrazione non può
legittimamente imporre ai privati di formalizzare una
preventiva rinuncia a siffatto diritto patrimoniale; è, del
pari, illegittima la clausola del bando con la quale la
stazione appaltante introduca in via preventiva, una
modalità limitativa della responsabilità per fatti illeciti
dalla stessa, posti in essere nello svolgimento del
procedimento (Cons. Stato, Sez. IV, 14.01.2013, n. 156) (TAR
Molise,
sentenza 08.11.2013 n. 641 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Al Tar le controversie sulla regolarità del Durc
Spettano al giudice amministrativo le controversie aventi ad
oggetto la regolarità del Durc nei casi in cui esso
costituisce un requisito di ammissione a gare pubbliche.
Lo
ha ribadito il TAR Puglia-Lecce, Sez. I, nella
sentenza
07.11.2013 n. 2258, annullando un Durc irregolare rilasciato
dall'Inps su richiesta di un comune calabrese.
La ditta
ricorrente aveva dedotto l'inesistenza della pretesa
economica e del debito contributivo (avendo essa
integralmente pagato quanto dovuto), oltre alla violazione
dell'art. 13-bis, comma 5, della l 94/2012 (vantando essa
crediti certi, liquidi ed esigibili verso la p.a. per un
importo superiore alla presunta irregolarità).
Preliminarmente, il Tar ha ritenuto di riaffermare
espressamente la propria giurisdizione in materia, negata da
altre pronunce «sulla base della consistenza di diritto
soggettivo della pretesa giudiziale».
In altri termini,
secondo alcuni, il giudice amministrativo non potrebbe
occuparsi delle posizioni sostanziali di diritto soggettivo
afferenti al rapporto contributivo, che andrebbero devolute
al giudice ordinario ai sensi dell'art. 442, comma 1, cpc.
In senso contrario, tuttavia, si sono espresse le Sezioni
unite della Corte di cassazione (sentenza 09.02.2011,
n. 3169), confermando l'orientamento del Consiglio di stato
(sez. V, sentenza 11.05.2009 n. 2874) che ha attribuito
alla regolarità contributiva, attestata dal documento unico,
il carattere di vero e proprio requisito di partecipazione
alla gara. Secondo il collegio pugliese, l'emissione del Durc si innesta in una procedura pubblicistica e attiene ad
una fase del procedimento amministrativo, costituendo il
documento «uno dei requisiti posti dalla normativa di
settore ai fini dell'ammissione alla gara».
La necessaria
valorizzazione di tale dato induce, quindi, a ritenere
appartenenti alla giurisdizione amministrativa le questioni
attinenti alla regolarità del Durc. Un altro aspetto
interessante della pronuncia riguarda la proiezione
temporale della verifica di regolarità che precede il
rilascio del documento: nel caso di specie, essa era stata
compiuta sull'autodichiarazione rilasciata dal contribuente
in un momento in cui il pagamento non era ancora stato
effettuato.
Tuttavia, ciò che conta è la data (successiva)
in cui il Durc è stato rilasciato: a quel punto, esso doveva
attestare la regolarità della ditta, che nel frattempo si
era messa a posto con i versamenti
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Senza barriere gli studi dei difensori d'ufficio.
Tar Parma. I locali sono «aperti al pubblico».
Studi legali senza barriere architettoniche, se i clienti
sono ammessi al patrocinio a carico dello Stato.
Questo è il principio posto dalla
sentenza
06.11.2013 n. 303 del TAR Emilia Romagna-Parma, al termine di una controversia tra il locale Ordine
degli avvocati e il Comune.
Il piano urbanistico di Parma, dal 2007, impone negli
edifici "aperti al pubblico" il rispetto delle norme per il
superamento delle barriere architettoniche.
Ciò ha messo in allarme le categorie professionali. In
particolare, gli avvocati eccepivano difficoltà e costi per
adeguamenti strutturali di locali che, a loro parere,
dovevano considerarsi di uso privato. Secondo il Comune,
invece, la legge 104/1992 impone di eliminare difficoltà di
accesso anche negli edifici privati, se aperti al pubblico.
La norma del 1992 prevede tre livelli di qualità:
accessibilità (ingresso), visitabilità (dislivelli, spigoli,
rampe accesso) e adattabilità (fruibilità senza modifiche
alla struttura): agli studi legali il Comune richiedeva
appunto la visitabilità e cioè la possibilità, per le
persone impedite, di accedere agli spazi di relazione senza
dislivelli o spigoli e con servizi adeguati. Lo stesso tipo
di controversia ha riguardato studi medici e ambulatori (Tar
Brescia 227/2011, Palermo, 9199/2010) ritenendo aperti al
pubblico i servizi di medicina generale, ma ora per la prima
volta riguarda gli avvocati.
Secondo i giudici amministrativi, gli studi legali privati,
devono essere "visitabili", tutte le volte che l'accesso,
seppur escluso alla generalità delle persone, sia comunque
consentito a determinate categorie, anche se ricevute con
rispetto di orari e con obbligo di preventivo appuntamento.
L'obbligo di rendere "visitabili" gli studi non riguarda,
quindi, tutti gli uffici legali di Parma, ma solo i casi in
cui l'avvocato ha uno studio "aperto al pubblico", cioè i
casi in cui il professionista non è in grado di selezionare
clienti, in quanto ha comunque l'obbligo di prestare loro il
patrocinio.
Lo studio è quindi per principio "privato", ma diventa
"aperto al pubblico", quando l'avvocato chieda di essere
iscritto nell'elenco dei difensori d'ufficio e di coloro che
prestano il patrocinio a carico dello Stato: tali servizi
hanno infatti un pubblico indistinto, di cittadini non
abbienti le cui ragioni risultino non manifestamente
infondate a parere della specifica Commissione prevista dal
Decreto del presidente della Repubblica 115/2002.
Il meccanismo di selezione dei clienti, nel caso di
cittadini non abbienti, avviene infatti a monte, dapprima
con una verifica delle possibilità di esito favorevole del
ricorso alla giustizia, e poi con un elenco di
professionisti che accettano le difese, con successivo
onorario a carico dello Stato.
Ciò significa che quando l'avvocato accetta (mediante
volontaria iscrizione negli elenchi specifici) le difese di
ufficio ed i patrocini gratuiti, presta la propria utilità
in favore di un'ampia ed indiscriminata categoria di aventi
diritto. Quindi, a fronte del vantaggio di un compenso
corrisposto dallo Stato, il professionista ha l'onere di
adeguare il proprio studio alla normativa statale
finalizzata ad eliminare le barriere architettoniche.
Le ricadute della sentenza possono essere rilevanti, perché
l'accesso al pubblico può avere conseguenze sull'indennità
per finita locazione (articoli 34 e 35 e legge 392/1978),
mentre l'eliminazione delle barriere architettoniche può
generare contrasti condominiali anche in presenza delle più
agevoli maggioranze che l'articolo 1120 del codice civile
(maggioranza intervenuti e metà valore immobile) ha di
recente modificato (legge 220/2012).
Altre categorie professionali sono avvisate: dai notai ai
tecnici, in corrispondenza all'ampliarsi delle funzioni
pubbliche delegate, sarà necessario adeguare studi ed uffici (articolo Il Sole 24 Ore
del 12.11.2013). |
APPALTI:
L’espressione “socio di maggioranza” di cui alle
lettere b) e c) dell’art. 38, comma 1, del d.lgs n. 163 del
2006, e alla lettera m-ter) del medesimo comma, si intende
riferita, oltre che al socio titolare di più del 50% del
capitale sociale, anche ai due soci titolari ciascuno del
50% del capitale o, se i soci sono tre, al socio titolare
del 50%.
Riguardo ai quesiti posti con l’ordinanza di rimessione si
afferma quindi il seguente principio di diritto: “L’espressione
“socio di maggioranza” di cui alle lettere b) e c) dell’art.
38, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006, e alla lettera m-ter)
del medesimo comma, si intende riferita, oltre che al socio
titolare di più del 50% del capitale sociale, anche ai due
soci titolari ciascuno del 50% del capitale o, se i soci
sono tre, al socio titolare del 50%”
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 06.11.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Contratti professionali scritti.
Se la p.a. è parte, forma richiesta ad substantiam.
Una sentenza della Corte di cassazione interviene
sul conferimento di incarichi.
È richiesta la forma scritta ad substantiam per il contratto
d'opera professionale, al fine di garantire il regolare
svolgimento dell'attività amministrativa.
Ad affermarlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. I civile, con
sentenza
04.11.2013 n. 24679, esprimendosi su un caso di
contratti stipulati con la pubblica amministrazione, circa
il conferimento di incarico per il rifacimento parziale
dell'illuminazione pubblica.
Già i giudici di legittimità, sulla vicenda, ebbero modo di
affermare che la ricostruzione della volontà negoziale del
Comune, «si scontra con la necessità della forma scritta e
della chiara e contestuale formazione della volontà
contrattuale delle parti».
I giudici della Suprema corte, richiamando un consolidato
orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 1167/2013 e n.
1752/2007), secondo cui per il contratto d'opera
professionale, quando ne sia parte committente una pubblica
amministrazione, e anche quando questa agisce iure privatorum, è richiesta «la forma scritta ad substantiam,
che è strumento di garanzia del regolare svolgimento
dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino,
costituendo remora ad arbitri, sia della collettività,
agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e,
per tale via, espressione dei principi di imparzialità e
buon andamento della p.a. posti dall'art. 97 Cost.».
Hanno, poi, osservato gli Ermellini che «il contratto deve,
quindi, tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un
apposito documento, recante la sottoscrizione del
professionista e del titolare dell'organo attributario del
potere di rappresentare l'ente interessato nei confronti dei
terzi, dal quale possa desumersi la concreta instaurazione
del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine
alla prestazione da rendere e al compenso da corrispondere.
Di conseguenza, in mancanza di detto documento contrattuale,
ai fini d'una valida conclusione del contratto rimane del
tutto irrilevante l'esistenza di una deliberazione con la
quale l'organo collegiale dell'ente abbia conferito un
incarico a un professionista, o ne abbia autorizzato il
conferimento, in quanto essa non costituisce una proposta
contrattuale, ma un atto con efficacia interna all'ente
avente natura autorizzatoria e quale unico destinatario il
diverso organo legittimato ad esprimere la volontà
all'esterno»
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013).
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La massima
1. Per il contratto d’opera
professionale, quando ne sia parte committente una P.A., e
pur ove questa agisca “iure privatorum”, è richiesta, in
ottemperanza al disposto degli artt. 16 e 17 del r.d.
18.11.1923, n. 2440, la forma scritta “ad substantiam”, che
è strumento di garanzia del regolare svolgimento
dell’attività amministrativa nell’interesse sia del
cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia della
collettività, agevolando l’espletamento della funzione di
controllo, e, per tale via, espressione dei principi di
imparzialità e buon andamento della P.A. posti dall’art. 97
Cost.
2. Il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte
committente una P.A. deve tradursi, a pena di nullità, nella
redazione di un apposito documento, recante la
sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo
attributario del potere di rappresentare l’ente interessato
nei confronti dei terzi, dal quale possa desumersi la
concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili
determinazioni in ordine alla prestazione da rendere e al
compenso da corrispondere
(massima tratta da e link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: No ai parchi eolici vicino agli aeroporti
No alla realizzazione di un parco eolico nelle vicinanze di
un aeroporto. In quanto vi è il rischio che gli
aerogeneratori possano incidere con le traiettorie di
decollo e atterraggio degli aerei. Al fine di garantire la
sicurezza della navigazione aerea, l'Enac individua le zone
da sottoporre a vincolo nelle aree limitrofe agli aeroporti
e stabilisce le limitazioni relative agli ostacoli per la
navigazione aerea e ai potenziali pericoli per la stessa,
conformemente alla normativa tecnica internazionale.
Gli
enti locali, nell'esercizio delle proprie competenze in
ordine alla programmazione e al governo del territorio,
adeguano i propri strumenti di pianificazione alle
prescrizioni dell'Enac e che «le zone aeroportuali e le
relative limitazioni sono indicate dall'Enac su apposite
mappe pubblicate mediante deposito nell'ufficio del comune
interessato».
Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, VI
Sez., con la
sentenza 04.11.2013 n. 5291
(articolo ItaliaOggi
del 15.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente serre in campagna se deturpano il paesaggio.
Niente serre, neppure in zona agricola, se queste deturpano
il paesaggio. Ciò in quanto le valutazioni di carattere
paesaggistico, di competenza della soprintendenza sono
indipendenti, e comunque prevalenti rispetto a quelle di
carattere urbanistico.
La Sezione VI del Consiglio di Stato
con la
sentenza 31.10.2013 n. 5273 ha
ribaltato il giudizio del Giudice di primo grado che aveva
annullato il diniego opposto dalla Soprintendenza al
rilascio della autorizzazione paesaggistica in relazione al
fatto che gli uffici competenti non avevano tenuto conto che
l'area era tipizzata dallo strumento urbanistico quale area
E–verde agricolo produttivo, per la quale, secondo le Nta
dello strumento urbanistico del comune erano anche ammesse
attività industriali connesse all'agricoltura, costruzioni
al servizio dell'agricoltura quali fabbricati rurali, case
coloniche, laboratori a carattere artigiano-agricolo,
magazzini per la lavorazione dei prodotti agricoli,
commisurati alle normali esigenze dell'azienda agricola su
cui dovranno sorgere.
Ma per il Consiglio di stato, pur dando atto che le serre
sono una delle costruzioni tipiche in agricoltura, il
tribunale regionale si era limitato ad una visione parziale
della problematica. Perché è di tutta evidenza che il
compito dell'autorità preposta alla valutazione
paesaggistica è quello di doversi esprimere in un giudizio
sulla compatibilità paesaggistica dell'intervento, così come
prospettato, nel sito tutelato, senza esservi condizionata
dalla disciplina urbanistica vigente.
Di conseguenza è del tutto irrilevante la circostanza che in
base alla disciplina urbanistica potessero realizzarsi delle
serre. Ciò in quanto tale fatto non è di per se idoneo ad
eliminare la valutazione di compatibilità che è comunque
intrinseca a quel vincolo ed è autonoma dalla pianificazione
edilizia. Come del resto, secondo la Sezione, è da
considerarsi irrilevante il fatto che la zona,
complessivamente, fosse stata in stato di degrado
(articolo ItaliaOggi
del 12.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire derivante da reato è nullo o
annullabile?
E' affetto da annullabilità -e non da
nullità- il provvedimento che sia stato rilasciato sulla
base di un atto la cui emanazione abbia comportato alla
commissione di un reato.
Il Consiglio di Stato si pronuncia sul tipo di invalidità
del permesso di costruire adottato in seguito ad una
condotta costituente un reato, concludendo che in tal caso
il titolo edilizio è annullabile e non nullo.
La sentenza di primo grado aveva ritenuto che il reato
commesso in sede di adozione del permesso di costruire
avesse determinato l’interruzione del nesso di riferibilità
soggettiva degli atti del funzionario all’Ente con
conseguente radicale nullità dell’atto per carenza di un
elemento essenziale, ai sensi dell’articolo 21-septies della
l. 241 del 1990.
Il giudice d’appello è di contrario avviso e, richiamando
una risalente decisione dell’Adunanza Plenaria (n. 3 del
1976), afferma il principio secondo cui è affetto da
annullabilità (e non da nullità) il provvedimento
amministrativo (per sua natura autoritativo) che sia stato
rilasciato sulla base di un atto la cui emanazione abbia
comportato alla commissione di un reato.
Rileva in proposito che la cosiddetta frattura del nesso di
immedesimazione organica (per il caso di commissione di un
reato doloso) riguarda la diversa tematica della
responsabilità dell’amministrazione di cui risulti
dipendente l’autore del reato, che è esclusa quando il
dipendente abbia posto in essere una condotta materiale “per
scopi egoistici”.
Ipotizzare la nullità del titolo edilizio in siffatti casi
comporterebbe gravi turbamenti all’esigenza di certezza dei
rapporti di diritto pubblico.
Anche i subacquirenti sarebbero infatti esposti in ogni
tempo ad una declaratoria di nullità per atti divenuti
inoppugnabili e richiamati negli atti notarili di
alienazione. Tale grave conseguenza della nullità, che la
legge pur potrebbe astrattamente prevedere a maggiore tutela
del territorio, non è stata però in concreto prevista dal
legislatore.
Inoltre, la sanzione dell’annullabilità consente comunque
l’adeguata tutela del territorio e degli interessi pubblici
coinvolti.
A seguito dell’accertamento dei fatti in sede penale,
d’ufficio o su istanza di chi vi abbia interesse, il Comune
deve valutare se e sotto quale profilo l’immobile realizzato
si sia posto in contrasto con la disciplina urbanistica.
Ove tale contrasto risulti, l’Amministrazione, previo
contraddittorio con i proprietari attuali, può rilevare il
vizio dell’atto e, sussistendo inevitabilmente l’attuale
interesse pubblico per il contrasto con la disciplina
urbanistica e l’esigenza di ripristinare la legalità, può
disporne l’annullamento, con le conseguenze specificamente
previste dall’art. 38 del D.P.R. n. 280/2001 Testo unico
sull’edilizia (ovverosia l’ordine di demolizione o la
sanzione amministrativa pecuniaria).
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Esito
Riforma parzialmente TAR Calabria, Sezione staccata di
Reggio Calabria, n. 536 del 2012
Precedenti giurisprudenziali conformi
Cons. Stato, Ad. Plen., n. 3/1976
Precedenti giurisprudenziali difformi
Cons. Stato Sez. V Sent., 04.03.2008, n. 890
Riferimenti normativi
Art. 21-septies della l. 241 del 1990; art. 38 del D.P.R. n.
280/2001 (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 31.10.2013 n. 5266 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Sottotetto, rigore sui divieti.
Clausole regolamentari inderogabili da leggi regionali.
Gli effetti di una sentenza della Corte
di cassazione sull'utilizzo delle parti comuni.
I divieti contenuti nel regolamento condominiale
sull'utilizzo delle parti comuni rimangono impermeabili
anche a eventuali disposizioni di favore contenute nelle
leggi regionali. E così, in materia di destinazione dei
sottotetti, le clausole regolamentari non possono essere
derogate dai condomini nemmeno facendosi scudo delle leggi
emanate a livello regionale per favorire il recupero delle
soffitte.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con la
sentenza
24.10.2013 n. 24125.
Nella specie alcuni condomini avevano chiesto che il
tribunale inibisse la prosecuzione di opere iniziate
nell'appartamento sito al piano solaio del medesimo
edificio, opere che avrebbero concretato violazione del
regolamento condominiale, che vietava la trasformazione
d'uso del sottotetto, con conseguenti ripercussioni sulla
struttura e sul decoro architettonico dell'immobile. Visto
l'esito negativo del giudizio di primo grado, i medesimi
condomini avevano quindi provveduto ad appellare la sentenza
di rigetto emessa dal tribunale, senza però ottenere il
risultato sperato. Di qui il successivo ricorso in
Cassazione.
In sede di legittimità i supremi giudici, nel cassare la
sentenza impugnata, hanno però correttamente evidenziato la
portata del divieto contenuto nel regolamento del condominio
in questione –regolamento di natura contrattuale– nel
quale di disponeva espressamente che i condomini non
potessero mutare la destinazione del sottotetto a uso
deposito. A questo proposito la Cassazione ha ribadito come
le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in
essere per contratto possano imporre limitazioni al
godimento e alla destinazione di uso degli immobili in
proprietà esclusiva dei singoli condomini, disposizioni che
si risolvono nella compressione delle facoltà e dei poteri
inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti e,
in quanto costituiscono oneri reali o servitù reciproche,
afferiscono immediatamente al bene immobile, purché
espressamente e chiaramente manifestate dal documento
contrattuale.
Ma nel caso in questione i giudici di legittimità hanno
anche bacchettato i giudici di appello per avere attribuito
efficacia di ius superveniens alla legge regionale per il
recupero dei sottotetti che, secondo la sentenza impugnata,
avrebbe avuto la meglio sui principi previsti in tema di
interpretazione del regolamento condominiale e sugli
specifici divieti previsti da quest'ultimo. Anche in questo
caso la Cassazione ha ribadito la propria giurisprudenza
formatasi in materia, secondo la quale anche la
regolarizzazione di una costruzione mediante il c.d. condono
delle violazioni di norme urbanistiche perpetrate nel
realizzarla esplica effetti soltanto sul piano
pubblicistico, precludendo alla pubblica amministrazione
l'applicazione delle previste sanzioni, ma non incide in
alcun modo sui diritti dei terzi direttamente pregiudicati
dall'attività costruttiva oggetto di sanatoria.
In
particolare i giudici hanno chiarito che una eventuale legge
regionale finalizzata al recupero ai fini abitativi dei
sottotetti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo
territorio e favorire la messa in opera di interventi
tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, pur
evidentemente autorizzando e anzi auspicando gli interventi
di recupero dei sottotetti, non può mai produrre l'effetto
di sanare le conseguenze della violazione del regolamento
contrattuale condominiale commessa dai condomini, con
connessa caducazione del diritto spettante agli altri
condomini di pretenderne la puntuale osservanza.
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Sì alla trasformazione in abitazione se non ci sono rischi
per la sicurezza.
Accade spesso che un condomino, titolare del sottotetto,
decida di trasformarlo in abitazione. Se nel regolamento o
successiva delibera non è previsto alcun limite alla facoltà
di utilizzazione e destinazione di questa particolare parte
comune, i singoli condomini non possono opporsi alla
trasformazione in locale abitabile, a meno che non vi sia il
rischio di pregiudizi alla sicurezza o alla stabilità
dell'edificio.
La trasformazione (lecita) del sottotetto: i diritti del
singolo condomino
Se i pericoli sopra detti non esistono, il singolo condomino
può procedere alla trasformazione. Da notare che, qualora un
sottotetto venga trasformato in vani abitabili, ciò non
comporta l'insorgere di alcun diritto in capo agli altri
condomini, a nulla rilevando che le opere siano o non siano
legittime nei confronti della pubblica amministrazione, in
relazione agli strumenti urbanistici vigenti. In ogni caso è
possibile richiedere l'allaccio ai servizi condominiali:
l'allaccio di nuove utenze a una rete di servizi (fognaria,
elettrica, idrica o di altro tipo) è, infatti, per sua
natura capace di accogliere nuove utenze.
Tuttavia è
possibile negare l'autorizzazione all'allaccio se il
condominio dimostra che, per motivi tecnici, l'allaccio di
una sola nuova utenza incide sulla funzionalità
dell'impianto. In caso contrario, però, l'assemblea non può
ostacolare l'uso di quei servizi comuni indispensabili alla
trasformazione con il preciso intento di impedire mutamenti
di destinazione. Del resto il condomino ha molte più
possibilità di intervenire sulle parti comuni di quanto
normalmente si pensi. Così, ad esempio, può installare
un'autoclave per portare l'acqua fino all'ultimo piano,
creare un'apertura sul pianerottolo comune, modificare
l'andamento del tetto ecc.
Sottotetto e regolamento di condominio
Non è raro trovare nel regolamento una norma che prevede il
divieto di utilizzo delle unità immobiliari di proprietà
esclusiva dei singoli condomini per fini diversi da quelli
previsti al momento della costruzione e dell'acquisto del
caseggiato. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare un godimento
e un uso di servizi e parti comuni eccedenti le facoltà del
condomino che operi la trasformazione di locali. In tal caso
il divieto della norma regolamentare è applicabile anche a
un bene (sottotetto) che, pur se di pertinenza
dell'appartamento di un condominio, risulti costruito,
realizzato e acquistato non come vano abitabile ma come
deposito e, in quanto tale, destinato a un utilizzo (diverso
da quello di abitazione) non modificabile in virtù del
divieto previsto dal regolamento condominiale.
Ma non è possibile trasformare il sottotetto in vano
abitabile neppure se il regolamento contenga una clausola
contrattuale che impedisce di compiere qualsiasi opera
interna. Quanto sopra vale però solo nel caso in cui dette
clausole siano valide. A tale proposito bisogna ricordare
che tali norme del regolamento se predisposte
dall'originario proprietario dello stabile devono essere
accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o
con atti separati. Se deliberate, invece dall'assemblea,
esse debbono essere approvate all'unanimità, dovendo in
mancanza considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei
poteri dell'assemblea.
In ogni caso, se il regolamento è trascritto o richiamato
nei singoli atti di acquisto, anche gli acquirenti sono
tenuti a osservare scrupolosamente queste limitazioni alle
proprietà esclusive. Queste considerazioni valgono anche per
quelle disposizioni del regolamento che permettono la
trasformazione del sottotetto soltanto nel caso in cui le
opere necessarie siano autorizzate dall'assemblea dei
condomini.
Anche tali clausole hanno natura contrattuale e, quindi,
sono valide solo se sono state predisposte dall'originario
proprietario del caseggiato e accettate nei singoli atti
d'acquisto, oppure se sono state deliberate all'unanimità in
un'assemblea.
La violazione del regolamento
Nella ristrutturazione di un sottotetto si pongono una serie
di problemi in misura molto superiore a quello che accade in
una normale ipotesi di ristrutturazione, problemi che
consigliano di operare con una certa accortezza. È quindi
consigliabile, prima di mettersi all'opera, richiedere un
consiglio all'amministratore, il quale conosce eventuali
divieti contenuti nel regolamento di condominio. Se però un
condomino, ignorando la presenza di particolari divieti
regolamentari, trasforma illecitamente il sottotetto in
abitazione è inevitabile la reazione del condominio.
In particolare, a fronte del mutamento di destinazione
abusivo del sottotetto che il proprietario esclusivo del
locale realizzi mediante opere esclusivamente interne, in
violazione di un vincolo imposto dal regolamento del
condominio, deve escludersi che gli altri condomini possano
conseguire l'eliminazione di dette opere interne, potendo
soltanto ottenere l'inibizione del diverso uso. Si potrebbe
ad esempio sostenere che il titolare del sottostante
appartamento risulti danneggiato a causa dei maggiori rumori
derivanti dalla destinazione ad abitazione del sottotetto,
prima utilizzato solo saltuariamente come soffitta
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
TRIBUTI: Tia, rifiuti speciali esonerati anche dalla quota fissa
È illegittimo il regolamento comunale sulla Tia che prevede
l'applicazione della quota fissa della tariffa per le
attività le cui superfici sono produttive di rifiuti
speciali. Queste superfici sono totalmente escluse dalla
tassazione.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza
26.09.2013 n. 4756.
La
regola vale anche per la Tarsu, la Tares e il nuovo tributo
sui rifiuti (Tari) che entrerà in vigore il prossimo anno.
Per i giudici di palazzo Spada, il comune non ha alcun
potere regolamentare di disciplinare il trattamento fiscale
dei rifiuti speciali né di deliberare «la tariffa seppure
limitata alla componente fissa». In effetti, il tributo
sui rifiuti non può essere applicato sulle superfici o sulle
aree nelle quali, per specifiche caratteristiche strutturali
o per destinazione, si producono rifiuti speciali. Tuttavia
le superfici in cui vengono prodotti anche rifiuti speciali
non sono né escluse dal tributo né esenti.
Nella determinazione della superficie non si tiene conto
solo di quella parte di essa dove si formano questi rifiuti,
allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori stessi in base alle norme
vigenti. Quindi, non si conteggia la parte di superficie che
ha questa destinazione nell'ambito di un immobile. E
l'esclusione dell'obbligo di conferire i rifiuti al servizio
pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita
dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione
di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del
trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova di aver avviato
effettivamente al recupero i rifiuti, per la relativa
superficie non è prevista la detassazione ma una riduzione
della misura della tassa che il comune ha facoltà di
stabilire con un'apposita norma regolamentare rapportata
proporzionalmente «all'entità del recupero rispetto alla
produzione complessiva dei rifiuti» (circolare del
ministero delle finanze n. 111/1999).
La riduzione della tassa può quindi essere calcolata in base
a un coefficiente di proporzionalità rispetto ai rifiuti
destinati al recupero. Fermo restando che, anche nelle
ipotesi di recupero totale dei rifiuti, idoneamente
documentato, non si ottiene l'esonero totale
dall'assoggettamento al prelievo tributario, in quanto lo
stesso è finalizzato a coprire i costi comuni e collettivi
del servizio. Spetta al contribuente provare quale parte
dell'immobile debba essere esclusa dalla tassazione
(articolo ItaliaOggi
del 16.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: No al permesso di costruire se manca la rete fognaria.
La rete fognaria, quale opera di
urbanizzazione primaria, costituisce conditio sine qua non
per l'attuazione della lottizzazione: in assenza di un
efficiente rete di raccolta dei liquami e di un idoneo
impianto di depurazione è legittimo il diniego di rilascio
del permesso di costruire per la realizzazione di un
edificio residenziale.
Il TAR di Cagliari ha sancito che è pienamente legittimo il
provvedimento di diniego opposto a un’istanza tesa a
ottenere il rilascio di un permesso di costruire per la
realizzazione di un edificio residenziale su un’area
pressoché del tutto edificata, ove sia motivato con
riferimento all’insufficienza delle opere di urbanizzazione
primaria –rete fognaria e idoneo impianto di depurazione-
realizzate in quella stessa area, indipendentemente dalla
natura di c.d. “lotto intercluso” del suolo sede
d’intervento.
Analisi del caso
Il ricorrente, proprietario di un lotto di terreno facente
parte di una più ampia lottizzazione realizzata diversi anni
prima e pressoché interamente edificata mediante distinte
concessioni edilizie –per oltre 150 fabbricati- rilasciate
in via diretta ai singoli comproprietari dell’area, ha
presentato al competente Comune istanza per il rilascio di
concessione edilizia per realizzare sul proprio suolo un
edificio trifamiliare a uso civile abitazione.
Con parere del Responsabile dell’area tecnica, la civica
P.A. ha rigettato l’istanza in quanto l’area interessata
dall’intervento risultava sprovvista di piani attuativi e
non era possibile il rilascio della concessione c.d.
“diretta”, atteso che dallo stato dei luoghi di fatto
riscontrabile emergeva l’assenza di apposite aree pubbliche
da destinare a standards urbanistici e a viabilità pubblica,
nonché di un’efficiente rete fognaria munita di idoneo
impianto di depurazione delle acque reflue.
Sicché, il ricorrente ha contestato la legittimità del
diniego opposto, censurandolo per violazione e falsa
applicazione dell’art. 28, comma 5, L. n. 1150/1942 e
ss.mm.ii., dell’art. 44, L. n. 865/1971 e della normativa
regionale; ha ulteriormente censurato l’illegittimità
dell’atto per eccesso di potere per erroneità dei
presupposti per il rilascio della concessione edilizia
diretta, travisamento dei fatti, difetto d’istruttoria e
motivazione, oltreché disparità di trattamento, atteso che
l’amministrazione non avrebbe tenuto in considerazione il
fatto che la porzione di suolo di proprietà del ricorrente
integrasse ipotesi di c.d. “lotto intercluso” e
rientrasse, così, in un’area ormai quasi del tutto edificata
e adeguatamente urbanizzata –strade, spazi verdi e per
attività ricreative- in misura congrua alle esigenze della
zona.
La soluzione
Il Collegio ha preliminarmente rilevato come, per quanto il
lotto di proprietà del ricorrente fosse effettivamente
inserito in un contesto per grandissima parte edificato, la
comunione immobiliare ivi realizzata risultasse solo
parzialmente dotata di opere di urbanizzazione, stante
l’incomprensibile discrasia tra il numero, le dimensioni e
le conseguenti notevoli esigenze dal punto di vista
urbanistico, dei fabbricati insistenti, tutti autorizzati
con concessioni dirette risalenti nel tempo e il reale
(sotto)dimensionamento delle opere di urbanizzazione
esistenti.
Il TAR ha, così, evidenziato che non poteva ulteriormente
tollerarsi l’edificazione di nuove unità immobiliari in
assenza, quantomeno, di un’adeguata ed efficiente rete di
raccolta dei liquami fognari; la situazione di fatto
venutasi a creare per effetto del ricordato incontrollato
rilascio da parte dell’Amministrazione di titoli abilitativi
edilizi diretti senza la contestuale realizzazione –o
adeguamento- delle idonee opere di urbanizzazione primaria,
non può neppure, come ha precisato il Tribunale, consentire
l’applicazione del regime di favore previsto in relazione ai
cc.dd. “lotti interclusi”, poiché presupposto di
quello è che le finalità imposte con lo strumento attuativo
siano comunque già integralmente soddisfatte.
Il G.A. sardo ha, dunque, ravvisato la clamorosa carenza
nell’ambito della lottizzazione edilizia all’interno di cui
rientrava la proprietà del ricorrente di un’opera di
urbanizzazione primaria di assoluta rilevanza, qual è senza
dubbio la rete idrica fognaria, anche avuto riguardo alla
delicatezza e al particolare pregio ambientale del sito ove
avrebbe dovuto realizzarsi l’intervento edificatorio; tanto,
al punto da costituire vera a propria conditio sine qua
non per l’attuazione dell’intera lottizzazione e
rendere, pertanto, infondate le censure del ricorrente in
merito alla disparità di trattamento per la mancata
applicazione in suo favore della disciplina prevista, in
deroga all’art. 9, D.P.R. n. 380/2001, per i lotti
interclusi, essendo evidente che alla cennata carenza non
avrebbe potuto (per l’ennesima volta) sopperirsi mediante la
realizzazione di un modesto impianto individuale di
discarica a dispersione di cui l’area era ormai satura.
I precedenti e i possibili impatti
pratico-operativi
La giurisprudenza è unanime nel considerare come una
concessione edilizia possa essere rilasciata anche in
assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di P.R.G.
solo quando in fase istruttoria l'Amministrazione abbia
accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non
essere stato ancora edificato -lotto residuale e intercluso-
e si trova in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di
urbanizzazione; e che, pertanto, si possa prescindere dalla
lottizzazione convenzionata prescritta solo nei casi
eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria pari, almeno,
agli standards urbanistici minimi (ex multis, Cons.
Stato, Sez. V, 05.12.2012, n. 6229; TAR Piemonte, Sez. I,
24.07.2013, n. 927; in termini leggermente diversi, TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 06.09.2013, n. 1821).
Si è affermato, dunque, che la nozione di lotto intercluso
ha una sua valenza solo quando non si rinvenga alcuno spazio
giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non
risulta applicabile nei casi di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte, cioè, al rischio di compromissione di
valori urbanistici –o addirittura di rilevanza ambientale e
paesaggistica- nelle quali la pianificazione consegue
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificatorio in atto (Cons. Stato, Sez. IV, 17.07.2013, n.
3880), l'esigenza di un piano di lottizzazione ex art. 9,
D.P.R. n. 380/2001 si impone, quindi, anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo,
allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già
esistenti e, quindi, anche a quello di armonizzare aree già
compromesse e urbanizzate (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
03.07.2012, n. 3140).
Dovrebbero sempre esser fatte salve, tuttavia, quelle
particolari, confliggenti situazioni che abbiano potuto
ingenerare –ed è proprio il caso di specie- affidamenti e
aspettative qualificate, derivanti da convenzioni di
lottizzazione, accordi con le amministrazioni comunali o
modificazioni della destinazione di area interclusa da fondi
edificati (Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2013, n. 1323); in
tal senso la decisione segnalata coglie appieno la
problematica nella parte in cui, in un obiter dictum,
richiama la P.A. a non limitarsi a pretendere che siano i
proprietari dei lotti non ancora edificati a presentare
piani di recupero dell’intera area precedentemente
lottizzata, ma a farsi parte attiva nella soluzione del
problema, con iniziative pubbliche, onde non veder del tutto
frustrato lo ius aedificandi degli stessi (commento
tratto da www.ispoa.it - TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.10.2013 n. 664 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Passaggio di personale anche tra privati.
Trasferimenti tra gestori del
servizio integrato dei rifiuti.
L'art. 202, comma 6, del dlgs 152/2006, il quale stabilisce
che vi sia un passaggio diretto e immediato al nuovo gestore
del servizio integrato dei rifiuti del personale impiegato
presso il gestore uscente, si applica anche nel caso in cui
quest'ultimo sia un'impresa privata.
Questo è quanto ha precisato il TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II con la
sentenza 23.09.2013 n. 780.
Nel caso in esame il comune di Calcinato, dopo aver
praticato negli ultimi anni l'esternalizzazione della
gestione del servizio di igiene urbana, aveva deciso di
affidare il servizio mediante affidamento in house.
Il gestore prescelto era stata la società Garda Uno spa, di
cui il Comune era divenuto socio mediante l'acquisto dello
0,1% del capitale per un importo pari a 10.000.
La controversia verte, oltre che sulla mancanza del
requisito del controllo analogo, essendovi una minima
partecipazione al capitale sociale, sulla presunta
violazione dell'art. 202, comma 6, del dlgs 03.04.2006 n.
152, che prevede il passaggio diretto al nuovo gestore dei
dipendenti presso il gestore uscente, otto mesi prima
dell'affidamento del servizio.
Il Tar non rileva alcuna illegittimità.
I giudici amministrativi, dopo aver confermato come sussista
il requisito del controllo analogo anche nel caso di
partecipazione minoritaria, se dallo statuto della società
risulti che il socio ultraminoritario eserciti il proprio
controllo non solo in forma congiunta con gli altri enti
pubblici, ma anche in modo effettivo, analizzano l'art. 202,
comma 6, del dlgs152/2006: questa disciplina, che prevede il
passaggio diretto del personale, si applica espressamente
anche nel caso in cui il gestore uscente sia un'impresa
privata.
Tale previsione, osserva il Collegio, pur avendo di mira un
obiettivo di sicura utilità sociale come la tutela
dell'occupazione, si espone a dubbi di costituzionalità, in
quanto fa gravare sul nuovo gestore un costo aggiuntivo che
può poi tradursi in incrementi tariffari per gli utenti o in
minore qualità del servizio, oppure può costituire ex
ante un disincentivo alla partecipazione a eventuali
gare.
La disposizione, tuttavia, va applicata in base alla
disciplina sopravvenuta, e in particolare alla stregua
dell'art. 3-bis comma 2 del dl n. 138/2011, convertito dalla
legge 14.09.2011, n. 148, secondo cui, nelle procedure a
evidenza pubblica, «l'adozione di strumenti di tutela
dell'occupazione costituisce elemento di valutazione
dell'offerta e non condizione per il subentro nel servizio»
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'11.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di veranda in senso tecnico-giuridico -
Esigenze temporanee e contingenti con successiva rimozione –
Orientamento conforme giurisprudenziale penale e
amministrativo - Artt. 36 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
- Art. 184 d.Lgs. n. 42/2004.
Una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico,
un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di
opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e
contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel
tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
Sicché, la realizzazione di una veranda, anche mediante
chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su
intelaiatura metallica od altri elementi costruttivi, non
costituisce intervento di manutenzione straordinaria e di
restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire (
Cass., Sez. III: 18.09.2007, n. 35011, Camarda; 28.10.2004,
D'Amelio; 27.3.2000, n. 3879, Spaventi). Il medesimo
orientamento si rinviene nelle decisioni dei giudici
amministrativi (vedi Cons. Stato, Sez. V: 08.04.1999, n. 394
e 22.07.1992, n. 675, nonché Cons. giust. amm. sic., Sez.
riunite, 15.10.1991, n. 345) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di "pertinenza urbanistica" -
Peculiarità - Rapporto di subordinazione e di servizio con
una costruzione preesistente - C.d. strumentalità funzionale
- Fattispecie: ampliamento di un edificio.
La nozione di "pertinenza urbanistica" ha peculiarità
sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: deve
trattarsi, invero, di un'opera preordinata ad un'oggettiva
esigenza di un edificio principale, sfornita di un autonomo
valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o
comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire,
in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio
principale, una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell'immobile cui accede.
Il durevole rapporto di subordinazione deve instaurarsi con
una costruzione preesistente e la relazione con detta
costruzione deve essere, in ogni caso, non di integrazione
ma "di servizio", allo scopo di renderne più agevole
e funzionale l'uso (carattere di strumentalità funzionale),
sicché non può ricondursi alla nozione in esame
l'ampliamento di un edificio che costituisce parte di esso
quale elemento che attiene all'essenza dell'immobile e lo
completa affinché soddisfi ai bisogni cui è destinato (vedi
Cass., Sez. III: 16.03.2010, n. 20349, Catania; 11.05.2005,
Gricia; 17.01.2003, Chiappalone) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio del permesso di costruire in
sanatoria - Attività vincolata della P.A. - Reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche -
Declaratoria di estinzione - Giudice penale potere-dovere di
verifica della legittimità - Effetti - Inesistenza dei
presupposti di fatto e di diritto dell'estinzione del reato
- Art. 36 e 45 T.U.E. n. 380/2001 - Art. 5 L. 20.3.1865, n.
2248, all. E).
Gli artt. 36 e 45 del T.U. n. 380/2001 vanno interpretati in
stretta connessione ai fini della declaratoria di estinzione
dei "reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti" e il giudice penale, pertanto, ha
il potere-dovere di verificare la legittimità del titolo
edilizio rilasciato "in sanatoria" e di accertare che
l'opera realizzata sia conforme alla normativa urbanistica.
In mancanza di tale conformità, infatti, non si produce
l'estinzione dei reati ed il mancato effetto estintivo non
si ricollega ad una valutazione di illegittimità del
provvedimento della P.A. cui consegua la disapplicazione
dello stesso ex art. 5 della legge 20.03.1865, n. 2248, all.
E), bensì alla effettuata verifica della inesistenza dei
presupposti di fatto e di diritto dell'estinzione del reato
in sede di esercizio del doveroso sindacato della
legittimità del fatto estintivo incidente sulla fattispecie
tipica penale (vedi Cass., Sez. III: 30.05.2000, Marinaro;
07.03.1997, n. 2256, Tessari e altro; 24.05.1996, Buratti e
altro).
Ai fini del corretto esercizio di tale controllo deve
ricordarsi che si pone quale presupposto indispensabile, per
il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art.
36 del T.U. n. 380/2001, la necessità che l'intervento sia "conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda".
Inoltre, il rilascio del provvedimento sanante consegue ad
un'attività vincolata della P.A., consistente
nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica -
Successiva alla realizzazione dei lavori - Interventi minori
- Valutazione postuma - Artt. 146, 167 e 181 d.Lgs. n.
42/2004 - Art. unico c. 36 L. n. 308/2004.
Il comma 36 dell'articolo unico della legge n. 308/2004 [con
previsioni trasfuse nei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 181
del d.Lgs. n. 42/2004 e, successivamente, nei commi 4 e 5
dell'art. 167] -contrastando con il principio (enunciato
dall'art. 146 del d.Lgs. n. 42/2004 fino dalla sua
formulazione originaria) dell'impossibilità di rilascio di
una autorizzazione paesaggistica successiva alla
realizzazione dei lavori- ha introdotto la possibilità di
una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di
alcuni interventi minori, all'esito della quale -pur
restando ferma l'applicazione della sanzione amministrativa
pecuniaria di cui all'art. 167 del d.Lgs. n. 42/2004- non si
applicano le sanzioni penali stabilite per il reato
contravvenzionale contemplato dal 1° comma dell'art. 181
dello stesso d.Lgs. n. 42/2004 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria
ambientale è possibile solo nelle ipotesi (lavori che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzabili;
impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai
sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal
quarto comma e con le modalità previste dal quinto comma
dell’articolo 167 del codice dei beni culturali e del
paesaggio (il proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area presenta apposita
domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai
fini dell'accertamento della compatibilità paesistica degli
interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione).
---------------
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167,
commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già
affermato con altra pronuncia ossia che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella
prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine
di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo.
---------------
Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs. n.
42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi,
vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando
risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può
essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia
devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla
fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e
del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema,
dovendo trovare comunque applicazione la previsione
dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante
comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza
fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi
dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad
esso degli strumenti urbanistici comunali”.
L’art. 146, comma 12, d.lgs. 22.01.2004 n. 42
(modificato dall’art. 16, d.lgs. 24.03.2006 n. 157),
prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni
paesistiche a sanatoria, salvi i casi e con le modalità di
cui all’art. 167, commi 4 e 5, citato codice.
Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria è, quindi,
possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzabili; impiego di
materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art.
3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal quarto comma e
con le modalità previste dal quinto comma dell’articolo 167
del codice dei beni culturali e del paesaggio (il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area presenta apposita domanda
all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesistica degli
interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione).
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167,
commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già
affermato con la propria sentenza 20.06.2012 n. 3578, la
quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella
prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine
di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo.
Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs.
n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi,
vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando
risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può
essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia
devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla
fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e
del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema,
dovendo trovare comunque applicazione la previsione
dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante
comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza
fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi
dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad
esso degli strumenti urbanistici comunali” (evenienze
ben lungi dal verificarsi) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5066
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sede della Associazione dei Testimoni di Geova non può certo
qualificarsi quale luogo di culto o edificio religioso, ma
ha prettamente una destinazione di carattere direzionale dal
punto di vista urbanistico.
Pertanto, trattandosi nel caso in esame della costruzione di
un edificio non destinato all’esercizio del culto, bensì
destinato ad ospitare la sede di una associazione religiosa,
non può ritenersi che tale opera rientri tra quelle
qualificate come opere di urbanizzazione secondaria, per cui
legittimamente il Comune ha assoggettato la sua
realizzazione al pagamento degli oneri concessori.
... per l’annullamento della concessione edilizia,
rilasciata dal Sindaco del Comune di Cerea il 16/05/1994,
relativamente alla parte in cui determina il pagamento degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione per la
realizzazione della sede dell’Ente Religioso Testimoni di
Geova.
...
FATTO
Con atto notificato il 06.07.1994, depositato nei
termini, l’Associazione Testimoni di Geova di Cerea – Casaleone – Sanguinetto, in persona del legale
rappresentante pro tempore, ha chiesto l’annullamento della
concessione edilizia, rilasciata dal Sindaco del Comune di
Cerea il 16/05/1994, relativamente alla parte in cui
determina il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del
costo di costruzione per la realizzazione della sede
dell’Ente Religioso Testimoni di Geova, oltre che per
l’accertamento che la ricorrente nulla deve a titolo di
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per il
rilascio della concessione edilizia, con conseguente
condanna del Comune di Cerea alla restituzione delle somme
pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione, non dovute, con rivalutazione e interessi.
L’Associazione ricorrente fa presente di aver presentato al
Sindaco del Comune di Cerea istanza di concessione edilizia
per realizzare la sede religiosa della stessa Associazione
ma ne contesta la onerosità.
A sostegno del gravame vene dedotta la seguente censura:
Violazione di legge: art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10; erronea applicazione dell’art. 3 della legge n.
10 del 1977 e dell’art. 81 della L.R. 26.06.1985 n. 61,
eccesso di potere per difetto di presupposto.
Si sostiene che essendo classificata la costruzione de quo
quale opera di urbanizzazione secondaria,la concessione
edilizia non poteva essere soggetta al pagamento di alcun
onere o contributo, e pertanto illegittimamente il Comune di
Cerea ha previsto il pagamento degli oneri di urbanizzazione
e del costo di costruzione.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, la
cui difesa contesta le ragioni dell’impugnativa ed insiste
per il rigetto del ricorso siccome infondato.
Alla pubblica udienza del 22.01.2009 la causa è passata
in decisione.
DIRITTO
L’oggetto della presente impugnativa è la concessione
edilizia rilasciata dal Sindaco di Cerea in data 16.05.1994 per la realizzazione della sede dell’Associazione
ricorrente, nella parte in cui dispone il pagamento degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, con la
conseguente restituzione delle somme pagate a tale titolo.
Il ricorso non si appalesa fondato.
Va premesso che l’art. 4, secondo comma, lettera e),
della legge 29.09.1964 n. 847 individua come opere di
urbanizzazione secondaria le “chiese ed altri edifici
religiosi” per le quali la successiva legge n. 10 del 1977
prevede, secondo determinate condizioni, l’esonero dal
pagamento dei contributi.
Occorre, pertanto, verificare se la costruzione della sede
della Associazione ricorrente, oggetto della concessione
edilizia impugnata in parte qua, possa rientrare tra quelle
opere di carattere religioso, ossia destinate all’esercizio
del culto, per le quali la norma prevede l’esenzione dal
pagamento dei contributi concessori.
La risposta a tale quesito non può che essere negativa, solo
se si consideri che la sede della Associazione dei Testimoni
di Geova non può certo qualificarsi quale luogo di culto o
edificio religioso, ma ha prettamente una destinazione di
carattere direzionale dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, trattandosi nel caso in esame della costruzione di
un edificio non destinato all’esercizio del culto, bensì
destinato ad ospitare la sede di una associazione religiosa,
non può ritenersi che tale opera rientri tra quelle
qualificate come opere di urbanizzazione secondaria, per cui
legittimamente il Comune di Cerea ha assoggettato la sua
realizzazione al pagamento degli oneri concessori
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 22.01.2009 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Istituzionalmente
competenti alla realizzazione di strutture di carattere
religioso non sono tanto enti pubblici o concessionari di
questi quanto piuttosto, ordinariamente, enti religiosi,
vale a dire enti privati il cui scopo assunto nell’atto
costitutivo (istituzionale, appunto) è proprio quello di
dedicarsi senza scopo di lucro a opere ed attività di
carattere religioso.
Le strutture di carattere religioso sono, normalmente, di
proprietà privata e titolare della concessione edilizia ad
erigerle è l’ente religioso. Del resto, la stessa
giurisprudenza invocata dal Comune non richiede la
necessaria soggettività pubblica dell’ente realizzatore
dell’intervento quanto piuttosto che esso curi
istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse
generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui
le opere stesse sono destinate.
L’espressione “struttura di carattere religioso” utilizzata
dal legislatore provinciale ha portata generale ed implica
un riferimento a ipotesi più ampie dello specifico caso
degli edifici di culto, quali possono essere,
tradizionalmente, quelle delle scuole o degli ospedali.
Il requisito essenziale è dato dall’essere “destinate a uso
pubblico”, vale a dire preordinate al servizio della
collettività indistinta (salvi gli eventuali limiti
intrinseci al tipo d’opera, quali ad esempio, l’età per le
scuole o l’esigenza di cure per gli ospedali).
La finalità dell’esenzione dal contributo di concessione è
quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al
soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la
collettività possa comunque trarre un’utilità.
Non osta all’esenzione l’eventualità che l’accesso della
collettività sia subordinato al pagamento di una retta (di
frequenza o di degenza, per tornare agli esempi delle scuole
e degli ospedali), purché sia escluso lo scopo di lucro.
L’esistenza di un qualche risvolto economico non è
considerato ostativo neppure dalla giurisprudenza invocata
dal Comune, la quale riconosce l’esenzione anche per opere
d’interesse generale realizzate da un concessionario della
pubblica amministrazione, vale a dire da un’impresa il cui
scopo è il conseguimento di un profitto.
Rileva detta giurisprudenza che la logica dell’esenzione sta
anche nell’evitare una contribuzione intimamente
contraddittoria, quale sarebbe quella per opere costruite a
carico della collettività. Non contraddice tale ratio
l’ammettere all’esenzione opere destinate a uso pubblico
realizzate a carico di privati istituzionalmente dediti,
senza scopo di lucro, a opere di interesse generale
(eventualmente con contributo pubblico, come nella specie:
la provincia ha concesso contributi ai sensi dell’art. 2, co.
1, lett. b), l.r. 05.11.1968, n. 40, disposizione relativa
ad opere eseguite da “istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza, società cooperativa e altri enti, associazioni
e comitati aventi finalità di pubblica utilità”).
Nel caso di specie la ricorrente, come si rileva dallo
Statuto, è un ente ecclesiastico concordatario civilmente
riconosciuto, senza scopi di lucro, istituzionalmente dedito
ad attività ospedaliera e di educazione ed istruzione.
L’opera concessionata ha carattere scolastico (come
riconosciuto dal Comune; per l’attività scolastica
l’Istituto religioso ha stipulato una convenzione con la
cooperativa Gardascuole, quale ente gestore delle attività
scolastiche, prevedendo la partecipazione di propri
religiosi all’attività didattica; con dichiarazione del
14.10.2005 –dimessa in udienza– l’ente ecclesiastico si è
impegnato a non alienare la proprietà dell’edificio in
questione per un periodo di venticinque anni).
Sussistono, pertanto, i presupposti soggettivo ed oggettivo
per il riconoscimento dell’esenzione del contributo di
concessione delineato dall’art. 111, co. 1, lett. e), l.p.
22/1991.
Si controverte in tema di diritti soggettivi (onde non sono
pertinenti le censure di carattere formale dedotte col primo
motivo avverso un atto privo di efficacia provvedimentale) e
più precisamente della spettanza all’Ente ecclesiastico
ricorrente dell’esonero dal contributo di concessione
previsto dall’art. 111, lett. e), l.p. 22/1991 in relazione al concessionato edificio polifunzionale, ospitante una
palestra, aule, mensa scolastica, a servizio dell’Istituto
Padre Monti (ove, come riferisce la ricorrente e non viene
contestato, sono attivi l’Istituto Tecnico per il Turismo ed
un corso di scuola media inferiore paritaria, in compresenza
con la scuola media statale).
L’art. 111, comma 1, lett. e), della legge provinciale n.
22/1991 dispone che il contributo di concessione non è dovuto
“... per le opere pubbliche o di interesse generale, ivi
comprese le strutture di carattere religioso destinate ad
uso pubblico e gli interventi di edilizia abitativa
pubblica, realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti...”.
Detta disposizione ricalca, in parte, la previsione
dell’art. 9, lett. f), l. 28.1.1997, n. 10 che stabilisce la
gratuità della concessione “per ... le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti ....”.
La formulazione dell’art. 111 cit. viene peraltro arricchita
(in materia ascritta alla potestà legislativa primaria della
Provincia) dall’inciso “ivi comprese le strutture di
carattere religioso destinate ad uso pubblico e gli
interventi di edilizia abitativa pubblica” che, nella
specie, assume, ad avviso del collegio, valenza
chiarificatrice e dirimente.
L’applicazione del beneficio dell’esenzione richiede –ai
sensi dell’art. 9, l. 10/1977 come pure ai sensi dell’art.
111, l.p. 22/1991– la sussistenza di due presupposti, uno
oggettivo e l’altro soggettivo.
Il requisito oggettivo implica che il manufatto oggetto di
concessione edilizia sia ascrivibile alla categoria delle
opere pubbliche o di interesse generale e dunque idonee a
soddisfare esigenze della collettività; il legislatore
provinciale annovera espressamente tra esse anche le
strutture di carattere religioso.
Il ricorso di tale presupposto non è in contestazione, in
quanto riconosciuto dal Comune il quale, nella nota
29.12.2005 di preavviso di diniego, scrive: “pur non potendo
negare il rilievo pubblico esplicato dalla realizzazione di
un edificio da adibirsi a scuola privata...”, aggiungendo
che, però, “difetta, nel caso di specie, il requisito
soggettivo”.
Il tema del contendere è pertanto circoscritto
all’individuazione del ricorso o meno del requisito
soggettivo, il quale implica che le opere di interesse
pubblico siano realizzate da parte degli “enti
istituzionalmente competenti”.
Il Comune, nell’esprimere il proprio rifiuto di restituzione
del contributo di concessione e, successivamente, nelle
proprie difese oppone alla pretesa dell’ente ecclesiastico
il rilievo che la giurisprudenza –espressasi con
riferimento all’art. 9, l. n. 10/1977– ha affermato che per
enti istituzionalmente competenti alla realizzazione di
opere pubbliche o di interesse pubblico debbano intendersi
enti pubblici ovvero altri soggetti che realizzino l’opera
per conto di un ente pubblico come nel caso di
concessionario di opera pubblica o altre analoghe figure organizzatorie (cfr. ad es. Cons. Stato sez. IV, 10.05.2005,
n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005, n. 3774; ed 11.01.2006, n. 51,
casi, questi, in cui è stato escluso il diritto
all’esenzione, anche, però, sulla base del rilievo che
l’opera non era rivolta alla collettività in senso generale,
ma tendeva al soddisfacimento di interessi privatistici o
comunque alle esigenze di un numero limitato di persone –v.
sent. 3774/2005 cit. pronunciata nei confronti della
Fondazione Collegio Ghisleri– ovvero che l’opera era
destinata a rimanere nella piena disponibilità del privato
esecutore, senza alcun vincolo atto a preservare la funzione
nel tempo –caso di realizzazione di una residenza per
anziani da parte di una ONLUS, v. sent. 51/2006 cit.).
La tesi del resistente non sembra tenere adeguatamente conto
della formulazione dell’art. 111, co. 1, lett. e), della l.p.
22/1991, la quale espressamente menziona come agevolabili le
“strutture di carattere religioso destinate a uso pubblico”.
Orbene, istituzionalmente competenti alla realizzazione di
strutture di carattere religioso non sono tanto enti
pubblici o concessionari di questi quanto piuttosto,
ordinariamente, enti religiosi, vale a dire enti privati il
cui scopo assunto nell’atto costitutivo (istituzionale,
appunto) è proprio quello di dedicarsi senza scopo di lucro
a opere ed attività di carattere religioso. Le strutture di
carattere religioso sono, normalmente, di proprietà privata
e titolare della concessione edilizia ad erigerle è l’ente
religioso. Del resto, la stessa giurisprudenza invocata dal
Comune non richiede la necessaria soggettività pubblica
dell’ente realizzatore dell’intervento quanto piuttosto che
esso curi istituzionalmente la realizzazione di opere di
interesse generale per il perseguimento delle specifiche
finalità cui le opere stesse sono destinate.
L’espressione “struttura di carattere religioso” utilizzata
dal legislatore provinciale ha portata generale ed implica
un riferimento a ipotesi più ampie dello specifico caso
degli edifici di culto, quali possono essere,
tradizionalmente, quelle delle scuole o degli ospedali.
Il requisito essenziale è dato dall’essere “destinate a uso
pubblico”, vale a dire preordinate al servizio della
collettività indistinta (salvi gli eventuali limiti
intrinseci al tipo d’opera, quali ad esempio, l’età per le
scuole o l’esigenza di cure per gli ospedali).
La finalità dell’esenzione dal contributo di concessione è
quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al
soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la
collettività possa comunque trarre un’utilità.
Non osta all’esenzione l’eventualità che l’accesso della
collettività sia subordinato al pagamento di una retta (di
frequenza o di degenza, per tornare agli esempi delle scuole
e degli ospedali), purché sia escluso lo scopo di lucro.
L’esistenza di un qualche risvolto economico non è
considerato ostativo neppure dalla giurisprudenza invocata
dal Comune, la quale riconosce l’esenzione anche per opere
d’interesse generale realizzate da un concessionario della
pubblica amministrazione, vale a dire da un’impresa il cui
scopo è il conseguimento di un profitto. Rileva detta
giurisprudenza che la logica dell’esenzione sta anche
nell’evitare una contribuzione intimamente contraddittoria,
quale sarebbe quella per opere costruite a carico della
collettività. Non contraddice tale ratio l’ammettere
all’esenzione opere destinate a uso pubblico realizzate a
carico di privati istituzionalmente dediti, senza scopo di
lucro, a opere di interesse generale (eventualmente con
contributo pubblico, come nella specie: la provincia ha
concesso con determinazione 03.11.2005, n. 60 –dimessa in
udienza– contributi ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. b),
l.r. 05.11.1968, n. 40, disposizione relativa ad opere
eseguite da “istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza, società cooperativa e altri enti, associazioni
e comitati aventi finalità di pubblica utilità”).
Nel caso di specie la ricorrente, come si rileva dallo
Statuto, è un ente ecclesiastico concordatario civilmente
riconosciuto, senza scopi di lucro, istituzionalmente dedito
ad attività ospedaliera e di educazione ed istruzione.
L’opera concessionata ha carattere scolastico (come
riconosciuto dal Comune; per l’attività scolastica
l’Istituto religioso ha stipulato una convenzione con la
cooperativa Gardascuole, quale ente gestore delle attività
scolastiche, prevedendo la partecipazione di propri
religiosi all’attività didattica; con dichiarazione del
14.10.2005 –dimessa in udienza– l’ente ecclesiastico si è
impegnato a non alienare la proprietà dell’edificio in
questione per un periodo di venticinque anni).
Sussistono, pertanto, i presupposti soggettivo ed oggettivo
per il riconoscimento dell’esenzione del contributo di
concessione delineato dall’art. 111, co. 1, lett. e), l.p.
22/1991.
Il ricorso va dunque accolto con declaratoria che all’ente
ricorrente spetta il rimborso del contributo versato con
interessi dal giorno del versamento
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 06.09.2007 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
gratuità del permesso (al pari di quanto accadeva nel
precedente regime concessorio) è subordinata a due
condizioni, l’una di carattere oggettivo (l’essere il
manufatto destinato a servire un interesse generale),
l’altra di natura soggettiva (il manufatto deve essere
realizzato da un soggetto pubblico o istituzionalmente
competente a realizzare opere pubbliche).
In linea generale l’esonero dal pagamento dei contributi di
costruzione è finalizzato ad agevolare l’esecuzione di opere
dalle quali la collettività possa trarre utilità e ad
evitare che il soggetto che interviene per l’istituzionale
attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo
che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento.
Perché si possa configurare il presupposto soggettivo
occorre che tra il soggetto abilitato ad intervenire
nell’interesse pubblico e il materiale esecutore della
costruzione sussista un vincolo diretto alla realizzazione
del fine pubblicistico dell’amministrazione così da
configurare quest’ultimo come “ente istituzionalmente
competente”; occorre dunque un mandato espresso conferito da
una pubblica amministrazione istituzionalmente competente
alla realizzazione di opere di interesse generale.
Sotto tale angolazione si è ammesso a fruire del beneficio
dell’esenzione il concessionario di opera pubblica ma a
condizione che tale speciale modulo organizzatorio sia
effettivamente esistente; si è così esclusa la ricorrenza di
tale figura nel caso di privato che aveva realizzato un
fabbricato destinato ad essere locato per ospitare una
scuola elementare; ovvero di opera realizzata da un
imprenditore per l’esercizio in via immediata e diretta
della propria attività d’impresa; ovvero in vista di un fine
genericamente egoistico (laddove è stato negato il beneficio
in favore di azienda agrituristica), o limitato ad una
cerchia ristretta di persone (laddove è stato negato il
beneficio ad una fondazione nel presupposto che si tratti di
persona giuridica di diritto privato che tende al
soddisfacimento di interessi privatistici e comunque di
esigenze di un numero limitato di persone).
Il carattere pubblico dell’iniziativa, onde conseguire il
beneficio di cui all’art. 17 cit., non può neppure essere
desunto dalla qualificazione delle strutture alberghiere
quali impianti destinati a finalità di carattere generale,
ai fini del rilascio dei titoli edilizi, trattandosi di
argomento che la giurisprudenza di questo Consiglio, ha
utilizzato in un ambito diverso da quello relativo
all’individuazione delle condizioni soggettive ed oggettive
indispensabili per consentire l’esenzione totale dal
pagamento dei contributi.
L’art. 17, comma 3, lett. c), t.u. edilizia sancisce
l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione <<per
gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>.
Sulla scorta del dato positivo, la gratuità del permesso (al
pari di quanto accadeva nel precedente regime concessorio) è
quindi subordinata a due condizioni, l’una di
carattere oggettivo (l’essere il manufatto destinato a
servire un interesse generale), l’altra di natura
soggettiva (il manufatto deve essere realizzato da un
soggetto pubblico o istituzionalmente competente a
realizzare opere pubbliche).
In linea generale l’esonero dal pagamento dei contributi di
costruzione è finalizzato ad agevolare l’esecuzione di opere
dalle quali la collettività possa trarre utilità e ad
evitare che il soggetto che interviene per l’istituzionale
attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo
che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento
(cfr. Cons. giust. amm., 27.12.2006, n. 792; Cons. Stato,
sez. IV, 12.07.2005, n. 3744).
Perché si possa configurare il presupposto soggettivo
occorre che tra il soggetto abilitato ad intervenire
nell’interesse pubblico e il materiale esecutore della
costruzione sussista un vincolo diretto alla realizzazione
del fine pubblicistico dell’amministrazione così da
configurare quest’ultimo come “ente istituzionalmente
competente”; occorre dunque un mandato espresso
conferito da una pubblica amministrazione istituzionalmente
competente alla realizzazione di opere di interesse generale
(cfr. Cons. giust. amm., n. 792 del 2006 cit.; Corte giust.
CE, sez. VI, 12.07.2001, n. 399).
Sotto tale angolazione si è ammesso a fruire del beneficio
dell’esenzione il concessionario di opera pubblica ma a
condizione che tale speciale modulo organizzatorio sia
effettivamente esistente; si è così esclusa la ricorrenza di
tale figura nel caso di privato che aveva realizzato un
fabbricato destinato ad essere locato per ospitare una
scuola elementare (cfr. Cons. giust. amm., n. 792 del 2006);
ovvero di opera realizzata da un imprenditore per
l’esercizio in via immediata e diretta della propria
attività d’impresa –come si verifica nel caso di specie-
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.10.2004, n. 6818); ovvero in
vista di un fine genericamente egoistico (Cons. giust. amm.,
12.02.2004, n. 26; 18.04.2006, n. 159 che ha negato il
beneficio in favore di azienda agrituristica), o limitato ad
una cerchia ristretta di persone (cfr. Cons. Stato, sez. V,
n. 3774 del 2005 cit. che ha negato il beneficio ad una
fondazione nel presupposto che si tratti di persona
giuridica di diritto privato che tende al soddisfacimento di
interessi privatistici e comunque di esigenze di un numero
limitato di persone).
Il carattere pubblico dell’iniziativa, onde conseguire il
beneficio di cui all’art. 17 cit., non può neppure essere
desunto dalla qualificazione delle strutture alberghiere
quali impianti destinati a finalità di carattere generale,
ai fini del rilascio dei titoli edilizi, trattandosi di
argomento che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr.
sez. IV, 21.04.1997, n. 424 ampiamente commentata dalla
difesa appellante), ha utilizzato in un ambito diverso da
quello relativo all’individuazione delle condizioni
soggettive ed oggettive indispensabili per consentire
l’esenzione totale dal pagamento dei contributi (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.05.2007 n. 2327 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
"Casa religiosa di accoglienza" -assentita dallo Sportello
unico della Comunità montana– risulta strutturalmente
destinata ad ospitare i pellegrini che si recano all'annesso
Santuario "Maria SS. Immacolata di Lourdes" ed è, dunque,
riconducibile, anche avuto riguardo alle sue caratteristiche
in concreto, alla categoria degli "immobili adibiti
nell'esercizio del ministero pastorale, ad attività
educative, culturali, sociali, ricreative, di accoglienza e
di ristoro che non abbiano fini di lucro", prevista dal
sopra riportato art. 4 della legge reg. cal. n. 21/1990.
Ne discende che essa costituisce, per espressa previsione di
legge (comma 3 dell'art. 4, cit.), un'opera di
urbanizzazione secondaria.
Pertanto, non sussiste la debenza, ai sensi dell'art. 17,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, del contributo di
costruzione per la realizzazione della Casa di ospitalità in
parola.
Ai sensi dell'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, "il
contributo di costruzione non è dovuto: … c) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
La legge della Regione Calabria n. 21/1990 (recante "Norme
in materia di edilizia di culto e disciplina urbanistica dei
servizi religiosi") puntualizza all'art. 4 che "ai sensi e
per gli effetti dell'art. 3, secondo comma, lettera B, del
decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 02.04.1968 e ai
fini dell'applicazione della presente legge sono
attrezzature di interesse comune per servizi religiosi: … c)
gli immobili adibiti, nell'esercizio del ministero
pastorale, ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative, di accoglienza e di ristoro che non abbiano fini
di lucro (comma 1)". Lo stesso articolo 4 della citata legge
regionale specifica pure (comma 3) che "in relazione al
disposto dell'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847 e
successive modificazioni, le attrezzature di cui al
precedente primo comma costituiscono opere di urbanizzazione
secondaria".
Ciò posto, il collegio osserva che la "Casa religiosa di
accoglienza" -assentita dallo Sportello unico della
Comunità montana del versante tirrenico settentrionale con
permesso di costruire n. 387 del 02.02.2006– risulta
strutturalmente destinata ad ospitare i pellegrini che si
recano all'annesso Santuario "Maria SS. Immacolata di
Lourdes" ed è, dunque, riconducibile, anche avuto riguardo
alle sue caratteristiche in concreto, alla categoria degli
"immobili adibiti nell'esercizio del ministero pastorale, ad
attività educative, culturali, sociali, ricreative, di
accoglienza e di ristoro che non abbiano fini di lucro",
prevista dal sopra riportato art. 4 della legge reg. cal. n.
21/1990.
Ne discende che essa costituisce, per espressa previsione di
legge (comma 3 dell'art. 4, cit.), un'opera di
urbanizzazione secondaria.
Inoltre, il Programma di fabbricazione vigente presso il
Comune di Molochio, contrariamente a quanto sostenuto dalla
difesa delle amministrazioni resistenti, conferma tale
caratteristica, in quanto prevede –giusta variante
approvata con D.P.G.R. n. 11688 dell'11.08.2003- per
l'area interessata la destinazione urbanistica F2,
corrispondente ad "attrezzature pubbliche di interesse
comune", sicché la realizzazione della Casa di accoglienza
in questione deve ritenersi operata "in attuazione di
strumenti urbanistici".
In relazione a tutto quanto precede il ricorso in esame si
appalesa fondato e va quindi accolto, rimanendo assorbite le
censure non affrontate, con conseguente annullamento, per
quanto di ragione, del provvedimento impugnato e
declaratoria della non dovutezza, ai sensi dell'art. 17,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, del contributo di
costruzione per la realizzazione della Casa di ospitalità in
parola
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 08.02.2007 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo per il rilascio della concessione edilizia (ora
permesso di costruire) imposto dalla legge 28.01.1977, n. 10
(art. 3; v. ora art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere
generale perché prescinde totalmente dall’esistenza, o meno,
delle singole opere di urbanizzazione; esso ha natura di
prestazione patrimoniale imposta e viene determinato
indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
---------------
Per quanto riguarda il contributo di costruzione da
corrispondere per la realizzazione di opere od impianti non
destinati ad usi residenziali l’art. 10, legge 28.01.1977,
n. 10 (v. ora art. 19 d.P.R. 06.06.2001, n. 380), prevede,
al comma 1, una esenzione da tale contributo per le
concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad
attività <<industriali o artigianali dirette alla
trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi>>,
mentre uguale esenzione non è prevista al comma 2 per la
concessione relativa a costruzioni o impianti destinati <<ad
attività turistiche, commerciali e direzionali>>.
Alla luce, dunque, sia del chiaro disposto dell’art. 10 L.
n. 10/1977, sia della predetta natura tributaria della
componente in esame del contributo, sia della tassatività
dell’elencazione legislativa dei casi di esenzione o di
concessione edilizia gratuita, deve ritenersi infondata la
tesi dell’appellante, secondo cui il convenzionamento e la
previsione dell’assunzione di determinati oneri di
urbanizzazione, valgano di per sé ad escludere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio della
concessione edilizia, potendo incidere finanche sull’obbligo
tributario del pagamento del contributo afferente al costo
di costruzione.
Il contributo controverso, dunque, come sostenuto dal Comune
appellato, deve essere corrisposto nella misura prevista
dall’art. 10, comma 2, L. n. 10/1977, in quanto le
costruzioni della società ricorrente, odierna appellante,
per la loro destinazione ad uso commerciale, non sono esenti
dal pagamento di tale contributo.
Occorre premettere che il contributo per il rilascio della
concessione edilizia (ora permesso di costruire) imposto
dalla legge 28.01.1977, n. 10 (art. 3; v. ora art. 16 d.P.R.
06.06.2001, n. 380) e commisurato agli oneri di
urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde
totalmente dall’esistenza, o meno, delle singole opere di
urbanizzazione; esso ha natura di prestazione patrimoniale
imposta e viene determinato indipendentemente sia
dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare dette opere (cfr. Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462; per la natura tributaria di tale prestazione,
v., altresì, C.G.A.R.S., 05.05.1999, n. 203).
Ora, per quanto riguarda il contributo di costruzione da
corrispondere per la realizzazione di opere od impianti non
destinati ad usi residenziali l’art. 10, legge 28.01.1977, n. 10 (v. ora art. 19 d.P.R.
06.06.2001, n. 380),
prevede, al comma 1, una esenzione da tale contributo per le
concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad
attività <<industriali o artigianali dirette alla
trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi>>,
mentre uguale esenzione non è prevista al comma 2 per la
concessione relativa a costruzioni o impianti destinati <<ad
attività turistiche, commerciali e direzionali>>.
Alla luce, dunque, sia del chiaro disposto dell’art. 10 L.
n. 10/1977, sia della predetta natura tributaria della
componente in esame del contributo, sia della tassatività
dell’elencazione legislativa dei casi di esenzione o di
concessione edilizia gratuita, deve ritenersi infondata la
tesi dell’appellante, secondo cui il convenzionamento e la
previsione dell’assunzione di determinati oneri di
urbanizzazione, valgano di per sé ad escludere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio della
concessione edilizia, potendo incidere finanche sull’obbligo
tributario del pagamento del contributo afferente al costo
di costruzione.
Il contributo controverso, dunque, come sostenuto dal Comune
appellato, deve essere corrisposto nella misura prevista
dall’art. 10, comma 2, L. n. 10/1977, in quanto le
costruzioni della società ricorrente, odierna appellante,
per la loro destinazione ad uso commerciale, non sono esenti
dal pagamento di tale contributo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2005 n. 7140 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell’esenzione
del contributo ex art. 9 della L. n. 10/1977, lett. f),
occorre che l’opera sia pubblica o di interesse pubblico e
sia realizzata da un ente pubblico, non competendo essa alle
opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la
rilevanza sociale dell’attività da essi esercitata nella (o
con la) opera edilizia alla quale la concessione si
riferisce.
Quanto, invece, all’esenzione dovuta (sempre ai sensi della
citata lett. f) per le <<opere di urbanizzazione eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>,
occorre che si tratti di opera di urbanizzazione
specificamente indicata come tale nello strumento
urbanistico, anche attuativo.
Quanto al
richiamo, contenuto nell’appello in esame, all’art. 9 della
L. n. 10/1977 cit., riguardante i casi di concessione
gratuita, e, segnatamente, alla lett. f), deve dirsi che -a
prescindere dalla fondatezza o meno dell’eccezione,
sollevata dall’appellato Comune, relativa alla novità della
questione (in quanto il vizio non è stato formulato nel
giudizio di primo grado)- tale norma non è applicabile al
caso di specie, in quanto la concessione edilizia è stata
rilasciata alla Promingros S.r.l., mentre, ai fini
dell’esenzione de qua occorre che l’opera sia pubblica o di
interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non
competendo essa alle opere eseguite da soggetti privati,
quale che sia la rilevanza sociale dell’attività da essi
esercitata nella (o con la) opera edilizia alla quale la
concessione si riferisce (cfr. Cons. St., sez. V, 21.01.1997, n. 69; Cons. St., sez. V, 19.09.1995, n. 1313; C.G.A.R.S., 20.07.1999, n. 369); quanto, invece,
all’esenzione dovuta (sempre ai sensi della citata lett. f)
per le <<opere di urbanizzazione eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici>>, occorre che si
tratti di opera di urbanizzazione specificamente indicata
come tale nello strumento urbanistico, anche attuativo (cfr.
Cons. St., sez. V, 21.01.1997, n. 69; Cons. St., sez.
V, 01.06.1992, n. 489) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2005 n. 7140 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, l’art. 9, comma 1, lett. f), L. n.
10/1977 richiede due requisiti che devono entrambi
concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della
concessione, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare
opere pubbliche o di interesse generale; mentre, per effetto
del secondo, esse devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente.
---------------
E’ stato chiarito che la ratio dell’esenzione in argomento è
finalizzata da un lato ad agevolare l'esecuzione di opere
dalle quali la collettività possa trarne utilità e
dall’altro ad evitare che il soggetto che interviene per
l'istituzionale attuazione del pubblico interesse
corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa Comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione agevolativa è stata estesa,
oltre che agli enti pubblici, anche a quelle figure
soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo
ovvero che accompagnano al lucro un collegamento
giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da
rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto
pubblico per la cura degli interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare,
grazie alla presenza del soggetto pubblico, un
contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore
dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad
esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il
quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è
parificabile a pieno titolo al soggetto che cura
istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse
generale.
Occorre cioè un ben preciso vincolo tra il soggetto
abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale
esecutore della costruzione, vincolo che in linea di massima
è stato identificato nella concessione di opera pubblica o
analoghe figure organizzatorie in modo tale che l’attività
edilizia sia compiuta da un soggetto che curi
istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse
generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui
le opere stesse sono destinate, per cui non può usufruire
dell’esenzione dal contributo l’opera costruita da un
imprenditore per la propria attività d’impresa.
Con sentenza TAR Toscana, Sezione III, n. 450 del
22.09.1999 è stato accolto il ricorso proposto dalla Società Carrani costruzioni avverso il Comune di Empoli che le aveva
negato l’esenzione dagli oneri contributivi relativi alla
concessione edilizia rilasciata il 07.10.1992 e successive
varianti.
In particolare, il TAR ha ritenuto che la Società,
esercitando un’attività edilizia riguardante un immobile
destinato a sede INAIL, venisse a rivestire una posizione
assimilabile a quella degli “Enti istituzionalmente
competenti” e perciò avesse titolo ad usufruire
dell’esenzione di cui all’art. 9, comma 1, lett. f.), L.
28.01.1997 n. 10.
Avverso detta sentenza ha proposto appello il Comune,
sostenendo in sostanza che la Società non aveva agito quale
commissionario di soggetto pubblico istituzionalmente
competente ma in proprio, realizzando la ristrutturazione di
un immobile di sua proprietà.
L’appello è fondato.
Come è noto, l’art. 9, comma 1, lett. f), L. n. 10/1977
richiede due requisiti che devono entrambi concorrere per
fondare lo speciale regime di gratuità della concessione,
l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere
soggettivo (cfr. la decisone di questa Sezione n. 3860 del
10.07.2000).
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; mentre, per effetto del
secondo, esse devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente.
Si può prescindere dal primo aspetto di carattere oggettivo,
atteso che nella specie difetta senz’altro il secondo
aspetto.
E’ stato chiarito che la ratio dell’esenzione in
argomento è finalizzata da un lato ad agevolare l'esecuzione
di opere dalle quali la collettività possa trarne utilità e
dall’altro ad evitare che il soggetto che interviene per
l'istituzionale attuazione del pubblico interesse
corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa Comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la
disposizione agevolativa è stata estesa, oltre che agli enti
pubblici, anche a quelle figure soggettive che non agiscono
per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al
lucro un collegamento giuridicamente rilevante con
l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale
con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli
interessi della collettività. Tale raccordo, peraltro, deve
essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del
soggetto pubblico, un contemperamento dell'obiettivo
privatistico dell'esecutore dell'opera con il fine
pubblicistico realizzato, come ad esempio nel caso del
concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al
conseguimento di un lucro d'impresa, è parificabile a pieno
titolo al soggetto che cura istituzionalmente l'esecuzione
di opere di interesse generale (cfr. la decisone di questa
Sezione n. 1280 del 07.09.1995).
Occorre cioè un ben preciso vincolo tra il soggetto
abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale
esecutore della costruzione, vincolo che in linea di massima
è stato identificato nella concessione di opera pubblica o
analoghe figure organizzatorie in modo tale che l’attività
edilizia sia compiuta da un soggetto che curi
istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse
generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui
le opere stesse sono destinate, per cui non può usufruire
dell’esenzione dal contributo l’opera costruita da un
imprenditore per la propria attività d’impresa (cfr. la
decisione di questa Sezione n. 6618 del 2.12.2002)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.10.2004 n. 6818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
concetto di edificio destinato all’esercizio pubblico del
culto cattolico risulta suscettibile di estendersi anche
alle pertinenze, per la cui configurazione non appare
decisiva la materiale unicità della costruzione dei locali,
bensì il legame funzionale derivante dalla loro destinazione
al servizio dell’edificio principale al fine di permettere
l’esercizio dell’attività di culto.
Il concetto di edificio destinato all’esercizio pubblico del
culto cattolico risulta suscettibile di estendersi anche
alle pertinenze, per la cui configurazione non appare
decisiva la materiale unicità della costruzione dei locali,
bensì il legame funzionale derivante dalla loro destinazione
al servizio dell’edificio principale al fine di permettere
l’esercizio dell’attività di culto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.03.2004 n. 133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio che nella fattispecie
coesistono i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti
dalla più volte richiamata norma di cui all’art. 9, primo
comma, lettera f), prima parte, della L. n. 10/1977, secondo
cui il contributo afferente il rilascio della concessione
edilizia non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le
opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti.
Circa il requisito soggettivo ritiene infatti il Collegio di
dover condividere quell’ampia e qualificata giurisprudenza
per cui ai fini dell’individuazione dell’“ente
istituzionalmente competente” non è necessariamente
rilevante la natura pubblica immediata dell’ente
realizzatore quanto piuttosto quella oggettiva relativa alla
realizzazione dell’opera; in tale ambito questa Sezione ha
avuto modo di precisare che ai fini dell’esecuzione del
contributo di costruzione la norma può venire riferita anche
ad un’opera realizzata ad un soggetto privato perché per
conto di un ente pubblico;
mentre sotto il profilo oggettivo è indubbio che la
realizzazione dell’opera in questione –caserma dei Vigili
del Fuoco– risponde sicuramente alle caratteristiche di
un’opera pubblica e/o di un’opera di interesse generale.
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L’elenco delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria
non deve intendersi tassativo e vincolato perché, come
esattamente ritenuto dalla giurisprudenza condivisa dalla
Sezione, debbono ritenersi rientrare nella nozione di opere
di urbanizzazione previste dalla normativa anche quelle
realizzazioni di specifica rilevanza pubblica e sociale,
qual è certamente la costruzione di un immobile da adibirsi
a caserma dei VV.FF..
Inoltre, è errato escludere il carattere di urbanizzazione
della Caserma de qua perché la stessa sarebbe al servizio di
utenti appartenenti a più centri abitativi.
Invero, come esattamente dedotto dall’appellante, il
requisito del dimensionamento di quartiere risulta previsto
solo per i mercati, gli impianti sportivi e le aree vedi
(cfr. art. 4, 2° comma, della legge n. 847/1964), con la
conseguenza che le altre opere di urbanizzazione secondaria
ben possono essere dimensionate su scala diversa e
superiore.
In punto di fatto va rammentato che la realizzazione in
oggetto riguardava la costruzione di un fabbricato da
adibirsi a Caserma dei Vigili del Fuoco, realizzazione per
la quale il Comune di Prato con i provvedimenti
originariamente impugnati negava l’esenzione dal pagamento
per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
Ritiene al riguardo il Collegio che nella fattispecie
coesistono i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti
dalla più volte richiamata norma di cui all’art. 9, primo
comma, lettera f), prima parte, della L. n. 10/1977, secondo
cui il contributo afferente il rilascio della concessione
edilizia non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le
opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti.
Circa il requisito soggettivo ritiene infatti il Collegio di
dover condividere quell’ampia e qualificata giurisprudenza
per cui ai fini dell’individuazione dell’“ente
istituzionalmente competente” non è necessariamente
rilevante la natura pubblica immediata dell’ente
realizzatore quanto piuttosto quella oggettiva relativa alla
realizzazione dell’opera; in tale ambito questa Sezione ha
avuto modo di precisare che ai fini dell’esecuzione del
contributo di costruzione la norma può venire riferita anche
ad un’opera realizzata ad un soggetto privato perché per
conto di un ente pubblico (cfr. C.S. Sezione V n. 206/1999);
mentre sotto il profilo oggettivo è indubbio che la
realizzazione dell’opera in questione –caserma dei Vigili
del Fuoco– risponde sicuramente alle caratteristiche di
un’opera pubblica e/o di un’opera di interesse generale.
Fondate sono anche le censure contenute nel secondo motivo
di appello perché ritiene il Collegio che al contrario di
quanto dedotto dal Tribunale l’elenco delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria non debba intendersi
tassativo e vincolato perché, come esattamente ritenuto
dalla giurisprudenza condivisa dalla Sezione, debbono
ritenersi rientrare nella nozione di opere di urbanizzazione
previste dalla normativa anche quelle realizzazioni di
specifica rilevanza pubblica e sociale, qual è certamente la
costruzione di un immobile da adibirsi a caserma dei VV.FF..
Inoltre, la decisione appare errata nella parte in cui è
stato escluso il carattere di urbanizzazione della Caserma
de qua perché la stessa sarebbe al servizio di utenti
appartenenti a più centri abitativi.
Invero, come esattamente dedotto dall’appellante, il
requisito del dimensionamento di quartiere risulta previsto
solo per i mercati, gli impianti sportivi e le aree vedi
(cfr. art. 4, 2° comma, della legge n. 847/1964), con la
conseguenza che le altre opere di urbanizzazione secondaria
ben possono essere dimensionate su scala diversa e
superiore.
Conclusivamente pertanto il ricorso deve essere accolto e,
in riforma dell’impugnata sentenza va annullata la
determinazione comunale di non concedere la gratuità della
concessione edilizia n. 2643 del 16.12.1995
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.09.2003 n. 5315 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
moderni sistemi aereportuali si presentano come una
struttura polifunzionale integrata, nella quale le funzioni
tecniche di assistenza al volo ed ai passeggeri e quelle
commerciali fanno parte di un insieme difficilmente
scindibile, soprattutto ove il legislatore abbia
esplicitamente fatto la scelta di assegnare unitariamente
tali funzioni ad un unico gestore, proprio per creare le
condizioni più favorevoli al raggiungimento di una posizione
di equilibrio e di autosufficienza finanziaria, senza oneri
correnti a carico del bilancio pubblico.
In questo contesto, il legislatore ha esplicitamente espunto
dai costi di esercizio della società che gestisce il
servizio in via esclusiva gli oneri di urbanizzazione,
collocandoli in un regime del tutto diverso, nel quale sono
lo Stato e la Regione ad assumere il ruolo di soggetti che
assorbono nei relativi bilanci il peso dei costi che
rimangono a carico della collettività.
E comunque eventuali oneri a carico degli enti locali minori
sono regolabili nei rapporti con la Regione e con lo Stato,
ma mai attraverso la configurazione di oneri diretti a
carico della società che gestisce il sistema aeroportuale. E
ciò in ragione di una specifica scelta del legislatore
statale, confermata da quello regionale.
2. La tesi dell’appellante non è fondata. Il sinallagma che
si instaura tra le attività tecniche di gestione, controllo
e coordinamento del traffico aereo in una grande e complessa
struttura aeroportuale ed i proventi delle attività
commerciali che si svolgono in una tale infrastruttura,
costituisce una delle caratteristiche funzionali del
rapporto di concessione che articola obblighi e diritti del
concedente e del concessionario.
Per affrontare la questione
al nostro esame, occorre ricordare che tutte le opere
oggetto della controversia sono inserite in un unico
progetto, al cui interno si integrano linee di intervento
che attengono all’ampliamento e all’ammodernamento della
aerostazione ed interventi sugli spazi ad uso commerciale e
direzionale. La SEA spa –che rimane un soggetto sociale a
quasi totale partecipazione pubblica- sulla base delle legge
n. 449 del 1985 gestirà fino al 2022, in regime di
concessione e gestione esclusiva il sistema aeroportuale di
Milano (Linate e Malpensa).
La SEA sulla base della
Convenzione n. 4014 del 16.12.1986, è stata delegata a
realizzare tutte le opere di ampliamento ed ammodernamento
del nuovo sistema aeroportuale milanese: tale sistema è
descritto, nelle sue linee e negli obiettivi (interventi in
termini di transiti di aeromobili e passeggeri e di volumi
commerciali intermediati) nel Piano Regolatore Aeroportuale
“Malpensa-2000”, approvato con decreti del Ministero dei
trasporti n. 903 del 13.2.1987 e n. 1299 del 14.04.1993.
3. La SEA è una società per azioni destinata, nell’arco di
vigenza della convenzione, cioè comunque entro il 2022, ad
essere privatizzata e quotata in borsa. Il punto di
equilibrio della sua gestione si costruisce all’incrocio
pluriennale di due flussi di costi e ricavi: quelli relativi
al traffico degli aeromobili; quello relativo alle attività
commerciali.
In questo equilibrio, i costi di ammortamento
degli oneri finanziari delle opere di ampliamento della
struttura rimangano in larga misura a carico dello Stato,
secondo quanto stabilito con l’art. 14 della legge
finanziaria n. 67 dell’11.03.1988. Dunque il bilancio dello
Stato, e quindi la collettività nazionale, contribuisce
direttamente allo sforzo finanziario dell’ampliamento della
struttura, accollandosi, tra l’altro,gli oneri del piano di
ammortamento dei mutui; ed il piano degli interventi, come
rappresentato nella convenzione e come, ed il punto è
decisivo, articolato nel Piano Regolatore Aeroportuale,
descrive in modo puntuale tutte le opere di collegamento
urbanistico e di viabilità che servono ad innervare il nuovo
sistema aeroportuale nel tessuto urbanistico circostante.
Non è certamente casuale se la legge finanziaria del 1988,
mentre finanzia le opere a carico del bilancio statale,
stabilisce che il parere espresso dalla Regione e dagli enti
locali, con la procedura prevista dall’art. 81 del DPR n. 616
del 1977 sui piani regolatori aeroportuali ( di Malpensa e
Fiumicino) comprende ed assorbe a tutti gli effetti la
verifica di conformità urbanistica delle singole opere
inserite negli stessi piani regolatori.
4. Il raggiungimento dell’intesa tra lo Stato, la Regione
Lombardia e gli enti locali territoriali interessati, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 81 del DPR prima
richiamato, sottrae gli interventi de quo al regime
concessorio ed autorizzativo, previsto dalla vigente
disciplina urbanistica ed edilizia; sul punto la legge
regionale n. 10 del 1999 è molto chiara e conferma il quadro
della legislazione statale. In sostanza, la SEA spa non deve
chiedere alcuna concessione urbanistica e non deve pagare
alcun contributo in ragione di una disciplina speciale, di
fonte statale e regionale, che in forza del preminente
interesse nazionale dell’intervento, e del correlativo
impegno diretto del bilancio dello Stato, sottrae tale
intervento alla disciplina di ordine generale e disegna per
esso un percorso di concertazione istituzionale tra enti
territoriali che mette capo all’intesa prima richiamata.
Tale disciplina derogatoria trae la propria ragione di
essere dal carattere unitario e complesso della struttura
aeroportuale, nella quale aspetti tecnici e commerciali
vanno ad integrare un’unica gestione, finanziaria e
patrimoniale, il cui punto di equilibrio è stato costruito,
grazie anche alle previsioni contenute nel Piano Regolatore
Aeroportuale “Malpensa 2000”, considerando: a) una gestione
esclusiva dell’aerostazione fino all’anno 2022; b) l’accollo
degli oneri finanziari dei mutui, a carico del bilancio
dello Stato; c) la realizzazione di tutti gli interventi di
ammodernamento a carico della concessionaria d) la
concessione alla SEA della gestione di tutti i punti
commerciali; e) il non intervento dello Stato a sollievo di
alcun profilo di ripiano della gestione corrente.
In questo
contesto, gli oneri connessi alla realizzazione della rete
di collegamento della struttura aeroportuale alla restante
area, già in parte urbanizzata, sono tutti considerati,
anche nei relativi profili finanziari, nel Piano Regolatore:
e vedono in primo piano l’impegno finanziario dello Stato e
della Regione Lombardia. In questa cornice, la ragione di
ordine generale che è alla base dell’esonero dagli oneri di
urbanizzazione stabilito, per le opere di interesse
generale, dall’art. 9, lett. f), della legge n. 10 del 1977,
trova una ulteriore e più puntuale disciplina, a carattere
speciale, nella cornice che regola ad hoc gli interventi per
il sistema aeroportuale di Roma e di Milano, prima
richiamata; ed il carattere speciale sta proprio nella
radicale eliminazione della fase di conformità
urbanistica,fase che viene totalmente assorbita dalla
procedura dell’intesa, ai sensi dell’art.81 del DPR n. 616
del 1977.
La natura “oggettiva” dell’opera non solo esonera
la stessa dalla concessione edilizia comunale, ma ne impone
la sua riconduzione all’ambito di operatività delle norme,
statali e regionali, che specificamente regolano i profili
finanziari e urbanistici della sua realizzazione. Ora si
tratta di un’opera la cui gestione viene affidata, per un
lungo tratto di tempo, ad una società a prevalente capitale
pubblico, proprio per consentire un graduale ma stabile
passaggio della sua gestione ad una situazione di
equilibrio, con prospettive di profitto commerciale, che
renda possibile una vera privatizzazione della stessa
società.
L’esonero dai contributi di urbanizzazione non
risponde al fine, che sarebbe del tutto non giustificato, di
escludere l’impresa da costi che deve subire poi la
collettività: risponde invece alla scelta di caricare sui
bilanci dello Stato e della regione oneri finanziari che
rispondono ad un quadro di interessi generali , oneri che
non vengono invece caricati sulle comunità locali, solo
parzialmente interessate da fenomeni di urbanizzazione; si
tratta infatti, di fenomeni che vanno valutati e finanziati
a scala nazionale e regionale; e in questo contesto, la
progressiva gestione in equilibrio delle società
aeroportuali, con tassativa esclusione di interventi
correnti pubblici a riequilibrio della gestione, e con la
creazione delle premesse di redditività che possono
consentire la privatizzazione delle società stesse, con
recuperi di efficienza anche a favore dell’utenza, sono
tutti elementi che entrano a comporre un quadro di
riferimento, di natura legislativa e convenzionale, che
tiene conto della scelta di sottrarre la società
concessionaria dall’obbligo dei contributi di urbanizzazione
e di sottoporla invece ad obblighi di servizio e di
equilibrio corrente del bilancio che sono decisivi per
rendere plausibile il percorso di privatizzazione e di
redditività effettiva.
5. In questa cornice, la pretesa del Comune di applicare
rilevanti oneri di urbanizzazione alle aree commerciali e
direzionali non trova alcuna giustificazione nel sistema
delle leggi in vigore. Se tale pretesa fosse accolta, tutto
l’equilibrio finanziario che è sotteso alle concessioni
esclusive alle società di gestione dei servizi aeroportuali,
per come è stato disciplinato dal legislatore nazionale e
regionale, risulterebbe compromesso. In ogni caso, per
restare sul filo delle argomentazioni svolte
dall’appellante, nel caso in esame non si configura alcun
debito contributivo a carico della SEA in quanto l’attività
di trasformazione del territorio, connessa alla
realizzazione del progetto aeroportuale, rimane largamente a
carico dello Stato e della Regione proprio in ragione delle
caratteristiche dell’opera, unitaria, complessa ed
integrata, e soprattutto di preminente interesse generale.
E
tale attività è stata in conseguenza disciplinata dal
legislatore,statale e regionale, in modo da escludere del
tutto l’intervento della concessione edilizia comunale: il
presupposto del debito contributivo dunque non esiste sia in
senso formale (l’ordinamento non attribuisce nel caso in
esame il relativo potere e quindi manca l’atto concessorio),
sia in senso sostanziale (l’attività di trasformazione del
territorio è presa in carico da un livello superiore di cura
degli interessi pubblici). In definitiva dove non c’è
concessione non c’è contributo; ed in questo caso la legge,
statale e regionale, si incarica di disciplinare un sistema
speciale per la concertazione degli interessi delle comunità
locali interessate ed un quadro gestionale al cui interno,
anche in ragione della durata della concessione, trovano un
punto di sintesi gli interessi pubblici generali e quelli ad
una gestione finanziariamente equilibrata.
6. Il preminente interesse generale giustifica la scelta del
legislatore statale e di quello regionale di sottrarre gli
interventi alla ordinaria disciplina urbanistica, per
sottoporli ad una procedura speciale che fa centro
sull’intesa, di cui al richiamato art. 81 del DPR n. 616 del
1977, intesa che assorbe e sostituisce tutti gli altri atti
concessori ed autorizzativi: in questa ottica, appare chiaro
che il parere espresso dalla Regione a dagli altri enti
locali territorialmente interessati investe tutte le opere
inserite nei Piani regolatori aeroportuali di Malpensa e di
Fiumicino.
7. I moderni sistemi aereportuali si presentano come una
struttura polifunzionale integrata, nella quale le funzioni
tecniche di assistenza al volo ed ai passeggeri e quelle
commerciali fanno parte di un insieme difficilmente
scindibile, soprattutto ove il legislatore abbia
esplicitamente fatto la scelta di assegnare unitariamente
tali funzioni ad un unico gestore, proprio per creare le
condizioni più favorevoli al raggiungimento di una posizione
di equilibrio e di autosufficienza finanziaria, senza oneri
correnti a carico del bilancio pubblico.
In questo contesto,
il legislatore ha esplicitamente espunto dai costi di
esercizio della società che gestisce il servizio in via
esclusiva gli oneri di urbanizzazione, collocandoli in un
regime del tutto diverso, nel quale sono lo Stato e la
Regione ad assumere il ruolo di soggetti che assorbono nei
relativi bilanci il peso dei costi che rimangono a carico
della collettività. E comunque eventuali oneri a carico
degli enti locali minori sono regolabili nei rapporti con la
Regione e con lo Stato, ma mai attraverso la configurazione
di oneri diretti a carico della società che gestisce il
sistema aeroportuale. E ciò in ragione di una specifica
scelta del legislatore statale, confermata da quello
regionale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.12.2002 n. 7043 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'esenzione
dal contributo di costruzione ex art. 9, lett. f), l.
28.01.1977 n. 10, occorre che l'opera da costruire sia
pubblica o d'interesse pubblico e venga realizzata o da un
ente pubblico, o da altro soggetto per conto di un ente
pubblico, come nel caso di concessione di opera pubblica o
di altre analoghe figure organizzatorie.
Seppure è stata esclusa, talvolta, la necessaria
soggettività pubblica dell'ente realizzatore
dell'intervento, si è sempre affermato che deve trattarsi di
attività compiuta da un concessionario o, più in generale,
da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione
di opere d'interesse generale per il perseguimento delle
specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
In questa prospettiva si è anche chiarito che non ricade
nell'esenzione l'opera costruita da un imprenditore per la
propria attività d'impresa, considerato altresì che il fine
dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione
intimamente contraddittoria (quale sarebbe quella per opere
costruite a carico della collettività) e non quella di
esonerare gli imprenditori dai costi d'impresa.
Con un secondo gruppo di censure, l’appellante sostiene
che l'opera in questione non è soggetta a contribuzione,
rientrando nel raggio di azione dell’articolo 9, lettera f),
della legge n. 10/1997.
La censura è infondata.
La norma richiamata dall'appellante prevede l'esonero dal
pagamento degli oneri di urbanizzazione "per gli impianti,
le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzati dagli enti istituzionalmente competenti".
La gratuità della concessione è quindi subordinata a due
condizioni, l'una di carattere oggettivo e l'altra di natura
soggettiva.
Con riguardo al primo profilo, si potrebbe anche convenire
con l'appellante che il manufatto in questione costituisce
un'opera di interesse generale, considerando il collegamento
con il pubblico servizio esercitato dalla SIP.
Ma, con riguardo all'altro necessario presupposto, di
carattere soggettivo, non può dubitarsi che il titolare
della concessione è un imprenditore privato e non un "ente
istituzionalmente competente" alla realizzazione dell'opera.
La Sezione ha ripetutamente chiarito, al riguardo, che, ai
fini dell'esenzione dal contributo di costruzione ex art. 9,
lett. f), l. 28.01.1977 n. 10, occorre che l'opera da
costruire sia pubblica o d'interesse pubblico e venga
realizzata o da un ente pubblico, o da altro soggetto per
conto di un ente pubblico, come nel caso di concessione di
opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie
(Consiglio Stato sez. V, 07.09.1995, n. 1280; 13.12.1993, n. 1280;
04.01.1993, n. 11; 31.10.1992, n. 1145; 16.01.1992 n. 46).
Seppure è stata esclusa, talvolta, la necessaria
soggettività pubblica dell'ente realizzatore
dell'intervento, si è sempre affermato che deve trattarsi di
attività compiuta da un concessionario o, più in generale,
da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione
di opere d'interesse generale per il perseguimento delle
specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
In questa prospettiva si è anche chiarito che non ricade
nell'esenzione l'opera costruita da un imprenditore per la
propria attività d'impresa, considerato altresì che il fine
dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione
intimamente contraddittoria (quale sarebbe quella per opere
costruite a carico della collettività) e non quella di
esonerare gli imprenditori dai costi d'impresa (Consiglio
Stato, Sez. V 10.12.1990 n. 857; sez. V, 20.11.1989 n. 752) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 17.10.2000 n. 5558 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo concessorio non è dovuto quando si tratta della
realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale da
parte di enti istituzionalmente competenti.
La norma (art. 9, lettera f), legge n. 10 del 1977) enuncia
due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo
speciale regime di gratuità della concessione, l’uno di
carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo. Per
effetto del primo la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo
le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente.
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare
l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di
interessi pubblici o dalle quali la collettività possa
comunque trarre una utilità.
L’esecuzione di un’opera pubblica, inoltre, quando è
compiuta da un “ente istituzionalmente competente”,
garantisce il perseguimento di interessi di ordine generale
e giustifica la concessione di un beneficio economico che,
non contribuendo alla formazione di un utile di impresa, si
riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce
dell’opera una volta compiuta.
L’imposizione degli oneri concessori al soggetto che
interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico
interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria,
poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro
pagamento.
La disposizione, dunque, ha un ambito applicativo limitato
in duplice senso: essa si rivolge in primo luogo a
chi intende realizzare opere la cui fruizione (in via
diretta od indiretta) soddisfa interessi generali; in
secondo luogo si rivolge, oltre che agli enti pubblici,
a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo
scopo lucrativo o che accompagnano al lucro soggettivo un
collegamento giuridicamente rilevante con l’amministrazione,
sì da rafforzare il legame istituzionale con l’azione del
soggetto pubblico per la cura degli interessi della
collettività. Tale raccordo, peraltro, dev’essere idoneo ad
assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un
contemperamento dell’obiettivo privatistico dell’esecutore
dell’opera col fine pubblicistico realizzato.
Questo raccordo, secondo la giurisprudenza, è ravvisabile in
concreto anche nei casi che registrano l’intervento del
concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al
conseguimento di un lucro d’impresa, è parificabile a pieno
titolo al soggetto che cura istituzionalmente l’esecuzione
di opere di interesse generale.
La questione controversa concerne l’applicabilità dell’art.
9, lettera f), legge n. 10 del 1977, al complesso
polifunzionale della Polizia di Stato costruito dalla
società appellata, ed il relativo riconoscimento del diritto
all’esenzione dal pagamento del contributo di concessione di
cui all’art. 3 della legge n. 10 del 1977.
La disposizione in oggetto viene richiamata per due distinti
profili, ciascuno dei quali idoneo, in linea di ipotesi, a
giustificare l’esenzione.
Il primo è quello per cui il contributo concessorio non è
dovuto quando si tratta della realizzazione di opere
pubbliche o di interesse generale da parte di enti
istituzionalmente competenti.
La norma enuncia due requisiti che devono entrambi
concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della
concessione, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo. Per effetto del primo la costruzione
deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per
effetto del secondo le opere devono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente (v., ex plurimis, Cons.
Stato, sez. V, 20.07.1999, n. 849; id., 29.09.1997, n. 1067).
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare
l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di
interessi pubblici o dalle quali la collettività possa
comunque trarre una utilità.
L’esecuzione di un’opera pubblica, inoltre, quando è
compiuta da un “ente istituzionalmente competente”,
garantisce il perseguimento di interessi di ordine generale
e giustifica la concessione di un beneficio economico che,
non contribuendo alla formazione di un utile di impresa, si
riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce
dell’opera una volta compiuta.
L’imposizione degli oneri concessori al soggetto che
interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico
interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria,
poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro
pagamento.
La disposizione, dunque, ha un ambito applicativo limitato
in duplice senso: essa si rivolge in primo luogo a chi
intende realizzare opere la cui fruizione (in via diretta od
indiretta) soddisfa interessi generali; in secondo luogo si
rivolge, oltre che agli enti pubblici, a quelle figure
soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo o
che accompagnano al lucro soggettivo un collegamento
giuridicamente rilevante con l’amministrazione, sì da
rafforzare il legame istituzionale con l’azione del soggetto
pubblico per la cura degli interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, dev’essere idoneo ad assicurare,
grazie alla presenza del soggetto pubblico, un
contemperamento dell’obiettivo privatistico dell’esecutore
dell’opera col fine pubblicistico realizzato.
Questo raccordo, secondo la giurisprudenza, è ravvisabile in
concreto anche nei casi che registrano l’intervento del
concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al
conseguimento di un lucro d’impresa, è parificabile a pieno
titolo al soggetto che cura istituzionalmente l’esecuzione
di opere di interesse generale (v., ex plurimis,
Consiglio Stato sez. V, 07.09.1995, n. 1280)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.07.2000 n. 3860 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Perché possa qualificarsi la costruzione come “opera di
urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti
urbanistici” è, invero, necessario che essa sia
specificamente indicata come tale nello strumento
urbanistico.
Il complesso polifunzionale edificato non
solo non è mai stato qualificato come opera di
urbanizzazione, ma non corrisponde ad alcuna precisa
indicazione dello strumento urbanistico, sicché l’esenzione
dal contributo di concessione non può essere riconosciuta.
L’argomento contrario dedotto dall’appellata e fondato sulla
vigenza del piano di zona è del tutto insufficiente a
sovvertire il chiaro contenuto precettivo della
disposizione: essa beneficia il privato che dà immediata
esecuzione alla previsione di piano relativa ad una
specifica opera di urbanizzazione. Solo nel caso
espressamente previsto dalla norma, a ben vedere, risulta
contraddittoria ed irragionevole la richiesta al privato del
pagamento di un contributo commisurato anche alle “spese di
urbanizzazione”, che di regola sono sopportate dall’ente
pubblico. In ogni altro caso il contributo è dovuto.
A margine delle suddette considerazioni, d’altra parte, deve
rimarcarsi che la disposizione in oggetto, poiché concede un
beneficio derogatorio al regime generale, deve interpretarsi
secondo criteri restrittivi ed in stretta armonia con il suo
tenore e la sua ratio.
La seconda
parte dell’art. 9, lettera f), è parimenti inapplicabile
all’ipotesi in esame.
Perché possa qualificarsi la costruzione come “opera di
urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti
urbanistici” è, invero, necessario che essa sia
specificamente indicata come tale nello strumento
urbanistico.
Il complesso polifunzionale edificato dalla Fingruppo non
solo non è mai stato qualificato come opera di
urbanizzazione, ma non corrisponde ad alcuna precisa
indicazione dello strumento urbanistico, sicché l’esenzione
dal contributo di concessione non può essere riconosciuta.
L’argomento contrario dedotto dall’appellata e fondato sulla
vigenza del piano di zona è del tutto insufficiente a
sovvertire il chiaro contenuto precettivo della
disposizione: essa beneficia il privato che dà immediata
esecuzione alla previsione di piano relativa ad una
specifica opera di urbanizzazione. Solo nel caso
espressamente previsto dalla norma, a ben vedere, risulta
contraddittoria ed irragionevole la richiesta al privato del
pagamento di un contributo commisurato anche alle “spese di
urbanizzazione”, che di regola sono sopportate dall’ente
pubblico. In ogni altro caso il contributo è dovuto.
A margine delle suddette considerazioni, d’altra parte, deve
rimarcarsi che la disposizione in oggetto, poiché concede un
beneficio derogatorio al regime generale, deve interpretarsi
secondo criteri restrittivi ed in stretta armonia con il suo
tenore e la sua ratio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.07.2000 n. 3860 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.11.2013 |
ã |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Guida al D.L. n. 101/2013 - Le novità in materia di Pubblica
Amministrazione e pubblico impiego
(Dipartimento Funzione Pubblica, novembre 2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: Appalti,
pagamento subfornitori: cosa cambia con il Decreto Fare
(12.10.2013 - link a www.giurdanella.it). |
APPALTI: Decreto
Fare e costo del lavoro negli appalti
(04.10.2013 - link a www.giurdanella.it). |
APPALTI: La
responsabilità solidale appalti dopo la conversione dei
decreti Fare e Lavoro
(04.10.2013 - link a www.giurdanella.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc: semplificazione su regole e tempi dopo il decreto Fare
(03.10.2013 - link a www.giurdanella.it). |
LAVORI PUBBLICI:
C. Crosato,
Le attività del Rup:
proposta per una lista di controllo -
La lista di controllo permette al Rup
di mettere a fuoco tutte le attività nell’ambito di un
lavoro pubblico.
L’attività del Rup nella realizzazione di un lavoro pubblico
si esercita nelle seguenti macroaree: nomina e
programmazione, progettazione, individuazione dell’esecutore
del lavoro, esecuzione e collaudo dei lavori. All’interno di
tali macro attività si propone una lista di controllo
costruita sulla base delle indicazioni fornite dal Codice
dei contratti pubblici e dal Regolamento (Diritto e
Pratica Amministrativa n. 6/2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Gallucci,
L’installazione di una canna fumaria in un condominio -
Di chi è la proprietà della canna fumaria? Nella sua
installazione devono essere rispettate le distanze? Che cosa
succede se le tubazioni alterano l’estetica dell’edificio?
Indicazioni pratiche valide per impianti termici o al
servizio di attività commerciali e artigianali (Quaderni
di Legislazione Tecnica n. 1/2012). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, la referenza resta.
Validi i certificati esecuzione lavori pre 2006.
L'Autorità lavori pubblici cambia rotta e salva tre anni di
qualificazione.
Nelle gare pubbliche di appalto è possibile qualificarsi
come imprese di costruzioni, anche presentando certificati
di esecuzione dei lavori emessi in forma cartacea prima del
luglio 2006. Ma la stazione appaltante dovrà garantire
l'autenticità dei certificati stessi.
È quanto stabilisce
l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la
deliberazione
25.09.2013 n. 35 depositata il 29
ottobre (relatore Luciano Berarducci) che rettifica
parzialmente e integra la precedente delibera n. 24 del 23.05.2013 relativa alle indicazioni fornite a Soa e
stazioni appaltanti in materia di emissione dei cosiddetti
Cel (Certificati esecuzione lavori).
Il problema si era posto rispetto all'articolo 83, comma 7,
del dpr 207/2010 (il regolamento del codice dei contratti
pubblici) che impone alle Soa di accertare la presenza dei
certificati nel Casellario gestito dall'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici ai fini del rilascio
dell'attestazione e, in caso accertino che non siano
presenti, impone loro di darne comunicazione all'Autorità
per i conseguenti provvedimenti sanzionatori.
La norma
prevede che i Cel non siano utilizzabili fino al loro
inserimento nel casellario informatico e quindi non pone
difficoltà, nel caso in cui i certificati siano stati emessi
in forma digitale e inseriti nel Casellario. Ma per alcuni
casi, precedenti il 2006 quando non era ancora in vigore
l'obbligo di emettere i Cel in forma telematica, l'impresa
disponeva soltanto di copie cartacee. Rispetto a questi
certificati cartacei nel maggio scorso l'Autorità aveva
stabilito la regola dell'inutilizzabilità, per cui le
imprese avrebbero dovuto chiedere alle stazioni appaltanti,
a distanza di molti anni, la emissione ex novo in forma
telematica e la trasmissione al Casellario.
Dal momento che
i requisiti di qualificazione prendono in considerazione
anche dieci anni, per i certificati non inseriti nel
Casellario e riguardanti gli anni dal 2003 al 2006,
l'impresa si sarebbe trovata nell'impossibilità di
utilizzare le referenze dei lavori eseguiti, ancorché fosse
in possesso del regolare certificato emesso in forma
cartacea. La delibera n. 24 (resa nota a luglio) prevedeva
come ulteriore possibilità quella di considerare validi
anche i certificati trasmessi, in via telematica,
direttamente al casellario dalle stazioni appaltanti secondo
i format previsti dall'organismo di vigilanza.
Con la
delibera dei giorni scorsi l'Authority, per esigenze di
semplificazione ammette la possibilità di utilizzazione, in
sede di attestazione presso la Soa, dei Cel cartacei che
però non dovranno più essere emessi nuovamente dalla
stazione appaltante (attività che avrebbe potuto creare
molte difficoltà operative); sarà infatti sufficiente la
«previa conferma scritta circa la veridicità degli stessi da
parte della stazione appaltante» per poterli utilizzare.
In
ogni caso, dice l'Autorità, la mancanza di questa conferma
scritta impedisce l'utilizzabilità del Cel e l'inerzia della
stazione appaltante, a fronte della richiesta dell'impresa,
costituisce elemento passibile di sanzione (fino a circa 26
mila euro)
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: ulteriori modifiche (ANCE Bergamo,
circolare 08.11.2013 n. 242). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Circolare recante chiarimenti interpretativi relativi
alla disciplina dell'autorizzazione unica ambientale (A.U.A.)
nella fase di prima applicazione del D.P.R. 13.03.2013 n. 59
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e
del Mare,
circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: Provvedimenti antimafia – Operativa la procedura
per l’iscrizione nelle cosiddette white list presso
la Prefettura di Bergamo (ANCE Bergamo,
circolare 04.11.2013 n. 236). |
TRIBUTI:
Oggetto: Conversione in legge del Dl n. 102/2013 – Nota di
lettura (ANCI Emilia Romagna,
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Linee guida in materia di codici di comportamento delle
pubbliche amministrazioni (art. 54, comma 5, d.lgs. n.
165/2001) (CIVIT,
deliberazione 24.10.2013 n. 75/2013). |
COMPETENZE PROGETTUALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Applicazione del DM 37/2008 (in particolare per
gli Impianti Elettronici nei lavori Pubblici e Privati -
rispetto delle prescrizioni e privativa per gli Ingegneri
del Settore dell'Informazione) (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 11.10.2013 n. 279). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2013,
"Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento
regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici
competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione
Lombardia alla data del 31.10.2013, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 04.11.2013 n. 128). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2013, "Reticoli
idrici regionali e revisione canoni di occupazione delle
aree del demanio idrico" (deliberazione
G.R. 31.10.2013 n. 883). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 05.11.2013,
"Individuazione dei periodi di divieto di spandimento
degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati
per la stagione autunno vernina 2013/2014 - ai sensi del
d.m. 07.04.2006" (deliberazione
G.R. 31.10.2013 n. 9953). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abolizione delle Province - Ora i politici si
preoccupano per le sorti del personale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 05.11.02013). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
ottobre 2013). |
CORTE DEI CONTI |
SEGRETARI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il segretario comunale non deve esimersi dal controllare
l'operato dei vari uffici.
Ciò che radica la responsabilità (anche)
del segretario comunale (circa il fatto che la dirigente non
aveva provveduto ad iscrivere a ruolo le contravvenzioni del
c.d.s. con la conseguente perdita del credito erariale) non
è certo il non avere controllato minuziosamente l’attività
della responsabile d'area, adempimento che non poteva
essergli richiesto, ma il fatto di non avere mai effettuato
dei controlli, sia pure a campione, di essersi del tutto
disinteressato dell’andamento di quel settore di attività
amministrativa, sino alla scoperta dei fatti, consentendo
che per un lunghissimo periodo di tempo un adempimento
fondamentale, come quello dell’iscrizione a ruolo delle
somme dovute a seguito di verbali non pagati, fosse
pretermesso, ignorando, così, un fenomeno di dimensioni
assolutamente abnormi, che una corretta attività di
vigilanza avrebbe sicuramente individuato per tempo.
Le conseguenze della mancata iscrizione a ruolo delle
contravvenzioni, infatti, non possono non ricadere anche sul
segretario comunale V., il quale, in assenza della figura
del responsabile dell’Area Vigilanza, nominato nella persona
del dott. N. con determina n. 14/2007 del Commissario
straordinario, ha omesso, come esposto, sia l’attività di
vigilanza che l’adozione di atti surrogatori per evitare che
le contravvenzioni cadessero in prescrizione; tale doverosa
attività, tenuto conto del regolamento comunale, non
comporta certamente alcuna dipendenza gerarchica del Corpo
di Polizia Municipale dalla sua figura.
In effetti, ciò che, ad avviso del Collegio, radica la
responsabilità del V. non è certo il non avere controllato
minuziosamente l’attività della N.V., adempimento che non
poteva essergli richiesto, ma il fatto di non avere mai
effettuato dei controlli, sia pure a campione, di essersi
del tutto disinteressato dell’andamento di quel settore di
attività amministrativa, sino alla scoperta dei fatti,
consentendo che per un lunghissimo periodo di tempo un
adempimento fondamentale, come quello dell’iscrizione a
ruolo delle somme dovute a seguito di verbali non pagati,
fosse pretermesso, ignorando, così, un fenomeno di
dimensioni assolutamente abnormi, che una corretta attività
di vigilanza avrebbe sicuramente individuato per tempo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'appello Siciliana,
sentenza 05.11.2013 n. 309). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Vigenza del divieto di assunzione per le province.
La Corte dei Conti, sezione delle Autonomie,
esamina le questioni di massima rimesse dalla sezione
regionale di controllo per l'Emilia-Romagna (deliberazione
n. 207/2013/PAR).
Il primo quesito riguarda l'attuale vigenza del divieto
introdotto dall'art. 16, comma 9, d.l. 95/2012 (convertito
in legge 135/2012) a tenore del quale: "nelle more
dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e
razionalizzazione delle province è fatto comunque divieto
alle stesse di procedere ad assunzioni di personale a tempo
indeterminato".
Le considerazioni svolte in proposito sono le seguenti:
"... appare condivisibile l'interpretazione data dalla
Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna: non vi
sono elementi giuridici per affermare che il processo di
riordino delle province si è arrestato, in quanto, a seguito
della mancata conversione del D.L. 188 del 2012, il
legislatore ha procrastinato al 31.12.2013 il termine
entro il quale il riordino dovrà essere attuato e l'art. 1,
comma 115, della L. 228 del 2012 al terzo periodo prevede
che: ‘nei casi in cui in una data compresa tra il 15.11.2012 e il 31.12.2013 si verifichino la
scadenza naturale del mandato degli organi delle province,
oppure la scadenza dell'incarico di Commissario
straordinario delle province nominato ai sensi delle vigenti
disposizioni ... o in altri casi di cessazione anticipata
del mandato degli organi provinciali ... è nominato un
commissario straordinario...per la provvisoria gestione
dell'ente fino al 31.12.2013'. Inoltre il Governo in
data 20.08.2013 ha presentato alla Camera dei Deputati
un disegno di legge costituzionale per l'Abolizione delle
province. Il riordino delle province non appare né arrestato
né abbandonato, il legislatore ha provveduto a
procrastinarne il termine finale al 31.12.2013 ; l'art
16, comma 9, del D.L. 16.07.2012, n. 95 convertito con
modificazioni nella L. 07.08.2012, n. 135 è vigente, non
essendo stato abrogato né colpito dalla dichiarazione di
illegittimità costituzionale, pertanto le province non
possono assumere personale a tempo indeterminato";
Il secondo quesito, attiene a "... se lo stesso (divieto)
ricomprenda anche le assunzioni di unità di personale aventi
diritto al collocamento obbligatorio, disposto dalla legge
68/1999; ciò nel caso in cui l'ente debba procedere ad
assunzioni, allo scopo di raggiungere la copertura della
prevista quota d'obbligo".
L'esame della sezione reca queste motivazioni:
"La disposizione di cui all'art. 16, comma 9, del DL 95 del
2012 impone un divieto assoluto d'assunzione con contratto a
tempo indeterminato. Le ragioni di tale divieto sono da
ricercarsi nella disciplina che prevede il riordino e la
razionalizzazione (con conseguente riduzione) delle province
... Le considerazioni -a fondamento della prevalenza per
materia della legislazione che prevede l'assunzione
obbligatoria di soggetti appartenenti alle ‘categorie
protette' sulla legislazione che prevede il divieto di
assunzione per limitare la spesa di personale- non paiono
estensibili con riguardo alla norma che vieta alle province
di effettuare assunzioni a tempo indeterminato nelle more
del processo di riduzione/razionalizzazione delle medesime;
si tratta, infatti, di una disposizione che esula da
motivazioni strettamente finanziarie per collocarsi su un
piano di razionalità organizzativa: stante la possibile
soppressione dell'ente datore di lavoro, il Legislatore ha
ritenuto corretto e doveroso cristallizzare la struttura
burocratica (nel comparto risorse umane) dello stesso, in
vista dell'accennata ‘soppressione' ed ancora che ‘In
definitiva, la norma, nelle more dell'attuazione delle
disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle
province, mira ad anticipare giuridicamente la stessa
condizione di impossibilità di fatto all'assunzione che
deriverebbe dall'eventuale estinzione dell'ente'. Pertanto,
per le considerazioni suesposte, non è possibile assumere
con contratto a tempo indeterminato lavoratori rientranti
nelle categorie protette entro la quota d'obbligo di cui
alla L. n. 68/1999, alla luce del divieto generale stabilito
dalla menzionata norma di cui all'art. 16, comma 9, del D.L.
n. 95/2012, convertito dalla L. n. 135/2012".
Si perviene, quindi, alla formulazione del seguente
principio:
"Il divieto, posto a carico delle
province, di assumere personale a tempo indeterminato, di
cui all'art. 16, comma 9, del D.L. 06.07.2012, n. 95,
convertito con modificazioni nella L. 07.08.2012, n. 135, è
tuttora in vigore. Tale divieto ricomprende anche le unità
di personale aventi diritto al collocamento obbligatorio
disposto dalla L. 12.03.1999, n. 68, nel caso in cui l'ente
debba assumerle per raggiungere la copertura della quota
d'obbligo prevista dalla legge medesima"
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 29.10.2013
n. 25 - tratto da www.publika.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le province non possono più assumere.
Il processo di riduzione e razionalizzazione delle province,
varato dal decreto legge della spending review dello scorso
anno, non si è certo arrestato, ma ha subito soltanto uno
spostamento temporale. Ne discende che, ad oggi, è operante
in capo alle province il divieto alle stesse di procedere ad
assunzioni di personale a tempo indeterminato. Inoltre, in
considerazione della ratio della disposizione legislativa,
che è quella di «cristallizzare» la struttura delle risorse
umane delle province in vista della loro soppressione, non è
altrettanto possibile assumere a tempo indeterminato
personale appartenente alle cosiddette categorie protette,
ex legge n. 68/1999.
Non ammette repliche la conclusione cui
è pervenuta la sezione autonomie della Corte dei conti, nel
testo della
deliberazione 29.10.2013
n. 25, con
cui ha fatto chiarezza su un aspetto particolare del
travagliato iter di riduzione e soppressione delle province,
rispondendo a due quesiti posti dalla Corte conti Emilia
Romagna.
Il primo, se sia ancora vigente il divieto di
assumere personale a tempo indeterminato da parte delle
province. Il secondo, se tale divieto ricomprenda anche le
unità di personale aventi diritto al collocamento
obbligatorio, quale appartenenti alle categorie protette
previste dalla legge n. 68/1999.
Come si ricorderà, con l'articolo 16, comma 9 del dl n.
95/2012, le province, nelle more dell'attuazione delle
disposizioni di riduzione e razionalizzazione, si è disposto
il divieto per le province di assumere personale a tempo
indeterminato. Con il dl n. 188/2012, poi, si era provveduto
a dare corso a queste disposizioni, ma tale dl non fu poi
convertito in legge. L'obiettivo del legislatore di
provvedere alla riduzione e soppressione degli enti
provinciali non è stato abbandonato, in quanto, nella legge
di stabilità per il 2013 (all'articolo 1, comma 115), a
causa della mancata conversione in legge del predetto dl n.
188, si è rinviato al 31.12.2013, l'attuazione delle norme
di razionalizzazione e riduzione degli enti provinciali.
Sulla scorta di questo quadro normativo, la sezione
regionale di controllo dell'Emilia Romagna della Corte ha
chiesto una pronuncia definitiva della sezione autonomie,
posto che altra sezione regionale della Corte (Corte conti
Lombardia, nel parere n. 44/2013) ha ammesso le assunzioni
di personale a tempo indeterminato, in quanto «il
ridimensionamento delle province doveva intendersi arrestato».
La sezione autonomie non ha condiviso tale assunto.
L'articolo 16 del decreto legge n. 95/2012 è tuttora in
vigore, non appare né arrestato né abbandonato, anzi,
procede con le migliori intenzioni, tenuto conto che il 20
agosto scorso il governo ha depositato un ddl recente misure
di abolizione delle province. Il legislatore ha solamente
rinviato l'adozione delle misure di ridimensionamento delle
province al 31.12.2013, con la conseguenza che le stesse non
possono assumere personale a tempo indeterminato.
Sulla stessa lunghezza d'onda le considerazioni relative
all'assunzione di personale appartenente alle categorie
protette. Nonostante la legge n. 68/1999 ne disponga
l'obbligatorietà, ci si trova di fronte al volere del
legislatore di «cristallizzare» il personale delle
province, in vista della loro soppressione
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
giurisprudenza della Sezione ha concluso che l’incentivo
alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque
lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni
dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di
un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione.
---------------
L’art. 92 del dlgs 163/2006 presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come
finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica
progettata.
Quanto espresso pare escludere dal novero delle attività
retribuibili con l’incentivo in questione i lavori di
manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di
parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in
riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o
meno ad eventi imprevedibili”.
---------------
Il Commissario Straordinario della Provincia di Como ha
formulato alla Sezione una richiesta di parere in merito
alla corresponsione dell’incentivo alla progettazione ex
art. 92 d.lgs. n. 163/2006 per alcune attività svolte dagli
Uffici Tecnici dell’Ente, del seguente testuale tenore.
Con riferimento al
parere 06.03.2013 n. 72
già pronunciato da questa Corte, l’organo rappresentativo
dell’ente chiede –a miglior chiarimento della tematica
ed evidenziate le modalità attuative utilizzate in merito
dalla Provincia- se sia corretto corrispondere
l’incentivo di cui al prefato art. 92 a personale dipendente
interno dell’Ufficio Tecnico coinvolto nella progettazione
di opere e di lavori di manutenzione ordinaria sulle strade
di competenza quali:
• Manutenzione ordinaria delle strade provinciali e loro
pertinenze;
• Manutenzione ordinaria della segnaletica;
• Manutenzione ordinaria di opere del verde;
• Manutenzione ordinaria di pareti rocciose, reti e
barriere paramassi.
Il Commissario precisa che le attività prestate dal
personale interno consistono nell’esecuzione delle procedure
previste per la realizzazione delle opere pubbliche in tutte
le fasi a partire dalla predisposizione di progetti nei
livelli necessari all’appalto: progettazione preliminare,
definitiva/esecutiva, passando per lo svolgimento di gara
pubblica, sino al conseguente svolgimento delle attività di
direzione lavori e coordinamento della sicurezza (ai sensi
dei Titoli II – X – parte II del DPR 207/2010).
I progetti sono redatti in conformità all’art. 105 “Lavori
di manutenzione” del D.P.R. 207/2010 e sono costituiti
dagli elaborati previsti dal medesimo: Relazione generale,
Elenco dei prezzi unitari delle lavorazioni previste,
computo metrico estimativo, Piano di sicurezza e di
coordinamento con l’individuazione analitica dei costi della
sicurezza da non assoggettare a ribasso nonché da Schema di
Contratto, Capitolato speciale d’appalto, Cronoprogramma dei
lavori, Corografia ed elaborati grafici di dettaglio ove
necessari.
L’Amministrazione evidenzia come la redazione di progetti di
manutenzione delle strade sia una necessità inderogabile e
non sostituibile dalla sola mera programmazione generale,
dettata dall’esteso patrimonio viario -circa 560 Km di
strade- dalla complessità e variabilità geomorfologica,
planoaltimetrica e tipologica delle strade provinciali e
relative strutture ed opere viarie quali rilevati stradali,
ponti e viadotti, muri di sostegno, muri di controriva e di
sottoscarpa, opere di contenimento di pareti, reti
paramassi, etc..
Precisa infine che l’ammontare complessivo della
manutenzione ordinaria si attesta annualmente su importi di
circa Euro 800.000,00/1.000.000,00 Euro la cui realizzazione
è prevista con inserimento nel programma triennale dei
lavori pubblici, e quindi trattasi di somme di non modesta
rilevanza economica, elemento che pare quanto meno di
rilievo nel
parere 13.11.2012 n. 293
della Corte dei Conti della Toscana .
...
Nel merito, l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006
recita: “Una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I
soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c),
possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Il comma 6 del medesimo articolo 92 recita: “Il trenta
per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
La fattispecie in esame è stata già oggetto di delibazione
in sede consultiva da parte di questa Sezione (parere
06.03.2013 n. 72),
come peraltro rammentato dalla medesima Amministrazione
istante; dagli approdi di cui alla predetta delibera -nel
prosieguo testualmente richiamati– non vi è ragione per
discostarsi in questa sede.
Orbene, il c.d. “incentivo alla
progettazione”, previsto dal Codice dei contratti
pubblici, rappresenta un’eccezione legale al principio per
cui il trattamento economico dei dipendenti pubblici è
fissato dai contratti collettivi, in quanto attribuisce un
compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti
dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione
decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006
deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e,
come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in
tal senso Corte dei Conti, Sezione reg. controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla littera legis,
la disposizione pone alcuni “paletti” per
l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la
disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un
regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259
di questa Sezione) paiono essere i
seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di
servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della
legittima erogazione, il necessario espletamento interno di
una o più attività (per esempio, la progettazione) purché,
come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al
due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza,
la somma concretamente prevista dal regolamento interno può
essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla
base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a
quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce
che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di
alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del
lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della
pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere
d’invito (cfr.,
per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84
del 17/03/2008). Quanto detto non esclude
che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare
l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione: obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione.
Sulla base di tali criteri, venendo più specificamente alla
fattispecie oggetto del quesito, la
giurisprudenza della Sezione ha concluso che l’incentivo
alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque
lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni
dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di
un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione
(parere
06.03.2013 n. 72,
diffusamente riportato in questa sede). Tale approdo
interpretativo è, ormai, consolidato nell’ambito della
giurisprudenza contabile: sul punto, ex multis, si
richiama la successiva pronuncia -resa in sede consultiva-
dalla Sezione regionale di controllo per la Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15, secondo cui “l’art.
92 presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi,
expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell’intera opera pubblica progettata. Quanto espresso pare
escludere dal novero delle attività retribuibili con
l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria,
peraltro finanziati con risorse di parte corrente del
bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori
in economia, siano essi connessi o meno ad eventi
imprevedibili”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.10.2013 n. 442). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Va condannato, per danno erariale, il responsabile del
servizio finanziario per aver liquidato al
Segretario Comunale il compenso in qualità di Presidente del
Nucleo di Valutazione.
L’art. 41, comma 6, del CCNL del
16/05/2001 stabilisce il principio di onnicomprensività
della retribuzione di posizione del Segretario comunale, a
corredo del quale è prevista –altresì– la possibilità di
riconoscere una maggiorazione di detto emolumento, che con
il contratto integrativo stipulato il 21/12/2003 è stata
fissata fino ad un massimo del 50%, in ragione della
riscontrata presenza di condizioni di natura soggettiva ed
oggettiva, indicate nel medesimo accordo.
Tra dette condizioni rientra anche la partecipazione al
Nucleo di valutazione e, già nell’agosto del 2003, l’ARAN
–in risposta a specifico quesito– indicava chiaramente che è
ammissibile una remunerazione separata (e aggiuntiva) per
tale attività soltanto qualora essa si collochi al di fuori
delle competenze ordinarie del segretario, altrimenti la
stessa può solo concorrere al riconoscimento della
maggiorazione di cui sopra.
----------------
Va posto quindi –doverosamente- l’accento sulla qualifica
dirigenziale rivestita dal responsabile del servizio
finanziario, in relazione alla quale s’impongono requisiti
di professionalità e conoscenza che la stabile
giurisprudenza di questa Corte reputa non legittimino alcuna
forma di ignorantia legis, men che mai nel settore di
specifica competenza.
Nel caso di specie, non può ammettersi che il responsabile
dell’ufficio finanziario di un Comune non abbia piena
cognizione e padronanza delle norme che regolano la
corresponsione dei trattamenti economici dei dipendenti e
del segretario comunale, così come non è ammissibile che non
faccia uso della propria autonomia decisionale per svolgere
un’istruttoria pur minima rispetto alla richiesta di un
compenso aggiuntivo, ovvero non ritenga di poter/dover
interloquire formalmente sulla questione con il segretario
comunale richiedente.
A ben vedere la situazione del segretario comunale era
assolutamente chiara: rivestendo di diritto il ruolo di
Presidente del Nucleo di valutazione e beneficiando –nel
periodo contestato– della maggiorazione massima della
retribuzione di posizione, a nessun titolo ed in alcuna
forma era possibile riconoscerle un ulteriore remunerazione
per quell’incarico.
---------------
Con atto di citazione depositato in data 11/05/2011, la
Procura Regionale ha convenuto in giudizio il sig. D.C.F.,
per sentirlo condannare –in qualità di Responsabile del
Servizio finanziario del Comune di Montecorvino Pugliano– al
pagamento della somma di € 5.400,00, a titolo di danno
erariale cagionato all’amministrazione comunale, in
relazione alla corresponsione in favore del Segretario
comunale p.t. (B.G.), di un compenso aggiuntivo, nel
triennio 2003/2006, per il suo incarico di Presidente del
Nucleo di valutazione.
...
Nel merito, la condotta del convenuto si palesa gravemente
colposa, per un duplice ordine profili, oggettivi e
soggettivi.
Innanzitutto è importante ribadire –anche in questa vicenda–
come il quadro normativo, ermeneutico ed applicativo di
riferimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei
suoi contenuti. L’art. 41, comma 6, del CCNL del 16/05/2001
stabilisce, infatti, il principio di onnicomprensività della
retribuzione di posizione del Segretario comunale, a corredo
del quale è prevista –altresì– la possibilità di riconoscere
una maggiorazione di detto emolumento, che con il contratto
integrativo stipulato il 21/12/2003 è stata fissata fino ad
un massimo del 50%, in ragione della riscontrata presenza di
condizioni di natura soggettiva ed oggettiva, indicate nel
medesimo accordo. Tra dette condizioni rientra anche la
partecipazione al Nucleo di valutazione e, già nell’agosto
del 2003, l’ARAN –in risposta a specifico quesito– indicava
chiaramente che è ammissibile una remunerazione separata (e
aggiuntiva) per tale attività soltanto qualora essa si
collochi al di fuori delle competenze ordinarie del
segretario, altrimenti la stessa può solo concorrere al
riconoscimento della maggiorazione di cui sopra.
Nel descritto contesto, il Regolamento, approvato dal Comune
di Montecorvino Pugliano nel 2002 per disciplinare
l’istituzione e il funzionamento dei servizi di controllo
interno e, in particolare, del Nucleo di valutazione,
prevede –all’art. 6, comma 3– che detto organo “...è un
collegio composto dal Segretario comunale, che lo presiede e
da n° 2 membri esperti esterni di provata qualificazione...”.
Come rilevato dal Requirente, il tenore di questa
disposizione non lascia spazio a dubbi circa il fatto che la
presidenza del Nucleo sia attribuita al segretario comunale
di diritto, ovverosia senz’altro ratione officii, non
trovando pertanto alcun riscontro gli assunti difensivi
secondo i quali, al contrario, la dott.ssa G. avrebbe
ricevuto quell’incarico per specifiche competenze
amministrative, non menzionate (né richieste) nella norma.
Altro dato pacifico nella fattispecie all’esame, è la
percezione da parte di costei –nel periodo considerato–
della misura massima della retribuzione di posizione, nonché
di un compenso separato per l’espletamento delle funzioni di
Direttore generale dell’ente.
A fronte dei summenzionati elementi fattuali e giuridici, va
posto quindi –doverosamente- l’accento sulla qualifica
dirigenziale rivestita dal D.C., in relazione alla quale
s’impongono requisiti di professionalità e conoscenza che la
stabile giurisprudenza di questa Corte reputa non
legittimino alcuna forma di ignorantia legis, men che
mai nel settore di specifica competenza. Nel caso di specie,
non può ammettersi che il responsabile dell’ufficio
finanziario di un Comune non abbia piena cognizione e
padronanza delle norme che regolano la corresponsione dei
trattamenti economici dei dipendenti e del segretario
comunale, così come non è ammissibile che non faccia uso
della propria autonomia decisionale per svolgere
un’istruttoria pur minima rispetto alla richiesta di un
compenso aggiuntivo, ovvero non ritenga di poter/dover
interloquire formalmente sulla questione con il segretario
comunale richiedente.
A ben vedere la situazione della dott.ssa G. era
assolutamente chiara: rivestendo ella di diritto il ruolo di
Presidente del Nucleo di valutazione e beneficiando –nel
periodo contestato– della maggiorazione massima della
retribuzione di posizione, a nessun titolo ed in alcuna
forma era possibile riconoscerle un ulteriore remunerazione
per quell’incarico. In proposito –diversamente da quanto
dedotto dalla difesa del convenuto- si palesa corretto e
conferente il richiamo, operato dalla Procura, alla sentenza
di questa Sezione n. 1775/2010, in cui detta affermazione è
suffragata da ampie argomentazioni, pienamente condivise
dall’odierno Collegio giudicante.
Nei descritti termini va accolta, altresì, l’identificazione
del danno erariale nell’intero ammontare delle somme
conferite. Come osservato più volte da questa Corte,
infatti, in fattispecie come queste non può trovare ingresso
il principio della compensatio lucri cum damno, con
cui è possibile dare rilievo ai risultati comunque
conseguiti dall’organo contestato nell’interesse della
comunità amministrata: il vizio che colpisce la struttura
e/o i poteri di un organo pubblico, infatti, fa sì che gli
oneri finanziari da questo generati siano completamente e
irrimediabilmente contra legem, e perciò
costituiscano integralmente danno erariale, restando così
preclusa qualsivoglia operazione compensativa.
Anche su questo punto, dunque, gli assunti difensivi vanno
respinti
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza 11.10.2013 n. 1347). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Al fine di determinare il corretto significato da attribuire
alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo
dell’art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163, la
Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso
dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte a tenore
del quale l’atto di pianificazione, comunque denominato,
debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere
pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione
territoriale redatto dal personale tecnico abilitato
dipendente dell’amministrazione (quale è ad esempio la
variante al vigente P.G.T.).
---------------
Il sindaco del comune di Legnano (MI), mediante nota n.
24233/2013, pervenuta alla Sezione in data 31.07.2013,
chiede di conoscere il parere della Corte circa la
possibilità di riconoscere l'incentivo previsto dall’art.
92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 in favore del personale
del comune incaricato di redigere una variante allo
strumento urbanistico generale.
Tale incarico prevede una revisione parziale dei documenti
del vigente P.G.T., trattandosi, nella fattispecie, di una
prestazione, non strettamente rientrante fra i compiti
d'ufficio, e consiste nella “diretta redazione di un atto di
pianificazione”, benché non correlata alla realizzazione di
un’opera pubblica.
Il sindaco sottolinea che la valorizzazione delle
professionalità interne dell’ente eviterebbe il ricorso ad
onerosi incarichi esterni.
...
Il quesito ripropone questioni che rientrano in un
consolidato orientamento consultivo delineato dalla Sezione,
posto che, a partire dalla deliberazione SRC Lombardia n.
1023/2010/PAR, l’orientamento della Sezione ha avuto ad
oggetto i requisiti di legge per poter affidare ai
dipendenti gli incarichi di progettazione, piuttosto che la
qualificazione giuridica degli atti di pianificazione ai
sensi dell’art. 93, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n.
163, a proposito della quale, il collegio si è espresso in
termini potenziali e generali.
Al fine di determinare il corretto significato da attribuire
alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo
dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs., 12.04.2006, n. 163, la
Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso
dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte
(cfr.
parere 30.08.2012 n. 290, riportato nel
precedente SRC Lombardia, deliberazione n. 453/2012/PAR. In
termini SRC Lombardia deliberazione n. 452/2012),
a tenore
del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato,
debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere
pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione
territoriale redatto dal personale tecnico abilitato
dipendente dell’amministrazione (quale è ad esempio la
variante al vigente P.G.T.).
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla
progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della
disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione
delle opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione), si condivide
l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri
atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non
è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo
ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente”
(In termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.;
cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57;
Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione
di compensi incentivanti al personale in servizio per la
redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92
comma 7 del D.Lgs. 12.04.2006, n.163, quale criterio da
prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi
necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede
di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni
statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità
del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen
juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo
contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già
corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza
attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
Non sussistono pertanto motivi per discostarsi dagli
orientamenti già espressi in materia (Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 27.09.2013
n. 391). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Transazioni, esame dei revisori solo sugli atti del
Consiglio. Corte conti. Il chiarimento della sezione di controllo del
Piemonte.
La Sezione di Controllo della Corte dei Conti per il
Piemonte, con il
parere 26.09.2013 n.
345, va in soccorso dei
revisori (e delle amministrazioni comunali), circoscrivendo
con chiarezza il contenuto dell'articolo 239, comma 1,
lettera b), del Tuel, la norma che stabilisce su quali atti
sia necessario il parere dell'organo di controllo.
Il Dl 174/2012 ha rivisto infatti le attribuzioni
dell'organo di revisione, ridefinendone e ampliandone i
contenuti, ma suscitando dubbi e incertezze, in particolare
sui pareri, con il risultato che i revisori sono stati
inondati di richieste sulle questioni più varie.
La Corte dei conti del Piemonte risponde a un Comune che
chiede se sia compito del collegio esprimersi o meno su
tutte le proposte di transazione. Rispondendo, i magistrati
contabili ribadiscono l'importante principio di carattere
generale che: «L'esame di casi nei quali è richiesto il
parere del Collegio conferma che si tratta di un'attività di
collaborazione che riguarda le attribuzioni consiliari nelle
materie economico-finanziarie, propedeutica all'assunzione
delle delibere di competenza del Consiglio».
In sostanza, il
Collegio si deve esprimere solo quando la competenza degli
atti è consiliare. Pertanto, l'obbligo di parere è limitato
a pochi e specifici casi, ovvero, ad esempio, le proposte di
transazione riferite a passività per le quali non è stato
assunto uno specifico impegno di spesa, gli accordi che
comportano variazioni di bilancio, l'assunzione di impegni
per gli esercizi successivi (articolo 42, comma 2, lettera
i), del Tuel) o ancora le transazioni che incidono su
acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute
(articolo 42, comma 2, lettera l) del Tuel).
Sempre in tema di transazioni, è utile ricordare che da
tempo la Corte dei conti distingue con nettezza le
transazioni dai debiti fuori bilancio, sottolineando che gli
accordi transattivi non necessariamente comportano un atto
di Consiglio comunale. È sintomatica la delibera 132/2010
della sezione di controllo per la Toscana, che, nell'ambito
della sua «Relazione generale sul fenomeno dei debiti fuori
bilancio e linee di orientamento in materia» precisa che
«gli accordi transattivi presuppongono la decisione
dell'Ente di pervenire ad un accordo con la controparte per
cui è possibile per l'Ente definire tanto il sorgere
dell'obbligazione quanto i tempi dell'adempimento».
In
ragione di ciò, «nel caso in cui l'ente a fronte di una
sentenza esecutiva, voglia (...) pervenire ad un accordo
transattivo, non si rende necessario il riconoscimento della
legittimità del debito che peraltro risulterebbe
contraddittorio rispetto al contenuto della volontà
transattiva che si vuole porre in essere».
In sostanza, le transazioni che devono essere sottoposte a
parere obbligatorio dell'organo di revisione sono solo
quelle destinate a essere oggetto di una decisione di
Consiglio comunale, e non anche gli accordi che si
concludono in determinazioni dirigenziali o atti di Giunta.
Ancora, non dando necessariamente luogo a debiti fuori
bilancio non dovranno, a differenza di questi ultimi, essere
comunicati alla Procura della Corte dei conti (e quindi
l'organo di revisione non dovrà neppure preoccuparsi di
verificare ciò).
Gli orientamenti della Corte sono molto utili non solo ai
revisori, che si liberano così di una incombenza, ma
soprattutto alle amministrazioni comunali, perché da una
parte contribuiscono a rimuovere le remore a stipulare
transazioni, dall'altra a semplificare la procedura degli
accordi transattivi
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2013). |
ENTI LOCALI: Utilizzare l'avanzo non è tabù.
Il divieto vale in caso di ricorso reiterato o continuativo.
Dalla Corte conti Piemonte un utile chiarimento per gli enti
alla prese con gli assestamenti.
Il divieto di utilizzare l'avanzo di amministrazione non
vincolato per gli enti che fanno ricorso all'anticipazione
di cassa non si pone in termini assoluti, ma solo in
presenza di un ricorso reiterato o continuativo a tale forma
di finanziamento. Esso, inoltre, opera esclusivamente in
costanza di utilizzo dell'anticipazione stessa.
Il doppio chiarimento è stato fornito dalla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per il Piemonte
nel recente
parere
29.08.2013 n. 310 e risulta particolarmente
utile agli enti che si apprestano a procedere
all'assestamento di bilancio.
Come noto, il comma 3-bis dell'art. 187 del Tuel, introdotto
dall'art. 3, comma 1, lett. h), del dl 174/2012, vieta
l'utilizzo, da parte degli enti locali, dell'avanzo di
amministrazione non vincolato, nelle situazioni previste
dagli artt. 195 (Utilizzo di entrate a specifica
destinazione) e 222 (Anticipazioni di tesoreria) del Tuel,
fuorché per i provvedimenti di riequilibrio di cui
all'articolo 193 dello stesso Tuel.
Come rileva il parere in commento, la ratio della norma
richiamata è quella di impedire che enti in condizioni di
cassa deficitarie possano incrementare le spese per effetto
della capacità autorizzatoria del bilancio di previsione,
senza un corrispondente effettivo incremento delle entrate
di competenza.
Analogo discorso vale per l'utilizzo delle entrate a
specifica destinazione, non a caso consentito per un importo
non superiore all'anticipazione disponibile e con insorgenza
di un vincolo su quest'ultima per una quota corrispondente.
Oltre alla salvaguardia degli equilibri contabili, il
legislatore ha contemplato una sola deroga espressa al
divieto, a favore degli enti che hanno fatto ricorso
all'anticipazione per compensare il mancato introito del
gettito dell'Imu a seguito della sospensione dell'obbligo di
pagamento della prima rata disposta, per alcune tipologie di
immobili, dall'art. 1 del dl 54/2013.
La sezione piemontese, invece, sulla base di una
condivisibile interpretazione sistematica, chiarisce
opportunamente che il divieto non si applica neppure alle
situazioni in cui l'ente, pur sopperendo a momentanee
carenze di liquidità, quantitativamente limitate, mediante
anticipazioni di cassa tempestivamente rimborsate, sia
comunque in grado di acquisire entrate sufficienti a
garantire i propri equilibri di bilancio durante l'esercizio
finanziario.
La pronuncia ha anche il pregio di chiarire un ulteriore
aspetto controverso della disciplina in esame, ovvero la
portata temporale del divieto.
In effetti, il ricorso all'anticipazione di tesoreria (così
come, analogamente, l'utilizzo delle entrate a specifica
destinazione) non si cristallizza, per così dire, in un
momento preciso, ma è normalmente variabile nel corso
dell'esercizio finanziario, ovviamente nei limiti
quantitativi autorizzati dalla deliberazione della giunta.
In altri termini, nel corso del medesimo esercizio, l'ente
può andare in anticipazione, rientrare, riattivarla e
rientrare nuovamente. In simili casi, il divieto opera solo
in costanza di utilizzo dell'anticipazione di cassa,
situazione in cui versa l'ente locale che, avendo deliberato
in merito, non abbia ancora provveduto al relativo rimborso.
Sempre in tema di utilizzo dell'avanzo, ricordiamo che il
parere n. 437/2013 della Corte dei conti Lombardia ha
precisato che quest'anno i comuni possono applicarlo in
parte corrente anche in sede di bilancio di previsione se
provvedono ad approvare contestualmente la variazione
generale di assestamento ex art. 175 del Tuel
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il gruppo dà diritto di parola.
Non può intervenire il consigliere che resta da solo.
La materia è rimandata al regolamento e allo statuto che
possono prevedere diversamente.
Un consigliere comunale, fuoriuscito dal gruppo di
appartenenza senza aderire ad altro gruppo, quante volte e
per quanto tempo può intervenire nel corso della seduta
consiliare? Può rendere, anche ai fini di una sua
responsabilità, la dichiarazione di voto una volta terminata
la discussione?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che
possono sopravvenire all'interno delle forze politiche
presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti
locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione,
i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e
regolamentari, nella materia. Nel caso di specie, lo statuto
del comune prevede che «ogni consigliere deve poter svolgere
liberamente le proprie funzioni»; inoltre dispone che «i
consiglieri si costituiscono in gruppi, secondo le modalità
stabilite dal regolamento».
Peraltro, la disciplina dettata dallo statuto del comune non
appare esaustiva, in quanto la norma citata si limita a
fornire indicazioni in merito solo alla formazione dei
gruppi all'atto dell'insediamento nel consiglio comunale. Il
regolamento comunale prevede, invece, una disciplina più
dettagliata, stabilendo, che i gruppi sono formati da un
numero minimo di tre consiglieri, derogabile solo nel caso
in cui si tratti di consiglieri eletti nella medesima lista.
Solo in tale ultima eventualità è ammessa la costituzione di
gruppi unipersonali, pertanto il consigliere che si
distacchi dal gruppo originario e che non aderisca ad altri
gruppi non acquisisce le prerogative spettanti al gruppo
consiliare.
Per quanto riguarda gli interventi dei
consiglieri nel corso delle sedute, il regolamento, nel
disciplinare la facoltà di intervento, a volte fa
riferimento al singolo consigliere, altre al gruppo
consiliare, facendo supporre che colui che non appartiene a
nessun gruppo, fattispecie indirettamente prevista, non
possa intervenire nella discussione. In particolare, per le
dichiarazioni di voto, una volta terminata la discussione,
può intervenire, «un solo consigliere per ogni gruppo»,
formulazione che letteralmente escluderebbe la possibilità
di esposizione della dichiarazione di voto da parte dei
consiglieri che non appartengono ad alcun gruppo.
Il
regolamento, pertanto, ha disciplinato gli interventi
affidando maggiore spazio ai capigruppo in quanto questi
agiscono in qualità di portavoce dei consiglieri che fanno
parte dei medesimi gruppi, e di converso non ha riconosciuto
al consigliere che per sua scelta non faccia parte di alcun
gruppo gli stessi spazi previsti per i capigruppo, potendo
invero svolgere i propri interventi nelle medesime modalità
riconosciute ai singoli consiglieri non capigruppo.
Ciò
posto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è
interamente demandata allo statuto e al regolamento sul
funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero
trovare adeguata soluzione le relative problematiche
applicative, posto che, diversamente, sarebbero necessarie
modifiche ed integrazioni a tali fonti di disciplina locale.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale,
oltre che trovare soluzioni per le singole questioni,
valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche
regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Diritto di accesso.
È legittima la richiesta di accesso alle concessioni
edilizie rilasciate da un comune, effettuata da un cittadino
che esercita la professione di geometra ai sensi
dell'articolo 10 del Tuel n. 267/2000?
L'articolo 22, comma 2, della legge n. 241/1990 prevede che
«l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e
la trasparenza».
In materia di enti locali, l'articolo 10
del dlgs n. 267/2000 dispone che tutti gli atti
dell'amministrazione comunale sono pubblici, e rinvia alla
previsione regolamentare la disciplina delle modalità di
esercizio del diritto di accesso che deve essere assicurato
a tutti i cittadini. L'art. 124 del dlgs n. 267/2000 prevede
la pubblicazione all'albo pretorio di tutte le deliberazioni
del comune, che pur essendo soggetta ad una limitazione
temporale, consente, tuttavia, a chiunque di prendere
visione degli atti prodotti.
In materia la commissione
d'accesso ai documenti amministrativi del 27.03.2003,
nonché il parere del 14.10.2003, hanno rinviato alla
decisione n. 549 del 23.05.1997 con la quale il
Consiglio di stato, V sezione, ha riconosciuto che «in virtù
dell'art. 22 della legge 241 del 1990, qualsiasi soggetto
abitante nel comune ha diritto di accesso agli atti relativi
a una concessione edilizia rilasciata dal sindaco».
Secondo
quanto rilevato dalla Commissione d'accesso, trattandosi di
diritto del cittadino di accedere ai documenti del proprio
comune, la materia è soggetta non alla disciplina generale
della legge n. 241/1990 ma a quella particolare della legge
17.08.1942, n. 1150, che all'art. 31, comma 8,
stabilisce che «chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali della concessione edilizia e dei relativi
atti di progetto», e del dlgs. n. 267/2000 T.u. delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, art. 10.
La legge n. 1150/1942 è stata sostituita, tra le altre,
anche dal dpr n. 380 del 06/06/2001, recante il Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, il quale pur non avendo riproposto il contenuto
dell'articolo 31, comma 8, ha mantenuto, all'art. 20, la
disposizione relativa alla pubblicità del permesso di
costruire mediante affissione all'albo pretorio, ferma
restando la più generale applicazione dell' articolo 10 del
T.u. n. 267/2000.
I permessi per costruire, pertanto, non sono soggetti a
particolare riservatezza potendo essere conosciuti da
qualsiasi cittadino, ferma restando la necessità del
rispetto delle linee guida in materia di trattamento di dati
personali per finalità di pubblicazione e diffusione di atti
e documenti di enti locali, adottate dal Garante per la
protezione dei dati personali con deliberazione n. 17 del 19.04.2007, nonché l'opportunità della valutazione in
ordine alla individuazione di eventuali controinteressati
che abbiano titolo ad essere avvisati con le modalità di cui
all'articolo 3 del dpr 12.04.2006, n. 184. Nondimeno, la
richiamata legge n. 241/1990, all'art. 24, comma 3, dispone
che «non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a
un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche
amministrazioni»
Tale assunto è stato confermato anche dalla Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi che, con delibera in
data 27.02.2013, ha rilevato che il diritto d'accesso
ai documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non
si atteggia come una sorta di azione popolare diretta a
consentire una forma di controllo generalizzato
sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno
strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un
soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in
ambito locale.
Al contrario, da un lato, l'interesse che
legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato
caso per caso, deve essere personale e concreto e
ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e,
dall'altro, la documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse, oltre che
individuata o ben individuabile (così Cds, sez. VI, n.
820/1998)
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sito contaminato.
Proprietario non responsabile dell'inquinamento: a chi
spetta l'onere di bonifica?
Domanda
Nel caso in cui il proprietario di un sito contaminato non
sia anche il responsabile dell'inquinamento, e quest'ultimo
non sia identificabile, a chi spetta l'onere di bonifica?
Risposta
La questione relative all’individuazione dei soggetti ai
quali spetta l’onere di bonificare un sito contaminato è da
sempre stata molto dibattuta, e ha visto la stessa
giurisprudenza dividersi in due scuole di pensiero.
Da una parte ci sono quei giudici amministrativi che,
evidenziando la necessità di far uso dei principî posti alla
base della presunzione di responsabilità oggettiva del
proprietario di un suolo, hanno affermato che:
• il proprietario di un sito contaminato si presume
responsabile, secondo quanto previsto dalle regole
civilistiche, dei danni cagionati a terzi dalle cose in
custodia, inclusi i danni derivanti dall’inquinamento
presente nel sito, salvo che non provi il caso fortuito o il
fatto altrui;
• il principio comunitario «chi inquina paga» imputa
il danno a chi si trovi nelle condizioni di controllare i
rischi, cioè imputa il costo del danno al soggetto che ha la
possibilità della cost-benefit analysis, per cui lo
stesso deve sopportarne la responsabilità per essersi
trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più
adeguata per evitarlo in modo più conveniente.
Dall’altra, invece, quella giurisprudenza che, nel mettere
in evidenza le conseguenze paradossalmente dannose per
l’ambiente di tale impostazione ermeneutica "l’adozione
di un criterio di responsabilità oggettiva in capo alle
imprese, connesso a rischi oggettivi di impresa, non
garantisce una migliore tutela del valore della difesa
ambientale, rispetto ad un sistema di “due care”, perché
finirebbe con l’incentivare il danno ambientale, invece di
impedirlo o di portare a rimuoverne durevolmente le cause
prima ancora che gli effetti, risultato che si ottiene solo
promuovendo un corretto rapporto tra la produzione e
l’ambiente”. Si tratta di una via semplice, perché
facilmente percorribile: ipotizzando che la PA recuperi i
costi integrali della bonifica a carico del
proprietario-detentore incolpevole del suolo, spetterebbe a
quest’ultimo la rivalsa sul precedente
proprietario-possessore inquinante, con tutte le difficoltà
operative che tale operazione comporta" ha affermato che
la P.A. non può imporre ai soggetti che non abbiano alcuna
responsabilità diretta con la contaminazione di un suolo, ma
che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo
svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
Tale principio, conforme a quello comunitario del «chi
inquina paga» vale, oltre che per le misure di bonifica,
anche per le misure di messa in sicurezza d’emergenza.
Di recente, nell’analizzare questo contrasto
giurisprudenziale, la sesta sezione del Consiglio di Stato
ha rimesso all’adunanza plenaria la seguente questione di
diritto: in base al principio di matrice comunitaria
compendiato nella formula “chi inquina paga”,
l’Amministrazione nazionale può imporre al proprietario di
un’area inquinata, che non sia anche l’autore
dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di
messa in sicurezza di emergenza, sia pure, in solido con il
responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del
responsabile per gli oneri sostenuti?
L’adunanza plenaria ha risposto in senso negativo,
conformandosi all’orientamento contrario a qualsiasi ipotesi
di responsabilità oggettiva: l’Amministrazione non può
imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia
ancora l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in
essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e di
bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario “incolpevole”
restano limitati a quanto espressamente previsto
dall’articolo 253 del testo unico ambientale, in tema di
onere reali e privilegi speciale immobiliare.
Di conseguenza, nel caso in cui il proprietario di un sito
contaminato non sia anche il responsabile dell’inquinamento,
e quest’ultimo non sia identificabile, spetta al Comune
territorialmente competente la realizzazione degli
interventi di bonifica dei siti contaminati.
Nel caso in cui neanche l’amministrazione comunale provveda,
spetta alla regione, secondo l’ordine di priorità fissati
dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate,
avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati,
individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza
pubblica (07.11.2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Responsabile del procedimento.
Solo qualora il responsabile del
procedimento risulti titolare di posizione organizzativa,
sarà legittimato a firmare i provvedimenti finali espressivi
di volontà verso l'esterno.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
nominare un dipendente di categoria C, non titolare di P.O.,
quale responsabile del procedimento con firma di atti
esterni (ad es., accertamenti).
La questione posta dall'Ente, riferita al responsabile del
procedimento, va esaminata considerando la disciplina
generale del procedimento amministrativo, così come dettata
dalla l. 241/1990.
L'art. 5, comma 1 (Responsabile del procedimento), della
predetta legge dispone che 'Il dirigente di ciascuna
unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro
dipendente addetto all'unità la responsabilità
dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il
singolo procedimento, nonché, eventualmente, dell'adozione
del provvedimento finale'.
Il comma successivo stabilisce che, fino a quando non sia
effettuata tale assegnazione, è considerato responsabile del
singolo procedimento il funzionario preposto alla singola
unità organizzativa competente.
Ciò significa che di norma il responsabile del procedimento
coincide con il dirigente di ciascuna unità organizzativa o
con il funzionario preposto all'ufficio stesso, che assume
la veste di responsabile di tutti i procedimenti, a partire
dal loro impulso fino alla loro conclusione.
La sua competenza in merito all'adozione del provvedimento
finale discende, in primis, dalla posizione giuridica e
professionale di dirigente di una pubblica amministrazione
(e, per analogia, dalla titolarità di posizione
organizzativa nelle amministrazioni locali prive di
posizioni dirigenziali, ai sensi dell'art. 40 e successivi
del CCRL del 07.12.2006), al quale, ai sensi delle
disposizioni di cui agli artt. 107, comma 2 e 109, comma 2,
del d.lgs. 267/2000, è attribuita espressamente la
competenza all'adozione di atti e provvedimenti che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nell'ambito del
suo potere di gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa.
Pertanto, il dirigente/titolare di posizione organizzativa
preposto alla direzione di una unità organizzativa cessa
dalla posizione di responsabile del procedimento nel momento
in cui assegna il singolo procedimento ad altro dipendente
addetto alla medesima struttura.
In tal caso, su questo soggetto nominato responsabile del
procedimento vengono ad incentrarsi una serie di
attribuzioni ampiamente descritte all'art. 6 della L.
241/1990, connesse all'impulso, agli avvisi,
all'istruttoria, alla comunicazione del provvedimento e,
soltanto quando ne abbia la competenza, all'adozione del
provvedimento finale.
Infatti, per quanto concerne, nello specifico, il problema
della competenza all'emanazione del provvedimento finale, la
questione non può essere trattata separatamente dalla
verifica della posizione giuridica e professionale del
soggetto cui è affidata la rappresentanza esterna della
pubblica amministrazione.
La necessità di tale verifica è resa evidente dalla
combinazione della previsione di cui all'art. 5, comma 1,
della l. 241/1990 richiamato, che prevede eventualmente
l'adozione del provvedimento finale da parte del
responsabile del procedimento, e della previsione di cui
all'art. 6, comma 1, lett. e), della medesima legge, che
prescrive che il responsabile del procedimento adotta il
provvedimento finale 'ove ne abbia la competenza',
ovvero, in caso contrario, impone la trasmissione degli atti
all'organo competente per l'adozione.
In virtù del disposto dell'art. 4, comma 2, del d.lgs.
165/2001, solo i dirigenti (o figure equiparate come i
titolari di posizione organizzativa) possono impegnare
l'amministrazione verso l'esterno, per cui non sarà
possibile attribuire il potere di gestione se non ai
responsabili formalmente incaricati.
Un autorevole parere del Consiglio di Stato
[1]
chiarisce la portata della figura del responsabile del
procedimento, evidenziando che l'attribuzione di tali
funzioni implica l'assegnazione della responsabilità
dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al
procedimento, rimanendo 'solo eventuale' l'adozione
del provvedimento finale, che resta, invece, attribuzione
propria del dirigente/titolare di posizione organizzativa.
Ne consegue pertanto che le funzioni di responsabile del
procedimento sono organizzative e propulsive e non hanno
necessariamente natura dirigenziale.
Si ha conferma di un tanto anche esaminando le declaratorie
riportate all'allegato A del CCRL del 07.12.2006, riferite
alle categorie di inquadramento professionale C e D.
Nell'elencare le mansioni peculiari di dette categorie, si è
evidenziato espressamente che vi rientra anche la
possibilità di firma di atti finali, in quanto attribuita e
relativa alle mansioni di competenza, laddove non aventi,
però, contenuti espressivi di volontà con effetti esterni.
Dal quadro complessivo sopra delineato, emerge quali siano
le rispettive competenze attribuite ed esercitabili da parte
del responsabile del procedimento e da parte del
dirigente/titolare di posizione organizzativa. In
particolare, si sottolinea che rientra nella competenza
esclusiva del dirigente/titolare di posizione organizzativa
l'adozione e la conseguente firma di tutti gli atti finali,
espressivi di volontà verso l'esterno (provvedimenti di
autorizzazione, accertamenti, ecc.).
---------------
[1] Cfr. Sez. I, n. 304 del 03.03.2004 (06.11.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione
con ampliamento.
Domanda
A breve inizierò un intervento di ristrutturazione con un
piccolo ampliamento che potrebbe rientrare in una casistica
citata su un vostro fascicolo del 20.08.2012 ItaliaOggi
Sette: Ristrutturazioni e risparmio energetico - nella
pagina 3 al penultimo capoverso del capitolo che vi
trascrivo testualmente: «... Possono, essere ammessi alla
detrazione fiscale i costi degli interventi di ampliamento
degli edifici esistenti, purché con tale ampliamento non si
realizzino unità immobiliari utilizzabili autonomamente».
Chiedo se tale indicazione deriva da una risoluzione, da una
circolare dell'Agenzia della entrate o da quale altro
documento ministeriale.
Risposta
La guida alle agevolazioni fiscali per le ristrutturazioni
edilizie (edizione di ottobre 2013, disponibile sul sito «agenziaentrate.it»
nella sezione accessibile dalla home page dedicata alle
guide fiscali) ribadisce, conformemente alla prassi
pregressa, che alla detrazione del 50% possono essere
ammessi gli ampliamenti di superfici e volumi preesistenti
relativi alla creazione di servizi igienici (pag. 11) oppure
(pag. 26) di volumi tecnici («Demolizione e/o costruzione di
scale, vano ascensore, locale caldaia ecc. con opere interne
ed esterne»).
Salvo quanto precede, se la ristrutturazione
avviene, senza demolire l'edificio, con ampliamento dello
stesso, allora la Guida precisa che la detrazione spetta
solo per le spese riguardanti la parte esistente in quanto
l'ampliamento configura, comunque, una «nuova costruzione»,
inclusi gli ampliamenti in attuazione dei «Piani Casa», come
già precisato nella ris. n. 4/E/2011 (pag. 12).
Se questo è il caso oggetto del quesito, trova riscontro
negativo la possibilità di fruire della detrazione per la
parte in ampliamento.
Infine, la ristrutturazione potrebbe avvenire mediante
demolizione e «fedele» ricostruzione, il che richiede il
rispetto dei requisiti precisati dall'art. 3, 1° c., lettera
d), del dpr n. 380/2001 (T.u. dell'edilizia): tale
definizione è stata sensibilmente modificata dall'art. 30
del dl «del fare» (n. 69 del 21.6.2013, convertito dalla
legge 09.08.2013 n. 98), cosicché, dal 21.08.2013, con
l'eccezione dei fabbricati vincolati (per i quali continua a
valere la vecchia definizione), se la ricostruzione rispetta
il volume precedente e non anche la sagoma (fino alla citata
modifica occorreva rispettare sia il volume che la sagoma
preesistenti) costituisce comunque ristrutturazione.
Diversamente, si ricade nella «nuova costruzione», alla
quale non si può applicare la detrazione per il recupero
edilizio.
Con questa ultima precisazione, frutto del recente
aggiornamento normativo, deve essere intesa l'affermazione,
contenuta a pag. 11 della Guida dell'Agenzia delle entrate,
laddove si afferma che «per la demolizione e
ricostruzione con ampliamento, la detrazione non spetta in
quanto l'intervento si considera, nel suo complesso, una
«nuova costruzione»
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.11.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - EDILIZIA PRIVATA:
Un consigliere comunale può accedere agli atti relativi al
rilascio di un permesso di costruire e poi chiederne copia?
Un Comune ha
chiesto un parere in merito alla richiesta di accesso agli
atti, relativi al rilascio di un permesso di costruire e
alle connesse comunicazioni, effettuata da un consigliere
comunale. In particolare, il consigliere, che avrebbe già
preso visione degli atti, ha successivamente chiesto copia
della documentazione.
Il responsabile del servizio, in funzione della asserita
natura riservata dei documenti, ha chiesto se sia obbligato
a comunicare la richiesta del consigliere al titolare del
permesso a costruire, nella qualità di interessato al
procedimento e se sussista, in capo ai consigliere
richiedente un dovere di "astensione", per eventuale
conflitto di interesse, anche nel caso di accesso agli atti.
Al riguardo, come più volte sostenuto sia dalla Commissione
per l'Accesso ai documenti amministrativi il "diritto di
accesso" e il "diritto di informazione" dei consiglieri
comunali nei confronti della Pa trovano la loro disciplina
specifica nell'articolo 43 del Dlgs 267/2000 (Testo unico
degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e
provinciali il "diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle
loro aziende ed Enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all'espletamento dei
proprio mandato".
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento
in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini
più ampi sia del diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del
Comune di residenza (articolo 10 del Tuel) sia, più in
generale, nei confronti della Pa quale disciplinato dalla
legge 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus espletato dai consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con piena
cognizione di causa la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza della Pa,
opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica
e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior
ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere
comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente
deputata allo svolgimento di! compiti di controllo e
verifica dell'operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la
propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente
opinando, la Pa si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di
sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri
(articoli 4 e 14 del Dlgs 265/2001) sancita per gli Enti
locali dall'articolo 107 del Dlgs 267/2000, che richiama il
principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza dei Consiglio di Stato si è orientata nel
senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti
un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che
possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in
cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato
istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi dì
tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati
personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza
(secondo la quale, ai sensi dell'articolo 43, comma 2, Dlgs
18.08.2000 n. 267, i consiglieri comunali e provinciali
"sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati
dalla legge").
L'eventuale segretezza (delle indagini o professionale) che
pure opera nei confronti del consigliere comunale non è
quella legata alla natura dell'atto, ma al suo comportamento
che non può essere divulgativo ("nei casi specificamente
determinati dalla legge") del contenuto degli atti ai quali
ha avuto accesso, stante il vincolo previsto in capo al
consigliere comunale dal citato articolo 43 all'osservanza
del segreto d'ufficio nelle ipotesi specificatamente
determinate dalla legge, nonché al divieto di divulgazione
dei dati personali ai sensi del Dlgs 196/2003 e successive
modificazioni (in senso favorevole Tar Toscana, Firenze,
Sezione II, 06.04.2007 n. 622).
Nel caso specifico, peraltro, occorre fare riferimento al
parere della Commissione d'accesso del Comune … nonché al
parere del ... di rinvio alla decisione n. 549 del 23.05.1997 con cui il Consiglio di Stato, V sezione ha
riconosciuto che "in virtù dell'articolo 22 della legge
241/1990, qualsiasi soggetto abitante nel Comune ha diritto
di accesso agli alt relativi a una concessione edilizia
rilasciata dal sindaco".
In particolare, secondo quanto rilevato dalla Commissione
d'accesso, trattandosi di diritto del cittadino di accedere
ai documenti del proprio Comune, la materia è soggetta non
alla disciplina generale della legge 241/1990, ma a quella
particolare della legge 17.08.1942 n. 1150, che
all'articolo 31, comma 8, stabilisce che "chiunque può
prendere visione presso gli uffici comunali della
concessione edilizia e dei relativi atti di progetto" e
dell'articolo 10 del Dlgs 267/2000.
Tuttavia occorre precisare che la legge 1150/1942 è stata
sostituita, tra le altre anche dal Dpr 380/2001, recante il
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia, il quale pur non avendo riproposto il
contenuto dell'articolo 31, comma 8, tuttavia ha mantenuto
all'articolo 20 la disposizione relativa alla pubblicità del
permesso di costruire mediante affissione all'albo pretorio,
ferma restando la più generale applicazione dell' articolo
10 del Tuel.
Ciò comprova ulteriormente che anche i permessi per
costruire non sono soggetti a particolare riservatezza
potendo essere conosciuti da qualsiasi cittadino, A maggior
ragione, il consigliere comunale, essendo portatore di un
interesse pubblico, non sindacabile dagli uffici comunali,
non può essere escluso dall'accesso e conseguentemente ha
diritto ad ottenere copia degli atti, fatto salvo il loro
utilizzo per finalità esclusivamente istituzionali (novembre 2013 - tratto da Guida agli Enti Locali). |
NEWS |
APPALTI: CONSIGLIO DEI MINISTRI/
Appalti, sconti alle ditte verdi.
Cauzioni e garanzie giù del 20% a chi è eco-certificato.
Nel Collegato ambiente criteri
ecologici minimi nei bandi.
Arriva un incentivo per gli operatori economici che
partecipano ad appalti pubblici e sono muniti di
registrazione Emas o Ecolabel: sarà ridotta del 20% la
cauzione a corredo dell'offerta. Il bonus sarà esteso anche
alla garanzia di esecuzione, prestata dall'aggiudicatario. E
negli appalti pubblici di forniture e negli affidamenti di
servizi diventeranno obbligatori anche i cosiddetti criteri
ambientali minimi (Cam, definiti ai sensi del decreto
interministeriale 11.04.2008): il costo di prodotti e
dei servizi non sarà più riferito al mero prezzo di
acquisto, ma al costo che il bene ha nel suo ciclo di vita.
I nuovi criteri saranno vincolanti nei bandi e nei documenti
di gara relativi agli acquisti della p.a., a partire dalla
ristorazione collettiva e dalle derrate alimentari.
Sono due
delle principali novità contenute in un disegno di legge
collegato alla legge di stabilità, esaminato ieri in via
preliminare dal consiglio dei ministri. Il testo reca
disposizioni per promuovere misure di green economy e di
contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali.
Ma
andiamo per punti, dicendo subito che il Collegato estende
anche il ventaglio applicativo del principio di
responsabilità in capo al produttore di rifiuti. Che ricadrà
anche sui proprietari di navi che trasportano carichi
inquinanti. Petrolieri in primis.
Appalti verdi. Verrà introdotto un incentivo per le imprese
munite di registrazione Emas (che certifica la qualità
ambientale dell'organizzazione aziendale) e marchio Ecolabel
(che certifica la qualità ecologica dei prodotti,
comprensivi di beni e servizi). Come detto, partecipando ad
appalti pubblici questi operatori beneficeranno di un taglio
del 20% della cauzione a corredo dell'offerta. Beneficio che
si estenderà anche alla garanzia di esecuzione, prestata
dall'aggiudicatario. L'obiettivo è introdurre tra i criteri
ambientali di valutazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa anche quello per cui le prestazioni oggetto del
contratto siano dotate di marchio Ecolabel. In più, tra i
criteri, il collegato ambientale introduce anche il costo
del ciclo di vita dell'opera, del prodotto o del servizio.
Sul fronte certificazioni ambientali, invece, basterà la
mera Valutazione di impatto ambientale (Via) per autorizzare
le attività di scarico in mare di acque derivanti da
attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi. Stessa
cosa per le attività di movimentazione fondali per la posa
di cavi e condotte. Verranno, quindi, unificate in una sola
le commissioni tecniche per il rilascio di Via (Valutazione
di impatto ambientale), Vas (Valutazione ambientale
strategica) e Aia (Autorizzazione integrata ambientale). La
misura, che punta a contenere i costi a carico dello stato,
detta anche un taglio dei componenti le rispettive
commissioni. La cui attività, però, sarà svolta da
sottocommissioni facenti capo alla commissione unificata.
Sul versante emissioni inquinanti, invece, il ddl esenta
tutta una serie di impianti a scarso inquinamento dagli
obblighi di incassare l'autorizzazione alle emissioni in
atmosfera. Avranno meno vincoli le linee di trattamento
fanghi, gli essiccatoi agricoli, gli allevamenti in ambienti
confinati a basso numero di capi e le cantine. Siano esse di
vino, aceto e altre bevande fermentate. In più, i vincoli
relativi al controllo delle emissioni a effetto serra
decadranno anche per i velivoli di stato e per quelli legati
alla sicurezza nazionale.
I cambi di governance.
La prima rivoluzione di poteri riguarda i Parchi nazionali:
il ddl punta a sottrarre la nomina dei direttori di Parco al
ministro dell'ambiente, per affidarla ai rispettivi consigli
direttivi. In più, viene disposta la cancellazione dell'albo
direttori di Parco nazionale. Sul fronte rifiuti, invece,
archiviato l'Osservatorio nazionale, tornerà al ministro
dell'ambiente il compito di attuare le norme nel settore
imballaggi e rifiuti di imballaggio. Al dicastero spetterà
anche il controllo sui consorzi, la gestione del gettito del
contributo ambientale e il riconoscimento dei sistemi
autonomi di gestione imballaggi
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione ambientale doc.
Ma procedura più complessa in presenza di emissioni.
Una circolare ministeriale sul placet unico che
semplifica la procedura.
Autorizzazione unica ambientale obbligatoria per le imprese.
Di tutte le dimensioni e tipologie. Una sola eccezione:
quando l'impresa produce emissioni. In tal caso infatti va
chiesta la più complessa autorizzazione generale.
Questo è il principio espresso dal Ministero dell'ambiente
con la
circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot..
L'autorizzazione unica sostituisce ogni atto di
comunicazione, notifica e autorizzazione previsto dalla
legislazione vigente. Ed è finalizzata alla riduzione degli
oneri burocratici connessi alla gestione dell'impresa. I
tecnici di prassi ricordano che nel caso di attività di
carattere autorizzatorio alla scadenza del primo dei titoli
abilitativi il gestore è obbligato a richiedere
l'autorizzazione unica ambientale. Salvo che ricorra una
delle due ipotesi di deroghe sopra indicate. Al contrario
nel caso di autorizzazione generale in scadenza il gestore
ha la facoltà e non l'obbligo di richiedere l'autorizzazione
unica.
È facoltà del gestore di ricorrere allo sportello
unico delle attività produttive e di aderire
all'autorizzazione generale. Lo sportello unico trasmetterà
per via telematica all'autorità competente. Anche nelle
ipotesi di attività soggette unicamente a più comunicazioni
o autorizzazioni il gestore ha la facoltà di richiedere
l'autorizzazione unica ambientale. Infatti l'articolo 3, 3
comma, del dpr 13.03.2013 n. 159 prevede che il gestore
possa decidere di non avvalersi dell'autorizzazione
ambientale quando l'impianto è soggetto esclusivamente alle
comunicazioni o alle autorizzazioni generali alle emissioni.
Inoltre dal combinato disposto dell'articolo 3, commi 1 e 3,
del dpr n. 159/2013 si evince che il gestore possa non
avvalersi dell'autorizzazione unica ambientale anche quando
l'impianto sia soggetto esclusivamente alle comunicazioni o
alle autorizzazioni generali alle emissioni. In definitiva,
quando l'attività è soggetta unicamente a più comunicazioni
oppure, congiuntamente alle comunicazioni e alle
autorizzazioni di carattere generale, il gestore ha la
facoltà e non l'obbligo di richiedere l'Aua.
Occorre inoltre
chiarire ricordano i tecnici del Ministero che il dpr 13.03.2013 n. 159 si applica solo alle piccole e medie
imprese non soggette all'autorizzazione integrata
ambientale. Ovvero a tutti gli impianti non soggetti
all'autorizzazione integrata, quindi a prescindere dai
requisiti dimensionali del gestore. Pertanto un impianto
produttivo non soggetto all'Aia è soggetto all'Aua anche
quando il gestore sia una grande impresa.
Il termini di presentazione della prima autorizzazione unica
ambientale è quella legata alla scadenza del titolo. Per
poter beneficiare della possibilità di continuare l'attività
anche in caso di mancata risposta nei termini
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: IL
COLLEGATO IMPRESA/
Vendite e affitti salvi senza l'Ape.
Niente nullità dei contratti. Al suo posto 500 euro di multa.
Cessioni di credito Gse per tagliare i
costi della bolletta elettrica.
La mancata allegazione dell'Attestato di prestazione
energetica (Ape) ai contratti di vendita e ai nuovi
contratti di locazione degli immobili non comporterà più la
nullità dei contratti stessi, ma costerà solo una sanzione
da 500 euro. Sparirà anche ogni obbligo di consegna dell'Ape
in sede di trasferimento gratuito della proprietà degli
immobili; di conseguenza non sarà più necessario prevedere
una specifica clausola di avvenuta consegna dell'Attestato
negli atti di trasferimento a titolo gratuito. La bolletta
elettrica di imprese e cittadini, invece, potrebbe sgravarsi
di oneri sulle tariffe anche fino al 20% nei prossimi anni
(2 mld di euro circa): merito di nuovi titoli di credito che
il Gestore dei servizi energetici (Gse) potrebbe immettere
sul mercato, per attutire l'impatto sulla bolletta dei
finanziamenti alle energie rinnovabili.
Sono queste le disposizioni più rilevanti in fatto di
energia contenute nella bozza di ddl Collegato impresa alla
legge di stabilità, presto sul tavolo del Consiglio dei
ministri.
C'è poi una terza norma, sulle liberalizzazioni del mercato
delle grandi locazioni a uso non abitativo, che modifica il
regime delle Siiq (Società di investimento immobiliare
quotate). E introduce un nuovo regime fiscale di esenzione e
di distribuzione delle plusvalenze realizzate sugli immobili
oggetto di locazione. Prevedendo, in particolare,
l'esenzione di tali plusvalenze con un obbligo di
distribuzione del 50% nei due anni successivi. Tra l'altro,
viene anche disposta la riduzione della percentuale di
distribuzione minima dell'utile da gestione esente dall'85%
al 70%. Ma andiamo con ordine, partendo dall'Attestato di
prestazione energetica.
Le modifiche in ambito Ape. In sede di conversione in legge
del decreto legge 63/2013 sono stati introdotti due
obblighi: produrre l'Ape e inserire una clausola di avvenuta
consegna dello stesso attestato nei contratti di vendita,
locazione e trasferimento a titolo gratuito di immobili.
Inoltre, è stato introdotto il principio di nullità del
contratto, in caso di mancata allegazione dello stesso Ape.
Ora, stando alla bozza del Collegato impresa, il governo
sembra fare marcia indietro: vengono infatti cancellati i
due obblighi di produzione dell'Ape e di inserimento della
clausola di consegna per gli atti relativi ai trasferimenti
a titolo gratuito. Lo scopo sembra essere quello di sanare
una disparità di trattamento evidente che vede attualmente
tali obblighi vigenti per la stipula di tutti gli atti:
vendita, locazione e trasferimento gratuito di immobili. Ma
sul piano delle sanzioni relative alla mancata allegazione
dell'Ape, queste scattano solo nei casi dei contratti di
vendita e di locazione.
In seconda battuta, il collegato
Impresa punta a cancellare il principio di nullità del
contratto quale sanzione oggi prevista per la mancata
allegazione all'atto stesso dell'Ape: al suo posto si
prevede una sanzione amministrativa pari a 500 euro. Importo
che il governo considera «cumulabile» con le sanzioni
previste a norma di legge (dlgs 192/2005, art. 15) per non
aver già dotato l'intero immobile dell'Attestato.
La bolletta. Poiché le agevolazioni al rinnovabile e al
fotovoltaico pesano su imprese e famiglie con oneri di
sistema cresciuti dal 2010 al 2013 da 4,5 a 11 mld di euro
l'anno (e un impatto medio sul prezzo dell'energia di circa
2,5 cent. di euro per kWh), il Collegato impresa prevede che
il Gse, che oggi gestisce i fondi alle rinnovabili, ricorra
al mercato finanziario con una operazione di cessione
crediti, per un ammontare che ogni anno verrà stabilito dal
ministro dello sviluppo economico. Su queste risorse
verrebbero pagati gli interessi annuali e, a scadenza, il
capitale. Il tutto a favore degli acquirenti dei titoli di
credito (soggetti abilitati e istituti finanziari) e a spese
dello Sviluppo economico.
Il gettito per pagare interessi
maturati e capitale deriverebbe dalla raccolta delle tariffe
elettriche, ma con un effetto di riduzione degli oneri
legati alla componente A3 della bolletta per i prossimi anni
e un incremento al termine dell'operazione. Quando la
progressiva fine degli incentivi alle rinnovabili farà
calare tali oneri. L'operazione però è sotto esame del
ministro dell'economia. Ciò che preoccupa via XX Settembre è
che la cessione crediti impatti sull'indebitamento netto
dello stato. Ed Eurostat finisca per chiedere di consolidare
il Gse nel bilancio pubblico del paese
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diritti edificatori ipotecabili per finanziare le imprese.
Possibili i finanziamenti alle imprese con garanzia
ipotecaria sui diritti edificatori, e cioè sulla cubatura
dei terreni.
La bozza di disegno di legge Impresa, collegato alla legge
di stabilità (presto sul tavolo del Cdm) integra l'articolo
2810 del codice civile che individua i beni capaci di
ipoteca. Oltre agli immobili, l'ipoteca, dunque, potrà avere
a oggetto anche i diritti edificatori comunque denominati,
previsti da normative statali o regionali, ovvero da
strumenti di pianificazione territoriale.
La relazione illustrativa allo schema di Collegato spiega
che il decreto legge 70/2011 ha modificato l'art. 2643 del
codice civile includendo al n. 2-bis, tra gli atti soggetti
a trascrizione, anche i contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori.
La cessione di cubatura è uno strumento per evitare effetti
sperequativi dalle previsioni dei piani regolatori.
Ora il ddl semplificazione completa l'operazione e include
tra i beni sui quali è possibile costituire il vincolo
ipotecario anche i diritti edificatori.
Per diritti edificatori si intendono i diritti di edificare
su una certa area e i contratti con i quali si cedono
diritti edificatori sono contratti con cui si cede la
cubatura realizzabile su una certa area.
Il decreto 70/2011 ha regolamentato i contratti di cessione
di cubatura, prevedendo la trascrizione degli atti relativi
a diritti edificatori.
Al fine di garantire certezza nella circolazione dei diritti
edificatori, in base al modificato articolo 2643, comma 1,
del codice civile, devono essere resi pubblici, attraverso
la trascrizione, i contratti che trasferiscono i diritti
edificatori comunque definiti nelle normative regionali e
nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, e
anche nelle convenzioni urbanistiche a essi relative.
Prima del 2011 i contratti di trasferimento di diritti
edificatori erano diffusi nella prassi, ma non
esplicitamente riconosciuti a livello legislativo.
Le sentenze riconoscevano, comunque, i contratti di cessione
di cubatura come gli accordi con i quali una delle parti
cede la facoltà di edificare dal proprio terreno a quello
appartenente all'altra parte, compreso nella stessa zona
urbanistica, per consentire di chiedere e ottenere una
concessione per la costruzione di un immobile di volume
maggiore di quello a cui avrebbe diritto.
Il decreto del 2011 ha codificato i contratti di cessione di
cubatura e ne ha stabilito la trascrivibilità.
Ora il ddl semplificazione completa il quadro, consentendo
la stipulazione di un contratto di garanzia, avente a
oggetto i medesimi diritti ipotecari. La cubatura serve,
quindi, per poter ottenere finanziamenti dalle banche.
Il risultato che si vuole raggiungere è, infatti, di
carattere finanziario. Anche qui è utile citare la relazione
governativa, secondo la quale scopo dell'intervento
normativo è quello di consentire alle imprese di costruzione
di accedere più agevolmente ai finanziamenti per lo
svolgimento della loro attività ampliando l'ambito dei
diritti suscettibili di ipoteca.
Da un punto di vista tecnico-giuridico è necessario
integrare l'articolo 2810 del codice civile, in quanto
l'elenco dei beni e dei diritti che possono essere
costituiti in garanzia è ritenuto tassativo, e, pertanto,
insuscettibile di estensione analogica fatta eccezione per i
casi espressamente previsti da altre leggi speciali (quali,
per esempio, i diritti inerenti a concessioni di beni
pubblici). Quindi se l'articolo 2810 codice civile non ne fa
menzione, il diritto edificatorio non potrebbe essere messo
a garanzia ipotecaria.
L'articolo 2810 del codice civile, attualmente vigente,
dichiara capaci di ipoteca i beni immobili, che sono in
commercio con le loro pertinenze, l'usufrutto dei beni
stessi, il diritto di superficie, il diritto dell'enfiteuta
e quello del concedente sul fondo enfiteutico.
Sono anche capaci d'ipoteca le rendite dello Stato nel modo
determinato dalle leggi relative al debito pubblico, e
inoltre le navi, gli aeromobili e gli autoveicoli, secondo
le leggi che li riguardano. Sono considerati ipoteche i
privilegi iscritti sugli autoveicoli a norma della legge
speciale
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., il codice etico è per tutti.
Sanzioni in caso di violazione. Anche per i collaboratori.
La Civit, in qualità di Autorità anticorruzione, ha
elaborato le linee guida per gli enti.
Tutto pronto per i codici etici delle singole
amministrazioni.
La Civit ha approvato e pubblicato sul suo
sito la
deliberazione
24.10.2013 n. 75/2013 contenente le «Linee guida in
materia di codici di comportamento delle pubbliche
amministrazioni (art. 54, comma 5, dlgs n. 165/2001)».
Si
trattava di un passaggio fondamentale per la messa a regime
del sistema anticorruzione, impostato dalla legge 190/2012 e
dal dpr 62/2013, che contiene il codice nazionale di
comportamento, al quale ciascun ente dovrà affiancare il
proprio codice «personalizzato», seguendo quanto indicato
dalle linee guida disciplinate dalla Civit nella sua veste
di Autorità nazionale anticorruzione.
Il documento, pur non potendo entrare nel dettaglio sul
«cosa» scrivere nei codici ci comportamento, è estremamente
puntuale sul «chi» e sul «come» redigerlo. Un punto
operativo è fondamentale, per quanto solo indirettamente
ricavabile dalla delibera della Civit: i codici etici
interni delle amministrazioni non debbono essere la
ripetizione di quanto già prevede il dpr 62/2012, ma
contenere solo specificazioni connesse alla tipologia delle
attività lavorative e del rischio di comportamenti
«corruttivi» rilevati. Per questa ragione occorre un
coordinamento tra i codici e i piani triennali
anticorruzione che debbono essere elaborati entro il 31
gennaio.
Adozione. Competente alla predisposizione dei codici è il
responsabile della prevenzione della corruzione, mentre
l'adozione del codice spetta all'organo di governo. La Civit
consiglia, opportunamente, che l'elaborazione del testo sia
condivisa anche con gli uffici dei procedimenti disciplinari
e gli organismi indipendenti di valutazione, i quali ultimi,
per altro, debbono fornire obbligatoriamente un parere
preventivo. Sono tenute ad approvare i codici tutte le
amministrazioni pubbliche, tra le quali ovviamente rientrano
anche gli enti locali. In particolare, questi ultimi debbono
adottare i codici «interni», ai sensi dell'intesa raggiunta
il 24.07.2013 in sede di Conferenza unificata entro 180
giorni dall'entrata in vigore del dpr 62/2013 e cioè entro
il 16.12.2013.
Procedura. La normativa impone di seguire una procedura
aperta alla partecipazione. Secondo la Civit occorre
coinvolgere non solo i sindacati, ma anche tutti i
potenziali portatori di interesse, tra cui le associazioni
rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e
degli utenti che operano nel settore. La partecipazione può
avvenire in forma telematica, con la pubblicazione di un
avviso e della bozza di regolamento, fissando un termine per
la presentazione di osservazioni e proposte.
Controlli. I protagonisti principali dei controlli sul
rispetto dei codici specifici di ogni amministrazione sono i
dirigenti, che debbono assicurarne il rispetto. Si ricorda
che destinatari non sono solo i dipendenti, ma anche
collaboratori esterni e dipendenti delle aziende che
prestano servizi per le amministrazioni. I codici interni
debbono fornire indicazioni per stabilire in particolare
quali collaboratori esterni siano soggetti al rispetto del
codice e determinare le clausole obbligatorie di rispetto
dei codici nei contratti di servizio. A vigilare sul
rispetto dei codici da parte dei dirigenti provvede l'Oiv,
supportato dal responsabile anticorruzione.
Effetti e formazione. La Civit ricorda agli enti di chiarire
bene che le disposizioni dei codici etici interni sono
vincolanti e la loro violazione comporta sempre violazione
disciplinare. Allo scopo, occorrono diffusi interventi di
illustrazione e formazione dei destinatari delle norme.
Contenuto particolare dei codici interni sarà la graduazione
delle sanzioni disciplinari da applicare in relazione alle
violazioni.
Struttura. Oltre a specificare i destinatari, comprendendo
con chiarezza tra essi anche i collaboratori in staff agli
organi di governo, i codici hanno il precipuo scopo di
determinare la soglia di valore dei regali «d'uso», anche
imponendo limiti inferiori ai 150 euro. Inoltre, debbono
dettare le modalità per restituire o devolvere i regali che
i dipendenti non possono accettare. Altri contenuti speciali
sono la determinazione degli ambiti di interesse di ciascun
ente a conoscere l'appartenenza dei dipendenti ad
associazioni, nonché la proceduralizzazione del conflitto di
interessi. Occorre, cioè, stabilire come ogni dipendente
debba dichiarare l'esistenza di una causa di impedimento a
gestire una procedura al dirigente, che deve poi decidere in
merito all'effettiva sussistenza del conflitto di interessi
o meno
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013). |
APPALTI: Pagamenti veloci negli appalti.
I termini di 30 e 60 giorni si applicano anche ai lavori.
Nel ddl europea-bis per il 2013 una norma che cristallizza
l'interpretazione del Mise.
Pagamenti sprint negli appalti pubblici. Anche i contratti
aventi ad oggetto la prestazione di servizi o forniture e la
realizzazione di opere per la p.a. saranno soggetti alla
tempistica accelerata (30 giorni prorogabili fino a 60, ma
solo in casi eccezionali) prevista dal decreto legislativo
n. 192/2012 che ha recepito in Italia la direttiva sui
ritardati pagamenti.
A sancire l'applicabilità delle nuove norme ai lavori
pubblici è lo schema di disegno di legge europea per il
secondo semestre 2013 che è stato esaminato ieri dal
preconsiglio dei ministri.
Si tratta di una norma di interpretazione autentica che fuga
ogni dubbio sull'estensione dei nuovi termini di pagamento
agli appalti. In realtà, che i contratti di cui al dlgs
163/2006 non potessero sfuggire al decreto di recepimento
della direttiva voluta dal vicepresidente della Commissione
europea Antonio Tajani, era già stato sancito dal ministero
dello sviluppo economico con una circolare del 23.01.2013 (si veda ItaliaOggi Sette del 28/01/2013).
Il Mise aveva riconosciuto le lacune del dlgs 192 che non
aveva accolto le indicazioni della direttiva 2011/7/Ue la
quale invece nei «considerando» includeva nella nozione di
«fornitura di merci e prestazione di servizi», rilevante ai
fini della direttiva, anche «la progettazione e l'esecuzione
di opere e di edifici pubblici, nonché i lavori di
ingegneria civile».
Ma niente di tutto questo era stato trasposto nel testo del
decreto legislativo che per di più si era limitato a
modificare il dlgs 231/2002 senza sostituirlo integralmente.
Di qui le incertezze sull'estensione dei pagamenti sprint
agli appalti. Su sollecitazione dei costruttori edili e
dello stesso Tajani (che aveva minacciato l'allora governo
Monti di avviare un procedura di infrazione contro l'Italia
qualora l'esecutivo non fosse intervenuto con una presa di
posizione ufficiale), il dicastero ai tempi guidato da
Corrado Passera era intervenuto a chiarire la necessità di
«assoggettare anche i lavori pubblici a un'uniforme
regolamentazione per i pagamenti derivanti dai relativi
contratti» in modo da evitare distorsioni delle concorrenza.
Ma, pur trattandosi di una presa di posizione ufficiale,
tale lettura non avrebbe potuto sanare i vizi del dlgs 192
che non ha applicato come avrebbe dovuto i princìpi
contenuti nella direttiva comunitaria. Di qui la necessità
di una norma di interpretazione autentica che è stata
inserita nello schema di ddl.
L'art. 22 del provvedimento, oltre a far rientrare gli
appalti pubblici nell'alveo della direttiva sui ritardati
pagamenti, introduce una norma di favore per le imprese
creditrici. Si prevede la possibilità di applicare termini
di pagamento e tassi diversi rispetto a quelli dei dlgs
231/2002 e 192/2012 ma solo se più favorevoli per i
creditori. Diversamente si applicheranno le regole generali
che prevedono nelle transazioni commerciali tra p.a. e
imprese, ma anche tra impresa e impresa (B2B), pagamenti
entro 30 giorni con pochissime eccezioni.
Le parti, infatti, non possono decidere di allungare o meno
i termini a proprio piacimento a meno che non vi siano
circostanze eccezionali che legittimino lo slittamento del
termine a 60 giorni (aziende pubbliche, sanità, particolari
procedure di appalto come il dialogo competitivo). Al di
fuori di questi casi, il periodo massimo per saldare le
fatture resta di 30 giorni. Dopo scatteranno gli interessi
di mora fissati dal 01.01.2013 all'8% più il tasso Bce
(articolo ItaliaOggi del 07.11.2013). |
TRIBUTI: Intoppo sul ritorno alla Tarsu.
La chance solo per chi non ha approvato il bilancio.
Il Mef spiegherà nei prossimi giorni alle amministrazioni
come abbandonare la Tares.
Solo i comuni che non hanno ancora approvato il bilancio
2013 potranno continuare ad applicare la Tarsu in vigore lo
scorso anno. Tutti gli altri dovranno restare con la Tares,
eventualmente modificando le tariffe già deliberate.
Il chiarimento è contenuto in una risoluzione che il Mef
diffonderà nei prossimi giorni per fugare i numerosi dubbi
interpretativi posti dall'art. 5 del dl 102/2013, così come
modificato in sede di conversione. In particolare, verrà
precisata la portata della seconda parte del comma 4-quater,
che consente ai comuni di continuare ad applicare anche per
quest'anno «la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi
urbani (Tarsu), in vigore nell'anno 2012».
Tale possibilità
verrà concessa solo ai comuni che (avvalendosi della proroga
al 30 novembre del relativo termine) non hanno ancora
licenziato il preventivo. Tale condizione dovrebbe essere
verificata assumendo a riferimento la data di entrata in
vigore della legge 124/2013 (che ha convertito il dl 102),
ovvero il 29 ottobre.
Al contrario, gli enti che, a tale data, hanno già approvato
il bilancio potranno soltanto modificare i criteri di
commisurazione delle tariffe, ma pur sempre all'interno del
regime Tares. Ad essi, però, sarà consentito utilizzare
tutta le altre forme di flessibilità consentite dall'art. 5.
Come chiarito dall'Anci Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi
di ieri), tale norma consente, nella sostanza, di applicare
la Tares nello stesso modo in cui si applicava la Tarsu,
senza la necessità di fare riferimento al piano finanziario
o ai criteri di articolazione delle categorie e delle
tariffe previste nel dpr 158/1999.
Inoltre, non vi è né
l'obbligo di considerare le componenti di costo del piano
finanziario, come il Carc, né quello di articolare le
tariffe delle utenze domestiche per numero dei componenti
della famiglia. L'unico vincolo riguarda la necessità di
dare copertura integrale dei costi, che invece non sussiste
per i comuni che potranno mantenere, anche formalmente, il
regime Tarsu: in tali casi, anzi, per espressa previsione
del comma 4-quater, «la copertura della percentuale dei
costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune».
La circolare in via di definizione a via XX Settembre
chiarirà anche un altro aspetto importante: per chi ha già
dato il via libera al preventivo 2013, la revisione della
disciplina dei tributi potrà essere disposta mediante una
semplice variazione del documento contabile già approvato,
così come chiarito dalla precedente risoluzione dello stesso
Mef 1/2011. Non sarà, quindi, necessario procedere (come
richiesto da alcune sezioni regionali della Corte dei conti)
alla riadozione del bilancio, per la quale non ci sarebbero
i tempi tecnici prima della dead-line del 30 novembre.
Infine, da segnalare che da ieri, sul sito del Ministero
dell'interno, è consultabile il testo del Dpcm di riparto
del fondo di solidarietà comunale, il cui procedimento è in
corso di perfezionamento
(articolo ItaliaOggi del 07.11.2013). |
TRIBUTI: Imu, comodato senza tetto Isee.
L'Anci Emilia-Romagna sul dl 102.
I comuni non sono obbligati a subordinare a un valore
massimo di Isee la fruizione dei benefici «prima casa» a
favore degli immobili concessi in comodato ai parenti.
Lo
afferma l'Anci Emilia-Romagna, che nella dettagliata
nota 29.10.2013 n. 182 di prot.
interpretativa ha analizzato le principali novità
introdotte in sede di conversione del decreto Imu (dl
102/2013).
Fra queste, il documento si sofferma anche
sull'art. 2-bis, che consente ai comuni di equiparare
all'abitazione principale, ai fini dell'Imu, le unità
immobiliari (escluse quelle classificate in A/1, A/ 8 e A/9)
e relative pertinenze concesse in comodato a parenti in
linea retta entro il primo grado (ovvero da padri e figli e
viceversa) che le utilizzano come abitazione principale.
L'assimilazione è subordinata a una delibera comunale, da
adottare entro il prossimo 30 novembre.
Ogni ente è chiamato
a definire i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione, «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Tale inciso, nella
sua formulazione letterale, ha posto il dubbio se la
definizione di un livello massimo di Isee sia o meno
obbligatoria. La circolare Anci ammette che il testo si
presta a diverse interpretazioni, ma ritiene che «non via
sia l'obbligo per i comuni di subordinare il beneficio a un
determinato livello di situazione economica».
Tale scelta,
insomma, rientra nella piena discrezionalità dei sindaci,
che possono valutare se, in regime di ristrettezze
economiche, sia o meno opportuno concentrare gli aiuti sui
soggetti più in difficoltà. Come gli altri contribuenti,
quindi, anche quelli interessati dalla misura in commento
dovranno attendere il 9 dicembre, data ultima entro la quale
i provvedimenti assunti in materia di Imu dovranno essere
pubblicati sul sito istituzionale di ciascun comune.
In ogni caso, l'assimilazione a prima casa, se e nei limiti
in cui i comuni decideranno di introdurla, varrà solo ai
fini del saldo di dicembre, che non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata per le
abitazioni principali. Le somme versate in acconto, quindi,
non sono in nessun caso rimborsabili
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni, bonus ampio.
Anche il compromesso registrato consente il beneficio.
Riportate dal governo le risposte delle Entrate ai quesiti
più frequenti dei cittadini.
Anche il compromesso registrato, se consente l'immissione in
possesso dell'immobile, può consentire la detrazione delle
spese di ristrutturazione. Hanno diritto alle detrazioni
fiscali sulle ristrutturazioni edilizie non soltanto i
proprietari degli immobili ma anche, per esempio, i locatari
o i comodatari. A patto naturalmente che le fatture per le
spese di ristrutturazione siano a loro intestate e che
questi ultimi effettuino i pagamenti tramite bonifico
bancario. Se invece i lavori di ristrutturazione sono
effettuati in proprio, senza cioè l'ausilio di imprese
edili, allora le detrazioni fiscali spetteranno solo per
l'acquisto dei materiali necessari per l'intervento.
Sono queste alcune delle risposte alle
domande più frequenti
(c.d. Faq) messe on-line nella serata di ieri sul sito
internet del governo, nell'ambito della campagna «rimetti la
casa al centro del tuo mondo».
Le risposte fornite ai dubbi più frequenti dei cittadini
italiani sono state redatte a cura dell'Agenzia delle
entrate così come le tre guide operative che affiancano le
Faq sul sito del governo. Si tratta, nello specifico, della
guida alle agevolazioni per il risparmio energetico, della
guida al bonus mobili ed elettrodomestici e della guida alle
ristrutturazioni edilizie.
Tornando alle risposte fornite on-line sul sito del governo
in materia di agevolazioni fiscali sulla casa, una delle più
interessanti riguarda la possibilità di sfruttare le
detrazioni Irpef anche prima di aver stipulato il rogito
definitivo di acquisto dell'abitazione. Perché ciò possa
realizzarsi nel concreto è necessario che sia stato
stipulato e registrato un contratto preliminare di
compravendita (il c.d. compromesso) e che nello stesso sia
prevista l'immissione in possesso del futuro acquirente.
Solo se si è immessi nel possesso del bene, precisa infatti
l'Agenzia delle entrate, è possibile detrarre le spese per
ristrutturazione edilizia sostenute nel periodo di tempo
intercorrente fra la stipula del compromesso e l'atto
definitivo di compravendita.
Possono accedere alle agevolazioni Irpef sulle
ristrutturazioni edilizie anche soggetti che non sono né
proprietari né titolari di altri diritti reali
sull'immobile, come la nuda proprietà, l'usufrutto, l'uso o
l'abitazione. Il caso esaminato è quello dell'inquilino che
sostiene le spese per i lavori di ristrutturazione e che può
accedere al bonus Irpef che spetta a chi sostiene la spesa e
quindi anche al locatario o al comodatario.
Chiarimenti importanti da parte delle Entrate su quali sono
in concreto i lavori finalizzati alla prevenzione di atti
illeciti da parte di terzi che danno diritto alle detrazioni
fiscali.
Fra queste tipologie particolari di spese, precisa l'Agenzia
delle entrate, rientrano per esempio, gli interventi di
rafforzamento, sostituzione o installazione di cancellate o
recinzioni murarie degli edifici e ancora l'apposizione di
grate sulle finestre o la loro sostituzione con infissi
blindati, l'installazione di porte blindate o rinforzate;
l'apposizione o la sostituzione di serrature, lucchetti,
catenacci, spioncini; l'installazione di rilevatori di
apertura e di effrazione sui serramenti; l'apposizione di
saracinesche; tapparelle metalliche con bloccaggi, vetri
antisfondamento, casseforti a muro, fotocamere o cineprese
collegate con centri di vigilanza privati; apparecchi
rilevatori di prevenzione antifurto e relative centraline.
Non sono soltanto le spese di ristrutturazione vere e
proprie a dare diritto ai bonus fiscali. Nel novero delle
spese agevolate rientrano infatti anche quelle per la
progettazione o per le altre prestazioni professionali
connesse e, in ogni caso, le spese per prestazioni
professionali comunque richieste in relazione al tipo di
intervento eseguito. Ovvio che anche in questo caso la
parcella dell'architetto o del geometra dovrà essere
intestata al soggetto fruitore dei benefici fiscali e dovrà
essere pagata con le stesse modalità -bonifico bancario-
previste per le fatture delle ditte esecutrici o fornitrici
dei materiali edili
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Manette per chi incendia rifiuti.
Giro di vite in arrivo anche per chi si disfa del
frigorifero. Il ministro dell'ambiente Orlando annuncia una stretta
contro roghi e smaltimento illecito.
Manette pronte a scattare ai polsi di chi incendia rifiuti,
e pene severe per coloro che (all'esterno delle discariche)
si disfano di un vecchio frigorifero. E il giro di vite
convergerà in una «riforma organica dei reati ambientali»
poiché, essendo questi ultimi di carattere «contravvenzionale»,
in genere accade che vengano prescritti «prima ancora che si
arrivi all'individuazione dei responsabili».
Un piano, quello anticipato dal ministro dell'Ambiente
Andrea Orlando ieri, per agire con durezza su un fenomeno,
quello degli eco-crimini, ormai tristemente d'attualità,
grazie alle rivelazioni di un pentito della camorra sullo
smaltimento illecito di materiale tossico e inquinante nella
cosiddetta «Terra dei fuochi», situata fra le province di
Napoli e Caserta.
Nell'area campana, riferisce, sono stati
compiuti «passi importanti» per le bonifiche, così come
state destinate «decine di milioni di euro ai comuni», e la
regione ha indirizzato finora alle operazioni di recupero
una somma pari a 300 milioni; a questo proposito, bisogna
fare i conti con quello che prevede il Patto di stabilità
interno, i cui vincoli fanno sì che anche quando anche gli
stanziamenti per intervenire ci sono, «non si possono
sbloccare. Ecco perché», va avanti, bisognerà trovare una
soluzione all'interno della legge di stabilità, adesso al
vaglio del Parlamento.
Molto, però, resta da fare sul fronte
della messa in sicurezza di zone nelle quali gli abitanti
segnalano da anni l'insorgenza di patologie tumorali legate
all'esposizione a fattori nocivi per la salute: sulla base
della «mappatura attualmente conosciuta degli interramenti
fatti negli anni 90, siamo intervenuti nelle discariche
abusive più pericolose. Diciamo», va avanti l'esponente
governativo, che «un passo è stato fatto», e ne restano ora
da compiere «altri due, o tre».
Quanto alla strategia per inasprire le pene a carico di chi
commette delitti contro l'ambiente, Orlando lascia intendere
che non saranno lunghi i tempi per l'approdo di un decreto
legge in Consiglio dei ministri: quel che è necessario,
dice, è attuare un restyling organico della materia,
soprattutto per evitare che i reati «contravvenzionali»
restino impuniti, finendo in prescrizione in anticipo
rispetto all'accertamento dei responsabili.
Nella «black
list» delle azioni segnalate c'è il fenomeno (assai
frequente) degli incendi di materiale di scarto di qualunque
natura, perseguibile con l'arresto del responsabile. Ma
costerà caro anche abbandonare un elettrodomestico fuori dai
luoghi autorizzati per la raccolta dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2013). |
APPALTI: Trasparenza nelle gare da 40.000.
Dal 29 ottobre regole più stringenti per le comunicazioni
all'osservatorio dei contratti pubblici. È stata infatti
allineata a 40 mila euro la soglia minima per le
comunicazioni riguardanti gli appalti pubblici. In
precedenza la soglia a partire dalla quale le stazioni
appaltanti e gli enti aggiudicatori dovevano ottemperare ali
obblighi di comunicazione previsti dall'articolo 7 comma 8
del codice degli appalti (dlgs n. 163 del 2006) era di 150
mila euro.
Questo è quanto prevede il comunicato
dell'autorità di vigilanza sui contratti pubblici pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 29.10.2013 n. 254. Per gli
appalti successivi al 29.10.2013, data di pubblicazione
in Gazzetta Ufficiale del comunicato dell'Authority, passa
da 150 mila a 40 mila euro la soglia a partire dalla quale
le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori devono
ottemperare ali obblighi previsti dall'articolo 7, comma 8,
del codice degli appalti.
Le comunicazioni dei dati, da
inoltrare all'osservatorio dei contratti pubblici,
riguardano il contenuto dei bandi, i verbali di gara, i
soggetti invitati, l'importo di aggiudicazione, il
nominativo dell'affidatario, il nome del progettista,
l'inizio e lo stato di avanzamento dei lavori,
l'effettuazione del collaudo e l'importo finale. Per i
contratti di lavori, servizi e forniture, di importo pari o
superiore a 40 mila, dovranno essere inviati per i settori
ordinari, i dati relativi all'intero ciclo di vita
dell'appalto. Al di sotto dei 40 mila euro, invece, sarà
necessaria solo l'acquisizione della smartcig.
Il comunicato del 22.10.2013 pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 29 ottobre posticipa di circa sette mesi
l'operatività dei nuovi obblighi di comunicazione. Infatti
con il comunicato del 29 aprile scorso, infatti, era stato
stabilito che le nuove regole delle comunicazioni
riguardavano gli appalti pubblicati dal primo gennaio 2013
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2013). |
ENTI LOCALI: Dal decreto Pa sui sindaci arrivano 12 nuovi obblighi.
Decreto Pa. Richieste di informazioni sui capitoli di spesa.
Per dare attuazione al Dl 101/2013 sul pubblico impiego
(convertito dalla legge 125/2013), gli enti locali si
trovano di fronte a 12 adempimenti, tra fornitura di
informazioni, partecipazione a censimenti, deliberazioni e
scelte da inserire nel programma per il fabbisogno del
personale. Alcuni di questi adempimenti sono obbligatori –con sanzioni nel caso di inadempienza– altri sono una
condizione per poter usare le opportunità previste dallo
stesso provvedimento.
Questi vincoli si aggiungono ai numerosi compiti che gravano
sui comuni, per la prima volta, in questi mesi: l'adozione
del codice di comportamento integrativo (entro la metà di
dicembre), del regolamento sulle incompatibilità (entro il
27.01.2014), del piano per la lotta alla corruzione e
per la trasparenza (entro la fine di gennaio), la
pubblicazione sul sito internet dei dati richiesti dal Dlgs
33/2013 (entro la fine di dicembre) e il regolamento sulla
disciplina delle sanzioni per la violazione alle
informazioni sugli amministratori. Vediamo, dunque, quali
sono i principali adempimenti previsti dal Dl 101/2013.
Le amministrazioni che non partecipano al monitoraggio sulle
autovetture dovranno tagliare ulteriormente le relative
spese. Per i dirigenti e i responsabili che non
trasmetteranno entro l'anno al dipartimento della Funzione
Pubblica i dati disaggregati sulla spesa per le consulenze,
matureranno la responsabilità disciplinare e quella
amministrativa, e dovrà essere irrogata una sanzione
compresa fra 1.000 e 5.000 euro. Si tratta della stessa
sanzione prevista in caso di violazione degli accresciuti
vincoli di spesa per il conferimento di questi incarichi.
Inoltre, si dovrà prevedere nel bilancio preventivo
l'istituzione di un capitolo di spesa dedicato a questa
voce, fatti salvi gli incarichi previsti da specifiche
leggi.
Nella programmazione del fabbisogno, le amministrazioni
dovranno assumere a tempo determinato, se ne ricorrono le
condizioni, gli idonei nelle graduatorie per le assunzioni a
tempo indeterminato e potranno deliberare di avvalersi delle
graduatorie di altre Pa, anche per le assunzioni flessibili.
Dovranno decidere, ancora – dopo aver partecipato al
monitoraggio della Funzione pubblica e applicando i principi
che saranno dettati in un Dpcm ad hoc di dare corso alla
stabilizzazione dei lavoratori precari in possesso dei
requisiti di anzianità triennale maturati alla data di
conversione del decreto, il 30 ottobre (e non più, come nel
testo iniziale, a quella della sua entrata in vigore) e dei Cococo che sono stati prestabilizzati, cioè assunti a tempo
determinato, in base alle base delle previsioni delle leggi
Finanziarie per il 2007 e per il 2008.
A latere, si deve decidere la proroga delle assunzioni a
tempo determinato che raggiungono i 36 mesi: a differenza
delle regole dettate dalla legge di stabilità 2013 questa
possibilità è riservata esclusivamente alle figure che gli
enti decidono di stabilizzare. Nello stesso documento,
dovranno decidere di avvalersi delle graduatorie regionali
degli Lsu e degli Lpu per le assunzioni di dipendenti per
posti per i quali si prevede il requisito del possesso del
titolo di studio della scuola dell'obbligo. Gli enti devono
inoltre determinare quante unità di personale appartenente
alle categorie protette devono avere in servizio e procedere
alla loro assunzione, anche se sono soggetti a divieti di
assunzione, e in deroga ai tetti di spesa
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: I controlli della Pa per il cambio sede.
Monitorata la compatibilità.
Il trasferimento di sede di un'attività commerciale, ferme
restando le specifiche normative assunte o da assumere in
sede regionale, richiede un'autorizzazione da parte della
pubblica amministrazione o comunque una comunicazione alla
Pa.
Quindi, ai fini del trasferimento di un esercizio occorre,
in primo luogo, verificare la compatibilità
urbanistico-territoriale della nuova ubicazione prescelta.
E, infatti, le prescrizioni contenute nei piani urbanistici
–rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto
del territorio– possono porre limiti agli insediamenti
degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di
iniziativa economica (Consiglio di Stato, sezione VI,
sentenza n. 2060/2012 ).
In sede di rilascio dell'autorizzazione al trasferimento,
l'amministrazione terrà, pertanto, conto degli aspetti di
conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui si andrà a
svolgere l'attività commerciale, con la conseguenza che
l'amministrazione potrà legittimamente negare il
trasferimento di sede di un esercizio ove sussistano ragioni
di abusivismo o di non conformità del fabbricato rispetto
alle prescrizioni urbanistiche.
In generale, dunque, l'esercizio di un'attività commerciale
deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del titolo
autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento,
alla disponibilità giuridica e alla regolarità
urbanistico-edilizia dei locali in cui viene svolta
l'attività (Consiglio di Stato, sezione V - sentenza n.
5590/2012).
Le autorizzazioni
Le future liberalizzazioni in materia di tutela della
concorrenza porteranno le Regioni ad assumere specifiche
normative che, quantomeno, agevolino l'ottenimento delle
autorizzazioni commerciali. Le autorizzazioni (richieste dal
Dlgs 114/1998, in forma espressa o tacita, per le medie e
grandi strutture di vendita) rappresentano uno degli
elementi essenziali di un'azienda commerciale. Il passaggio
di gestione o di proprietà di un'azienda commerciale, come
recentemente precisato dalla giurisprudenza, reca in sé
anche il diritto al trasferimento della relativa
autorizzazione e la facoltà per il subentrante di continuare
l'attività, se in possesso dei prescritti requisiti
(Consiglio di Stato, sentenza n. 3035/2011).
I giudici amministrativi hanno anche precisato che, una
volta che un'azienda sia stata trasferita a un terzo, la
pubblica amministrazione dovrà procedere alla voltura
dell'autorizzazione in favore dell'acquirente, non potendo
in alcun caso subordinare il subingresso al consenso del
cedente e originario intestatario del titolo (Consiglio di
Stato sezione V, sentenza n. 853/1988).
Il "valore" del titolo abilitativo è, ad ogni modo,
direttamente connesso agli altri elementi che costituiscono
l'esercizio commerciale. Il valore di un'azienda muta al
variare di diversi parametri, tra i quali rilevante è
l'ubicazione dell'esercizio: e difatti, a parità di
superficie, un esercizio collocato su una viabilità ad ampio
scorrimento avrà maggiore capacità di attrarre clientela. In
tale ottica, il trasferimento della sede dell'azienda può
contribuire a migliorare le capacità di reddito dell'impresa (articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, la partenza è graduale.
Stop sanzioni fino al 1° agosto 2014. Obblighi allargati.
Regime transitorio ampliato dalla legge n. 125/2013. Inclusi
gli operatori intermodali.
Sospensione delle sanzioni Sistri fino al 01.08.2014 con
parallelo obbligo di tenere nelle more (anche) le ordinarie
scritture ambientali (Mud compreso), inclusione nel nuovo
sistema di tracciamento telematico sia degli ausiliari del
trasporto intermodale che di tutti i trasportatori
professionali di rifiuti urbani pericolosi (in via
sperimentale, dal 30.06.2014).
Questo l'assetto dato dalla legge 30.10.2013 n. 125 di
conversione del dl 101/2013 al sistema di controllo dei
rifiuti partito lo scorso 01.10.2013.
Il nuovo
provvedimento (pubblicato sulla Guri del 30.10.2013 n.
255 e in vigore dal giorno successivo) conferma gli altri
termini di operatività previsti dall'originario testo del dl
101/2013 (01.10.2013 per gestori, 03.03.2014 per
gestori di rifiuti speciali pericolosi e operatori della
Regione Campania) e viene seguita a stretto giro da una
circolare interpretativa del Minambiente (pubblicata sul
sito web del Dicastero nella serata del 31.10.2013) che
sostituisce la precedente nota diramata in ottobre.
Proroga sospensione di sanzioni e doppio binario. La nuova
legge proroga seccamente di dieci mesi (da calcolarsi a
partire dal 01.10.2013) l'oramai noto periodo
transitorio composto dalla sospensione dell'applicazione
delle sanzioni Sistri e dal contemporaneo obbligo di
continuare ad adempiere (insieme ai nuovi oneri telematici
di trasmissione dati con chiavetta usb e black box) al
tracciamento cartaceo tradizionale dei rifiuti. Lo
slittamento unico salda e allunga i due precedenti e
differenti regimi transitori che sarebbero terminati,
rispettivamente per gestori e produttori di rifiuti, il 01.11.2013 e il
03.04.2014.
In base al nuovo assetto,
fino al prossimo 01.08.2014 (data indicata dal Minambiente come termine di applicabilità delle sanzioni
Sistri) tutti i soggetti Sistri in operatività dovranno di
conseguenza: onorare la tenuta dei registri di
carico/scarico e formulario di trasporto rifiuti secondo
(come specifica la legge) la relativa disciplina prevista
dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 precedenti alle
modifiche di allineamento al Sistri apportate dal dlgs
205/2010 (c.d. versione «classica» vs. versione «Sistri
compatibile»); effettuare l'annuale dichiarazione ambientale
Mud entro la rituale data del prossimo 30 aprile (e ciò in
virtù dell'espresso richiamo fatto dalla nuova legge
125/2013 all'articolo 189, sempre versione classica, del
Codice ambientale che la impone).
Revisione del (futuro) regime di tracciamento tradizionale.
Il legislatore si porta con il nuovo provvedimento avanti,
ritoccando ulteriormente la versione «Sistri compatibile»
dei citati articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 che
entreranno in vigore dal prossimo 02.08.2014. E ciò, si
ritiene, sia per eliminare alcune incongruenze normative
introdotte con le modifiche apportate dal dlgs 205/2010 sia
per aggiornare alla luce delle ultime novità il quadro degli
adempimenti a carico dei soggetti che, avendone solo
facoltà, non aderiranno al Sistri e continueranno con il
tracciamento cartaceo dei rifiuti. Nell'effettuare tale
upgrade il legislatore segue la logica di obbligare al
regime cartaceo quanti non scelgono il Sistri, ma con alcune
eccezioni.
Secondo il tenore del nuovo (futuro) articolo 190
del Codice ambientale non sono infatti obbligati a tenere i
registri sia enti e imprese produttrici di rifiuti speciali
non pericolosi derivanti da attività commerciali e di
servizio sia coloro che effettuano attività di raccolta e
trasporto di rifiuti speciali non pericolosi di cui sono
produttori iniziali. Il formulario (ex futuro articolo 193,
stesso dlgs 152/2006) diventerà invece obbligatorio per
tutti gli enti e le imprese che, trasportando rifiuti, che
avendone facoltà non aderiranno al Sistri.
Nuovi soggetti interessati: operatori dell'intermodale. A
fianco di produttori e gestori, la legge di conversione del
dl 101/2013 (ri)colloca tra i soggetti obbligati al Sistri
coloro che svolgono attività ausiliarie del trasporto
intermodale di rifiuti speciali pericolosi, ossia i soggetti
cui tali rifiuti vengono affidati durante i trasferimenti da
un mezzo all'altro (i c.d. «trasbordi» strada-rotaia,
rotaia-mare, strada-mare, terra-aria). Operatori logistici,
pur previsti dal dlgs 152/2006 e relativo dm attuativo
52/2011 (c.d. «Testo unico Sistri») rimasti fino ad oggi in
stand-by a causa della loro mancata inclusione, da parte
dell'originaria versione del dl 101/2013, nell'ultimo
calendario di operatività sistema di tracciamento
telematico.
La loro inclusione tra i soggetti obbligati non
scatterà però (ad avviso dello scrivente) subito, essendo
tale previsione dalla legge 125/2013 stata disposta non
direttamente, ma solo indirettamente tramite la modifica
della nuova versione dell'articolo 188-ter del Codice
ambientale apprestata dal citato dlgs 205/2010, versione che
entrerà in vigore (insieme a quelle «Sistri compatibili» dei
più sopra ricordati articoli 190 e 193, stesso Codice) solo
alla fine del citato periodo transitorio.
Nuovi soggetti interessati: trasportatori rifiuti urbani
(pericolosi). Ferme restando le disposizioni per gli
operatori della Campania (comuni e imprese di trasporto
della Regione obbligati dal 03.03.2014 in relazione ai
rifiuti urbani) la nuova legge 125/2013 allarga il novero
dei soggetti obbligati al Sistri in virtù della gestione di
rifiuti urbani pericolosi, mettendo a fianco di Enti o
imprese di trattamento, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione anche raccoglitori e trasportatori a titolo
professionale dei stessi rifiuti. Per tutti l'obbligo è però
previsto a titolo sperimentale, solo a partire dal 30.06.2014 e subordinatamente all'adozione di specifico decreto da
parte del Minambiente
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ape, l'obbligo è per tutti gli atti.
Attestato da allegare non solo ai contratti di vendita.
L'interpretazione della nuova certificazione
energetica in uno studio del Notariato.
Attestato di prestazione energetica obbligatorio per tutti
gli atti onerosi con effetto traslativo e non solo per la
compravendita.
Questa la rigorosa interpretazione fatta
propria dal Consiglio nazionale del notariato nel
recentissimo e ampio
studio 28.10.2013 n. 657-2013/C che ha
investigato la nuova disciplina della certificazione
energetica degli edifici introdotta dal dl n. 63/2013
(convertito con legge 03.08.2013 n. 90), con il passaggio
dall'attestato di certificazione al c.d.
Ape. Tra le numerose novità introdotte dal legislatore è da
tempo sotto i riflettori la questione dell'ambito oggettivo
di applicazione dell'obbligo di allegazione del nuovo
attestato di prestazione energetica. La nuova norma parla
espressamente di contratti di vendita, atti di trasferimento
di immobili a titolo gratuito e di nuovi contratti di
locazione, sancendo la nullità dei relativi atti in caso di
inottemperanza.
Si tratta di una disposizione che ha messo
in allarme gli operatori del mercato immobiliare e le
associazioni di categoria, tenuto conto del fatto che la
nuova disciplina rimane di fatto inapplicabile fino
all'emanazione, da parte del ministero dello sviluppo
economico, degli specifici decreti previsti dal medesimo dl
n. 63/2013 per l'individuazione dei criteri e contenuti
obbligatori dell'Ape. Tra gli atti traslativi a titolo
oneroso la nuova disposizione limita dunque espressamente
l'obbligo di allegazione dell'Ape ai soli contratti di
vendita.
Tuttavia, secondo i notai, per ragioni sistematiche
detto obbligo dovrebbe essere prudenzialmente esteso anche
agli altri atti rientranti nell'anzidetta categoria che
abbiano per oggetto un bene immobile per il quale sia
obbligatoria la dotazione della certificazione energetica,
dalla permuta all'assegnazione di alloggi ai soci delle
cooperative edilizie, dalla datio in solutum alla
transazione, dal conferimento di edifici in società alla
costituzione di rendita vitalizia.
Per quanto riguarda invece gli atti traslativi
caratterizzati da uno spirito di liberalità, l'obbligo di
allegazione non riguarda soltanto la donazione, ma anche i
patti di famiglia, il fondo patrimoniale, l'assoggettamento
di un bene immobile alla comunione legale dei beni,
l'adempimento di un'obbligazione naturale e il trust. Per
quanto riguarda i contratti di locazione lo studio del
notariato si limita invece a osservare che perché scatti il
predetto obbligo deve trattarsi di una nuova locazione e
non, ad esempio, di un nuovo contratto che rinnovi, proroghi
o reiteri un precedente rapporto di locazione. L'Ape dovrà
invece essere allegato in caso di sub-locazione.
Due casi particolari sono poi rappresentati rispettivamente
dal preliminare di compravendita e dal trasferimento di un
immobile in esecuzione di un verbale di separazione
consensuale omologato o in esecuzione di una sentenza di
divorzio. Nella prima fattispecie si ritiene infatti che si
esuli dall'ambito di applicazione del nuovo obbligo, in
quanto trattasi di contratto privo di effetti traslativi.
Nel secondo caso, al contrario, si tratta sicuramente di un
atto traslativo, che trova la propria causa nella
regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Anche se di norma in questi casi non è previsto un
corrispettivo a carico del coniuge assegnatario, il
notariato, in base alla predetta interpretazione
sull'assoggettabilità a detto obbligo di tutti gli atti
traslativi, in questo caso ritiene sussistente l'obbligo di
allegazione dell'attestato di prestazione energetica
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.11.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia l’art. 11 del DPR
380/2001 sia l’art. 36 della L.R. 28/12/1978 n. 71
consentono che il permesso di costruire, ovvero la
concessione edilizia, possano essere richieste anche dal
promissario del terreno, a condizione che al momento del
materiale rilascio sia conosciuto il destinatario obbligato
al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del contributo
del costo di costruzione.
Con un unico motivo ricorso il ricorrente
lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato sia
sotto il profilo della erronea valutazione operata dal
Comune circa la mancanza di legittimazione del richiedente
al rilascio del titolo edificatorio, sia in ordine alla
falsa applicazione di legge relativamente alle altre due
motivazioni che lo sorreggono, ritenendo di avere
adeguatamente dimostrato al Comune che il fondo risulterebbe
di fatto intercluso, perché delimitato da due strade, nonché
che la zona sarebbe intensamente edificata e dotata di tutte
le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sicché non
sarebbe necessaria l’elaborazione di un piano di
lottizzazione.
La prima censura deve essere accolta, nel senso che sia
l’art. 11 del DPR 380/2001 sia l’art. 36 della L.R. 28/12/1978
n. 71 consentono che il permesso di costruire, ovvero la
concessione edilizia, possano essere richieste anche dal
promissario del terreno, a condizione che al momento del
materiale rilascio sia conosciuto il destinatario obbligato
al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del contributo
del costo di costruzione
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 08.11.2013 n. 2071 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie sull'ammontare dei contributi di
concessione edilizia involgono diritti soggettivi; per cui
il relativo pagamento non comporta acquiescenza alla
liquidazione dei contributi medesimi e non preclude la
tutela giurisdizionale contro gli atti relativi, dovendo
piuttosto essere considerato quale espressione della
connaturale esigenza dell'attività imprenditoriale edilizia
di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell'opera
progettata.
In via preliminare, va disattesa
l’eccezione di irricevibilità e/o inammissibilità del
ricorso, sollevata dal resistente Comune di Agrigento, in
quanto è noto che le relative controversie sono soggette
all’ordinario termine di prescrizione e non a quello
decadenziale (cfr., da ultimo, TAR Sicilia–Catania sez.
I - 26.09.2013, n. 2287).
Peraltro, le controversie sull'ammontare dei contributi di
concessione edilizia involgono diritti soggettivi; per cui
il relativo pagamento non comporta acquiescenza alla
liquidazione dei contributi medesimi e non preclude la
tutela giurisdizionale contro gli atti relativi, dovendo
piuttosto essere considerato quale espressione della
connaturale esigenza dell'attività imprenditoriale edilizia
di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell'opera
progettata (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 12.10.1990,
n. 716; TAR Sicilia–Palermo – sez. I, 30.09.2002, n. 2715)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 08.11.2013 n.
2066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale di un'opera abusiva si configura quale
atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo
accertamento dell'inottemperanza d'ingiunzione di
demolizione e al decorso del termine di legge, che ne
costituiscono i presupposti. Ne consegue che, ai fini della
sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti,
non incombe alla p.a. un peculiare obbligo di motivazione in
ordine alla misura della acquisizione.
E’, infatti, incontroverso in giurisprudenza
l’orientamento, secondo il quale l'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale di un'opera abusiva si
configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità,
subordinato al solo accertamento dell'inottemperanza
d'ingiunzione di demolizione e al decorso del termine di
legge, che ne costituiscono i presupposti. Ne consegue che,
ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti
presupposti, non incombe alla p.a. un peculiare obbligo di
motivazione in ordine alla misura della acquisizione (per
tutte Consiglio di Stato, V, 27.04.2012, n. 2450; TAR
Campania Napoli, II, 21.06.2013, n. 3203)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 08.11.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare pubbliche trasparenti.
Diritto penale. Per la sanzione basta l'inquinamento della
procedura.
Massima severità a presidio della trasparenza dei bandi
della pubblica amministrazione. Anche se la bozza di bando
frutto di collusione non si è poi tradotta nella versione
definitiva, la pena prevista dall'articolo 353 del Codice
penale scatta egualmente.
Lo sottolinea la Corte di
Cassazione con la
sentenza
07.11.2013 n. 44896 della VI Sez.
penale depositata ieri. La pronuncia sposa un concetto
esteso di turbativa in coerenza con la classificazione come
«di pericolo» del reato stesso.
L'obiettivo della norma penale è infatti quello di mettere
in sicurezza la fase dei pubblici incanti antecedente alla
pubblicazione del bando. L'azione illecita consiste allora
nel turbare attraverso atti predeterminati (violenza,
minaccia, doni, promesse, collusione o altri mezzi
fraudolenti) il procedimento amministrativo di formazione
del bando per condizionare la scelta del contraente. E
allora il reato si consuma indipendentemente dal
raggiungimento dell'obiettivo. «Per integrare il delitto,
dunque, non è necessario che il contenuto del bando venga
effettivamente modificato in modo tale da condizionare la
scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta
del contraente venga effettivamente condizionata». È
sufficiente invece un inquinamento del procedimento
amministrativo.
Cosa che, nel caso approdato in Cassazione, si è appunto
verificata quando un sindaco ha consegnato al funzionario
responsabile dell'ufficio appalti pubblici la bozza del
bando frutto di un accordo collusivo. E nulla conta il fatto
che poi il funzionario ha rifiutato l'imposizione e
proceduto alla redazione di una diversa versione del bando (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Licenziato il dipendente che gioca con il computer.
Cassazione. Provocato un danno
economico all'azienda.
Rischia il licenziamento il dipendente sorpreso a giocare,
anche per ore, al computer in ufficio invece di svolgere il
suo lavoro.
Lo puntualizza la Corte di Cassazione, con la
sentenza
07.11.2013 n. 25069 della
Sez. lavoro, depositata ieri.
La pronuncia ha accolto il
ricorso di una società contro il giudizio della Corte
d'appello di Roma che aveva dichiarato la nullità del
licenziamento intimato a un dipendente accusato di «avere
utilizzato, durante l'orario di lavoro, il computer
dell'ufficio per giochi, con un impiego calcolato nel
periodo di oltre un anno di 260-300 ore», provocando così un
danno economico e di immagine all'azienda. Un giocatore
compulsivo, quindi, la cui condotta era di gravità di tale,
nella valutazione aziendale, da motivare l'interruzione del
rapporto di lavoro.
I fatti risalgono al 2007: in primo grado, il tribunale di
Roma aveva confermato il licenziamento, mentre la Corte
d'appello ha invece deciso di annullarlo, condannando il
datore di lavoro a riassumere entro tre giorni il dipendente
o a risarcirlo con sei mensilità. La decisione dei giudici
di secondo grado era stata motivata dal fatto che, nella
lettera di contestazione che era stata indirizzata al
lavoratore, si faceva riferimento a un solo episodio
concreto. In questo modo, nella lettura dei giudici di
secondo grado, la lettera, per la sua genericità, non
lasciava margini sufficienti di difesa al dipendente.
Per la
Corte d'appello, però, il monitoraggio del computer
effettuato dall'azienda, dal quale era emerso il suo
improprio utilizzo, non poteva configurare un esempio di
(illecito, secondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori)
controllo a distanza, visto che il lavoratore stesso aveva
«probabilmente» acconsentito.
La Sezione lavoro ha invece accolto il ricorso dell'azienda
sottolineando che «l'addebito mosso al lavoratore di
utilizzare il computer in dotazione a fini di gioco non può
essere ritenuto logicamente generico per la sola circostanza
della mancata indicazione delle singole partite giocate
abusivamente dal lavoratore». Per la Cassazione è dunque
illogica la motivazione della sentenza d'appello «che
lamenta indicazione specifica delle singole partite giocate,
essendo il lavoratore posto in grado di approntare le
proprie difese anche con la generica contestazione di
utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici
isolati, il computer aziendale».
In questo senso ha trovato accoglienza la tesi della difesa
dell'azienda che aveva tra l'altro messo in evidenza come la
lettera di contestazione in realtà conteneva elementi
precisi dell'addebito contestato, grazie anche a un
accertamento tecnico da cui risultava il numero complessivo
delle partite giocate. La Corte d'appello di Roma, dunque,
dovrà riaprire il caso «non considerando generica la
lettera di contestazione da cui poi è conseguito il
licenziamento»
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Il rumore si valuta con criteri ampi.
Condominio. Cassazione su decibel e ascensore.
Se l'ascensore è rumoroso, il problema è condominiale e non
del singolo proprietario.
La II Sez. civile della
Corte di Cassazione, presieduta da Roberto Triola, ha depositato ieri
la
sentenza 06.11.2013 n. 25019, con la quale ha esaminato il caso di una condòmina che chiedeva che venissero dichiarate illegittime
le immissioni acustiche dell'ascensore e che il condominio
provvedesse a realizzare «tutte le conseguenti opere
necessarie».
Il Giudice di pace di Ancona dichiarava effettivamente
l'illegittimità delle immissioni. L'appello del condominio
veniva rigettato dal Tribunale di Ancona, che lo condannava
anche alle spese.
La Cassazione ha anzitutto ricordato che i criteri adottati
per definire la normale tollerabilità, cioè quelli definiti
dal Dpcm del 01.03.1991, essendo meno rigorosi di quelli
desumibili dall'articolo 844 del Codice civile, sono
comunque accettabili. Possono cioè essere utilizzati anche
per individuare la soglia di tollerabilità delle immissioni
rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati
come un limite minimo e non massimo.
Ma il Tribunale di Ancona aveva preso a parametro proprio il
superamento di 3 decibel del rumore di fondo ma ampliando
anche il dettato dell'articolo 844 del Codice civile con la
valutazione del livello medio dei rumori di zona (a
carattere residenziale e con scarsa presenza di attività
commerciali e di servizi), alle rilevazioni e agli
accertamenti delle Asl e al riconoscimento della loro
rumorosità (non fisiologica) da parte della stessa assemblea
condominiale. E in ogni caso, ha ricordato la Cassazione, il
giudice di merito può discostarsi dalle norme dettate a
tutela dell'ambiente, secondo il suo «prudente
apprezzamento», e utilizzare il criterio dell'articolo 844
del Codice civile, senza che questo sia oggetto di sindacato
di legittimità.
La Cassazione ha quindi rigettato tutti i motivi di ricorso
indicato dal condominio e confermando anche la condanna al
pagamento di tutte le spese che il Tribunale di Ancona aveva
espresso ribaltando quanto disposto al riguardo dal Giudice
di Pace
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza, ai sensi dell'art. 1
della legge 28.01.1977 n. 10 è soggetta al rilascio della
concessione edilizia ogni attività che comporti la
trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di
opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed
edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche
rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale, e
dunque anche quando si tratti della realizzazione di una
antenna destinata a stazione radio, poiché col termine
“costruzione” si intende non soltanto un edificio
caratterizzato da volumetria e superfici calpestabili, ma
qualsiasi opera o manufatto da collocare sul territorio, la
cui realizzazione è consentita nei limiti previsti dallo
strumento urbanistico o da un atto ad esso equivalente.
Più puntualmente in relazione a fattispecie analoga al caso
in esame, è stato affermato che l'installazione di
un'antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta
alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed
estetico, sicché, ai sensi del cit. art. 1 della legge n. 10
del 1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione
edilizia e che tale principio è stato recepito dal d.P.R.
06.06.2001 n. 380, il quale, all'art. 3, assoggetta a
permesso di costruire “l'installazione di torri e tralicci
per impianti radio -ricetrasmittenti e di ripetitori per i
servizi di telecomunicazione”, appunto in quanto "interventi
di nuova costruzione”.
La Sezione concorda col primo giudice laddove ha
ricordato che, per pacifica giurisprudenza, ai sensi
dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10 è soggetta al
rilascio della concessione edilizia ogni attività che
comporti la trasformazione del territorio attraverso
l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti
urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione
abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche
solo funzionale, e dunque anche quando si tratti della
realizzazione di una antenna destinata a stazione radio,
poiché col termine “costruzione” si intende non soltanto un
edificio caratterizzato da volumetria e superfici
calpestabili, ma qualsiasi opera o manufatto da collocare
sul territorio, la cui realizzazione è consentita nei limiti
previsti dallo strumento urbanistico o da un atto ad esso
equivalente (cfr. Cons. St., sez. VI 26.09.2003 n.
5502, richiamata dal TAR).
Più puntualmente in relazione a
fattispecie analoga al caso in esame, è stato affermato che
l'installazione di un'antenna, visibile dai luoghi
circostanti, comporta alterazione del territorio avente
rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi del cit.
art. 1 della legge n. 10 del 1977 n. 10, essa è soggetta al
rilascio di concessione edilizia e che tale principio è
stato recepito dal d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il quale,
all'art. 3, assoggetta a permesso di costruire
“l'installazione di torri e tralicci per impianti radio
-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di
telecomunicazione”, appunto in quanto "interventi di nuova
costruzione” (cfr. Cons. St., sez. VI 18.05.2004 n.
3193).
Tuttavia il primo giudice non ha correttamente applicato i
principi suesposti.
Nella specie, il Comune di Parma ha ingiunto la demolizione
di antenne/parabole ad Elemedia (ed all’INAIL) ai sensi
dell’art. 10, co. 1, della legge 28.02.1985 n. 47,
concernente “Opere eseguite senza autorizzazione”, non già
ai sensi del precedente art. 7, concernente “Opere eseguite
in assenza di concessione, in totale difformità o con
variazioni essenziali”, sicché esso stesso si è reso conto
che l’installazione dell’antenna/parabola non necessitava di
concessione edilizia, bensì di autorizzazione (ovvero di d.i.a.).
Del resto, a prescindere dal dato giuridico che la sanzione
della demolizione non è applicabile nell’ipotesi di cui
all’art. 10 della legge n. 47 del 1985, prevedente la sola
sanzione pecuniaria, nella specie –come dedotto
dall’attuale appellante– il Comune non si è dato carico di
enucleare gli elementi di fatto in base ai quali
l’antenna/parabola, di cui non è controversa l’installazione
su un traliccio preesistente e regolarmente assentito,
avrebbe rilievo quanto meno sul piano ambientale ed estetico
e di conseguenza costituisca significativa trasformazione
del territorio, dovendosi ovviamente aver riguardo a
unicamente alla stessa antenna/parabola e non anche
all’insieme di analoghe strutture eventualmente già presenti
sull’immobile, in ipotesi sanzionabili autonomamente qualora
ricorrano i prescritti presupposti.
Non senza dire che, com’è ben noto, un’antenna di modeste
dimensioni, irrilevante sotto il profilo edilizio, neppure
necessita di mera autorizzazione parimenti edilizia,
occorrendo invece, trattandosi di impianto di emittenza
radio, unicamente la ben diversa e specifica autorizzazione
tecnica (nella specie, ex art. 6 della legge regionale
Emilia Romagna 31.10.2000, n. 30, recante “Norme per la
tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente
dall’inquinamento elettromagnetico”).
In conclusione, condivise le censure attinenti ai profili
trattati contenute nel secondo motivo di gravame ed
assorbita ogni ulteriore doglianza, l’appello va accolto,
con conseguente riforma della sentenza appellata nel senso
dell’annullamento dell’impugnata ordinanza comunale di
ingiunzione di demolizione in accoglimento del ricorso di
primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.11.2013 n. 5313 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il principio di
segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa
la valutazione delle offerte tecniche, è interdetta al
seggio di gara la conoscenza delle percentuali di ribasso
offerte per evitare ogni possibile influenza sulla
valutazione dell’offerta tecnica, atteso che il principio
della segretezza dell’offerta economica è presidio
dell’attuazione dei principi di imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa, predicati dall’art. 97
Cost., sub specie della trasparenza e della par condicio dei
concorrenti, intendendosi così garantire il corretto, libero
ed indipendente svolgimento del processo
intellettivo-volitivo che si conclude con il giudizio
sull’offerta tecnica e, in particolare, con l’attribuzione
dei punteggi ai singoli criteri con i quali quest’ultima
viene valutata.
La consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio afferma, infatti, che il principio di segretezza
comporta che, fino a quando non si sia conclusa la
valutazione delle offerte tecniche, è interdetta al seggio
di gara la conoscenza delle percentuali di ribasso offerte
per evitare ogni possibile influenza sulla valutazione
dell’offerta tecnica, atteso che il principio della
segretezza dell’offerta economica è presidio dell’attuazione
dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa, predicati dall’art. 97 Cost., sub specie
della trasparenza e della par condicio dei concorrenti,
intendendosi così garantire il corretto, libero ed
indipendente svolgimento del processo intellettivo-volitivo
che si conclude con il giudizio sull’offerta tecnica e, in
particolare, con l’attribuzione dei punteggi ai singoli
criteri con i quali quest’ultima viene valutata (v., da
ultimo, in questo senso Cons. St., sez. V, 19.04.2013, n.
2214)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.11.2013 n. 5309 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare pubbliche. Ordinanza Tar Milano
Bando alle cauzioni pari all'importo posto in garanzia. Una
cauzione non può avere lo stesso importo del contratto che
intende garantire.
Questo è il principio –valido negli appalti pubblici di
lavori, servizi e forniture– adottato dal TAR
Lombardia-Milano, Sez. III, con l'ordinanza
06.11.2013 n. 1181.
La questione riguarda la futura autostrada Pedemontana
lombarda, che aveva posto in gara il servizio di esazione
dei pedaggi della propria viabilità (160 km di autostrade e
tangenziali). Per la progettazione, realizzazione e
manutenzione del servizio, la società autostradale
richiedeva all'aggiudicatario una specifica cauzione, a
copertura dell'eventuale mancato funzionamento dei sistemi
di pedaggio. Il problema è sorto in quanto questa sola
garanzia, volta a coprire eventuali mancati introiti della
concessionaria, ammontava a 60 milioni di euro.
Questo importo sbilanciava la gara, introducendo una
selezione sulla base di parametri diversi da quelli
strettamente tecnici di progettazione, realizzazione e
manutenzione del complesso sistema viario. Il Tar ha quindi
sospeso la gara, ritenendo violato il principio di massima
partecipazione. Un principio che impone un rapporto logico
tra valore dell'appalto ed importo della cauzione.
Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto illogico porre
a carico del progettista e gestore del servizio di esazione
anche il rischio del mancato pagamento dell'utenza. In altri
termini, attraverso una gara finalizzata a selezionare il
miglior sistema tecnico di esazione dei pedaggi e la
relativa manutenzione, è sembrato eccessivo pretendere la
copertura anche un diverso settore, cioè quello più
strettamente finanziario del rischio di mancato pagamento da
parte dell'utenza.
Nelle opere pubbliche realizzate con finanza di progetto
(articolo 153 del Dlgs. 163/2006), il piano economico
finanziario assume particolare rilievo, tant'è vero che è
previsto il coinvolgimento, fin dalla fase di progettazione,
di uno o più istituti finanziatori. Ma per la singola gara,
volta ad individuare il soggetto idoneo a progettare e
gestire un settore specifico come l'esazione dei pedaggi, il
Tar non ritiene possibile chiedere una fideiussione volta a
coprire i mancati introiti.
Questo orientamento del Tar applica il principio di massima
partecipazione, che impone una ragionevole proporzione tra
il valore dell'appalto e le garanzie richieste. I principi
di proporzionalità e di non aggravamento impediscono quindi
alle amministrazioni di chiedere oneri inutili o
eccessivamente gravosi, che diventerebbero elementi di
selezione incongrui rispetto all'oggetto del lavoro,
servizio o fornitura posti in gara.
Inoltre, inciderebbero sulla stessa partecipazione delle
imprese, perché una garanzia di importo rilevante (nel caso
specifico, 60 milioni di euro) presuppone una particolare
solidità economica
(articolo Il Sole 24 Ore
del 10.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il punto nodale della questione sottoposta
all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale
di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio
o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a
spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al
pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali
comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal
richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma
4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le
unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono
possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto
requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della
disciplina concernente l’eliminazione delle barriere
architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico
debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale
da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al
quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia
consentito ad una determinata categoria di aventi diritto
sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da
eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio
professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo
aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della
visitabilità, come normativamente tratteggiato.
L’art. 82 del Testo unico dell’edilizia
(D.P.R. 380/2001), che ripropone il testo dell’art. 24 della
L. 05.02.1992, n. 104, sotto la rubrica “Eliminazione o
superamento delle barriere architettoniche negli edifici
pubblici e privati aperti al pubblico”, stabilisce che tutte
le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati
aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare
l'accessibilità e la visitabilità, sono eseguite in
conformità alle norme per l'eliminazione delle barriere
architettoniche e al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 14.06.1989, n. 236.
Tale decreto ministeriale, nel dettare prescrizioni tecniche
necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del
superamento e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche, all’art. 3, per quanto in questa sede di
interesse, precisa: “In relazione alle finalità delle
presenti norme si considerano tre livelli di qualità dello
spazio costruito. L'accessibilità esprime il più alto
livello in quanto ne consente la totale fruizione
nell'immediato. La visitabilità rappresenta un livello di
accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa
dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente
comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla
persona con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale. La adattabilità rappresenta un livello ridotto
di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria
previsione progettuale, di trasformazione in livello di
accessibilità; l'adattabilità è, pertanto, un'accessibilità
differita”.
Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del
Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un
avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che
difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese
dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali
comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal
richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma
4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le
unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono
possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto
requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della
disciplina concernente l’eliminazione delle barriere
architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico
debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale
da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al
quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia
consentito ad una determinata categoria di aventi diritto
sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da
eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio
professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo
aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della
visitabilità, come normativamente tratteggiato.
Nel caso di specie, peraltro, l’impugnata norma comunale,
non riguarda tutti gli studi professionali ma soltanto
quelli di alcune categorie di professionisti.
Invero, all’esito di osservazioni proposte dai Presidenti
dell’Ordine degli Architetti, dell’Ordine degli Ingegneri e
dell’Ordine dei Geometri della Provincia di Parma (cfr.
Estratto del processo verbale n. 2 del C.C. 22.01.2007,
pag. 3), la norma ha limitato la censurata prescrizione
soltanto agli studi professionali “quando il professionista
si legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione
istituzionale in forza della quale riceva un pubblico
indistinto”, indicando fra questi, a titolo esemplificativo,
anche gli “avvocati iscritti nell’elenco dei difensori
d’ufficio e al gratuito patrocinio”.
In proposito va ricordato che il D.P.R. 30.05.2002, n.
115, Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia, all’art. 74
dispone che è assicurato il patrocinio a spese dello Stato
sia nel processo penale per la difesa del cittadino non
abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da
reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile,
responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena
pecuniaria, sia nel processo civile, amministrativo,
contabile, tributario e negli affari di volontaria
giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente
quando le sue ragioni risultino non manifestamente
infondate.
Inoltre, in base all’art. 97, comma 5, c.p.p., segnatamente
il difensore di ufficio ha l'obbligo di prestare il
patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato
motivo.
La stessa norma, a tal fine, al comma 2 prevede che siano i
consigli dell'ordine forense di ciascun distretto di corte
d'appello, al fine di garantire l'effettività della difesa
d'ufficio, deputati a predisporre gli elenchi dei difensori
che, a richiesta dell'autorità giudiziaria o della polizia
giudiziaria, sono indicati ai fini della nomina, fissando i
criteri per la nomina dei difensori sulla base delle
competenze specifiche, della prossimità alla sede del
procedimento e della reperibilità.
Osserva il Collegio che, in entrambi i suddetti casi il
difensore, se si eccettua la caratteristica
dell’obbligatorietà che connota la sola difesa d’ufficio, è
chiamato a prestare la propria attività professionale in
favore di una ampia e indiscriminata platea di aventi
diritto.
L’avvocato, dunque, esercita in detti casi un munus
pubblicum di particolare interesse per la collettività, al
quale accede poiché iscritto in appositi elenchi,
l’inserimento nel quale avviene a domanda dell’interessato e
non certo d’ufficio, né in via autoritativa.
L’appartenenza alle suddette categorie professionali, in
definitiva, è il frutto di una libera scelta del
professionista; scelta che, da una parte comporta il
vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello
Stato, dall’altra impone al professionista l’onere di
adeguare il proprio studio professionale alla normativa
statale finalizzata all’eliminazione delle barriere
architettoniche.
Così riguardata la funzione in discorso, l’impugnata norma
regolamentare comunale non appare né illogica né
irragionevole, né appare il frutto di un distorto esercizio
del potere.
D'altra parte richiedere la visitabilità quale livello di
fruizione degli edifici, anche con riguardo agli studi
professionali e, segnatamente, delle con riguardo agli studi
delle suindicate circoscritte categorie di avvocati, risulta
in linea con la ratio della normativa in tema di abolizione
delle barriere architettoniche, di talché l’impugnata
disciplina regolamentare si profila immune anche dal
proposto vizio di violazione di legge.
Non vi è dubbio che la ratio della legge sia quella
di garantire anche al soggetto disabile la possibilità di
usufruire, nella massima autonomia possibile, delle
prestazioni rese dal professionista presso il proprio
studio, senza che ciò incontri limiti o impedimenti
derivanti dall'esistenza di barriere architettoniche
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 06.11.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Vincoli. Il Codice della navigazione.
Resta reato costruire su aree demaniali.
Costruire una casa con vista mare a meno di trenta metri dal
bagnasciuga, senza il nulla osta dell'autorità marittima, è
un reato.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza
05.11.2013 n. 44644, bacchetta i giudici di merito che avevano
assolto un'intera famiglia dall'accusa di aver realizzato
una costruzione abusiva a Modica in Sicilia.
Il Gip aveva
chiesto un decreto di condanna per gli amanti del mare che
avevano superato la zona off limits dei trenta metri,
piazzando nell'area demaniale una casa mobile circondata da
un muro senza curarsi di ottenere il nulla osta del Capo
dipartimento. Più indulgente il tribunale, che considerava
l'azione ormai depenalizzata per effetto delle modifiche
apportate alle norme di riferimento.
Per il giudice di merito a cancellare il reato sarebbe stata
l'introduzione del Dlgs 96/2005, il quale, nel modificare
l'articolo 1161 del codice della navigazione, cancellava
ogni riferimento all'articolo 55 dello stesso codice che
prevede l'obbligo del nulla osta in caso di «esecuzione di
nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio
marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare».
L'azione contestata agli imputati non poteva dunque più
ricadere nel raggio d'azione dell'articolo 1161 dello stesso
codice, che usa la mano pesante con chi occupa senza titolo
le aree di proprietà del demanio, punendoli con l'arresto
fino a sei mesi o con l'ammenda fino a 516 euro. Un verdetto
impugnato dai procuratori dei tribunali di Modica e di
Catania, che smontano la tesi dei giudici di primo grado.
Secondo i Pg il mancato riferimento al codice della
navigazione non va letto come una lancia spezzata in favore
degli abusivi, che renderebbe "veniale" l'abuso, ma al
contrario come un irrigidimento in caso di trasgressione.
L'articolo 19 del Dlgs 96/2005 nella nuova formulazione
sostituisce le parole «non osserva le disposizioni di cui
agli articoli 55, 714 e 716» con «non osserva i vincoli cui
è assoggettata la proprietà privata nelle zone prossime al
demanio marittimo o agli aereoporti». Scopo della modifica -spiega la Cassazione- non è quello di depenalizzare la
violazione, ma di rafforzare la tutela dei vincoli posti a
difesa delle aree in prossimità del mare e degli aereoporti.
«La novella -si legge nella sentenza- ha sostituito
l'individuazione di specifici vincoli indicati nella
precedente formulazione con la più amplia previsione di
qualsiasi vincolo a tutela del demanio». Una protezione
più vasta che include anche tutti gli obblighi già imposti
dal codice della navigazione: primo tra tutti il nulla osta
preventivo, di cui si può fare a meno solo quando le nuove
costruzioni sono indicate in piani regolatori o di
ampliamento che hanno già ottenuto l'ok dell'autorità.
L'articolo 1161 anche dopo il restyling conserva tutta la
sua forza deterrente nel sanzionare anche chi impedisce
l'uso pubblico delle aree demaniali o fa innovazioni non
autorizzate
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In discarica filtri anti-odore.
Giustizia. La Corte di cassazione ha condannato i gestori
per non aver utilizzato le migliori tecnologie.
La difesa degli imputati si era basata sull'assenza di
prescrizioni
Rischiano una multa fino a trentamila euro i gestori delle
discariche che non fanno ricorso alle migliori tecnologie
per eliminare i miasmi provenienti dai rifiuti.
La Corte di
Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 05.11.2013
n. 44444 spezza
una lancia in favore degli abitanti che vivono vicino agli
impianti che raccolgono tonnellate di spazzatura, affermando
il loro diritto a non essere soffocati dalle emissioni.
Nel caso specifico a vincere la battaglia contro i cattivi
odori sono stati gli abitanti della Garfagnana che, dopo
anni di proteste per le esalazioni che provenivano dai
rifiuti in attesa di finire nel termovalorizzatore, hanno
visto condannare i responsabili del loro disagio al
pagamento di un'ammenda.
I giudici della terza sezione penale hanno, infatti,
contestato al direttore tecnico (nonché legale
rappresentante della Spa "incriminata") e al gestore, la
violazione degli articoli 8, comma 1, e 19, comma 12 del Dlgs 133/2005. La norma che attua la direttiva comunitaria
(2000/76/Ce) sull'incenerimento dei rifiuti prevede, con
l'articolo 8, la necessità di adottare «tutte le misure
affinché le attrezzature utilizzate per la ricezione, gli
stoccaggi, i pretrattamenti e la movimentazione dei rifiuti,
nonché per la movimentazione o lo stoccaggio dei residui
prodotti, siano progettate e gestite in modo da ridurre le
emissioni e gli odori, secondo i criteri della migliore
tecnologia disponibile». Obblighi che i ricorrenti
sostenevano di non avere, dando della norma una lettura
"minimalista" per l'assenza di uno degli elementi
costitutivi del reato: l'inesistenza di prescrizioni
riguardanti le emissioni di odori.
Secondo gli imputati, quando sia l'articolo 8 sia il 19 che
individua le condotte sanzionabili, parlano delle migliori
tecnologie possibili fanno riferimento a quelle imposte
nell'atto con cui l'autorità autorizza l'impianto. È una
lettura che tenta uno "scaricabarile" senza successo. Per la
Suprema corte non è pensabile che una norma affidi all'ente
preposto delle missioni impossibili: non solo il compito di
l'individuare le migliori tecnologie disponibili in futuro
ma anche quello di stabilire le modalità di progettazione e
gestione delle apparecchiature utilizzate.
Decisamente meno favorevole ai ricorrenti l'interpretazione
della Cassazione. Per i giudici della terza sezione è
sufficiente stare al tenore letterale della legge per capire
da che parte stanno gli obblighi. La disposizione prende in
considerazione l'attività svolta in concreto dagli impianti
nella fase post realizzazione e autorizzazione, esaminando
le modalità di gestione delle apparecchiature utilizzate per
abbattere i cattivi odori in tutte le fasi di gestione dei
rifiuti. Si tratta di una norma generale che indica le
conseguenze da evitare e che riguarda non l'impianto nel suo
complesso, per il quale si è ottenuto il via libera, ma i
singoli macchinari utilizzati.
La Suprema corte ricorda che il richiamo al criterio della
migliore tecnologia disponibile è spesso utilizzato dal
legislatore per bilanciare l'interesse alla tutela
ambientale con lo sviluppo economico. Una quadratura del
cerchio che si raggiunge «prevedendo nel tempo, l'adozione
in maniera progressiva, di tecniche sempre più avanzate con
costi sopportabili, senza che ne sia ovviamente possibile la
preventiva individuazione». Il reato scatta dunque quando
gli impianti non utilizzano i moderni sistemi per ridurre le
emissioni e gli odori. Senza che per questo serva una
espressa previsione nel titolo abilitativo
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2013). |
PATRIMONIO: Il Comune paga per le buche in strada.
Infortuni stradali. La rete estesa non è una giustificazione.
Il gestore di una strada ha sempre l'obbligo di tenerla in
condizioni di sicurezza e non può più liberarsene
semplicemente affermando che l'estensione della propria rete
stradale è talmente estesa da non consentirne una
sorveglianza puntuale e continua.
È il cosiddetto obbligo di
custodia, che è stato riaffermato dalla Sez. lavoro
della Corte di Cassazione, con la
sentenza
05.11.2013 n. 24793, depositata
ieri. Ma ciò non basta a sollevare il danneggiato da ogni
responsabilità: dev'essere lui a dimostrare di aver percorso
la strada «con la dovuta attenzione» e, se si tratta di un
pedone, con le scarpe adatte.
La questione sta nell'interpretare l'articolo 2051 del
Codice civile, che prevede la responsabilità che ha il
custode (e il gestore della strada è assimilato ad esso,
come prevede il regio decreto 2056 del 1923) sulle cose che
ha in custodia, «salvo che provi il caso fortuito». Per
anni, sulla scia della sentenza 156/1999 della Consulta, la
giurisprudenza prevalente ha ritenuto che l'estensione della
rete bastasse di per sé a configurare il caso fortuito. Ma
già negli ultimi cinque anni la Corte aveva adottato
un'interpretazione più restrittiva per il gestore.
La durata dei processi ha fatto sì che ci siano ancora casi
in cui c'è un verdetto che risale a prima e che non sono
ancora arrivati alla sentenza definitiva. Uno di questi è
appunto quello deciso dalla Cassazione con la sentenza
depositata ieri, che si riferisce alla frattura di una gamba
riportata da una signora inciampata sul dislivello tra una
basola e l'altra di una via di Napoli. L'infortunio è del
2001 e la pronuncia della Corte d'appello era del 2006.
La causa si era sviluppata fondamentalmente sul fatto che il
Comune non potesse garantire una custodia effettiva della
sua rete stradale, a causa della sua vasta estensione (e
quindi non poteva essere ritenuto responsabile della sua
custodia) e sul fatto che la donna abitasse nel quartiere
dov'è avvenuto l'incidente (e quindi ne conoscesse lo stato
delle strade). Si era anche discusso se fosse configurabile
una responsabilità da fatto illecito (articolo 2043 del
Codice civile), perché il dislivello era occultato da
immondizia e scarsa illuminazione.
La Cassazione ha ricordato che ora la sua giurisprudenza è
cambiata. I giudici si riferiscono alla sentenza 20427/2008,
che solleva l'ente proprietario della strada dalle sue
responsabilità solo se dimostra di non aver potuto fare
nulla per evitare il danno, causato da un evento improvviso.
La sentenza di appello sulla vicenda di Napoli si limitava a
respingere la richiesta di risarcimento perché all'epoca
l'obbligo di custodia non era inteso in modo così
stringente. Quindi in appello non ci si era addentrati
nell'analisi dell'eventuale responsabilità della donna. La
Cassazione ha quindi rinviato il caso in appello, dove si
dovrà considerare che il Comune ha una sua responsabilità e
la si dovrà comparare a quella che eventualmente emerge
dalla distrazione della danneggiata e al fatto che potesse
indossare scarpe che hanno amplificato il danno
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Disabili, nuovo ufficio senza consenso.
Anche il lavoratore portatore di handicap può essere
legittimamente trasferito in nuova sede di lavoro, in
presenza di una sopravvenuta incompatibilità ambientale,
prescindendo dalla necessità di raccogliere il suo
preventivo consenso.
Ad affermarlo è stata la Corte di Cassazione con la
sentenza
05.11.2013 n. 24775.
La Suprema corte ha ribadito il principio, già espresso in
una precedente decisione delle Sezioni Unite in materia di
assistenza alle persone handicappate, secondo cui il diritto
del lavoratore disabile di non essere trasferito senza il
suo consenso –previsto dall'articolo 33, comma 6, della
legge 104/1992– se costituisce un limite invalicabile in caso
di mobilità connessa ad ordinarie esigenze aziendali, non
può prevalere ove sia accertato che la presenza del
lavoratore nella sede di provenienza costituisce condizione
d'incompatibilità ambientale.
Per i giudici di legittimità la tutela prevista a favore dei
lavoratori portatori di handicap non configura un diritto
assoluto e illimitato per il quale, in assenza di espresso
consenso del lavoratore, non sia possibile adottare la
misura del trasferimento della sede di lavoro, ma incontra
un limite nell'esigenza di tutelare altri rilevanti
interessi di rango costituzionale, tra cui quello di
impedire che le esigenze economico-produttive ed
organizzative del datore di lavoro siano lese in maniera
consistente.
Occorre, in altri termini, operare un equilibrato
bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti,
tutti espressione di valori costituzionali, per concludere
che, se la misura del trasferimento è sollecitata da una
sopravvenuta situazione di incompatibilità ambientale, il
regime di tutela previsto dalla legge 104/92 non può
prevalere rispetto al preminente interesse datoriale alla
organizzazione dell'attività aziendale.
Il caso sottoposto ai giudici di legittimità riguardava una
lavoratrice disabile alle dipendenze di ente pubblico, che
era stata trasferita ad altro luogo di lavoro nell'ambito
dello stesso comune in seguito ad un'insorta incompatibilità
ambientale derivante dalla situazione di contrasto con gli
altri colleghi di lavoro. La difesa della lavoratrice aveva
sostenuto, tra le altre rivendicazioni, che la misura del
trasferimento fosse illegittima, in quanto non era stato
raccolto in precedenza il consenso della dipendente
portatrice di handicap.
La Corte d'appello aveva rigettato le argomentazioni della
lavoratrice e la Suprema Corte conferma la decisione.
Ad avviso della Cassazione il profilo di diritto che rende
legittimo il trasferimento della lavoratrice affetta da
disabilità, anche in assenza di consenso preventivo, risiede
nella circostanza che l'incompatibilità ambientale,
ponendosi come causa che pregiudica l'organizzazione e il
funzionamento dell'attività aziendale, realizza un'obiettiva
esigenza di modifica del luogo di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia dal parere della sovrintendenza sia dalla
proposta del Comune e poi dall’atto di diniego in sanatoria
adottato dal medesimo, non è dato comprendere le ragioni di
contrasto con l’interesse paesaggistico in relazione allo
specifico vincolo insistente sulle aree in esame.
Le Amministrazioni coinvolte hanno utilizzato frasi
generiche senza analizzare in concreto le ragioni del
presunto contrasto con i valori paesaggistici.
Pertanto, si verte in un’ipotesi in cui è ammesso
l’intervento demolitorio del Giudice amministrativo, atteso
non risultano adeguate l’istruttoria e la motivazione dei
provvedimenti impugnati.
---------------
Ha errato l’Amministrazione nel ritenere che i lavori
relativi a cabine prefabbricate e strutture ombreggianti
comportino aumento di superfici utili o volumi e quindi che
non si possa procedere con riferimento ad essi
all’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica
di cui all’articolo 167, comma 4 del d.lgs. cit..
In realtà, secondo la giurisprudenza, il concetto di volume
presupposto dalla citata normativa è il medesimo che assume
rilievo urbanistico.
Difatti, se è ben vero che anche un volume irrilevante
urbanisticamente (es. perché è un volume tecnico) può
astrattamente incidere in modo pregiudizievole sul paesaggio
(la cui maggior esigenza di tutela ha impedito al
legislatore di esportare in materia con analoga ampiezza
l’istituto della sanatoria a regime ex articolo 36 del
d.p.r. n. 380 del 2001), e che la normativa paesaggistica ha
una sua autonomia rispetto a quella edilizia ed urbanistica,
nondimeno il Collegio condivide quella giurisprudenza che
per ragioni di coerenza sistematica non ritiene
condivisibile un’interpretazione letterale del divieto di
cui all’articolo 167, comma 5, del citato d.lgs..
Difatti, il rischio di lesione per il bene paesaggistico è
comunque minore in caso di volumi irrilevanti
urbanisticamente, atteso il loro intrinseco carattere di
accessorietà (che quindi presuppone un precedente intervento
già valutato ed autorizzato), e considerato che la
sottoponibilità dell'intervento al parere della
Soprintendenza non comporta automaticamente il giudizio di
compatibilità, che viene rilasciato solo quando la sua
incidenza sul paesaggio non è tale da compromettere il bene
protetto.
I ricorrenti avrebbero realizzato, secondo quanto risulta
dai provvedimenti impugnati:
1) una piattaforma in cemento mediante la posa di piancozze
di varie misure per un totale di mq. 615;
2) una struttura in legno insistente sulla predetta
piattaforma coperta con telo plastificato per un totale di
mq. 78,00 circa, n. 6 gazebo in ferro con copertura in
compensato e ulteriore tetto in plastica per un totale di
circa mq. 150 nonché n. 4 cabine in legno con una superficie
di circa mq. 9,00.
Con ordinanza del 19.11.2012 il Comune di Ortona ha
ordinato la rimozione di tali opere, sul presupposto che si
tratterebbe di manufatti abusivi, in quanto realizzati in
assenza di titoli abilitativi nonché di autorizzazione ex
art. 55 del Codice della Navigazione in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Con istanza del 03.08.2012, i ricorrenti hanno chiesto il
permesso di costruire in sanatoria.
Il 27.11.2012 il Comune di Ortona ha espresso parere
favorevole ai sensi dell’autorizzazione ex articolo 55 del
codice della navigazione.
Il 09.01.2013, il Comune resistente, ai sensi
dell’articolo 146, comma 7, del d.lgs. n. 42 del 2004, ha
proposto alla sovrintendenza l’adozione di un parere
negativo ai fini dell’autorizzazione paesaggistica “ritenuto
che le opere da eseguire e riportate nel progetto in oggetto
recano pregiudizio alla conservazione delle caratteristiche
ambientali dei luoghi interessati dall’intervento in quanto
incompatibili con i valori paesaggistici riconosciuti a
norma del comma 7 dell’articolo 146 del d.lgs. n. 42 del
2004”.
Il 21.02.2013 questo Tribunale ha accolto l’istanza
cautelare.
Il 13.06.2013, infine, il Comune di Ortona, sulla scorta
del parere negativo della Sovrintendenza, vincolante ai
sensi del comma 5 del citato articolo 146, rilevato che
l’intervento ricade in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico in base al d.m. 25.03.1970 e al d.lgs. n.
42 del 2004, ha rigettato l’istanza di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria.
La sovrintendenza ha motivato il proprio diniego, nel
preavviso di rigetto, rilevando che “per i lavori relativi a
cabine prefabbricate e strutture ombreggianti che comportano
aumento di superfici utili o volumi non può procedere
all’accertamento della compatibilità paesaggistica di cui
all’articolo 167, comma 4, e pertanto si rinvia al Comune per
il seguito di competenza. Per i lavori relativi alle
pavimentazioni che non comportano aumento di superfici utili
o volumi … i lavori eseguiti sono fortemente pregiudizievoli
alla conservazione del contesto paesaggistico a prescindere
dalle opere realizzate che, in ogni caso, mai potrebbero
essere considerate di modesta entità né modello del
miglioramento del paesaggio”.
Ciò, su presupposto che gli interventi realizzati ricadono
in area sottoposta a tutela ai sensi della parte III del
d.lgs. n. 42 del 2004, e che il comma 4 dell’articolo 146
del medesimo d.lgs. consente il rilascio dell’autorizzazione
in sanatoria per i casi di cui all’articolo 167, comma 4.
Avverso il diniego di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, i ricorrenti hanno proposto motivi aggiunti
depositati il 17.07.2013, rilevando sostanzialmente la
genericità della motivazione contenuta nei dinieghi, in
relazione alla natura delle opere di lieve impatto
paesaggistico e facilmente amovibili.
...
Il ricorso per motivi aggiunti è fondato.
Come si evince agevolmente dalla premessa in fatto, sia dal
parere della sovrintendenza sia dalla proposta del Comune e
poi dall’atto di diniego in sanatoria adottato dal medesimo,
non è dato comprendere le ragioni di contrasto con
l’interesse paesaggistico in relazione allo specifico
vincolo insistente sulle aree in esame.
Le Amministrazioni coinvolte hanno utilizzato frasi
generiche senza analizzare in concreto le ragioni del
presunto contrasto con i valori paesaggistici.
Pertanto, si verte in un’ipotesi in cui è ammesso
l’intervento demolitorio del Giudice amministrativo, atteso
non risultano adeguate l’istruttoria e la motivazione dei
provvedimenti impugnati (cfr. TAR Bari sentenza 10.07.2012 n. 1395; TAR Trieste sentenza 15.12.2011 n.
560).
Il Collegio rileva inoltre che ha errato l’Amministrazione
nel ritenere che i lavori relativi a cabine prefabbricate e
strutture ombreggianti comportino aumento di superfici utili
o volumi e quindi che non si possa procedere con riferimento
ad essi all’accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4 del d.lgs.
cit..
In realtà, secondo la giurisprudenza, il concetto di volume
presupposto dalla citata normativa è il medesimo che assume
rilievo urbanistico (cfr. TAR Roma sentenza 15.07.2013 n. 6997).
Difatti, se è ben vero che anche un volume irrilevante urbanisticamente (es. perché è un volume tecnico) può
astrattamente incidere in modo pregiudizievole sul paesaggio
(la cui maggior esigenza di tutela ha impedito al
legislatore di esportare in materia con analoga ampiezza
l’istituto della sanatoria a regime ex articolo 36 del
d.p.r. n. 380 del 2001), e che la normativa paesaggistica ha
una sua autonomia rispetto a quella edilizia ed urbanistica,
nondimeno il Collegio condivide quella giurisprudenza che
per ragioni di coerenza sistematica non ritiene
condivisibile un’interpretazione letterale del divieto di
cui all’articolo 167, comma 5, del citato d.lgs. (cfr. Tar
Napoli, sentenza n. 1748 del 2009).
Difatti, il rischio di lesione per il bene paesaggistico è
comunque minore in caso di volumi irrilevanti
urbanisticamente, atteso il loro intrinseco carattere di
accessorietà (che quindi presuppone un precedente intervento
già valutato ed autorizzato), e considerato che la
sottoponibilità dell'intervento al parere della
Soprintendenza non comporta automaticamente il giudizio di
compatibilità, che viene rilasciato solo quando la sua
incidenza sul paesaggio non è tale da compromettere il bene
protetto (cfr. TAR Roma 15.07.2013 n. 6997).
Ciò premesso, è appena il caso di rilevare che, dato il loro
carattere del tutto accessorio, nel caso in esame, come si
evince anche dalla documentazione fotografica allegata, le
cabine non hanno una propria funzione autonoma, ed hanno una
dimensione tutto sommato poco rilevante in relazione alle
opere cui accedono e conseguentemente manifestano un
limitato valore di mercato rispetto ad esse, e pertanto
possono essere ritenute irrilevanti urbanisticamente,
proprio quali pertinenze.
Le strutture ombreggianti, viceversa, non appaiono
ontologicamente idonee a determinare volumi nuovi in senso
urbanistico.
Ne consegue che la Sovrintendenza, come dedotto dai
ricorrenti (cfr. pagg. 9 e 10 dei motivi aggiunti), non
doveva esimersi dal valutarne la compatibilità paesaggistica
in sanatoria, atteso che non si tratta di costruzioni idonee
a creare volumi urbanisticamente rilevanti.
Quanto, infine, alle superfici in cemento, anche a
prescindere dalla circostanza dedotta dalla parte ricorrente
secondo cui gran parte di esse sarebbero già oggetto di
autorizzazione, appaiono del tutto generiche e poco
comprensibili le ragioni di presunto contrasto
paesaggistico, atteso che, peraltro, la valutazione sembra
prescindere addirittura dalle opere concretamente
realizzate: “… i lavori eseguiti sono fortemente
pregiudizievoli alla conservazione del contesto
paesaggistico a prescindere dalle opere realizzate che, in
ogni caso, mai potrebbero essere considerate di modesta
entità né modello del miglioramento del paesaggio”
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.11.2013 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto ai diritti di segreteria, la
giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che la relativa
imposizione contrasta con l'art. 93, comma 2, del d.lgs. n.
259 del 2003, che vieta di subordinare il rilascio delle
autorizzazioni in materia di telecomunicazioni ad oneri
economici diversi rispetto a quelli individuati dal
legislatore statale e non rientranti nell'ambito
dell'elencazione ammessa dal Codice delle telecomunicazioni.
Per le stesse ragioni, inoltre, risulta illegittima la
previsione dell’onere di adempiere ad un deposito cauzionale
o ad altre forme di garanzia per l’adempimento degli
obblighi di cui all’articolo 93 cit..
In ultima analisi, anche la prestazione di depositi
cauzionali rientra pur sempre nell’ambito della categoria
degli oneri (finanziari), espressamente vietati dalla norma
citata.
In tal senso, e su fattispecie analoga, del resto, si è già
espressa la giurisprudenza, secondo cui, appunto, l'art. 93
del d.lgs. n. 259 del 2003 vieta espressamente l'imposizione
ai gestori di oneri non previsti dalla legge, sicché
l'imposizione di una polizza assicurativa a garanzia dello
smontaggio dell'impianto e del ripristino dello stato dei
luoghi, deve ritenersi senz'altro illegittimo.
... per l'annullamento dei provvedimenti n. 003541 del 26.11.2010 e n. 00372 del 20.12.2010 con cui il
Consorzio dell'area di sviluppo industriale del vastese ha
subordinato il rilascio dell'autorizzazione richiesta dalla
ricorrente per la posa cavo su pali su strada consortile, al
versamento di somme pecuniarie.
...
Il ricorso è fondato.
Quanto ai diritti di segreteria, la
giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che la relativa
imposizione contrasta con l'art. 93, comma 2, del d.lgs. n.
259 del 2003, che vieta di subordinare il rilascio delle
autorizzazioni in materia di telecomunicazioni ad oneri
economici diversi rispetto a quelli individuati dal
legislatore statale e non rientranti nell'ambito
dell'elencazione ammessa dal Codice delle telecomunicazioni
(cfr. Tar Cagliari, sentenza 02.02.2010 n. 119).
Per le stesse ragioni, inoltre, risulta illegittima la
previsione dell’onere di adempiere ad un deposito cauzionale
o ad altre forme di garanzia per l’adempimento degli
obblighi di cui all’articolo 93 cit..
In ultima analisi, anche la prestazione di depositi
cauzionali rientra pur sempre nell’ambito della categoria
degli oneri (finanziari), espressamente vietati dalla norma
citata.
In tal senso, e su fattispecie analoga, del resto, si è già
espressa la giurisprudenza, secondo cui, appunto, l'art. 93
del d.lgs. n. 259 del 2003 vieta espressamente l'imposizione
ai gestori di oneri non previsti dalla legge, sicché
l'imposizione di una polizza assicurativa a garanzia dello
smontaggio dell'impianto e del ripristino dello stato dei
luoghi, deve ritenersi senz'altro illegittimo (cfr. TAR
Napoli sentenza 22.12.2004 n. 19627).
Quanto, infine, alla disposizione di cui all’articolo 27 del
codice della strada, ad avviso del Collegio anche qui
colgono nel segno le censure di parte ricorrente, atteso
che, ai sensi dell’articolo 231, comma 3, del d.lgs. n. 285
del 1992, in deroga a quanto previsto dal capo I del titolo II (articoli da 13 a 34-bis), si applicano le disposizioni
di cui al capo V del titolo II del codice delle
comunicazioni elettroniche (articoli da 86 a 95), di cui al
decreto legislativo 01.08.2003, n. 259, e successive
modificazioni.
Ne consegue che la norma di cui all’articolo 27 del codice
della strada, invocata dalla parte resistente, non può
essere considerata integrativa della disciplina di cui
all’articolo 93, comma 1, del codice delle
telecomunicazione, proprio perché per espressa previsione
non si applica alle concessioni e autorizzazioni per la
realizzazione di opere di telecomunicazioni
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.11.2013 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. E’ affetto da annullabilità (e non da nullità)
il provvedimento amministrativo (per sua natura autoritativo)
che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui
emanazione abbia comportato alla commissione di un reato.
2. La sussistenza della annullabilità consente l’adeguata
tutela del territorio e degli interessi pubblici coinvolti.
Difatti, a seguito dell’accertamento dei fatti in sede
penale, d’ufficio o su istanza di chi vi abbia interesse, il
Comune (così come la Regione, nell’esercizio del potere in
precedenza attribuito allo Stato dall’art. 27 della legge n.
1150 del 1942 e dall’art. 7 della legge n. 865 del 1967, poi
trasferito con il decreto legislativo n. 8 del 1972) deve
valutare se (e sotto quale profilo) l’immobile realizzato si
sia posto in contrasto con la disciplina urbanistica.
Ove tale contrasto risulti, previo contraddittorio con i
proprietari attuali l’amministrazione può rilevare il vizio
dell’atto e –sussistendo inevitabilmente l’attuale interesse
pubblico, per il contrasto con la disciplina urbanistica e
l’esigenza di ripristinare la legalità– può disporne
l’annullamento, con le conseguenze specificamente previste
dall’art. 38 del testo unico sull’edilizia (cioè l’ordine di
demolizione o la sanzione amministrativa pecuniaria).
3. L’obbligo dell’amministrazione –di prendere in
considerazione i fatti accertati in sede penale– può essere
attivato anche su istanza di un interessato (da determinare
in base al consueto criterio della vicinitas) specie quando
egli si sia costituito parte civile nel processo penale
(massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 31.10.2013 n. 5266 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia il disuso protratto
nel tempo che l’inerzia della pubblica amministrazione nella
cura della strada o nell’intervento volto ad impedire
l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con
l’uso pubblico non sono sufficienti a dimostrare
l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo
allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di
cessazione della demanialità, la volontà
dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e
da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di
conservare il bene all’uso pubblico.
In questa sede il Collegio non può che ribadire i consolidati
principi secondo cui sia il disuso protratto nel tempo che
l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della
strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o
l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico
non sono sufficienti a dimostrare l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in
assenza di un formale provvedimento di cessazione della
demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti
comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche,
incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso
pubblico (cfr. Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez.
VI, 09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V,
01.12.2006, n. 7081)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2013 n. 5207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La norma di PRG che impone uno strumento
attuativo come condizione di esercizio dello “ius
aedificandi” non impone vincoli di inedificabilità, ma
regole procedimentali per l’esercizio del diritto di
costruire e non può quindi essere equiparata alla
situazione, e relativi effetti decadenziali, regolata
dall’art. 2 della legge n. 1187/1968, che si riferisce agli
strumenti che impongano vincoli preordinati alla
espropriazione della proprietà privata.
Un ulteriore ordine di censure imputa alla sentenza l’errata
interpretazione combinata tra il citato 71 delle NTA di PRG
e l’art. 2, della legge n. 1187/1968, in base al quale i
vincoli di edificabilità perdono efficacia qualora entro
cinque anni dalla loro approvazione non siano stati
approvati i piani particolareggiati.
Anche questa tesi non
può essere condivisa, confondendo essa norme di differente
valenza.
La norma di PRG che impone uno strumento attuativo
come condizione di esercizio dello “ius aedificandi” non
impone vincoli di inedificabilità, ma regole procedimentali
per l’esercizio del diritto di costruire e non può quindi
essere equiparata alla situazione, e relativi effetti decadenziali, regolata dall’art. 2 della legge n. 1187/1968,
che si riferisce agli strumenti che impongano vincoli
preordinati alla espropriazione della proprietà privata (v.
C.d.S., sez. IV, n. 336/1995; sez. V, n. 1013/2004).
E’ pur vero che anche il rinvio alla disciplina di futuri
strumenti particolareggiati non può essere illimitato nel
tempo (Cons. di Stato, sez. IV, n. 723/1983), ma si tratta di
questione che non viene in rilievo nel presente giudizio,
che non investe la legittimità della norma di PRG applicata
o il mancato esercizio del potere di pianificazione da parte
dell’autorità a ciò preposta (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2013 n. 5202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il vincolo preordinato
all’esproprio connesso alla previsione nel piano regolatore
generale della realizzazione di un’opera di pubblica utilità
(quale il progetto di allargamento di una pubblica via), è
sottoposto al termine di decadenza di cinque anni, trascorso
il quale trova applicazione l’art. 9 DPR n. 380/2001,
regolante l’attività edilizia in assenza di pianificazione
urbanistica.
La decadenza del vincolo espropriativo non esclude che
l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento di
adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa
reiterare il vincolo, fornendo congrua motivazione in ordine
alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese
alla necessità di reiterazione.
Ai sensi dell’art. 9 DPR n. 327/2001, il vincolo
preordinato all’esproprio connesso alla previsione nel piano
regolatore generale della realizzazione di un’opera di
pubblica utilità (quale il progetto di allargamento di una
pubblica via), è sottoposto al termine di decadenza di
cinque anni, trascorso il quale trova applicazione l’art. 9
DPR n. 380/2001, regolante l’attività edilizia in assenza di
pianificazione urbanistica.
La decadenza del vincolo espropriativo non esclude che
l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento di
adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa
reiterare il vincolo, fornendo congrua motivazione in ordine
alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese
alla necessità di reiterazione (Cons. St., Sez. IV,
06.05.2013, n. 2432; 12.05.2010, n. 2843, 19.03.2008, n.
1095)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2013 n. 5197 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La circostanza che la delibera comunale non abbia
impresso direttamente vantaggi al suolo oggetto di promessa
di vendita in favore di un congiunto del sindaco, attiguo a
quello oggetto di espropriazione e di approvazione del
progetto di allargamento e sistemazione della strada, non
esclude l’ipotizzabilità di vantaggi indiretti connessi alla
realizzazione dell’opera idonei a fondare un potenziale
conflitto di interessi.
Affinché si verifichi la fattispecie generatrice
dell’obbligo di astensione, invero, occorre prescindere
dalla produzione, in concreto, di un vantaggio alla
posizione privata e di uno svantaggio a quella della p.a., a
maggior ragione quando l’oggetto sia circoscritto e, nel
caso di provvedimenti di natura edilizia, la deliberazione
non investa l’intero territorio comunale o ampie zone di
esso.
L’art. 78 del
d.lgs. n. 267/2000 prescrive per gli amministratori
l’obbligo di astensione dalla discussione e votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di parenti o affini
fino al quarto grado.
La circostanza che la delibera comunale non abbia impresso
direttamente vantaggi al suolo oggetto di promessa di
vendita in favore di un congiunto del sindaco, attiguo a
quello oggetto di espropriazione e di approvazione del
progetto di allargamento e sistemazione della strada, non
esclude l’ipotizzabilità di vantaggi indiretti connessi alla
realizzazione dell’opera idonei a fondare un potenziale
conflitto di interessi.
Affinché si verifichi la fattispecie
generatrice dell’obbligo di astensione, invero, occorre
prescindere dalla produzione, in concreto, di un vantaggio
alla posizione privata e di uno svantaggio a quella della
p.a. (Cons. St. Sez. IV, n. 28.01.2011, n. 693), a maggior
ragione quando l’oggetto sia circoscritto e, nel caso di
provvedimenti di natura edilizia, la deliberazione non
investa l’intero territorio comunale o ampie zone di esso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2013 n. 5197 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione da una gara d’appalto per l’esistenza di
precedenti penali.
In presenza di precedenti penali, il
Codice dei contratti pubblici impone alla stazione
appaltante di eseguire una specifica valutazione del
precedente penale oggetto di dichiarazione, in relazione
alla sussistenza di due autonomi e concorrenti elementi: la
gravità del reato e la sua incidenza sulla moralità
professionale.
I due elementi, per avere effetto ostativo sulla
partecipazione alla gara, debbono coesistere ed entrambi
necessitano, ai fini dell’esclusione dell’impresa, di una
puntuale ed adeguata valutazione da parte della stazione
appaltante.
La decisione in esame riguarda l’esclusione da una gara
d’appalto per assenza del requisito di moralità
professionale ex art. 38 del Codice dei contratti pubblici
per l’esistenza di un precedente penale a carico di un
direttore tecnico per un reato di gestione illecita dei
rifiuti, contestata per difetto di motivazione dalla ditta
esclusa.
Il Consiglio di Stato accoglie la doglianza di difetto di
motivazione del provvedimento di esclusione, puntualizzando
il contenuto delle valutazioni che la stazione appaltante
deve effettuare in caso di esistenza di precedenti penali.
In particolare, motiva la sentenza, l’art. 38, comma 1,
lett. c) del Codice dei contratti pubblici impone alla
stazione appaltante di eseguire una specifica valutazione
del precedente penale oggetto di dichiarazione, in relazione
alla sussistenza di due autonomi e concorrenti elementi: la
gravità del reato e la sua incidenza sulla moralità
professionale.
I due elementi, per avere effetto ostativo sulla
partecipazione alla gara, debbono coesistere ed entrambi
necessitano, ai fini dell’esclusione dell’impresa, di una
puntuale ed adeguata valutazione da parte della stazione
appaltante.
In sostanza, la sola gravità non è di per sé sufficiente ad
integrare la causa di esclusione, laddove il reato commesso
sia insuscettibile di incidere sulla moralità professionale
del concorrente e, di converso, l’astratta incidenza sulla
moralità professionale non integra la suddetta causa, quando
il reato medesimo non risponda al requisito della oggettiva
gravità.
La stazione appaltante, quindi, pur non potendo prescindere
dalla vincolatività della sentenza quanto ai fatti accertati
dal giudice penale, deve accertare in via autonoma la
sussistenza della gravità e della incidenza del reato
commesso, tenendo conto anche degli spazi non coperti dal
giudicato che pure emergano in maniera obiettiva ed
inequivoca.
Il giudice penale accerta i fatti per sussumerli in una
fattispecie astratta di reato ai fini dell’applicazione
della pena, mentre la stazione appaltante deve valutare il
precedente penale ai fini di salvaguardare l’esigenza di non
avere rapporti contrattuali con appaltatori inaffidabili,
che non garantiscano, cioè, una adeguata moralità
professionale.
Nel caso di specie l’amministrazione ha omesso di effettuare
in modo autonomo ed esaustivo una specifica e circostanziata
valutazione in ordine alla sussistenza della gravità e della
incidenza del reato commesso dal direttore tecnico e,
pertanto, il provvedimento risulta illegittimo.
Né a tal fine è sufficiente una semplice valutazione di
inerenza del reato commesso all’oggetto dell’appalto, né
l’esistenza della recidiva, qualora ciò non sia accompagnato
da una puntuale e esaustiva valutazione sulla effettiva
gravità del reato e sulla sua reale incidenza sulla moralità
professionale del soggetto interessato.
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Esito
Riforma TAR Campania Napoli, Sezione I, n. 4323/2012
Precedenti giurisprudenziali
TAR Valle d'Aosta Aosta Sez. I, 20.06.2012, n. 59; Cons.
Stato Sez. III, 07.05.2012, n. 2607; Cons. Stato Sez. III,
07.05.2012, n. 2611
Riferimenti normativi
Art. 38 del Codice dei contratti pubblici (commento
tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.10.2013 n. 5122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decorrenza del termine per impugnare il permesso di
costruire.
Ai fini della decorrenza iniziale del
termine di decadenza per impugnare il permesso di costruire
rilasciato a terzi, le iniziative giudiziali e
stragiudiziali poste in essere da uno dei coniugi,
comportanti la necessaria conoscenza dell’esistenza e del
contenuto del permesso di costruire contestato,
costituiscono indizi seri, precisi e concordanti che anche
l’altro coniuge (che ha presentato da solo ricorso al TAR)
avesse piena consapevolezza delle caratteristiche
dell’intervento edilizio autorizzato e della sua lesività.
E’ quindi tardivo il ricorso presentato da uno dei coniugi
oltre il termine di decadenza di 60 giorni dalle iniziative
poste in essere dall’altro coniuge.
Secondo giurisprudenza amministrativa consolidata, il
termine per l'impugnazione del permesso di costruire da
parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio
dalla costruzione assentita, decorre dalla effettiva
conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza
come un fatto la cui prova rigorosa incombe alla parte che
eccepisce la tardività (ex multis TAR Marche, sez. I,
26.09.2007, n. 1574; TAR Campania Salerno, sez. II,
19.07.2007, n. 860).
Al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione,
l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la
costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non
conformità della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica, con la conseguenza che in mancanza di altri e
inequivoci elementi probatori il termine decorre non con il
mero inizio dei lavori, ma con il loro completamento a meno
che non venga provata una conoscenza anticipata o si
deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o di
analoga natura, nel qual caso risulta sufficiente la
conoscenza dell'iniziativa in corso (Consiglio Stato, sez.
IV, 10.12.2007, n. 6342).
La pronuncia in esame ribadisce, innanzitutto, che la
conoscenza rilevante ai fini della decorrenza del termine
per impugnare un permesso di costruire, deve consistere
nella consapevolezza del contenuto della concessione o del
progetto edilizio o del manufatto completo dei suoi elementi
essenziali (Cons. St. Sez. V, 12.07.2010, n. 4482; Sez. IV,
10.12.2007, n. 6342; 12.02.2007, n. 599). La prova di tale
conoscenza può essere desunta anche da elementi presuntivi,
quando, per la loro concordanza e precisione, non lascino
dubbi circa la conoscenza dell’entità dell’intervento
edilizio.
Afferma poi, e qui risiede la peculiarità della decisione,
che le iniziative giudiziali e stragiudiziali poste in
essere da uno dei coniugi, comportanti la necessaria
conoscenza dell’esistenza e del contenuto del permesso di
costruire contestato, costituiscono indizi seri, precisi e
concordanti che anche l’altro coniuge (che ha presentato da
solo ricorso al TAR) avesse piena consapevolezza delle
caratteristiche dell’intervento edilizio autorizzato e della
sua lesività, essendo le relative azioni, pur se improntate
sulla legittimazione attiva disgiunta del coniuge in regime
di comunione ex art. 180 cod. civ., tese a difendere
l’integrità del patrimonio comune in ordine ad un rapporto
sostanziale unico dedotto in causa, secondo la
prospettazione del ricorrente, e ad ottenere il bene della
vita da parte di entrambi i coniugi (Cons. Stato Sez. V,
24.02.1990, n. 202).
Le azioni rivolte alla tutela dell’integrità del patrimonio
immobiliare, in cui la rappresentanza in giudizio deve
considerarsi spettante, a norma dell’art. 180 cod. civ., ad
entrambi i coniugi disgiuntamente, rientrano tra quelle a
carattere reale o con effetti reali, dirette alla tutela
della proprietà e del godimento comune, con la conseguenza
che gli effetti si estendono anche nei riguardi nel coniuge
assente, escludendosi il litisconsorzio necessario, sulla
base della natura unica ed inscindibile del rapporto dedotto
in giudizio e l’incidenza sul rapporto medesimo
dell’iniziativa dell’unico coniuge, con effetti sulla
comunione in quanto tale (Cons. St. Sez. IV, 30.11.2006, n.
7014).
Dovendosi ammettere che tutte le iniziative intraprese da
uno dei coniugi a tutela del bene comune producano effetti
anche nei confronti dell’altro coniuge, non è possibile
negare la conoscenza in capo a quest’ultimo dell’atto
produttivo degli effetti lesivi avversati con iniziative
anche in sede giudiziaria. Di conseguenza è tardivo di un
ricorso al TAR presentato da uno dei due coniugi (a
vantaggio sostanziale anche dell’altro) oltre il termine di
decadenza di 60 giorni da quelle iniziative.
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Esito
Riforma TAR Puglia Bari: Sezione II n. 2242/2010
Precedenti giurisprudenziali generali sul
termine per impugnare il permesso di costruire rilasciato a
terzi:
Cons. Stato Sez. IV, 12.02.2013, n. 844; Cons. Stato Sez. IV,
07.11.2012, n. 5657; Cons. Stato Sez. V, 27.06.2012, n.
3777; Cons. Stato Sez. IV, 17.09.2012, n. 4923; Cons. Stato
Sez. IV, 16.07.2012, n. 4132, Cons. Stato Sez. IV,
23.09.2011, n. 5346, Cons. Stato Sez. IV, 16.07.2012, n.
4132, Cons. Stato Sez. IV, 30.07.2012, n. 4287; Cons. St.,
Sez. V, 12.07.2010, n. 4482; Cons. St., Sez. IV, 10.12.2007,
n. 6342; Cons. St., Sez. IV, 12.02.2007, n. 599; TAR Marche,
sez. I, 26.09.2007, n. 1574; TAR Campania Salerno, sez. II,
19.07.2007, n. 860; Cons. St., sez. IV, 10.12.2007, n. 6342
Precedenti giurisprudenziali sugli effetti
ai fini della presunzione di conoscenza di uno dei coniugi
delle azioni poste in essere dall’altro coniuge:
Cons. Stato Sez. V, 24.02.1990, n. 202
Riferimenti normativi
Art. 180 cod. civ. (commento tratto da www.ispoa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2013 n. 5103 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: LAVORO/ Dal Tar Lombardia paletti ai datori.
Legittimo il diniego di accesso ai verbali.
È legittimo il diniego di accesso ai verbali degli ispettori
del lavoro, se il datore di lavoro non abbia indicato
compiutamente le ragioni difensive che giustificano
l'acquisizione degli atti richiesti.
Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III con la
sentenza 17.10.2013 n. 2314.
Nel caso in esame la titolare di una ditta aveva chiesto
l'esibizione di atti redatti dagli ispettori del lavoro
nell'ambito di ispezioni svolte a carico di società
collegate con la sua azienda.
La Direzione territoriale del lavoro di Pavia aveva,
tuttavia, negato l'accesso dal momento che si trattava di
documentazione acquisita in veste di organo di polizia
giudiziaria e non nell'esercizio della propria attività
istituzionale amministrativa, con la conseguente
applicabilità dell'art. 329 c.p.p. che disciplina le ipotesi
di segreto istruttorio.
Con ricorso, era stato così impugnato il provvedimento di
diniego dal momento che in questo modo si era impedito alla
ricorrente una piena e consapevole difesa dei propri
interessi, anche considerando che i lavoratori interessati
non potevano subire alcuna seria conseguenza dalla visione
della documentazione richiesta, essendo dipendenti di altre
società.
Il tar respinge il ricorso.
Infatti, come evidenziato dal dm 04/11/1994, n. 757
(Regolamento concernente le categorie di documenti, formati
o stabilmente detenuti dal Ministero del lavoro e della
previdenza sociale sottratti al diritto di accesso), è
sottratta al diritto di accesso la documentazione acquisita
dagli ispettori del lavoro nell'ambito dell'attività di
controllo loro affidata.
Precisato ciò, secondo il Collegio, ai fini
dell'accoglimento di un'istanza ostensiva, non è sufficiente
addurre generiche esigenze di difesa, dovendosi piuttosto
assumere come «strettamente indispensabile per la tutela dei
propri interessi la conoscenza di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari».
Il tutto naturalmente dovrà avvenire con una valutazione da
effettuarsi volta per volta, ossia con riguardo alla
concreta situazione cui si riferisce la richiesta, non
potendosi affermare in modo aprioristico «una
generalizzata recessività dell'interesse pubblico
all'acquisizione di ogni possibile informazione, per
finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti
di lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o
imprese sottoposte a ispezione»
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.11.2013). |
SEGRETARI COMUNALI: Dirigenza
ai segretari senza nuovi costi.
Con la
sentenza 17.10.2013, il Tribunale civile di
Roma ha riconosciuto l'appartenenza dei segretari comunali e
provinciali alla dirigenza della Pubblica amministrazione,
una questione che da tempo interessa la categoria.
Sulla vicenda sono già apparse le prime repliche dell'Aran
(si veda l'articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 29
ottobre), che alludono a pesanti conseguenze finanziarie e
meritano qualche ulteriore considerazione.
La decisione trae origine dal ricorso presentato dall'Unione
nazionale dei segretari comunali e provinciali (il sindacato
più rappresentativo della categoria) che si era vista
esclusa dalla negoziazione per il rinnovo del Ccnl di
categoria per il quadriennio 2006-2009. Il Tribunale ha
confermato la tesi del sindacato, in base a un'ampia serie
di indici normativi, a partire dalle stesse procedure di
selezione dei segretari tramite concorso pubblico, con
l'acquisizione di un'abilitazione concessa dalla «Scuola
superiore per la formazione e la specializzazione dei
dirigenti della pubblica amministrazione».
L'aspetto principale che è preso in considerazione, però,
attiene alle funzioni esercitate in base al Testo unico e ad
altre fonti più recenti (legge anticorruzione). Nella
dettagliata ricostruzione normativa, il giudice dimostra che
al segretario è stato affidato un ruolo sempre più rilevante
di coordinamento dei dirigenti e di garanzia di «buon
andamento», per un'amministrazione efficiente, trasparente e
vicina al cittadino: un ruolo che richiede evidentemente
un'adeguata qualificazione professionale e una collocazione
apicale all'interno della struttura.
Appare chiara, quindi, l'intenzione del legislatore di
assimilare la figura professionale dei segretari alla
dirigenza della Pa, anche se in un'area autonoma di
contrattazione.
Alle disposizioni normative sopra indicate (che la sentenza
definisce «precise» e «inequivocabili») si aggiunge la
disciplina contrattuale, anch'essa significativa,
applicabile in caso di mobilità tra pubbliche
amministrazioni: sarebbe quanto meno illogico che il
segretario, se accedesse alla mobilità, lo facesse da
dirigente, senza esserlo. Non appaiono peraltro
condivisibili i timori dell'Aran sugli effetti della
sentenza, a meno di voler rimettere in discussione la
regolarità delle procedure finora seguite e degli atti
adottati.
È incomprensibile, inoltre, la considerazione che
l'inquadramento dei segretari all'interno della classe
dirigenziale della Pa possa produrre un aumento di spesa,
perché in realtà la loro retribuzione resta quella prevista
contrattualmente. La sentenza non introduce alcuna novità
neppure con riferimento all'istituto del «galleggiamento»
che consente al segretario, indipendentemente dalla sua
categoria di appartenenza, di avere un trattamento economico
non inferiore al dirigente che lo stesso coordina: questo
istituto, riguardando solo la retribuzione di posizione, è
da sempre pacificamente applicato anche nei piccoli Comuni,
naturalmente con riferimento non ai dirigenti ma ai
responsabili titolari di posizione organizzativa.
Dalla sentenza non deriva dunque alcuna spesa a carico della
finanza pubblica.
Al contrario, il giudice si è basato proprio
sull'ordinamento già esistente (normativo e contrattuale).
La sentenza serve semmai ad aiutare i segretari a svolgere
il loro ruolo in modo proficuo per gli enti e per le
comunità locali
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2013). |
URBANISTICA: Nuovi insediamenti. Limiti all'avvio delle attività e
applicazione dei principi nazionali.
Piani urbanistico-edilizi: niente freni al commercio.
Programmazione edilizia ed economica con iter paralleli.
La pianificazione urbanistica non può essere utilizzata come
un freno alla liberalizzazione delle attività commerciali.
Il principio è stato ribadito di recente con la
sentenza
10.10.2013 n. 2271 del
TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
I giudici amministrativi hanno
chiarito che la pianificazione territoriale non ha il potere
di introdurre limitazioni all'insediamento di nuove
attività.
Fin dalla fase di pianificazione l'inserimento sul
territorio di complessi commerciali di ampie dimensioni
segue due percorsi autorizzativi: quello
urbanistico-edilizio e quello commerciale. La costruzione
dei complessi commerciali, quindi, oltre a dover passare
necessariamente per il rispetto delle norme urbanistiche
locali (ricorrendo quasi sempre alla pianificazione
urbanistica attuativa), deve anche rispettare gli scenari di
sviluppo o qualificazione della rete di vendita delineati
dagli strumenti di programmazione commerciale.
Da un lato, infatti, c'è l'esigenza di garantire che lo
sviluppo del territorio si svolga in maniera ordinata,
dall'altro che le nuove strutture commerciali rispettino le
previsioni sulle garanzie dei servizi commerciali, la
valorizzazione della rete distributiva, la ponderazione
dell'offerta commerciale e così via.
Sia i percorsi autorizzativi (edilizio e commerciale) di
ciascun singolo intervento che le forme pianificatorie a
monte (urbanistica e commerciale) non possono essere
scoordinate tra di loro. Diversamente, si correrebbe il
rischio di costruire edifici di rilevanti dimensioni
destinati a restare vuoti fino a quando gli iter per il
rilascio delle autorizzazioni commerciali non si concludano.
Il coordinamento tra le forme di pianificazione e
programmazione però, si presenta molto delicato. Spesso
infatti, accade che previsioni contenute negli strumenti di
pianificazione urbanistica incidano su quella commerciale,
prevedendo –ad esempio– limiti territoriali
all'inserimento di nuove strutture commerciali. Ma questi
interventi si scontrano con i principi di liberalizzazione
introdotti dalla Direttiva Bolkestein e recepiti in Italia
con il Dlgs 59/2010, risolvendosi in misure
anticoncorrenziali, sempre sanzionate dalla giurisprudenza,
compreso appunto il Tar Milano.
L'evoluzione normativa
La liberalizzazione nel settore commerciale ha seguito un
tortuoso percorso, spesso connotato da contrasti tra le
previsioni regionali e la disciplina nazionale. Infatti, a
seguito alla riforma del titolo V della Costituzione, la
materia del commercio è stata ricondotta alla competenza
legislativa delle Regioni. Questa, tuttavia, deve essere
armonizzata con la tutela della concorrenza, di competenza
statale (Corte costituzionale, sentenza n. 150/2011).
La principale disposizione nazionale a tutela della
concorrenza è ora l'articolo 3 del Dl 223/2006, secondo cui
le piccole, medie e grandi strutture di vendita e le
attività di somministrazione di alimenti e bevande devono
essere svolte senza limiti e prescrizioni, quali il rispetto
di distanze tra esercizi, il contingentamento dei titoli,
vincoli merceologici e altri.
Su questo assetto è dapprima intervenuto l'articolo 35 del
Dl 98/2011 che ha previsto che le attività commerciali e di
somministrazione, incluse nei Comuni classificati dalle
Regioni come «turistici» o «città d'arte», non fossero
tenute al rispetto di orari di esercizio, né dell'obbligo di
chiusura domenicale o festiva. Successivamente è intervenuto
il Dl 138/2011, che ha introdotto un generale principio di
liberalizzazione, secondo il quale Comuni, Province, Regioni
e Stato –entro il 30.09.2012– avrebbero dovuto
adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui
l'iniziativa economica è libera ed «è permesso tutto ciò che
non è espressamente vietato dalla legge».
Con il decreto salva-Italia (Dl n. 201/2011) la
liberalizzazione degli orari è stata poi estesa a tutti gli
esercizi commerciali e di somministrazione di alimenti e
bevande.
Da ultimo è intervenuto il Dl 1/2012, che ha disposto
l'abrogazione, a decorrere dall'entrata in vigore di
determinati regolamenti del Governo (ad oggi non ancora
emanati), delle norme che impongono limiti non giustificati
all'avvio di attività economiche e che, ancor più, prevede
che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o
condizioni all'esercizio delle attività economiche sono
comunque da interpretare ed applicare in senso tassativo e
proporzionato alle finalità di interesse generale, alla
stregua del principio per il quale l'iniziativa economica
privata è libera, dando a Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni il termine del 31.12.2012 per
adeguarsi. La strada delle liberalizzazioni è dunque
chiaramente tracciata. È ora dovere e responsabilità delle
amministrazioni locali darvi attuazione senza costringere i
privati a passare per la via del contenzioso
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.11.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sugli onorari non si discute.
L'importo è nel range? Il giudice non deve motivare.
È quanto emerge da una sentenza della Corte di cassazione
sui compensi dei legali.
Onorari dell'avvocato: il giudice non è tenuto a dare alcuna
motivazione se l'importo è contenuto tra il minimo e il
massimo della tariffa.
È quanto emerge nella
sentenza
09.10.2013 n.
22982. Secondo i giudici della II Sez. civile della
Corte di Cassazione infatti: «La determinazione degli onorari di
avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale
del giudice, che, se contenuto tra il minimo e il massimo
della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può
formare oggetto di sindacato in sede di legittimità a meno
che l'interessato specifichi le singole voci della tariffa
che assume essere state violate».
Così argomentando, hanno quindi respinto il ricorso di un
avvocato, il quale, in primo grado, aveva chiesto (e solo in
parte ottenuto, vedendosi negare il riconoscimento dei
maggiori importi dovuti dagli interessi moratori)
ingiunzione di pagamento a titolo di compenso per le
prestazioni professionali rese al Comune: in particolare,
tra i motivi di censura il legale lamentava la violazione
dell'art. 115 c.p.c. per avere il tribunale riconosciuto
come «non dovuti i diritti indicati nel provvedimento
impugnato, voci peraltro disconosciute senza articolare una
puntuale motivazione».
Anche in sede di legittimità, tuttavia, il motivo è stato
ritenuto «privo di pregio» e dunque respinto: è sul
ricorrente –spiegano all'uopo gli ermellini– che ricade
«l'onere dell'analitica specificazione delle voci della
tariffa professionale che ritiene violate e degli importi
considerati, al fine di consentire il controllo [_] senza
bisogno di procedere alla diretta consultazione degli atti»
e questo anche perché l'eventuale violazione delle tariffe
professionali integrerebbe un'ipotesi di error in iudicando
e non in procedendo.
Il tribunale avrebbe, dunque, correttamente motivato le
proprie determinazioni «sia indicando le voci della parcella
da escludere sia provvedendo alla liquidazione del
compenso».
Quanto, poi, al problema degli interessi, il collegio
giudicante ha avuto modo di precisare che il debitore può
essere ritenuto in mora solo a seguito di liquidazione, la
quale «avviene con l'ordinanza che conclude il
procedimento» (ex art. 28, legge 794/1942)
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.11.2013). |
APPALTI:
PA condannata a pagare una somma di denaro: astreinte da
parte del giudice dell’ottemperanza?
Non è possibile disporre, in sede di
giudizio di ottemperanza, una astreinte nel caso in cui la
mancata esecuzione del giudicato da parte
dell’amministrazione riguardi la condanna al pagamento di
una somma di denaro.
Anche nel giudizio di ottemperanza dinanzi al g.a., come in
quello di esecuzione dinanzi al g.o., la misura dell’astreinte
è ammissibile solo per l’inottemperanza a sentenze di
condanna relative a obblighi di non fare o fare infungibili.
L’art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a. prevede che in sede
di giudizio di ottemperanza la parte possa chiedere, oltre
alla nomina del commissario ad acta, anche la fissazione di
una “somma di denaro dovuta dal resistente per ogni
violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni
ritardo nell'esecuzione del giudicato”.
La suddetta norma ha comportato una rilevante innovazione,
introducendo anche nel processo amministrativo l’istituto
della cd. astreinte, già disciplinato nel processo civile
dall’art. 614-bis c.p.c..
Sull’applicazione di questa norma al giudizio di
ottemperanza delle sentenze di condanna pecuniaria si è
verificato un contrasto di giurisprudenza, non ancora
sopito, tra alcuni TAR e il Consiglio di Stato.
Il TAR Napoli, conformandosi a un suo orientamento
giurisprudenziale, si esprime negativamente sulla
controversa questione della possibilità di disporre una
astreinte nel caso in cui la mancata esecuzione della p.a.
riguardi la condanna al pagamento di una somma di denaro.
In ciò si conforma, nel silenzio del c.p.a., alla disciplina
del processo civile che consente l’astreinte solo per
l’inottemperanza di obblighi di non fare o fare infungibili.
La pronuncia si pone in contrasto con il diverso
orientamento del Consiglio di Stato che, considerando l’astreinte
un rimedio di carattere generale, la differenzia da quella
prevista dal c.p.a., ammettendola anche per gli obblighi di
dare o fare fungibili e, in particolare, anche per le
condanne al pagamento di somme di denaro
Il TAR Campano motiva la sua conclusione in base a diverse
considerazioni:
a) L’astreinte costituisce un mezzo di coazione indiretta
sul debitore, configurabile quando si è in presenza di
obblighi di facere infungibili. Non sembra possibile
né equo condannare l’Amministrazione al pagamento di
ulteriori somme di denaro, quando l’obbligo di cui si chiede
l’adempimento consiste, esso stesso, nell’adempimento di
un’obbligazione pecuniaria. Occorre considerare che, in tal
caso, per il ritardo nell’adempimento sono già previsti
dalla legge gli interessi legali, ai quali la somma dovuta a
titolo di astreinte andrebbe ad aggiungersi, con effetti
iniqui di indebito arricchimento per il creditore.
b) Una puntuale disanima dei lavori preparatori dei lavori
preparatori della disposizione del c.p.a. in questione,
nonché l’osservazione che il testo dell’art. 114, co. 4,
lett. e, del c.p.a è simile a quello del corrispondente
articolo del c.p.c. e per il processo civile il riferimento
agli obblighi di fare infungibili è contenuto nella rubrica
e non nel testo del 614-bis c.p.c., portano a conclude che
l’intento del legislatore sia stato proprio quello di
riprodurre la norma del c.p.c. nel c.p.a. e che si sia
semplicemente “dimenticato” di esplicitare la
limitazione agli obblighi di facere infungibile.
c) La stessa conclusione verrebbe ricavata anche dalla
disamina della legge delega per la riforma del processo
amministrativo (n. 69/2009), relativamente al giudizio di
ottemperanza, in quanto ove si ritenesse la norma di portata
difforme da quella del c.p.c., si potrebbe configurare un
profilo di eccesso di delega, non facilmente superabile
attraverso argomenti extratestuali.
d) Infine depongono nel senso indicato anche esigenze di
omogeneità dell’ordinamento e il principio di eguaglianza. A
fronte di una condanna pecuniaria del giudice ordinario la
parte può scegliere se agire con il processo di esecuzione
dinanzi al g.o. o adire il g.a. in sede di ottemperanza. Ora
se si ammettesse l’astreinte per l’esecuzione di condanne
pecuniarie nel giudizio di ottemperanza si finirebbe per
consentire una tutela diversificata dello stesso credito a
seconda del giudice dinanzi al quale si agisca. Il creditore
pecuniario della p.a. potrebbe ottenere infatti maggiori
utilità nel giudizio di ottemperanza rispetto a quelle
conseguibili nel giudizio di esecuzione civile, e ciò
semplicemente in base ad una opzione puramente potestativa.
Tale tutela differenziata offerta al cittadino non sembra
ragionevole all’interno di un sistema che svolge la stessa
funzione esecutiva, ancorché dinanzi a giudici diversi.
---------------
Esiti del ricorso
Accoglie il ricorso ma rigetta la domanda sul punto
Precedenti giurisprudenziali conformi
TAR Campania Napoli Sez. IV, 22.05.2013, n. 2644; TAR
Campania Napoli Sez. IV, 22.05.2013, n. 2671; TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 03/12/2012, n. 4887; TAR Campania Napoli,
Sez. IV, 19/03/2013, n. 1537; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
19/03/2013, n. 1538; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
15.04.2011, n. 2162; TAR Puglia Lecce Sez. I,
21.06.2013, n. 1504; TAR Puglia Lecce Sez. I, 21.06.2013, n.
1506; TAR Puglia Lecce Sez. I, 07.06.2013, n. 1356; TAR
Puglia Lecce Sez. I, 07.06.2013, n. 1357; TAR Puglia Lecce
Sez. I, 07.06.2013, n. 1358; TAR Puglia Lecce Sez. I,
05.06.2013, n. 1336; TAR Lazio Roma Sez. II, 15.05.2013, n.
4885; TAR Lazio Roma Sez. II, 15.05.2013, n. 4886; TAR
Lazio, Roma, sez. II-quater 31.01.2012, n. 1080
Precedenti giurisprudenziali difformi
Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3339; Cons. Stato Sez. V,
19.06.2013, n. 3340; Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n.
3341; Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3342; TAR
Basilicata Potenza Sez. I, 06.06.2013, n. 335; Cons. Stato
Sez. III, 30.05.2013, n. 2933; Cons. Stato Sez. V, Sent.,
14.05.2012, n. 2744
Riferimenti normativi
Art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 01.10.2013 n. 4500 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Riammissione alla gara in seguito al successivo rinvenimento
di documenti.
E’ illegittimo il provvedimento
dell’amministrazione che, dopo aver escluso una ditta
partecipante ad una gara per l’assenza di un documento
necessario, riammetta la medesima concorrente in seguito al
rinvenimento della documentazione originariamente ritenuta
mancante, qualora tale ritrovamento sia avvenuto in seduta
riservata anziché pubblica e a seguito di operazioni di
verifica effettuate senza preventiva comunicazione ai
partecipanti alla gara.
E’ stata portata all’esame del Consiglio di Stato su una
fattispecie particolare dove un concorrente di una gara di
appalto, inizialmente escluso per l’assenza di un documento
necessario, è stato successivamente riammesso in seguito al
rinvenimento della documentazione originariamente mancante.
Tale ritrovamento però è avvenuto in seduta riservata
anziché pubblica e a seguito di operazioni di verifica
effettuate senza preventiva comunicazione ai partecipanti
alla gara e, pertanto, ne è stata contestata la legittimità.
Il medesimo Coniglio si è espresso per l’illegittimità del
provvedimento di riammissione, ritenendo dirimente
l’incertezza che circonda le modalità di “riemersione”
della dichiarazione risultata alla Commissione di gara in un
primo tempo mancante.
In particolare, la lettera di invito aveva prescritto, con
riferimento alla procedura di aggiudicazione, che la
verifica della regolarità formale delle buste contenenti la
documentazione amministrativa, come pure quella della
regolarità della documentazione medesima, dovessero avvenire
in “seduta pubblica aperta a tutti”, così imponendo
la pubblicità delle operazioni di acquisizione della
documentazione presentata dai concorrenti, al fine di
acclararne senza equivoci la correttezza.
Di fatto l’iniziale apertura delle buste era effettivamente
avvenuta in seduta pubblica, comportando l’immediata
esclusione della ditta concorrente, ma successivamente, dopo
che anche le offerte economiche erano state esaminate, la
medesima ditta è stata riammessa in forza di un autonomo
rinvenimento del documento prima ritenuto mancante.
Tale ritrovamento è però avvenuto in seduta non pubblica, e
a seguito di operazioni di verifica effettuate senza
preventiva comunicazione ai concorrenti.
La pronuncia in esame ha puntualizzato in proposito che, se
è vero che la Pubblica Amministrazione, in applicazione del
principio di autotutela, può attivare procedimenti di
riesame, questi devono però svolgersi con cautele atte ad
assicurare garanzie equipollenti a quelle prescritte per gli
atti e le operazioni che formano oggetto di rivalutazione.
Il rispetto del canone del contrarius actus è difatti
necessario ad impedire l’elusione delle suddette garanzie.
Nella specie tale canone è stato violato, non essendo stata
rispettata la regola della pubblicità della seduta, la quale
era stata dettata dalla lex specialis per la verifica
della regolarità della documentazione amministrativa e da
tale “anomalia” deriva l’illegittimità del
provvedimento di esclusione.
Ciò a maggior ragione se di consideri che dai verbali della
gara non è affatto desumibile, in connessione con le
modalità di riemersione del documento in questione, il
rispetto delle garanzie di custodia e segretezza proprie
delle procedure di evidenza pubblica.
---------------
Esito
Conferma TAR Puglia Lecce, Sez. III, n. 743/2009
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 30.09.2013 n. 4842 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 04.11.2013 |
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EDILIZIA PRIVATA: IVA
in Edilizia: ecco lo speciale di BibLus-net con tutte le
novità e le tavole sinottiche alla luce delle recenti
disposizioni normative.
L’IVA in edilizia costituisce un argomento abbastanza
complesso; la legislazione fiscale classifica in modo
dettagliato i diversi ambiti di applicazione in edilizia,
definendo e delimitando i diversi tipi di intervento e le
varie aliquote applicabili.
Il D.L. 06.07.2011 n. 98 (come da ultimo modificato dal D.L.
28.06.2013, n. 76) ha disposto l’aumento dell’aliquota Iva
ordinaria dal 21 al 22% a decorrere dal 01.10.2013.
In linea generale, anche in edilizia l’aliquota ordinaria
dell’IVA è del 22%, ma ci sono due aliquote agevolate al 4%
e al 10%.
In questo articolo proponiamo
uno Speciale a cura della redazione di BibLus-net che ha
lo scopo di chiarire e riassumere le modalità di
applicazione dell’IVA ai vari interventi edilizi.
In particolare, vengono analizzate le 3 aliquote e tutti i
casi e le modalità di applicazione.
In Appendice sono disponibili le seguenti tavole sinottiche:
●
Nuove Costruzioni
●
Interventi di manutenzione, recupero, risanamento e
ristrutturazione di cui al DPR 380/2001 (art. 3, comma 1)
●
Beni finiti
●
Prestazioni di servizi
●
Tabella riepilogativa IVA al 4%
●
Tabella riepilogativa IVA al 10%
(31.10.2013 - link a www.acca.it). |
VARI: Bonus
mobili 2013-1014, ecco il vademecum operativo di
FederlegnoArredo.
Ricordiamo che è in esame alle Camere il testo definitivo
del disegno di legge contenente "Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato"
(Legge di Stabilità 2014) che, tra i diversi provvedimenti,
definisce le proroghe relative alle detrazioni per
ristrutturazioni edilizie e per riqualificazione energetica
per tutto il 2014.
Alla detrazione del 50% per la realizzazione di interventi
di ristrutturazione edilizia, si associa un ulteriore
incentivo per l’acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici.
FederlegnoArredo, Federmobili e Angaisa, con riferimento
anche a quanto stabilito dalla Legge 90/2013 e dalla
Circolare n. 29/E dell’Agenzia delle Entrate, hanno
pubblicato un nuovo opuscolo informativo, denominato
Vademecum operativo – Bonus mobili 2013-2014, per meglio
comprendere:
●
chi sono i beneficiari
●
la validità dell’agevolazione
●
quali sono i beni agevolabili
●
a quali interventi è collegato
●
le modalità di pagamento
(31.10.2013 - link a www.acca.it). |
CONDOMINIO:
L’amministratore condominiale: compiti e responsabilità -
Le novità alla luce della legge n. 220/2012 (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, ottobre 2013). |
APPALTI:
Vademecum per le stazioni appaltanti, volto
all’Individuazione di criticità concorrenziali nel settore
degli appalti pubblici (Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato,
deliberazione 18.09.2013). |
APPALTI:
Linee guida per la lotta contro le
turbative d'asta begli appalti pubblici
(OECD, febbraio 2009). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2013, "Linee
guida regionali ai Comuni per la regolamentazione delle
attività di trasporto merci in area urbana"
(deliberazione
G.R. 25.10.2013 n. 834). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2013, "Simboli
distintivi di grado del personale dei corpi e servizi di
polizia locale della Regione Lombardia"
(Regolamento
Regionale 29.10.2013 n. 4). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
30.10.2013 n. 255 "Testo
del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, coordinato con la
legge di conversione 30.10.2013, n. 125, recante:
«Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni»".
---------------
Di particolare interesse:
►
Art. 2, comma 13-sexies
►
Art. 2, comma 13-septies
►
Art. 11. -
Semplificazione e razionalizzazione del sistema di controllo
della tracciabilità dei rifiuti e in materia di energia |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2013, "Disposizioni
in materia ambientale. Modifiche alle leggi regionali n.
26/2003 (Disciplina dei servizi locali di interesse
economico generale. Norme in materia di gestione dei
rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse
idriche), n. 7/2012 (Misure per la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione) e n. 5/2010 (Norme in materia di valutazione
di impatto ambientale)" (L.R.
29.10.2013 n. 9). |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U.
29.10.2013 n. 254 "Testo
del decreto-legge 31.08.2013, n. 102, coordinato con la
legge di conversione 28.10.2013, n. 124, recante:
“Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità
immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di
finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di
trattamenti pensionistici”.
---------------
Di particolare interesse:
►
Art. 8. -
Differimento del termine per la deliberazione del bilancio
di previsione ed altre disposizioni in materia di
adempimenti degli enti locali
►
Art. 13. -
Disposizioni in materia di pagamenti dei debiti degli enti
locali
►
Art. 14. -
Definizione agevolata in appello dei giudizi di
responsabilità amministrativo-contabile |
SINDACATI & ARAN |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Corte dei Conti - Patto di stabilità e assunzioni
nelle aziende speciali e limite di spesa del personale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 28.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La pensione anticipata e le penalizzazioni sui
contributi non derivanti da "lavoro effettivo"
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 28.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Decurtazione quota sulla pensione anticipata
(CSA Milano,
nota 21.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Modalità applicative della disciplina contrattuale della
retribuzione di risultato in presenza di una posizione
organizzativa a tempo parziale.
Domanda
Ad un
dipendente di categoria D, con contratto di lavoro a tempo
indeterminato e a tempo parziale, con durata della
prestazione pari a 18 ore settimanali, è stato affidato la
titolarità di una posizione organizzativa.
La retribuzione di posizione, conseguentemente, è stata
parametrata al 50% in relazione alla durata settimanale
della prestazione lavorativa.
In questa particolare ipotesi, la retribuzione di risultato
deve essere calcolata facendo riferimento al valore
riproporzionato della retribuzione di posizione oppure può
essere erogata per intero, con riferimento cioè
all’ammontare pieno della stessa, qualora vengano raggiunti
tutti gli obiettivi assegnati al dipendente, dato che tale
voce retributiva, sulla base della disciplina contrattuale,
è legata esclusivamente al conseguimento dei suddetti
obiettivi?
Risposta
In relazione a
tale particolare fattispecie, si ritiene utile precisare
quanto segue.
Innanzitutto, si deve ricordare che al
personale con contratto di lavoro a tempo parziale,
ordinariamente, non può essere conferita la titolarità di
posizione organizzativa, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del
CCNL del 14.09.2000. Tale disciplina non è stata in alcun
modo modificata o abrogata.
L’eventuale deroga è ammessa solo nei limiti ed alle
condizioni stabiliti dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004.
L’effettiva attuazione della disciplina del citato art. 11 è
rimessa solo ed esclusivamente alle valutazioni del singolo
ente che preventivamente individua, in relazione alle
proprie esigenze organizzative, anche in via solo
temporanea, le posizioni organizzative che possono essere
conferite anche a personale con rapporto a tempo parziale,
di durata comunque non inferiore al 50% del rapporto a tempo
pieno.
La particolare formulazione della clausola contrattuale, con
il riferimento esclusivamente alle “esigenze
organizzative” come autonomamente valutate dall’ente,
vale ad evitare che l’individuazione delle posizioni
organizzative conferibili a personale a tempo parziale
finisca per essere collegata alle scelte individuali del
singolo lavoratore.
L’ente potrebbe avvalersi della disciplina di cui si tratta
anche con riferimento a posizioni organizzative attualmente
ricoperte da personale a tempo pieno ed indeterminato.
Nessuna disposizione contrattuale esclude tale possibilità,
tenuto conto che l’introduzione di posizioni organizzative a
tempo parziale risponde, nella logica dell’istituto, alla
necessità di soddisfare specifiche esigenze organizzative
del datore di lavoro pubblico.
Sarà il dipendente, attualmente incaricato, a valutare
l’opportunità di accettare il nuovo incarico, trasformando
il suo rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale in
relazione all’orario previsto per la posizione
organizzativa.
Ai fini dell’applicazione della disciplina dell’art. 11 del
CCNL del 22.01.2004, l’ente, come detto, procede alla
preventiva valutazione delle proprie esigenze organizzative,
per verificare se effettivamente queste richiedano posizioni
organizzative a tempo parziale, anche con riferimento alla
determinazione del tempo di lavoro delle stesse.
La verifica può anche concernere singoli casi, ma sempre
sulla base di criteri oggettivi e trasparenti
preventivamente adottati, per evitare forme di abuso o
applicazioni personalizzate.
Il CCNL ha inteso evitare, invece, che il dipendente
richieda, per esigenze personali, la trasformazione del
proprio rapporto in rapporto a tempo parziale, e l’ente per
assecondare la richiesta modifichi la propria
organizzazione.
In relazione alla minore durata della prestazione
lavorativa, l’ente dovrà procedere anche al
riproporzionamento del valore della retribuzione di
posizione ordinariamente connessa all’incarico conferito, in
relazione al tempo di lavoro previsto per il rapporto di
lavoro a tempo parziale, come espressamente prescritto dalla
citata normativa dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004.
Diversamente ritenendo (prescindendo quindi dal
riproporzionamento) si determinerebbe il paradosso di un
incarico di posizione organizzativa retribuito allo stesso
modo, sia se svolto a tempo pieno sia se svolto a tempo
parziale.
In presenza di una posizione organizzativa a tempo parziale,
secondo quanto sopra detto, non si pone alcun problema
specifico di determinazione della relativa retribuzione di
risultato.
Infatti, essendo questa particolare voce retributiva
quantificata in una quota percentuale della retribuzione di
posizione attribuita alla singola posizione organizzativa,
diminuendo, formalmente e necessariamente, quest’ultima,
secondo quanto sopra detto, automaticamente, non può non
essere diminuita anche la retribuzione di risultato (settembre
2013 - link a www.aranagenzia.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Circolare 31.10.2013 n. 1 per l’applicazione
dell’articolo 11 del d.l. 31.08.2013, n. 101, concernente
“semplificazione e razionalizzazione del sistema di
controllo della tracciabilità dei rifiuti …” (SISTRI),
convertito in legge 30.10.2013, n. 125 (G.U. n. 255 del
30.10.2013) (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Direzione Generale per la Tutela del
Territorio e delle Risorse Idriche). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: ALLEGHE (Belluno) - Immobile denominato Resti di
Casa trecentesca. RISCONTRO A QUESITO (Mibac Veneto,
nota 29.10.2013 n. 18569 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
La certificazione energetica (dall’Attestato di
Certificazione all’Attestato di Prestazione Energetica)
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 28.10.2013 n. 657-2013/C). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Consulenza giuridica – Art. 2, comma 5, d.l.
25.06.2008, n. 112 – IVA - Aliquota agevolata - Opere di
urbanizzazione primaria - Infrastrutture destinate
all'installazione di reti e impianti di comunicazione
elettronica in fibra ottica (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 16.10.2013 n. 69/E). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Monea,
La segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico
- Il “wistleblowing” rappresenta, nell’ordinamento
italiano, un’interessante novità nel quadro del cambiamento
normativo per la lotta alla corruzione. La disciplina
attuale presenta, però, luci e ombre. Approfondiamone gli
aspetti salienti, evidenziandone principali contenuti,
limiti e criticità (Diritto e Pratica Amministrativa n.
10/2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P. M. Zerman,
Quando il mobbing diventa danno erariale (Diritto e
Pratica Amministrativa n. 10/2013). |
APPALTI:
E. Occhipinti,
L’arbitrato amministrato nelle opere pubbliche (Il
Tecnico Legale n. 10/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
B. De Rosa,
L’abuso edilizio minore - L’abuso edilizio minore di cui
all’art. 34 del D.P.R. 380/2001. L’applicazione della
sanzione pecuniaria non sana l’abuso: effetti penali, civili
e urbanistici (Consulente Immobiliare n. 939/2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Chiarimenti sulle modifiche all’art. 6-bis del d.lgs. n.
163/2006, introdotte dalla legge di conversione del D.L. n.
101/2013 (comunicato
del Presidente 30.10.2013 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Indicazioni operative per la comunicazione del soggetto
Responsabile dell’Anagrafe per la Stazione Appaltante (RASA)
incaricato della compilazione ed aggiornamento dell’Anagrafe
Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA) (comunicato
del Presidente 28.10.2013 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Il Comunicato del Presidente del 28.10.2013 fornisce
indicazioni operative per la comunicazione del soggetto
Responsabile dell’Anagrafe per la Stazione Appaltante (RASA)
incaricato della compilazione ed aggiornamento dell’Anagrafe
Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA). Il comunicato fa
anche riferimento al Manuale utente che descrive le modalità
operative con le quali il Responsabile deve richiedere
l’associazione delle proprie credenziali al profilo di RASA. |
APPALTI:
Trasmissione dei dati dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture - settori ordinari e speciali –
allineamento a 40.000 € della soglia minima per le
comunicazioni ex art. 7, co. 8, d.lgs. n. 163/2006 –
rettifica (comunicato
22.10.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Il Comunicato dell’Avcp del 29.04.2013 sugli obblighi
comunicativi ex art. 7, co. 8, del dlgs 163/2006 e s.m.i. è
stato rettificato. Il nuovo Comunicato del 22.10.2013
precisa che per importi pari a 40.000 euro esatti non è più
prevista l’acquisizione dello ‘smartCIG’, ma del ‘CIG’
tradizionale e il successivo invio delle schede informative,
analogamente a quanto avviene per gli importi superiori a
40.000 euro. |
APPALTI:
Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f),
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Efficacia della
sanzione di cui al comma 1-ter dell’art. 38 del Codice dei
contratti (atto
di segnalazione 09.10.2013 n. 5 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Avcp segnala l'esigenza di cambiare il
Codice. La lieve sanzione non mini il contratto.
Garantire la stipula del contratto in caso di lieve sanzione
irrogata a seguito di false dichiarazioni rese in gara dal
concorrente.
È quanto chiede, proponendo una apposita modifica al Codice
dei contratti pubblici, l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici presieduta da Sergio Santoro con la
segnalazione 09.10.2013 n. 5 a Governo e Parlamento per
intervenire sull'attuale formulazione dell'art. 38, comma 1,
lett. h), del Codice dei contratti pubblici.
La norma impone alle stazioni appaltanti di escludere i
soggetti (imprese, professionisti e ogni altro aspirante
all'aggiudicazione di contratti pubblici) che risultino
iscritti, a seguito di una apposita procedura in
contraddittorio gestita dall'Autorità, nel casellario
informatico dell'Osservatorio per presentazione in gara di
documentazione falsa o di dichiarazioni false relativamente
a requisiti o a condizioni rilevanti per la partecipazione
alla procedura di affidamento.
L'organismo di vigilanza segnala un aspetto di particolare
rigidità della norma che andrebbe rettificato; fa presente
che un operatore economico, a cui sia stata inibita la
partecipazione alle gare per un breve periodo di tempo (ad
esempio 15 giorni) in ragione della lievità dei fatti, possa
in concreto venire espulso dalle fasi di gara successive
alla presentazione dell'offerta/domanda, con l'effetto di
dilatare, nella pratica, l'efficacia della sanzione fino ad
abbracciare un periodo molto più lungo di quello indicato
nel provvedimento. Ciò determina, afferma l'Autorità, un'ultrattività
della sanzione che arriva a coprire l'intero arco temporale
dello svolgimento delle operazioni di gara.
La proposta dell'Authority è quindi quella di prevedere che
la sanzione non impedisca al concorrente la stipulazione del
contratto quando l'annotazione nel casellario sia
intervenuta successivamente alla scadenza fissata per la
presentazione della domanda di partecipazione o dell'offerta
(data in cui, pertanto, l'operatore era in possesso del
requisito in parola) e l'interdizione comminata abbia
esaurito i suoi effetti prima dello svolgimento dei
controlli sui requisiti, eventualmente espletati in corso di
procedura, ivi compreso il controllo a seguito
dell'aggiudicazione definitiva.
Infine l'Autorità chiede che sia anche fissato un minimo
della sanzione (un mese) ed elabora quindi una proposta di
modifica dell'articolo 38, comma 1, lettera h), conseguente
a quanto segnalato (articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Assunzione a tempo
indeterminato in categoria superiore.
Dopo l'intervenuta abrogazione del
sistema della progressione verticale, l'accesso alla
categoria superiore comporta la novazione del rapporto di
lavoro e si configura quale assunzione vera e propria, con
l'obbligo di stipulare un nuovo contratto di lavoro.
Il Comune ha chiesto di conoscere se, nel caso in cui un
dipendente inquadrato in categoria C risulti vincitore di un
concorso bandito dall'Amministrazione di appartenenza per la
copertura di un posto di categoria D, sia necessario che
l'interessato presenti le dimissioni dal rapporto in essere,
per essere poi 'riassunto' con un nuovo contratto di
lavoro e se sia soggetto ai termini di preavviso.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni
sindacali comparto, si ritiene utile preliminarmente
riassumere l'evoluzione normativa intervenuta in materia di
accesso alle categorie superiori nell'attuale sistema di
classificazione del personale.
In precedenza la contrattazione collettiva
[1] prevedeva un
sistema di selezioni totalmente riservate al personale
interno, finalizzate al passaggio dei dipendenti alla
categoria immediatamente superiore.
In particolare, l'art. 38, comma 1, del CCRL del 01.08.2002,
prevedeva che, in caso di progressione verticale del
personale, gli enti comunicano ai dipendenti il nuovo
inquadramento conseguito, in applicazione delle disposizioni
di cui al d.lgs. 152/1997.
Sempre con riferimento alle procedure di progressione
verticale, la giurisprudenza amministrativa aveva rimarcato
che dette procedure 'risolvendosi nel passaggio alla
categoria immediatamente superiore del sistema di
classificazione delle professionalità, costituiscono un mero
sviluppo di carriera nell'ambito del rapporto di lavoro già
incardinato con la pubblica amministrazione, con la
conseguenza che, in assenza di una specifica contraria
prescrizione legislativa, esse, ai fini della disciplina
finanziaria, non integrano la fattispecie della <> ivi
prevista e, dunque, sfuggono al blocco dei reclutamenti'
[2]. In
sostanza, la progressione verticale nel sistema di
classificazione, in quanto espressione di un rapporto di
lavoro già instaurato, non implicava la sottoscrizione di un
nuovo contratto di lavoro, risultando sufficiente che l'ente
di appartenenza comunicasse al dipendente il nuovo
inquadramento.
Tutto ciò premesso, è doveroso evidenziare che le
progressioni verticali sono state eliminate dalla riforma
Brunetta e, allo stato attuale, non sussiste alcuno spazio
per l'espletamento legittimo di selezioni interamente
riservate agli interni, a partire dall'anno 2010, perché
l'art. 52 novellato del d.lgs. 165/2001 determina
l'immediata disapplicazione di ogni fonte incompatibile col
principio di assunzione esclusivamente per concorso
pubblico: i contratti collettivi, ma anche i regolamenti e
gli atti di programmazione triennale delle assunzioni.
Emerge pertanto nel vigente ordinamento che il dipendente
interno all'ente può accedere alla categoria superiore
esclusivamente mediante partecipazione ad una procedura
concorsuale pubblica, la cui conclusione è finalizzata alla
copertura di posti della dotazione organica.
Conseguentemente l'accesso alla categoria superiore comporta
la novazione del rapporto di lavoro e si configura quale
assunzione vera e propria, con l'obbligo di procedere alla
stipulazione di un nuovo contratto di lavoro.
Si consideri inoltre che l'art. 15, comma 6, del CCRL del
07.12.2006, prevede che antecedentemente all'inizio del
servizio, l'interessato all'assunzione deve dichiarare di
non avere altri rapporti di impiego pubblico. Pertanto,
nella fattispecie di cui si discute, il dipendente è tenuto
a rilasciare le proprie dimissioni, nel rispetto dei termini
prescritti dall'art. 33 del citato contratto regionale.
---------------
[1] Cfr. art. 27 del CCRL del 01.08.2002 e art. 37 del
CCRL del 07.12.2006.
[2] Cfr. TAR Sicilia, sez. III, sentenza n. 647/2011. Nella
fattispecie si trattava di verificare la possibilità di
assumere in esito ad una selezione interna bandita nel corso
del 2004, alla luce delle disposizioni introdotte dalla l.
311/2004 (finanziaria 2005), che disponevano il divieto di
assunzioni per gli enti non rispettosi degli obiettivi del
patto di stabilità (29.10.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Posizioni organizzative. Orario
di lavoro e straordinario.
L'art. 41, comma 9, del CCRL del
07.12.2006, prevede che, per tutta la durata dell'incarico
di posizione organizzativa, il dipendente ha l'obbligo di
adeguare il proprio orario di lavoro, anche oltre le 36 ore
settimanali, alle effettive esigenze degli enti e dei
servizi cui è preposto.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche concernenti l'orario di lavoro delle posizioni
organizzative, nonché il lavoro straordinario effettuato
dalle medesime.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni
sindacali comparto, preliminarmente si osserva che compete
alle singole amministrazioni locali definire con norme
regolamentari gli aspetti inerenti alla corretta gestione
dell'orario dovuto dal personale in servizio, compresi i
titolari di posizione organizzativa, ovviamente nel rispetto
delle clausole contrattuali stabilite in materia.
Premesso un tanto, in via generale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
L'art. 41, comma 9, del CCRL del 07.12.2006, prevede che,
per tutta la durata dell'incarico di posizione
organizzativa, il dipendente ha l'obbligo di adeguare il
proprio orario di lavoro, anche oltre le 36 ore settimanali,
alle effettive esigenze degli enti e dei servizi cui è
preposto.
La ratio della citata norma non è certo quella di
consentire alle posizioni organizzative una particolare
flessibilità dell'orario, intesa quale 'libera gestione' del
medesimo, sottratta agli obblighi imposti al restante
personale dipendente. l titolari di posizione organizzativa
sono, infatti, tenuti a garantire la propria disponibilità
oltre il minimo orario dovuto contrattualmente (36 ore
settimanali) [1].
Per le ragioni sopra esposte, l'art. 44, comma 1, del citato
contratto regionale stabilisce che il trattamento economico
riconosciuto ai titolari di posizione organizzativa assorbe
tutte le competenze accessorie, compreso il lavoro
straordinario, per un numero pari a 120 ore annue. Ciò
significa che, per le prestazioni lavorative settimanali
oltre le 36 ore, fino al raggiungimento delle 120 ore annue,
essendo vietata la corresponsione del compenso per lavoro
straordinario, deve ritenersi vietata anche l'applicazione
di istituti sostitutivi di detto compenso (c.d. riposo
compensativo).
In relazione a quanto già sopra evidenziato, il titolare di
posizione organizzativa è tenuto ad osservare, come tutti
gli altri dipendenti le regole stabilite (dal contratto e
dall'ente) per una corretta gestione dell'orario di lavoro.
Pertanto, qualora si ravvisi la necessità di uscire
anticipatamente, tale assenza dovrà essere debitamente
autorizzata e giustificata mediante gli istituti
contrattuali previsti (permessi brevi, festività soppresse,
ecc).
Per quanto concerne, da ultimo, il concetto di lavoro
straordinario, l'art. 17, commi 1 e 2, del CCRL del
01.08.2002, dispone che le prestazioni di lavoro
straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di
lavoro eccezionali e sono espressamente autorizzate dal
dirigente o figura equivalente, sulla base delle esigenze
organizzative e di servizio individuate dall'ente, rimanendo
esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.
E' da rilevare che compete al soggetto che autorizza lo
svolgimento di lavoro straordinario valutare le esigenze
concrete ed effettive che determinano la necessità della
prestazione ulteriore del dipendente. La giurisprudenza
amministrativa ha rilevato come la preventiva autorizzazione
implichi la verifica in concreto delle ragioni di pubblico
interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni
lavorative eccedenti l'orario normale di lavoro
[2].
Pertanto, si ritiene che tale prestazione oltre orario possa
riguardare anche l'attività ordinaria, intesa come
svolgimento delle funzioni proprie, in fattispecie che
richiedano, ad esempio, la presenza del dipendente in
particolari sedi (ad es. partecipazione a sedute degli
organi politici, permanenza in servizio per attività
istituzionali da ultimare entro termini temporali definiti e
improrogabili).
---------------
[1] Cfr. parere RAL 1383, consultabile sul sito:
www.aranagenzia.it.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 5953 del 2012
(29.10.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Diniego
di concessione demaniale.
Domanda
È legittimo il comportamento dell'Amministrazione che, a
fronte della presentazione di istanza di concessione da
parte di un terzo, nega il rilascio di una concessione
demaniale, senza preventivamente comunicarne i motivi
ostativi?
Risposta
L'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi prevede che «nei
procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l'autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti».
Tale
principio generale si applica anche in materia di
concessioni demaniali. Pertanto, nel merito del quesito
posto, se l'Amministrazione intende respingere una istanza
di concessione demaniale, anche se nell'esercizio dei propri
poteri discrezionali, occorre trasmettere il preavviso
previsto dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi (cfr.
Consiglio di stato, sezione VI n. 3614 del 09/07/2013)
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Mini-giunte, c'è tempo.
Riduzione assessori dal prossimo rinnovo.
Il caso specifico del rinnovo parziale di una sola sezione
elettorale.
Se, tra il rinnovo degli organi elettivi di un comune,
avvenuto a seguito di elezioni amministrative oggetto di
impugnativa giurisdizionale presso il Consiglio di Stato, e
il rinnovo parziale di una sola sezione elettorale, ordinato
dal giudice amministrativo, è entrata in vigore la legge
n. 42 del 2010 -che ha comportato, per i comuni con
popolazione fino a 3 mila abitanti, una riduzione del numero
di assessori da quattro a tre- il numero massimo di
assessori di cui può essere composta la giunta comunale, nel
caso di specie, deve essere conformato alla legge n.
42/2010?
L'intervento giurisdizionale ha comportato
solamente il rinnovo di una fase del procedimento elettorale
che, a tutti gli effetti, rimane quello instaurato in epoca
precedente all'entrata in vigore della legge n. 42/2010.
A tale data bisogna, pertanto, necessariamente far
riferimento per quanto riguarda la normativa sulla
composizione degli organi dell'ente.
Ne consegue che le disposizioni sulla riduzione del numero
dei componenti degli organi comunali, disposte con la citata
legge n. 42 del 2010, troveranno applicazione, nel caso di
specie, solamente a decorrere dal prossimo rinnovo del
consiglio comunale per scadenza naturale del mandato
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Tourbillon di consiglieri.
In un comune con popolazione inferiore a 15 mila abitanti,
nel caso in cui alcuni consiglieri comunali abbiano
rassegnato le dimissioni per assumere gli incarichi di
assessori comunali, i candidati risultati primi dei non
eletti nell'ambito della lista di appartenenza dei
consiglieri dimessisi possono partecipare alla prima seduta
consiliare al posto dei consiglieri nominati assessori?
Nel caso di specie, i consiglieri di minoranza
hanno eccepito l'irregolarità della procedura di
sostituzione dei consiglieri dimissionari, lamentando che i
consiglieri subentranti avrebbero potuto partecipare alla
seduta del consiglio comunale solo successivamente
all'adozione delle relative delibere di surroga da parte del
collegio.
Ai sensi dell'art. 38, comma 4, del dlgs 267/2000 è
previsto, infatti, che i consiglieri entrino in carica
all'atto della proclamazione, ovvero non appena adottata dal
consiglio la deliberazione di surrogazione.
Ad avviso dei suddetti consiglieri di minoranza, si sarebbe
erroneamente fatta applicazione dell'art. 64, comma 2, del
dlgs n. 267/2000 che, per i comuni con popolazione superiore
a 15 mila abitanti, prevede il subentro automatico del primo
dei non eletti della lista del consigliere che, avendo
accettato la carica di assessore, sia cessato ope legis
dalla carica di componente del consiglio comunale.
Sulla questione si rinvia al parere del Consiglio di stato
n. 2755/2005 contenente chiarimenti interpretativi
sull'applicazione dell'art. 64 del dlgs n. 267/2000, sul
quale, a suo tempo, è stata richiamata l'attenzione degli
enti interessati nella circolare n. 5 del 2005 del
Dipartimento affari interni e territoriali, Direzione
centrale per gli uffici territoriali del governo e per le
autonomie locali, alla quale si rinvia per una completa
lettura, ancora attuale, come espressamente dichiarato in
una recente pronuncia del Tar Campania n. 8 del 2012.
In particolare, è stato precisato che nei comuni con
popolazione fino a 15 mila abitanti non vi è incompatibilità
tra le cariche di consigliere e di assessore.
Qualora, il consigliere nominato assessore intenda
egualmente rinunciare alla sua carica di membro dell'organo
rappresentativo, dovrà dimettersi formalmente secondo le
norme di cui all'art. 38, comma 8, del Tuoel n. 267/2000; in
tali casi si applicherà l'ordinario procedimento di surroga,
disciplinato dal medesimo art. 38 (e dal successivo art. 45,
comma 1).
Conseguentemente, i consiglieri surroganti non dovranno
essere convocati per la seduta in cui si procede alla
surroga, in quanto i medesimi entrano in carica, ai sensi
del comma 4 del citato art. 38, solo dopo l'adozione della
delibera di surroga
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
VARI: Detrazione
arredi condizionata.
Domanda
Ci sono condizioni per richiedere la detrazione Irpef per
l'acquisto di mobili ed elettrodomestici?
Risposta
Sì e per una più ampia illustrazione rinviamo alla recente
circolare dell'Agenzia delle entrate n. 29/E/2013.
Tale
circolare ha confermato che gli interventi di recupero
presupposto per il beneficio sugli arredi non sono limitati
alla «ristrutturazione edilizia» (espressione usata nella
norma, art. 16, 2° comma, dl n. 63/2013), ma anche la
manutenzione straordinaria e il restauro/risanamento
conservativo di singole unità residenziali o di parti comuni
condominiali (per queste ultime è sufficiente anche la
manutenzione ordinaria); del pari vi rientrano anche quelli
di ristrutturazione o di restauro/risanamento conservativo
di interi fabbricati, eseguiti da imprese di costruzione o
ristrutturazione immobiliare o da cooperative edilizie, ai
quali faccia seguito la vendita delle unità immobiliari (sia
il bonus per il recupero edilizio –con particolari modalità
di calcolo– che quello per gli arredi competono, in questo
caso, agli acquirenti). Per contro, non è stata accolta
l'interpretazione secondo cui, per come formulata la norma,
la detrazione sembrava poter essere estesa anche a tutti gli
altri interventi «minori» di cui all'art. 16-bis del Tuir.
La circolare ha poi precisato che è idoneo, ai fini del
«bonus arredi», il sostenimento di spese per i lavori di
recupero fin dal 26.06.2012.
Le spese per l'acquisto di arredi possono essere sostenute
anche prima di quelle per la «ristrutturazione», a
condizione che siano stati già avviati i lavori di recupero
dell'unità cui i beni sono destinati. In pratica, la data di
inizio lavori deve essere anteriore a quella in cui sono
sostenute le spese per l'acquisto degli arredi, ma non è
necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute
prima di quelle per l'arredo dell'abitazione.
Tra le spese su cui è possibile chiedere la detrazione
rientrano quelle di trasporto e montaggio dei mobili e degli
elettrodomestici, se sostenute con bonifico bancario o
postale oppure –novità– con carte di credito o di debito
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
PATRIMONIO: Concessione
di un'area demaniale.
Domanda
È legittimo escludere un concorrente, che abbia commesso
un'irregolarità contributiva di minima entità, da una
procedura ad evidenza pubblica per la concessione di un'area
demaniale marittima?
Risposta
Alla procedura per il rilascio di una concessione demaniale
marittima non sono direttamente applicabili le disposizioni
che disciplinano l'aggiudicazione dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture.
Nello specifico è illegittima l'esclusione del concorrente
che sia stata disposta per un'irregolarità contributiva di
minima entità, ed è altresì illegittima la clausola del
bando che rechi una simile previsione, dal momento che
risulta violato il principio di proporzionalità (cfr. Tar
Lazio, sezione Latina n. 618 del 15/07/2013).
L'esigenza della proporzionalità nell'azione amministrativa
si articola infatti nei distinti profili inerenti: 1)
l'idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e
l'obiettivo perseguito; 2) la necessarietà, ovvero l'assenza
di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in
maniera minore sulla sfera del singolo; 3) l'adeguatezza
ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri - Quali sono oggi i soggetti obbligati e le date di
operatività del Sistema?
Domanda
Lavoro per un'impresa di trasporti di rifiuti pericolosi. Le
disposizioni in materia di SISTRI e tracciabilità dei
rifiuti sono state di recente modificate dal D.L. n.
101/2013 (Pacchetto razionalizzazione spese nella PA): quali
sono adesso i soggetti obbligati e le relative date di
operatività del Sistema?
Risposta
Il “nuovo” Sistema di controllo della tracciabilità
dei rifiuti, meglio noto come SISTRI –istituito dal D.M.
17.12.2009 ma non ancora divenuto pienamente operativo–
sembra avviarsi verso la sua partenza, o più correttamente “piena
operatività”.
A tal fine, i più recenti interventi normativi hanno cercato
di alleggerirlo dalle pesantezze burocratiche che lo
affliggevano e, contestualmente, si stanno ancora oggi
svolgendo una serie di verifiche della funzionalità che
dovranno garantirne un funzionamento efficiente e più
semplice.
È in questa ottica che vanno letti il D.M. Ambiente
20.03.2013, n. 96 di “riavvio progressivo del SISTRI”
(“Definizione termini iniziali di operatività del sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)”)
– che, per il riavvio del SISTRI, ha “calendarizzato”
le date del 01.10.2013 e del 03.03.2014 – e l’art. 11 del
D.L. 31.08.2013, n. 101, recante “Disposizioni urgenti
per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle
pubbliche amministrazioni”.
In particolare, l’art. 11 (Semplificazione e
razionalizzazione del sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti e in materia di energia) del D.L.
n. 101/2013 –le cui disposizioni sono entrate in vigore dal
01.09.2013 e sono ora in corso di conversione in legge– ha
introdotto una serie di semplificazioni in materia di SISTRI
che hanno ristretto l’obbligo di adesione ai soli rifiuti
pericolosi (produttori iniziali, raccolta/trasporto
professionale, gestori e intermediari, inclusi i nuovi
produttori) mentre è prevista l’adesione volontaria per
produttori e gestori di rifiuti non pericolosi.
Il decreto ha anche ammorbidito le sanzioni, e sono previsti
ulteriori decreti di semplificazione (periodici), oltre alla
rideterminazione dei contributi e l’istituzione di un Tavolo
tecnico di monitoraggio e concertazione del SISTRI, in
sostituzione del Comitato di vigilanza e controllo di cui
all’art. 27 del D.M. 18.02.2011, n. 52 (TU SISTRI),
soppresso dallo stesso art. 11, comma 13, del D.L. n.
101/2013.
Per introdurre tali rilevanti novità il legislatore
d’urgenza ha dovuto modificare, innanzitutto, il D.Lgs. n.
152/2006 (TUA) e in particolare l’articolo 188-ter
(sostituendo i commi 1-3 e abrogando il comma 5) e l’art.
188-bis (inserendovi il nuovo comma 4-bis).
Come accennato, dunque, e venendo più da vicino all’oggetto
del quesito, tali modifiche hanno circoscritto il novero dei
soggetti obbligati ai soli produttori e gestori di rifiuti
pericolosi, mentre per gli enti e imprese intermediari nei
rifiuti diversi dai pericolosi, rimane ancora in piedi il “tradizionale”
sistema dei registri cartacei (Registro di carico/scarico,
Formulario dei rifiuti).
Il provvedimento demanda, poi, ad un ulteriore D.M. da
adottarsi entro il 03.03.2014 l'individuazione di ulteriori
categorie tenute ad aderire al SISTRI (termine che potrà
essere ulteriormente prorogato di altri sei mesi con
apposito D.M., se ciò sarà necessario per rendere operative
le semplificazioni). Quanto alla partenza o più
correttamente “operatività” del SISTRI, è stato
previsto che dal 01.10.2013 il sistema è attivo solo per i
gestori di rifiuti pericolosi, e non anche per i produttori
di rifiuti pericolosi (ciò, secondo il Ministro Orlando,
farà sì che il numero preventivato di 70.000 utenti per il
1° ottobre scenda a circa 17.000 utenti).
Per i produttori di rifiuti pericolosi il SISTRI partirà il
03.03.2014, così che nel frattempo si possa provvedere alle
necessarie semplificazioni, con la possibilità di ulteriore
proroga di sei mesi se a tale data le semplificazioni non
saranno operative.
Dunque, riepilogando, in base al D.L. n. 101/2013, questi
sono i nuovi termini di operatività del SISTRI e i relativi
soggetti obbligati:
- il 01.10.2013 il SISTRI è partito per gli enti o le
imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a
titolo professionale;
- il 03.03.2014, il SISTRI (a meno di una ulteriore proroga
di sei mesi) partirà per i “produttori iniziali” di
rifiuti pericolosi, nonché per i Comuni e le imprese di
trasporto dei rifiuti urbani del territorio della regione
Campania. Naturalmente, dal 1° ottobre 2013, il SISTRI sarà
operativo anche per enti e imprese che lo vorranno
utilizzare su base volontaria.
Questo è il quadro attualmente vigente, a meno di ulteriori
modifiche in corso d’opera (21.10.2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza burocrazia.
Le difficoltà organizzative non scusano.
Le richieste dei consiglieri vanno evase nel minor
tempo possibile.
Un consigliere comunale può accedere agli atti e alle
informazioni relative all'ente locale?
Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali
agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato
dall'art. 43, comma 2, dlgs 18.08.2000, n. 267, il quale
prevede in capo agli stessi il diritto di ottenere dagli
uffici comunali, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
In merito all'individuazione di specifici giorni ed orari
riservati all'accesso, la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi ha affermato, con parere del 12.10.2010, che «la limitazione dell'orario d'accesso agli
uffici non è di per sé sola lesiva delle prerogative, ma è
necessario che l'ente garantisca l'accesso al consigliere
comunale nell'immediatezza, e comunque nei tempi più celeri
e ragionevoli possibili».
Ciò trova conferma nell'indirizzo giurisprudenziale
consolidato (cfr.
Cds sez. V. n. 929/2007) secondo il quale il diritto di
accesso «non può subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità)
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione
delle altre attività di tipo corrente» (limite della
proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando
ferma la «necessità di contemperare nel modo più ragionevole
e adeguato possibile dette richieste, finalizzate
all'espletamento del mandato, con le esigenze di
funzionamento degli uffici». (Cds, sezione V, del 17.09.2010, n. 6963).
In relazione alla situazione concreta qui prospettata va
distinto il diritto di accesso dei consiglieri dalla
disciplina di «accesso», ma più correttamente si dovrebbe
dire di ingresso, agli uffici comunali da parte sia dei
privati cittadini che dei consiglieri comunali, ed è
importante sottolineare che si tratta di aspetti connessi ma
diversi che, di conseguenza, rispondono a distinte
regolamentazioni.
Pur operando in ambiti contigui, infatti, le due discipline
regolamentari dovranno essere necessariamente distinte:
l'una, infatti, trova il proprio fondamento nell'art. 38 del
Tuel n. 267/2000, l'altra, per quanto attiene ai
consiglieri, deriva automaticamente dall'art. 43, comma 2,
del medesimo Tuel.
Non può non evidenziarsi che, pur nella propria autonomia,
l'ente, attraverso l'adozione di appositi regolamenti,
dovrebbe individuare, tra le varie opzioni possibili, le
regole che, in concreto, meglio contemperino esigenze
concorrenti, quali quelle di garanzia delle condizioni più
adeguate all'espletamento del mandato da parte dei
consiglieri comunali, con quelle di salvaguardia della
funzionalità degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente nonché, inoltre,
quella di stretta tutela della sicurezza degli uffici, del
personale e del patrimonio.
Inoltre, il diritto di accesso del consigliere, finalizzato
all'esercizio delle funzioni istituzionali, si differenzia
dal più generale diritto di accesso riconosciuto ai singoli
cittadini, come disciplinato dalla legge n. 241/1990. In
merito anche il Tar Toscana, Sez. I, con sentenza
11/11/2009, n. 1607 ha ritenuto opportuno sottolineare
(concordando in questo con l'indicazione fornita dal
ministero dell'interno in fattispecie analoghe)
l'opportunità che l'ente locale, nell'ambito della propria
autonomia, si doti da un lato di apposita regolamentazione,
utile a disciplinare il corretto esercizio del diritto di
accesso agli atti e alle informazioni sancito dall'art. 43,
comma 2, del Tuel, dall'altro di strumenti organizzativi
adeguati a soddisfare le esigenze connesse con l'esercizio
del diritto in questione
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Parere in ordine al regime vincolistico delle fasce di
rispetto alle acque pubbliche all'interno delle perimetrazioni urbanistiche del centro abitato - Comune di
Castelliri (Regione Lazio,
parere
10.10.2013
n. 208886 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito al computo del volume di un portico in area
soggetta a vincolo paesaggistico - Comune di Anguillara
Sabazia (Regione Lazio,
parere
08.10.2013 n. 12124 di prot.). |
APPALTI SERVIZI:
Bandi di gara: anche per i servizi socio-educativi-culturali
le stesse regole di pubblicità.
Per importi sia inferiori che superiori alla soglia
comunitaria.
Domanda
Quali sono le
modalità di pubblicazione dei bandi di gara e degli avvisi
di aggiudicazione inerenti i servizi
socio-educativi-culturali elencati nell'allegato II B del
D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, per importi sia inferiori che
superiori alla soglia comunitaria?
Risposta
L'art. 2 comma 1,
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 stabilisce che "1.
L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici,
servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve
garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì
rispettare i principi di libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità
indicate nel presente codice".
Si ritiene che, sebbene l'art. 20 D.Lgs. cit. stabilisca
l'applicabilità agli appalti nei servizi di cui all'allegato
II B di alcune norme soltanto del codice, debba comunque
trovare applicazione il principio generale di adeguata
pubblicità della gara in relazione al suo valore.
Infatti, l'AVCP con Deliberazione n. 108 del 19.12.2012 ha
stabilito che "I servizi elencati nell'allegato II B
restano soggetti, oltre che all'art. 20 del D.lgs. n.
163/2006, anche all'art. 27 del medesimo decreto in base al
quale l'affidamento di contratti pubblici, sottratti in
tutto o in parte all'applicazione del codice, deve avvenire
nel rispetto di principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità".
Con Deliberazione n. 25 del 08.03.2012 ha stabilito che "La
riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B del
Codice non esonera le amministrazioni aggiudicatrici
dall'applicazione dei principi generali in materia di
affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria
e nazionale, con particolare riferimento al principio di
pubblicità, espressione dei principi di imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97
Cost. (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.12.2008, n. 5943;
22.04.2008, n. 1856; 08.10.2007, n. 5217; 22.03.2007, n.
1369; TAR Lazio, Sez. III-ter, 05.02.2008, n. 951). Nella
deliberazione n. 102 del 05.11.2009 l'Autorità ha, inoltre,
sottolineato che sebbene i servizi rientranti nell'allegato
II B siano soggetti, a stretto rigore, solo alle norme
richiamate dall'art. 20 del D.Lgs. 163/2006, oltre a quelle
espressamente indicate negli atti di gara (in virtù del c.d.
principio di autovincolo), quando il valore dell'appalto è
decisamente superiore alla soglia comunitaria è opportuna
anche una pubblicazione a livello comunitario, in ossequio
al principio di trasparenza (cui è correlato il principio di
pubblicità), richiamato dall'art. 27 D.Lgs. 163/2006 a
tenore del quale l'affidamento deve essere preceduto da
invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con
l'oggetto del contratto".
La codificazione di tali principi conferma dunque la
contrarietà per l'affidamento fiduciario. Pertanto, in
ossequio ai principi del Trattato, la stazione appaltante
dovrà opportunamente nell'ambito della propria
discrezionalità scegliere il modulo procedimentale più
consono, favorendo la procedura ristretta quando il criterio
di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più
vantaggiosa.
Conseguentemente, occorre rispettare le regole di pubblicità
dei bandi relativi alle gare di importo sopra e sotto soglia
anche per le gare inerenti ai servizi di cui all'allegato II
B (01.10.2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Parere in merito alle condizioni per l'esercizio del potere
di annullamento di ufficio dei provvedimenti amministrativi
illegittimi (art. 21-nonies legge 241/1990) - Comune di
Fontana Liri (Regione Lazio,
parere
30.09.2013
n. 202602 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla procedibilità di accordi di programma
o alla possibilità di rilascio di permessi di costruire in
deroga per la realizzazione di interventi inseriti
nell'ambito di un PRUSST con riferimento a comuni sprovvisti
di PRG ovvero dotati unicamente di programma di
fabbricazione o di perimetrazione urbana - Comune di Sora (Regione Lazio,
parere
30.09.2013 n. 65047 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito al procedimento autorizzatorio concernente
gli interventi agro-forestali in ambiti gravati da vincoli
paesaggistici boschivo e di interesse archeologico (art.
142, comma 1, lettere g) ed m), d.lgs. 42/2004), indicati
nella Tavola B del PTPR (Regione Lazio,
parere
27.09.2013 n. 356054 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO:
Corte conti.
Legittime le permute alla pari.
Solo le permute «pure» (in cui gli immobili vengono
scambiati alla pari senza il pagamento di una differenza in
termini di prezzo) sono escluse dal divieto che, ai sensi
della legge di stabilità 2013, ha colpito tutte le
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della p.a. tenuto dall'Istat (e quindi anche gli enti
locali).
Lo ha chiarito la Corte conti del Veneto nel
parere 23.10.2013 n. 302, emessa su richiesta del
comune di Chioggia che voleva sapere se fosse o meno
legittima un'operazione che prevedeva l'acquisizione da
parte dell'ente di un immobile di proprietà della Marina
militare a fronte dell'impegno a realizzare (per un valore
equivalente) un intervento di ristrutturazione su un
immobile di proprietà della Marina.
La Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza
in materia che in più di un'occasione ha ristretto l'ambito
applicativo del divieto ai soli acquisti «a titolo
derivativo» tra privati. Sulla base di questo presupposto,
la sezione veneta ha sempre escluso che la locuzione
«acquisti a titolo oneroso», contenuta nella legge, potesse
estendersi anche alle espropriazioni per pubblica utilità
(che fanno acquisire la proprietà a titolo originario e
senza il pagamento di un corrispettivo in senso tecnico).
La Corte estende l'esonero anche alle permute a parità di
prezzo, in quanto le stesse rispettano «la ratio della norma
vincolistica volta a escludere esborsi di denaro a titolo di
corrispettivo».
Le tesi della Corte conti Veneto sono state recepite nel
decreto sui pagamenti della p.a. (dl n. 35/2013, convertito
nella legge n. 64) che all'art. 10-bis ha espressamente
escluso dal divieto «le procedure relative agli acquisti
a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per
pubblica utilità, le permute a parità di prezzo» e
infine le operazioni di acquisto programmate da delibere
assunte dagli enti prima del 31.12.2012 (articolo ItaliaOggi
del 29.10.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riduzione dei compensi per incarichi di collaudo affidati a
dipendenti di pubbliche amministrazioni.
In caso di
incarico di collaudo conferito dall'ente locale ad un
dipendente pubblico di altro ente, anche statale, opera
l'obbligo di trattenuta del 50% sul 'compenso spettante'
prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. n. 112 del 2008,
convertito dalla legge n. 133 del 2008.
---------------
La trattenuta si applica nei modi previsti dall'art. 61 ma a
far data dall'entrata in vigore della legge. In
considerazione di tale conclusione non dovrebbe determinarsi
l'inconveniente adombrato da codesto Comune che si preoccupa
di evidenziare come 'prima dell'entrata in vigore della
disciplina in esame costituiva prassi tra i professionisti
offrire un corrispettivo determinato da tariffa
professionale e scontato di una percentuale oscillante tra
il 30% ed il 40% (70% o 60% dell'onorario desumibile dalla
tariffa professionale)'.
Sicché ove 'la riduzione del 50% si
ritenesse applicabile all'onorario già scontato del 30% o
del 40%, il professionista incaricato finirebbe per
percepire (a titolo di compenso per gli affari affidatigli)
soltanto la metà della somma (35% oppure 30%), a suo tempo
convenuta con l'Amministrazione'. Tale conseguenza potrebbe
esporre 'l'Amministrazione a costi ed oneri legali
aggiuntivi'. Orbene, tale 'inconveniente' può ritenersi
scongiurato dal fatto che la disposizione in parola spiega i
suoi effetti dalla data della sua entrata in vigore dunque
non ex tunc.
---------------
Occorre premettere che la norma nella sua formulazione fa
riferimento a collaudi conferiti nell'ambito
dell'Amministrazione statale, anche se la Corte
costituzionale, con la citata sentenza n. 341 del 2009, ha
chiarito che la disposizione è di generale applicazione e
dunque riguarda anche gli enti locali; sicché si pone il
problema di stabilire a quale ente pubblico debba essere
riversata la metà del compenso professionale nel caso in cui
il collaudatore sia terzo rispetto all'Amministrazione
pubblica committente.
Circa la risoluzione del quesito
occorre aggiungere che dall'istruttoria compiuta è emerso
che, nel caso di specie, i compensi a tariffa professionale
previsti per l'espletamento del collaudo sono a carico
dell'Ente locale; in tale ipotesi deve ritenersi che i
beneficiari del 'risparmio di spesa' per il Comune
committente debbano essere i dipendenti dell'Ente locale
medesimo, indipendentemente dal fatto che il collaudo sia
conferito ad un soggetto terzo all'Ente.
La soluzione
prospettata appare la più aderente alla ratio della norma
intesa al contenimento della spesa corrente dell'Ente, che
vede contestualmente alimentato il fondo di amministrazione
dei dirigenti dell'Ente medesimo.
---------------
La Corte dei Conti, sezione regionale Emilia-Romagna,
esamina i seguenti quesiti del Comune di San Giovanni in
Persiceto:
- "nel caso di incarico di collaudo conferito
dall'ente locale ad un dipendente pubblico di altro ente,
anche statale, opera la trattenuta del 50% sul 'compenso
spettante' prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. 112 del
2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008?";
- "ove la risposta al quesito precedente
sia affermativa, la trattenuta prevista dall'art. 61, comma
9, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133
del 2008, va calcolata sull'importo spettante ai sensi della
tariffa professionale vigente al momento del conferimento
dell'incarico oppure sull'importo già scontato pattuito nel
contratto di incarico stipulato tra l'ente locale e
collaudatore pubblico di altra amministrazione?";
- "ove la risposta al primo quesito sia affermativa,
il 50% del compenso spettante al collaudatore dipendente
pubblico va versato in apposito capitolo di bilancio
dell'Amministrazione conferente l'incarico oppure in
apposito capitolo di bilancio dell'Amministrazione cui
appartiene il dipendente pubblico incaricato del collaudo?".
...
Preliminarmente, la sezione rammenta che la Corte
costituzionale, con sentenza n. 341 del 2009, ha evidenziato
che la norma in contesto si applica a tutte le
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, in quanto concorre alla
realizzazione di obiettivi di contenimento e
razionalizzazione della spesa, imponendo una riduzione delle
somme che, in aggiunta alla retribuzione, sono corrisposte,
a titolo di incentivo o di compenso, a determinate categorie
di dipendenti pubblici, per lo svolgimento di specifiche
attività.
Altrettanto opportuno il richiamo testuale alla disposizione
di cui si discorre (art. 61, comma 9, d.l. 112/2008,
convertito in legge 133/2008), a mente del quale: "Il 50
per cento del compenso spettante al dipendente pubblico per
l'attività di componente o di segretario del collegio
arbitrale è versato direttamente ad apposito capitolo del
bilancio dello Stato; il predetto importo è riassegnato al
fondo di amministrazione per il finanziamento del
trattamento economico accessorio dei dirigenti ovvero ai
fondi perequativi istituiti dagli organi di autogoverno del
personale di magistratura e dell'Avvocatura dello Stato ove
esistenti; la medesima disposizione si applica al compenso
spettante al dipendente pubblico per i collaudi svolti in
relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture. Le disposizioni di cui al presente comma si
applicano anche ai corrispettivi non ancora riscossi
relativi ai procedimenti arbitrali ed ai collaudi in corso
alla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto".
Quindi la precisazione del successivo comma 17 che prevede
la non applicabilità agli enti territoriali dell'obbligo di
versamento (delle riduzioni di spesa in commento) in
apposito capitolo del bilancio dello Stato.
Conseguentemente delineato il quadro giuridico di
riferimento, la sezione esprime i propri avvisi sugli
aspetti inquadrati dall'ente istante, come segue:
- come detto "... la Corte
costituzionale ha ritenuto che la disposizione in esame sia
di portata generale; essa pertanto si applica anche agli
enti territoriali ad esclusione della parte in cui essa
impone l'obbligo di versare ad apposito capitolo del
bilancio dello Stato le riduzioni di spesa derivanti dalla
misura in essa prevista. Ne discende che al primo quesito
va data risposta affermativa e dunque in caso di incarico di
collaudo conferito dall'ente locale ad un dipendente
pubblico di altro ente, anche statale, opera l'obbligo di
trattenuta del 50% sul 'compenso spettante' prevista
dall'art. 61, comma 9, del d.l. n. 112 del 2008, convertito
dalla legge n. 133 del 2008";
- quanto al secondo quesito, "...
la trattenuta si applica nei modi previsti dall'art. 61 ma a
far data dall'entrata in vigore della legge. In
considerazione di tale conclusione non dovrebbe determinarsi
l'inconveniente adombrato da codesto Comune che si preoccupa
di evidenziare come 'prima dell'entrata in vigore della
disciplina in esame costituiva prassi tra i professionisti
offrire un corrispettivo determinato da tariffa
professionale e scontato di una percentuale oscillante tra
il 30% ed il 40% (70% o 60% dell'onorario desumibile dalla
tariffa professionale)'. Sicché ove 'la riduzione del 50% si
ritenesse applicabile all'onorario già scontato del 30% o
del 40%, il professionista incaricato finirebbe per
percepire (a titolo di compenso per gli affari affidatigli)
soltanto la metà della somma (35% oppure 30%), a suo tempo
convenuta con l'Amministrazione'. Tale conseguenza potrebbe
esporre 'l'Amministrazione a costi ed oneri legali
aggiuntivi'. Orbene, tale 'inconveniente' può ritenersi
scongiurato dal fatto che la disposizione in parola spiega i
suoi effetti dalla data della sua entrata in vigore dunque
non ex tunc";
- quanto al terzo quesito, "...
occorre premettere che la norma nella sua
formulazione fa riferimento a collaudi conferiti nell'ambito
dell'Amministrazione statale, anche se la Corte
costituzionale, con la citata sentenza n. 341 del 2009, ha
chiarito che la disposizione è di generale applicazione e
dunque riguarda anche gli enti locali; sicché si pone il
problema di stabilire a quale ente pubblico debba essere
riversata la metà del compenso professionale nel caso in cui
il collaudatore sia terzo rispetto all'Amministrazione
pubblica committente. Circa la risoluzione del quesito
occorre aggiungere che dall'istruttoria compiuta è emerso
che, nel caso di specie, i compensi a tariffa professionale
previsti per l'espletamento del collaudo sono a carico
dell'Ente locale; in tale ipotesi deve ritenersi che i
beneficiari del 'risparmio di spesa' per il Comune
committente debbano essere i dipendenti dell'Ente locale
medesimo, indipendentemente dal fatto che il collaudo sia
conferito ad un soggetto terzo all'Ente. La soluzione
prospettata appare la più aderente alla ratio della norma
intesa al contenimento della spesa corrente dell'Ente, che
vede contestualmente alimentato il fondo di amministrazione
dei dirigenti dell'Ente medesimo"
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 23.10.2013 n. 269 -
tratto da www.publika.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Nessun compenso può essere corrisposto al
personale tecnico comunale in occasione della redazione di
atti di pianificazione del territorio (PRG, Piani Attuativi,
ecc.) che non siano finalizzati alla realizzazione di
specifiche opere pubbliche, come si evince dal comma 6
dell’art. 92 del Codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006).
---------------
Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di
Gualdo Cattaneo, dopo aver premesso che detto Comune è
dotato di un regolamento interno in materia di
incentivazione della progettazione interna che prevede
esplicitamente la possibilità di elargire detto incentivo
anche per la progettazione di tipo urbanistico (PRG, Piani
Attuativi) e che l'Amministrazione intende valorizzare le
figure presenti all'interno dell'Area Urbanistica, Edilizia
e Sviluppo Economico, concedendo ai dipendenti di detta Area
il beneficio dell'incentivo alla progettazione per la
redazione di atti di natura urbanistica ai sensi dell’art.
92 del D.Lgs. 163/2006, chiede l’avviso di questa Sezione
sulla legittimità della corresponsione di detto incentivo al
personale interno nonché, in caso di risposta positiva, le
relative condizioni.
...
Quanto al merito, il Comune di Gualdo Cattaneo intende
conoscere l’avviso di questa Corte in merito alla
possibilità di corrispondere al personale dipendente, come
peraltro prevede il regolamento dell’Ente, l’incentivo di
progettazione in relazione alla redazione di atti di natura
urbanistica (PRG, Piani attuativi) ai sensi dell’art. 92 del
D.Lgs. 163/2006.
Della tematica concernente la corresponsione al personale
comunale dell’incentivo di progettazione per attività di
pianificazione redazione (nel caso di specie, della “parte
operativa” del piano regolatore generale), questa
Sezione si è già occupata adottando una recentissima
pronuncia (parere
09.07.2013 n. 119). In detta pronuncia, dalla
quale non vi è motivo di discostarsi, la Sezione ha ritenuto
di aderire all’orientamento diffuso presso altre Sezioni di
controllo di questa Corte, secondo il quale
“l’atto di pianificazione comunque denominato”
indicato nel comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 si
riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la pianificazione
del territorio collegata alla realizzazione di opere
pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione
di un’opera) e non si estende alla mera attività di
pianificazione del territorio, quale la redazione del Piano
regolatore o una variante generale.
A tale conclusione la Sezione è pervenuta anche sulla
base di una attenta esegesi della normativa che disciplina
l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di
pianificazione, osservando quanto segue: “Il comma 6
dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 recita: “Il trenta per
cento della tariffa professionale relativa alla redazione di
un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito,
con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui
al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5,
esprime un preciso favor del legislatore per l’affidamento
di incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a
dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure
volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e
rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione
collettiva decentrata la determinazione di “criteri e
modalità” di riparto del compenso.
Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali
disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex
multis, Sezione controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008),
costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali
opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle
disposizioni preliminari al codice civile.
Va, quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della
succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare
necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato
della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta nel
comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al
riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei
conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57;
Sez. contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sez. contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213
e
parere 13.11.2012 n. 293;
Sez. Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290),
dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, è nel
senso che “l’atto di pianificazione
comunque denominato” indicato nel comma 6 del citato art. 92
si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la
pianificazione del territorio collegata alla realizzazione
di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la
localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera
attività di pianificazione del territorio, quale la
redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa
Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che
disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la
previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi
precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice
dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art.
92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione
e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, ruota
intorno all’attività di progettazione di un’opera o di un
lavoro che l’amministrazione pubblica, in veste di stazione
appaltante, deve aggiudicare.
Nel comma 1 del citato art. 92 si parla di “compensi
relativi allo svolgimento della progettazione e delle
attività tecnico-amministrative ad essa connesse
all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata”. Il
successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei corrispettivi
che la stazione appaltante può utilizzare quale criterio per
determinare l’importo da porre a base dell’affidamento. Il
comma 3 si occupa a sua volta dei criteri di calcolo dei
corrispettivi dei vari livelli di progettazione
(preliminare, definitiva ed esecutiva). Il comma 5 dispone
che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo
posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione, a valere direttamente sugli
stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in
un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori…”.
L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione
alle “prestazioni relative alla progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei
lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo
alle attività del responsabile del procedimento e del
dirigente”, che tali attività siano espletate da risorse
interne alla stazione appaltante, purché in possesso dei
requisiti di abilitazione professionale. In effetti,
l’affidamento a soggetti comunque interni al plesso
pubblicistico viene considerato dal codice dei contratti
preferenziale, tanto che il comma 6 dello stesso articolo 90
stabilisce i casi in cui l’incarico di progettazione
preliminare può essere legittimamente affidato a
professionalità esterne all’Amministrazione.
Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di
affermare che, ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume
rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, bensì il suo contenuto specifico,
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica
quale, ad esempio, una variante necessaria per la
localizzazione di un’opera
(cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana
parere 18.10.2011 n. 213),
ovvero a quel quid pluris di progettualità interna,
rispetto ad un mero atto di pianificazione generale che
costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività
istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già
corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Va ulteriormente precisato che il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante è ancorato dalla normativa suindicata
all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di
pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di
opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ente”.
La Sezione, nell’estendere alla fattispecie in esame le
osservazioni, sopra riportate, svolte nel precedente
parere 09.07.2013 n. 119,
ribadisce il preciso intento del
legislatore di limitare la corresponsione del compenso di
progettazione alle ipotesi di progettazione strettamente
collegate alla realizzazione di un’opera pubblica.
A tale conclusione conduce, in modo inequivoco, finanche la
presenza, nel comma 6 dell’art. 92 del D.L.gs. 163/2006,
della locuzione “amministrazione aggiudicatrice”.
Elemento quest’ultimo che costituisce conferma ulteriore
della validità della soluzione sopra esposta, sulla quale
non può esplicare alcuna influenza la diversa previsione di
una norma del regolamento comunale che espressamente
riconosce al personale interno il diritto all’incentivo in
parola, trattandosi, in ogni caso, di norma secondaria
(regolamentare) confliggente con una disciplina successiva
di fonte legislativa.
In conclusione, la Sezione ritiene che
nessun compenso possa essere corrisposto al personale
comunale, ovviamente in possesso delle specifiche
professionalità richieste dalla legge, in dipendenza della
redazione di atti di pianificazione del territorio (PRG,
Piani Attuativi, ecc.) che non siano finalizzati alla
realizzazione di determinate opere pubbliche
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 23.10.2013 n. 125). |
ENTI LOCALI: Equilibri contabili da verificare in ogni ente locale.
Corte dei conti. Le istruzioni.
La
salvaguardia degli equilibri di bilancio deve essere
effettuata in tutti gli enti locali, nonostante le proroghe
e le deroghe che hanno seguito i rinvii dei termini per la
chiusura del preventivo 2013, e i revisori dei conti devono
effettuare una serie di verifiche ad hoc sulla gestione
della spesa e la situazione del fondo cassa, con un occhio
particolare all'utilizzo dei fondi vincolati.
La sezione Autonomie della Corte dei conti, con la
deliberazione 17.10.2013 n. 23/2013 diffusa ieri, prova a rifare ordine in un quadro di
finanza locale travolto dal diluvio di regole che ne hanno
minato ogni certezza.
I magistrati contabili entrano in
campo con una delibera inusuale, che sospende l'approvazione
dei questionari sui preventivi 2013 (verranno diffusi
insieme a quelli sui consuntivi, perché di fatto oggi la
verifica è impossibile e l'accoppiamento dei due controlli
può consentire una visione più organica delle dinamiche
contabili) e non risparmia considerazioni dure nei confronti
di Governo e Parlamento.
«La situazione dell'esercizio 2013», taglia corto la
delibera riferendosi ai termini per il preventivo spostati a
fine novembre, alle deroghe sugli obblighi di verifica degli
equilibri e alle incertezze che ancora circondano Imu e
Tares, si presenta «al limite dell'irragionevolezza». La
possibilità di decidere a fine anno le aliquote 2013 «confligge
con lo Statuto del contribuente», e i troppi punti
interrogativi che circondano i bilanci locali «finiscono per
collidere con il principio di coordinamento della finanza
pubblica» fissato dalla Costituzione.
A sostegno di questa posizione la Corte ricorda gli inciampi
della gestione provvisoria in dodicesimi, che misura le
spese sugli stanziamenti dell'anno scorso mentre la spending
review ha ridotto i fondi locali, con il risultato di aprire
pericolosi disavanzi della gestione: ne sanno qualcosa al
Comune di Roma, dove il rosso da recuperare in extremis
sfiora i 900 milioni di euro, ma problemi analoghi in
proporzione tornano in moltissimi bilanci locali.
Per evitare il peggio, la Corte chiede ad amministratori e
revisori di rifarsi al principio contabile della «prevalenza
della sostanza sulla forma», prima di tutto con la verifica
della permanenza degli equilibri in corso d'esercizio.
Un
controllo particolare dovrà poi concentrarsi sulle spese
ordinarie che nell'ultimo bilancio erano state coperte con
entrate eccezionali, perché se riproposte quest'anno devono
trovare una nuova fonte di finanziamento. Sul fondo cassa,
invece, occorre distinguere la quota alimentata da fondi
vincolati, perché il loro utilizzo per finanziare spese
correnti finisce per minare gli equilibri fondamentali dei
conti (articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni da altre Pa anche se manca l'intesa.
Personale. Sì all'utilizzo di
graduatorie «esterne».
LA CONDIZIONE/
La chance è ammessa solo se le posizioni lavorative
ricercate e quelle offerte sono omogenee.
Per le assunzioni i Comuni possono utilizzare le graduatorie
di altre amministrazioni pubbliche anche se non è stata
raggiunta una intesa preventiva rispetto all'indizione del
concorso o almeno all'approvazione dei suoi esiti e se
questa volontà non è contenuta nel bando.
È questa
l'indicazione contenuta nel
parere
03.10.2013 n. 124 della
sezione regionale di controllo della Corte dei Conti
dell'Umbria.
In tal modo si consolida l'interpretazione
estensiva del dettato legislativo (articolo 3, comma 61,
legge n. 350/2003), con tutti i rischi di possibili abusi,
come il pescare dalle graduatorie di altri enti in modo
arbitrario. Rischi che sono ben presenti nel parere. Per
evitarli vengono fornite specifiche raccomandazioni.
Ricordiamo che, sempre con riferimento alle assunzioni a
tempo indeterminato, l'utilizzazione della graduatoria dello
stesso ente è invece obbligatoria.
Il parere è motivato con argomentazioni di tipo sostanziale.
Vi si legge che: «La lettera e lo scopo della norma non
consentono interpretazioni tanto restrittive da ancorare il
previo accordo» alla sua conclusione entro una data
prefissata. E ancora, la stessa disposizione prevede la
proroga di tali graduatorie, per cui appare illogica e
contraddittoria la eventuale limitazione della utilizzazione
delle stesse.
Il parere prosegue affermando che: «Ai fini
della corretta applicazione, non è tanto (e non è solo) la
data in cui le amministrazioni interessate devono
raggiungere il previo accordo, quanto piuttosto che
l'accordo stesso (che comunque deve intervenire prima
dell'utilizzazione della graduatoria) si inserisca in un
chiaro e trasparente procedimento di corretto esercizio del
potere di utilizzare graduatorie concorsuale di altri enti,
così da escludere ogni arbitrio e/o irragionevolezza e,
segnatamente, la violazione delle regole di concorsualità
per l'accesso ai pubblici uffici».
Da sottolineare infine che i magistrati contabili
subordinano l'utilizzazione delle graduatorie di altre Pa al
ricorso a posizioni lavorative «omogenee».
E questa condizione non si considera nel parere soddisfatta
nel caso di un concorso indetto per assunzioni a tempo pieno
e utilizzazione della graduatoria per assunzioni in part-time
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
ENTI LOCALI: Delibera
della Corte conti: monitoraggio accurato della gestione.
Bilanci, avviso ai comuni. Esercizio per dodicesimi senza
eccezioni.
La Corte dei conti lancia un avviso per i bilanci dei comuni
nel ricorrere all'esercizio provvisorio. In un contesto
caratterizzato da continui rinvii del termine di
approvazione del bilancio di previsione, gli enti locali
dovranno vigilare sul particolare regime delle spese nella
misura non superiore di un dodicesimo delle somme previste
nell'ultimo bilancio approvato. Per evitare rischi della
tenuta dei conti, è prudente che gli enti locali provvedano
in corso d'anno a controllare e a monitorare l'intera
gestione finanziaria.
È quanto ha rilevato, ieri con la
deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, la Sezione
autonomie della Corte dei conti, nel rendere note le proprie
indicazioni per la gestione delle risorse nel caso del
protrarsi dell'esercizio provvisorio e gli indirizzi
relativi al bilancio di previsione 2013.
Un documento,
questo, che a causa dei continui rinvii dei termini di
legge, la stessa magistratura contabile ha statuito di dover
ritenere sostitutivo delle consuete linee guida elaborate
annualmente dopo la legge finanziaria del 2006. Operando in
regime di esercizio provvisorio e mancando l'approvazione
del bilancio 2013, gli enti devono sapere che maggiore è il
periodo di provvisorietà, maggiore sarà la parte del
bilancio di previsione che risulterà già impegnata in
termini di spesa.
Un rischio che potrà essere evitato se
l'ente provvederà più volte, in corso d'anno, ad effettuare
il controllo a salvaguardia degli equilibri di bilancio,
previsto al 30 settembre dall'art. 193, comma 2 Tuel e che
oggi, invece, il legislatore, per effetto dell'articolo
12-bis del dl n. 93/2013, ammette come facoltativo per gli
enti che hanno approvato o approveranno il bilancio di
previsione dopo il 1° settembre.
Un monitoraggio che non
deve essere disatteso in quanto l'ente deve essere vigilante
sulla gestione dei residui, dei debiti fuori bilancio e di
altre passività che potrebbero portarlo alla bancarotta. Sul
versante degli equilibri di cassa, la Corte ammette che un
ricorso all'anticipazione dal tesoriere è un indicatore di
criticità degli equilibri e della gestione che evidenzia
«l'incapacità dell'ente di costituire un normale flusso di
cassa nel corso della gestione annuale».
Infine, la Corte
ricorda agli enti l'osservanza delle norme varate in questi
anni per ridurre la spesa corrente. Il riferimento va al
taglio sulle spese per convegni, pubblicità, a quello sulle
vetture di rappresentanza, nonché al giro di vite
sull'acquisto di immobili ed arredi. Senza dimenticare che è
necessario verificare annualmente la dotazione organica del
personale in relazione alle esigenze funzionali dell'ente e,
soprattutto, alle risorse di cui si dispone
(articolo ItaliaOgggi del 19.10.2013). |
NEWS |
VARI: Carrelli elevatori, targa obbligatoria.
Il ministero dei trasporti sulle regole per circolare.
Per uscire dall'area privata di una ditta per le comuni
operazioni di carico e scarico della merce i carrelli
elevatori dovranno essere immatricolati e muniti di targa.
Per quelli già autorizzati alla circolazione saltuaria,
invece, arriva una procedura ad hoc molto semplificata.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare 25.10.2013 n. 26363 di prot..
La questione della circolazione stradale saltuaria dei
muletti a forca abilitati al carico dei mezzi pesanti
risente delle vicende di un codice stradale ormai
irriconoscibile per le troppo modifiche intervenute nel
tempo. L'utilizzo del carrello elevatore nelle strade fino a
qualche mese fa risultava disciplinato dal decreto del
Ministero dei trasporti 28/12/1989. In pratica, la
motorizzazione poteva autorizzare una circolazione saltuaria
di queste macchine operatrici, previa verifica di una serie
di condizioni tecniche.
A differenza di tutti gli altri veicoli, quindi, anche senza
immatricolazione, il muletto poteva impegnare certe strade
in presenza di traffico ed operare nel rispetto del codice
stradale. Dal 10 giugno scorso, con la circolare n. 14906 il
Ministero ha, invece, cambiato orientamento. Specifica,
infatti, la nota centrale, che per una serie di modifiche
normative succedutesi nel tempo ora non è più possibile
rilasciare autorizzazioni alla circolazione saltuaria.
Questi veicoli per poter circolare regolarmente devono
essere immatricolati ovvero dotati di targa e tutti i
dispositivi di sicurezza richiesti dalla legge. Per i mezzi
già autorizzati alla circolazione, anche con documenti
scaduti (purché non antecedenti al 31/12/2007), con la nota
del 25 ottobre viene però introdotta una procedura
accelerata e semplificata di regolarizzazione.
In pratica, la procedura burocratica prevede la
presentazione di una istanza di collaudo al centro prova
autoveicoli corredata dell'autorizzazione alla circolazione,
della scheda tecnica e informativa, della dichiarazione Ce
con i disegni quotati del mezzo. Seguirà un collaudo
semplificato e veloce finalizzato a regolarizzare il veicolo
con tutte le dotazioni minime di sicurezza, nel rispetto
della particolarità dello stesso
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
VARI: Bonus arredi, limiti dall'Agenzia delle entrate.
L'Agenzia delle entrate limita la portata del bonus arredo,
ma gli artigiani non ci stanno, anche nell'interesse dei
contribuenti che stanno valutando come sfruttare al meglio
le opportunità previste dal decreto energia (dl 63/2013
convertito in legge 90/2013), per la particolare convenienza
ad abbinare gli acquisti per l'arredo agli interventi
sull'immobile agevolati con la detrazione Irpef del 50%.
Con la proroga del bonus arredi al 31/12/2014, prevista nel
disegno di legge di Stabilità, ci sarà sì più tempo per
decidere, ma si dovrà comunque fare i conti con l'impatto
della circolare dell'Agenzia delle entrate n. 29 del
18/09/2013. Infatti, nell'individuare gli interventi cui è
abbinabile l'ulteriore detrazione per l'arredo, l'Agenzia
elenca solo quelli riconducibili agli interventi di recupero
veri e propri, oltre al ripristino di immobili danneggiati
da calamità, e sembra quindi implicitamente escludere gli
altri interventi pur compresi nella norma (art. 16, comma 2,
del dl 63 del 04/06/2013) che con una serie di richiami rinvia
all'art. 16-bis del dpr 917/1986.
Quest'ultimo disciplina la
detrazione Irpef del 36% (ora 50%) citando tra gli
interventi agevolati anche specifici lavori che possono non
configurarsi come interventi di recupero (elencati dalla
lettera c alla lettera l, ossia: ripristino di immobili
danneggiati da calamità, eliminazione di barriere
architettoniche; interventi per favorire la mobilità dei
disabili, per la prevenzione di atti illeciti, per la
prevenzione di infortuni domestici, per la cablatura degli
edifici, per il contenimento dell'inquinamento acustico, per
la bonifica dell'amianto, per l'adozione di misure
antisismiche e per il conseguimento di risparmi energetici).
Seguendo l'interpretazione dell'Agenzia molti lavori di tipo
minore (per es. montaggio di corrimano lungo le scale, di
rilevatori di gas, o di condizionatori con pompe di calore),
seppure agevolati con la detrazione prevista per gli
interventi di recupero, sarebbero inutilizzabili per
l'accesso alla detrazione sull'arredo, con una evidente
drastica restrizione del campo di applicazione della norma.
Così si penalizzano i contribuenti che hanno già acquistato
mobili ed elettrodomestici pensando di estendere all'arredo
l'agevolazione spettante per i lavori sull'immobile. Inoltre
si rischia di depotenziare quel rilancio del settore del
legno espressamente voluto dal legislatore, come risulta
dalla relazione illustrativa, e di penalizzare non solo gli
operatori del settore del legno e i rivenditori, ma anche le
imprese, soprattutto artigiane, che normalmente effettuano
gli interventi minori.
Questa interpretazione restrittiva
non appare condivisibile. Se il legislatore avesse voluto
limitare l'agevolazione agli interventi di recupero
(manutenzioni ordinarie limitatamente alle parti comuni
condominiali; manutenzioni straordinarie; ristrutturazioni;
restauri e risanamenti conservativi) lo avrebbe fatto
all'inizio della disposizione, richiamando in modo specifico
gli interventi della lettera a) e b) del comma 1 dell'art.
16-bis del dpr 917/1986 e non tutto il comma 1 dell'art.
16-bis che comprende anche gli altri interventi.
A livello normativo il bonus arredi è agganciato a tutti i
lavori agevolabili con il 36% (ora 50%) e quindi anche ai
lavori elencati dalla lettera c) alla lettera l)
dell'art. 16-bis del dpr 917/1986, che sono agevolabili
indipendentemente dalla definizione dell'intervento dal
punto di vista edilizio, altrimenti sarebbe stato inutile
elencarli in aggiunta agli altri. Di conseguenza le
manutenzioni ordinarie nelle singole unità abitative
(riparazione di una tubazione), se non rientrano in uno
degli interventi elencati dalla lettera c) alla lettera l)
dell'art. 16-bis del dpr 917/1986, non sono in alcun modo
agevolate, né con la detrazione per interventi edilizi, né
attraverso la possibilità di accesso al bonus arredo, mentre
l'installazione di un condizionatore con pompa di calore
(intervento diretto al risparmio energetico per la presenza
della pompa di calore), così come l'installazione di
corrimano o di un rilevatore di gas (interventi diretti a
prevenire infortuni domestici secondo la stessa guida
«Ristrutturazioni edilizie: le agevolazioni fiscali»
recentemente pubblicata dall'Agenzia sul suo sito nella
versione aggiornata a ottobre 2013), danno comunque diritto
sia al bonus edilizio, sia all'accesso al bonus arredo. Non
è possibile, dato che la legge non lo prevede, creare una
discriminazione tra le tipologie di intervento basata
sull'entità della spesa sostenuta.
Alcuni autori giustamente danno per scontata l'inclusione di
tutti gli interventi citati dall'art. 16-bis del dpr
917/1986 nel perimetro dell'agevolazione bonus arredi,
prescindendo del tutto dalla circolare e dando esclusivo
rilievo alla legge, che costituisce una fonte di rango
superiore. Il problema è che se l'Agenzia non cambia idea si
rischiano migliaia di contenziosi e in molti casi saranno
gli stessi Caf a escludere l'agevolazione per non rischiare
sanzioni, mortificando così i diritti dei contribuenti
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Niente
«Sistri» per i professionisti.
Ambiente. Secondo la circolare ministeriale 1/13 il sistema
si applica a enti e imprese.
I professionisti sono esclusi dal
Sistri.
Lo precisa la
circolare 31.10.2013 n. 1 diffusa giovedì dal
ministero dell'Ambiente in merito alla conversione del
decreto legge 101/2013 (legge 125/2013) che, con l'articolo
11, ha modificato lo scenario delle norme sostanziali di
riferimento (si veda anche «Il Sole 24 Ore» di ieri).
La circolare, infatti, ricorda che i produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi che non sono organizzati in enti
o imprese sono esclusi dal Sistri.
La locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano
rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale»
contenuta nell'articolo 11, viene riferita dal Ministero a
enti e imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali
pericolosi "prodotti da terzi". Nella locuzione «vettori
esteri che operano sul territorio nazionale» il
ministero dell'Ambiente colloca i «vettori esteri che
effettuano trasporti di rifiuti all'interno del territorio
nazionale o trasporti transfrontalieri in partenza»
dall'Italia.
Su commercianti e intermediari di rifiuti speciali
pericolosi la circolare chiarisce che dal 01.10.2013
l'obbligo di Sistri è operante anche se non detengono
rifiuti.
Nel parere ministeriale si trova anche l'impegno a far sì
che il decreto che individuerà ulteriori categorie di
soggetti a cui sarà esteso il Sistri sia adottato entro il
03.03.2014, cioè entro la seconda fase di operatività del
sistema. Da tale data, infatti, il Sistri partirà per i
produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi e, nel
territorio della Campania, per i Comuni e le imprese di
trasporto di rifiuti urbani.
Mentre dal 30.06.2014, previo decreto, partirà la
sperimentazione sui rifiuti urbani pericolosi.
Sul punto la circolare precisa che la sperimentazione e i
suoi effetti «non riguardano i produttori iniziali di
rifiuti pericolosi urbani, e neanche le eventuali fasi di
raccolta e conferimento precedenti al momento in cui i
rifiuti sono conferiti» ai centri di raccolta o in altri
siti dedicati. In pratica, il passaggio del rifiuto urbano
pericoloso dal cittadino fino al centro di raccolta non è
soggetto alla sperimentazione Sistri. Tuttavia, ai soggetti
che gestiscono i rifiuti urbani pericolosi si applicherà il
Sistri solo se la sperimentazione darà esito positivo. Per
questo, la circolare precisa che la disciplina degli
adempimenti e delle sanzioni per i gestori di rifiuti urbani
pericolosi «verrà dettata da norme successive».
La legge 125/2013 stabilisce, inoltre, che per i primi dieci
mesi di operatività del Sistri dal 1° ottobre scorso
(quindi, fino al 01.08.2014), non saranno applicate le
sanzioni di cui agli articoli 260-bis e 260-ter del Dlgs
152/2006. Fino ad allora gli obbligati al Sistri dovranno
osservare le regole su registro e formulario di cui agli
articoli 190 e 193 del Dlgs 152/2006 nella formulazione
previgente alle modifiche di cui al Dlgs 205/2010, assistite
dalle relative sanzioni vigenti prima che il Sistri venisse
introdotto nel "Codice ambientale". Gli obbligati al
Sistri saranno nuovamente impegnati con il Mud «con
riferimento ai rifiuti prodotti e gestiti negli anni 2013 e
2014».
La legge 125/2013 modifica, poi, anche gli articoli 190 e
193 del "Codice ambientale" su registro e formulario.
La nuova formulazione «sarà applicabile dal 01.08.2014,
ai soggetti che non aderiscono al Sistri».
La Circolare al paragrafo 7 conferma la sospensione dei
punti 7.3 e 7.1.2. del Manuale operativo relativi al
tracciamento interno agli impianti e alla presa in carico
delle giacenze alla mezzanotte del 30.09.2013.
Al tavolo tecnico, la circolare affida, infine, il compito
di risolvere alcuni dei problemi endemici del Sistri, a
partire dalla microraccolta (articolo Il
Sole 24 Ore del 02.11.2013). |
APPALTI:
Gare, verifica dei requisiti a carico di appaltante via
Bdncp. Le novità della legge sulla
razionalizzazione delle p.a..
La verifica dei requisiti dichiarati in una gara di appalto
dovrà essere effettuata dalle stazioni appaltanti
obbligatoriamente e in via esclusiva attraverso la Banca
dati nazionale sui contratti pubblici (Bdncp). Vietata la
verifica attraverso la richiesta di documenti ai
concorrenti.
È quanto stabilisce la legge 30.10.2013,
n. 125 di conversione in legge del decreto-legge n. 101
sulla razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 255 del 30.10.2013).
Il provvedimento all'articolo 2, comma 13-sexies,
modifica l'articolo 6-bis, comma 1, del codice dei contratti
pubblici (dlgs 163/2006) rafforzando l'obbligo di acquisizione
dei documenti necessari alla verifica dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi dichiarati in
sede di gara (oggi la norma recita «acquisita presso» e la
disposizione della legge 125 la modifica in «acquisita
esclusivamente attraverso la Banca dati nazionale sui
contratti pubblici»).
In sostanza si ribadisce l'operatività
di quanto stabilito dall'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici con l'obbligo di iscrizione al sistema
dell'AVCPass, lo strumento operativo a disposizione di
stazioni appaltanti e operatori privati per la verifica dei
requisiti. La norma del codice in realtà prevedeva l'obbligo
di verifica dal primo gennaio 2013, ma l'organismo di
vigilanza ha modulato l'obbligo in funzione del valore dei
contratti e comunque lo rende applicabile da inizio 2014 a
tutti i contratti oltre i 40 mila euro. Dal 1° gennaio
prossimo sarà vietata la verifica dei requisiti tramite
richiesta dei documenti ai concorrenti. Dovranno essere le
stazioni appaltanti a passare attraverso l'Autorità per
accertare la regolarità di quanto dichiarato, con una
notevole semplificazione per gli operatori privati.
La legge
125 ribadisce questo percorso vincolato e abroga, per
maggiore chiarezza, l'articolo 49-ter del decreto-legge del
fare (69/2013 convertito nella legge n. 90/2013) che, come
già segnalato (si veda Italia Oggi del 31.07.2013), non
risultava coerente con il sistema delineato dal Codice dei
contratti. La norma abrogata, infatti, prevedeva l'obbligo
di acquisizione della documentazione a comprova dei
requisiti tramite la Bdncp per i contratti di appalto «sottoscritti»
dalle amministrazioni a partire dai tre mesi successivi alla
data di conversione del decreto. La norma non era affatto
chiara visto che la verifica dei requisiti si effettua ben
prima della sottoscrizione del contratto (anche per
sorteggio, durante la gara).
Inoltre così facendo si sarebbe anticipata la scadenza
dell'obbligo a metà novembre, rispetto al termine del primo
gennaio 2014 fissato inderogabilmente dall'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici. Da ciò la necessità di
eliminare la norma (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, l'applicazione è limitata.
Non obbligati produttori di rifiuti urbani (pure pericolosi).
I chiarimenti della circolare n. 1
del ministero dell'ambiente sul sistema di tracciabilità.
Non sono assoggettati al Sistri i produttori iniziali di
rifiuti urbani, ancorché pericolosi, e i produttori iniziali
che non sono organizzati in enti o imprese. Per i primi
dieci mesi di operatività del Sistema di tracciamento dei
rifiuti, a decorrere dal 01.10.2013, nei confronti dei
soggetti obbligati ad aderire al Sistri non trovano
applicazione le sanzioni previste dagli articoli 260-bis e
260-ter, del dlgs 152/2006. Sospesa l'applicazione del
Manuale operativo Sistri relativamente al tracciamento dei
rifiuti nei passaggi interni degli impianti. Per il periodo
di moratoria delle sanzioni del Sistri, operatori tenuti,
oltre che a effettuare gli adempimenti del Sistri, a tenere
i registri di carico e scarico, a redigere i formulari di
trasporto e a compilare la dichiarazione annuale al catasto
dei rifiuti (secondo le previsioni previgenti al Sistri
stesso).
Sono solo alcuni dei chiarimenti contenuti nella
circolare 31.10.2013 n. 1 del ministero dell'ambiente diffusa ieri per
l'applicazione dell'articolo 11 del decreto legge 31.08.2013, n. 101, concernente «semplificazione e
razionalizzazione del sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti_» (Sistri), convertito in legge 30.10.2013, n. 125 (G.U. n. 255 del 30.10.2013). La
circolare specifica come la normativa non contempli
l'obbligo di adesione per:
- i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi;
- gli enti e le imprese che effettuano attività di raccolta,
trasporto e gestione dei rifiuti non pericolosi;
- i raccoglitori e i trasportatori di rifiuti urbani del
territorio di regioni diverse dalla regione Campania
(limitatamente ai rifiuti urbani pericolosi, sono comunque
interessati alla fase di sperimentazione).
Questi soggetti possono aderire al Sistri su base
volontaria. Per quanto riguarda la prima categoria elencata,
in essa come detto non rientrano i produttori iniziali di
rifiuti urbani, ancorché pericolosi. «Inoltre», si legge
nella nota, «si ritiene che da tale obbligo debbano essere
esclusi i produttori iniziali che non sono organizzati in
enti o imprese». Per quanto riguarda gli enti o imprese che
raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a
titolo professionale, compresi i vettori esteri che operano
sul territorio nazionale, anche in tal caso la norma si
riferisce ai soli rifiuti speciali pericolosi. Mentre per
vettori esteri che operano sul territorio nazionale si
intendono quelli che effettuano trasporti di rifiuti
all'interno del territorio nazionale o trasporti
transfrontalieri in partenza dal territorio.
Relativamente invece agli enti o imprese che effettuano
operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio
e intermediazione di rifiuti urbani e speciali pericolosi,
in tal caso la norma si riferisce a tutti i rifiuti
pericolosi, sia speciali che urbani. La circolare ricorda
che alla data del 01.10.2013 il Sistri è scattato tra
gli altri per gli enti o imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo
professionale, «compresi i vettori esteri che effettuano
trasporti di rifiuti all'interno del territorio nazionale o
trasporti transfrontalieri in partenza dal territorio»
nazionale.
Con riferimento alle attività di trasporto dei
rifiuti, la locuzione «enti o imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo
professionale», contenuta al comma 2 dell'articolo 11 del dl
n. 101/2013, deve intendersi riferita, spiega il Minambiente,
agli enti e imprese che (raccolgono o) trasportano rifiuti
speciali pericolosi prodotti da terzi. Pertanto, il
trasporto in conto proprio è soggetto ad altra decorrenza. I
vettori stranieri che, a titolo professionale, effettuano
trasporti esclusivamente all'interno del territorio
nazionale, sono soggetti all'obbligo di iscrizione al
Sistri, e lo stesso vale per il trasporto transfrontaliero
in partenza dal territorio nazionale e verso stati esteri.
Mentre per i vettori stranieri che effettuano trasporti
transfrontalieri dall'estero con destinazione nel territorio
nazionale, o con solo attraversamento del territorio
nazionale, valgono le disposizioni sulla tracciabilità
previste dal Regolamento comunitario n. 1013/2006.
Dalla
data del 03.03.2014 è invece previsto l'avvio
dell'operatività del Sistri per le seguenti categorie: i
produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi; gli enti
e le imprese che trasportano i rifiuti da loro stessi
prodotti, iscritti all'Albo nazionale dei gestori ambientali
nonché i soggetti che effettuano il trasporto dei propri
rifiuti, iscritti all'Albo nazionale dei gestori ambientali
in categoria 5; i Comuni e le imprese di trasporto di
rifiuti urbani del territorio della Regione Campania.
Tra le
altre specificazioni della circolare, le regole ad hoc
valide fino al 03.03.2014, per i produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi che non aderiscono su base
volontaria al Sistri; e la previsione che, nel caso in cui
un'impresa non obbligata, decida di procedere all'adesione
volontaria al Sistri, essa possa in qualunque momento optare
per il ritorno al sistema cartaceo (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella p.a. disabili col posto fisso.
Contratti a tempo indeterminato per le categorie protette.
La legge del 1999 non poneva vincoli
al tipo di contratto da stipulare. Il dl D'Alia cambia tutto.
Le amministrazioni pubbliche debbono assumere i lavoratori
appartenenti alle categorie protette solo mediante contratti
a tempo indeterminato.
L'articolo 7, comma 6, del dl 101/2013, come modificato
dalla legge di conversione 125/2013 (pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 255 del 30.10.2013) introduce
un'innovazione nel sistema di assunzione dei disabili di cui
alla legge 68/1999, coerente con la stretta alle assunzioni
«flessibili» contenuta nel decreto sulla pubblica
amministrazione.
Il citato articolo 7, comma 6, stabilisce che le
amministrazioni pubbliche debbono rideterminare il numero
delle assunzioni obbligatorie delle categorie protette,
applicando i criteri previsti dalla legge 68/1999 sulle
dotazioni organiche rideterminate a seguito all'attuazione
della normativa vigente, in particolare, dunque, tenendo
conto degli effetti della spending review.
Sulla base del nuovo computo degli obblighi di assunzione
obbligatoria, le amministrazioni dovranno assumere un numero
di lavoratori corrispondente alla differenza tra il numero
delle scoperture accertato rideterminando le dotazioni
organiche e il numero dei lavoratori già presenti.
L'innovazione consiste nel fatto che il testo novellato
dell'articolo 7, comma 6, citato dispone espressamente che
«ciascuna amministrazione è obbligata ad assumere a tempo
indeterminato».
L'intento, dunque, non è solo indurre le amministrazioni
pubbliche a rispettare gli obblighi posti dalla legge
68/1999, ma di considerare esclusivamente l'assunzione a
tempo indeterminato come strumento per adempiere.
È una novità di non poco conto. La legge 68/1999 non pone
vincoli alla tipologia di contratti da stipulare. Di certo,
tuttavia, se da un lato la legge 125/2013, convertendo il
decreto del ministro Gianpiero D'Alia conferma e rafforza il
principio secondo il quale il rapporto di lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche deve essere
regolato in via principale e predominante da contratti di
lavoro a tempo indeterminato, sembra una conseguenza
inevitabile che l'adempimento agli obblighi della legge
68/1999 avvenga per l'appunto mediante assunzioni a tempo
indeterminato. Così da evitare la creazione di sacche di
precariato proprio tra soggetti colpiti da altri svantaggi.
Si spiega meglio, dunque, il penultimo periodo sempre del
citato articolo 7, comma 6, il quale chiarisce che le
disposizioni ivi contenute derogano «ai divieti di nuove
assunzioni previsti dalla legislazione vigente, anche nel
caso in cui l'amministrazione interessata sia in situazione
di soprannumerarietà». Disposizione, questa, che sembra
consentire anche alle province, nonostante il divieto di
assumere a tempo indeterminato e di stabilizzare, di
regolare le proprie posizioni ai fini del rispetto della
legge 68/1999 mediante contratti a tempo indeterminato.
Il penultimo periodo dell'articolo 7, comma 6, si cura della
situazione dei lavoratori appartenenti alle categorie
protette assunti, in passato, a tempo determinato. Nei loro
confronti, stabilisce la norma, «si applica l'articolo 5,
commi 4-quater, 4-sexies del decreto legislativo 06.09.2001,
n. 368, nei limiti della quota d'obbligo». In sostanza,
quindi i lavoratori disabili assunti con contratti a tempo
determinato che abbiano prestato servizio per oltre 6 mesi,
acquisiranno il diritto di precedenza per assunzioni a tempo
indeterminato, effettuate dal datore di lavoro entro i
successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già
espletate (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
TRIBUTI: Rifiuti, tornano i vecchi tributi.
Per il 2013 resuscita non solo la Tarsu, ma anche la Tia.
L'opzione è consentita a tutti i
comuni. Per decidere c'è tempo fino al 30 novembre.
Resuscitano i vecchi regimi di prelievo sul servizio di
smaltimento rifiuti. Con una mossa azzardata effettuata
quasi alla fine dell'anno in corso il legislatore, in deroga
alla disciplina Tares, fa rivivere in modo confuso i tributi
sui rifiuti che erano stati abrogati. Le amministrazioni
locali, infatti, possono applicare Tarsu, Tia1 e Tia2 anche
per il 2013 e determinare i costi del servizio e le tariffe
in base ai criteri previsti e utilizzati nel 2012, fermo
restando che va versata la maggiorazione allo stato.
Possono anche derogare per la Tarsu all'obbligo di copertura
integrale dei costi del servizio, che invece è già imposto
per Tia1 e Tia2. Lo prevede l'articolo 5, comma 4-quater,
del dl 102/2013 convertito nella legge 124/2013.
Questa scelta legislativa ha colto di sorpresa anche chi
durante l'anno ha sempre auspicato una proroga al 2014 della
Tares, per le difficoltà tecniche legate alla sua
applicazione e, soprattutto, per la complessità dei criteri
di determinazione delle tariffe. Quindi, può essere data una
risposta positiva ai comuni che in questi ultimi giorni si
sono posti il problema se il ritorno ai vecchi balzelli è
consentito a tutti o solo a quelli che nel 2012 sono stati
in regime di Tarsu. L'incertezza della formulazione
letterale della norma di legge ha creato dei dubbi
interpretativi.
Tarsu, Tia1 e Tia2. In realtà, i comuni hanno facoltà di
applicare non solo la Tarsu per l'anno in corso, come si
evince in maniera più chiara dal testo dell'articolo 5, ma
anche Tia1 e Tia2. Entro il termine per l'approvazione del
bilancio di previsione (30 novembre) è consentito fare
questa scelta. Fermo restando, però, che i contribuenti sono
tenuti a pagare la maggiorazione allo stato. Com'è noto,
l'articolo 10 del dl 35/2013 ha stabilito che la
maggiorazione va pagata contestualmente all'ultima rata del
tributo, nella misura fissa di 30 centesimi al metro
quadrato, e viene incassata dallo stato. A prescindere dalle
opzioni di cui si può avvalere l'amministrazione comunale,
oltre al tributo sui rifiuti i contribuenti sono tenuti a
sborsare un'ulteriore somma a titolo di maggiorazione per i
servizi indivisibili, rapportata alle dimensioni
dell'immobile posseduto o occupato.
L'articolo 5 recita che in deroga a quanto stabilito
dall'articolo 14, comma 46, del dl 201/2011, convertito
nella legge 214/2011, il comune può determinare i costi del
servizio e le relative tariffe sulla base dei criteri
previsti e applicati nel 2012. È evidente che la norma fa
ritornare in vita le vecchie discipline abrogate, derogando
per il 2013 a quanto previsto dall'articolo 14 del dl «salva
Italia», che ha istituito la Tares. In effetti, quest'ultima
disposizione aveva abrogato tutti i tributi sui rifiuti
vigenti, compresa l'addizionale per l'integrazione dei
bilanci degli enti comunali di assistenza (ex Eca). Non ha
invece subìto modifiche il tributo per l'esercizio delle
funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente,
dovuto nella percentuale deliberata dalla provincia
sull'importo della tassa, esclusa la maggiorazione.
Peraltro, che sia possibile il ritorno alla gestione di
Tarsu e Tia trova conferma nell'ulteriore previsione
contenuta nell'ultimo periodo del comma 4-quater, nella
parte in cui viene specificato che qualora il comune scelga
di applicare la Tarsu, è consentito raggiungere lo stesso
livello di copertura dei costi del servizio dell'anno
precedente (per evitare eccessivi aumenti delle tariffe in
un momento di difficoltà economiche), facendo ricadere il
peso delle mancate entrate sull'intera platea dei
contribuenti.
Pertanto, qualora il gettito non copra tutte
le spese, gli enti possono fare ricorso a risorse diverse
dai proventi della Tarsu, derivanti dalla fiscalità
generale. Questa regola, però, vale solo per la Tarsu. Per
la tariffa «Ronchi» e per quella «puntuale», la quale ha per
espressa previsione di legge natura corrispettiva,
disciplinate rispettivamente dai decreti legislativi 22/1997
e 152/2006, l'obbligo della copertura integrale dei costi
non può essere aggirato (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
ENTI LOCALI:
Mini-enti, solo convenzioni doc.
Obiettivi: meno spesa, più efficacia ed efficienza nei
servizi. Decreto Viminale con le
indicazioni per la gestione associata delle funzioni
fondamentali.
Contenere la spesa corrente e raggiungere livelli più
elevati nei servizi. Sono questi i due obiettivi che i
piccoli comuni che decideranno di convenzionarsi per
esercitare in forma associata le proprie funzioni
fondamentali dovranno centrare entro il 2015. Per chi
risulterà fuori linea scatterà l'obbligo di sciogliere la
convezione e di aderire ad un'unione.
Lo prevede il decreto del ministero dell'interno 11.09.2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero
251 del 25.10.2013.
Il provvedimento rappresenta l'ultimo tassello della
complessa disciplina che impone ai mini-enti (tutti quelli
che, in base all'ultimo censimento, risultano avere meno di
5 mila abitanti, ovvero di 3 mila se montani) di associarsi
per erogare i servizi che rientrano nel proprio «core
business».
L'accelerazione del Viminale va in direzione contraria
rispetto alle richieste dei sindaci, che nel corso
dell'Assemblea Anci svoltasi la settimana scorsa a Firenze
avevano chiesto a gran voce al governo una proroga del
termine per adempiere (attualmente fissato al 31.12.2013) o almeno una sua «diluizione» (in base alla disciplina
vigente entro fine anno vanno associate tutte le nove
funzioni fondamentali individuate dall'art, 19 del dl
95/2013).
Il fatto che il decreto, atteso da tempo, sia arrivato al
capolinea sembra mostrare, invece, la volontà dell'esecutivo
di non fare sconti.
I comuni interessati possono scegliere fra due modelli
organizzativi: da un lato, l'unione (ordinaria o, per quelli
con meno di 1.000 abitanti, speciale) e la convenzione.
Quest'ultima deve avere durata almeno triennale e garantire
il conseguimento di significativi livelli di efficienza ed
efficacia.
In base a quanto stabilito dal decreto, l'efficienza sarà
misurata in base ai dati contabili di bilancio relativi alla
spesa corrente: quest'ultima, alla fine del triennio (ovvero
nel 2015) dovrà essersi ridotta di almeno il 5% rispetto ai
livelli precedenti alla gestione associata. La lettera della
norma parla di «risparmio complessivo» degli enti
convenzionati, ma l'allegato B richiede una riduzione in
capo a ogni singolo comune. Per evitare di penalizzare gli
enti capofila, dal computo vengono escluse quote di spesa
pari alle entrate per rimborsi provenienti da altri comuni
convenzionati. Sono altresì da escludere le spese finanziate
da contributi e quelle riferite a servizi in precedenza non
attivati.
Quanto all'efficacia, occorrerà dimostrare di aver raggiunto
un migliore livello di servizi in almeno tre aree funzionali
fra quelle indicate (rifiuti, edilizia scolastica, polizia
locale, tributi, servizi sociali, lavori pubblici, asili
nido e mense): a tal fine, è stata predisposta un lista di
indicatori che dovranno migliorare entro la fine del
triennio (ad esempio, per i rifiuti rileva la percentuali di
raccolta differenziata, per i nidi il rapporto fra domande
soddisfatte e domande presentate ecc.).
Saranno i singoli enti a dover attestare il raggiungimento
dei target previsti, mediante dichiarazione sottoscritta dal
segretario e del responsabile dei servizi finanziari e
vistata dal sindaco.
Le attestazioni dovranno perfezionarsi entro 30 giorni dalla
scadenza del termine per l'approvazione del rendiconto 2015,
ovvero entro il 31.05.2016 (articolo ItaliaOggi
dell'01.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Niente Sistri per il trasporto dei rifiuti in conto proprio.
Ambiente. Diffuse le nuove istruzioni del ministero.
Confermata
l'esclusione dall'applicazione del Sistri, dal 1° ottobre,
per chi trasporta rifiuti in conto proprio.
Con la
circolare 31.10.2013 n. 1,
pubblicata ieri sera, il ministero dell'Ambiente ha fornito
indicazioni in merito a obblighi, procedure ed esenzioni del
sistema di tracciabilità dei rifiuti a seguito della
conversione in legge del Dl 101/2013 avvenuta il 30 ottobre.
Il documento ministeriale precisa che la norma non contempla
l'obbligo di adesione per i produttori iniziali di rifiuti
non pericolosi; per gli enti e le imprese che effettuano
attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti non
pericolosi; per i raccoglitori e i trasportatori di rifiuti
urbani di regioni diverse dalla Campania, salvo la fase di
sperimentazione per i rifiuti urbani pericolosi.
Inoltre
viene ribadito, come già avvenuto nella nota esplicativa di
fine settembre (che viene sostituita dalla circolare 1) che
l'obbligo di utilizzo del Sistri dal 1° ottobre non riguarda
chi effettua trasporto in conto proprio. Secondo il
ministero, infatti, la locuzione «enti o imprese che
raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a
titolo professionale» contenuta nel comma 2 dell'articolo 11
del Dl 101/2013 riguarda chi raccoglie o trasporta rifiuti
speciali pericolosi prodotti da terzi.
In relazione ai vettori stranieri, il ministero chiarisce
che, se effettuano trasporti esclusivamente all'interno del
territorio nazionale o se il trasporto parte dall'Italia
verso un Paese estero, scatta l'obbligo di iscrizione al
Sistri. Invece, in caso di trasporti transfrontalieri
dall'estero verso l'Italia o semplicemente attraversando il
territorio nazionale, valgono le disposizioni prevista dal
regolamento comunitario 1013/2006.
La circolare contiene anche la definizione di nuovi
produttori che trattano o producono rifiuti pericolosi. «Si
tratta dei soggetti che sottopongono i rifiuti pericolosi ad
attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti
(eventualmente, anche non pericolosi) diversi da quelli
trattati, per natura o composizione, ovvero che sottopongono
i rifiuti non pericolosi ad attività di trattamento ed
ottengono nuovi rifiuti pericolosi; tali soggetti, nelle
more delle modifiche delle procedure informatiche, sono
tenuti ad iscriversi sia nella categoria gestori che in
quella produttori».
Il paragrafo 4 della circolare precisa invece le modalità di
coordinamento tra iscritti e non al sistema di tracciabilità
fino al 03.03.2014. In particolare, viene sottolineato che
il gestore dell'impianto di recupero o smaltimento è tenuto
a stampare e trasmettere al produttore dei rifiuti stessi la
copia della «scheda Sistri - area movimentazione» completa
per attestare l'assolvimento dell'obbligo.
Infine sul fronte delle sanzioni, per dieci mesi non
scatteranno quelle relative agli adempimenti del sistema di
tracciabilità ma continueranno ad applicarsi adempimenti e
sanzioni previsti dagli articoli 188, 189, 190, 193 del Dlgs
152/2006 nella formulazione vigente prima delle modifiche
apportate dal Dlgs 205/2010 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dl p.a. a rischio boomerang.
Le norme antiprecari potrebbero produrne altri.
Gli enti potranno assumere a termine i vincitori
di concorsi a tempo indeterminato.
Il decreto antiprecariato rischia di rivelarsi un boomerang.
La legge di conversione del dl 101/2013, che ha visto la
luce dopo un travagliato percorso nei giorni scorsi, ha
introdotto una disposizione che, nell'ottica della lotta al
precariato può considerarsi quanto meno imprudente.
Si tratta della lettera a-bis), introdotta, per effetto del
testo definitivo dell'articolo 4, comma 1, che a sua volta
novella l'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, con il
seguente periodo: «Per prevenire fenomeni di precariato le
amministrazioni pubbliche di cui al presente decreto, nel
rispetto dell'articolo 36 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sottoscrivono contratti a tempo determinato
con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie
vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È
consentita l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, ultimo
periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma
restando la salvaguardia della posizione in graduatoria dei
vincitori e degli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato».
Lo scopo è di indurre le amministrazioni pubbliche a non
attivare concorsi per assunzioni a tempo determinato, ma,
invece, di sottoscrivere contratti a tempo determinato con
coloro che abbiano vinto o siano risultati idonei in esito a
concorsi per assunzioni a tempo indeterminato.
Questo, oltre all'irrigidimento delle condizioni e
presupposti alla base dei contratti a termine previsto dal
dl 101/2013, si ritiene possa contribuire ad evitare la
creazione di nuovo precariato. Infatti, i contratti a
termine dovrebbero essere prioritariamente sottoscritti con
chi può legittimamente ambire ad un'assunzione a tempo
determinato e, dunque, non potrebbe considerarsi «precario»
nel senso deteriore di chi lavora con rapporti flessibili
con la p.a., senza possibilità di ottenere la trasformazione
del rapporto di lavoro in tempo indeterminato, in assenza di
norme speciali qual è, in effetti, l'articolo 4 del dl
101/2013.
Tuttavia, il legislatore spesso, come in questo caso, non fa
bene i conti con la prassi o le astuzie delle
amministrazioni pubbliche.
La norma, per come è formulata, è perfetta per eludere,
almeno nel medio tempo, esattamente le restrizioni
introdotte dal dl 101/2013 all'abuso di contratti a tempo
determinato. Per acquisire prestazioni lavorative a termine
occorre che vi siano, e siamo dimostrabili, esigenze di
carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale; in
assenza di tali presupposti, i contratti sono nulli e
scattano responsabilità erariali e dirigenziali per i
dirigenti che abbiano violato le previsioni dell'articolo 36
del dlgs 165/2001.
Invece, per assumere a tempo indeterminato, non occorre
alcuna motivazione, ma solo (si fa per dire) rispettare i
limiti finanziari ed al turnover, posti dalle norme.
Stando così le cose, allora, potrebbe risultare semplice
aggirare le norme ed acquisire prestazioni di lavoro a
termine, non soggette a limiti del turnover, ma solo al
contenimento della spesa entro il limite del 50% di quella
sostenuta nel 2009, per altro non rigidamente operante per
regioni ed enti locali, invece di contratti a tempo
indeterminato, utilizzando senza limiti l'espediente di
bandire concorsi per lavori a tempo indeterminato e
stipulando, invece, contratti a termine.
Nessuno potrebbe eccepire alcuna violazione ai limiti e
vincoli previsti dall'articolo 36 al ricorso al lavoro a
termine. E, tuttavia, una simile prassi potrebbe sortire
comunque l'effetto di costruire una nuova tipologia di
precari nel pubblico impiego: lavoratori che hanno acquisito
il diritto a un'assunzione a tempo indeterminato, ma che
potrebbero vedersi per lungo tempo impiegati solo a termine.
Il tempo di impiego è la variabile che il legislatore non ha
preso in considerazione. La nuova fattispecie introdotta
potrebbe indurre a considerare applicabile per queste
particolari assunzioni i principi previsti dalle norme del
dlgs 368/2001 in tema di trasformazione del rapporto di
lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, nel caso
di superamento del limite massimo dei 36 mesi consentito
dalla legge o dell'ulteriore termine previsto da accordi
collettivi, qualora vi sia un rinnovo concordato tra datore
e lavoratore.
Tali disposizioni, ai sensi dell'articolo 36, comma 5, del
dlgs 165/2001, non posso operare nell'ambito del rapporto di
lavoro pubblico. Tuttavia, qualora un vincitore di un
concorso a tempo indeterminato, assunto a termine, si
vedesse reiterare l'assunzione a tempo determinato per
periodi prolungati potrebbe pretendere l'applicazione della
«tutela reale» prevista dal dlgs 368/2001, per evitare che
la sua assunzione a tempo determinato risulti solo un
espediente.
La legge di conversione del dl 101/2013 meriterebbe
un'immediata integrazione e modifica, per disciplinare
meglio il vuoto operativo che ha creato (articolo
ItaliaOggi del 31.10.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa, assunzioni con vincoli. Il ministro D'Alia: proroga solo per chi sarà coinvolto dai
concorsi. Decreto precari. L'amministrazione deve tener
conto dei limiti al turn-over e alla spesa di personale.
Con
l'approvazione definitiva ottenuta martedì al Senato dal
decreto sul pubblico impiego (Dl 101/2013), pubblicato ieri
sulla «Gazzetta Ufficiale», si ampliano gli strumenti di
gestione del personale precario e si aprono nuove
possibilità di assunzione. Ogni amministrazione, però, per
l'utilizzo delle nuove regole deve tener conto dei vincoli
alle assunzioni e alla spesa di personale, che non vengono
derogate dal decreto e anzi sono in via di rafforzamento con
il disegno di legge di stabilità ora all'esame di Palazzo
Madama.
Lo stesso ministro della Pubblica amministrazione
Giampiero D'Alia, che oggi terrà a Palazzo Vidoni una
conferenza stampa per illustrare effetti e funzionamento
delle nuove regole, ha chiarito ieri che non tutti gli
80mila precari in scadenza (su 122mila che ne conta il
pubblico impiego, scuola esclusa) potranno salire sulle
scialuppe previste dal decreto appena convertito in legge:
«Quelli interessati dalle nuove procedure saranno prorogati
–ha precisato il ministro in una nota– mentre per gli
altri i contratti scadranno secondo il singolo rapporto
contrattuale, perché non ci possono essere ulteriori
proroghe».
Lo strumento principe per gli "interessati" è la nuova
stagione triennale di concorsi, dal 2014 al 2016, con una
riserva al 50% per i precari che abbiano totalizzato almeno
tre anni di contratti negli ultimi cinque; per accompagnare
la struttura del personale verso la stabilizzazione, il
provvedimento permette di prorogare i contratti a termine in
corso e la validità delle graduatorie dei concorsi già
effettuati. Nel tentativo di frenare il diffondersi di nuovo
precariato, infine, viene rafforzato il principio in base al
quale le assunzioni flessibili possono essere effettuate
solo per soddisfare «esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale» (con una modifica all'articolo 36,
comma 2, del Dlgs 165/2001, che finora parlava di «esigenze
temporanee ed eccezionali» e non ha funzionato troppo come
argine).
La strategia, evidente, è quella di coordinare due esigenze
contrapposte: la volontà di non lasciare per strada i
lavoratori che hanno passato anni negli uffici pubblici
senza posto fisso, e la tutela di chi ha vinto un concorso
pubblico ma non ha mai ottenuto un posto di lavoro, e teme
di vedersi passare davanti uno "stabilizzato". Nasce da qui
la regola del 50%, che in pratica impone di bandire concorsi
per un numero di posti doppio rispetto a quello dei precari
che si intendono stabilizzare: un principio, però, che in
ogni amministrazione deve fare i conti con i vincoli alle
assunzioni e alla spesa di personale.
La maggioranza dei 122mila precari (scuola esclusa) oggi
impiegati nella pubblica amministrazione si concentra negli
enti territoriali: nel caso dei Comuni, la legge di
stabilità conferma il tetto al turn-over, che permette di
dedicare a nuove assunzioni il 40% dei risparmi ottenuti con
le cessazioni dell'anno precedente. Non solo: negli enti
(soprattutto del Sud) in cui la spesa di personale di Comune
e società controllate supera il 50% delle uscite correnti,
qualsiasi assunzione è bloccata, e anche chi si attesta in
prossimità del limite non può superarlo in virtù dei nuovi
bandi. Il blocco totale delle assunzioni riguarda anche gli
enti che non rispettano il Patto di stabilità.
Per le Regioni la regola chiave resta l'obbligo di riduzione
delle spese di personale rispetto all'anno precedente
(articolo 1, comma 557, della legge 296/2006), ma vincoli
decisamente più stringenti sono previsti nelle
amministrazioni impegnate nei piani di rientro dai deficit
sanitari. L'insieme di queste regole, come accennato,
colpisce soprattutto al Sud. Giusto ieri la Uil Sicilia, per
esempio, ha lanciato l'allarme su 18.500 precari che in
Regione rischiano di uscire definitivamente dal comparto
pubblico: a meno che intervenga l'ennesima proroga (articolo
Il Sole 24 Ore del 31.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti urbani pericolosi nel Sistri da giugno 2014.
Ambiente. Un provvedimento ministeriale fisserà le regole
della sperimentazione.
Le sanzioni
previste per il Sistri dal "Codice ambientale" scatteranno
dal 01.08.2014 e non più dal prossimo 2 novembre e dal 04.03.2014 (rispettivamente per i gestori e per i
produttori).
È questa la novità di più immediato impatto
operativo per le imprese obbligate al Sistri ed è contenuta
nell'articolo 11 del Dl 101/2013 convertito definitivamente
ieri dal Senato. L'altra novità di rilievo risiede nella
sperimentazione per i rifiuti urbani pericolosi che inizierà
il 30.06.2014.
Per quanto modificata, però, la struttura dell'articolo 11
restituisce un quadro normativo che non tiene conto delle
criticità incontrate dalle imprese in questo primo mese di
operatività (dal blocco dei software di aggiornamento dei
dispositivi, alla difficoltà di allineamento dei dati
anagrafici).
Dal 01.10.2013 sono obbligati al Sistri enti o imprese
che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a
titolo professionale o che recuperano e smaltiscono,
commercializzano e intermediano rifiuti speciali pericolosi,
inclusi i nuovi produttori. Sono compresi i vettori esteri
che operano in Italia e dall'Italia verso l'estero. Dal 03.03.2014 partiranno i produttori iniziali di rifiuti
pericolosi nonché, per la regione Campania, i Comuni e le
imprese di trasporto dei rifiuti urbani. Terminalisti
ferroviari e marittimi e raccomandatari marittimi in caso di
trasporto intermodale tornano fra gli obbligati. Un decreto
disciplinerà le relative procedure. Nessuna semplificazione,
dunque, anzi è previsto il rientro di categorie escluse.
Non alimenta la certezza per le imprese il fatto che il
nuovo articolo 11 si pone in regime di discontinuità
rispetto alla circolare del 30.09.2013 con la quale
il ministero dell'Ambiente da un lato aveva escluso
l'obbligo di iscrizione per il trasporto di rifiuti
pericolosi da sé stessi prodotti (cosiddetto conto proprio)
e dall'altro includeva le operazioni di deposito temporaneo
e stoccaggio dei propri rifiuti effettuato all'interno del
luogo di produzione. Entro due mesi, un decreto del ministro
dell'Ambiente disciplinerà la sperimentazione per applicare
il Sistri a enti o imprese che raccolgono o trasportano
rifiuti urbani pericolosi a titolo professionale (compresi i
vettori esteri in Italia e dall'Italia) nonché per gli altri
gestori dall'atto del conferimento in centri di raccolta o
stoccaggio in poi. La sperimentazione decorrerà dal 30.06.2014.
Le sanzioni Sistri di cui agli articoli 260-bis e 260-ter
del Dlgs 152/2006, a prescindere dalla data di partenza
dell'operatività del sistema, si applicheranno per tutti dal
01.08.2014. Una lunga "moratoria" sulle sanzioni che
dimostra come il sistema non stia funzionando a dovere. In
questi dieci mesi gli obbligati al Sistri continueranno a
compilare e conservare registro e formulario. Inoltre, entro
il 30.04.2014 dovranno inviare il Mud. Sono state
reintrodotte le sanzioni per i registri e i formulari.
Il regime del "doppio binario" (Sistri + registri e
formulari) è molto oneroso per le imprese poiché dovranno
gestire tre documenti cartacei (scheda Sistri area
movimentazione, formulario e registro) oltre all'apparato
informatico. La nuova norma ridisegna anche gli articoli 190
e 193 del Dlgs 152/2006 e prevede l'esclusione dall'obbligo
di registro e formulario per enti e imprese obbligati o
volontariamente aderenti al Sistri. Sfuggiranno al registro
le attività di raccolta e trasporto di propri rifiuti
speciali non pericolosi effettuate dagli enti e imprese
produttori iniziali (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.10.2013). |
CONDOMINIO:
Il riscaldamento non si taglia. Nessun blocco
dall'amministratore contro il condominio moroso.
Giustizia. Per il tribunale di Milano
l'interruzione del servizio lede il diritto costituzionale
alla salute.
Il servizio di
riscaldamento non si tocca anche se il condomino è moroso:
lo ha stabilito il Tribunale di Milano nel procedimento
(ruolo generale 72656/13, sezione XIII civile) promosso in
via d'urgenza da un condominio che, sul presupposto
dell'esistenza di una sua morosità nel pagamento delle quote
dovute, si era visto sospendere l'erogazione del
riscaldamento da parte di altro condominio tenuto per
contratto a fornirgliela.
Tra le due parti era sorta contestazione circa l'ammontare
del debito dell'una verso l'altra proprio in relazione al
riscaldamento erogato e così all'amministratore del
condominio erogante non era parso vero di dare esecuzione al
nuovo disposto dell'articolo 63, terzo comma, delle
disposizioni attuative del Codice civile che lo autorizza,
pur in difetto di qualsivoglia autorizzazione contenuta nel
regolamento (invece richiesta nel vecchio testo pre-riforma)
a sospendere il condominio moroso dalla fruizione dei
servizi suscettibili di godimento separato e di quello del
riscaldamento. Detto e fatto e un elevato numero di famiglie
si è trovata all'improvviso al freddo, senza alcun preavviso
e/o avvertimento.
Il ricorso al giudice è stato fulmineo proprio per ottenere
la ripresa del servizio e altrettanto rapida è stata la
decisione del giudice.
«La privazione di una fornitura essenziale per la vita,
quale il riscaldamento in periodo invernale, è suscettibile
di ledere diritti fondamentali delle persone, di rilevanza
costituzionale, quale il diritto alla salute (articolo 32
Costituzione)», argomenta il giudice. Comunque, «il diritto
che con la sospensione del servizio si intende tutelare è
puramente economico e sempre riparabile». Di qui, ricorrendo
i presupposti di pericolo di danno grave ed irreparabile
alla salute dei condomini, l'ordine impartito
all'amministratore di provvedere subito a garantire
l'erogazione del servizio di riscaldamento ai presunti
morosi.
È vero che la legge consente all'amministratore, nel
caso di morosità del condomino che si protrae per un
semestre, di sospendergli l'erogazione di quei servizi che
possono essere da lui goduti separatamente, fermo comunque
il diritto del condominio di procedere per il recupero della
morosità maturata e che eventualmente andrà a maturare.
Altrettanto vero è, però, che il terzo comma dell'articolo
63 delle disposizione attuative del Codice civile va
applicato con estrema prudenza da parte dell'amministratore
e in situazioni talmente gravi da non consentirgli diversa
soluzione, proprio per il rispetto dovuto verso coloro che
invece adempiono con regolarità i propri obblighi pecuniari
verso il condominio.
Rimane dunque preferibile che il regolamento, o in ultima
analisi l'assemblea, continui a indicare le modalità ed i
casi in presenza dei quali l'amministratore può avvalersi
del rimedio in esame, ad esempio individuando una soglia
minima di mora in presenza della quale scatta la sospensione
dal servizio. Nel silenzio, è chiaro però che il nuovo
potere discrezionale conferito all'amministratore dal nuovo
terzo comma dell'articolo 63 deve essere da lui dosato con
la diligenza del buon padre di famiglia, rimanendo comunque
salvo il sindacato dell'autorità giudiziaria sul suo operato
e dunque sulla sua personale responsabilità.
Resta poi da stabilire, nel silenzio della legge, da quando
decorre il semestre scaduto il quale si possa procedere alla
sospensione della fruizione dei servizi comuni (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2013). |
APPALTI:
L'Antitrust alle appaltanti: segnalate le violazioni.
L'Antitrust lancia un vademecum sui fenomeni
anticoncorrenziali negli appalti e chiede alle stazioni
appaltanti di segnalarli; una volta accertata la violazione
delle regole antitrust la stazione appaltante potrà ottenere
il risarcimento dei danni arrecati dal concorrente; offerte
di comodo, boicottaggi delle gare, associazioni temporanee
«sovrabbondanti» fra i fenomeni di maggiore indice
anticoncorrenziale.
È quanto si desume nel vademecum
dell'Antitrust (deliberazione 18.09.2013) che
segnala alle stazioni appaltanti alcune criticità.
L'Antitrust, lambendo le competenze dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, esemplifica -a uso delle
amministrazioni- alcuni indici rivelatori di fenomeni
discorsivi della concorrenza: pochi concorrenti o
concorrenti caratterizzati da analoga efficienza e
dimensione; prodotti omogenei; perdurante partecipazione
alle gare delle stesse imprese; appalto ripartito in più
lotti dal valore economico simile.
Nello specifico, si
sottolinea come il boicottaggio della gara venga individuato
come sistema per prolungare il contratto con il fornitore
abituale o per far ripartire pro quota il lavoro o la
fornitura tra tutte le imprese interessate al contratto e si
sostanzia in:
1) nessuna offerta presentata;
2)
presentazione di un'unica offerta o di un numero di offerte
comunque insufficiente per procedere all'assegnazione
dell'appalto (quando la stazione appaltante stabilisce un
numero minimo per la regolarità della gara);
3)
presentazione di offerte tutte caratterizzate dal medesimo
importo (soprattutto quando le procedure di gara fissate
dalla stazione appaltante prevedono in queste circostanze
l'annullamento della gara o la ripartizione dell'appalto pro
quota).
Vi è poi il fenomeno delle offerte di comodo (o «di
cortesia» o «fasulle»), vera e propria fattispecie di
turbativa d'asta. Anche i subappalti e le Associazioni
temporanee di imprese (Ati) sono visti dall'Antitrust come
strumenti che, in un uso distorto, favoriscono la
spartizione del mercato, o addirittura della singola
commessa. Un indizio di tali fenomeni viene individuato nel
fatto che una impresa si astiene dal partecipare ad una gara
in vista di un successivo subappalto, o opta per la
costituzione di un'Ati (con requisiti spesso sovrabbondanti)
invece di partecipare singolarmente.
Anche nella fase di
aggiudicazione l'Antitrust rileva che l'Ati tra i maggiori
operatori può essere anche il frutto di una strategia
escludente, tesa a impedire a imprese minori di raggiungere
il necessario punteggio qualitativo. Anche dal punto di
vista della rotazione delle offerte e della ripartizione del
mercato si possono individuare cartelli anticoncorrenziali
dal punto di vista non solo del numero di aggiudicazioni ma
anche della somma dei relativi importi affidati ad uno
stesso soggetto.
Nella delibera si chiede quindi alle stazioni appaltanti di
segnalare i fenomeni anomali come esemplificati nel
vademecum; laddove poi si dovesse pervenire all'accertamento
di un'infrazione, la stazione appaltante potrà procedere
alla richiesta degli eventuali danni (conseguenti la pratica
anticoncorrenziale) laddove l'appalto fosse già stato
assegnato (articolo ItaliaOggi del
29.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Urbanizzazione, benefici estesi. L'aliquota ridotta al 10%
si estende alle opere assimilate.
Gli effetti della risoluzione n. 69/E basata sulle
indicazioni della Corte costituzionale.
Cadono i paletti per l'applicazione dell'Iva con l'aliquota
ridotta 10% sulle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria.
L'Agenzia delle entrate, sulla base di un parere
del ministero delle infrastrutture e di una sentenza della
Corte costituzionale, con la
risoluzione
16.10.2013 n. 69/E ha riconosciuto che l'agevolazione non è
circoscritta esclusivamente alle tipologie elencate dalla
legge del 1964, ma si estende alle opere che le leggi
successive dichiarano assimilate «a ogni effetto» a quelle
di urbanizzazione.
A beneficiare del mutato orientamento
dell'amministrazione, nell'occasione, i lavori per la
realizzazione della banda larga, oggetto della risoluzione.
Ma anche i cavedi multiservizi e i cavidotti per il
passaggio delle reti di telecomunicazione, ai quali la
precedente risoluzione n. 41 del 2006 aveva negato l'Iva
ridotta. Al di là dei singoli casi, è comunque importante il
nuovo indirizzo interpretativo, che sovverte il principio
del «numero chiuso» ai fini fiscali della categoria in
esame.
Le disposizioni e le interpretazioni. La voce n.
127-quinquies della tabella A, parte III, allegata al dpr
633/1972 assoggetta all'aliquota del 10%, tra l'altro, le
«opere di urbanizzazione primaria e secondaria elencate
nell'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, integrato
dall'art. 44 della legge 22.10.1971, n. 865».
L'aliquota del 10% è applicabile, oltre che alle cessioni di
dette opere:
- alle forniture di beni finiti destinati alla loro
realizzazione (voce n. 127-sexies)
- alle prestazioni di servizi, dipendenti da contratti
d'appalto, relativi alla loro realizzazione (voce n.
127-septies)
- agli interventi di recupero, escluse le manutenzioni
ordinarie e straordinarie (questa fattispecie, invero, non è
esplicitamente inclusa nella corrispondente voce n.
127-quaterdecies, ma l'agevolazione è confermata dalla
circolare ministeriale n. 1/E del 02.03.1994)
- alle forniture di beni finiti destinati ai suddetti
interventi di recupero (voce n. 127-terdecies).
La questione trattata dalla risoluzione n. 69/2013 riguardava,
ancora una volta, la portata dell'elencazione delle opere di
urbanizzazione. All'Agenzia era stato chiesto di sapere se
l'art. 2, comma 5, del dl n. 112/2008, secondo cui le
infrastrutture destinate all'installazione di reti e
impianti di comunicazione elettronica in fibra ottica sono
assimilate a ogni effetto alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all'art. 16, comma 7, del dpr n. 380/2001,
consentisse di applicare l'aliquota Iva del 10% ai
corrispettivi dell'appalto per la realizzazione delle
suddette infrastrutture.
L'Agenzia ha ritenuto necessario chiedere lumi al ministero
per le infrastrutture in ordine alla portata della locuzione
«a ogni effetto», contenuta nella norma di assimilazione. Il
ministero ha osservato che l'art. 16 dpr 380/2001 (T.u.
edilizia) contiene l'elencazione degli interventi di
urbanizzazione primaria e secondaria, sostanzialmente
riproduttiva degli interventi di cui alla legge n. 847/1964,
cui aggiunge anche i cavedi multiservizi e i cavidotti per
il passaggio di reti di telecomunicazione.
L'art. 86 comma 3, del dlgs n. 259/2003 stabilisce che le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni, di cui
agli artt. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle
opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16,
comma 7, dpr 380/2001. Infine, l'art. 2, comma 5, dl n. 112/2008
reca analoga disposizione per le infrastrutture destinate
all'installazione di reti e impianti di comunicazione
elettronica in fibra ottica.
Venendo allo specifico punto, il ministero ha rilevato che
la Corte costituzionale, nella sentenza 27.07.2005, n.
336, in relazione all'art. 86, comma 3, dlgs 259/2003, ha
chiarito che «la scelta di inserire le infrastrutture di
reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione
primaria esprime un principio fondamentale della
legislazione urbanistica, come tale di competenza dello
stato, al pari dell'analoga scelta legislativa di carattere
generale che ha portato il citato articolo 16, commi 7 e
7-bis, del dpr n. 380/2001, a classificare come opere di
urbanizzazione primaria, tra le altre, le strade
residenziali, gli spazi di sosta e di parcheggio, le
fognature, nonché i cavedi multi servizi e i cavidotti per
il passaggio di reti di telecomunicazioni. Non si tratta,
pertanto, di una norma di dettaglio, ma di una norma che
fissa un principio basilare nella materia del governo del
territorio».
Ne segue, da un lato, che l'elenco delle opere di
urbanizzazione, attualmente, è recato dal dpr 380/2001 (che ha
quindi riunificato l'elencazione della categoria,
incorporando le norme precedenti) e, dall'altro, che il
legislatore, nell'ampliare la categoria delle opere di
urbanizzazione, ha operato una scelta legislativa di
carattere generale, e non di dettaglio, analoga a quella
operata, a suo tempo, nel classificare come opere di
urbanizzazione primaria le strade residenziali, gli spazi di
sosta e di parcheggio ecc., menzionate dalla precedente
normativa. Si deve pertanto ritenere che quando il
legislatore richiami tale testo per introdurre
dell'ordinamento giuridico altre opere da assimilare «ad
ogni effetto» a quelle di urbanizzazione, tale rinvio
riguarda anche le disposizioni in materia di Iva, ancorché
le disposizioni del dpr 633/1972 continuino a fare riferimento
testuale alla legge n. 847.
Per queste ragioni, la risoluzione n. 69/2013 ha dato il via
libera all'aliquota ridotta sui lavori per la banda larga e,
in base al nuovo principio, ha dichiarato superato
l'orientamento restrittivo espresso con la risoluzione n.
41/2006 in relazione ai cavedi e cavidotti per
telecomunicazioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
APPALTI:
Durc, la regolarità non limita le sanzioni previdenziali.
I chiarimenti sul documento di verifica
in una circolare del ministero del lavoro.
Regolarità non fa rima con responsabilità. Il Durc emesso
all'impresa con scoperture contributive in presenza di
crediti nei confronti delle p.a., infatti, certifica una
regolarità che consente alle imprese di continuare a
operare, ma non limita il potere sanzionatorio agli enti di
previdenza e alle casse edili, i quali dunque conservano
integra la possibilità di attivare la procedura di
riscossione coattiva.
Lo afferma il ministero del lavoro nella
circolare 21.10.2013 n. 40/2013.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva si
intende la correttezza nei pagamenti e adempimenti
previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail e
casse edili per le imprese di tale settore) con riferimento
ai tutti gli obblighi previsti dalla normativa vigente
riferiti all'intera situazione aziendale. Il Durc è un
certificato che attesta tale regolarità di un'impresa.
Rispetto al passato, quando erano necessario tre richieste a
cui corrispondevano altrettante certificazioni di regolarità
(una per ciascuno degli enti coinvolti: Inps, Inail e casse
edili), con il Durc le imprese (e i loro consulenti)
effettuano un'unica richiesta e ottengono un unico
certificato.
I requisiti di regolarità contributiva. L'Inps, l'Inail e la
cassa edile sono ciascuno tenuti ad accertare la regolarità
dell'impresa sulla base della rispettiva normativa di
riferimento. Regolarità che deve sussistere alla data
indicata nella richiesta di rilascio del Durc o alla data di
conclusione dell'istruttoria (a seconda dei casi per i quali
è richiesto).
I requisiti generali per la verifica della
regolarità sono indicati nel decreto ministeriale 24.10.2007 rispetto ai quali, ogni ente ha provveduto con proprie
circolari a fornire chiarimenti e informazioni di dettaglio
in relazione alla propria normativa di riferimento. Se
successivamente al rilascio del Durc emergono circostanze
tali da modificare sostanzialmente la situazione di
regolarità già attestata, l'ente deve darne immediata
comunicazione al richiedente (con emissione di un Durc che
annulla e sostituisce il precedente) e, nel caso di appalti
pubblici sempre alla stazione appaltante, assumendo nel
contempo le necessarie iniziative per il recupero di quanto
dovuto.
Il Durc, per esempio, viene richiesto ai fini della verifica
di una dichiarazione sostitutiva (in cui sia stata
autocertificata la regolarità contributiva); in tal caso, la
data che va indicata nella richiesta del Durc deve essere la
medesima della presentazione dell'autocertificazione, in
quanto la regolarità deve sussistere al «momento» in cui
l'azienda ha dichiarato la propria situazione, essendo
irrilevanti eventuali regolarizzazioni successive. Ad
eccezione dell'ipotesi appena vista, in ogni altra richiesta
di Durc qualora manchi la sussistenza dei requisiti di
regolarità contributiva, l'istituto che ha rilevato tale
mancanza (Inps, Inail o cassa edile), prima di attestare
l'irregolarità, è tenuto a invitare l'interessato a
regolarizzare la propria posizione entro un termine di
massimo 15 giorni.
Pec obbligatoria nella richiesta del Durc. La richiesta del Durc avviene su internet all'indirizzo
http://www.sportellounicoprevdenziale.it/ al quale si accede
tramite autenticazione. Dal 2 settembre l'inoltro della
richiesta di Durc è consentito soltanto se il sistema rileva
l'avvenuta registrazione, nell'apposito campo del modulo di
richiesta, di un indirizzo Pec (la Pec può essere della
stazione appaltante/amministrazione procedente, delle Soa e
dell'impresa). Dalla stessa data, sia per le pubbliche
amministrazioni che per le imprese, i Durc saranno
recapitati dall'Inail, dalle casse edili e dall'Inps,
esclusivamente tramite Pec, agli indirizzi indicati dagli
utenti nel modulo telematico di richiesta.
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I crediti certificati salvano l'impresa.
In regola l'impresa con scoperture contributive saldabili
con crediti vantati nei confronti di p.a. In tal caso,
infatti, se i crediti sono certi, liquidi, esigibili e
certificati, l'impresa può ottenere il Durc. L'esistenza di
crediti va dichiarata dall'impresa in ogni appalto o
procedimento; in alternativa, però, l'adempimento può essere
semplificato in un'unica dichiarazione che l'impresa può
fare all'Inps, o all'Inail o alla cassa edile.
Un Durc per «sopravvivere».
In base alle disposizioni del dm 13.03.2013, gli istituti
previdenziali e le casse edili sono tenuti a rilasciare il Durc alle imprese che hanno ottenuto la certificazione di
uno o più crediti nei confronti della pubblica
amministrazione ossia nei confronti di amministrazioni
statali, enti pubblici nazionali, regioni, enti locali ed
enti del Servizio sanitario nazionale (si veda tabella).
Il
meccanismo evidentemente vuole superare quelle problematiche
che non consentivano alle imprese di ottenere il Durc
attestante la regolarità (in quanto debitrici nei confronti
degli istituti di previdenza e/o di casse edili) sebbene
fossero a loro volta creditrici nei confronti delle
pubbliche amministrazioni. Con tale meccanismo, pertanto, si
è voluto consentire a queste imprese di poter utilizzare il
Durc per continuare a operare sul mercato, anche in presenza
di debiti previdenziali e/o assicurativi. I crediti che
consentono di ottenere il Durc devono essere certificati,
secondo l'apposita procedura, e devono essere certi,
liquidi, esigibili per un importo almeno pari agli oneri
contributivi accertati e non ancora versati da parte del
soggetto titolare dei crediti certificati.
La certificazione del credito. Punto di partenza per
l'impresa che intende ottenere il Durc è dunque la
«certificazione» del credito vantato nei confronti di una
p.a. La certificazione avviene secondo una procedura
telematica, su di un'apposita «piattaforma per la
certificazione dei crediti».
L'istanza di certificazione può essere presentata da
chiunque, società, impresa individuale o persona fisica,
vanti un credito non prescritto, certo, liquido ed
esigibile, scaturente da un contratto avente a oggetto
somministrazioni, forniture e appalti nei confronti di una
p.a. Al riguardo si precisa che:
a) il credito è da considerarsi certo quando è determinato
nel suo contenuto dal relativo atto negoziale,
perfezionatosi, nel caso di specie, secondo le forme e le
procedure prescritte dalle vigenti disposizioni contabili.
Ai fini della certificazione, è da ritenersi sussistente il
requisito della certezza solo qualora il credito sia
afferente a una obbligazione giuridicamente perfezionata per
la quale sia stato assunto il relativo impegno di spesa,
registrato sulle scritture contabili ovvero, per gli enti
del Servizio sanitario nazionale, siano state effettuate le
relative registrazioni contabili.
Pertanto, in assenza di
contratto perfezionato o di impegno di spesa, regolarmente
registrato sulle scritture contabili ovvero, per gli enti
del Servizio sanitario nazionale, delle necessarie
registrazioni contabili, gli enti non potranno certificare
il credito, riferibile esclusivamente alla sfera giuridica
del soggetto che ha ordinato la somministrazione, la
fornitura o l'appalto al di fuori delle prescritte procedure giuscontabili;
b) il requisito della liquidità, soddisfatto dalla
quantificazione dell'esatto ammontare del credito, è da
ricondursi agli elementi del titolo giuridico;
c) l'esigibilità, da valutarsi al momento del riscontro da
parte delle amministrazioni, sta a indicare l'assenza di
fattori impeditivi del pagamento del credito, quali
l'eccezione di inadempimento, l'esistenza di un termine o di
una condizione sospensiva.
Fermo restando il vincolo di non prescrizione, non c'è alcun
termine entro il quale è possibile presentare l'istanza di
certificazione di un credito. Non sono in ogni caso
certificabili le somme relative a debiti fuori bilancio
delle amministrazioni.
Saldo zero o positivo tra crediti e debiti. Ai fini del
rilascio del Durc, la scopertura contributiva deve risultare
pienamente «saldabile» con i crediti pubblici i quali, come
detto, devono essere certi, liquidi ed esigibili. In altre
parole, l'importo di credito certificato deve risultare pari
o superiore alle scoperture contributive; se risulta
inferiore il Durc di regolarità non potrà dunque essere
rilasciato.
In secondo luogo, per ottenere il rilascio del Durc, è
necessario che il soggetto intestatario (vale a dire
l'impresa che lo richiede) dichiari la presenza di crediti
certificati nei confronti della p.a., cosa che andrà fatta
evidentemente nei riguardi della p.a. e/o del soggetto
titolare del procedimento amministrativo per il quale serve
il Durc. In particolare, l'interessato deve dichiarare di
vantare crediti nei confronti della p.a. che hanno ottenuto
la certificazione, precisandone gli estremi (data rilascio,
amministrazione, protocollo, codice piattaforma). Per
evitare di ripetere la dichiarazione in ogni procedimento,
l'interessato può rendere un'unica dichiarazione sui crediti
alla cassa edile o ad un istituto previdenziale i quali ne
terranno conto in ogni richiesta di emissione di Durc, anche
se proveniente da terzi (per esempio da una stazione
appaltante).
Un documento diverso dagli altri. Il Durc rilasciato in
presenza di crediti nei confronti della p.a. conterrà i
seguenti elementi:
• dicitura di emissione «ex art. 13-bis, comma 5, dl n.
52/2012»;
• importo dei debiti contributivi/assicurativi, con
indicazione dell'istituto previdenziale e/o della cassa nei
cui confronti sussistono i debiti stessi, nonché il loro
ammontare complessivo disponibile;
• gli estremi della/delle certificazione/i comunicata/e al
momento di richiesta del Durc, con indicazione di ciascun
importo nonché dell'ammontare complessivo disponibile;
• eventuale data del pagamento dei crediti vantati nei
confronti delle pubbliche amministrazioni.
Controllo incrociato. Gli enti previdenziali e le casse
edili verificheranno per mezzo dell'apposita piattaforma
telematica l'esistenza delle certificazioni di credito,
anche perché l'emissione del Durc è possibile fintantoché il
credito è esistente ed efficace a copertura dei debiti e
delle scoperture contributive.
La piattaforma consente la verifica dell'effettiva
disponibilità del credito al momento della richiesta e,
quindi, dell'emissione del Durc, tuttavia non è ancora
pienamente operativa. Nelle more dell'avvio del
procedimento, la verifica andrà fatta sulla base delle
certificazioni rilasciate dalla piattaforma e trasmesse per
Pec o esibite sotto la responsabilità anche penale del
soggetto titolare del credito certificato (cioè l'impresa
richiedente il Durc), agli istituti e/o alle casse edili
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Recupero rifiuti Ue dal 2014.
Al via il 1° gennaio le nuove norme sui rottami di rame.
Le modalità di trattamento nel regolamento
comunitario recepito dal ddl Ambiente.
Immediatamente applicabili dal 01.01.2014 sul
territorio nazionale le nuove norme tecniche comunitarie per
il corretto recupero dei rifiuti costituiti da rottami di
rame.
Dopo l'operatività dei paralleli provvedimenti Ue
sull'end of waste dei rifiuti metallici e di quelli in vetro
(in vigore rispettivamente dal 09.10.2011 e dall'11.06.2013) è infatti in procinto di scattare quella del
nuovo regolamento 715/2013/Ue recante le condizioni per
trasformare i preziosi rifiuti rossicci in materie prime
secondarie (e sancirne, quindi, la cessazione della
qualifica di rifiuti).
Regole comunitarie che plausibilmente debutteranno a fianco
delle prime e necessarie norme nazionali di raccordo tra le
oramai sempre più fitte norme tecniche comunitarie in
materia (quelle sull'end of waste della carta sono in corso
di approvazione) e quelle interne sul regime autorizzatorio
degli impianti.
Il recupero del rame. Il regolamento 715/2013/Ue (Guue 26.07.2013 n. L201) stabilisce le condizioni da soddisfare per
ottenere materie prime secondarie dai rottami di rame,
ossia: qualità dei rifiuti da processare; modalità di
trattamento, standard dei materiali ottenuti; tipologie di
riutilizzi cui indirizzarli. In particolare, a poter essere
processati saranno dal 01.01.2014 (in base al
provvedimento in parola) solo rifiuti contenenti rame o
leghe di rame recuperabile. I rifiuti dovranno venire da
raccolta differenziata, essere puliti e disinquinati.
Le Mps
ottenute dal trattamento dovranno rispondere alle norme
tecniche di settore (con precise limitazioni alla presenza
di materiali estranei) ed essere utilizzate direttamente
nella produzione di sostanze od oggetti in impianti di
fusione, raffinazione o produzione di altri metalli. Ai
responsabili del recupero sarà altresì imposta l'adozione di
un sistema interno di controllo (certificato da un
valutatore ambientale accreditato Ue) nonché la redazione di
una dichiarazione che attesti il rispetto di tutte le citate
condizioni. Dichiarazione che dovrà essere trasmessa ai
destinatari al momento della cessione dei materiali (vero e
proprio momento in cui, in base al regolamento, i rottami di
rame processati usciranno ufficialmente dal regime dei
rifiuti).
Le altre norme Ue, presenti e future. È la direttiva
2008/98/Ce dettare a monte le condizioni generali sul
recupero dei rifiuti, delegando la Commissione Ue
all'adozione di norme tecniche di dettaglio per singole
categorie di rifiuti e riconoscendo al contempo la validità
di quelle dei singoli Stati membri nei limiti della
compatibilità con le prime. Proprio sulla base di tale
delega la Commissione Ue ha già adottato le citate regole
per l'end of waste dei rottami di vetro (regolamento Ue n.
1179/2012) e di quelli di ferro (regolamento 333/2011/Ue).
Sulla scia di tali regolamenti la Commissione Ue ha già
predisposto pedissequo provvedimento per il recupero della
carta, dal settembre 2013 all'esame del Parlamento europeo.
In base allo schema in discussione potranno essere
sottoposti a trattamento di recupero rifiuti (non
pericolosi) di carta oggetto provenienti da raccolta
separata, dai quali si dovrà ottenere un output rispondente
agli standard europei EN 643 destinato al riutilizzo diretto
nei maceri per la fabbricazione di prodotti in carta.
Il raccordo con le norme nazionali. È il ddl ambientale
collegato alla nuova legge di Stabilità predisposto nei
giorni scorsi dal governo (ed insieme a quest'ultimo
sottoposto al varo del Parlamento) a prevedere l'accennato
raccordo tra le nuove norme tecniche di recupero targate Ue
(sia emanate che emanande) e le vigenti norme nazionali,
autorizzatorie e tecniche. Sostanzialmente il disegno di
legge in itinere prevede che il trattamento dei rifiuti
disciplinati dai regolamenti Ue sull'end of waste può essere
condotto alternativamente, in base a due diversi regimi:
sotto il regime ordinario previsto dall'articolo 208 del
dlgs 152/2006; oppure in base al regime semplificato ex
articolo 214 e seguenti dello stesso Codice ambientale.
L'utilizzo di quest'ultimo regime (che permette l'avvio
delle attività di recupero decorsi 90 giorni dalla semplice
comunicazione all'Ente provinciale) sarà però condizionato
alle seguenti prescrizioni: rispetto di tutte le norme
dettate dai relativi regolamenti Ue (con particola
riferimento a qualità e caratteristiche dei rifiuti da
trattare, condizioni di attività, assenza di pericolo per
uomo ed ambiente, destinazione ed utilizzi consentiti delle Mps ottenute); rispetto delle quantità massime di rifiuti
recuperabili stabiliti dai diversi decreti ministeriali
tecnici di riferimento (ossia il dm 05.02.1998 per il
recupero semplificato rifiuti non pericolosi, il dm 161/2002
per i pericolosi, il Dm 269/2005 per i rifiuti da navi, il
dl 172/2008 sulle materie prime secondarie).
Il ddl promette
altresì di occuparsi delle imprese già autorizzate in via
semplificata al recupero di materia da rifiuti contemplati
dai nuovi regolamenti end of waste, imponendo loro di
adeguarsi alle prescrizioni sopra citate entro un congruo
periodo di tempo, ma nelle more del quale potranno comunque
proseguire l'attività
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
APPALTI: La banca dati sugli appalti debutterà solo a gennaio.
GLI STRUMENTI/
Certificato antimafia, Durc e casellario giudiziale saranno
i documenti che l'Autorità dovrà acquisire
Ora che la banca dati delle opere incompiute ha preso il
via, il prossimo appuntamento per imprese e amministrazioni
del settore degli appalti pubblici è il primo gennaio. Data
in cui, se non ci saranno sorprese dell'ultima ora,
diventerà operativa la Banca dati nazionale dei contratti
pubblici, gestita dall'omonima Autorità.
Pensata per snellire il carico di documenti che imprese e
professionisti devono presentare a ogni gara, la Banca dati
sarà obbligatoria non solo per gli appalti di lavori
pubblici, ma anche per quelli di servizi e di forniture, a
partire da una soglia unica di 40mila euro.
Questo strumento, ribattezzato «Avcpass», eliminerà l'onere
di presentare negli appalti all'amministrazione i
certificati che comprovano i requisiti: dal casellario
giudiziale al Durc, dalla regolarità dei versamenti alle
Casse professionali al certificato antimafia.
Tutto sarà gestito attraverso un dialogo diretto tra
Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ed enti
competenti per il singolo certificato.
In questo modo la Banca dati dei contratti -prevista dal
primo decreto legge sulla spending review (il Dl 5/2012)-
dovrebbe garantire, a regime, un risparmio per le imprese di
circa 140 milioni di euro l'anno, tra dematerializzazione e
minori oneri burocratici.
Ma la macchina da mettere in moto è molto complessa. Basti
pensare che ogni anno, secondo i dati forniti dalla stessa
Autorità, vanno in gara oltre 125mila contratti, tra opere
pubbliche, servizi e forniture di beni, per un valore che
nel 2012 ha superato i 95 miliardi di euro. E infatti la
prima partenza avrebbe dovuto, per legge, essere a gennaio
di quest'anno ma è stata fatta slittare per dare modo a
imprese e Pa di abituarsi. Quindi, anche se il Dl sulla
spending review fissa ancora il termine del primo gennaio
2013, in realtà l'Avcpass diventerà l'unica via di comprova
dei requisiti di gara (sempre salvo proroghe) soltanto dal
prossimo primo gennaio, non più a scaglioni ma in modo unico
per tutte le gare sopra i 40mila euro.
Come funzionerà? Per le imprese e i professionisti cambia
poco: continueranno a partecipare alle gare dimostrando i
requisiti morali, tecnici ed economici con
autocertificazioni. Al momento delle verifiche -obbligatorie sui vincitori e su un campione di concorrenti-
sarà la stazione appaltante a collegarsi all'Avcpass per
richiedere il documento di comprova. Al momento saranno
acquisiti in via telematica il Durc e il certificato del
casellario giudiziale. Mentre, in assenza della Banca dati
antimafia del Viminale, sarà l'Authority a farsi carico di
richiedere -in via cartacea- le verifiche sull'antimafia.
La vera scommessa quindi sarà nella tenuta e nei tempi di
risposta di tutto il sistema, che fa dell'Authority l'unico
punto di snodo. «Noi siamo pronti - dichiara il consigliere
dell'Autorità che segue la banca dati, Luciano Berarducci -
ora bisogna vedere quanto anche il mercato vorrà aderire» (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
CONDOMINIO: Delibere dal giudice solo con citazione.
Le conseguenze della riforma.
Per impugnare una delibera assembleare occorre l'atto di
citazione e non più il ricorso.
È uno degli effetti della
riforma del condominio (legge 220/2012) e, in particolare,
delle modifiche all'articolo 1137 del Codice civile.
Lo ha
chiarito il Tribunale di Milano (giudice Giacomo Rota) che,
con il provvedimento del 21.10.2013 nel procedimento
56369/2013, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione della
delibera proposta da un condomino con ricorso anziché con
atto di citazione.
Il ragionamento del giudice milanese si fonda sul
presupposto che nel nuovo testo dell'articolo 1137 del
Codice civile, secondo cui contro le deliberazioni contrarie
alla legge o al regolamento ogni condomino assente,
dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria
chiedendo l'annullamento, è stato espunta la formula «fare
ricorso», sostituita con la più generica frase «adire
l'autorità giudiziaria». Il che significa che il condomino,
per impugnare le delibere dell'assemblea, deve avvalersi
solo dell'atto di citazione, essendo il ricorso un mezzo
eccezionale per radicare un giudizio il cui uso, in quanto
tale, deve essere espressamente indicato dalla legge.
Il nuovo articolo 1137 del Codice civile ha recepito il
principio già dettato dalla Cassazione (sentenza 8491/2011),
che aveva individuato nell'atto di citazione l'unico
strumento di gravame. Va dunque abbandonata la teoria
dell'equipollenza degli strumenti di impugnazione, sostenuta
in precedenza (si veda la sentenza 8440/2011 della
Cassazione), che permetteva l'indistinto utilizzo della
citazione a udienza fissa oppure del ricorso.
Il ricorso non è di per sé idoneo a radicare il giudizio di
impugnazione e nemmeno a determinare l'effettivo
contraddittorio con il condominio convenuto, perché è
sprovvisto sia dell'indicazione dell'udienza fissa alla
quale quest'ultimo dovrà costituirsi, sia degli avvertimenti
previsti dagli articoli 163 e 164 del Codice di procedura
civile.
Né è possibile fare leva sul principio della conservazione
degli atti e del raggiungimento dello scopo, essendo il
ricorso privo della "chiamata in giudizio" perché appunto
manca, al momento della presentazione, l'indicazione
dell'udienza, elemento a cui deve poi provvedere il giudice
investito della controversia.
Nel caso deciso dal tribunale di Milano, il ricorso era
stato tempestivamente depositato presso la cancelleria del
giudice nei termini previsti dalla legge, ma nulla era stato
notificato al condominio entro 30 giorni, così che lo
stesso, nella persona del suo amministratore, aveva già
maturato un legittimo affidamento circa l'acquisita
esecutività della delibera impugnata.
Il giudice milanese recepisce la necessità di rispettare le
esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di natura
condominiale, che non consentono di allungare i termini di
impugnazione e, anzi, impongono una rapida cristallizzazione
delle decisioni assembleari.
Quindi, dopo l'entrata in vigore della legge 220/2012 (il 18
giugno scorso), per introdurre il giudizio di impugnazione
di delibera assembleare occorre l'atto di citazione, che ha
lo scopo di proporre una domanda giudiziale e,
contestualmente, di chiamare in giudizio il convenuto
affinché possa difendersi. Solo così l'amministratore,
presso il cui domicilio va notificato l'atto di
impugnazione, può sapere se la delibera dell'assemblea,
decorsi 30 giorni dal voto o, per gli assenti, da quando
hanno ricevuto il verbale, si può ritenere definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni vincolati: più tempo per i lavori.
Si aggiunge un altro anno per completare gli interventi su
immobili storici o nelle aree protette.
Autorizzazione paesaggistica. Il decreto legge 91/2013 ha
portato a regime la proroga per tutti i nulla osta in caso
di opere già iniziate.
L'autorizzazione paesaggistica per i lavori su aree o
immobili vincolati allunga i tempi. A partire dal 9 ottobre
-data di entrata in vigore della legge di conversione del
Dl 91/2013- le autorizzazioni rilasciate beneficiano di un
anno in più, oltre ai cinque già previsti per completare i
lavori.
L'autorizzazione paesaggistica è disciplinata dall'articolo
146 del decreto legislativo 42/2004, il Codice dei beni
culturali e del paesaggio. Ed è necessaria quando si
vogliono realizzare opere e progetti in aree sottoposte a
tutela a tutela paesaggistica.
La competenza è delle Regioni, le quali, in genere, hanno
delegato l'esercizio della funzione ai Comuni. Questi ultimi
ricevono la domanda di autorizzazione e la rilasciano, ma
solo se la sovrintendenza competente esprime un parere
favorevole sul progetto.
Non sempre per intervenire su un bene tutelato serve
l'autorizzazione paesaggistica. Non è richiesta, per
esempio, per gli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria e di restauro conservativo (l'elenco è
all'articolo 149 del Codice). Per il resto, in base alla
rilevanza delle opere da eseguire, l'autorizzazione può
essere ordinaria o semplificata. Un allegato al Dpr 139 del
09.07.2010, elenca gli interventi di lieve entità per i
quali è sufficiente l'autorizzazione semplificata. La
differenza tra i due tipi di autorizzazione è nel grado di
complessità delle procedure di rilascio e della
documentazione da produrre.
La durata
Il comma 4 dell'articolo 146 stabilisce che l'autorizzazione
è efficace per un periodo di cinque anni; scaduto questo
termine senza aver completato i lavori previsti dal
progetto, per proseguirli occorre ottenere una nuova
autorizzazione.
In un primo tempo il decreto legge "Del fare" (Dl 69/2013),
aveva modificato la norma prevedendo che "qualora i lavori
siano iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si
considera efficace per tutta la durata degli stessi". In
sostanza, il limite dei cinque anni di validità
dell'autorizzazione veniva superato, nel caso di lavori
avviati. Ma questa disposizione ha avuto vita breve ed è
stata soppiantata dal comma 1 dell'articolo 3-quater del Dl
08.08.2013, n. 91 (il cosiddetto decreto cultura): resta
fermo che i lavori devono essere iniziati entro il
quinquennio di validità dell'autorizzazione, ma viene ora
stabilito che la loro conclusione può avvenire fino a un
anno oltre il quinquennio. In sostanza, una volta iniziati i
lavori, la fine può essere prorogata di un anno. Se neanche
questo supplemento di tempo è sufficiente, è necessario
ripetere tutta la procedura per ottenere una nuova
autorizzazione.
In via transitoria, sempre il decreto cultura, prevede che
può essere allungata di tre anni oltre la data di scadenza
quinquennale l'autorizzazione già in corso di validità.
Questa norma viene aggiunta al decreto legge "del Fare", per
cui le autorizzazioni che potranno beneficiare della proroga
triennale dovrebbero essere quelle già rilasciate alla data
dello scorso 21 agosto (giorno in cui è entrata in vigore la
legge di conversione del Dl 69/2013) e non alla data del 9
ottobre scorso (quando è entrata in vigore la legge di
conversione del decreto legge 91/2013). In ogni caso, a
prescindere dalla data di riferimento, si creano, quanto a
durata, due regimi autorizzatori, uno più favorevole
dell'altro (si veda la scheda a fianco).
Un'accelerazione del procedimento di rilascio
dell'autorizzazione è stata impressa dall'articolo 39 del Dl
63/2013. Esso ha ridotto da 90 a 45 i giorni, dal
ricevimento della documentazione, entro i quali la
Sovrintendenza deve, nel rispetto delle previsioni e delle
prescrizioni del piano paesaggistico, dare il proprio
parere, se vuole evitare che alla domanda provveda il
Comune.
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Le caratteristiche della procedura di autorizzazione
paesaggistica per opere su beni o aree vincolate
LAVORI ESENTI
Non necessitano di autorizzazione paesaggistica gli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non
cambiano l'aspetto esteriore degli edifici vincolati; gli
interventi per l'attività agro-silvo-pastorale senza
costruzioni edilizie che alterino il contesto; le opere di
bonifica, antincendio e di conservazione
AUTORIZZAZIONE SEMPLIFICATA
La procedura semplificata è applicabile a 39 tipologie di
interventi. Vi rientrano: realizzazione o modifica di
cancelli, recinzioni,
o muri di contenimento del terreno; allacci alle
infrastrutture a rete; installazione di condizionatori e di
climatizzazione con unità esterna, caldaie, parabole,
antenne, piccoli pannelli solari, termici e fotovoltaici;
posa di piccoli manufatti in legno
per ricovero attrezzi
AUTORIZZAZIONE ORDINARIA
La procedura di autorizzazione paesaggistica segue l'iter
ordinario per la realizzazione di tutti
gli interventi e i lavori su immobili vincolati e in aree
sottoposte
a tutela che non sono
esplicitamente
elencati nella lista di quelli per i quali si può procedere
con l'autorizzazione semplificata. I lavori edilizi
non possono iniziare prima
di avere ottenuto l'autorizzazione
PROCEDURE
L'autorizzazione semplificata prevede, in particolare, un
alleggerimento della documentazione da presentare a corredo
della domanda: l'istanza è accompagnata da una relazione
paesaggistica semplificata, redatta secondo
un modello allegato al Dpr 139/2010, firmata da un tecnico
abilitato.
Il procedimento deve concludersi con un provvedimento
espresso entro sessanta giorni
TEMPI
I Comuni -che sono gli enti ai quali le Regioni hanno
delegato la gestione di questa materia- per rilasciare
l'autorizzazione paesaggistica devono ottenere il via libera
preventivo della sovrintendenza competente. Il decreto del
fare (Dl 69/2013) ha dimezzato da 90 a 45 i giorni entro cui
essa deve esprimersi. Se non lo fa, il Comune può procedere
nella autorizzazione
PROSSIME ESTENSIONI
La proposta di riforma del Dpr 139/2010 -sull'autorizzazione semplificata- prevede l'esenzione
dall'autorizzazione per l'installazione di piccole tende da
sole e di chioschi temporanei. Diventeranno realizzabili con
autorizzazione semplificata le tettoie aperte sui capannoni
per il 10% della loro superficie e le opere che sono piccole
varianti ai progetti approvati
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Le modifiche. Ulteriori snellimenti nel regolamento
all'esame del Parlamento.
Procedure abbreviate per porte e finestre.
È un cantiere aperto quello che dovrebbe portare alla
riforma del Dpr 139 del 09.07.2010, il quale disciplina
il procedimento per l'autorizzazione paesaggistica
semplificata, per gli interventi di piccolo impatto.
Nel dicembre del 2012, il governo Monti approvò lo schema di
un nuovo regolamento, come previsto dall'articolo 44 del
decreto legge sulle semplificazioni (n. 5 del 09.02.2012), con lo scopo di «rideterminare ed ampliare le ipotesi
di interventi di lieve entità e di operare ulteriori
semplificazioni procedimentali».
La bozza del nuovo regolamento amplia le possibilità di
ricorrere all'autorizzazione semplificata, con
l'introduzione di qualche nuova tipologia di intervento, e
prevede che quelli già ora realizzabili in regime di
semplificazione possano esserlo anche in aree prima
precluse. Escono dalla procedura dell'autorizzazione
ordinaria l'installazione di tettoie al servizio di
capannoni industriali, se non eccedono il 10% della
superficie coperta e la realizzazione nei cortili interni
degli immobili di manufatti per usi accessori di pertinenza
degli edifici. Anche le varianti in corso d'opera di piccola
portata a progetti già autorizzati sono assoggettati a
procedura semplificata, pure nel caso prevedano piccoli
spostamenti delle aree di sedime degli interventi.
Lo schema di regolamento lasciato dal governo Monti in
eredità al nuovo elimina quelle limitazioni, contenute nel
Dpr 109/2010, che impediscono ad alcuni interventi di
avvalersi dell'autorizzazione paesaggistica semplificata
quando la loro realizzazione riguarda particolari tipologie
di beni che l'articolo 136 del Codice classifica di
"notevole interesse pubblico". Nella definizione rientrano
le cose immobili con forti caratteri di bellezza naturale o
di singolarità geologica, le ville, i giardini e i parchi
particolarmente belli e i complessi di cose immobili con
valore estetico e tradizionale. Quando lo schema diventerà
norma, con procedimento semplificato sarà possibile, tra le
altre cose, aprire porte e finestre sui prospetti di questi
immobili, intervenire sui tetti e lattonerie.
Per alcuni interventi in futuro ammessi alla procedura
semplificata, è richiesta una relazione paesaggistica
particolarmente dettagliata, corredata di documenti e
fotografie relative all'area e al contesto paesaggistico
interessati all'iniziativa.
Lo schema di regolamento ha incassato il via libera
condizionato del Consiglio di stato. I rilievi mossi dal
vertice della magistratura amministrativa toccano gli
interventi che vengono "liberalizzati", resi cioè
realizzabili senza autorizzazione paesaggistica. Le
osservazioni riguardano la mancata definizione di quanto
deve essere piccola una tenda da sole affinché possa essere
liberamente montata su un edificio residenziale; la mancata
specificazione della collocazione delle insegne per gli
edifici commerciali in alternativa agli spazi delle vetrine;
le modalità per conteggiare i trenta giorni massimi durante
i quali è possibile, senza autorizzazione, occupare con
chioschi e strutture mobili il suolo pubblico o privato.
Come richiesto dal Consiglio di stato lo schema di
regolamento ha assunto la veste formale di un Dpr ed è stato
trasmesso al Parlamento per i pareri. E lì giace dal marzo
scorso.
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L'APPUNTO
Semplificazione in lista di attesa.
La modifica delle norme in materia di autorizzazione
paesaggistica procede a due velocità.
Tra le date delle leggi conversione dei Dl 69/2013 e
91/2013, corrono due mesi. Sufficienti al Parlamento per
bruciare le tappe per cambiare la durata dell'efficacia
dell'autorizzazione: prima (dl 69/2013) la fuga in avanti
per far coincidere la sua scadenza con quella della fine dei
lavori, a condizione di averli avviati nel termine dei 5
anni dal suo rilascio; poi la retromarcia con il dl 91/2013.
Operazione che ha disorientato chi quelle norme deve
applicarle e sottostarvi.
Non sta procedendo con la stessa velocità l'esame dello
schema di Dpr per modificare il regolamento di disciplina il
procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica,
che sette mesi fa il nuovo Governo sottopose al parere del
Parlamento. Le commissioni competenti ne avviarono l'esame,
ma non l'hanno proseguito. Sembra su richiesta dello stesso
Governo Letta. Se il blocco è dovuto al fatto che lo schema
fu elaborato dal precedente Esecutivo, questa non sarebbe
una buona giustificazione. Se, invece e come auspicabile, vi
è una buona motivazione, meglio renderla nota, indicando, al
contempo, come si intende procedere sulla strada della
semplificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Comuni, per Imu e Tares è corsa contro il tempo.
Con la revisione delle aliquote va riadottato il bilancio.
Finanza locale. Senza modifiche
legislative non basta una delibera di variazione.
Insieme alla proroga al 30 novembre del termine per
approvare il bilancio di previsione 2013, il Dl 102/2013
differisce anche il termine per approvare o variare i
regolamenti tributari, le aliquote e le tariffe.
Questa
situazione, per usare le parole scritte dalla Corte dei
conti, sezione Autonomie, nella delibera 14.10.2013 n. 23, «si connota di particolari tratti al limite della
irragionevolezza».
A questo si aggiunge anche un serio problema di tempistica,
conseguente al dubbio se le aliquote e regolamenti possono
essere variati dopo l'approvazione del bilancio comunale, ma
comunque entro la data ultima fissata dalle norme statali.
Questo problema sembrava essere stato risolto dal Mef, che
con la risoluzione n.1/DF del 02.05.2011 aveva ammesso,
anche per gli enti con bilancio già approvato, la
possibilità di variare le delibere apportando le conseguenti
variazioni di bilancio.
Questa lettura è però stata successivamente stravolta dalla
delibera n. 431 del 2012 della Corte dei Conti, sezione
Lombardia, nella quale si sostiene che non è sufficiente una
delibera di variazione del bilancio approvato essendo
necessaria, invece, una completa riadozione del bilancio di
previsione, secondo i termini scanditi nel regolamento di
contabilità di ogni Comune, termini mediamente superiori al
mese è quindi per il 2013 quasi esauriti.
Unica possibilità è che venga finalmente accolto un
emendamento –tra l'altro già più volte proposto da Anci–
che acclari con legge la sufficienza di una delibera di
variazione.
I dati mancanti
La necessità di risolvere in fretta il problema è
amplificata dal fatto che ad oggi i Comuni non hanno ancora
tutte le informazioni necessarie a (ri)adottore il bilancio.
Basti considerare che a fine ottobre ai Comuni non è stato
ancora comunicato quanto devono versare e ricevere dal Fondo
di solidarietà comunale, visto che manca l'emanazione di un
Dpcm, sebbene nella Conferenza Stato-città e autonomie
locali l'accordo sia stato raggiunto il 25 settembre e
l'ammontare del Fondo sia stato fissato in 6,977 miliardi,
di cui circa 4,7 sono dati dal gettito Imu di competenza
comunale che dovrà essere riversato allo Stato. E qui c'è un
altro nodo irrisolto, perché non si sa come i Comuni
dovranno riversare tali somme allo Stato: se queste saranno
direttamente trattenute dagli incassi da F24 Imu oppure se
riceveranno una quota di Fondo al netto della loro quota di
alimentazione.
Non va meglio per la Tares in quanto le modifiche apportate
dalla Camera al disegno di legge di conversione del Dl
102/2013 fanno prefigurare uno scenario in cui ogni Comune
può fare quello che vuole. Solo la conversione definitiva
del decreto –avvenuta giovedì scorso– consente adesso agli
enti di decidere che regime utilizzare per il 2013.
Infine il capitolo Imu: a oggi non si conoscono le sorti
della seconda rata Imu delle abitazioni, o meglio si sa che
sarà abolita come la prima, ma non si sa se il "contributo"
compensativo ai Comuni sarà calcolato come per l'acconto e
quindi sulla base del gettito 2012 o sulla base delle
aliquote deliberate dal Comune nel 2013, o come molti
auspicano, sulla leva fiscale teorica. E anche in questo
caso diventerà difficile non mettere mano alle aliquote.
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Gli ostacoli
01|PROCEDURE
Secondo la Corte dei conti dopo una delibera che varia le
aliquote o i regolamenti tributari non basta una variazione
al bilancio preventivo , serve rimettere in moto
il meccanismo di approvazione del bilancio di previsione
fino
alla riadozione
02|FONDO SOLIDARIETÀ
Nonostante l'intesa in Conferenza unificata sull'ammontare
del Fondo solidarietà (6,7 miliardi), manca un decreto che
indichi ai Comuni quanto versare e quanto ricevere dal Fondo
e che stabilisca la procedura per riversare
03|IMU
Non è ancora stabilito come i Comuni saranno compensati
anche per l'abolizione della seconda rata Imu sulle prime
case. Le ipotesi sono due: o sulla base del gettito 2012
oppure con le aliquote deliberate dal Comune
nel 2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Voto amministrativo, straordinario limitato.
I compensi. Per i titolari di
posizione organizzativa.
In caso di elezioni amministrative i titolari di posizione
organizzativa non possono percepire lo straordinario
elettorale, salvo quello effettuato la domenica o durante il
giorno di riposo settimanale, a differenza di quanto avviene
per tutte le altre elezioni e per i referendum statali e
regionali.
È questa l'indicazione fornita dal l'Aran (l'Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni)
nel parere 12527/2013.
A prima vista siamo in presenza di
una lettura restrittiva, invece essa è pienamente coerente
con il dettato contrattuale.
La norma di riferimento è contenuta nell'articolo 39 del
contratto collettivo di lavoro firmato il 14.09.2000, per come integrato dal l'articolo 16 del contratto
datato 15.10.2001. Essa prevede che «gli enti
provvedono a calcolare e acquisire le risorse finanziarie
collegate allo straordinario per consultazioni elettorali o
referendarie anche per il personale incaricato delle
funzioni dell'area delle posizioni organizzative».
Nel caso di elezioni esclusivamente amministrative gli oneri
sono interamente a carico del Comune, il che impedisce la
possibilità di erogare questo compenso.
Per cui, il diritto dei titolari di posizione organizzativa
a percepire lo straordinario elettorale non è pieno, ma è
sottoposto alla condizione che le relative risorse non
provengano dal bilancio del Comune.
Questo principio per l'Aran «conosce una sola eccezione»,
peraltro espressamente prevista dal comma 3 dello stesso
articolo 39 delle cosiddette "code contrattuali": i titolari
di posizione organizzativa, che svolgono straordinario
elettorale nel giorno di riposo settimanale. Questi ultimi
hanno, infatti, diritto a sommare il riposo compensativo e
il lavoro straordinario.
In questo caso vi è, secondo quanto si legge sempre nel
parere dell'Agenzia, una «diversa formulazione della
clausola contrattuale», per cui tali compensi vanno –è
ancora il parere dell'Aran– «corrisposti, anche nei casi
nei quali tutte o anche solo parte delle risorse debbano
essere apprestate direttamente dall'ente».
Il parere ci ricorda anche che lo straordinario elettorale
ai titolari di posizione organizzativa deve essere erogato «in
coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato»,
anche se, naturalmente, non è soggetto a valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione fa riscrivere l'«Ape».
COSA CAMBIA/
Rispetto al passato sono più numerosi i casi in cui un
intervento comporta la richiesta di un nuovo documento
Per l'attestato di prestazione energetica, in attesa dei
regolamenti attuativi vale la disciplina già prevista per
l'attestato di certificazione energetica, ma la sua validità
può decadere a seguito di interventi di ristrutturazione.
Lo
studio 28.10.2013 n. 657-2013/C
del Consiglio nazionale del notariato effettua un'analisi della normativa in tema di
Ape alla luce delle novità intervenute a opera del decreto
legge 63/2013 e delle modifiche introdotte dalla legge di
conversione 90/2013, tra cui la nullità dei contratti cui
l'Ape non sia allegato. Su questo punto, per altro, sembra
interverrà il decreto del "Fare 2".
Lo studio conferma l'interpretazione data quest'estate, a
prima lettura della normativa, circa il fatto che per
l'entrata a regime dell'attestato occorre attendere
l'emanazione dei regolamenti attuativi e in questa fase
transitoria, l'Ape si confeziona sulla base della previgente
disciplina dettata per l'Ace. Inoltre sono utilizzabili gli
Ace, rilasciati prima del 06.06.2013 che siano in corso
di validità.
A quest'ultimo riguardo, occorre ricordare che, in base alla
previgente disciplina, l'attestato di certificazione
energetica aveva validità massima di dieci anni dal suo
rilascio, a condizione che fossero rispettate le
prescrizioni normative vigenti per le operazioni di
controllo di efficienza energetica e salva la necessità di
un suo aggiornamento a ogni intervento di "ristrutturazione"
che avesse modificato la prestazione energetica. Pertanto,
per una vendita posta in essere dal 06.06.2013, il
venditore potrà avvalersi ancora dell'eventuale attestato di
certificazione energetica rilasciato in data anteriore al 06.06.2013 e ancora in corso di validità.
Quanto al concetto di "ristrutturazione", rilevanti sono le
modifiche apportate dal Dl 63/2013 rispetto alla disciplina
previgente. In base alle regole attuali, l'obbligo di
dotazione sorge in presenza di una "ristrutturazione
importante", che può consistere in qualsiasi intervento di
recupero edilizio che comunque riguardi oltre il 25% della
superficie dell'involucro dell'intero edificio, comprensivo
di tutte le unità immobiliari che lo costituiscono, e quindi
anche a fronte di interventi (quali la manutenzione o il
risanamento) diversi dalla ristrutturazione edilizia, così
come definita dal Testo unico dell'edilizia (il Dpr
380/2001).
Secondo la disciplina previgente, invece,
l'obbligo di dotazione sorgeva esclusivamente con riguardo a
edifici di superficie utile superiore a mille metri quadrati
che fossero stati oggetto degli interventi di
ristrutturazione integrale degli elementi edilizi
costituenti l'involucro e di demolizione e ricostruzione.
Con le modifiche apportate dal Dl 63/2013, quindi, si è
ampliata la platea degli interventi rilevanti ai fini
energetici. La figura della ristrutturazione rilevante ai
fini energetici è quindi diversa da quella rilevante ai fini
urbanistici ed edilizi.
Addirittura si può verificare che interventi edilizi (quali,
ad esempio, gli interventi di ordinaria manutenzione,
riguardanti oltre il 25% della superficie dell'involucro
dell'intero edificio) totalmente liberi sotto il profilo
edilizio, una volta eseguiti, facciano invece sorgere
l'obbligo di dotare l'immobile di un nuovo attestato di
prestazione energetica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, contratti stop.
Scatterà dal 9 novembre il blocco per tutto il 2014.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto
che dà attuazione alla legge 111/2011.
Il blocco della contrattazione collettiva del pubblico
impiego, previsto dal disegno di legge di Stabilità, divide
Pd e Pdl sull'opportunità di prevederlo, ma è già realtà.
Infatti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il dpr
122/2013, che entrerà in vigore il prossimo 9 novembre, e
contiene il blocco della contrattazione fino al 31.12.2014.
È il decreto che il ministro della Funzione pubblica,
Giampiero D'Alia, aveva preparato a pochi giorni dal suo
insediamento, successivamente sparito dai radar della
normazione.
Null'altro è se non l'attuazione di quanto prevede
l'articolo 16, comma 1, lettera b), del dl 98/2011,
convertito in legge 111/2011, una delle manovre della
terribile estate di due anni fa, allo scopo di assicurare il
contenimento della spesa per il personale pubblico, che
ammonta a circa 163 miliardi e grava per il 20% sul totale
della spesa pubblica complessiva, di circa 805 miliardi.
Dunque, vigeranno per un altro anno il divieto di
incrementare il trattamento individuale fondamentale dei
dipendenti; il divieto di incrementare i fondi contrattuali
decentrati oltre il tetto del 2010, con connesso obbligo di
ridurli in proporzione al costo del personale che cessa di
anno in anno; il divieto di corrispondere ai dirigenti
trattamenti economici superiori a quelli goduti dal
precedente titolare dell'incarico o a quello già goduto, in
caso di riconferma dell'incarico.
Si tratta delle disposizioni dell'articolo 9, commi 1, 2 e
2-bis, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010. Del
comma 2, ovviamente, non si prorogano le disposizioni che
prevedono la riduzione dei trattamenti economici complessivi
dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale,
previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni
pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat, ai
sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre
2009, n. 196, nella misura del 5 per cento per la parte
eccedente i 90 mila euro lordi annui e del 10 per cento per
quella superiore a 150 mila euro lordi annui. Tale parte del
comma 2, infatti, è stata dichiarata costituzionalmente
illegittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 223
del 2012.
Il dpr 122/2913 proroga al 31.12.2013 il divieto
di considerare l'anzianità, bloccata già per gli anni dal
2010 al 2012, nei confronti del personale docente,
Amministrativo, tecnico e ausiliario (A.T.A.) della scuola.
Il decreto anticipa anche la decisione di intervenire
sull'indennità di vacanza contrattuale, derogando
espressamente all'articolo 47-bis, comma 2, del dlgs
165/2001 ed all'articolo 2, comma 35, della legge 303/2008.
Sicché, per gli anni 2013 e 2014 non vi saranno incrementi
stipendiali a titolo di indennità di vacanza contrattuale,
che continua a essere corrisposta entro la soglia fissata a
suo tempo dall'articolo 9, comma 17, secondo periodo, del dl
78/2012, senza possibilità di recupero.
Non solo: per il triennio contrattuale 2015-2017 l'indennità
di vacanza contrattuale si calcolerà secondo modalità e
parametri individuati dai protocolli e dalla normativa
vigenti in materia e si aggiungerà a quella congelata al
2010. Ma, su questa previsione del dpr incombe appunto il
disegno di legge di Stabilità, che potrebbe del tutto
spazzare via l'indennità di vacanza contrattuale fino al
2016.
In conseguenza del congelamento della contrattazione
nazionale collettiva (che si porta dietro anche quella
decentrata e continua a impedire progressioni orizzontali –cioè aumenti di stipendio–
per tutto il 2014), il dpr 122/2013 consente di attivare le
procedure contrattuali e negoziali riguardanti i dipendenti
pubblici per gli anni 2013-2014 per la sola parte normativa.
Il dpr esclude che gli accordi possano prevedere successivi
recuperi della parte economica. Per i dipendenti pubblici
non si darà luogo, senza possibilità di recupero, al
riconoscimento degli incrementi contrattuali eventualmente
previsti a decorrere dall'anno 2011.
Le misure restrittive del dpr si applicheranno, in quanto
compatibili, anche al personale convenzionato con il
Servizio sanitario nazionale
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: DECRETO P.A./Le novità del provvedimento che approda al
senato per il via libera definitivo.
Così il Sistri torna nelle secche.
Sanzioni congelate per 10 mesi. Ma andranno riscritte.
Sebbene il 1° ottobre sia entrato in vigore l'obbligo di
tracciabilità telematica dei rifiuti speciali pericolosi
(Sistri), le sanzioni per il mancato rispetto degli obblighi
previsti dal dlgs 152/2006, non scatteranno per almeno altri
dieci mesi. Di più: il sistema sanzionatorio dovrà
addirittura essere riscritto, cioè adeguato. E questo perché
entreranno a far parte del Sistri anche i padroncini del
trasporto rifiuti. Cioè, quei soggetti a cui, nel caso di
trasporto intermodale, vengono «affidati i rifiuti speciali
in attesa della presa in carico degli stessi da parte
dell'impresa navale o ferroviaria o dell'impresa che
effettua il successivo trasporto».
Il tutto è previsto da un
emendamento del governo, approvato nella nottata del 24
ottobre scorso alla camera dei deputati, in sede di
conversione in legge del decreto legge 101/2013.
Provvedimento noto anche come decreto p.a. Il testo, per
come emendato, passa al senato per la definitiva conversione
in legge, che dovrà avvenire entro il 30 ottobre. Il
paradosso è che finora il legislatore non aveva preso in
considerazione il carattere intermodale del trasporto
rifiuti speciali. E per estendere la platea all'anello
mancante, ora, l'esecutivo deve nuovamente congelare le
sanzioni.
Ne consegue che, per i prossimi dieci mesi almeno si
applicherà ancora il vecchio sistema di gestione dei rifiuti
speciali. Che prevede:
- responsabilità pre Sistri per i produttori e i detentori
di rifiuti;
- comunicazioni annuali di comuni e comunità montane alle
camere di commercio sui rifiuti prodotti e conferiti, con
tenuta dei relativi dati nel Catasto rifiuti, istituito
presso le regionali Agenzie ambientali e di protezione del
territorio;
- obbligo di tenuta di un registro di carico e scarico, per
i produttori iniziali di rifiuti pericolosi e per gli enti o
le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi.
Ma anche facoltà di tenuta dei medesimi registri per i
produttori di rifiuti non pericolosi;
- tenuta di un formulario di identificazione per enti e
imprese che raccolgono e trasportano propri rifiuti non
pericolosi.
In sostanza, spiega l'emendamento del governo, resteranno
validi «gli adempimenti e gli obblighi di cui agli articoli
188,189, 190 e 193 del decreto legislativo 03.04.2006,
numero 152, nel testo previgente alle modifiche apportate
dal decreto legislativo 03.12.2010, numero 205, nonché
le relative sanzioni».
Di più; la camera dispone anche che «entro 60 giorni (dalla
conversione in legge), con uno o più decreti del ministro
dell'ambiente, sentiti il ministro dello sviluppo economico
ed il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sono
definite le modalità di applicazione a regime del Sistri al
trasporto intermodale». In sostanza, servirà un
provvedimento ad hoc per definire, per filo e per segno,
come dovrà avvenire il processo di tracciabilità telematica
dei rifiuti, quando questi passino di mano in mano, da un
mezzo di trasporto all'altro, fino alla destinazione finale.
Non solo. In base al decreto p.a., il ministro dell'ambiente
deve varare entro il tre marzo 2014 un decreto, con cui
definisce «le ulteriori categorie di soggetti a cui è
necessario estendere» il Sistri.
Bene, l'emendamento del governo dispone che, col medesimo
decreto si provveda «alla modifica e integrazione della
disciplina», per adeguarla ai nuovi adempimenti; ma anche
alla modifica e integrazione «delle sanzioni relative al
Sistri» per coordinarle con l'estensione del Sistri a tutti
i soggetti coinvolti nel trasporto intermodale.
Non è finita. La camera ha recepito anche una riscrittura
integrale degli obblighi di tenuta dei registri di carico e
scarico»; riscrittura inclusa nell'emendamento presentato
dall'esecutivo. In particolare, questi dovranno essere
tenuti da: enti e imprese produttori di rifiuti speciali e
non; altri detentori di rifiuti; intermediari e commercianti
di rifiuti; imprenditori agricoli ex art. 2135 cc produttori
iniziali di rifiuti pericolosi.
Sono esclusi dal vincolo enti e imprese che aderiscono
volontariamente al Sistri. E attività di raccolta e
trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi
«effettuate dagli enti e imprese produttori iniziali».
Nel nuovo registro di carico e scarico dovranno essere
annotate informazioni sulle caratteristiche qualitative e
quantitative dei rifiuti prodotti.
Annotazioni che dovranno essere fatte:
- per i produttori iniziali entro 10 giorni lavorativi dalla
produzione e dallo scarico;
- per chi effettua operazioni di preparazione per riutilizzo
entro 10 giorni lavorativi dalla presa in carico dei
rifiuti;
- per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di
trattamento entro due giorni lavorativi dalla presa in
carico e dalla conclusione dell'operazione di trattamento;
- per gli intermediari e i commercianti almeno due giorni
prima dell'avvio dell'operazione e entro 10 giorni dalla
conclusione
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2013). |
APPALTI: Gli appalti dicono addio alla banca dati unica.
Abolita la norma di semplificazione della gestione dei
contratti pubblici che consente di utilizzare una banca dati
informatizzata unica, ai fini del controllo del possesso, da
parte degli appaltatori, dei requisiti di carattere
generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario.
Il colpo a un importante strumento di velocizzazione della
gestione degli appalti pubblici è inferto dalla legge di
conversione del decreto di riordino della pubblica
amministrazione, il dl 101/2013 (noto come decreto sulle
stabilizzazioni), frutto degli emendamenti in commissione
alla camera.
Si tratta di un colpo duro inferto al «decreto del fare»,
propagandato come legge di semplificazione dell'azione
amministrativa. Dietro il «fare» rimane sempre in agguato un
«disfare», che lascia davvero perplessi.
La norma che la legge di conversione del dl 101 intende
abolire è rubricata espressamente come «semplificazioni per
i contratti pubblici». Ed è davvero curioso che una
maggioranza intenta a mostrarsi come innovatrice e tesa
verso la «sburocratizzazione» cancelli proprio una delle
norme di semplificazione realmente efficaci e non di
facciata del dl 69/2013.
L'istituzione della banca dati on-line per le verifiche sui
requisiti è stata prevista ormai da molto tempo,
precisamente dal dl 5/2012, convertito in legge 35/2012 e
avrebbe dovuto vedere la luce già lo scorso 31.01.2013.
Si tratta di una banca dati di estrema utilità, soprattutto
per gli appalti di servizi e forniture, che mancano del
sistema di certificazione Soa e, dunque, spesso scontano
difficoltà nella verifica del possesso dei requisiti.
Inoltre, la banca dati potrebbe risolvere definitivamente il
problema dell'acquisizione del Durc: infatti, il rispetto
degli oneri previdenziali è parte integrante dei requisiti
di ordine generale e la banca dati potrebbe consentire una
facile ricognizione.
È evidente, comunque, che una banca dati integrata favorisce
la semplificazione. Il «decreto del fare» l'aveva ripescata,
spostando la sua messa a regime al 21.11.2013. Ma col
decreto di «riordino» della pubblica amministrazione la
norma di rispolvero della banca dati viene destinata
nuovamente a un incerto oblio
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni, Ape d'obbligo.
Bisogna dotarsi dell'attestato per avere l'agibilità del
bene. Il Notariato sui vincoli di
dotazione, consegna e allegazione dell'atto di prestazione
energetica.
Attestato di prestazione energetica solo per le
ristrutturazioni importanti (oltre che per i nuovi edifici).
Ma attenzione basta una manutenzione ordinaria su oltre il
25% dell'edificio a rendere necessaria l'attestazione
energetica.
Lo
studio 28.10.2013 n. 657-2013/C
della commissione studi
civilistici del Consiglio nazionale del notariato spiega le
formalità da osservare per dotarsi della certificazione e in
occasione della forma del preliminare, della vendita o
dell'affitto di un immobile.
Vediamo i principali chiarimenti.
OBBLIGO DI DOTAZIONE. Devono dotarsi di certificazione, a
prescindere da un loro trasferimento, i nuovi edifici e lo
si deve fare prima del rilascio del certificato di
agibilità. L'obbligo di dotazione riguarda anche gli edifici
ristrutturati. Deve trattarsi però di ristrutturazioni
importanti. Attenzione a non usare le definizioni edilizie.
Rientrano nella categoria delle ristrutturazioni importanti
tutti gli interventi edilizi, anche la manutenzione
ordinaria o straordinaria, la ristrutturazione propriamente
detta e il risanamento conservativo, purché interessino
oltre il 25 per cento della superficie dell'involucro
dell'intero edificio. Può trattarsi di rifacimento di pareti
esterne, di intonaci esterni, del tetto o
dell'impermeabilizzazione delle coperture. Può capitare,
dunque, che interventi liberi sotto il profilo edilizio (vedasi
l'articolo 6, comma 1, del Testo Unico per l'edilizia) una
volta eseguiti, facciano, invece, sorgere l'obbligo di
dotazione dell'attestato di prestazione energetica.
CONTRATTO PRELIMINARE. Dopo le ultime novità legislative,
l'obbligo di dotazione e consegna (ma non anche quello di
allegazione) dell'attestato di prestazione energetica
sussiste anche in occasione della stipula di un preliminare
di vendita.
Il proprietario deve, infatti, rendere disponibile
l'attestato di prestazione energetica al potenziale
acquirente fino dall'avvio delle trattative.
Se si ricorre ad annunci commerciali, si dovrà riportare
negli annunci medesimi gli indici di prestazione energetica
dell'involucro e globale dell'edificio o dell'unità
immobiliare e la classe energetica corrispondente.
Il proprietario dovrà consegnare l'attestato di prestazione
energetica alla fine delle trattative.
I notai, a questo proposito, consigliano di inserire nel
preliminare una apposita clausola da cui risulti che
l'edificio è già stato dotato di attestato di prestazione
energetica e che l'attestato è stato messo a disposizione
del possibile acquirente sin dall'inizio delle trattative.
Opportuno far risultare anche che sugli annunci commerciali,
sono stati riportati l'indice di prestazione energetica
dell'involucro edilizio e globale dell'edificio o dell'unità
immobiliare e la classe energetica corrispondente. Ancora
vanno riprodotte clausole attestanti la consegna
dell'attestato di prestazione energetica all'acquirente e
che questi ha, quindi, ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla
attestazione della prestazione energetica degli edifici. I
notai raccomandano, quindi, di fare molte attenzione alla
completezza del preliminare.
Potrà essere, anche, opportuno allegare l'attestato di
prestazione energetica: ma la legge non lo prevede come un
obbligo, con la conseguenza che la mancata allegazione non
determina la nullità del contratto.
ALLEGAZIONE. L'attestato di prestazione energetica deve
essere, a pena di nullità, allegato al contratto di vendita,
agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito e
ai nuovi contratti di locazione.
I notai chiariscono che nel caso di ritrasferimento di
immobile già oggetto di precedente vendita, cui è stato
allegato l'attestato energetico, non è possibile
semplicemente richiamare il documento già allegato al titolo
di provenienza. Bisogna allegare di nuovo l'attestato. Però
si può, se siamo nei dieci anni di validità dell'attestato
originario, allegare all'atto di ritrasferimento copia
conforme per estratto autentico dell'attestato originario.
CONSEGNA.
Lo studio dei notai precisa che c'è un obbligo di consegna
all'acquirente, beneficiario e al nuovo conduttore
dell'attestato di prestazione energetica. Si tratta di un
obbligo autonomo e distinto rispetto all'obbligo di
allegazione e da adempiere prima della stipula del contratto
traslativo e di nuova locazione
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65% se si demolisce, l'importante è non ampliare.
Si alla detrazione fiscale del 65% in caso di
ristrutturazione edilizia di un immobile per la
riqualificazione dal punto di vista energico senza
demolizione e con ampliamento ma unicamente per le spese
riferibili alla parte esistente. In quanto l'ampliamento
dell'immobile viene considerato «nuova costruzione». E dal
21.08.2013, la detrazione fiscale spetta anche alle
ristrutturazione edilizie che consistono nella demolizione
di un immobile e nella sua ricostruzione più efficiente dal
punto di vista energetico, mantenendone la volumetria
originaria senza rispettarne la sagoma.
Queste sono le due
risposte fornite dalla Enea con la
faq 68 e 68-bis.
L'Enea
nella faq 68 ricorda che nel caso di ristrutturazione di un
immobile senza demolizione e con ampliamento, anche in base
alle circolari dell'agenzia delle entrate 39E/2010 e 4E/2011
che hanno fatto maggiore chiarezza in materia, la detrazione
compete unicamente per le spese riferibili alla parte
esistente, in quanto l'ampliamento viene considerato «nuova
costruzione».
Inoltre, la circolare n. 39/E ha precisato che
in questo caso il riferimento normativo non può essere
costituito dal comma 344 della legge finanziaria 2007, che è
inutilizzabile in quanto comporta necessariamente una
valutazione del fabbisogno energetico riferito all'intero
edificio (e che dovrebbe quindi necessariamente considerare
anche la parte ampliata), ma dai singoli commi 345, 346 e
347. I tecnici dell'Enea sottolineano nella faq 68-bis che
la legge 09.08.2013, n. 98, di conversione del decreto
legge 21.06.2013, n. 69 (il c.d. decreto del Fare), in
vigore dal 21.08.2013, ha rivisto la definizione di
«ristrutturazione edilizia» contenuta nel testo unico
edilizia eliminando all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr
380/2001 il riferimento alla «sagoma».
Dal 21.08.2013,
quindi, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione
edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e
ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di
quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la
sagoma. Sono compresi nella ristrutturazione anche gli
interventi «volti al ripristino degli edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza».
Ciò premesso, dal 21.08.2013,
qualora l'intervento abbia le caratteristiche per
configurarsi come «ristrutturazione edilizia» (ossia
l'immobile non sia soggetto a vincolo ai sensi del dlgs
42/2004 e non ricada nella zona A del dm 1444/1968), alla
luce delle recenti disposizioni, riteniamo agevolabili ai
sensi di queste detrazioni gli interventi che consistono
nella demolizione di un immobile e nella sua ricostruzione
mantenendone la volumetria originaria
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2013). |
TRIBUTI: L'assimilazione vale per la seconda rata.
Abitazione principale. Obbligo di
residenza e dimora.
LA FACOLTÀ/
Gli enti locali possono decidere un trattamento di favore
per l'alloggio dato in comodato ai figli (compresa la
pertinenza).
Con la conversione in legge del Dl 102/2013 il Parlamento ha
introdotto, con l'articolo 2-bis, la possibilità per i
Comuni di assimilare all'abitazione principale le abitazioni
concesse in comodato a parenti, tuttavia con alcuni paletti.
Innanzitutto, per espressa previsione normativa
l'assimilazione è limitata alla seconda rata; pertanto,
quanto pagato in acconto non è rimborsabile.
Va anche precisato che, con l'assimilazione, l'abitazione in
comodato riceve lo stesso trattamento delle altre abitazioni
principali e quindi il saldo non sarà dovuto se sarà
confermata l'esclusione anche della seconda rata Imu delle
abitazioni principali.
L'abitazione in comodato deve essere utilizzata come
abitazione principale, quindi con residenza anagrafica e
dimora, da un parente in linea retta entro il primo grado,
ovvero il comodato deve essere tra padre e figlio.
L'abitazione non deve essere classificata in quelle di lusso
(A/1, A/8 e A/9) e nel caso in cui il contribuente abbia
dato in comodato più abitazioni, l'assimilazione opera per
una sola unità immobiliare. Naturalmente il trattamento di
favore riservato all'abitazione si estende anche alle
eventuali pertinenze, pur nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali C/6,
C/2 e C/7.
L'agevolazione è subordinata a una delibera comunale, che
dovrà essere adottata entro il 30.11.2013, ovvero
entro il termine previsto per l'approvazione del bilancio di
previsione 2013.
La delibera comunale dovrà essere pubblicata entro il 09.12.2013 sul sito istituzionale di ciascun comune; in
caso di mancata pubblicazione entro tale data, si applicano
le aliquote e i regolamenti dell'anno precedente.
I contribuenti potrebbero avere quindi una sola settimana di
tempo per capire se devono o non devono pagare il saldo Imu
in scadenza il 16 dicembre.
Occorrerà poi verificare le ulteriori condizioni
disciplinate dai Comuni. La normativa prevede che ciascun
Comune definisca i criteri e le modalità per l'applicazione
dell'agevolazione «ivi compreso il limite dell'indicatore
della situazione economica equivalente (Isee) al quale
subordinare la fruizione del beneficio». Ciò vuol dire che
occorrerà verificare con attenzione gli ulteriori paletti
eventualmente presenti nelle delibere Comunali, come
l'obbligo di presentare una comunicazione entro un
determinato termine, normalmente a pena di decadenza.
Per quanto riguarda l'Isee si ritiene che non vi sia
l'obbligo per i Comuni di subordinare il beneficio ad un
determinato livello di situazione economica, anche se tale
strumento, in regime di ristrettezze economiche permette di
indirizzare le poche risorse disponibili verso chi ne ha
bisogno.
Peraltro, occorre considerare che la possibilità di
assimilare all'abitazione principale quella data in comodato
a parenti è prevista anche dal disegno di legge di stabilità
2014, ma in modo diverso.
È infatti stabilito (per ora) che il Comune possa disporre
l'assimilazione prevedendo che l'agevolazione operi o
limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto
non eccedente il valore di euro 500 oppure nel solo caso in
cui il comodatario appartenga ad un nucleo familiare con
Isee non superiore a 15mila euro annui.
Per la copertura del minor gettito Imu derivante dalle
assimilazioni deliberate per il 2013 lo Stato ha assicurato
un contributo massimo di 18,5 milioni di euro, che dovranno
essere ripartiti tra i Comuni secondo modalità che saranno
stabilite con decreto del ministero dell'Interno.
Per il 2014, invece, non è stato per ora previsto alcun
contributo statale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Fisco e contribuenti. Il decreto legge approvato giovedì
consente ai Comuni di modificare regole e aliquote fino al
30 novembre.
Saldo Imu, tempi stretti per i conti.
Delibere pubblicate sui siti istituzionali fino al 9
dicembre - Pagamento entro il 16.
SUL FILO DI LANA/
Cittadini, Caf e professionisti dovranno concentrare i
calcoli e i versamenti in sette giorni.
Sette giorni di tempo. Dal 10 al 16 dicembre i contribuenti
dovranno consultare i regolamenti, individuare l'aliquota
Imu e quindi calcolare e versare, se dovuto, il saldo.
È questa una delle conseguenze prodotte dall'articolo 8,
comma 2, del Dl 102/2013, approvato due giorni fa dal Senato
in via definitiva e in attesa di pubblicazione sulla
«Gazzetta Ufficiale». L'articolo 8 consente ai Comuni di
adottare le delibere Imu fino al 30 novembre e di
pubblicarle nei loro siti entro il 9 dicembre. Se la
pubblicazione non avverrà entro tale data si applicheranno
gli atti adottati per il 2012.
Ai contribuenti non sarà pertanto sufficiente reperire dai
siti comunali l'aliquota applicabile agli immobili ancora
tenuti al pagamento dell'Imu: i municipi, con proprio
regolamento e fino al 30 novembre, potrebbero infatti
intervenire sulle assimilazioni all'abitazione principale
(introducendole oppure eliminandole).
Al riguardo la versione definitiva del Dl 102/2013, consente
ai sindaci di assimilare all'abitazione principale anche il
fabbricato concesso in comodato a parenti di primo grafo
(cioè figli o genitori). Il beneficio, obbligatoriamente
collegato all'Isee, comporterebbe, se deliberato dai Comuni
entro il 30 novembre, lo stesso trattamento previsto per
l'abitazione principale, ancorché con effetti limitati alla
sola seconda rata 2013.
Dall'anno prossimo, infatti, si dovrebbero applicare le
nuove regole in tema di assimilazione previste dalla legge
di stabilità 2014 appena varata dal Governo.
Ma procediamo con ordine. L'articolo 13, comma 13-bis, Dl
201/2011 dispone che le delibere concernenti aliquote,
detrazioni e regolamenti Imu debbano essere pubblicate sul
sito del ministero dell'Economia entro il 28 ottobre di
ciascun anno (con invio telematico da parte dei comuni
almeno sette giorni prima) pena l'applicazione degli atti
adottati per l'anno precedente.
Posto che il termine per l'approvazione di aliquote e
regolamenti Imu coincide con quello previsto per
l'approvazione del bilancio del comune, il differimento di
quest'ultimo termine al 30 novembre, operato dall'articolo 8
del Dl 102/2013, ha di fatto reso inoperante la scadenza del
21 ottobre. Dato ciò, lo stesso articolo 8 ha stabilito che,
per l'anno 2013, gli atti deliberativi Imu acquistano
efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione nel sito
web del comune; tale pubblicazione deve avvenire entro il 9
dicembre e qualora ciò non si verificasse trovano
applicazione gli atti adottati per il 2012. Resta invece
ferma la scadenza per il pagamento del saldo fissata al 16
dicembre.
Contribuenti, Caf, professionisti avranno così appena una
settimana per predisporre con dati certi l'F24 a saldo.
Peraltro il Dl 102/2013 approvato dal Senato contiene
un'ulteriore novità che potrebbe impattare sul calcolo dell'Imu
dovuta a dicembre. Viene infatti previsto (articolo 2-bis)
che per l'anno 2013, e limitatamente alla seconda rata, i
comuni possono equiparare all'abitazione principale una sola
abitazione e relative pertinenze concesse in comodato a
parenti in linea retta (entro il primo grado) che le
utilizzano come abitazione principale. La novità, che
esclude dalla possibile assimilazione i fabbricati di lusso
(accatastati nelle categorie A/1, A/8 e A/9), demanda ai
comuni la definizione dei criteri e delle modalità per
l'applicazione dell'agevolazione, ivi compreso il limite
dell'Isee al quale il beneficio deve essere subordinato.
Si tratta, quindi, di un'assimilazione che si aggiunge a
quelle già consentite ai comuni riguardanti anziani,
disabili e cittadini italiani residenti all'estero.
Anche per queste fattispecie i consigli comunali potrebbero
intervenire fino al 30 novembre con evidenti ripercussioni
sul pagamento di dicembre. A decorrere dal 2014, la legge di
stabilità licenziata dal Governo prevede che le
assimilazioni consentite ai comuni (anziani, disabili,
cittadini Aire, comodati a parenti) operino o limitatamente
ai fabbricati con rendita catastale non superiore a 500 euro
oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga a un
nucleo familiare con Isee non superiore a 15mila euro annui (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente. Penalità dal
01.08.2014.
Niente sanzioni Sistri per 10 mesi.
Le sanzioni relative al Sistri scatteranno per tutti dal 01.08.2014 e non più dal prossimo 2 novembre (per i
gestori) e dal 04.03.2014 (per i produttori). Inoltre, dal
30.06.2014 è prevista una sperimentazione per i rifiuti
urbani pericolosi.
Sono queste alcune delle novità più
significative apportate dalla Camera al testo dell'articolo
11 del Dl 101/2013 in materia di razionalizzazione della Pa
che passa ora al Senato per il voto finale.
L'articolo 11, dunque, ora presenta una struttura che, pur
modificata, riflette un quadro normativo che non tiene in
debito conto le criticità incontrate dalle imprese in questo
primo mese di operatività.
Dal 01.10.2013 sono obbligati al Sistri enti o imprese
che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a
titolo professionale o che recuperano e smaltiscono,
commercializzano e intermediano rifiuti speciali pericolosi,
inclusi i nuovi produttori. Sono compresi i vettori esteri
che operano in Italia e dall'Italia verso l'estero.
Dal 03.03.2014 partiranno i produttori iniziali di rifiuti
pericolosi nonché, per la Campania, i Comuni e le imprese di
trasporto dei rifiuti urbani. Terminalisti ferroviari e
marittimi e raccomandatari marittimi in caso di trasporto
intermodale tornano fra gli obbligati. Un decreto
disciplinerà le relative procedure. Nessuna semplificazione,
dunque: anzi è previsto il rientro di categorie escluse.
La norma approvata dalla Camera, inoltre, non si pone in
continuità con la circolare del 30.09.2013 con la
quale il ministero dell'Ambiente aveva escluso l'obbligo di
iscrizione per i trasportatori dei rifiuti pericolosi da sé
stessi prodotti (i cosiddetti "conto proprio") e dall'altro
aveva incluso le operazioni di deposito temporaneo e di
stoccaggio dei propri rifiuti effettuato all'interno del
luogo di produzione. Il che crea una situazione di ulteriore
incertezza.
Entro due mesi, un decreto dell'Ambiente disciplinerà la
sperimentazione per applicare il Sistri a enti o imprese che
raccolgono o trasportano rifiuti urbani pericolosi a titolo
professionale (compresi i vettori esteri in Italia e
dall'Italia) nonché per gli altri gestori dall'atto del
conferimento in centri di raccolta o stoccaggio in poi. La
sperimentazione decorrerà dal 30.06.2014.
Le sanzioni Sistri, a prescindere dalla data di partenza
dell'operatività, si applicheranno dal 01.08.2014. Un
periodo particolarmente lungo a riprova del fatto che il
sistema non stia funzionando come dovrebbe. In questi dieci
mesi, i soggetti obbligati continueranno a compilare e
conservare registro e formulario. Inoltre, entro il 30.04.2014 dovranno inviare il Mud. Sono state reintrodotte
le sanzioni per i registri e i formulari. Il regime del
doppio binario (Sistri + registri e formulari) è decisamente
oneroso per le imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013). |
TRIBUTI: Ogni comune censirà i servizi indivisibili
Dal prossimo anno, ogni comune dovrà censire i servizi
indivisibili erogati ai cittadini indicando analiticamente
per ciascuno di essi i relativi costi.
Lo prevede la
disciplina dettata dal disegno di legge di stabilità 2014 in
relazione alla Tasi, che insieme alla quasi omonima Tari
dovrebbe costituire il nuovo tributo comunale Trise. Si
tratterà di un'operazione tutt'altro che agevole, che
richiederà una complessa riclassificazione dei dati di
bilancio.
Come noto, il Trise si articolerà in due componenti: la
prima, denominata Tari, andrà a copertura dei costi relativi
al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati. La seconda componente, il Tasi, sostituirà,
invece, l'attuale maggiorazione Tares (quest'anno
eccezionalmente incamerata dallo Stato) per far fronte della
copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei
comuni.
Il presupposto impositivo della Tasi sarà il possesso o la
detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, di aree
scoperte nonché di quelle edificabili, a qualsiasi uso
adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o
accessorie a locali imponibili non operative e delle aree
comuni condominiali che non siano detenute o occupate in via
esclusiva. Il tributo sarà dovuto, oltre che dai titolari di
diritti reali, anche dagli eventuali occupanti (ad esempio
locatori) in una misura stabilita dal comune fra il 10 e il
30% dell'ammontare complessivo, calcolato applicando
l'aliquota fissata dallo stesso comune entro i limiti di
legge.
Sempre i comuni, con proprio regolamento da approvare
ai sensi dell'art. 52 del dlgs 446/1997, dovranno
disciplinare le riduzioni, che tengano conto altresì della
capacità contributiva della famiglia, anche attraverso
l'applicazione dell'Isee, e procedere all'individuazione dei
servizi indivisibili ed all'indicazione analitica, per
ciascuno di tali servizi, dei relativi costi alla cui
copertura la Tasi è diretta. Quest'ultimo adempimento, del
tutto inedito, è destinato a rivelarsi di notevole
complessità attuativa. La categoria «servizi indivisibili»,
infatti, include tutti quelli che non vengono offerti «a
domanda individuale», come ad esempio l'illuminazione
pubblica, la sicurezza, l'anagrafe o la manutenzione delle
strade.
Si tratta di una gamma potenzialmente amplissima di
attività, per le quali, per di più, manca una «mappatura»
ufficiale. Per rispettare il dettato normativo, quindi, sarà
necessaria una tutt'altro che agevole operazione di
censimento delle diverse tipologie di servizi e di
riclassificazione dei dati di bilancio analoga a quella che
è stata compiuta per fornire alla Sose i dati necessari per
il calcolo dei fabbisogni standard relativi alle funzioni
fondamentali, ai sensi del dlgs 85/2010.
Se la previsione contenuta nel testo del disegno di legge di
stabilità verrà confermata, quindi, i comuni dovranno
attrezzarsi per tempo
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Dal Comune esenzione per la casa ai figli.
Possibilità per i sindaci di estendere le agevolazioni e
aiuti per la «morosità incolpevole».
BENI MERCE/
Rientrano nella categoria del premio anche gli immobili
costruiti da imprese edili e rimasti invenduti e non
affittati.
L'esenzione Imu per i fabbricati merce delle imprese di
costruzione non copre l'imposta dovuta sino al 30 giugno.
L'assimilazione all'abitazione principale degli immobili
delle cooperative edilizia a proprietà indivisa come pure
quella relativa ai fabbricati degli appartenenti alle forze
armate opera dal 1° luglio scorso. Ai fini del pagamento
della seconda rata, inoltre, i comuni possono assimilare
all'abitazione principale il fabbricato concesso un uso
gratuito a parenti entro il primo grado.
È ricco il menu
delle novità in materia di Imu apportate in sede di
conversione del Dl 102. Non manca, infine, l'ennesima
disposizione interpretativa in materia di fabbricati rurali.
Nel decreto legge si era disposto che per i fabbricati merce
delle imprese costruttrici la seconda rata non era dovuta.
Ora si precisa che l'imposta resta dovuta fino al 30.06.2013. La conseguenza è che in sede di saldo si dovrebbero
versare i conguagli tra quanto pagato a giugno, con
l'aliquota dell'anno precedente, e quanto da liquidare con
l'aliquota dell'anno in corso. Tanto, limitatamente al
periodo di possesso fino al 30.06.2013.
Sempre con il decreto 102 si era disposta l'assimilazione
all'abitazione principale degli immobili delle cooperative
edilizie a proprietà indivisa. Viene ora stabilito che tale
assimilazione opera dal 1° luglio scorso. Questo dovrebbe
servire ad applicare in via automatica le agevolazioni per
l'abitazione principale che sono in via di approvazione con
riferimento alla seconda rata di dicembre. Lo stesso
ragionamento vale per le modifiche apportate a proposito del
fabbricato degli appartenenti alle forze armate, che si
considera abitazione principale anche se non vi è né
residenza anagrafica né dimora abituale. Si precisa, in
proposito, che l'equiparazione all'abitazione principale non
vale per gli immobili di lusso, cioè di categoria A/1, A/8 e
A/9.
Un'altra novità consiste nella previsione dell'obbligo di
presentare una denuncia con la richiesta di applicazione
delle nuove agevolazioni disposte nel Dl 102, a pena di
decadenza, entro il 30 giugno 2014, termine ordinario di
presentazione della dichiarazione Imu.
Ritorna inoltre l'assimilazione all'abitazione principale
delle case concesse in comodato a parenti in linea retta,
entro il primo grado (genitori e figli), purché non "di
lusso". L'assimilazione dipende da una delibera comunale e
vale solo per la seconda rata. I comuni possono condizionare
il beneficio al possesso di determinati requisiti
reddituali, legati anche all'Isee. L'assimilazione può
riguardare una sola unità immobiliare.
Compare un'ulteriore disposizione interpretativa (la terza)
in materia di fabbricati rurali. Questa volta si tratta
dell'efficacia delle domande di variazione catastale
presentate ai sensi dell'articolo 13, comma 14-bis, Dl
201/2011. In via interpretativa, le Finanze avevano
sostenuto che queste producevano effetti dal quinto anno
precedente. I comuni hanno contestato questa
interpretazione, rilevando che, in mancanza di una norma
espressa, le variazioni catastali operano solo per il
futuro. Oggi si recepisce l'orientamento delle Finanze e si
dispone per l'appunto che gli effetti delle variazioni
decorrano dal quinto anno precedente.
Si conferma infine che il termine per l'approvazione dei
bilanci di previsione 2013 è il 30 novembre prossimo ma si
stabilisce, altresì, che le delibere Imu devono essere
pubblicate sul sito del comune entro il 09.12.2013. In
mancanza di pubblicazione, si applicano le aliquote
dell'anno precedente.
In materia di sfratti, invece, viene disposta l'emanazione
di un decreto delle finanze che dovrà fissare i criteri per
l'accesso ai fondi da parte degli inquilini morosi
incolpevoli. Nelle more della adozione di tali criteri, le
prefetture prenderanno misure per graduare gli interventi
della forza pubblica nelle procedure di sfratto
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
TRIBUTI: Torna la Tarsu con maggiorazione.
Rifiuti. Cancellata l'abrogazione.
Orologi indietro sul prelievo sui rifiuti: dopo nove mesi di
abrogazione, torna in vita la Tarsu e probabilmente anche la
Tia1 e la Tia2.
È il risultato dell'ennesimo colpo di scena
messo in atto con la legge di conversione del Dl 102/2013.
La disciplina della Tares aveva provato a mettere ordine
nelle varie entrate esistenti, abrogando Tarsu e Tia, con
decorrenza dal 01.01.2013. Le modifiche in corso di
pubblicazione abrogano la norma abrogatrice e consentono di
ripristinare le tariffe relative al regime di prelievo
esistente nel 2012, quale esso fosse. A questo punto, è
evidente che perde totalmente di interesse la comprensione
del nuovo sistema tariffario alternativo al metodo
normalizzato, previsto nella versione iniziale del Dl 102.
In linea teorica, si segnala che dall'anno prossimo, con la
Tari, si dovrebbero comunque innovare tutti i sistemi
tariffari. Si prevede, inoltre, che se si mantiene in vita
la Tarsu resta possibile provvedere alla copertura integrale
dei costi del servizio anche con altre risorse del bilancio.
Resta, in ogni caso, dovuta la maggiorazione di 0,30 euro al
metro quadrato in favore dello Stato.
Le altre novità in materia riguardano il finanziamento delle
agevolazioni. Si dispone che il mancato gettito possa essere
alternativamente recuperato dagli stessi contribuenti Tares/Tarsu/Tia
ovvero con altre risorse del bilancio, purché nei limiti del
7% del costo del servizio. Sembra pertanto che se le
agevolazioni si spalmano sugli utenti del servizio non
esiste nessun limite quantitativo, in chiara violazione dei
principi comunitari. Sempre in tema di agevolazioni, si
prevede la possibilità di introdurre nel regolamento
comunale riduzioni e esenzioni legate all'Isee nonché al
compostaggio dei rifiuti.
Viene altresì stabilito che in caso di insufficiente
pagamento del tributo, i contribuenti non sono sanzionabili
se il comune non ha inviato loro i bollettini di versamento.
Si tratta di una novità che impatta, formalmente, solo nei
limitati casi in cui il comune ha previsto il versamento in
auto liquidazione. Nella generalità dei casi, è invece
vigente il pagamento su liquidazione d'ufficio, che
presuppone sempre l'invio di una comunicazione, in assenza
della quale il pagamento non può avvenire e dunque
l'omissione non è sanzionabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: La «Pa» non concilia? Rischio danni erariali.
Contenzioso civile. Ordinanza
Tribunale di Roma.
IL PRINCIPIO/
La mancata adesione di una Asl alla proposta del giudice
potrebbe portare alla responsabilità dell'ufficio
La mancata adesione da parte di una Pa alla proposta
conciliativa/transattiva del giudice formulata ai sensi
dell'articolo 185-bis del codice di procedura civile rischia
di creare un danno erariale.
I molteplici risvolti della norma citata, introdotta nel
codice di rito con il decreto "del fare" e poi modificata
dalla sua legge di conversione, continuano ad emergere nella
intensa attività del Tribunale di Roma. Ed infatti con l'ordinanza 24.10.2013, un giudice della XIII Sezione civile ha formulato ad una Asl una proposta
conciliativa/transattiva per la definizione di una
controversia in materia di responsabilità sanitaria nella
quale la stessa viene chiamata a risarcire i danni in favore
degli eredi della vittima.
L'ordinanza assume un particolare rilievo ed interesse in
quanto non soltanto viene formulata la proposta, ma viene
previsto –in via ad essa subordinata– che qualora non si
dovesse pervenire all'accordo, le parti dovranno procedere
con la mediazione in sede stragiudiziale (e ciò in
attuazione dell'articolo 5, comma 2, del Dlgs 28/10). Quindi
un duplice percorso volto alla definizione conciliativa
della controversia che parte da una proposta del giudicante
quantitativamente determinata.
E la qualità di pubblica amministrazione di una delle parti
(nel caso di specie convenuta e sostanzialmente
"soccombente" nella proposta giudiziale) induce il tribunale
–ed è questo l'aspetto di maggior interesse– ad inserire
in motivazione talune precisazioni utili a responsabilizzare
l'Asl rispetto alla fase conciliativa/transattiva che viene
aperta dal giudice nel corso del processo.
In primo luogo, trattandosi di azienda sanitaria, il giudice
ricorda che, là dove ciò dovesse essere utile per pervenire
ad un accordo conciliativo, «non vi sono ostacoli a che il
funzionario delegato possa gestire la procedura e,
nell'ambito dei poteri attribuitigli, concludere un
accordo».
Ed ancora che, ricorrendone i presupposti, l'Asl potrà
osservare le indicazioni contenute nelle linee guida in
materia di mediazione di cui alla circolare Dfp 9/2012 per le
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del Dlgs 165/2001 (la circolare contiene princìpi che possono
essere considerati utili criteri applicativi anche per le
pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali).
Infine, nell'ordinanza si sottolinea con forza che
«l'eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica,
immotivatamente anodina e deresponsabilizzata
dell'amministrazione pubblica la potrebbe esporre a danno
erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato
accordo su una proposta del giudice o mediatoria
comparativamente valutata rispetto al contenuto della
sentenza».
Questa raccomandazione assume evidentemente una notevole
valenza soprattutto se si considera che in un caso simile
(ove la conciliazione era stata conclusa in mediazione e
l'Asl aveva aderito alla stessa mentre il primario del
reparto l'aveva contestata) la Corte dei conti siciliana,
con una recente sentenza (2719/2013), ha affermato la
responsabilità del primario per danno erariale per non aver
aderito alla conciliazione cui si era pervenuti tra tutte le
altre parti (inclusa la Asl) (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
APPALTI: LEGGE DI STABILITA'/
Imprese e p.a., appalti verdi.
Criteri ambientali minimi. Cauzioni scontate del 20%.
In preconsiglio il collegato che si
occupa anche di rifiuti.
Forniture verdi alla p.a., recupero semplificato dei
rifiuti, sconti Tares per favorire il compostaggio,
semplificazioni per le imprese che accedono alle procedure
di valutazione e autorizzazione ambientale, maggiore libertà
agli enti parco (anche per velocizzare i rapporti con le
imprese), responsabilità allargate che per chi affida
carichi da trasportare in nave, sanzioni rafforzate per i
comuni che non attueranno gli obiettivi di raccolta
differenziata imposti dall'Ue e obbligo per la p.a. di
rifornirsi con beni e servizi ambientalmente sostenibili.
Misure per l'ambiente, ma anche per la semplificazione degli
oneri delle imprese, a 360 gradi nel ddl ambientale
collegato alla «Legge di Stabilità» esaminato ieri in preconsiglio dei ministri. Un ddl che sembra voler dare una
volta per tutte piena attuazione al principio comunitario
«dalla culla alla tomba», riferito al ciclo di vita dei
beni.
Forniture verdi alla p.a. La spinta sugli appalti pubblici
verdi (cd. «green public procurement») avviene in una
duplice direzione. Da un lato trasformando in vero e proprio
obbligo per le p.a. quello di fondare gli appalti per il
soddisfacimento del proprio fabbisogno di beni e servizi sui
criteri ambientali. Dall'altro attirando verso le gare
pubbliche imprese ambientalmente già certificate.
Superando
l'originaria impostazione della legge istituiva del «Gpp»
(Legge 296/2006) che chiedeva alla p.a. di tenere conto
degli eco-criteri solo «ogniqualvolta sia possibile», lo
schema di ddl in discussione prevede ora il secco obbligo di
inserire nei bandi di gara i «criteri ambientali minimi»
elaborati (ed elaborandi) dal Minambiente per specifiche
categorie di prodotti in attuazione del dm 11.04.2008 (Ndr:
come recentemente aggiornato dm 25.07.2011), prodotti
tra cui attualmente figurano: servizi energetici per
edifici; attrezzature elettriche ed elettroniche d'ufficio;
carta per copia; ristorazione collettiva; servizi di igiene
e pulizia; prodotti tessili e arredi d'ufficio.
Ad attirare
verso le gare pubbliche verdi i fornitori eco-certificati
sarà invece lo sconto fino al 20% sulle cauzioni da fornire
a corredo delle relative previsto a favore delle imprese
griffate Emas (il marchio comunitario che garantisce la
qualità ambientale dell'azienda) ed Ecolabel (il marchio che
garantisce i prodotti offerti).
Recupero semplificato rifiuti. La spinta sul recupero
passerà innanzitutto dal coordinamento tra le norme tecniche
Ue di ultima generazione sul trattamento dei rifiuti e
quelle burocratiche nazionali sul regime autorizzatorio dei
relativi impianti. In base al ddl il trattamento dei rifiuti
individuati dai regolamenti Ue su cd. «end of waste»
(attualmente: rame, vetro, ferro, acciaio ed alluminio)
potrà infatti avvenire secondo le procedure semplificate
previste dal dlgs 152/2006 (avvio tramite mera comunicazione
in luogo di vera e propria autorizzazione).
Più compostaggio. Arriva lo sconto fino al 50% dell'attuale
«Tares» (proprio dalla legge di Stabilità destinata a
confluire nella «Trise») a favore di coloro che procederanno
(nei termini previsti dal «Codice Ambientale») all'autocompostaggio
dei propri rifiuti organici, e ciò sia a titolo individuale
che collettivo (tramite la nuova figura del cd.
«compostaggio di comunità»).
Stop incenerimento rifiuti. Ancora, a dirottare le condotte
verso il recupero sarà il previsto blocco di tutte le
istanze di autorizzazione per l'avvio di nuovi impianti di
incenerimento e coincenerimento di rifiuti, tranne che nelle
Regioni in emergenza ambientale. E questo fino all'adozione
del futuro dm con il quale il Minambiente individuerà
l'effettivo fabbisogno nazionale di ulteriori strutture a
ciò deputate.
Discariche in controtendenza. In controtendenza rispetto
alle descritte azioni appare invece essere la cancellazione,
prevista dallo stesso ddl, del divieto di conferire in
discarica rifiuti con «Pci» superiore a 13 mila kJ/kg.
Divieto che secondo lo storico dlgs 36/2003 dovrebbe
scattare dal prossimo 31.12.2013 in base all'ultima
delle proroghe che si protraggono dal 2010.
Mari e parchi. Estesa la responsabilità solidale in caso di
incidenti che coinvolgono navi: oltre all'armatore e al
proprietario della nave, risponderà anche il proprietario
del carico trasportato. Due le ragioni dell'ampliamento
delle norme di cui alla legge 979/1982: spingere i proprietari
di carichi inquinanti a scegliere vettori più sicuri e
avvalersi di idonei equipaggi; favorire la possibilità
dell'Erario di recuperare le spese antinquinamento sostenute
(il recupero spese è infatti attualmente particolarmente
oneroso, vista l'appartenenza dei mezzi utilizzati ai paesi
più disparati, il che significa per il minambiente grossa
difficoltà nel rintracciare i soggetti responsabili e
riscuotere coattivamente il credito).
Valutazioni e autorizzazioni ambientali. Semplificate le
procedure autorizzative in materia di scarichi in mare di
acque derivanti da attività di ricerca, prospezione,
coltivazione di idrocarburi in mare movimentazione di
fondali marini. In particolare viene eliminata la specifica
autorizzazione ministeriale alla posa di cavi e condotte
facenti parte di reti energetiche di interesse nazionale: la
valutazione d'impatto viene assorbita nella «Via» nazionale
e, in casi residuali, viene mantenuta la competenza
regionale. Istituita infine una Commissione tecnica
unificata per Via (valutazione d'impatto ambientale), Vas
(valutazione ambientale strategica) e Aia (autorizzazione
d'impatto ambientale)
(articolo ItaliaOggi del 23.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Differenziata, sanzioni per i comuni
Differimento dei termini per il raggiungimento degli
obbiettivi di raccolta differenziata dei rifiuti stabiliti
dalle norme del codice ambientale e sanzioni a carico dei
comuni che non conseguono risultati minimi di raccolta
differenziata nei tempi previsti dalla legge. In
quest'ultimo caso, infatti, è dovuta dall'amministrazione
inadempiente un'addizionale al tributo di conferimento in
discarica.
Lo prevede il collegato ambientale al ddl
Stabilità che premia invece i comuni virtuosi.
La norma,
quindi, differisce i termini per il raggiungimento degli
obiettivi di raccolta differenziata stabiliti dall'art. 205
del dlgs 152/2006, nel rispetto delle regole comunitarie che
impongono specifici obiettivi di recupero. La finalità è di
raggiungere un tasso di raccolta differenziata pari al 65%
alla fine dell'anno 2016.
La ratio del differimento dei termini al 2014, 2015 e
2016, come si evince dalla relazione illustrativa, è di «adeguare
il dato normativo al dato reale» e tende a evitare che
le amministrazioni locali possano essere sanzionate per il
mancato raggiungimento dei risultati nei tempi dettati dalle
norme di legge. Del resto, attualmente la percentuale media
nazionale di raccolta differenziata si attesta sul valore
del 39,9%.
Le cause sono da ricercare, in parte, nelle continue
modifiche normative che hanno cambiato le competenze nella
gestione dei rifiuti. La finalità della nuova disposizione,
dunque, è quella di incrementare la raccolta differenziata.
Non a caso sono stabilite misure premiali per i comuni
virtuosi e sanzioni per quelli che non rispettano la tabella
di marcia indicata nella norma. Per i comuni che conseguono
gli obiettivi minimi di raccolta differenziata, in anticipo
rispetto ai tempi fissati, il tributo di conferimento dei
rifiuti in discarica, disciplinato dall'art. 3, c. 24, legge
549/95, sarà dovuto nella misura del 20% del suo ammontare.
Invece per gli enti inadempienti, vale a dire per quelli che
non raggiungono le soglie minime imposte dalla stessa norma,
è applicata un'addizionale al tributo, che si configura di
fatto come una sanzione, rapportata alla percentuale di
raccolta differenziata. Per esempio, è dovuta nella misura
del 10% se gli obiettivi non sono conseguiti per una
quantità non superiore al 5% alla scadenza del primo termine
annuale di adempimento
(articolo ItaliaOggi del 23.10.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio telecamere decise a maggioranza.
Il condominio è un luogo di stretta convivenza e quindi
bisogna saper dosare la trasparenza nella gestione della
cosa comune e il diritto alla riservatezza di ciascuno,
tutelato dal Codice della privacy. Così l'amministratore
dovrà saper conciliare di volta in volta queste due
necessità –che la legge considera ugualmente importanti–
senza che l'una prevalga sulla seconda o possa danneggiarla.
Il nuovo articolo 1122-ter del Codice civile, introdotto
dalla riforma del condominio (legge 220/2012), si occupa per
la prima volta della videosorveglianza. E stabilisce che
l'assemblea condominiale, con la maggioranza degli
intervenuti che rappresentino almeno metà dei millesimi, può
deliberare l'installazione di videocamere sulle parti comuni
dell'edificio.
Il Garante della privacy ha giustamente distinto tra le
riprese svolte dai singoli condomini a scopi personali e
quelle che invece vengono effettuate dal condominio per
controllare le sue parti comuni.
Il primo caso si riferisce a quando il condomino intende
sorvegliare la propria porta di casa oppure il posto auto.
Dato che le immagini non verranno diffuse né comunicate a
terzi, non si applica il Codice della privacy. Quindi, per
esempio, non c'è l'obbligo di segnalare con un cartello la
presenza della videocamera. L'importante è che il sistema di
videosorveglianza sia installato in modo tale che
l'obiettivo della telecamera riprenda unicamente la porta
d'ingresso e non il pianerottolo, così come la videocamera
posta nel box dovrà riprendere unicamente il proprio posto
auto e non l'intero garage.
Invece, nel caso di telecamere poste dal condominio per
sorvegliare le parti comuni, dovranno essere adottate tutte
le misure e le precauzioni previste dal Garante, cioè:
- le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate
dovranno essere informate con appositi cartelli delle
presenza delle telecamere;
- nel caso di impianti collegati alle forze dell'ordine,
sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo
evidenzi;
- le immagini registrate potranno essere conservate per un
periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24-48 ore, fatte
salve specifiche esigenze, come la chiusura di esercizi
oppure di uffici che hanno sede nel condominio, o di
ulteriore conservazione in relazione ad indagini della
polizia o comunque di natura giudiziaria;
- le telecamere condominiali dovranno riprendere solo le
aree comuni da controllare, evitando la ripresa di luoghi
circostanti quali strade, altri edifici, edifici commerciali
eccetera;
- i dati raccolti dovranno essere protetti con idonee e
preventive misure di sicurezza, in modo da consentirne
l'accesso solo alle persone autorizzate oppure al titolare o
al responsabile del trattamento dei dati (che ben potrà
essere anche lo stesso amministratore del condominio).
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, comporterà:
- l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (lo prevede
l'articolo 11, comma 2, del Codice della privacy);
- l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del
trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1,
lettera c, del Codice);
- l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed
esse collegate (articoli 161 e seguenti del Codice), oltre
ovviamente ad eventuali richieste di risarcimento da parte
di eventuali soggetti danneggiati.
Lo stesso si può dire in relazione ai videocitofoni che
rilevano immagini, talvolta anche tramite registrazione.
Se il sistema è installato esclusivamente a fini personali e
le immagini non sono destinate alla comunicazione
sistematica o alla diffusione, il Garante non interviene
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013). |
APPALTI: I debiti della p.a. salvano il Durc. Con la certificazione
dei crediti garantita la regolarità.
Le istruzioni del ministero del lavoro
sulle procedure per il rilascio del documento.
Durc regolare alle imprese con debiti contributivi se
vantano crediti nei confronti di p.a. A tal fine i crediti
devono essere certi, liquidi ed esigibili e d'importo non
inferiore ai debiti contributivi in base alla certificazione
rilasciata dalla p.a. debitrice. La «regolarità» così
raggiunta consentirà alle imprese di poter continuare ad
operare, ma non limita in alcuna misura il potere
sanzionatorio agli istituti di previdenza e alle casse
edili, né tantomeno quello di attivare la procedura di
riscossione coattiva.
Lo precisa, tra l'altro, il Ministero del lavoro nella
circolare 21.10.2013 n. 40/2013 emessa ieri.
Crediti e debiti. Le istruzioni concernono la possibilità di
ottenere un Durc regolare da parte delle imprese che, in
opposizione a scoperture contributive, vantano crediti nei
confronti di pubbliche amministrazioni (enti pubblici,
regioni, enti locali, Ssn). Una possibilità prevista dal dl
n. 52/2012 e disciplinata dal dm 13 marzo 2013 ai fini della
certificazione dei crediti pubblici. Il ministero spiega
che, ai fini del rilascio del Durc, la scopertura
contributiva deve risultare «saldabile» in pieno con i
crediti pubblici i quali, peraltro, devono essere certi,
liquidi ed esigibili. Se, dunque, i crediti risultano
inferiori al debito contributivo il Durc sarà comunque
rilasciato «di non regolarità».
La dichiarazione dei crediti. Al fine del rilascio del Durc
(in tabella gli elementi caratteristici) è necessario che il
soggetto intestatario dichiari la presenza di crediti
certificati nei confronti della pa, cosa che andrà fatta
evidentemente nei riguardi della p.a. e/o del soggetto
titolare del procedimento amministrativo per il quale
occorre il Durc stesso.
In particolare, l'interessato deve
dichiarare di vantare crediti nei confronti della pa che
hanno avuto la certificazione tramite l'apposita piattaforma
informatica, precisandone gli estremi (amministrazione, data
rilascio, protocollo, codice piattaforma). Per evitare di
ripetere la dichiarazione in ogni procedimento,
l'interessato può rendere la dichiarazione sui crediti alla
cassa edile o a un istituto previdenziale che ne terranno
conto in ogni richiesta di emissione di Durc anche se
proveniente da altri (per esempio da una stazione
appaltante).
Controllo incrociato. Come da indicazioni del ministero
dell'economia, spiega ancora la circolare, gli enti
previdenziali e le casse edili dovranno verificare per mezzo
della predetta piattaforma e attraverso l'apposito codice
l'esistenza delle certificazioni di credito, anche perché
l'emissione del Durc resta possibile fintantoché il credito
resta esistente a copertura dei debiti.
La piattaforma
consente tale verifiche, nonché la sua effettiva
disponibilità al momento della richiesta e dell'emissione
del Durc. Nelle more dell'avvio del descritto procedimento
(non ancora attivo), il ministero stabilisce che la verifica
vada fatta sulla base delle certificazioni rilasciate dalla
piattaforma e trasmesse per Pec o esibite sotto la
responsabilità anche penale del soggetto titolare del
credito certificato (cioè l'impresa richiedente il Durc),
agli istituti e/o alle casse edili.
Durata di 120 giorni. Il ministero, infine, chiarisce che
questa disciplina non riveste un carattere di specialità
rispetto alle disposizioni ordinarie per cui rimane che
anche il Durc emesso ai sensi della dl n. 52/2012 ha una
durata di 120 giorni dalla data del rilascio
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dl pubblico impiego.
Da gennaio 2014 concorsi unici per dirigenti p.a..
Dal 01.01.2014 i «dirigenti e le figure professionali
comuni» per le Pubbliche amministrazioni verranno scelti
mediante «concorsi pubblici unici», quindi non più concorsi
per ogni amministrazione.
Lo stabilisce un emendamento
approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Lavoro
della camera, presentato dai deputati del Pd al decreto p.a.
(101/2013). I nuovi concorsi unici saranno organizzati dal
dipartimento della Funzione pubblica e dalla commissione per
l'attuazione del progetto Ripam.
Le amministrazioni pubbliche potranno assumere nuovo
personale solo «attingendo alle nuove graduatorie di
concorso, fino al loro esaurimento» e s'impegnano «a
programmare le quote annuali di assunzioni». Con
l'emendamento, spetterà invece alle singole p.a. l'avvio di
nuovi concorsi per il reclutamento «di specifiche
professionalità». Soppresso poi l'articolo 49-ter del
decreto Fare in tema di «semplificazioni per i contratti
pubblici), licenziato ad agosto dal Parlamento.
L'articolo -ora soppresso- prevedeva che la «documentazione
comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario» per i
contratti pubblici sottoscritti dalle p.a., fosse «acquisita
esclusivamente attraverso la banca dati» dei contratti
pubblici, prevista dal dl 163/2006.
Un'altra modifica approvata prevede che «Nel caso in cui
le pubbliche amministrazioni non siano dotate di un numero
di autovetture sufficienti per garantire la corretta
erogazione dei servizi», il dipendente potrà utilizzare
l'auto privata, sempre «che risulti economicamente più
conveniente». L'autorizzazione avrà «il limitato effetto
di ottenere la copertura assicurativa» e «un indennizzo»
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65%, esclusi stufe e caminetti.
Le faq di Enea.
La detrazione del 65% non è valida per l'installazione di
una caldaia a condensazione in sostituzione di un caminetto
e una stufa a legna. Inoltre, un edificio anche rurale, per
fruire del bonus, deve essere esistente e avere un impianto
di riscaldamento funzionante. Se questa condizione fosse
soddisfatta, occorre ricordare che il prerequisito per
accedere alle detrazioni è sempre il conseguimento di un
risparmio energetico e che questo è difficile da raggiungere
nella dismissione di impianti a biomassa in quanto questa è
considerata fonte fossile solo al 30%.
Questa è la risposta
fornita dall'Enea alla
Faq. n. 37, con la quale si ricorda
che per edificio vale la definizione di cui all'art. 2 del dlgs n. 192/2005.
Ed è «esistente», se risulta accatastato o
se almeno è stata presentata domanda di accatastamento e se
viene pagata l'Imu (ex Ici), se dovuta. Inoltre, si ritiene
che un impianto termico è un impianto tecnologico destinato
ai servizi di climatizzazione invernale o estiva degli
ambienti, con o senza produzione di acqua calda sanitaria,
indipendentemente dal vettore energetico utilizzato,
comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione
e utilizzazione del calore nonché gli organi di
regolarizzazione e controllo.
Sono compresi negli impianti termici gli impianti
individuali di riscaldamento. Non sono considerati impianti
termici apparecchi quali: stufe, caminetti, apparecchi per
il riscaldamento localizzato a energia radiante. Tali
apparecchi, se fissi, sono tuttavia assimilati agli impianti
termici quando la somma delle potenze nominali del focolare
degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare
è maggiore o uguale a 5 kW.
Non sono considerati impianti termici i sistemi dedicati
esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al
servizio di singole unità immobiliari a uso residenziale ed
assimilate. Infine, anche qualora le precedenti condizioni
fossero soddisfatte, occorre ricordare che il prerequisito
per accedere alle detrazioni è sempre il conseguimento di un
risparmio energetico
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti senza vincoli.
Non serve l'interesse legittimo per conoscere dati personali.
Il Garante sul caso di un docente
che ha chiesto l'applicazione del codice sulla privacy.
Accesso agli atti senza vincoli, se i documenti
amministrativi ai quali l'interessato chiede l'accesso
contengono i dati personali del richiedente.
É quanto si
evince da un provvedimento emesso il 18 ottobre scorso dal
Garante della privacy in accoglimento di un ricorso
presentato da una docente (n. 365 reperibile su:
http://www.garanteprivacy.it).
L'insegnante aveva avuto notizia di alcuni colloqui che si
erano verificati tra il dirigente e alcuni genitori nei
quali si sarebbe parlato di alcune situazioni personali che
la riguardavano. Di tali colloqui era stato redatto un
verbale. Ma il documento non era stato inserito nel
fascicolo della docente perché, a seguito di tali colloqui,
non era stato avviato a suo carico alcun procedimento
collegato ai fatti narrati nel verbale. E anche per questo
motivo la docente si era risolta a chiedere l'accesso
invocando le disposizioni contenute nel codice della privacy
e non le disposizioni contenute nella legge sulla
trasparenza amministrativa.
Per accedere agli atti
depositati presso l'amministrazione scolastica la legge
241/1990 prevede, infatti, che il richiedente l'accesso debba
necessariamente vantare un interesse giuridico qualificato
(articoli 22 e seguenti). Ma se l'interessato vuole
semplicemente conoscere quali dei propri dati personali
siano stati oggetto di discussione tra i genitori degli
alunni e il dirigente scolastico, l'interesse qualificato
non è necessario. E quindi basta presentare una mera
istanza. Tale facoltà è prevista dal codice della privacy
(decreto legislativo 196/2003).
In particolare, all'articolo 7, il codice dispone che
l'interessato ha diritto di ottenere la conferma
dell'esistenza o meno di dati personali che lo riguardano,
anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in
forma intelligibile. Ma quando l'estrazione dei dati risulta
particolarmente difficoltosa, il comma 4 dell'articolo 10
prevede che il riscontro alla richiesta dell'interessato può
avvenire anche attraverso l'esibizione o la consegna in
copia di atti e documenti contenenti i dati personali
richiesti. E per questi motivi il garante, Antonello Soro,
ha accolto il ricorso ed ha disposto la consegna della
documentazione contenente i dati personali della
richiedente.
Lo stesso articolo 10, però, dispone al comma 5 che il
diritto di ottenere la comunicazione in forma intelligibile
dei dati non riguarda dati personali relativi a terzi, salvo
che la scomposizione dei dati trattati o la privazione di
alcuni elementi renda incomprensibili i dati personali
relativi all'interessato. E quindi il Garante ha ordinato
all'istituzione scolastica convenuta di comunicare alla
ricorrente i dati personali che riguardano la docente,
contenuti nel verbale oggetto della richiesta d'accesso e
nelle altre dichiarazioni rese dai genitori al dirigente
scolastico, previo oscuramento dei dati riferiti a terzi,
entro sessanta giorni dalla ricezione del provvedimento.
L'autorità per la protezione dei dati personali ha ricordato
alla scuola la necessità di dare conferma all'autorità
stessa dell'avvenuto adempimento del provvedimento (o
dell'avvenuta proposizione dell'opposizione) entro sessanta
giorni dalla ricezione del medesimo. Adempimento, questo,
che è espressamente previsto dall'articolo 157 del codice e
il relativo inadempimento è punito con una sanzione
amministrativa. Ed ha avvertito l'amministrazione scolastica
che l'inosservanza dei provvedimenti del Garante adottati in
sede di decisione dei ricorsi è punita ai sensi
dell'articolo 170 del codice in materia di protezione dei
dati personali.
Infine, il Garante ha fatto presente che avverso il
provvedimento può essere proposta opposizione all'autorità
giudiziaria ordinaria, con ricorso depositato al tribunale
ordinario del luogo dove ha la residenza il titolare del
trattamento dei dati, entro il termine di trenta giorni
dalla data di comunicazione del provvedimento stesso, ovvero
di sessanta giorni se il ricorrente risiede all'estero
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2013). |
APPALTI: Debiti
sui contributi e crediti verso la Pa: Durc rilasciabile.
Le aziende che
hanno dei debiti nei confronti degli Istituti previdenziali
e assicurativi nonché verso le Casse edili ma,
contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi delle
pubbliche amministrazioni, possono ottenere il Durc.
Lo
chiarisce il ministero del Lavoro con la
circolare 21.10.2013 n. 40/2013
diffusa ieri. Nel documento vengono forniti i primi
chiarimenti in merito alla disciplina contenuta nel decreto
ministeriale del 13 marzo scorso. Si tratta delle
disposizioni attuative delle previsioni contenute nel comma
5 dell'articolo 13-bis del Dl 52/2012 (convertito dalla
legge 94/2012).
La norma regolamenta il rilascio del Durc (Documento unico
di regolarità contributiva) in presenza di crediti
certificati certi, liquidi ed esigibili vantati nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, di importo almeno
pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati
da parte di una stessa impresa.
La chiave
Dunque la certificazione dell'esistenza del credito verso la
pubblica amministrazione è la chiave che apre la porta al
Durc. Quella regolamentata dal Dm del 13.03.2013 (oggetto
della circolare in commento) è una procedura speciale
secondo cui le aziende possono ottenere la regolarità
contributiva anche se, in realtà, presentano una posizione
debitoria aperta, non avendo provveduto regolarmente al
versamento dei contributi e/o dei premi assicurativi.
Va da sé che il particolare "salvacondotto" può operare solo
qualora i crediti dell'impresa certificati verso la pubblica
amministrazione siano di importo almeno pari alle somme non
versate dalla stessa impresa agli Istituti e/o alle Casse.
Le due procedure
Il meccanismo è semplice se a chiedere il Durc è lo stesso
soggetto che, poi, potrà avvalersene. Quando –al contrario– la regolarità contributiva viene richiesta d'ufficio,
l'azienda dovrà dichiarare l'esistenza del credito,
indicando la data di rilascio della certificazione, il
numero di protocollo, l'importo del credito stesso e
l'amministrazione che ha rilasciato la relativa
certificazione. Dovrà, inoltre, fornire un codice che
permetta, a tutti coloro che ne hanno interesse, di
verificare l'esistenza della certificazione, attraverso la
cosiddetta piattaforma informatica.
Quest'ultima è un archivio a cui accedono gli Istituti
previdenziali e le Casse edili per verificare l'esistenza
del credito. Dalla piattaforma si può stampare un documento
con gli estremi del credito certificato con possibilità di
verificare la sua effettiva disponibilità al momento della
richiesta e dell'emissione del Durc.
Il regime transitorio
In attesa che tutto il procedimento vada a regime, il
ministero ricorda che la verifica verrà effettuata sulla
base delle certificazioni rilasciate dalla piattaforma
informatica trasmesse via Pec o direttamente esibite; in tal
caso, il tutto soggiace alla responsabilità anche penale del
soggetto titolare del credito certificato.
Pur trattandosi di una procedura speciale di rilascio del
Durc, il ministero afferma che il suo termine di validità
resta fissato in 120 giorni dalla data del rilascio. Il
documento di regolarità che verrà emesso riporterà la
dicitura «ex art. 13-bis, comma 5, D.L. n. 52/2012»,
unitamente alle altre informazioni identificative del
credito.
Nel documento, i tecnici ministeriali ricordano –tra
l'altro– che il credito certificato può essere ceduto o se
ne può richiedere un'anticipazione ma solo se è stato
estinto il debito indicato sul Durc. In tal caso, dovrà
essere prodotto un ulteriore documento di regolarità
contributiva aggiornato, alla banca o all'intermediario
finanziario (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2013). |
TRIBUTI: LEGGE DI STABILITA' 2014/
La Trise la paga anche l'inquilino.
Per la Tasi l'importo dovuto dall'affittuario
va dal 10 al 30%. Vita breve per la Tari.
Dal prossimo anno i contribuenti saranno tenuti a pagare il
tributo sui servizi comunali (Trise). Il nuovo balzello
contiene al suo interno due tributi diversi: il primo,
denominato Tari, serve a coprire i costi relativi al
servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di
privativa comunale; mentre il secondo, denominato Tasi, è
diretto a recuperare i costi che l'amministrazione comunale
sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto,
illuminazione pubblica e così via).
Sono queste le
previsioni contenute nella bozza della legge di stabilità
approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri.
Tari. Dunque la Tares va in soffitta e lascia il posto al
nuovo regime di prelievo, che dovrà coprire integralmente i
costi del servizio. Questa tassa dovrebbe avere vita breve,
per lasciare poi il posto alla Tarip, basata su sistemi
puntuali di misurazione dei rifiuti prodotti. Dovrebbe
infatti prossimamente essere emanato un regolamento
attuativo del ministro dell'ambiente che dovrà prevedere dei
criteri di misurazione puntuale dei rifiuti prodotti, nel
rispetto del principio comunitario «chi inquina paga», per
collegare il pagamento al servizio reso all'utente.
La tassa
è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo
locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono
adibiti. Non sono soggette al prelievo le aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni o di locali
tassabili, nonché le aree comuni condominiali a meno che non
siano occupate in via esclusiva. Quindi, viene confermata
l'esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie
di locali tassabili, cioè delle cosiddette aree non
operative. Sono obbligati in solido al pagamento anche i
componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune
locali e aree. Come per la Tares viene confermato il
criterio della prevalenza, vale a dire il tributo va pagato
al comune nel cui territorio insiste, interamente o
prevalentemente, la superficie degli immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare
la superficie calpestabile e non la superficie catastale.
Considerato che per la maggior parte degli immobili non
esiste ancora la superficie catastale, viene consentito ai
comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per
Tarsu e Tia, calcolando la tassa sulla superficie
calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria
(classificati nelle categorie A, B e C). Si passerà alla
commisurazione del tributo sulla superficie catastale solo
quando verranno allineati i dati degli immobili a
destinazione ordinaria e quelli riguardanti la toponomastica
e la numerazione civica, interna e esterna, di ciascun
comune.
Per le occupazioni temporanee il tributo è a carico dei
titolari degli immobili. Si considerano temporanee le
occupazioni di durata non superiore a sei mesi nel corso
dello stesso anno solare. Come per la Tares, l'obbiettivo è
far pagare il proprietario o il titolare di altro diritto
reale sull'immobile anche quando viene utilizzato da
inquilini o comodatari. Mentre, le regole contenute nella
disciplina Tarsu e Tia non imponevano questo trattamento per
gli usi temporanei.
Tasi. La Tasi serve a coprire i costi per i servizi
indivisibili sostenuti dai comuni. Anche i titolari di
immobili adibiti ad abitazione principale, esonerati dall'Imu,
dovranno versare l'imposta con un'aliquota massima del 2,5
per mille, calcolata sullo stesso valore dell'immobile
derivante dalla rendita catastale rivalutata. Il tributo è
infatti dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi
titolo fabbricati, aree scoperte e edificabili. Qualora vi
siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in
solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria.
In caso
di detenzione temporanea di durata non superiore a sei mesi
nel corso dello stesso anno solare, il balzello è dovuto dal
titolare dell'immobile. A differenza dell'Imu, però, la
tassa sui servizi la paga anche l'inquilino nella misura che
varia dal 10 al 30%. La scelta della percentuale di
tassazione è demandata ai comuni e deve essere stabilita con
regolamento. Il tributo dovrà essere calcolato sul valore
dell'immobile preso a base per la determinazione dell'Imu.
Pertanto, occorre fare riferimento alla rendita catastale
rivalutata per i fabbricati e al valore di mercato per le
aree edificabili.
---------------
Limiti rigidi per la tassa sui servizi comunali.
I titolari di immobili adibiti ad abitazione principale il
prossimo anno dovranno versare la tassa sui servizi comunali
(Tasi) con un'aliquota massima del 2,5 per mille. Le
amministrazioni locali, infatti, possono variare l'aliquota
dall'1 al 2,5 per mille, fermo restando che hanno anche il
potere di azzerarla. Anche per le prime case di pregio,
classificate nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili
di lusso, ville e castelli), non esonerate dal pagamento
dell'Imu, il legislatore si è premurato di fissare un tetto
massimo all'aliquota.
I titolari di questi immobili non
dovranno pagare complessivamente per i due tributi (Imu e
Tasi) più di quanto dovuto per l'imposta municipale con
l'aliquota massima del 6 per mille. La stessa regola vale
per le altre tipologie di immobili e seconde case, per le
quali viene imposto come limite l'attuale aliquota massima
del 10,6 per mille.
Abitazioni principali. Spetterà ai sindaci decidere se gli
immobili adibiti a abitazione principale dovranno essere
tassati e in che misura. I fabbricati che per il 2013 hanno
fruito dell'abolizione del pagamento dell'acconto Imu
saranno tenuti a pagare la Tasi nella misura deliberata
dall'ente che va dall'1 al 2,5 per mille.
Immobili di lusso e secondo case.
Viene confermata l'imposizione sugli immobili di lusso anche
se destinati ad abitazione principale. Viene imposta
l'aliquota massima del 6 per mille, vale a dire quella
attualmente prevista per l'imposta municipale. Pertanto, la
somma dovuta per i due tributi non può superare quanto
dovuto oggi dal contribuente calcolando l'imposta con
l'aliquota massima
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: LEGGE DI STABILITA' 2014/
Bonus edilizi prorogati fino al 2016.
Arriva anche la proroga delle detrazioni fiscali per
recuperi edilizi e mobili. Intervenendo sugli artt. 14-16
del dl 63/2013, il ddl Stabilità per il 2014 allunga i
termini fino al 2015 per fruire delle detrazioni relative
agli interventi di ristrutturazione edilizia, di
riqualificazione energetica e agli interventi effettuati dai
condomini, anche se da un anno all'altro le detrazioni
subiscono una riduzione. Anche per il bonus mobili il testo
del disegno di legge prevede una proroga, che è stata
stabilita fino al 2014.
Ristrutturazioni. Il ddl prevede che per gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio (art. 16), fino a un
ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96 mila
euro per unità immobiliare, la detrazione Irpef è del: 50%
per le spese sostenute dal 26/06/2012 al 31/12/2014; 40% per le
spese sostenute dall'01/01/2015 al 31/12/2015.
Relativamente alla riqualificazione energetica (art. 14, c.
1 e 2), il legislatore ha previsto la detrazione Irpef/Ires
del: 65% delle spese sostenute dal 06/06/2013 al 31/12/2014; 50%
delle spese sostenute dall'01/01/2015 al 31/12/2015. Ciò consente
a chi ha avviato i lavori nel 2013 ma non riesce a finire di
pagare entro l'anno di poter concludere i pagamenti nel 2014
senza perdere l'opportunità della detrazione.
Per quanto riguarda gli interventi relativi a parti comuni
di edifici condominiali di cui agli artt. 1117 e 1117-bis
c.c. o che interessano tutte le unità immobiliari di cui si
compone il singolo condominio (art. 14, c. 1), la detrazione
è prevista nella misura del: 65% delle spese sostenute dal 06.06.2013 al 30.06.2015; 50% delle spese sostenute dal
01.07.2015 al 30.06.2016.
Misure antisismiche. Confermate fino al 2015 anche le
agevolazioni per le misure antisismiche previste dall'art.
16, comma 1-bis, del dl 63/2013. Con il ddl Stabilità la
misura della detrazione, che può essere fruita sia dai
soggetti passivi Irpef che dai soggetti passivi Ires, è pari
a: 65% delle spese sostenute fino al 31.12.2014; 50%
delle spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015.
Sono agevolabili gli interventi eseguiti su edifici
ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e
2), di cui all'Opcm 20.03.2003 n. 3274 e che si
riferiscono a costruzioni adibite ad abitazione principale o
ad attività produttive. L'agevolazione compete anche
rispetto alla redazione della documentazione obbligatoria
atta a comprovare la sicurezza statica dei fabbricati,
nonché per la realizzazione degli interventi necessari al
rilascio di tale documentazione.
Bonus mobili. Novità anche per il bonus mobili, introdotto
dall'art. 16, comma 2, del dl n. 63/2013, che viene prorogato
per tutto il 2014. In seguito alla modifica disposta dal ddl
Stabilità, la detrazione Irpef del 50% può essere fruita per
le spese sostenute dal 06/06/2013 fino al 31/12/2014 per
l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe
non inferiore alla A+, nonché A per i forni, per le
apparecchiature per le quali sia prevista l'etichetta
energetica, finalizzata all'arredo dell'immobile oggetto di
ristrutturazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: Preavvisi stradali con lo sconto.
Riduzione del 30% finché non viene notificato il verbale.
Le indicazioni sul pagamento delle
sanzioni nella nota del ministero dell'interno.
Anche il semplice preavviso di divieto di sosta lasciato sul
veicolo può essere pagato con lo sconto del 30% e senza
ulteriori spese finché non viene notificato il verbale di
contestazione.
Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot..
Il parere si è reso necessario per dare un indirizzo univoco
e autorevole a tutti gli organi di polizia stradale, dopo
che alcuni Comandi di polizia locale avevano espresso dubbi
sull'applicabilità della riduzione del 30% ai preavvisi di
accertamento. La legge n. 98 del 09.08.2013, che ha
convertito il decreto legge del fare n. 69 del 21.06.2013, ha modificato l'art. 202 del codice della strada
disponendo che la somma da pagare per le violazioni stradali
è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque
giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
Il
beneficio della riduzione non si applica però alle
infrazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura
ridotta, alle violazioni per cui è prevista la sanzione
accessoria della confisca del veicolo o della sospensione
della patente di guida e alle violazioni stradali non
incluse nel codice della strada, ma previste dalla
legislazione complementare.
Preavvisi. Una linea dottrinaria, benché minoritaria, ha
sostenuto che il testo del nuovo art. 202 Cds, facendo
letteralmente riferimento alla contestazione o
notificazione, contempla il beneficio dello sconto con
esclusivo riferimento ai verbali, ad esclusione dunque dei
preavvisi.
Con la conseguenza che chi intende pagare subito il
preavviso dovrebbe pagare l'intero importo della sanzione
oppure attendere la notificazione postale della multa per
poter pagare con la riduzione. Questa tesi però contrasta
con i principi di semplificazione contenuti nel decreto
legge del fare. Come ha chiarito il Ministero dell'interno
con il parere del 07.10.2013, appare più coerente con lo
spirito della nuova disposizione applicare il beneficio
della riduzione del 30% anche nella fase intermedia fra il
momento dell'accertamento risultante dal preavviso e il
momento della contestazione o notificazione del verbale.
Ricorsi. In caso di ricorso contro una multa stradale non è
ammesso il pagamento con lo sconto del 30%. Infatti, il
pagamento in misura ridotta di cui all'art. 202, comma 1,
sulla quale va calcolata l'ulteriore riduzione, è
incompatibile sia con la presentazione del ricorso al
prefetto, secondo l'espressa previsione di cui all'art. 203,
comma 1, sia con il deposito dell'opposizione al giudice di
pace secondo quanto disposto dall'art. 204-bis, comma 1, del
codice della strada.
Oltre a ciò, in caso di rigetto dei
ricorsi, viene definita dall'autorità competente la somma da
pagare: infatti, il prefetto ingiunge il pagamento di una
somma non inferiore al doppio del minimo edittale, mentre il
giudice di pace ridetermina l'importo con una sentenza che
va eseguita.
Rateizzazione. Come precisato dalla circolare del Ministero
dell'interno n. 300/A/7065/13/101/20/21/1 del 16.09.2013 il pagamento con lo sconto del 30% non è applicabile in
caso di rateizzazione della sanzione amministrativa di cui
all'art. 202-bis del Codice della strada. Infatti, in tali
casi, la stessa richiesta esclude la volontà di provvedere
al pagamento immediato entro il termine di cinque giorni,
che costituisce il presupposto per l'applicazione del
beneficio.
Pagamento: casi particolari. Cosa succede se entro cinque
giorni dalla contestazione o notificazione il trasgressore o
l'obbligato in solido paga l'importo non scontato pur avendo
diritto al beneficio? Se l'interessato presenta apposita
istanza, è legittima la a restituzione dell'indebito nella
parte eccedente rispetto a quanto dovuto. E come comportarsi
se la possibilità di pagare la sanzione con lo sconto del
30% non è indicata nel verbale? La mancanza dell'indicazione
non inficia la validità dell'atto, ma l'interessato può
chiedere di essere ammesso a pagare l'importo ulteriormente
ridotto.
E se, dopo la contestazione diretta al
trasgressore, che non paga la sanzione, il verbale viene
notificato per posta al responsabile in solido entro novanta
giorni, il trasgressore può essere ammesso a pagare con lo
sconto presentandosi in comando? Sì, il trasgressore può
pagare entro i cinque giorni dalla successiva notificazione
postale all'obbligato solidale, in quanto non è previsto che
il trasgressore dichiari a quale titolo effettui il
versamento.
---------------
Ammessa anche l'assicurazione.
Oltre alle importanti indicazioni relative all'applicabilità
dello sconto del 30% ai preavvisi, il ministero dell'interno
è dovuto intervenire più volte per fornire chiarimenti per
le violazioni attinenti alla copertura assicurativa dei
veicoli. Con al prima circolare 12.08.2013 n. 300/A/6333/13/101/20/21/1
il ministero aveva subito evidenziato che
la riduzione del 30% è ammessa in caso di pagamento previsto
dall'art. 193, comma 3, del Codice della strada,
applicandolo sull'importo ottenuto dopo la riduzione a un
quarto.
Con la circolare 16.09.2013 n. 300/A/7065/13/101/20/21/1 il ministero ha fornito indicazioni più
dettagliate. Il pagamento della sanzione amministrativa in
forma ulteriormente ridotta del 30% è ammesso anche nei casi
indicati dall'art. 193, comma 3, Cds, di scadenza della
copertura assicurativa da meno di 30 giorni o di
rottamazione del veicolo entro i 30 giorni successivi
all'accertamento. In tali casi, lo sconto previsto dall'art.
202, comma 1, si applica sulla somma dovuta a titolo di
sanzione amministrativa già ridotta ad un quarto per effetto
del concretizzarsi delle predette condizioni.
Per quanto riguarda la copertura assicurativa scaduta da
meno di 30 giorni, il pagamento dell'importo predetto,
scontato del 30%, ha effetto estintivo dell'obbligazione
solo qualora il pagamento avvenga nei cinque giorni
successivi alla contestazione o notificazione della
violazione e la riattivazione della copertura assicurativa
avvenga entro il termine di trenta giorni dalla scadenza.
Invece, per quanto riguarda il caso di rottamazione del
veicolo entro trenta giorni dall'accertamento della
violazione, il trasgressore deve versare la cauzione per
intero al momento della richiesta di rottamazione che, per
accedere al beneficio dello sconto ulteriore del 30%, va
versata entro i cinque giorni successivi alla contestazione
o notificazione della violazione.
Conseguentemente, dopo che la rottamazione è avvenuta con i
modi richiesti dalla norma, al trasgressore viene restituita
la cauzione trattenendo una somma pari a 1/4 della sanzione
ulteriormente scontato del 30%
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, obiettivo prevenzione.
Spinta su ecocompatibili, appalti verdi, certificazione.
Le opportunità per le imprese dal decreto Minambiente che
traccia il programma 2020.
Ecoprogettazione, riparazione e riutilizzo, appalti pubblici
verdi, filiera corta, certificazione ambientale.
Queste le
parole chiave del nuovo «Programma nazionale di prevenzione
dei rifiuti» presentato lo scorso 10.10.2013 dal
ministero dell'ambiente. Formalizzato con un decreto
attuativo del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale»)
e della direttiva madre in materia (la 2008/98/Ce), il nuovo
Programma fissa gli obiettivi di riduzione dei rifiuti da
raggiungere entro il 2020 indicando (anche alle regioni, che
tale documento devono declinare nei propri piani entro il 12.12.2013) le misure da realizzare.
Obiettivi di prevenzione. Al fine di dissociare crescita
economica e impatti ambientali da produzione di rifiuti, gli
obiettivi di riduzione da raggiungere per il 2020 sono dal
provvedimento in parola (rubricato come «decreto
direttoriale 07.10.2013») tutti agganciati al fluttuare
del pil, imponendo un abbattimento della loro produzione tra
il 5 e il 10% (rispettivamente per urbani/speciali non
pericolosi da un lato e per speciali pericolosi dall'altro)
in relazione a ogni unità di prodotto interno lordo.
Misure generali. Ricco il panorama delle misure previste dal
dicastero per raggiungere tali target, misure che possono
tradursi in nuove opportunità commerciali per le imprese
interessate. A livello generale, il nuovo Piano indica
innanzitutto nell'ecoprogettazione dei beni e nel riutilizzo
di quelli già sul mercato la strada maestra per la
prevenzione della produzione dei rifiuti, annunciando
proprio in relazione a quest'ultima misura l'arrivo di
decreti ministeriali che agevoleranno la nascita di centri
per la riparazione dei beni a fine vita.
Altra misura sulla
quale appare spingere il dicastero è l'acquisto di prodotti
ecocompatibili da parte degli uffici pubblici, laddove
sottolinea nel Programma come la nuova e vigente normativa
sugli «appalti pubblici verdi» (dall'inglese Gpp: green
public procurement) recata dal dm 10.04.2013 chieda alla
p.a. di soddisfare entro il 2014 almeno il 50% del proprio
fabbisogno di beni e servizi con prodotti «eco» (che nella
logica di tale ultimo decreto, lo ricordiamo, sono i
prodotti dal «minor costo ambientale» possibile, e non dal
semplice «minor prezzo»).
Misure speciali. Mutuandole dall'ultimo «Waste prevention
programme» pubblicato dall'Ue lo scorso ottobre 2012, il
Piano nazionale appresta alcune misure prioritarie da
indirizzare a tipologie critiche di rifiuti, come i
biodegradabili, i cartacei e quelli da imballaggi, da
prodotti elettronici, da demolizioni edilizie. In relazione
ai biodegradabili il Minambiente promette una lubrificazione
dell'attuale normativa per permettere una più agevole
gestione degli scarti alimentari come sottoprodotti (in
luogo di rifiuti), strizzando altresì l'occhio sia alla
filiera corta e ai marchi di qualità ambientale.
Sui rifiuti
cartacei le misure da realizzare saranno invece quelle che
vanno verso la dematerializzazione dei documenti (sia da
parte delle p.a. che da parte dei gestori di servizi
pubblici). La prevenzione dei rifiuti da imballaggio ruoterà
invece su tre cardini: bando degli shopper non
biodegradabili (con l'operatività dell'apposito dm già
predisposto e attualmente all'esame dell'Ue); spinta sulla
vendita di prodotti «alla spina»; promozione dell'uso di
acqua da rubinetto (in luogo di quella in bottiglia). La
prevenzione dei rifiuti elettronici ed elettronici («Raee»)
dovrà essere modellata sulle citate misure generali di
prevenzione: ecoprogettazione dei nuovi prodotti e
riparazione di quelli usati.
Azioni. A permettere la realizzazione delle misure
annunciate saranno nella logica del Programma nazionale di
prevenzione dei rifiuti, e secondo quanto espressamente
annuncia il Minambiente nello stesso, tre tipologie di
azioni: adozione di nuovi provvedimenti normativi ad hoc
(come i citati decreti sui centri di riparazione); rimozione
di ostacoli normativi al raggiungimento degli obiettivi di
riduzione (tra cui quelli relativi alla disciplina sui
sottoprodotti); utilizzo di strumenti economici (come
l'allargamento della responsabilità economica del produttore
dei beni per la gestione dei relativi rifiuti); la
diffusione degli accordi volontari di settore (come quelli
relativi ai rifiuti edilizi già siglati tra istituti di
formazione e associazioni di operatori del settore)
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
CONDOMINIO: Sito internet a prova di privacy.
Accesso alla pagina web condominiale da proteggere.
I chiarimenti contenuti nel vademecum del Garante
sulla gestione delle informazioni.
Internet e condominio a prova di privacy. Sul sito web
condominiale gli amministratori possono caricare
esclusivamente informazioni relative alla gestione dei beni
e dei servizi comuni, alle quali possono avere accesso solo
i condomini tramite la predisposizione e l'utilizzo di
apposite credenziali di autenticazione (vale a dire una
username e una password).
Questo uno dei chiarimenti
contenuti nel nuovo
vademecum redatto dal Garante
sull'applicazione in ambito condominiale della normativa sul
trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196/2003
(consultabile sul sito internet dell'Authority,
all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
La privacy, quindi, si aggiorna alla riforma del condominio
o, meglio, l'Autorità garante prende atto con piacere del
fatto che la legge n. 220/2012, direttamente o
indirettamente, abbia confermato punto per punto le
indicazioni a suo tempo fornite con il provvedimento
generale del 18 maggio 2006 (giungendo anche a colmare, con
il nuovo art. 1122-ter c.c., la lacuna a suo tempo
denunciata relativamente alle maggioranze necessarie per
approvare l'installazione di impianti di videosorveglianza
delle parti comuni; si veda il relativo approfondimento).
Quanto sopra è particolarmente evidente, ad esempio, in tema
di accesso alla documentazione detenuta dall'amministratore
per la gestione dei beni e dei servizi comuni e al conto
corrente condominiale. In questi anni, infatti, è capitato
più volte che alcuni amministratori alla ricerca di uno
stratagemma per impedire ai condomini di fare copia dei
documenti relativi alla gestione condominiale si
trincerassero dietro a non meglio specificate esigenze di
privacy, di fatto operando un'applicazione del tutto
distorta dei principi di cui al dlgs n. 196/2003.
Il
legislatore della riforma ha però finalmente dissipato
qualsiasi dubbio in proposito, chiarendo sia il fatto che i
condomini abbiano un vero e proprio diritto di visionare e
fare copia della documentazione condominiale detenuta
dall'amministratore (nei giorni e negli orari che questi ha
l'obbligo di comunicare preventivamente: art. 1129, comma 2,
c.c.) sia il fatto che tale diritto si estenda anche alla
consultazione del conto corrente condominiale, sempre per il
tramite di quest'ultimo (art. 1129, comma 7, c.c.).
Occorre quindi evidenziare come la possibilità recentemente
ammessa dalla legge n. 220/2012 l'amministratore può
attivare un sito internet condominiale (art. 71-ter disp.
att. c.c.) si muove proprio nella medesima direzione,
essendo finalizzata a rendere più facile e immediato
l'accesso alla medesima documentazione in formato
elettronico, rendendo quindi più trasparente ed economica la
gestione dei beni e dei servizi comuni.
Da questo punto di
vista il Garante privacy ha quindi opportunamente prescritto
che sul sito internet tenuto dall'amministratore debbano
essere pubblicate soltanto le informazioni relative alla
gestione del condominio e che l'accesso dei condomini sia
protetto mediante l'implementazione di specifiche username e
password personali, in modo da evitare che soggetti estranei
possano accedere a informazioni che, come detto, sono
riservate alla sola compagine condominiale.
--------------
Via libera alla videosorveglianza. Riservatezza da
rispettare.
Via libera alla videosorveglianza in condominio, ma nel
rispetto della riservatezza dei condomini e dei terzi. La
crescente esigenza di sicurezza delle collettività
condominiali o dei singoli partecipanti al condominio ha
determinato l'installazione massiccia di sistemi
videosorveglianza, ritenuti strumenti particolarmente utili
per la protezione da ingressi di terzi malintenzionati.
È
necessario però che tali installazioni avvengano nel
rispetto dell'esigenza dei condomini o di terzi di muoversi,
non controllati, nel proprio domicilio e/o all'interno delle
aree comuni.
L'impianto di videosorveglianza del singolo condomino. Nel
caso di installazione di un sistema di videosorveglianza
effettuata dal singolo condomino per fini esclusivamente
personali la disciplina del dlgs n. 196/2003 non trova
applicazione qualora i dati non siano comunicati
sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque
necessaria l'adozione di cautele.
In tale ipotesi possono
rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni, ovvero
altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche
tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa
installati nei pressi di immobili privati e all'interno di
caseggiati e loro pertinenze (quali posti auto e box).
Benché non trovi applicazione la disciplina del c.d. Codice
privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di
interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale
delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di
propria esclusiva pertinenza.
In altre parole il sistema di
videosorveglianza deve essere installato in maniera tale che
l'obiettivo della telecamera posta di fronte alla porta di
casa riprenda esclusivamente lo spazio antistante l'accesso
alla propria abitazione e non tutto il pianerottolo o
l'atrio, oppure il proprio posto auto e non tutto il garage.
La videosorveglianza condominiale.
La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, eliminando
dubbi e incertezze, ha introdotto nel sistema della
disciplina condominiale la videosorveglianza. La nuova
normativa prescrive infatti che le deliberazioni concernenti
l'installazione sulle parti comuni di impianti volti a
consentire la videosorveglianza debbano essere approvate
dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio.
È di tutta evidenza che la delibera di installazione
dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza
debba rispettare tutte le misure e le precauzioni previste
dal codice privacy e dal provvedimento generale del Garante
in tema di videosorveglianza. Di conseguenza l'approvazione
di un sistema di videosorveglianza condominiale è
consentita, in presenza di concrete situazioni di pericolo,
quando altri mezzi di difesa meno invasivi siano risultati
inutili e riducendo al minimo l'utilizzazione di dati
personali.
In particolare, gli adempimenti da porre in essere sono i
seguenti: apposizione di un cartello informativo, tempi di
conservazione delle immagini per un periodo limitato
tendenzialmente non superiore alle 24-48 ore, anche in
relazione a specifiche esigenze come la chiusura di esercizi
e uffici che abbiano sede nel condominio o a periodi di
festività (e per tempi di conservazione superiori ai sette
giorni è comunque necessario richiedere una verifica
preliminare al Garante), individuazione del personale che
possa visionare le immagini con atto di nomina del
responsabile e incaricato del trattamento, limitazione
rigorosa dell'angolo visuale delle riprese ai soli spazi di
esclusiva pertinenza del condominio, senza possibilità di
invasione visiva o di registrazione di aree e di unità
immobiliari estranee al condominio stesso.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei
casi, può comportare l'inutilizzabilità dei dati personali
trattati, l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto
del trattamento disposti dal Garante e l'applicazione delle
sanzioni amministrative o penali collegate alle singole
violazioni di legge, oltre ovviamente a eventuali richieste
di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
CONDOMINIO - VARI: Telecamere fuori da spazi altrui.
Privacy. Le condizioni per ammettere
la videosorveglianza.
Le riprese
effettuate a salvaguardia della proprietà privata sono
ammesse alla duplice condizione che non invadano ambiti di
pertinenza esclusiva di terzi e, al contempo, rispettino le
disposizioni sulla sicurezza dei dati acquisiti.
Lo afferma
il Tribunale di Reggio Calabria (giudice Genovese) in
un'ordinanza del 25.09.2013.
La controversia ha avuto inizio a seguito della richiesta di
tutela avanzata in via d'urgenza, in base all'articolo 700
del Codice di procedura civile, da una signora residente al
piano terra di un fabbricato a più elevazioni, perché gli
abitanti dei livelli superiori avevano collocato un impianto
di videosorveglianza che riprendeva sia gli spazi comuni sia
quelli usati solo da lei.
Il giudice chiarisce, innanzitutto, che la difesa della
riservatezza trova il proprio presupposto nell'articolo 2
della Costituzione, che, riconoscendo e garantendo i diritti
inviolabili dell'uomo, contiene una sorta di clausola aperta
che consente di adeguare la tutela dei diritti primari
«all'evoluzione del comune sentire sociale». Il tribunale
osserva inoltre che l'inviolabilità del domicilio, prevista
dall'articolo 14 della Costituzione, si esplica non solo
nella facoltà di escludere qualcuno da determinati luoghi,
ma anche nel diritto alla riservatezza su quanto si compie
nei medesimi spazi. L'ordinanza richiama poi la sentenza
14346/2012 della Cassazione, per la quale il titolare del
domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza
quando l'azione, pur svolgendosi nell'ambito di una dimora
privata, è liberamente visibile dagli estranei senza
ricorrere a particolari accorgimenti.
Nei fatti, il consulente tecnico d'ufficio aveva verificato
che le registrazioni sull'hard-disk si cancellavano
automaticamente dopo 24 ore e il sistema di
videosorveglianza era dotato di password non gestibile
dall'utente né, a maggior ragione, da eventuali terzi che si
fossero introdotti nello stabile. Sotto questo profilo era
dunque rispettato l'articolo 31 del Codice della privacy (Dlgs
196 del 2003), per il quale i dati personali oggetto di
trattamento devono essere custoditi e controllati, anche in
relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso
tecnico, in modo da ridurre al minimo i rischi non solo di
una loro distruzione o perdita, ma pure di un accesso non
autorizzato o comunque di un trattamento non consentito o
non conforme alle finalità della raccolta.
Non tutte le
telecamere, però, inquadravano spazi destinati all'uso
comune, dal momento che una di esse riprendeva la porta di
ingresso a un vano utilizzato solo dalla ricorrente. E
poiché a causa di quello stato di fatto i diritti alla
riservatezza e all'inviolabilità del domicilio erano lesi in
modo permanente e non suscettibile di tutela per
equivalente, il giudice condanna i resistenti a rimuovere o
a schermare quella telecamera (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI: Sconto
multe anche per il divieto di sosta.
Codice della strada. Nota dell'Interno.
Lo sconto del 30% sulle multe pagate "subito" vale anche in
caso di divieto di sosta. Il beneficio, introdotto dal 21
agosto con la conversione in legge del decreto del fare (Dl
69/2013), finora era stato riconosciuto da molti Comuni
anche in questo caso, ma mancava una copertura
interpretativa che adesso è arrivata.
È la
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.,
emanata dal dipartimento Pubblica sicurezza del ministero
dell'Interno.
Non è una vera e propria circolare come quelle che il
dipartimento ha già diramato proprio in agosto per chiarire
molti altri aspetti dello sconto sulle multe. Volutamente
era stato tralasciato quello del divieto di sosta, perché in
tutti gli uffici ministeriali che si occupano di Codice
della strada si valuta che la questione sia delicata: la
formulazione della norma riconosce il beneficio solo in caso
di pagamento entro cinque giorni dalla «contestazione»
(quando si viene fermati subito) o dalla «notifica»
(quando si riceve il verbale a casa).
Sono tutte situazioni in cui al trasgressore o al
proprietario del veicolo viene consegnato un verbale, mentre
nel caso del divieto di sosta generalmente si trova sul
parabrezza un preavviso, che non è previsto dal Codice della
strada. Secondo questa prassi, chi non paga entro un termine
di pochi giorni fissato dal corpo di polizia riceverà poi il
verbale, gravato dalle spese di spedizione e di
individuazione del proprietario al Pra.
Il fatto che il preavviso non fosse previsto dal Codice
aveva indotto gli uffici ministeriali a non considerarlo tra
le ipotesi di sconto. Ma sono state molte le pressioni
politiche per un'interpretazione più elastica: il divieto di
sosta è un'infrazione diffusissima, non di rado necessitata
dalla situazione urbanistica e dei trasporti pubblici delle
città italiane e difficilmente crea pericoli.
Quindi si è giunti a un compromesso: il chiarimento è
arrivato non come circolare, ma solo sotto la meno
impegnativa forma di una risposta ai quesiti giunti da tanti
corpi di polizia locale, tra cui quelli di Firenze e Torino.
Il dipartimento non entra nel merito giuridico della
questione e si limita a constatare che, anche per motivi di
semplificazione, è opportuno riconoscere lo sconto anche a
chi paga avendo in mano solo un preavviso.
Ora però arrivano complicazioni per quei Comuni (pochi, per
la verità) che avevano adottato la linea più formalista,
negando il beneficio nel caso del preavviso. Tra questi
Comuni il più importante è proprio Firenze. Il fatto che il
ministero abbia in qualche modo "sdoganato" il
beneficio apre la porta alle richieste di chi nei primi due
mesi di applicazione della norma non si era visto
riconoscere il diritto allo sconto
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.10.2013). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
LEGGE DI STABILITÀ/
Debiti p.a., pagherà il dirigente. L'inosservanza nell'invio
di fatture costa 25 al giorno. Lo
prevede la bozza di decreto collegato, che è atteso in Cdm.
Per le p.a. lumaca sui debiti commerciali scaduti paga il
dirigente: entro il 30.04.2014 le amministrazioni
dovranno comunicare telematicamente le fatture per
forniture, servizi o appalti non ancora saldate che danno
luogo a interessi moratori. Responsabile dell'adempimento
sarà la figura apicale dell'ente (o un suo delegato). E in
caso di inosservanza questo pagherà alle casse pubbliche una
sanzione di 25 euro per ogni giorno di ritardo, ferma
restando la responsabilità disciplinare.
Il rafforzamento
del monitoraggio dei debiti delle p.a. è previsto dalla
bozza di decreto legge collegato alla manovra di stabilità
2014, che sarà esaminato nei prossimi giorni dal consiglio
dei ministri.
Il dl dispone alcuni stanziamenti per fare fronte a esigenze
immediate. A cominciare dal rifinanziamento della cassa
integrazione in deroga (330 milioni di euro fino a fine
anno) e della social card (35 milioni di euro). Ma in via
sperimentale arriva anche un meccanismo di indennizzo per le
imprese impegnate nella realizzazione dell'alta velocità
sulla Torino-Lione che subiscono manomissioni e vandalismi a
macchinari e materiali: per la quota di danni non coperta
dalle polizze assicurative sarà possibile rivolgersi allo
stato. Il Fondo di solidarietà civile istituito dal dl n.
187/2010 mette a disposizione fino a 5 milioni di euro. Le
modalità attuative saranno stabilite con dpcm entro 30
giorni dall'entrata in vigore del dl.
Nel collegato alla legge di stabilità trovano spazio pure
alcuni interventi fiscali. Uno va in soccorso del comune di
Roma, alle prese con una difficile situazione di bilancio.
La norma attribuisce al municipio capitolino la facoltà di
incrementare l'addizionale Irpef di ulteriori 0,3 punti
percentuali, rispetto all'attuale misura dello 0,9%.
L'intervento legislativo si rende necessario in quanto il
dlgs n. 360/1998 fissa l'aliquota massima del prelievo allo
0,8%. E il dl n. 78/2010, sul quale il collegato interviene,
autorizza già una deroga a favore del Campidoglio che ha
consentito di arrivare allo 0,9%.
Il dl reca poi un'altra mini-stangata tributaria sul
mattone. Viene stabilita l'applicazione di un'imposta di
registro minima di 1.000 euro per tutti gli atti,
provvedimenti e trasferimenti in materia immobiliare.
Inclusi, quindi, quelli soggetti a tassazione proporzionale
che darebbero una somma inferiore a tale soglia. La novità
avrà effetto a far data dall'entrata in vigore del
provvedimento. La misura farà incassare all'erario 140
milioni di euro in più ogni anno (29 milioni nel 2013).
Non dovrebbe comportare aggravi, invece, la possibile
manutenzione di aliquote che il governo si appresta a
compiere sui prodotti da fumo. Sia le accise sui tabacchi
sia l'imposta di consumo sulle sigarette elettroniche
potranno essere rimodulate dal Mef, entro un range dello
0,7%, con l'obiettivo di «incidere in modo positivo sulle
dinamiche dei prezzi, comunque nell'ottica di frenarne la
possibile crescita e, specularmente, di evitare contrazione
ulteriori sul lato della domanda». In questo caso, quindi,
l'obiettivo di palazzo Chigi è mantenere il gettito del
comparto e non incrementarlo. Il recente aumento dell'Iva ha
fatto schizzare in alto i prezzi in maniera più che
proporzionale. Con il risultato, specie in un periodo di
crisi, di un'ulteriore frenata dei consumi in un mercato già
in calo dall'inizio del 2013.
Il dl accelera anche sulle dismissioni pubbliche, sia in
materia di partecipazioni sia di immobili. Con riguardo al
primo tema, è messo a regime il comitato di esperti che deve
supportare il Mef nell'elaborare la strategia di cessione
delle quote statali. Con riferimento al secondo, viene
snellito ulteriormente il procedimento di alienazione in
blocco di fabbricati pubblici al fine di consentirne la
conclusione in tempi brevi. L'elenco degli esoneri
documentali già previsti viene integrato con l'attestato di
prestazione energetica (la cui assenza minaccerebbe di
nullità i contratti eventualmente stipulati). Peraltro,
nella relazione tecnica è lo stesso governo a definire l'Ape
un adempimento oneroso «sia in relazione ai costi che
avrebbero dovuto essere sostenuti per l'ottenimento della
certificazione energetica sia per quelli indiretti
costituiti dalle risorse da impiegare per gli allineamenti
catastali»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Incentivi, Ape detraibile. Sgravio sulle spese tecniche per
il 55-65%. Risposta fornita
dall'Enea sull'Attestato di prestazione energetica.
Sì alla detraibilità delle spese tecniche per la redazione
dell'attestato di prestazione energetica. In quanto l'Ape
rappresenta la misura obbligatoria per l'accesso alle
detrazioni fiscali del 55%-65%.
Questa è la risposta fornita dall'Enea con la
Faq 10.10.2013 n. 67.
L'Enea ricorda che con
il decreto legge 04.06.2013, n. 63, coordinato con la
legge di conversione 03.08.2013, n 90 (che recepisce la
direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio
del 19.05.2010, sulla prestazione energetica
nell'edilizia), l'attestato di certificazione energetica è
stato soppresso e sostituito dall'attestato di prestazione
energetica. Pertanto, dal 04.08.2013, entrata in vigore
della legge n. 90 /2013, nei casi ove esso è previsto, per
accedere a questi incentivi, occorre ora redigere
l'attestato di prestazione energetica.
Per ciò che attiene
la metodologia di calcolo da seguire, come riporta la
circolare del MiSE del 07.08.2013, «fino all'emanazione
dei decreti previsti dall'art.4 del decreto legge n. 63 del
2013, si adempie alle prescrizioni di cui al decreto legge
stesso redigendo l'Ape secondo le modalità di calcolo di cui
al dpr 02.04.2009 n. 59, fatto salvo nelle Regioni che
hanno provveduto a emanare proprie disposizioni normative in
attuazione della direttiva 2002/91/Ce».
Ai soli fini
dell'accesso alle detrazioni in oggetto, nei casi ove esso è
previsto, si continua ad utilizzare lo stesso modulo
dell'attestato di qualificazione energetica, che può essere
compilato e sottoscritto anche da un tecnico abilitato
coinvolto nei lavori di cui alla richiesta di detrazione,
mentre il tecnico compilatore dell'attestato di prestazione
energetica non deve essere coinvolto nei lavori. Il comma
1-ter dell'art. 6 del dlgs. n 192 del 2005 modificato dal
dlgs. 311/2006, sottolinea l'Enea, ha stabilito che dal 01.01.2007 l'Ace di un edificio o di un'unità immobiliare
è necessario per accedere agli incentivi e alle agevolazioni
di qualsiasi natura finalizzati al miglioramento delle
prestazioni energetiche dell'unità immobiliare,
dell'edificio o degli impianti.
Inoltre, come previsto dal
comma 1-bis dell'art. 11 del decreto citato, fino
all'entrata in vigore (25.07.2009) delle linee guida
nazionali per la certificazione energetica degli edifici,
l'attestato di qualificazione energetica ha potuto
sostituire a tutti gli effetti (e quindi anche relativamente
alle detrazioni fiscali del 55%, là dove richiesto),
l'attestato di certificazione energetica.
---------------
Pressing per l'eliminazione.
Il secondo tempo della battaglia per l'Ape è iniziato. Se il
governo presterà fede agli impegni presi prima della pausa
estiva l'Ape si appresta a essere solo un ricordo. Persa la
prima occasione utile (con il decreto del fare) per
eliminare la disposizione che prevede l'obbligatorietà
dell'Ape a pena di nullità dei contratti di locazione e
compravendita, ecco che, con l'inizio dei lavori al dl Imu
in commissione finanze al senato, la partita riprende.
«Ci
aspettiamo che il governo mantenga gli impegni presi durante
l'estate», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente della VI
commissione di palazzo Madama, Mauro Maria Marino (Pd), «i
lavori al dl Imu sono l'occasione attesa per rimediare a un
grosso errore commesso e ci aspettiamo che questa occasione
venga sfruttata al massimo nonostante il poco tempo a
disposizione del senato»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe, sconti ad ampio raggio. Agevolazioni anche per i
preavvisi di divieto di sosta. I
chiarimenti in una nota del ministero dell'interno sui
pagamenti ridotti del 30%.
Chi trova la tradizionale contravvenzione rosa per divieto
di sosta posizionata sotto al tergicristallo del proprio
veicolo può pagare subito la multa con lo sconto del 30%.
Risparmiando quindi anche le spese di notifica e di
accertamento dell'infrazione collegate al seguito del
procedimento sanzionatorio.
Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.).
La legge 98/2013 di conversione del dl 69 ha innestato nel
codice stradale il principio del pagamento agevolato delle
multe per chi decide di conciliare entro 5 giorni, ma solo
nel caso di infrazioni non particolarmente gravi.
Letteralmente però la disposizione fa riferimento alla
contestazione o notificazione del verbale e per questo
alcuni comandi dei vigili hanno deciso di non aderire allo
spirito della riforma, negando agli utenti lo sconto sui
preavvisi di divieto di sosta (non ancora notificati) in
attesa di indicazioni centrali.
Il ministero dell'interno con la nota in commento
indirizzata al comune di Torino contraddice questa
interpretazione rigorosa e allarga la portata della novella
anche ai tradizionali preavvisi di divieto di sosta,
confermando la scelta del comando di Via Bologna. Questi
atti non sono disciplinati dal codice stradale, specifica
innanzitutto l'organo di coordinamento dei servizi di
polizia stradale, ma sono regolati da ciascun comando di
polizia in modo autonomo e funzionale alle proprie esigenze
di semplificazione in rapporto all'utenza e alla propria
organizzazione.
In buona sostanza, i preavvisi di divieto di sosta sono atti
bonari che esulano dalle competenze istituzionali del
Viminale che «ha il compito di coordinare l'attività
degli organi di polizia stradale con riferimento
all'applicazione del codice della strada». Spetta quindi
all'apprezzamento degli uffici o comandi di polizia gestire
queste vicende precedenti all'attività di contestazione o
notificazione delle multe. Ciò nonostante a parere del
ministero è comunque opportuno ammettere il trasgressore al
pagamento scontato anche degli avvisi bonari di divieto di
sosta. Sono, infatti, evidenti le esigenze di
semplificazione e di equità sostanziale.
Del resto, la maggior parte delle amministrazioni locali ha
preferito applicare il beneficio anche al tradizionale
preavviso di divieto di sosta. Tale scelta, conclude il
parere centrale, «appare probabilmente più coerente con
lo spirito della nuova disposizione che, certamente,
consente di accedere al beneficio dopo la notificazione del
verbale di contestazione e allo scopo di agevolare
l'attività di immediata riscossione delle sanzioni
amministrative, scopo che appare ugualmente evidente anche
nella fase antecedente alla notificazione del verbale stesso»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: LEGGE DI STABILITA'/ Dietrofront sul taglio del 10% dei fondi
per gli straordinari.
Sugli statali stretta da 1,5 mld.
Blocco dei contratti, vincoli al turnover, scompare l'Ivc.
La manovra sul personale pubblico, che vale circa un
miliardo e mezzo, rappresenta uno dei punti principali del
disegno di legge di stabilità.
Il testo consolidato del disegno di legge modifica non poco
l'impianto delle bozze «in entrata» esaminate dal consiglio
dei ministri.
Blocco della contrattazione.
Si conferma indirettamente il congelamento dei contratti
collettivi nazionali di lavoro, fino al 31.12.2014.
Il ddl, infatti, modifica l'articolo 9, comma 17, del dl
78/2010 convertito in legge 122/2010, senza vietare
espressamente i rinnovi contrattuali per il 2014, ma
affermando che per gli anni 2013 e 2014 si dà luogo alle
procedure contrattuali e negoziali solo per la parte
normativa e senza possibilità di recupero per la parte
economica. Un invito, dunque, ad attivare la nuova
contrattazione collettiva, ma senza effetti sugli stipendi.
Il blocco della contrattazione economica di fatto prorogato
al 31.12.2014, fin qui riservato ai soli dipendenti degli
enti pubblici definiti dal dlgs 165/2001, viene esteso anche
ai dipendenti degli enti identificati dall'articolo 1, comma
2, della legge 196/2009. In altre parole, il blocco varrebbe
anche per la galassia di enti come società partecipate e di
altra natura censiti dall'Istat, ai fini della
qualificazione come amministrazioni pubbliche sul piano
delle rilevazioni finanziarie.
L'intento è chiaro: estendere anche al «para-pubblico» il
blocco della crescita della spesa di personale. Lo
strumento, però, appare sbagliato. Infatti, le società e gli
altri enti applicano contratti collettivi del settore
privato, che evidentemente non possono subire alcun blocco
della parte economica. Occorrerebbe modificare la norma e
prevedere un divieto espresso di applicare agli enti del
para-pubblico incrementi stipendiali derivanti da contratti
collettivi nazionali o anche aziendali.
Indennità di vacanza contrattuale. Il blocco degli
incrementi economici sarà particolarmente rigoroso, perché
viene di fatto depotenziato il sistema di salvaguardia
contro i ritardi nel rinnovo dei contratti.
L'indennità di vacanza contrattuale per il periodo 2010-2014
viene eliminata, senza alcuna possibilità di recupero in
future sessioni negoziali.
Tagli ai fondi contrattuali. Si prolunga fino al 2014 (nella
bozza iniziale era stata prevista invece la configurazione a
regime) degli effetti dell'articolo 9, comma 2-bis, del dl
78/2010, che impone di tagliare i fondi della contrattazione
decentrata in proporzione al costo delle cessazioni dal
servizio che annualmente avvengono. Dal 2015, prevede la
bozza, «le risorse destinate annualmente al trattamento
economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle
riduzioni operate per effetto del precedente periodo».
Però, tutte le risorse dei fondi contrattuali decentrati
sono destinate al trattamento accessorio. Occorrerà un
intervento in parlamento per specificare cosa esattamente
intenda il legislatore.
Vincoli al turnover. Nelle amministrazioni statali si
inaspriscono i vincoli alle assunzioni in sostituzione del
personale cessato. Il turnover potrà essere coperto del 50%
negli anni 2014-2015, del 60% nel 2016, dell'80% nel 2017 e
solo nel 2018 del 100%.
Ovviamente, la riduzione delle possibilità assunzionali
diminuisce la possibilità di stabilizzare i precari. Che,
comunque, sono maggiormente presenti negli enti locali, non
interessati all'inasprimento del turnover.
Straordinari. Sparita la riduzione del 10% dei fondi
destinati a questo scopo nelle amministrazioni statali,
resta l'interpretazione autentica a mente della quale chi
lavora in turno festivo anche infrasettimanale non può
ricevere compensi di straordinario. A meno che la
prestazione lavorativa non superi l'ordinaria durata del
turno.
Tetti agli stipendi. Divieto di superare il trattamento
economico annuale complessivo spettante per la carica al
primo presidente della Corte di cassazione, pari nell'anno
2011 a euro 293.658,95, per chiunque riceva a carico delle
finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque
denominati, derivanti da rapporti di lavoro subordinato o
autonomo intercorrenti con le autorità amministrative
indipendenti e con le pubbliche amministrazioni, nonché per
componenti degli organi di amministrazione, direzione e
controllo delle amministrazioni pubbliche. Il tetto si
calcola cumulando gli incarichi che eventualmente si
conducano a vario titolo con le amministrazioni interessate.
Per garantire la graduale riconduzione degli stipendi al
tetto fissato, si rinvia ad un dpcm da adottare entro 90
giorni dalla vigenza della legge
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
TRIBUTI:
Tassa rifiuti, resuscita la Tarsu. Decisione entro il 30/11.
Resta la maggiorazione Tares. Il
colpo di scena inserito nel decreto Imu pone però più di
un problema applicativo.
I comuni potranno decidere di abbandonare la Tares e di
continuare ad applicare anche per quest'anno il medesimo
tributo o la medesima tariffa relativi alla gestione dei
rifiuti urbani utilizzati nel 2012.
L'ennesimo colpo di scena nella grottesca vicenda del
tributo su rifiuti e servizi introdotto dal governo Monti
arriva con un emendamento alla legge di conversione del
decreto Imu (dl 102/2013), approvato alla camera. In
pratica, i sindaci potranno decidere di pensionare
anticipatamente la Tares. Dal prossimo anno, infatti,
entrerà in vigore un nuovo prelievo (il Trise), la cui
disciplina sarà definita dalla legge di stabilità in
discussione in questi giorni.
L'emendamento approvato a
Montecitorio consente di mantenere il regime (tributario o
tariffario) già applicato nel 2012. A tal fine, occorre un
«provvedimento» da adottarsi entro il termine fissato per
l'approvazione del bilancio di previsione, ovvero entro il
30 novembre. Tale scadenza sembra riguardare anche gli enti
che hanno già licenziato il preventivo, mentre la competenza
sembra essere pacificamente da attribuire ai consigli
comunali. Gli unici paletti validi per tutti i comuni
riguardano la maggiorazione per i servizi indivisibili, che
non potrà in nessun caso essere toccata, e la
predisposizione e l'invio ai contribuenti del relativo
modello di pagamento (su cui, peraltro, regna l'incertezza
più assoluta dopo il dissidio interpretativo fra Mef e Ifel).
Solo per chi intenda continuare ad applicare la Tarsu, è
previsto un ulteriore vincolo: in tal caso, si legge
nell'emendamento, «la copertura della percentuale dei costi
eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve
assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai
proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del
comune». Tale novella si inserisce in modo assai
problematico nel già caotico quadro normativo della Tares,
frutto di continue modifiche e stratificazioni successive.
Accanto alla disciplina generale contenuta nel dl 201/2011,
infatti, il testo vigente del dl 102 ha già introdotto una
modalità alternativa che dovrebbe consentire ai comuni di
staccarsi da quanto previsto dal dpr 158/1999 e rispolverare
i criteri delle tariffe Tarsu, ovvero prevedere un regime
misto, come già sperimentato da molti comuni che in regime
di Tarsu applicavano in parte i criteri della Tia. Anche
nella Tares «semplificata», peraltro, vige l'obbligo di
copertura integrale dei costi (art. 5, comma 3, del dl 102).
Ora, l'emendamento introduce una terza strada, ovvero la «continuità
di regime» fra l'anno in corso e il 2012: in tal caso,
quindi, l'obbligo di copertura integrale dei costi dovrebbe
saltare. Per questi ultimi, peraltro, si pone una questione
in più: è possibile modificare la tariffe applicate lo
scorso anno? La formulazione dell'emendamento sembrerebbe
escluderlo, imponendo di ricorrere al gettito di altri
tributi/tariffe. In senso contrario, depone, però,
l'avverbio «eventualmente»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Bonus mobili solo con spesa edile.
Detrazioni. La proroga per gli arredi lega gli acquisti ai
lavori di ristrutturazione.
Chi desidera
beneficiare nel 2013 della detrazione Irpef del 50% per
l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, pagandone il
relativo costo quest'anno, deve effettuare il bonifico
"parlante" per la ristrutturazione del fabbricato entro il
31.12.2013, nonostante la legge di stabilità 2014
preveda la proroga fino alla fine del prossimo anno della
maxi-detrazione del 50% sui lavori di ristrutturazione
edilizia.
Per gli interventi di manutenzioni, ristrutturazioni e
restauro e risanamento conservativo, l'aumento della
detrazione Irpef dal 36% al 50% (con limite di spesa passato
da 48.000 euro a 96.000 euro, per singola unità immobiliare)
è stato prorogato fino al 31.12.2014. Nel 2015,
invece, si applicherà la percentuale del 40%, sempre con un
limite di spesa di 96.000 euro, e dal 2016 si ritornerà alla
percentuale a regime del 36%, con un limite di spesa di
48.000 euro. La modifica della percentuale del bonus non
varia la spesa agevolata (96.000 euro, fino al 31.12.2015, e 48.000 euro successivamente), ma modifica l'importo
detraibile, il quale sarà di 48.000 euro fino a fine 2014,
di 38.400 euro nel 2015 e di 17.280 euro dal 2016.
Le proroghe della legge di stabilità 2014 non riguardano
invece la detrazione Irpef per l'acquisto di abitazioni in
fabbricati interamente interessati ad interventi di restauro
e risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia,
previsto dal comma 3 dell'articolo 16-bis del Tuir. Dal
2014, quindi, l'importo massimo su cui calcolare la suddetta
percentuale (pari al 25% del prezzo di acquisto), ora di
96.000 euro (dal 26.06.2012), ritornerà a 48.000 euro e
la detrazione si ridurrà dal 50% al 36 per cento.
Nonostante sia prevista la proroga fino al 31.12.2014
della detrazione del 50% sulle ristrutturazioni edilizie, la
norma, che oggi agevola il bonus del 50% sui mobili e gli
elettrodomestici, prevede che sia necessario sostenere delle
spese di ristrutturazione agevolate al 50% entro la fine del
2013 (dal 26.06.2012 al 31.12.2013). Quindi, non è
possibile pagare i mobili quest'anno e i lavori di
ristrutturazione il prossimo anno, seppur iniziati prima
dell'acquisto dell'arredo.
Nel 2013, la detrazione Irpef del 50% sui mobili e sugli
elettrodomestici è possibile solo se questi vengono pagati
quest'anno e se dal 26.06.2012 al 31.12.2013 (non
fino al 2015) viene pagata una spesa per uno qualsiasi dei
lavori dell'articolo 16-bis, Tuir, detraibili al 50 per
cento. Nel 2014, invece, il pagamento degli arredi ed
elettrodomestici è detraibile, solo se spetta la detrazione
del 50% o del 40% per uno dei lavori dell'articolo 16-bis,
comma 1, Tuir, pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2015 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: Codice della strada. Nota dell'Interno.
Sconto multe anche per il divieto di sosta.
Lo sconto del
30% sulle multe pagate "subito" vale anche in caso di
divieto di sosta. Il beneficio, introdotto dal 21 agosto con
la conversione in legge del decreto del fare (Dl 69/2013),
finora era stato riconosciuto da molti Comuni anche in
questo caso, ma mancava una copertura interpretativa che
adesso è arrivata.
È la
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.
emanata dal dipartimento Pubblica sicurezza del ministero
dell'Interno.
Non è una vera e propria circolare come quelle che il
dipartimento ha già diramato proprio in agosto per chiarire
molti altri aspetti dello sconto sulle multe. Volutamente
era stato tralasciato quello del divieto di sosta, perché in
tutti gli uffici ministeriali che si occupano di Codice
della strada si valuta che la questione sia delicata: la
formulazione della norma riconosce il beneficio solo in caso
di pagamento entro cinque giorni dalla «contestazione»
(quando si viene fermati subito) o dalla «notifica» (quando
si riceve il verbale a casa).
Sono tutte situazioni in cui al trasgressore o al
proprietario del veicolo viene consegnato un verbale, mentre
nel caso del divieto di sosta generalmente si trova sul
parabrezza un preavviso, che non è previsto dal Codice della
strada. Secondo questa prassi, chi non paga entro un termine
di pochi giorni fissato dal corpo di polizia riceverà poi il
verbale, gravato dalle spese di spedizione e di
individuazione del proprietario al Pra.
Il fatto che il preavviso non fosse previsto dal Codice
aveva indotto gli uffici ministeriali a non considerarlo tra
le ipotesi di sconto. Ma sono state molte le pressioni
politiche per un'interpretazione più elastica: il divieto di
sosta è un'infrazione diffusissima, non di rado necessitata
dalla situazione urbanistica e dei trasporti pubblici delle
città italiane e difficilmente crea pericoli.
Quindi si è giunti a un compromesso: il chiarimento è
arrivato non come circolare, ma solo sotto la meno
impegnativa forma di una risposta ai quesiti giunti da tanti
corpi di polizia locale, tra cui quelli di Firenze e Torino.
Il dipartimento non entra nel merito giuridico della
questione e si limita a constatare che, anche per motivi di
semplificazione, è opportuno riconoscere lo sconto anche a
chi paga avendo in mano solo un preavviso.
Ora però arrivano complicazioni per quei Comuni (pochi, per
la verità) che avevano adottato la linea più formalista,
negando il beneficio nel caso del preavviso. Tra questi
Comuni il più importante è proprio Firenze. Il fatto che il
ministero abbia in qualche modo "sdoganato" il beneficio
apre la porta alle richieste di chi nei primi due mesi di
applicazione della norma non si era visto riconoscere il
diritto allo sconto (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Legge
di stabilità 2014: tutte le novità
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
LEGGE DI STABILITÀ/Riduzione graduale dell'agevolazione
sulle ristrutturazioni edilizie.
Bonus, convenienza prolungata. Detrazioni del 65 e 50%
applicabili anche nel 2014.
I bonus del 65 e del 50%, rispettivamente per la
riqualificazione energetica e per le ristrutturazioni
edilizie, troveranno applicazione fino al 31/12/2014.
Prevista la successiva riduzione al 50% e al 40% a partire
dall'01/01/2015.
Con alcune modifiche agli articoli 14, 15 e
16 del dl 04/06/2013 n. 63/2013 (convertito nella legge n.
90/2013), apportate dalla bozza della legge di stabilità
2014, sono state previste le proroghe per l'ecobonus e per
quello sulle ristrutturazioni edilizie, con riduzione
graduale fino alla messa a regime a partire dal 01.01.2016.
Le detrazioni indicate al comma 1, del novellato art. 14, dl
63/2013 si rendono applicabili anche agli interventi
riguardanti le parti comuni degli edifici, di cui agli
articoli 1117 e 1117-bis c.c. o che riguardino «tutte» le
unità immobiliari che compongono ogni singolo condominio con
la conseguenza che, anche per tali spese, spetterà la
detrazione nella misura del 65%, per quelle sostenute dal
06/06/2013 fino al 30/06/2015, e del 50%, per quelle sostenute
a partire dall'01/07/2015 fino al 30/6/2016. In effetti, agli
interventi riguardanti le parti in comune dei condomini o
per l'integralità delle unità immobiliari di cui si compone
il singolo condominio, l'attuale comma 2, del citato art. 14
prevede che la detrazione del 65% sia fruibile per le spese
sostenute dal 06/06/2013 sino al 30/06/2014.
La detrazione sul risparmio energetico è determinata con
riferimento all'entità rimasta a carico del contribuente,
utilizzando il «principio di cassa» per i contribuenti non
titolari di reddito d'impresa e il «principio della
competenza» per quelli titolari di reddito d'impresa,
ricordando che tra le varie tipologie, per ognuna delle
quali si deve tenere conto di un tetto massimo, figura anche
l'installazione degli impianti fotovoltaici, se destinati a
fronteggiare le esigenze energetiche dell'abitazione
(risoluzione n. 22/E/2013).
Tutti i bonus indicati devono essere spalmati in dieci anni
per quote costanti, a prescindere dall'età posseduta dal
soggetto che le sostiene, e, limitatamente alle spese
destinate alla ristrutturazione edilizia, l'ammontare
massimo è confermato in euro 96 mila per unità immobiliare.
Restano impregiudicati i contenuti dell'articolo 16-bis, dpr
917/1986 (Tuir) e le precisazioni già fornite in passato,
con particolare riferimento ai chiarimenti inseriti nella
circolare dell'Agenzia delle entrate (la n. 29/E/2013).
Confermata, inoltre, la detrazione per i mobili e gli
arredi, per le spese sostenute dal 06/06/2013 sino al
31/12/2014, nella percentuale conosciuta del 50%,
determinata su un ammontare complessivo massimo di 10 mila
euro. La detrazione è fruibile da chi esegue sugli immobili
le opere di ristrutturazione a prescindere che detti
acquisti (mobili e arredi) siano destinati ai locali in cui
sono eseguiti i lavori. Per ottenere l'agevolazione è solo
necessario che i mobili acquistati siano finalizzati
all'arredamento dell'immobile oggetto di ristrutturazione,
anche se detti beni sono destinati alle parti in comune
(guardiole, lavatoi, sala riunione, portineria e
quant'altro) se la ristrutturazione riguarda l'esecuzione di
interventi edilizi su parti comuni di edifici residenziali.
In tal caso, non è possibile beneficiare di un'ulteriore
detrazione per l'acquisto degli arredi se il condomino ha
fruito pro-quota della detrazione per l'acquisto di mobili e
grandi elettrodomestici (classe A+ o superiore e, per i
forni, classe A o superiore): l'acquisto resta sempre
agevolato se l'elettrodomestico è privo di etichetta, a
condizione che per questi beni non sia ancora intervenuto
l'obbligo di apposizione.
Per usufruire della detrazione, fatto salvo l'acquisto dei
mobili e degli arredi per i quali è stata prevista anche la
possibilità di effettuare l'acquisto con carte di credito o
di debito è necessario applicare la regola ormai consolidata
che obbliga l'utilizzo dei cosiddetti «bonifici parlanti»
(bancari e/o postali), che devono contenere la causale del
versamento, il codice fiscale del soggetto che paga e il
codice fiscale e/o il numero di partita Iva del beneficiario
del pagamento
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2013). |
VARI: Il referto medico viaggia online.
Al via la consegna e il pagamento online dei referti medici.
Nel rispetto della privacy, l'esito della visita o della
prestazione sanitaria potrà essere ricevuto sul web o sulla
casella e-mail, oppure su una chiavetta Usb o sul fascicolo
sanitario elettronico. Magari preceduto da un avviso via sms
e/o inoltrato al proprio medico. Il tutto in un quadro di
sicurezza tecnica (obbligatorio l'uso della cifratura e di
password per accedere ai file) e, soprattutto, solo se
l'interessato presta un consenso ad hoc, come previsto dal
codice della privacy.
È quanto prevede il Dpcm 08.08.2013, sui referti on-line, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale di ieri 16.10.2013, il quale recepisce tutte
le precauzioni imposte dal garante della privacy.
Il decreto definisce due aspetti: 1) le modalità con cui le
Asl possono ricevere online il pagamento delle prestazioni;
2) il procedimento per la consegna dei referti medici
tramite web, posta elettronica certificata e altre modalità
digitali.
- REFERTI. Il referto potrà, dunque, essere consegnato
tramite Fascicolo sanitario elettronico (Fse), web, posta
elettronica, certificata oppure tramite supporto
elettronico. Il passaggio sarà graduale: si parte con le
prestazioni di laboratorio, di microbiologia e di
radiologia. Sono escluse le analisi genetiche.
Ci vuole, però, l'espresso consenso informato
dell'interessato. Attenzione, però, rimane sempre il diritto
di ottenere copia cartacea del referto.
Il consenso deve rispettare il codice della privacy: deve
essere autonomo e specifico e deve esplicitare l'adesione
alle modalità digitali di consegna. Il consenso sarà
revocabile in ogni momento.
L'interessato può anche indicare una farmacia presso cui
ritirare il referto.
Considerata la delicatezza del trattamento e la natura dei
dati sensibili le Asl devono rispettare stringenti misure di
sicurezza. In particolare si devono osservare le precauzioni
previste dal Garante per la privacy nel provvedimento del 19.11.2009, di «Linee guida in tema di referti online»,
in particolare per quanto riguarda i servizi aggiuntivi di
notifica via sms e di designazione del medico al ritiro del
referto.
Se si opta per la consegna via web il servizio offrirà
all'interessato la possibilità di collegarsi al sito
internet della azienda sanitaria per visualizzare online il
referto digitale ed effettuare la copia locale (download).
Se si opta per la spedizione via e-mail il referto arriverà
alla casella di posta elettronica indicata dall'interessato:
sempre come allegato a un messaggio e non come testo
compreso nel corpo del messaggio; inoltre si devono usare
tecniche di cifratura e accessibili tramite una password per
l'apertura del file consegnata separatamente
all'interessato.
Altra alternativa è di ricevere il referto su memoria usb,
dvd, cd, o altro, sempre con la protezione di credenziali di
sicurezza (come username e password) consegnate
separatamente all'interessato o in busta chiusa a un suo
delegato.
Possibili anche l'avviso della consegna del referto tramite
sms o messaggio di e-mail. Sarà anche possibile (come
servizio aggiuntivo) l'inoltro dei referti digitali a un
medico designato dall'interessato.
- PAGAMENTI ONLINE.
Le Asl devono adottare le procedure telematiche per il
pagamento online di esami, visite e prestazioni. Le
procedure devono essere in grado di controllare le esenzioni
per patologia o per reddito
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza dei disabili, congedo a maglie larghe.
Una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 203 del
18.07.2013) ha ampliato la categoria dei soggetti aventi
diritto al congedo straordinario, estendendo al parente o
all'affine di terzo grado, purché convivente, la possibilità
di prendersi cura della persona in situazione di disabilità
grave, in caso di mancanza o decesso degli altri soggetti
individuati dalla disposizione normativa, ovvero qualora gli
stessi siano affetti da patologie invalidanti.
Lo sottolinea
l'Inps nel messaggio 16570/2013.
Il giudice delle leggi ha
infatti dichiarato illegittimo il comma 5 dell'art. 42 del dlgs n. 151/2001 (T.u. delle norme a tutela della maternità e
paternità), nella parte in cui non include nel novero dei
soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il
parente o affine entro il terzo grado.
La Suprema corte, si legge nella nota, ha sostanzialmente
uniformato la platea dei lavoratori che possono fruire del
congedo in argomento con quelli titolari dei permessi
previsti dalla legge n. 104/1992, mantenendo peraltro
invariato sia l'ordine tassativo di priorità di tali
soggetti (coniuge, genitore, figlio, fratello o sorella del
soggetto disabile) che la necessità della convivenza col
familiare in situazione di disabilità grave, requisiti non
richiesti al referente unico che fruisce dei permessi
previsti nella stessa legge n. 104/1992.
Il messaggio, che annuncia l'implementazione di una nuova
procedura con la creazione di uno specifico archivio,
fornisce tra l'altro alcune precisazioni relative
all'attività part-time. Nel caso di rapporto di lavoro
part-time verticale o misto, il numero delle giornate di
congedo fruibile nell'arco della vita lavorativa, fissate in
n. 730 (due anni), è riproporzionato in ragione della
percentuale di prestazione lavorativa, come indicato dal
Dipartimento della funzione pubblica con nota del 12.09.2012.
La nota conclude precisando che nel caso di part-time
verticale o misto con articolazione della prestazione su
alcuni giorni della settimana, verranno conteggiate a titolo
di congedo straordinario soltanto le giornate in cui è
prevista da contratto la prestazione lavorativa; nel caso di
fruizione in modalità continuativa, saranno conteggiate a
titolo di congedo anche tutti i sabati e tutte le domeniche
ricadenti nel periodo nonché le eventuali festività
infrasettimanali, se coincidenti con giornate in cui è
dovuta la prestazione
(articolo ItaliaOggi del 17.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
LEGGE DI STABILITÀ/
Risparmio energetico e recupero edilizio, bonus anche nel
2014.
Prorogata anche la detrazione per i mobili.
Non verrà prorogata al 2014 la maxi-detrazione Irpef del 50%
per gli acquisti delle abitazioni facenti parte di
fabbricati interamente ristrutturati, per i quali quindi dal
prossimo anno si ritornerà al bonus del 36% sul 25% del
prezzo di acquisto. Inoltre questa spesa, oggi sufficiente
per poter acquistare i mobili e gli elettrodomestici
detraibili al 50%, il prossimo anno non potrà più essere
utilizzata a questo fine.
Sono queste alcune delle novità
previste dalla legge di stabilità 2014, approvata martedì
scorso dal Consiglio dei ministri, con la quale sono state
prorogate molte delle agevolazioni fiscali sui lavori in
casa.
Risparmio energetico
La detrazione Irpef ed Ires del 55% (ora del 65% per le
spese sostenute del 06.06.2013 al 31.12.2013) sugli
interventi per il risparmio energetico degli edifici
scadrebbe il 31.12.2013, ma il disegno di legge di
stabilità 2014 prevede la sua proroga fino al 31.12.2014 con la percentuale del 65% e per tutto il 2015 con la
percentuale ridotta del 50 per cento. Per individuare la
misura del bonus da utilizzare (55-65-50%) vale la data in
cui la spesa viene sostenuta, cioè, pagate per i privati o
di competenza per le imprese.
Per gli interventi sul risparmio energetico le variazioni
delle percentuali di detrazione dal 55% al 65% (dal 06.06.2013) e successivamente al 50% (per il 2015) non incidono
sull'importo massimo della detrazione spettante, ma variano
la spesa massima agevolabile (si veda la tabella a lato).
Recupero edilizio
Per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio
(manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento
conservativo), l'aumento della detrazione Irpef dal 36% al
50% (con limite di spesa passato da 48.000 euro a 96.000
euro, per singola unità immobiliare), in vigore per i
pagamenti effettuati dal 26.06.2012, scadrebbe il
prossimo 31.12.2013, ma la legge di stabilità 2014,
prevede ora la sua proroga fino al 31.12.2014 (tranne
che per l'acquisto di abitazioni in fabbricati interamente
ristrutturati). Successivamente non si ritornerà subito alla
percentuale a regime del 36%, ma si applicherà il 40% per
tutto il 2015.
Mobili ed elettrodomestici
La detrazione del 50% del costo di acquisto dei mobili e dei
grandi elettrodomestici, destinati ad arredare il fabbricato
ristrutturato, è stata prorogata fino alla fine del 2014
dalla legge di stabilità 2014, risolvendo così il problema
della mancata indicazione nella norma originaria della data
di scadenza dell'incentivo.
Va prestata attenzione al fatto
che quest'anno la detrazione Irpef del 50% sugli arredi e
gli elettrodomestici è possibile solo se spetta la
detrazione del 50% per uno qualsiasi dei lavori
dell'articolo 16-bis, Tuir, pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2013 (non fino al 2015), mentre per l'acquisto
(pagamento) degli arredi nel 2014 si beneficerà
dell'incentivo Irpef del 50% sui mobili e gli
elettrodomestici ma solo se in abbinata spetta la detrazione
del 50% o del 40% per uno dei lavori dell'articolo 16-bis,
comma 1, Tuir (escluso quindi il comma 3, relativo
all'acquisto di abitazioni in fabbricati interamente
ristrutturati), pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2015 (articolo Il Sole 24 Ore 17.10.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
LEGGE DI STABILITA'/ Blocco contratti anche nel
2014. Congelata l'indennità di vacanza contrattuale nella
p.a.. Le disposizioni anche su
straordinari e tasse per i concorsi.
Torna la proroga al 31.12.2014 del
blocco dei contratti collettivi nazionali di lavoro dei
dipendenti pubblici.
È il disegno di legge di stabilità per il 2014 a far tornare
sui radar della normativa una disposizione che viene
annunciata da circa un anno e che la scorsa estate [...] (articolo ItaliaOggi del
16.10.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sono devoluti alla
giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle
acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n. 1775, art.
143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso provvedimenti
amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di
un potere propriamente attinente alla materia delle acque
pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio
idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime
delle acque.
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito
della giurisdizione del giudice specializzato,
circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione
caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a
disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a
determinare i modi di acquisto dei beni necessari
all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a
stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad
influire nella loro realizzazione mediante sospensione o
revoca dei relativi provvedimenti.
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a
quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in
primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il
precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in
cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle
derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare
da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati
alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di
ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla
giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato
ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto
atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti
finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche,
quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti
ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di
opere relative alle acque pubbliche.
La giurisprudenza consolidata della Corte
di Cassazione ha precisato che sono devoluti alla
giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle
acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n.
1775, art. 143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso
provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano
esercizio di un potere propriamente attinente alla materia
delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del
demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul
regime delle acque (cfr., Cassazione civile sez. un., 19.04.2013, n. 9534).
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito
della giurisdizione del giudice specializzato,
circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione
caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a
disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a
determinare i modi di acquisto dei beni necessari
all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a
stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad
influire nella loro realizzazione mediante sospensione o
revoca dei relativi provvedimenti (cfr., Cass., sez. un.,
337/2003).
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a
quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in
primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il
precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in
cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle
derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare
da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati
alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di
ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla
giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato
ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto
atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti
finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche,
quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti
ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di
opere relative alle acque pubbliche (Cass. sez. un.
14195/2005; 337/2003; 9424/1987), alle relative
aggiudicazioni (Cass. 10826/1993).
La Corte di Cassazione ha poi ribadito che, in tema di
diritti esclusivi di pesca, la giurisdizione riservata al
tribunale superiore delle acque pubbliche dall'art. 143 r.d.
n. 1175 del 1933, è limitata in base al collegamento a
fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma
dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per
la loro emanazione e dalla autorità pubblica da cui
promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi proposti contro
provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque
del demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su
ogni acqua pubblica, adottati dai ministeri competenti
(cfr., Cassazione civile sez. un., 05.10.2004, n. 19857)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
31.10.2013 n. 2418 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sono vincoli preordinati
all'espropriazione quelli che svuotano il contenuto del
diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto
da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione
naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo
valore di scambio.
Tali quindi non sono le previsioni di un piano regolatore
che destinano un'area a verde pubblico attrezzato,
trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in
quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero
territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una
generalità di beni, in funzione della destinazione
dell'intera zona in cui questi ricadono.
Sul punto è stato chiarito che sono vincoli
preordinati all'espropriazione quelli che svuotano il
contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio; tali quindi non sono
le previsioni di un piano regolatore che destinano un'area a
verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli
conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella
zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di
esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione
della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono
(cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 06.05.2013, n. 2432).
Nel caso di specie, non può dubitarsi che i provvedimenti
impugnati riguardano una generalità di beni in funzione
della destinazione della zona a Riserva Naturale e non
svuotano di certo il diritto di proprietà, né ne
diminuiscono in modo significativo il valore di scambio, ma
semplicemente alterano, in maniera peraltro non incisiva, il
diritto di godimento sui beni medesimi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
31.10.2013 n. 2417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sono correttamente da
qualificarsi quali opere di ristrutturazione edilizia, e non
di manutenzione straordinaria, le opere edilizie che
consistono nella creazione di due mini alloggi -dotati di
servizi igienici, soggiorno con zona cottura e camera da
letto– e di un archivio, ricavati dalla suddivisione,
mediante la costruzione di muri interni, di un’unica sala
polivalente e nella realizzazione, sempre in assenza di
titolo edilizio, di un nuovo ingresso al locale portineria,
mediante trasformazione di una finestra in portafinestra.
---------------
Ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, sono interventi di
manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, a
condizione che –oltre a non alterare i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari- non comportino modifiche
delle destinazioni di uso.
Nel caso di specie, la trasformazione del terzo livello
dell’edificio, da sala polivalente in alloggi destinati agli
ospiti della struttura, configura una modifica della
destinazione d'uso rilevante, intervenendo tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico: le opere realizzate
determinano, invero, un incremento della capacità ricettiva
della struttura assistenziale di due unità abitative e
producono, di conseguenza, un impatto maggiore sulle opere
collettive al servizio dell’immobile.
Il mutamento di destinazione d'uso della porzione
dell'immobile, portando, ad un organismo in parte diverso
dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, è stato, quindi, correttamente ricondotto
nell'ambito della categoria della ristrutturazione edilizia,
di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n.
380.
----------------
La trasformazione di una finestra in portafinestra
costituisce, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del
d.p.r. 06.06.2001, n. 380, modifica del prospetto e non
opera di manutenzione.
--------------
Non può ritenersi incongruo il termine di trenta giorni
concesso dall’amministrazione per provvedere al ripristino
dello stato dei luoghi, trattandosi di opere di consistenza
non particolarmente rilevante.
Le opere, oggetto del provvedimento
impugnato, consistono nella creazione, in assenza di titolo
abilitativo, di due mini alloggi -dotati di servizi
igienici, soggiorno con zona cottura e camera da letto– e
di un archivio, ricavati dalla suddivisione, mediante la
costruzione di muri interni, di un’unica sala polivalente e
nella realizzazione, sempre in assenza di titolo edilizio,
di un nuovo ingresso al locale portineria, mediante
trasformazione di una finestra in portafinestra.
Tali abusivi interventi edilizi sono stati correttamente
qualificati quali opere di ristrutturazione edilizia e non
di manutenzione straordinaria.
Ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, sono interventi di
manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, a
condizione che –oltre a non alterare i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari- non comportino
modifiche delle destinazioni di uso.
Nel caso di specie, la trasformazione del terzo livello
dell’edificio, da sala polivalente in alloggi destinati agli
ospiti della struttura, configura una modifica della
destinazione d'uso rilevante, intervenendo tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico: le opere realizzate
determinano, invero, un incremento della capacità ricettiva
della struttura assistenziale di due unità abitative e
producono, di conseguenza, un impatto maggiore sulle opere
collettive al servizio dell’immobile.
Il mutamento di destinazione d'uso della porzione
dell'immobile, portando, ad un organismo in parte diverso
dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, è stato, quindi, correttamente ricondotto
nell'ambito della categoria della ristrutturazione edilizia,
di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n.
380.
Parimenti, la trasformazione di una finestra in
portafinestra costituisce, ai sensi dell'art. 10, comma 1,
lett. c), del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, modifica del
prospetto e non opera di manutenzione (cfr. Consiglio di
Stato, sez. VI, 04.10.2011, n. 5431; 30.05.2011, n.
3223; TAR Napoli Campania, sez. IV, 20.03.2012, n.
1374; Cassazione penale, sez. III, 04.12.2008, n. 834).
Legittimamente pertanto l’amministrazione ha ritenuto che le
opere realizzate -in quanto intervento di ristrutturazione
edilizia non consentito dallo strumento urbanistico nella
zona “centro storico ed insediamenti storici del territorio”
in cui ricade l’immobile- non fossero sanabili.
Il provvedimento è adeguatamente motivato, specie
considerando quanto diffusamente argomentato nel parere
legale del 02.04.2012, richiamato per relationem: tali
atti indicano chiaramente la ragione posta a fondamento del
diniego, legata alla qualificazione delle opere quale
ristrutturazione edilizia ed al loro contrasto con l’art. 8
delle n.t.a.
In considerazione della natura vincolata del potere
esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del
provvedimento impugnato, la censura con cui viene lamentata
la violazione dell’art. 10-bis, della l. n. 241/1990, anche
ove fondata, non porterebbe comunque all’annullamento del
provvedimento, così come previsto dall’art. 21-octies, l. n.
241/1990.
Non può, poi, ritenersi incongruo il termine di trenta
giorni concesso dall’amministrazione per provvedere al
ripristino dello stato dei luoghi, trattandosi di opere di
consistenza non particolarmente rilevante
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
30.10.2013 n. 2391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All'annullamento del parere negativo della
Soprintendenza espresso sulla richiesta di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica per un intervento edilizio
consegue il riesercizio del potere da parte della
Soprintendenza medesima, non potendo lo stesso, che si
estrinseca in un parere di carattere vincolante -da
assimilarsi pertanto ad un potere di amministrazione attiva,
di cogestione dei valori paesistici- considerarsi
esauribile, al contrario del preesistente sindacato di
annullamento.
Dunque, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale
del precedente parere negativo, il progetto avrebbe dovuto
essere nuovamente sottoposto all’esame della Soprintendenza
per l’espressione del parere obbligatorio e vincolante, da
rendersi nel termine di legge (quarantacinque giorni)
decorrente dalla conoscenza del giudicato di annullamento,
salva la sollecitazione dei rimedi surrogatori e sostitutivi
di cui all’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 per il
caso di inutile decorso del termine.
Ai sensi dell’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004,
l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire, e su di essa
si pronuncia la regione, o l’ente da questa delegato, “dopo
avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in
relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree
sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”.
Nel caso di specie, con il provvedimento impugnato il comune
ha ritenuto che, con l’annullamento in sede giurisdizionale
del parere negativo della Soprintendenza emesso in data
16.02.2012 (cfr. la sentenza del TAR Liguria, I, 03.05.2012,
n. 622 - doc. 4 delle produzioni comunali 20.08.2012), si
fosse consumato per scadenza dei termini il relativo potere
consultivo.
Al contrario, all'annullamento del parere negativo espresso
sulla richiesta di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica per un intervento edilizio consegue il
riesercizio del potere da parte della Soprintendenza, non
potendo lo stesso, che si estrinseca in un parere di
carattere vincolante -da assimilarsi pertanto ad un potere
di amministrazione attiva, di cogestione dei valori
paesistici- considerarsi esauribile, al contrario del
preesistente sindacato di annullamento (così TAR Campania-Napoli, VII, 11.10.2012, n. 4073; id.
06.09.2012, n.
3768).
Dunque, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale
del precedente parere negativo, il progetto avrebbe dovuto
essere nuovamente sottoposto all’esame della Soprintendenza
per l’espressione del parere obbligatorio e vincolante, da
rendersi nel termine di legge (quarantacinque giorni)
decorrente dalla conoscenza del giudicato di annullamento
(Cons. di St., VI, 04.09.2007, n. 4632, resa con riferimento
al termine perentorio di sessanta giorni di cui all'art. 159,
comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio,
allora previsto per l'esercizio del diverso potere di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica), salva la
sollecitazione dei rimedi surrogatori e sostitutivi di cui
all’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 per il caso di
inutile decorso del termine.
Resta soltanto da dire che, diversamente da quanto ritenuto
dal comune, la sentenza TAR Liguria, I, 03.05.2012, n. 622
non si è affatto pronunciata sulla positiva rispondenza
dell’intervento di ricostruzione ai valori paesistici
preesistenti, avendo annullato il parere negativo della
Soprintendenza per difetto di adeguata motivazione.
Stante la mancanza della presupposta autorizzazione
paesaggistica e -ancor prima– del necessario parere
vincolante della Soprintendenza, il permesso di costruire in
sanatoria 08.05.2012 prot. 3685 dev’essere dunque annullato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I proprietari di immobili posti in zone
confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso
di costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli
edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono
pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono
modificare l'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale
della zona, né è necessaria la prova di un danno specifico,
in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è
insito nella violazione edilizia.
---------------
Il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato
tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del
procedimento avviato per il rilascio di un titolo edilizio,
ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, pur se lo
stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni
all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Per ciò che concerne la contestata vicinitas e
l’assenza di pregiudizio per i ricorrenti, l’eccezione
appare all’evidenza pretestuosa: se in linea di fatto è
incontestato come gli immobili siano distanti solo 15 metri
e collocati nel medesimo contesto urbanistico territoriale,
in linea di diritto costituisce jus receptum, ribadito dalla
sezione e dalla prevalente giurisprudenza, che i proprietari
di immobili posti in zone confinanti o limitrofe con quelle
interessate da un permesso di costruzione sono sempre
legittimati ad impugnare i titoli edilizi che, incidendo
sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro
proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto
edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, né è
necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il
danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella
violazione edilizia (cfr. ad es. Consiglio di Stato n.
3055/2013 e 2488/2013, Tar Liguria n. 34/2013).
---------------
La sezione in
materia si è già espressa ribadendo il principio a mente del
quale il vicino controinteressato non è un soggetto
contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di
avvio del procedimento avviato per il rilascio di un titolo
edilizio, ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n.
241, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in
precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro
soggetto confinante (cfr. Tar Liguria n. 1736/2009) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla legittimità che l’autorizzazione
paesaggistica sia stata rilasciata dal medesimo soggetto che
ha sottoscritto il permesso di costruire.
Viene dedotta la
violazione dell’art. 146, comma 6, d.lgs. 42/2004, in quanto
l’autorizzazione paesaggistica risulta rilasciata dal
medesimo soggetto che ha sottoscritto il permesso di
costruire, con conseguente commistione di valutazioni
palesemente differenti da cui discende l’incompatibilità del
funzionario.
Invero, in linea generale, in assenza di una specifica
tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle
attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter
procedimentale nonché dai diversi presupposti oggetto di
esame.
Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali
differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e
per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo
paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche
consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da
cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile
inferire automaticamente che la stessa persona non possa
partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti
valutazioni.
E’ pur vero che proprio la diversità di valutazioni
renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa
amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari
responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti
locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile
raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali
considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa
formulazione della norma invocata, che parla di garantire la
differenziazione di attività.
Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni
debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti,
pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti
di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della
compatibilità col vincolo paesaggistico.
---------------
E’ in tale contesto che va quindi interpretata la norma
invocata, la quale, in termini di indicazione programmatoria
a monte, prevede che “gli enti destinatari della delega
dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia”. In assenza della necessaria
formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che
deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato
livello tecnico-scientifico nonché la differenziazione
oggettiva di valutazione e della relativa attività.
E’ evidente che tale differenziazione sia meglio
perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei
soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in
assenza di una specifica regola di incompatibilità
soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed
alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a
valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il
provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di
verificare la sussistenza nella specie delle adeguate
cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica
esplicazione delle ragioni sottese alla decisione
amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per
l’accoglimento del progetto che per il diniego.
Invero, in linea ordinaria l’esercizio del potere valutativo
comunale è vincolato dal parere del Soprintendente, cosicché
la questione in esame perde di particolare rilievo nel caso
normale disciplinato dal comma 6 dell’art. 146. Nel caso di
specie, invece, è stato esercitato il potere–dovere di cui
al comma 9, in assenza del parere dell’organo statale.
In tale contesto, la disposizione invocata col motivo in
esame è nata all’evidenza come norma di carattere
programmatorio, il cui destinatario primario è la Regione la
quale, nel valutare la tipologia di organo cui eventualmente
delegare la funzione in parola, deve valutare gli elementi
indicati dal legislatore; al riguardo, è possibile, come
fatto in altre in altre Regioni, individuare elenchi di
comuni aventi le necessarie caratteristiche, ovvero
incentivare forme di associazione e cooperazione fra comuni
per l’esercizio di tale funzione.
Nel caso in esame, in assenza di tali adempimenti regionali,
valgono le considerazioni predette, non potendo farsi cadere
a carico dei singoli comuni, in termini di illegittimità di
singoli atti per mera incompatibilità soggettiva, un
previsione programmatoria quale quella invocata.
Con il secondo
ordine di censure, viene dedotta la violazione dell’art. 146,
comma 6, d.lgs. 42/2004, in quanto l’autorizzazione
paesaggistica risulta rilasciata dal medesimo soggetto che
ha sottoscritto il permesso di costruire, con conseguente
commistione di valutazioni palesemente differenti da cui
discende l’incompatibilità del funzionario.
Invero, in linea generale, in assenza di una specifica
tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle
attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter
procedimentale nonché dai diversi presupposti oggetto di
esame.
Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali
differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e
per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo
paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche
consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da
cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile
inferire automaticamente che la stessa persona non possa
partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti
valutazioni.
E’ pur vero che proprio la diversità di
valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della
stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei
funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse
degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di
non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche
su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa
formulazione della norma invocata, che parla di garantire la
differenziazione di attività. Ciò non toglie che il
sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con
i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del
progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità
edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col
vincolo paesaggistico.
E’
in tale contesto che va quindi interpretata la norma
invocata, la quale, in termini di indicazione programmatoria
a monte, prevede che “gli enti destinatari della delega
dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia”. In assenza della necessaria
formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che
deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato
livello tecnico-scientifico nonché la differenziazione
oggettiva di valutazione e della relativa attività.
E’
evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile
in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari
delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una
specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone
un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze
organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle,
l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il
provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di
verificare la sussistenza nella specie delle adeguate
cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica
esplicazione delle ragioni sottese alla decisione
amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per
l’accoglimento del progetto che per il diniego.
Invero, in linea ordinaria l’esercizio del potere valutativo
comunale è vincolato dal parere del Soprintendente, cosicché
la questione in esame perde di particolare rilievo nel caso
normale disciplinato dal comma 6 dell’art. 146. Nel caso di
specie, invece, è stato esercitato il potere–dovere di cui
al comma 9, in assenza del parere dell’organo statale.
In
tale contesto, la disposizione invocata col motivo in esame
–come emerge dalla sua stessa formulazione- è nata
all’evidenza come norma di carattere programmatorio, il cui
destinatario primario è la Regione la quale, nel valutare la
tipologia di organo cui eventualmente delegare la funzione
in parola, deve valutare gli elementi indicati dal
legislatore; al riguardo, è possibile, come fatto in altre
in altre Regioni, individuare elenchi di comuni aventi le
necessarie caratteristiche, ovvero incentivare forme di
associazione e cooperazione fra comuni per l’esercizio di
tale funzione.
Nel caso in esame, in assenza di tali
adempimenti regionali, valgono le considerazioni predette,
non potendo farsi cadere a carico dei singoli comuni, in
termini di illegittimità di singoli atti per mera
incompatibilità soggettiva, un previsione programmatoria
quale quella invocata
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie (e
che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero), costituisce un vincolo assoluto di
inedificabilità , tale da imporsi anche a contrastanti
previsioni di PRG, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
Ciò premesso, questo Tribunale ha più
volte confermato la natura assoluta del vincolo cimiteriale
(Tar Liguria, I n. 815/2011; n. 704/2012) in linea peraltro
con la giurisprudenza amministrativa più recente CdS IV,
n. 4403/2011; sez. V n. 6671/2010).
In particolare con riferimento ad un caso analogo a quello
oggi in considerazione è stato di recente affermato che: "la
fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u.
leggi sanitarie (e che deve essere misurata a partire dal
muro di cinta del cimitero), costituisce un vincolo assoluto
di inedificabilità , tale da imporsi anche a contrastanti
previsioni di PRG, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2011 n. 1645 e 27.10.2009 n. 6547; sez. V, 14.09.2010 n. 6671)" (cfr. C.d.S., sez. sez. IV, 20.07.2011, n. 4403 cit.; Tar Campania II
n. 2447/2013)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia il diniego di condono
rispetto ad opere per legge non suscettibili di sanatoria,
sia gli interventi repressivi degli abusi edilizi, sono
espressione di un potere dell'amministrazione di natura
vincolata e non discrezionale, che in quanto tale non è
soggetto ad eccesso di potere, ma soltanto ad eventuali vizi
di violazione di legge o di incompetenza.
---------------
Per le opere abusive realizzate in area soggetta a vincolo
d’inedificabilità assoluta non si può realizzare il
silenzio-assenso che contrasterebbe con la previsione del
legislatore che ha posto con l’art. 33 della l.n. 47/1985 un
vincolo assoluto d’inedificabilità.
Infatti sia il
diniego di condono rispetto ad opere per legge non
suscettibili di sanatoria, sia gli interventi repressivi
degli abusi edilizi, sono espressione di un potere
dell'amministrazione di natura vincolata e non
discrezionale, che in quanto tale non è soggetto ad eccesso
di potere, ma soltanto ad eventuali vizi di violazione di
legge o di incompetenza (in materia di ordini di
demolizione, cfr. TAR Campania Salerno, sez. I, 06.12.2011, n. 1926; TAR Sicilia Catania, sez. I, 20.09.2010, n. 3763).
L’ultimo motivo, nel quale si afferma la violazione
dell’art. 35, XII c., L. n. 47/1985 è infondato secondo una
costante giurisprudenza che è pacifica nel ritenere che per
le opere abusive realizzate in area soggetta a vincolo d’inedificabilità
assoluta non si può realizzare il silenzio-assenso che
contrasterebbe con la previsione del legislatore che ha
posto con l’art. 33 della l.n. 47/1985 un vincolo assoluto d’inedificabilità (da ultimo Tar Umbria Pg.
N. 463/2013)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione prescritta, confisca illegittima.
La corte dei diritti dell'uomo condanna l'Italia a risarcire
i danni morali.
Confiscare un bene quando il reato di lottizzazione abusiva
(nel caso si frazioni una o più parti di un terreno, in
assenza di norme o in difformità rispetto a quelle vigenti)
è prescritto è illegittimo.
A stabilirlo la Corte europea
dei diritti dell'uomo (sentenza
29.10.2013 ricorso n. 17475/2009) che ha condannato l'Italia a risarcire
i danni morali per 10 mila euro, nonché patrimoniali (da
concordare con lo stato) ad un imprenditore pugliese
sottoposto a ben sei gradi di giudizio in un decennio.
La vicenda giudiziaria, cominciata nel 1985, riguarda la
presunta lottizzazione abusiva a Cassano delle Murge (in
provincia di Bari), in un'area sottoposta a vincolo
paesaggistico.
Ventotto anni fa l'uomo, oggi settantenne, inizia la
realizzazione di un complesso residenziale di 17 edifici,
composto da 4 appartamenti ciascuno, dopo avere stipulato un
piano di lottizzazione approvato dal comune: però, qualche
mese dopo l'apertura dei cantieri viene promulgato il
decreto ministeriale che dispone per quelle zone la tutela
del paesaggio, e ne conferisce la giurisdizione esclusiva
all'amministrazione regionale della Puglia, che le dichiara
inedificabili, in assenza di una convenzione di
lottizzazione col comune approvata prima del 1990.
Tre anni dopo, ci si accorge, tuttavia, che
nell'autorizzazione del 1985 era compresa anche un'area
attraversata da un acquedotto, perciò se ne richiede una
revisione: la variante viene ritenuta un nuovo progetto, e
ne deriva, perciò, un processo per lottizzazione abusiva,
mentre il complesso viene sottoposto a sequestro. Nel 1998,
l'imprenditore viene condannato a 9 mesi di reclusione, ma
nel 2001 la Corte di appello di Bari lo assolve «perché
il fatto non sussiste», poi la Cassazione annulla con
rinvio la sentenza e il processo torna in secondo grado,
dove si emette una sentenza di condanna; nuovamente
interpellata la Suprema corte annulla con rinvio anche tale
pronunciamento.
Nel 2006, la Corte d'appello di Bari dichiara prescritto il
reato di lottizzazione abusiva, ma non revoca la confisca.
E, infine, adesso l'organismo Ue accoglie le richieste
dell'imprenditore, perché la confisca in presenza di
prescrizione «viola i principi di legalità e di tutela
della proprietà privata». La difesa ha chiesto 500 mila
euro di danni patrimoniali
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai sensi dell’art. 12
delle cd. preleggi, l’interpretazione logica, in base alla
quale il giudice deve stabilire quale sia la reale
intenzione del Legislatore alla stregua di un canone
ermeneutico oggettivo, enucleando la voluntas legis (e cioè
la funzione a cui la norma risponde nel contesto del sistema
in cui è attualmente inserita, e non lo scopo perseguito da
chi ebbe a redigerla), incontra un limite invalicabile,
rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima
capacità di espansione: non a caso, infatti, il criterio
teleologico viene in rilievo solo quando non sia possibile
applicare con certezza il criterio letterale.
Ne discende che, ove la lettera della legge sia chiara, essa
è insuperabile e preclude il ricorso a criteri ermeneutici
suppletivi.
Si ricorda, sul punto, che, ai sensi
dell’art. 12 delle cd. preleggi, l’interpretazione logica,
in base alla quale il giudice deve stabilire quale sia la
reale intenzione del Legislatore alla stregua di un canone
ermeneutico oggettivo, enucleando la voluntas legis (e cioè
la funzione a cui la norma risponde nel contesto del sistema
in cui è attualmente inserita, e non lo scopo perseguito da
chi ebbe a redigerla), incontra un limite invalicabile,
rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima
capacità di espansione: non a caso, infatti, il criterio
teleologico viene in rilievo solo quando non sia possibile
applicare con certezza il criterio letterale (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. I, 11.01.2012, n. 41).
Ne
discende che, ove la lettera della legge sia chiara, essa è
insuperabile e preclude il ricorso a criteri ermeneutici
suppletivi (C.d.S., Sez. IV, 27.04.2005, n. 1948) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.10.2013 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I vincoli conformativi (ad es. i vincoli
di rispetto delle strade esistenti, e, in generale, i
vincoli a verde di zona) si differenziano dai vincoli
preordinati all’espropriazione, in quanto non svuotano
il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul
godimento del bene in modo da renderlo inutilizzabile
rispetto alla sua destinazione naturale, o diminuendone
significativamente il valore di scambio: costituendo
espressione della volontà conformativa del pianificatore, i
vincoli di questo tipo non sono soggetti a decadenza ed
hanno validità a tempo indeterminato.
A differenza del vincolo conformativo, rispondente al
potere pianificatorio di razionale sistemazione del
territorio in zone omogenee, il vincolo –sia esso
sostanziale, o solo strumentale– preordinato all’esproprio,
ovvero che comporti l’inedificabilità del suolo o, comunque,
che incida in maniera significativa e per un tempo
irragionevole sulla proprietà dell’interessato, è soggetto a
decadenza, con conseguente assoggettamento dell’area al
regime delle cd. zone bianche ex art. 4, ult. comma, della
l. n. 10/1977 ed ora art. 9 del d.P.R. n. 380/2001.
Occorre
rammentare, sul punto, che i vincoli conformativi (ad es. i
vincoli di rispetto delle strade esistenti, e, in generale,
i vincoli a verde di zona) si differenziano dai vincoli
preordinati all’espropriazione, in quanto non svuotano il
contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento
del bene in modo da renderlo inutilizzabile rispetto alla
sua destinazione naturale, o diminuendone significativamente
il valore di scambio: costituendo espressione della volontà conformativa del pianificatore, i vincoli di questo tipo non
sono soggetti a decadenza ed hanno validità a tempo
indeterminato (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 05.07.2011, n. 5889).
A differenza del vincolo conformativo,
rispondente al potere pianificatorio di razionale
sistemazione del territorio in zone omogenee, il vincolo –sia esso sostanziale, o solo strumentale– preordinato
all’esproprio, ovvero che comporti l’inedificabilità del
suolo o, comunque, che incida in maniera significativa e per
un tempo irragionevole sulla proprietà dell’interessato, è
soggetto a decadenza, con conseguente assoggettamento
dell’area al regime delle cd. zone bianche ex art. 4, ult.
comma, della l. n. 10/1977 ed ora art. 9 del d.P.R. n.
380/2001 (cfr. C.d.S., Sez. V, 28.12.2007, n. 6741) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.10.2013 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L’omissione della previa comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza di rilascio del
permesso di costruire non ha consentito alla ricorrente di
offrire alla P.A. quegli elementi, poi allegati in sede
giudiziale, che avrebbero dovuto, invece, essere presi in
esame dalla P.A. stessa ai fini della completezza
dell’istruttoria svolta e dell’assunzione delle
determinazioni più congrue.
Invero, sul punto, l’art. 10-bis della l. n. 241/1990, nel
disciplinare l’istituto del cd. preavviso di rigetto, ha lo
scopo di far conoscere alle Amministrazioni, in
contraddittorio rispetto alle motivazioni da queste assunte
in base agli esiti dell’istruttoria espletata, quelle
ragioni (fattuali e giuridiche) dell’interessato, che
potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti
una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo.
Conseguentemente, è illegittimo il notificato diniego
comunale sulla presentata istanza di permesso di costruire.
... per l’annullamento del provvedimento del Comune di S.
Felice Circeo prot. n. 21992 del 07.09.2010,
notificato in data 11.09.2010 (determinazione d’esame
n. 101/10), con cui è stata rigettata la domanda di permesso
di costruire inoltrata dalla ricorrente in data 15.12.2008 per la costruzione di un fabbricato, da adibire a
civile abitazione, su un terreno sito in via Del Colle;
...
-
Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare
sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., in
virtù della manifesta fondatezza del ricorso ed in specie
per la manifesta fondatezza della censura avente ad oggetto
la violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990;
-
Considerato, sul punto, che il diniego gravato attestava
l’invio alla sig.ra Sperduti della nota prot. n. 1185 del 16.01.2009, recante comunicazione di avvio del
procedimento “ai sensi degli artt. 7 e 10-bis della L.
241/1990” e che però detta nota, acquisita in esito
all’istruttoria disposta dal Collegio con ordinanza n.
267/2013 (v. all. 6 alla nota del Comune di S. Felice Circeo prot. n. 12849 del 21.06.2013), integra comunicazione di
avvio del procedimento, ma non certo preavviso di rigetto ex
art. 10-bis cit.;
-
Osservato, perciò, che l’omissione della previa
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza di rilascio del permesso di costruire non ha
consentito alla ricorrente di offrire alla P.A. quegli
elementi, poi allegati in sede giudiziale (in particolare,
lo stato di urbanizzazione della zona e la sussistenza di
altri insediamenti edilizi), che avrebbero dovuto, invece,
essere presi in esame dalla P.A. stessa ai fini della
completezza dell’istruttoria svolta e dell’assunzione delle
determinazioni più congrue;
-
Considerato, infatti, sul punto, che l’art. 10-bis della l.
n. 241/1990, nel disciplinare l’istituto del cd. preavviso
di rigetto, ha lo scopo di far conoscere alle
Amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle
motivazioni da queste assunte in base agli esiti
dell’istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e
giuridiche) dell’interessato, che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo (C.d.S., Sez.
VI, 06.08.2013, n. 4111);
-
Considerate, inoltre, insussistenti le condizioni per
applicare alla vicenda in esame l’art. 21-octies, comma 2,
della l. n. 241/1990, anche alla luce delle osservazioni
contenute nella perizia di parte (e che avrebbero potuto
essere prodotte in sede procedimentale, se fosse stato
adempiuto l’obbligo ex art. 10-bis della l. n. 241 cit.)
circa la saturazione dei lotti liberi limitrofi e la
realizzazione di nuove edificazioni nel 2012;
-
Ritenuto, infine, che in contrario non possa invocarsi –come pretende il Comune– la pronuncia di segno opposto
contenuta nell’ordinanza cautelare di questa Sezione n.
145/2013 del 18.04.2013, sia per la diversità delle
censure dedotte, sia perché viene asserita, ma non
dimostrata la coincidenza delle aree interessate, sia,
soprattutto, per essere stata la suddetta ordinanza emessa a
seguito di una delibazione (necessariamente) solo sommaria;
- Ritenuto, alla luce di quanto si è detto, di dover
pronunciare sentenza di accoglimento del ricorso, in virtù
della fondatezza della dedotta censura di violazione
dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 e con assorbimento di
tutte le ulteriori censure, e di dovere, per conseguenza,
disporre l’annullamento del diniego con esso impugnato
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.10.2013 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nell’ambito del sistema
di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione
urbanistica, nonché ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n.
267/2000, il termine per l’impugnazione degli strumenti
urbanistici decorre non già dalla notifica ai singoli
proprietari interessati dalla disciplina del territorio,
bensì dall’ultimo giorno della pubblicazione all’Albo
pretorio dell’avviso di deposito presso gli uffici comunali
dei documenti riferiti al piano approvato.
Ed invero, la pubblicazione ex art. 124 cit. comporta, per i
soggetti non contemplati negli atti o a cui gli atti stessi
siano in ogni caso riferibili, presunzione di conoscenza,
con il corollario che è dall’ultimo giorno di pubblicazione
che decorre per i terzi interessati il termine decadenziale
di n. 60 giorni per proporre impugnazione avverso gli atti
in questione.
---------------
In via generale gli atti di pianificazione, stante il loro
carattere di atti generali, non si debbono considerare
soggetti a comunicazione individuale.
Tuttavia, in materia urbanistica, la giurisprudenza prima
richiamata ha osservato come la regola circa il decorso del
termine decadenziale di impugnazione dall’ultimo giorno
della pubblicazione dell’atto all’Albo pretorio del Comune,
ex art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, non trovi applicazione
qualora lo strumento urbanistico incida specificatamente,
con effetti latamente espropriativi, su singoli, determinati
beni: in tal caso, infatti, il menzionato termine decorre
dalla notifica individuale al singolo proprietario
interessato.
Da quanto osservato si desume
l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’insegnamento
della giurisprudenza, per cui nell’ambito del sistema di
pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione
urbanistica, nonché ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n.
267/2000, il termine per l’impugnazione degli strumenti
urbanistici decorre non già dalla notifica ai singoli
proprietari interessati dalla disciplina del territorio,
bensì dall’ultimo giorno della pubblicazione all’Albo
pretorio dell’avviso di deposito presso gli uffici comunali
dei documenti riferiti al piano approvato (cfr., ex multis,
C.d.S., Sez. IV, 13.07.2010, n. 4045; id., 12.06.2009, n. 3730).
Ed invero, la pubblicazione ex art. 124 cit.
comporta, per i soggetti non contemplati negli atti o a cui
gli atti stessi siano in ogni caso riferibili, presunzione
di conoscenza, con il corollario che è dall’ultimo giorno di
pubblicazione che decorre per i terzi interessati il termine decadenziale di n. 60 giorni per proporre impugnazione
avverso gli atti in questione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 07.05.2004, n. 2825; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
31.12.2009, n. 1488).
---------------
In via
generale gli atti di pianificazione, stante il loro
carattere di atti generali, non si debbono considerare
soggetti a comunicazione individuale (cfr. C.d.S., Sez. V,
21.06.007, n. 3389). Tuttavia, in materia urbanistica,
la giurisprudenza prima richiamata ha osservato come la
regola circa il decorso del termine decadenziale di
impugnazione dall’ultimo giorno della pubblicazione
dell’atto all’Albo pretorio del Comune, ex art. 124 del
d.lgs. n. 267/2000, non trovi applicazione qualora lo
strumento urbanistico incida specificatamente, con effetti
latamente espropriativi, su singoli, determinati beni: in
tal caso, infatti, il menzionato termine decorre dalla
notifica individuale al singolo proprietario interessato
(C.d.S., Sez. IV, n. 4045/2010, cit. e n. 3730/2009, cit.)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.10.2013 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Shopping center sempre con la «Via».
Corte costituzionale. Per il Veneto niente
valutazione per i centri inferiori a 8mila metri quadrati.
La valutazione
di impatto ambientale va fatta anche sui centri commerciali
di medie dimensioni. E la regione non può dribblare
l'obbligo con una legge che rende la Via obbligatoria solo
per le grandi strutture.
La Corte costituzionale, con la
sentenza
28.10.2013 n. 251 redatta dal giudice Marta Cartabia e depositata
ieri, ha sancito l'illegittimità costituzionale
dell'articolo 22 della legge regionale 50/2012. Una norma
con cui il Veneto si è allontanato dai criteri fissati dallo
Stato, nel prevedere la Via per le strutture che hanno una
superficie di vendita superiore a 8mila metri quadrati e la
procedura di verifica o lo screenig per quelle che vanno dai
2.501 agli 8mila.
Il legislatore regionale impone dunque esplicitamente la
Valutazione di impatto ambientale o la verifica
all'assoggettabilità alla Via, solo per le costruzioni che
superano i 2.500 metri quadrati, "disobbedendo" così al
legislatore statale (Dlgs 152/2006) che impone le stesse
procedure per qualunque centro commerciale. Lo scollamento
con il decreto legislativo c'è anche riguardo alle
definizioni.
La norma statale considera centri commerciali «le strutture
di vendita di medie e grandi dimensioni, nelle quali più
esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a
destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture
comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente».
La regione Veneto ha considerato invece solo la grandezza
dei grandi impianti destinati alla vendita senza dare rilevo
alla caratteristica della pluralità di esercizi presenti in
un medesimo spazio.
Secondo la Consulta la disposizione impugnata, sotto questo
aspetto, è più ampia perché comprende anche i grandi locali
che sfuggono alla definizione di centro commerciale, è però
più restrittiva per la parte in cui lascia sfuggire alle
verifiche di compatibilità ambientale gli shopping center di
medie dimensioni.
I giudici costituzionali ricordano che con le sentenze 221
del 2010 e 234 del 2009 è stato sgombrato il campo da ogni
dubbio sulla competenza esclusiva dello Stato nella tutela
dell'ambiente in cui rientra la disciplina della Via.
Per questo, facendo a modo suo, la regione Veneto ha violato
l'articolo 117 della Carta che assegna allo Stato il compito
di legiferare in tema di ambiente e di ecosistema (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Via vale per i centri commerciali, non per le grandi
strutture di vendita. La corte
costituzionale su una legge del veneto.
Se è assoggettata a Via la realizzazione di un centro
commerciale, non per questo analoga procedura deve essere
rispettata per le grandi strutture commerciali che centri
commerciali non sono. Insomma, la regione Veneto avrebbe
voluto rimediare ad un errore del legislatore nazionale ma
la Corte costituzionale non glielo consente. Ciò in quanto
la materia relativa alla tutela dell'ambiente è di esclusiva
competenza dello stato.
È questo, in sostanza, il nocciolo
della questione contenuto nella
sentenza
28.10.2013 n. 251
della Corte Costituzionale
e che ha fatto seguito all'impugnativa del Governo della
legge regionale veneta 50/2012.
Ciò in quanto altre due
questioni che trattavano, invece, i procedimenti di
competenza del Suap e la procedura di variante mediante
conferenza di servizi sono state dichiarate infondate. In
pratica, la Regione Veneto aveva ritenuto un paradosso il
fatto che l'allegato IV alla Parte II, punto 7, lettera b),
del dlgs n. 152 del 2006, assoggetti a screening la
costruzione di centri commerciali previsti dal dlgs 114/1998
a prescindere dalla loro dimensione.
Perché ciò condurrebbe a ritenere che qualsiasi struttura
qualificabile come centro commerciale sia da sottoporre
necessariamente alla valutazione a prescindere dalla
dimensione dell'insediamento, con l'esito di obbligare alla
procedura di screening anche accostamenti di esercizi
commerciali di dimensioni molto contenute, laddove grandi
strutture di vendita, anche molto grandi ma non
qualificabili come centri commerciali ai sensi della
disciplina statale, non sarebbero soggette ad analoga
procedura.
Da ciò la scelta del legislatore regionale di prevedere
esplicitamente la Via o la verifica di assoggettabilità a
Via per le «grandi strutture di vendita», che
comprendono quindi anche i centri commerciali, aventi
superficie superiore ai 2.500 metri quadrati, ed escludere
quindi la verifica per le opere che «grandi strutture di
vendita» non sono anche se strutturate con la modalità
di centro commerciale.
Ma, secondo il giudice delle leggi, riferirsi a categoria
diversa da quella utilizzata dal legislatore statale, anche
se per alcuni aspetti essa è più ampia, perché al suo
interno annovera anche le strutture che non possono essere
definite centri commerciali, non è consentito, perché in tal
modo sarebbero esclusi i centri commerciali minori per i
quali, invece, il legislatore nazionale ha imposto la
verifica (articolo ItaliaOggi
del 29.10.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’amministrazione, ove non si ritenga competente
ad evadere la pratica oggetto d’istanza di un cittadino, è
tenuta ad inviarla all’ufficio competente, tenendo informato
di ciò il richiedente e, laddove previsto, anche a fornire
all’amministrazione competente il proprio contributo
istruttorio.
Tale principio è normativamente sancito dall’art. 2 comma 3
D.P.R. n. 1199 del 1971 in materia di ricorsi gerarchici, ma
è applicabile ad ogni istanza presentata alla P.A..
Peraltro, in ossequio a canoni di buona amministrazione e di
leale collaborazione con il cittadino, l’amministrazione,
prima di affermare la propria incompetenza, è tenuta a
procedere ad una riqualificazione ex officio della domanda,
nel caso in cui sia palese che l’interesse sostanziale e il
bene della vita perseguiti dal cittadino siano tutelabili
proprio attraverso provvedimenti di competenza
dell’amministrazione effettivamente evocata, al di là di
eventuali imprecisioni formali dell’istanza presentata
dell’interessato che potrebbero indurre a ritenere –ma solo
in apparenza e solo in conseguenza di dette imprecisioni
formali– la competenza di una diversa Amministrazione o,
come nel caso di specie, di un diverso organo della stessa
Amministrazione.
Costituisce principio generale del vigente
procedimento amministrativo che l’amministrazione, ove non
si ritenga competente ad evadere la pratica oggetto
d’istanza di un cittadino, è tenuta ad inviarla all’ufficio
competente, tenendo informato di ciò il richiedente e,
laddove previsto, anche a fornire all’amministrazione
competente il proprio contributo istruttorio (TAR Marche,
sez. I, 04.04.2013, n. 269; Cass. Civ. sez. trib. 27.02.2009, n. 4773).
Tale principio è normativamente sancito dall’art. 2
comma 3 D.P.R. n. 1199 del 1971 in materia di ricorsi
gerarchici, ma è applicabile ad ogni istanza presentata alla
P.A. (TAR Catania, sez. I, 22.09.2009, n. 1554).
Peraltro, in ossequio a canoni di buona amministrazione e di
leale collaborazione con il cittadino, l’amministrazione,
prima di affermare la propria incompetenza, è tenuta a
procedere ad una riqualificazione ex officio della
domanda, nel caso in cui sia palese che l’interesse
sostanziale e il bene della vita perseguiti dal cittadino
siano tutelabili proprio attraverso provvedimenti di
competenza dell’amministrazione effettivamente evocata, al
di là di eventuali imprecisioni formali dell’istanza
presentata dell’interessato che potrebbero indurre a
ritenere –ma solo in apparenza e solo in conseguenza di
dette imprecisioni formali– la competenza di una diversa
Amministrazione o, come nel caso di specie, di un diverso
organo della stessa Amministrazione
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 1136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La struttura che si
intende realizzare, una volta ricoperta con i pannelli
fotovoltaici, crea una superficie coperta di oltre 84 mq.
che, avendo una altezza minima non inferiore a circa 2,30 mt.,
(quanto alla struttura più bassa: 2,44 mt. è invece
l’altezza minima della struttura più elevata) risulta
assolutamente fruibile, ad esempio quale spazio per il
ricovero di arredi da giardino, di automezzi o per altri
utilizzi.
Pertanto, oltre che fungere da struttura portante dei
pannelli fotovoltaici, la struttura in questione possiede
oggettivamente anche le funzionalità tipiche delle tettoie,
che per costante giurisprudenza vanno annoverate tra le
nuove costruzioni soggette a preventivo rilascio di permesso
di costruire, ad eccezione dei casi in cui, inserendosi
nella sagoma di un edificio preesistente, esse svolgano una
funzione di mero riparo ed abbiano limitatissime dimensioni:
le strutture che qui vengono in considerazione non si
inseriscono nella sagoma del fabbricato preesistente,
vengono realizzate ex novo e posseggono dimensioni del tutto
significative, e pertanto, integrano a tutti gli effetti una
nuova costruzione soggetta a permesso di costruire.
---------------
Le opere necessarie per la posa di pannelli fotovoltaici non
possono sempre ed automaticamente considerarsi alla stregua
di un impianto tecnologico: non quando la struttura dia
luogo, complessivamente considerata, ad un manufatto che in
potenza sia suscettibile di un utilizzo diverso da quello
connesso alla produzione di energia.
Un pannello fotovoltaico ancorato alla falda di un tetto, ad
un muro o al suolo all’evidenza non può avere alcun diverso
utilizzo, e quindi tutte le opere necessarie per la relativa
posa e funzionamento possono qualificarsi come impianti; ma
quando il pannello -come nel caso di specie– di fatto
svolge, esso stesso, un ruolo di copertura, andrà
considerato anche come tale, allo stesso modo in cui un
locale caldaia di dimensioni sovrabbondanti, rispetto a
quelle strettamente necessarie per il ricovero della
caldaia, non può considerarsi un mero locale tecnico.
---------------
La soluzione proposta tende dunque a by-passare
l’impossibilità di realizzare nuove costruzioni, ma di fatto
vede i pannelli fotovoltaici svolgere anche una funzione di
copertura in vista di salvaguardare la fruibilità dello
spazio sottostante, e da tale constatazione discende che la
struttura in argomento deve essere assimilata, nel
complesso, ad una nuova tipologia di tettoia.
... per l'annullamento
del provvedimento del Responsabile dello Sportello Unico,
prot. n. 6970/2477 del 01.10.2007, con cui si ordina di non
effettuare l'intervento di cui alla D.I.A. presentata dalla
ricorrente per la realizzazione di impianto fotovoltaico;
...
Invero la struttura che parte ricorrente intende realizzare,
una volta ricoperta con i pannelli fotovoltaici, crea una
superficie coperta di oltre 84 mq. che, avendo una altezza
minima non inferiore a circa 2,30 mt., (quanto alla struttura
più bassa: 2,44 mt. è invece l’altezza minima della
struttura più elevata) risulta assolutamente fruibile, ad
esempio quale spazio per il ricovero di arredi da giardino,
di automezzi o per altri utilizzi.
Pertanto, oltre che
fungere da struttura portante dei pannelli fotovoltaici, la
struttura in questione possiede oggettivamente anche le
funzionalità tipiche delle tettoie, che per costante
giurisprudenza vanno annoverate tra le nuove costruzioni
soggette a preventivo rilascio di permesso di costruire, ad
eccezione dei casi in cui, inserendosi nella sagoma di un
edificio preesistente, esse svolgano una funzione di mero
riparo ed abbiano limitatissime dimensioni (ex multis:
C.d.S. sez. V n. 3952 del 23/07/2013; TAR Campania-Napoli
sez II. N. 3647 del 12.07.2013): le strutture che qui
vengono in considerazione non si inseriscono nella sagoma
del fabbricato preesistente, vengono realizzate ex novo e
posseggono dimensioni del tutto significative, e pertanto,
integrano a tutti gli effetti una nuova costruzione soggetta
a permesso di costruire.
---------------
Va
conclusivamente sottolineato che le opere necessarie per la
posa di pannelli fotovoltaici non possono sempre ed
automaticamente considerarsi alla stregua di un impianto
tecnologico: non quando la struttura dia luogo,
complessivamente considerata, ad un manufatto che in potenza
sia suscettibile di un utilizzo diverso da quello connesso
alla produzione di energia.
Un pannello fotovoltaico ancorato alla falda di un tetto, ad
un muro o al suolo all’evidenza non può avere alcun diverso
utilizzo, e quindi tutte le opere necessarie per la relativa
posa e funzionamento possono qualificarsi come impianti; ma
quando il pannello -come nel caso di specie– di fatto
svolge, esso stesso, un ruolo di copertura, andrà
considerato anche come tale, allo stesso modo in cui un
locale caldaia di dimensioni sovrabbondanti, rispetto a
quelle strettamente necessarie per il ricovero della
caldaia, non può considerarsi un mero locale tecnico.
Se parte ricorrente avesse previsto di ancorare i pannelli
direttamente al piano di calpestio del cortile la
valutazione sarebbe stata differente, ma è agevole osservare
che una tale soluzione avrebbe diminuito la superficie utile
del cortile di circa 84 mq., risultato che evidentemente
parte ricorrente intendeva evitare: da qui la necessità di
posarli “in sospensione” al fine di non perdere la
fruibilità dello spazio sottostante. La soluzione normale
sarebbe stata quella di realizzare una normale tettoia
dotata di propria copertura, sulla quale posare i pannelli,
che probabilmente avrebbe anche avuto costi molto più
contenuti di una sofisticata struttura in metallo, ma è
evidente che tale soluzione passava attraverso l’assenso
alla realizzazione della tettoia di supporto, che si sapeva
non essere ammessa dalle Norme Tecniche di Attuazione.
La soluzione proposta tende dunque a by-passare
l’impossibilità di realizzare nuove costruzioni, ma di fatto
vede i pannelli fotovoltaici svolgere anche una funzione di
copertura in vista di salvaguardare la fruibilità dello
spazio sottostante, e da tale constatazione discende che la
struttura in argomento deve essere assimilata, nel
complesso, ad una nuova tipologia di tettoia (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine per l'esercizio del potere inibitorio
di cui all’art. 23 del T.U. sull’Edilizia (ndr: 30 gg.) è
perentorio, ma anche dopo il decorso di tale spazio
temporale, la p.a. conserva un potere residuale di
autotutela.
Tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre
rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio,
condivide i principi regolatori sanciti, in materia di
autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo
alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in
contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una
valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione
dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio.
Come ha chiarito di recente l'Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato (sent. 29.07.2011, n. 15) il
termine per l'esercizio del potere inibitorio di cui
all’art. 23 del T.U. sull’Edilizia è perentorio, ma anche
dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva
un potere residuale di autotutela.
Tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre
rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio,
condivide i principi regolatori sanciti, in materia di
autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo
alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in
contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una
valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione
dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante
a seguito del decorso del tempo e della conseguente
consumazione del potere inibitorio (Cons. St., ad. plen., 29.07.2011
n. 15
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I lavori edilizi consistenti nella demolizione e
ricostruzione di tutti i tramezzi interni e nella
sostituzione di tutti gli impianti con una distribuzione dei
locali diversa da quella preesistente rientrano nell'ambito
della "ristrutturazione edilizia".
Nel caso di specie,
i lavori denunciati e poi eseguiti dalla ricorrente sono
consistiti nella demolizione e ricostruzione di tutti i
tramezzi interni e nella sostituzione di tutti gli impianti
con una distribuzione dei locali diversa da quella
preesistente (come si legge nella motivazione del secondo
dei due provvedimenti impugnati).
Escluso, per evidenti motivi, che i predetti lavori
configurino interventi di manutenzione ordinaria, ritiene il
collegio gli stessi non possano essere configurati neppure
come recupero, risanamento o manutenzione straordinaria:
infatti, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il
solo profilo della distribuzione interna, l'originaria
consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento
di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei
volumi, non si configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo,
ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia
(TAR Piemonte, sez. I, 12.07.2013, n. 889)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Gli accordi di programma, in quanto integrativi
ovvero sostitutivi di provvedimenti, in ispecie di piani
urbanistici, rappresentano una sottocategoria degli accordi
di cui all’art. 11 della l. 241/1990, e quindi sono soggetti
ai principi di cui al codice civile.
In applicazione di tali principi, la logica porta allora a
dire che gli atti con i quali i vari soggetti, pubblici o
privati, manifestano la loro volontà in ordine ad un
auspicato accordo di programma sono atti non autoritativi, e
quindi non provvedi mentali, in tutto e per tutto
assimilabili agli atti di una trattativa contrattuale.
In tal senso conducono due argomenti. In primo luogo,
costante giurisprudenza afferma la natura non
provvedimentale –e quindi ne esclude l’autonoma
impugnabilità- degli atti di sottoscrizione dell’accordo
stesso da parte dei legali rappresentanti delle
amministrazioni paciscenti, sul rilievo per cui sino a
ratifica dell’organo consiliare l’accordo non si perfeziona.
In base al rilievo logico, prima che giuridico, per cui il
più comprende il meno, va riconosciuta identica natura non
provvedimentale ad atti in cui non si accetta ancora il
contenuto del futuro accordo, ma si discute ancora se e come
confezionarlo.
Inoltre, non si potrebbe obiettare che la natura di
provvedimento autonomamente impugnabile è propria
dell’accordo stesso, poiché esso è intrinsecamente diverso
dagli atti che portano a concluderlo: negli stessi termini,
non si dubita che non siano provvedimenti, e quindi non
siano impugnabili, gli atti del procedimento che il
provvedimento produce.
Pertanto, la nota del Sindaco e la deliberazione consiliare
qui impugnate, che esprimono sostanzialmente un sopravvenuto
disinteresse a perfezionare l’accordo, vanno qualificati
come atti di natura privatistica e non provvedimentale, di
recesso da una trattativa, e le relative domande di
annullamento vanno dichiarate inammissibili.
... per l’annullamento ... della nota 15.07.2010 prot.
n. 9970, ricevuta il 19.07.2010, con la quale il Sindaco
del Comune di Sorisole ha comunicato alla Val San Martino
S.r.l. che l’amministrazione comunale ritiene di non
condividere quanto oggetto della proposta di accordo di
programma di cui alla deliberazione della Giunta comunale 18.12.2008 n. 138 e di non voler proseguire il relativo
iter, chiedendo di essere esclusa dalla relativa proposta;
...
Va condiviso quanto affermato anche di recente in
giurisprudenza, per tutte da C.d.S. sez. IV 25.06.2013
n. 3458, ovvero che gli accordi di programma, in quanto
integrativi ovvero sostitutivi di provvedimenti, in ispecie
di piani urbanistici, rappresentano una sottocategoria degli
accordi di cui all’art. 11 della l. 241/1990, e quindi sono
soggetti ai principi di cui al codice civile. In
applicazione di tali principi, la logica porta allora a dire
che gli atti con i quali i vari soggetti, pubblici o
privati, manifestano la loro volontà in ordine ad un
auspicato accordo di programma sono atti non autoritativi, e
quindi non provvedi mentali, in tutto e per tutto
assimilabili agli atti di una trattativa contrattuale.
In tal senso conducono due argomenti. In primo luogo,
costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 21.11.2005 n. 6467, afferma la natura non provvedimentale
–e quindi ne esclude l’autonoma impugnabilità- degli atti
di sottoscrizione dell’accordo stesso da parte dei legali
rappresentanti delle amministrazioni paciscenti, sul rilievo
per cui sino a ratifica dell’organo consiliare l’accordo non
si perfeziona. In base al rilievo logico, prima che
giuridico, per cui il più comprende il meno, va riconosciuta
identica natura non provvedimentale ad atti in cui non si
accetta ancora il contenuto del futuro accordo, ma si
discute ancora se e come confezionarlo.
Inoltre, non si potrebbe obiettare che la natura di
provvedimento autonomamente impugnabile è propria
dell’accordo stesso, poiché esso è intrinsecamente diverso
dagli atti che portano a concluderlo: negli stessi termini,
non si dubita che non siano provvedimenti, e quindi non
siano impugnabili, gli atti del procedimento che il
provvedimento produce.
Pertanto, la nota del Sindaco e la deliberazione
consiliare qui impugnate, che esprimono sostanzialmente un
sopravvenuto disinteresse a perfezionare l’accordo, vanno
qualificati come atti di natura privatistica e non provvedimentale, di recesso da una trattativa, e le relative
domande di annullamento vanno dichiarate inammissibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 909 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza
amministrativa accorda la legittimazione all’immediata
impugnativa di un regolamento –per definizione atto generale
ad astratto- solo a particolari categorie di soggetti,
segnatamente a coloro i quali siano autorizzati a svolgere
una certa attività, in concreto avente alcune
caratteristiche, e la vedano dal regolamento in parola
diversamente disciplinata.
In termini non dissimili, accorda poi la legittimazione
anche a coloro i quali facciano parte di una data categoria
di giuridico rilievo, nella specie i partecipanti ad un
concorso, sulla cui situazione il regolamento incide.
In proposito, va anche ricordato l’altro principio generale
proprio con riguardo ad un regolamento, per cui l’interesse
a impugnare sussiste solo a fronte di una diretta ed attuale
lesione della propria sfera giuridica.
... che il ricorso principale, rivolto
avverso un atto regolamentare, va dichiarato inammissibile.
Come è noto, il nostro ordinamento accorda la tutela
giurisdizionale amministrativa solo a quei soggetti i quali,
in relazione all’atto impugnato, siano titolari di un
interesse differenziato e qualificato, diverso quindi da
quello di cui è titolare il comune cittadino.
Pertanto, la
giurisprudenza amministrativa accorda la legittimazione
all’immediata impugnativa di un regolamento –per definizione
atto generale ad astratto- solo a particolari categorie di
soggetti, segnatamente a coloro i quali siano autorizzati a
svolgere una certa attività, in concreto avente alcune
caratteristiche, e la vedano dal regolamento in parola
diversamente disciplinata: così C.d.S. sez. VI 16.02.2002 n. 961, nella giurisprudenza della Sezione Sez. II
04.10.2010 n. 3730 e di recente sez. I 17.06.2013
n. 584; in termini non dissimili, accorda poi la
legittimazione anche a coloro i quali facciano parte di una
data categoria di giuridico rilievo, nella specie i
partecipanti ad un concorso, sulla cui situazione il
regolamento incide: così C.d.S. sez. VI 18.12.2007
n. 6535.
Nessuna di tali fattispecie qui ricorre, dato che i
ricorrenti sono privati cittadini i quali non risultano
svolgere alcuna attività autorizzata o comunque
differenziata dall’ordinamento che rilevi in rapporto alle
norme regolamentari denunziate, tale non essendo l’attività
di cultori dell’ornitologia, che rientra nell’ampio novero
delle lecite e commendevoli attività di interesse
scientifico e culturale cui ciascuno può dedicare il proprio
tempo, senza ovviamente necessità di assensi o
autorizzazioni di sorta da parte dei pubblici poteri.
In
proposito, va anche ricordato l’altro principio generale,
espresso per tutte da C.d.S. sez. VI 08.04.2011 n. 2184
proprio con riguardo ad un regolamento, per cui l’interesse
a impugnare sussiste solo a fronte di una diretta ed attuale
lesione della propria sfera giuridica. Solo apparentemente
contrari sono i precedenti citati dai ricorrenti
nell’articolata loro memoria 31.07.2013. Essi riguardano
o casi in cui il ricorso era stato in realtà dichiarato
inammissibile proprio per carenza di interesse (TAR Toscana
sez. II 07.11.2003 n. 5706, confermata in appello da
C.d.S. sez. IV 22.06.2006 n. 3947), o casi in cui,
secondo la motivazione, non sarebbe stato in realtà spazio
alcuno per provvedimenti applicativi (C.d.S. sez. IV 17.04.2002 n. 2032), o casi in cui la questione viene solo
delibata (ord. di rimessione alla Corte costituzionale TAR
Lazio Roma sez. I 12.04.2011 n. 3202), ovvero infine casi
in cui il ricorrente agiva a difesa di una propria attività
in senso ampio previamente assentita dall’amministrazione,
quella di concessionario di pubblico servizio, nella specie
di distribuzione dell’elettricità, per ciò tenuto a
collocare condutture nel suolo pubblico (TAR Lombardia
Brescia sez. I 15.01.2010 n. 29, Milano sez. I 24.04.2012 n. 1203 e sez. II 17.06.2009 n. 4064), ovvero quella
di concessionario di area pubblica, su cui si voleva imporre
un tributo con effetto anche sui rapporti in essere (TAR
Puglia Bari sez. I 21.10.2010 n. 3736), ovvero ancora di
soggetto autorizzato a far atterrare un elicottero in area
protetta (C.d.S. sez. VI 18.03.2003 n. 1414).
E’ solo per
completezza che si ricorda come i principi appena esposti
non comportino alcun vuoto di tutela, atteso che le norme
regolamentari qui impugnate potranno essere oggetto di pieno
sindacato giurisdizionale là dove rilevino quale presupposto
di un atto applicativo di carattere sanzionatorio,
impugnabile nella sede competente, di norma avanti il G.O.
cui spetta in tal caso il potere di disapplicazione, atto
che peraltro nel periodo di pendenza del processo non
risulta nemmeno adombrato (v. lettera Segretario comunale
Offanengo 18.03.2013 dep. il giorno successivo)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.10.2013 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Con riferimento al
procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, il
giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute
dalla stazione appaltante solo sotto lo stretto profilo
della logicità e della congruità dell'istruttoria, senza
poter operare autonomamente alcuna verifica della congruità
dell'offerta presentata e delle singole voci atteso che,
così facendo, invaderebbe una sfera propria della Pubblica
amministrazione, connotata dall'esercizio di discrezionalità
tecnica.
---------------
In casi come quello in esame, ci si trova di fronte a due
diverse prospettazioni della “realtà” dell’offerta, ove la
Stazione Appaltante dipinge un quadro che presenta
un’offerta lacunosa e inattendibile e dove, al contrario, la
concorrente, attraverso le controdeduzioni e il presente
ricorso dipinge un’offerta perfettamente congrua e
attendibile, che sarebbe semplicemente oggetto di una sorta
di “caccia all’errore” da parte della Stazione appaltante.
In casi come questi, va ricordato qual è il compito del
giudice amministrativo. Infatti, va verificato se sono
presenti profili sintomatici di eccesso di potere per
illogicità o travisamento delle risultanze istruttorie del
procedimento, o se si rimanga sulla soglia di una
contrapposta versione dell'interessata, opinabile al pari
del giudizio tecnico-discrezionale formulato dalla
Commissione, tale dunque da non consentire il sindacato del
giudice amministrativo, secondo il costante insegnamento
espresso al riguardo.
---------------
In materia di giudizio dell'anomalia dell'offerta si ritiene
necessaria una motivazione approfondita quando la stazione
appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile.
L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato
tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo
all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti
gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso
inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma
essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi
essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una
concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si
reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti
le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa, in
quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà
ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata
l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di
conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre
che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un
ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità
dell'offerta.
Ancora, sul tema, non si può non richiamare l’intervento del
Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, che richiama il
consolidato indirizzo che circoscrive il sindacato
giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di
verifica di anomalia delle offerte ai soli casi di manifesta
e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in
considerazione della discrezionalità che connota dette
valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante
cui compete il più ampio margine di apprezzamento, nonché,
l'altrettanto pacifico indirizzo giurisprudenziale secondo
cui la valutazione di congruità deve essere globale e
sintetica, e non concentrarsi esclusivamente e in modo
"parcellizzato" sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l'obiettivo dell'indagine è accertare l'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso, e non delle sue singole
componenti.
---------------
L’obbligo dell'Amministrazione di assicurare il
contraddittorio nel sub-procedimento di verifica
dell'anomalia non implica la confutazione puntuale di tutte
le osservazioni svolte dagli interessati, essendo
sufficiente che il provvedimento amministrativo sia
corredato da una motivazione che renda nella sostanza
comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento
delle deduzioni difensive del privato.
---------------
Le ulteriori censure di disparità di trattamento dedotte da
parte ricorrente con riguardo a materiali, mancata
considerazione della pulizia delle strade, e altri profili
minori si possono ricondurre ad una sorta di “richiesta alla
Stazione Appaltante di verificare un’offerta non anomala ai
sensi dell’art. 86 d.lgs 163/2006. Come è noto, il sospetto
di anomalia concerne le «offerte in relazione alle quali sia
i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi
agli altri elementi di valutazione, sono entrambi pari o
superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi
previsti dal bando di gara” (art. 86, c. 2, d.lgs 163/2006).
Tale criterio impone la verifica delle offerte che
presentano una notevole qualità tecnica a fronte di un
prezzo particolarmente vantaggioso.
E’ del tutto evidente che il potere residuale per cui per
cui la Stazione Appaltante può sempre sottoporre a verifica
le offerte che risultino sospette in base ad “elementi
specifici” è altamente discrezionale e sottoposto a precisi
limiti, essendo sufficiente che non sia manifestamente
irragionevole la determinazione dell’Amministrazione di non
sottoporre a verifica “facoltativa” di anomalia, l’offerta
risultata vincitrice della gara.
E’ la scelta di effettuare la verifica facoltativa di
anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione ( in
ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei
quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla
verifica di anomalia ai sensi del comma 3 dell’art. 86),
mentre una motivazione non è (normalmente) necessaria quando
l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale
facoltà, il cui mancato esercizio non è pertanto
censurabile.
Innanzitutto va detto che, come è noto,
con riferimento al procedimento di verifica dell'anomalia
delle offerte, il giudice amministrativo può sindacare le
valutazioni compiute dalla stazione appaltante solo sotto lo
stretto profilo della logicità e della congruità
dell'istruttoria, senza poter operare autonomamente alcuna
verifica della congruità dell'offerta presentata e delle
singole voci atteso che, così facendo, invaderebbe una sfera
propria della Pubblica amministrazione, connotata
dall'esercizio di discrezionalità tecnica (CdS sez. V
18.02.2013 n. 974).
---------------
Essenzialmente,
in casi come quello in esame, ci si trova di fronte a due
diverse prospettazioni della “realtà” dell’offerta, ove la
Stazione Appaltante dipinge un quadro che presenta
un’offerta lacunosa e inattendibile e dove, al contrario, la
concorrente, attraverso le controdeduzioni e il presente
ricorso dipinge un’offerta perfettamente congrua e
attendibile, che sarebbe semplicemente oggetto di una sorta
di “caccia all’errore” da parte della Stazione appaltante.
In casi come questi, va ricordato qual è il compito del
giudice amministrativo. Infatti, va verificato se sono
presenti profili sintomatici di eccesso di potere per
illogicità o travisamento delle risultanze istruttorie del
procedimento, o se si rimanga sulla soglia di una
contrapposta versione dell'interessata, opinabile al pari
del giudizio tecnico-discrezionale formulato dalla
Commissione, tale dunque da non consentire il sindacato del
giudice amministrativo, secondo il costante insegnamento
espresso al riguardo (CdS sez. III 14.02.2012, n. 710, CdS
sez. V 02.2012 n. 3850).
---------------
Alla luce dei
principi sopra ricordati, ritiene il Collegio che, a fronte
de citati rilievi effettuati dalla Stazione Appaltante, i
quali sono contestati ma non smentiti dalla ricorrente, il
giudizio di anomalia sia immune dai vizi dedotti.
Come è
noto, in materia si ritiene necessaria una motivazione
approfondita (CdS V, 23.10.2006, n. 4949) quando la stazione
appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile.
L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato
tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo
all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti
gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso
inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma
essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi
essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una
concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si
reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti
le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa, in
quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà
ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata
l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di
conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre
che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un
ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità
dell'offerta (CdS. Sez. III, V, 18.09.2008, n. 4493, CdS Sez.
III 16.03.2012 n.1467).
Ancora, sul tema, non si può non richiamare l’intervento
del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria (sentenza
29.12.2012, n. 39), che richiama il consolidato indirizzo
che circoscrive il sindacato giurisdizionale sulle
valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle
offerte ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o
irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità
che connota dette valutazioni, come tali riservate alla
stazione appaltante cui compete il più ampio margine di
apprezzamento, nonché, l'altrettanto pacifico indirizzo
giurisprudenziale secondo cui la valutazione di congruità
deve essere globale e sintetica, e non concentrarsi
esclusivamente e in modo "parcellizzato" sulle singole voci
di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è
accertare l'affidabilità dell'offerta nel suo complesso, e
non delle sue singole componenti (sul punto Tar Cagliari 08.05.2013 n. 355).
---------------
Con riguardo
all’affermato difetto di contradditorio (secondo motivo di
ricorso) è noto che l’obbligo dell'Amministrazione di
assicurare il contraddittorio nel sub-procedimento di
verifica dell'anomalia non implica la confutazione puntuale
di tutte le osservazioni svolte dagli interessati, essendo
sufficiente che il provvedimento amministrativo sia
corredato da una motivazione che renda nella sostanza
comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento
delle deduzioni difensive del privato (Cds sez. V 02.07.2012
n. 3850).
---------------
Ancora, in
tutta evidenza, le ulteriori censure di disparità di
trattamento dedotte da parte ricorrente con riguardo a
materiali, mancata considerazione della pulizia delle
strade, e altri profili minori si possono ricondurre ad una
sorta di “richiesta alla Stazione Appaltante di verificare
un’offerta non anomala ai sensi dell’art. 86 d.lgs 163/2006.
Come è noto, il sospetto di anomalia concerne le «offerte in
relazione alle quali sia i punti relativi al prezzo, sia la
somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione,
sono entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei
corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara”
(art. 86, c. 2, d.lgs 163/2006). Tale criterio impone la
verifica delle offerte che presentano una notevole qualità
tecnica a fronte di un prezzo particolarmente vantaggioso (CdS
sez. VI 26.11.2009, n. 7441).
E’ del tutto evidente che il
potere residuale per cui per cui la Stazione Appaltante può
sempre sottoporre a verifica le offerte che risultino
sospette in base ad “elementi specifici” è altamente
discrezionale e sottoposto a precisi limiti, essendo
sufficiente che non sia manifestamente irragionevole la
determinazione dell’Amministrazione di non sottoporre a
verifica “facoltativa” di anomalia, l’offerta risultata
vincitrice della gara (tra la tante decisioni Cds sez. IV,
27.06.2011, n. 3862).
E’ la scelta di effettuare la verifica
facoltativa di anomalia che esige una espressa ed adeguata
motivazione ( in ordine alle ragioni ed agli elementi di
fatto sulla base dei quali essa si sia risolta nel senso di
attendere alla verifica di anomalia ai sensi del comma 3
dell’art. 86), mentre una motivazione non è (normalmente)
necessaria quando l’amministrazione ritiene di non dover far
uso di tale facoltà (CdS sez. VI, 27.07.2011, n. 4489), il
cui mancato esercizio non è pertanto censurabile (Cds Sez.
III 10.05.2013 n. 2533).
Nel caso in esame, di fronte a due
offerte caratterizzate da notevoli differenze nella
formulazione tecnica ed economica, in tutta evidenza non
sono configurabili i vizi dedotti da parte ricorrente, in
considerazione della differenza di mezzi e risorse previsti
nelle offerte, che hanno visto, per la controinteressata
un’offerta economica ben al di sotto della soglia di
anomalia.
Ciò in quanto la disparità di trattamento e
l’eccesso di potere denunciato dalla ricorrente riguarda, in
buona parte, vizi emersi durante la verifica di anomalia,
non prevista per l’offerta della controinteressata (TAR Marche,
sentenza
25.10.2013 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Il regolamento blocca la mansarda.
Il patto contrattuale può vietare le modifiche alle
destinazioni d'uso «non conformi».
Cassazione. La Corte si pronuncia sulla libertà del singolo
di intervenire sulla sua unità immobiliare nell'ambito del
condominio.
Il sottotetto non può diventare una mansarda se il
regolamento condominiale contrattuale lo vieta: e a nulla
vale l'uso comune di trasformare quei locali in abitazioni
se non c'è il via libera dell'assemblea che consente di
cambiare la destinazione d'uso.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza
24.10.2013 n. 24125, accoglie il ricorso di
alcuni condomini che non volevano concedere agli acquirenti
di un sottotetto adibito a stenditoio-magazzino la
possibilità di farne un'abitazione bohèmienne.
Un desiderio che era stato avallato nei primo grado di
giudizio dai giudici di merito che avevano consentito agli
acquirenti di proseguire i lavori di adeguamento alla nuova
destinazione, basandosi sulla «intrinseca destinazione
abitativa delle mansarde», come previsto anche dalla legge
regionale 15/1996 che poneva il solo vincolo di non alterare
la volumetria. La Cassazione però prende le distanze dalla
lettura del tribunale e della Corte d'appello e invita al
rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà
esclusiva. Nel contratto di compravendita, infatti, l'ambìto
spazio era descritto come un locale rustico appartenente
alla categoria catastale C/2 che notoriamente destina
l'immobile ad essere utilizzato come magazzino. La stessa
cosa era prevista nel regolamento condominiale.
La Suprema corte ricorda quindi che «le norme contenute nei
regolamenti condominiali posti in essere per contratto
possono imporre limitazioni al godimento e alla destinazione
d'uso degli immobili di proprietà esclusiva dei condomini».
Più in dettaglio, la Cassazione ha osservato che, secondo il
costante orientamento della stessa, il canone ermeneutico da
usare nell'esame di un contratto (quale il regolamento
condominiale contrattuale) è quello del senso letterale
delle parole e delle espressioni usate nel testo; tuttavia,
il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve
essere verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale e non in una parte soltanto. Proprio per
questo, prosegue la Cassazione, la decisione della Corte di
merito (La Corte d'appello di Milano) è sbagliata: per non
aver tenuto conto dell'intero contenuto della clausola
contrattuale «il cui spirito è volto a imporre a ciascun
condomino il rispetto della destinazione naturale dei locali
di proprietà esclusiva».
Nel rogito, infatti, l'unità era descritta locale rustico,
di categoria catastale C/2 (magazzini e locali di deposito),
mentre la Corte di merito si è basata sulla «circostanza
astratta che i locali venduti avessero come loro
destinazione naturale quella abitativa», senza accertare
quale fosse l'effettiva destinazione dell'immobile ma
considerando solo la «potenziale vocazione delle mansarde a
essere abitate». La Cassazione ha quindi introdotto un
importante richiamo alla destinazione catastale quale
elemento scriminante nell'individuazione della destinazione,
soprattutto quando le variazioni fossero state espressamente
vietate dal regolamento condominiale contrattuale.
Inoltre, la Corte d'appello è stata censurata anche per aver
attribuito l'efficacia di ius superveniens alla legge della
Regione Lombardia 15/1996, che aveva facilitato la
trasformazione di mansarde in sottotetti: questa norma
avrebbe caducato le conseguenze della violazione del
regolamento contrattuale, regolarizzando la situazione a
priori.
La Suprema Corte, però, ha distinto tra i due piani
di rapporti: uno pubblicistico, tra il privato e
l'amministrazione, e l'altro privatistico, tra il soggetto
che ha operato la violazione e gli altri titolari di diritti
soggettivi (tutelati dal regolamento condominiale
contrattuale): la previsione di regolarizzazione delle opere
(in questo caso il cambio di destinazione d'uso) dal punto
di vista urbanistico «attiene al punto di vista
amministrativo, penale e fiscale ma non pure ai fini
privatistici, cosicché nelle controversie tra privati detta
regolarizzazione non può incidere negativamente sui diritti
dei terzi»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Non necessitano, come è
noto, gli atti vincolati di motivazione particolarmente
estesa, essendo invece sufficiente che l’Amministrazione
individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a
fondamento della decisione, eventualmente con un mero
richiamo alle disposizioni di legge applicate.
---------------
Il concetto di disponibilità di cui all’art. 3 della legge
n. 241 del 1990 non comporta che l’atto amministrativo
richiamato per relationem sia unito a pena di illegittimità
al provvedimento che lo evoca, bensì è sufficiente che
l’atto sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale
a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il
procedimento di accesso ai documenti amministrativi, con la
conseguenza che detto obbligo determina che la motivazione
dell’atto richiamato sia portata nella sfera di
conoscibilità legale del destinatario mentre nella
motivazione per relationem è sufficiente che siano
espressamente indicati gli estremi di quell’atto, non
essendo necessario che lo stesso sia allegato quanto
piuttosto che sia messo a disposizione e mostrato su istanza
di parte.
Quanto, poi, alla motivazione del diniego, si è
detto come l’Amministrazione comunale abbia dato corretta
interpretazione alla normativa di piano, e ciò a mezzo di
conclusioni che, seppur in modo sintetico, rendono evidente
l’iter logico seguito (in questo contesto l’uso
dell’espressione “piani effettivi” non altera il risultato),
anche per non necessitare, come è noto, gli atti vincolati
di motivazione particolarmente estesa e per essere invece
sufficiente che l’Amministrazione individui con chiarezza le
ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione,
eventualmente con un mero richiamo alle disposizioni di
legge applicate (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008 n. 2977).
Né vizia l’atto impugnato la
circostanza che il parere negativo del “Servizio procedure
edilizie e controllo” sia stato solo richiamato, avendo la
giurisprudenza precisato che il concetto di disponibilità di
cui all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 non comporta che
l’atto amministrativo richiamato per relationem sia unito a
pena di illegittimità al provvedimento che lo evoca, bensì è
sufficiente che l’atto sia reso disponibile a norma della
stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito
utilizzando il procedimento di accesso ai documenti
amministrativi, con la conseguenza che detto obbligo
determina che la motivazione dell’atto richiamato sia
portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario
mentre nella motivazione per relationem è sufficiente che
siano espressamente indicati gli estremi di quell’atto, non
essendo necessario che lo stesso sia allegato quanto
piuttosto che sia messo a disposizione e mostrato su istanza
di parte (v., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
05.06.2013 n. 2916); la circostanza, quindi, che nel caso
di specie gli estremi del parere negativo fossero stati
indicati nell’atto finale e che il parere stesso risultasse
perciò disponibile mediante semplice accesso agli atti
soddisfaceva i requisiti formali di cui all’art. 3 della
legge n. 241 del 1990
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 23.10.2013 n. 650 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualificazione di un
intervento edilizio assentito non dipende dal nomen juris
impiegato dall’Autorità comunale, ma deve essere compiuta in
base a criteri essenziali.
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A proposito della “ristrutturazione” e del “restauro e
risanamento conservativo”, la giurisprudenza individua il
tratto differenziale tra le due tipologie di interventi
nella presenza o meno di modifiche strutturali incidenti
sulla sagoma e sul volume dell’edificio, ovvero nella
presenza o meno di un incremento del complessivo carico
urbanistico derivante dall’edificio, sicché l’elemento
decisivo, ai fini della qualificazione di un intervento come
ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato
formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle
pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello
sostanziale del conseguimento di un maggiore “peso”
urbanistico sul territorio, a causa di aumenti di volume, di
modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico
urbanistico rispetto al preesistente.
---------------
In relazione agli interventi che danno titolo al rilascio
della concessione edilizia a titolo gratuito, l’elemento di
discriminazione tra la concessione onerosa e la concessione
gratuita, o tra interventi assoggettati al regime di
concessione e opere soggette a mera autorizzazione, deve
essere individuato nella modifica o meno del carico
urbanistico, che costituisce il limite della differenza di
regime giuridico.
Quanto, innanzi tutto, al carattere oneroso o
gratuito dell’intervento edilizio in questione, il Collegio
ritiene che non si possa prescindere dal preliminare
accertamento della reale portata dell’intervento medesimo,
alla luce dell’orientamento che vuole che la qualificazione
di un intervento edilizio assentito non dipende dal nomen
juris impiegato dall’Autorità comunale, ma deve essere
compiuta in base a criteri essenziali (v. Cons. Stato, Sez.
V, 05.06.1991 n. 883).
Orbene, a proposito della
“ristrutturazione” e del “restauro e risanamento
conservativo”, la giurisprudenza individua il tratto
differenziale tra le due tipologie di interventi nella
presenza o meno di modifiche strutturali incidenti sulla
sagoma e sul volume dell’edificio, ovvero nella presenza o
meno di un incremento del complessivo carico urbanistico
derivante dall’edificio, sicché l’elemento decisivo, ai fini
della qualificazione di un intervento come ristrutturazione
edilizia, è costituito non tanto dal dato formale del
coinvolgimento delle strutture portanti o delle pareti
perimetrali dell’immobile, quanto da quello sostanziale del
conseguimento di un maggiore “peso” urbanistico sul
territorio, a causa di aumenti di volume, di modifiche di
sagoma o di incrementi del complessivo carico urbanistico
rispetto al preesistente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2012 n. 5818).
Nella fattispecie, in particolare,
l’aggravio di carico urbanistico viene fatto discendere
dall’Amministrazione comunale dall’incremento di alloggi che
l’intervento determina, aggravio la cui sussistenza la
ricorrente invero non contesta, senza tener conto però della
circostanza che, in relazione agli interventi che danno
titolo al rilascio della concessione edilizia a titolo
gratuito, l’elemento di discriminazione tra la concessione
onerosa e la concessione gratuita, o tra interventi
assoggettati al regime di concessione e opere soggette a
mera autorizzazione, deve essere individuato nella modifica
o meno del carico urbanistico, che costituisce il limite
della differenza di regime giuridico (v., tra le altre, TAR
Marche 12.02.1998 n. 250).
Ne consegue che, dovendosi
ascrivere l’intervento edilizio in questione alla categoria
della “ristrutturazione” –nonostante il diverso nomen iuris
utilizzato–, correttamente l’Amministrazione ha preteso la
corresponsione del contributo ex art. 3 della legge n. 10
del 1977
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 23.10.2013 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante
giurisprudenza, mentre hanno natura regolamentare i
provvedimenti previsti dagli artt. 5 e 6 della legge n. 10
del 1977, con i quali le regioni e i consigli comunali
stabiliscono i criteri generali per la determinazione del
contributo, hanno invece natura di atti paritetici tutti i
restanti atti con i quali, in applicazione dei criteri
legislativi e regolamentari stabiliti, l’ente locale
quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare
della concessione, con la conseguenza che, ove si eccettuino
le impugnative degli atti regolamentari recanti i criteri
generali suindicati, tutte le altre controversie relative
all’an e al quantum del contributo riguardano diritti
soggettivi delle parti in relazione ai quali
l’Amministrazione è sfornita di potestà autoritativa,
dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai
parametri normativi prefissati, e allora, vertendosi in tema
di diritti soggettivi e non di interessi legittimi, la
censura della concreta quantificazione degli oneri soggiace
solo e soltanto al vizio di violazione di legge, non
certamente ad un vizio sintomatico dell’eccesso di potere
quale quello del difetto di motivazione.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che il contributo diviene
certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile fin
dal momento della formazione del titolo edilizio, con la
conseguenza che è da allora che inizia a maturare il credito
accessorio per interessi ai sensi dell’art. 1282 cod.civ.;
non trattandosi, dunque, di interessi moratori, quanto
piuttosto di interessi corrispettivi, legittimamente
l’Amministrazione resistente ha a suo tempo preteso il
pagamento di simili accessori secondo le modalità contestate
dalla ricorrente.
Si tratta, del resto, di conclusione coerente con
quell’indirizzo giurisprudenziale che dalla disciplina della
legge n. 10 del 1977 fa scaturire che il fatto costitutivo
dell’obbligo giuridico del titolare della concessione
edilizia di versare il dovuto é rappresentato dal rilascio
della concessione stessa, sicché è a quel momento che
occorre avere riguardo non solo per la determinazione del
contributo, ma anche per l’individuazione della decorrenza
del termine di prescrizione, divenendo il relativo credito
–a tale data– certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed
esigibile, e ciò anche perché, pur in presenza del potere
del Comune di stabilire modalità e garanzie per il pagamento
del contributo, l’atto di imposizione non ha carattere
autoritativo, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e
contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di
carattere generale, per cui la mancata tempestiva adozione
dello stesso non implica alcuna facoltà dell’Amministrazione
di differire la riscossione del suo diritto di credito,
configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto
stesso, idoneo a far decorrere il termine di prescrizione.
---------------
Il ricorrente lamenta che
l’ingiunzione di pagamento ex art. 2 del r.d. n.
639 del 1910 non è stata vidimata e resa esecutiva dal
pretore –ora giudice unico–, così come prescriverebbe detta
disposizione.
La censura, però, non tiene conto della previsione dell’art.
229 del d.lgs. n. 51 del 1998 (“Il potere del pretore di
rendere esecutivi atti emanati da autorità amministrative è
soppresso e gli atti sono esecutivi di diritto”) e, quindi,
del sopraggiunto venir meno di una simile formalità.
E’ infondata anche la questione incentrata, sotto più
profili, sulla carente motivazione degli atti censurati.
Occorre ricordare infatti che, per costante giurisprudenza
(v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 29.07.2000 n.
4217), mentre hanno natura regolamentare i provvedimenti
previsti dagli artt. 5 e 6 della legge n. 10 del 1977, con i
quali le regioni e i consigli comunali stabiliscono i
criteri generali per la determinazione del contributo, hanno
invece natura di atti paritetici tutti i restanti atti con i
quali, in applicazione dei criteri legislativi e
regolamentari stabiliti, l’ente locale quantifica le somme
dovute e le pone a carico del titolare della concessione,
con la conseguenza che, ove si eccettuino le impugnative
degli atti regolamentari recanti i criteri generali
suindicati, tutte le altre controversie relative all’an e al
quantum del contributo riguardano diritti soggettivi delle
parti in relazione ai quali l’Amministrazione è sfornita di
potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero
accertamento in base ai parametri normativi prefissati, e
allora, vertendosi in tema di diritti soggettivi e non di
interessi legittimi, la censura della concreta
quantificazione degli oneri soggiace solo e soltanto al
vizio di violazione di legge, non certamente ad un vizio
sintomatico dell’eccesso di potere quale quello del difetto
di motivazione.
Quanto, poi, agli interessi legali pretesi
dall’Amministrazione comunale, la ricorrente lamenta che li
si sia fatti decorrere dal 26.05.1997, benché la
comunicazione della debenza del contributo fosse avvenuta
solo nell’ottobre 1999 e la prima quantificazione del
relativo importo fosse stata operata solo nel marzo 2000,
sicché difetterebbero i presupposti legali per
l’applicazione di interessi di mora ad una somma il cui
ritardato versamento si assume imputabile esclusivamente al
creditore.
In realtà –osserva il Collegio– la
giurisprudenza ha chiarito (v. TAR Campania, Napoli, Sez. II,
18.07.2011 n. 3889) che il contributo diviene certo,
liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile fin dal
momento della formazione del titolo edilizio, con la
conseguenza che è da allora che inizia a maturare il credito
accessorio per interessi ai sensi dell’art. 1282 cod.civ.;
non trattandosi, dunque, di interessi moratori, quanto
piuttosto di interessi corrispettivi, legittimamente
l’Amministrazione resistente ha a suo tempo preteso il
pagamento di simili accessori secondo le modalità contestate
dalla ricorrente.
Si tratta, del resto, di conclusione
coerente con quell’indirizzo giurisprudenziale che dalla
disciplina della legge n. 10 del 1977 fa scaturire che il
fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare della
concessione edilizia di versare il dovuto é rappresentato
dal rilascio della concessione stessa, sicché è a quel
momento che occorre avere riguardo non solo per la
determinazione del contributo, ma anche per l’individuazione
della decorrenza del termine di prescrizione, divenendo il
relativo credito –a tale data– certo, liquido (o
agevolmente liquidabile) ed esigibile, e ciò anche perché,
pur in presenza del potere del Comune di stabilire modalità
e garanzie per il pagamento del contributo, l’atto di
imposizione non ha carattere autoritativo, ma si risolve in
un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di
precedenti provvedimenti di carattere generale, per cui la
mancata tempestiva adozione dello stesso non implica alcuna
facoltà dell’Amministrazione di differire la riscossione del
suo diritto di credito, configurandosi piuttosto come
mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere
il termine di prescrizione (v., in questi termini, Cons.
Stato, Sez. IV, 29.09.2011 n. 5413).
Un’ultima ragione di doglianza è legata alla circostanza che
l’ingiunzione di pagamento ex art. 2 del r.d. n. 639 del
1910 non è stata vidimata e resa esecutiva dal pretore –ora
giudice unico–, così come prescriverebbe detta disposizione.
La censura, però, non tiene conto della previsione dell’art.
229 del d.lgs. n. 51 del 1998 (“Il potere del pretore di
rendere esecutivi atti emanati da autorità amministrative è
soppresso e gli atti sono esecutivi di diritto”) e,
quindi, del sopraggiunto venir meno di una simile formalità
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 23.10.2013 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ogni titolo edilizio ha
carattere unitario e, pertanto, autorizza la realizzazione
di quanto in esso previsto nella sua interezza.
Una volta intervenuta la demolizione dell’intero fabbricato,
in contrasto con quanto prescritto dal titolo edilizio
quest’ultimo perde efficacia per l’intero.
Una volta venuta meno la costruzione preesistente, non
importa se per effetto di un crollo accidentale o
programmato in corso di esecuzione lavori, il titolo in
precedenza ottenuto perde automaticamente effetto in toto,
venendone meno il presupposto fattuale, anche per quanto
concerne l’ampliamento oggetto di autorizzazione.
Il verbale di vigilanza edilizia, redatto a
seguito del sopralluogo del 22.03.2012 e del 17.05.2012, posto alla base dei provvedimenti impugnati, ha
evidenziato la demolizione dell’intero fabbricato esistente
non prevista dal titolo edilizio (D.I.A. del 22.04.2011, prot. 8795) e la ricostruzione del fabbricato con la
contestuale esecuzione dell’intervento in ampiamente
sopraelevazione, oggetto della D.I.A. stessa.
Il verbale, corredato di ampia documentazione fotografica,
evidenza che le opere realizzate nel complesso risultano
eseguite in difformità dal titolo edilizio, ai sensi
dell’articolo 13 della legge regionale numero 23 del 2004,
qualificandole, conseguentemente, come “nuova costruzione”
ai sensi dell’articolo 3, comma primo, lettera e1), del
d.p.r. numero 380 del 2001.
Ciò premesso il ricorso è infondato.
Va, infatti, rilevato che ogni titolo edilizio ha carattere
unitario e, pertanto, autorizza la realizzazione di quanto
in esso previsto nella sua interezza.
Una volta intervenuta la demolizione dell’intero fabbricato,
in contrasto con quanto prescritto dal titolo edilizio
(D.I.A. del 22.04.2011, prot. 8795) quest’ultimo perde
efficacia per l’intero.
Nel caso concreto, l’articolo 16 del regolamento
comunale consente un ampliamento ma solo se collegato ad
interventi di manutenzione o ristrutturazione della
costruzione preesistente.
Una volta venuta meno la costruzione preesistente, non
importa se per effetto di un crollo accidentale o
programmato in corso di esecuzione lavori, il titolo in
precedenza ottenuto perde automaticamente effetto in toto,
venendone meno il presupposto fattuale, anche per quanto
concerne l’ampliamento.
Conseguentemente la nuova situazione creatasi a seguito
dell’integrale demolizione e ricostruzione risulta
disciplinata dall’articolo 16, comma secondo, del
regolamento edilizio il quale precisa che qualora si preveda
un ampliamento con la totale demolizione e ricostruzione
“l’insieme costituisce un intervento NC di cui all’articolo
15 precedente”. Del resto l’articolo 17 del regolamento
edilizio precisa che “gli interventi di demolizione fedele
ricostruzione prevedono che la ricostruzione dell’immobile
avvenga con lo stesso sedime e con la stessa sagoma
dell’immobile preesistente” e tale disciplina locale è
legittima e perfettamente conforme alla disciplina nazionale
di cui all’articolo 3, comma primo, del Testo Unico n. 380
del 2001 secondo l’interpretazione di questo Tar il quale ha
già in precedenza evidenziato che la circostanza che i
lavori, di demolizione e ricostruzione, oggetto della
controversia, comportino la realizzazione di un nuovo corpo
di fabbrica determina che l’intervento edilizio sia in
realtà ascrivibile alla categoria delle “nuove
costruzioni” (Tar Bologna,sez. I, n. 463 del 2012)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 23.10.2013 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Per
l'avvocato niente rimborso a «spese forfetarie».
Nuovi principi in tema di liquidazione degli onorari
spettanti agli avvocati, all'indomani dei parametri (Dm 20
140/2012) e della legge professionale n. 247 dello stesso
anno.
Con
sentenza 22.10.2013 n. 43143 la Corte di Cassazione,
Sez. II penale, applica i parametri (invece delle tariffe,
che vigevano prima) ogni qualvolta la liquidazione da parte
del giudice intervenga in un momento successivo alla data di
entrata in vigore del decreto 140. In altri termini,
ricadono nella disciplina dei "parametri" le
prestazioni professionali che alla data del 23.08.2012 non
risultino ancora completate.
È quindi irrilevante che una prestazione abbia avuto inizio
e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le
tariffe abrogate, in quanto il termine generico di "compenso"
(che si legge nella legge professionale, articolo 13, comma
10) richiama la nozione di un corrispettivo unitario per
l'opera complessivamente prestata. Un secondo principio
affermato nella sentenza 43143 riguarda il "rimborso
delle spese forfetarie" (previsto sempre dall'articolo
13). Nella vicenda decisa dalla Cassazione, il difensore non
ha ottenuto la liquidazione di tale voce, a causa
dell'assenza (ancor oggi perdurante) di un Dm sulla misura
massima del rimborso spese forfetarie.
È la legge professionale (articolo 13, comma 6) che esige
tale decreto, sicché non basta la generica previsione di una
voce denominata "spese forfetarie": manca infatti
l'unità di misura in base alla quale quantificare gli
importi relativi. La situazione attuale vede quindi non
liquidabili dal giudice le "spese forfetarie",
sottraendo alla liquidazione del compenso degli avvocati
quelle che, prima della legge 247/2012, erano denominate "spese
generali" (12,5%).
Meno frequente, ma rilevante ai fini della professione, è il
caso deciso dalla Cassazione con la sentenza 2389 sempre
depositata ieri, relativa a un avvocato il quale aveva
ricevuto l'incarico di iniziare una lite con specifica
procura dalla parte, ma aveva iniziato il contenzioso dopo
la morte del suo cliente. Per legge (articolo 1387 del
Codice civile) la procura viene meno con la persona che
affida l'incarico, e le liti non dovrebbero essere iniziate
(se non ancora attive) o vanno continuate dagli eredi (se
già pendenti). La Cassazione chiede alle Sezioni unite di
rivedere un orientamento del 2006 (sentenza 10706), che
poneva le spese per la gestione della lite a carico,
comunque, degli eredi inconsapevoli.
Si trattava in particolare delle spese che il giudice
liquida a favore della parte vittoriosa, cioè, in caso di
mancanza di procura, a favore di chi è stato coinvolto in
una lite iniziata da un avvocato privo di adeguata procura.
Nel 2013 la Cassazione ha il dubbio che il professionista
possa essere in proprio responsabile anche delle spese
legali da pagare all'avversario, tutte le volte che agisca
senza procura (articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ipotesi in cui il parere negativo al
rilascio della sanatoria sia stato adottato in seguito allo
svolgimento di un accertamento in concreto, per valutare la
compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo,
e nella motivazione dell'atto siano state puntualmente
indicate le ragioni per le quali la conservazione
dell'intervento (conseguente al rilascio della sanatoria)
sia da ritenersi incompatibile con i valori tutelati, non è,
infatti, consentito al giudice amministrativo di sostituirsi
all’autorità preposta alla tutela del vincolo nella potestà
discrezionale di giudizio sulla compatibilità paesaggistica
degli interventi edilizi medesimi, come statuito dalla
costante giurisprudenza.
Nell’ipotesi in cui (come nel caso di
specie) il parere negativo al rilascio della sanatoria sia
stato adottato in seguito allo svolgimento di un
accertamento in concreto, per valutare la compatibilità del
manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella
motivazione dell'atto siano state puntualmente indicate le
ragioni per le quali la conservazione dell'intervento
(conseguente al rilascio della sanatoria) sia da ritenersi
incompatibile con i valori tutelati, non è, infatti,
consentito al giudice amministrativo di sostituirsi
all’autorità preposta alla tutela del vincolo nella potestà
discrezionale di giudizio sulla compatibilità paesaggistica
degli interventi edilizi medesimi, come statuito dalla
costante giurisprudenza (cfr., fra le tante, Cons. Stato,
sez. VI, 07.10.2008, n. 4823)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
22.10.2013 n. 2340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990
non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso
di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e di non procedere
all’annullamento dell’atto nel caso in cui le violazioni
formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del
medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione
delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto nel
caso in cui, come nella fattispecie all’esame del collegio,
il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato.
Alla luce del contenuto dei pareri succitati consegue,
altresì, l’infondatezza del motivo concernente la violazione
dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, atteso che, per
giurisprudenza granitica, la violazione dell'art. 10-bis, L.
n. 241/1990 non può ritenersi tale da produrre ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la
disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata
alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone
al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non procedere all’annullamento dell’atto
nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso
sulla legittimità sostanziale del medesimo; l'art. 21-octies
rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul
procedimento o sulla forma dell'atto nel caso in cui, come
nella fattispecie all’esame del collegio, il contenuto
dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V,
07.09.2009, n. 5235)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
22.10.2013 n. 2340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza interpreta la locuzione
legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010”
(ex art. 26, comma 3-ter, l.r. 12/2005) ritenendo
sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di
approvazione del piano, senza richiedere che sia
intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del
Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere
successivamente approvato.
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da
un’interpretazione sistematica della richiamata normativa
regionale, appare coerente con i principi generali sul
procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990,
principi certamente applicabili alle procedure comunali di
variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990).
L’art. 26 della legge regionale n. 12/2005, al co.
3-ter (introdotto dall’art. 21, comma 1, lett. b), della
legge regionale 7/2010), prevede che:
“Fatta comunque salva la conclusione, anche agli effetti di
variante urbanistica, delle procedure in corso alla data del
31.03.2010, per i comuni che alla medesima data non hanno
adottato il PGT non trovano applicazione le disposizioni di
cui all’articolo 25, comma 1,...” (norma che, come noto,
permette a determinate condizioni l’approvazione di piani
attuativi in variante al PRG).
La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa
“procedure in corso alla data del 31.03.2010” ritenendo
sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di
approvazione del piano, senza richiedere che sia
intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del
Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere
successivamente approvato (cfr., in tal senso, TAR
Lombardia, Milano, II, 26.07.2011 n. 1992, che valorizza la
previsione di cui all’art. 14 della l.r. n. 12/2005 -il
quale prevede, per i piani attuativi di iniziativa privata,
che l’istruttoria sia condotta dai competenti uffici
comunali, i quali, in caso di esito positivo, propongono
l’adozione del piano all’organo politico competente– onde
inferirne che, la deliberazione di adozione da parte del
Consiglio comunale non può che intervenire al termine della
positiva istruttoria condotta dagli uffici, giacché, in caso
contrario, la proposta di piano di iniziativa privata non
sarebbe posta all’attenzione dell’organo consiliare).
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da
un’interpretazione sistematica della richiamata normativa
regionale, appare coerente con i principi generali sul
procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990,
principi certamente applicabili alle procedure comunali di
variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.10.2013 n. 2336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, con assegnazione del
termine di novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere
notificata sia al responsabile dell’abuso sia al
proprietario. Se entro questo spazio temporale l’opera non
viene demolita dal responsabile dell’abuso, può essere
adottato il provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di
demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non
costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa,
rappresenta requisito di validità del successivo
provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere
concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario,
al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le
iniziative necessarie per eseguire l’ordine.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001
prevede, tra l’altro, che:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di
permesso di costruire, «ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso» la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del successivo comma 3 (comma 2);
- se il «responsabile dell'abuso» non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi «nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione», il bene e
l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le
vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del Comune; si specifica che
l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita
(comma 3);
- l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, «previa
notifica all’interessato», costituisce titolo per
l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
Da quanto esposto risulta che l’ordinanza di demolizione,
con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua
esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile
dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio
temporale l’opera non viene demolita dal responsabile
dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di
acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di
demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non
costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa,
rappresenta requisito di validità del successivo
provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere
concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario,
al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le
iniziative necessarie per eseguire l’ordine (cfr. sulla
rilevanza del termine in questione, da ultimo, Consiglio di
Stato, Sez. VI - sentenza 04.10.2013 n. 4913)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.10.2013 n. 2335 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se da una parte non va
escluso l’onere per il proprietario di provare la
realizzazione delle opere prima del 01.09.1967, dall’altra
va posta però in capo al Comune -che adotta l’ordine di
demolizione- un minimo onere probatorio della propria
pretesa, soprattutto quando è decorso ormai molto tempo
dall’edificazione, al punto che neppure l’Amministrazione è
in grado di datare la stessa con sufficiente
approssimazione.
In altri termini, il Comune non può limitarsi ad affermare
in maniera apodittica e senza idoneo supporto probatorio,
che l’attività costruttiva è stata svolta dopo il 1967.
La Sezione richiama sul punto la diffusa giurisprudenza che,
se da una parte non esclude l’onere per il proprietario di
provare la realizzazione delle opere prima del 01.09.1967,
dall’altra pone però in capo al Comune che adotta l’ordine
di demolizione un minimo onere probatorio della propria
pretesa, soprattutto quando è decorso ormai molto tempo
dall’edificazione, al punto che neppure l’Amministrazione è
in grado di datare la stessa con sufficiente
approssimazione.
In altri termini, il Comune non può limitarsi ad affermare
in maniera apodittica e senza idoneo supporto probatorio,
che l’attività costruttiva è stata svolta dopo il 1967 (cfr.
sul punto, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.02.2013, n.
373; TAR Campania, Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 290 e
TAR Umbria, 10.05.2013, n. 281) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.10.2013 n. 2332 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è pur vero che
l’impianto in questione è stato oggetto di autorizzazione
unica provinciale ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. 387/2003
(decreto attuativo di una direttiva comunitaria sulla
promozione delle fonti rinnovabili per la produzione di
energia elettrica) e che tale autorizzazione riguarda anche
gli aspetti urbanistici ed edilizi, per cui “assorbe”
altresì l’eventuale permesso di costruire (cfr. l’art. 12
citato, commi 3° e 4° ed il doc. 4 della ricorrente, copia
dell’autorizzazione unica), deve escludersi che il Comune
ove insiste l’impianto abbia per ciò solo perduto il proprio
potere generale di vigilanza e controllo sull’attività
urbanistica ed edilizia, di cui all’art. 27 del DPR 380/2001
(Testo Unico sull’edilizia).
Il potere di vigilanza di cui al citato art. 27, comma 1°,
deve intendersi come potere di carattere generale,
riguardante l’intera attività edilizia sul territorio, anche
se –come nel caso di specie– il titolo abilitativo è stato
rilasciato, in forza di una speciale disposizione di legge,
da altra Pubblica Amministrazione.
Naturalmente –e si perdoni l’ovvietà– l’attività di
vigilanza del Comune sui titoli rilasciati da un soggetto
terzo implica il rigoroso rispetto dei criteri di logicità,
proporzionalità, completezza ed adeguatezza
dell’istruttoria, che devono in ogni caso caratterizzare
l’azione amministrativa ai sensi dell’art. 1 della legge
241/1990.
Nel primo motivo di ricorso si denuncia l’incompetenza del
Comune ad adottare un’ordinanza come quella di cui è causa,
in quanto l’opera in questione (centrale idroelettrica), è
stata oggetto di autorizzazione unica provinciale, ai sensi
del D.Lgs. 387/2003, sicché soltanto la Provincia e non il
Comune potrebbe effettuare verifiche sulla eventuale
difformità dell’impianto rispetto al progetto assentito ed
adottare di conseguenza i necessari provvedimenti
sanzionatori.
Il mezzo, per quanto possa apparire suggestivo, è però
infondato.
Infatti, se è pur vero che l’impianto in questione è stato
oggetto di autorizzazione unica provinciale ai sensi
dell’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 (decreto attuativo di una
direttiva comunitaria sulla promozione delle fonti
rinnovabili per la produzione di energia elettrica) e che
tale autorizzazione riguarda anche gli aspetti urbanistici
ed edilizi, per cui “assorbe” altresì l’eventuale
permesso di costruire (cfr. l’art. 12 citato, commi 3° e 4°
ed il doc. 4 della ricorrente, copia dell’autorizzazione
unica), deve escludersi che il Comune ove insiste l’impianto
abbia per ciò solo perduto il proprio potere generale di
vigilanza e controllo sull’attività urbanistica ed edilizia,
di cui all’art. 27 del DPR 380/2001 (Testo Unico
sull’edilizia).
Il potere di vigilanza di cui al citato art. 27, comma 1°,
deve intendersi come potere di carattere generale,
riguardante l’intera attività edilizia sul territorio, anche
se –come nel caso di specie– il titolo abilitativo è stato
rilasciato, in forza di una speciale disposizione di legge,
da altra Pubblica Amministrazione.
Naturalmente –e si perdoni l’ovvietà– l’attività di
vigilanza del Comune sui titoli rilasciati da un soggetto
terzo implica il rigoroso rispetto dei criteri di logicità,
proporzionalità, completezza ed adeguatezza
dell’istruttoria, che devono in ogni caso caratterizzare
l’azione amministrativa ai sensi dell’art. 1 della legge
241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.10.2013 n. 2331 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Una scelta di PRG può
essere considerata illogica “… solo quando attribuisce ex
novo una destinazione di zona in aperta incoerenza con la
situazione di fatto e con quella precedentemente attribuita,
e che tale non può essere considerata la destinazione a
verde agricolo di area situata fra insediamenti esistenti,
atteso che tale scelta, oltre ad essere finalizzata alla
salvaguardia di esigenze di ordine meramente agricolo, può
altresì essere ispirata all’esigenza della conservazione di
un’equa proporzione fra aree edificabili ed aree
inedificabili, così da consentire le più convenienti ed
utili condizioni di abitabilità del territorio. La zona
agricola, infatti, possiede anche una valenza conservativa
dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone
dell’insediamento urbano e assumendo per tale via la
funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione
dell’aggregato urbano medesimo, convincimento questo
espresso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato ormai
da tempo. Anche nel caso di specie, quindi, che vede
reiterata la destinazione agricola dell’area, non può
ritenersi che fosse necessaria alcuna particolare
motivazione”.
In generale, è utile sottolineare come la giurisprudenza
abbia ripetutamente chiarito che non é neppure configurabile
una pretesa alla non reformatio in pejus della precedente
disciplina urbanistica, “… in quanto la titolarità di una
posizione giuridica qualificata va esclusa quando
l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una precedente
previsione urbanistica, che consentiva l'utilizzazione
dell'area in modo più proficuo, visto che, in tale ipotesi,
si tratta di un'aspettativa generica del privato …”, avente
ad oggetto la conservazione della destinazione di zona,
suscettibile di recedere dinanzi alla natura discrezionale
del potere di pianificazione urbanistica.
In diritto si può richiamare il precedente di
questa Sezione (08/06/2011 n. 836, che richiamava una
precedente sentenza del TAR Brescia – 15/05/2006 n. 514)
secondo il quale una scelta di PRG può essere considerata
illogica “… solo quando attribuisce ex novo una destinazione
di zona in aperta incoerenza con la situazione di fatto e
con quella precedentemente attribuita, e che tale non può
essere considerata la destinazione a verde agricolo di area
situata fra insediamenti esistenti, atteso che tale scelta,
oltre ad essere finalizzata alla salvaguardia di esigenze di
ordine meramente agricolo, può altresì essere ispirata
all’esigenza della conservazione di un’equa proporzione fra
aree edificabili ed aree inedificabili, così da consentire
le più convenienti ed utili condizioni di abitabilità del
territorio (cfr. Cons. Stato Sez. IV n. 259 del 2005 cit.,
idem 08.02.1980 n. 90; id., 11.06.1990 n. 464; id., n. 8146 del
2003 cit.). La zona agricola, infatti, possiede anche una
valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a
costituire il polmone dell’insediamento urbano e assumendo
per tale via la funzione decongestionante e di contenimento
dell’espansione dell’aggregato urbano medesimo,
convincimento questo espresso dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato ormai da tempo. Anche nel caso di specie,
quindi, che vede reiterata la destinazione agricola
dell’area, non può ritenersi che fosse necessaria alcuna
particolare motivazione”.
In generale, è utile sottolineare
come la giurisprudenza abbia ripetutamente chiarito che non
é neppure configurabile una pretesa alla non reformatio in
pejus della precedente disciplina urbanistica, “… in quanto
la titolarità di una posizione giuridica qualificata va
esclusa quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente
una precedente previsione urbanistica, che consentiva
l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che,
in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del
privato …”, avente ad oggetto la conservazione della
destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla
natura discrezionale del potere di pianificazione
urbanistica (cfr. ex plurimis TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/09/2013 n. 2173)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 22.10.2013 n. 871 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente onesto va tutelato.
Il datore di lavoro è responsabile del disagio provocato
all'impiegato emarginato.
Cassazione. Condannata un'agenzia di Equitalia Polis per non
aver protetto un messo estraneo alla prassi delle false
notifiche.
Il dipendente
onesto che si oppone ai comportamenti illegittimi dei
colleghi deve essere difeso e tutelato dal datore, pena la
responsabilità civilistica per i danni riportati dal
lavoratore emarginato.
Con la
sentenza
21.10.2013 n. 23772 la Sezione
Lavoro della Corte di Cassazione ha reso definitiva l'affermazione di
responsabilità dell'agenzia Equitalia Polis di Teramo per la
prassi delle false notifiche di irreperibilità a ignari
contribuenti, costata a un impiegato –estraneo all'accordo– un lungo periodo di isolamento e di pressioni
psicologiche, all'origine di un asserito danno biologico e
morale.
La vicenda del messo notificatore onesto era emersa dopo la
citazione a giudizio dell'ufficio di Teramo di Equitalia
Polis per la mancata tutela della «integrità fisica e
personalità morale» del dipendente (articolo 2087 del Codice
civile), divenuto bersaglio dell'ostilità dei colleghi.
Colleghi che avevano escogitato, stando alle risultanze del
processo, un sistema piuttosto efficace per sbrigare le
notifiche e incassare le relative indennità: si limitavano
ad attestare falsamente di essersi recati al domicilio del
debitore e di non averlo trovato.
I problemi per il messo onesto erano sorti immediatamente al
suo rifiuto di liquidare in modo altrettanto "celere" le
pratiche, problemi culminati addirittura in sanzioni
disciplinari. Nonostante ciò il tribunale di Teramo aveva
respinto la domanda di risarcimento, accolta solo in appello
dalla Corte dell'Aquila. Equitalia Polis nel ricorso
affermava una «sostanziale impossibilità di mutare la
procedura di riscossione instaurata in azienda», che secondo
questo punto di vista addirittura non era forse neppure
illegittima.
Ma per i giudici l'agenzia non aveva fatto nulla per evitare
che all'interno dei luoghi di lavoro si realizzassero
comportamenti censurabili, e inoltre in quel contesto la
reazione del dipendente estraneo ai maneggi era da
considerare semmai assolutamente «doverosa». In aggiunta
alla falsità che si pretendeva dai messi, oltremodo «grave»
era il comportamento del datore di lavoro, che così facendo
avallava l'incasso, da parte dei dipendenti, di un lucro
illegittimo perché relativo ad attività mai svolta.
L'aver lasciato il messo onesto in balìa dei colleghi
"ostili", secondo la Cassazione, è un classico esempio di
come la società (Equitalia Polis) abbia «omesso di adottare
precauzioni al fine di evitare o ridurre lo stato di
disagio, le manifestazioni di ostilità e l'isolamento del
lavoratore determinato dal fatto che aveva manifestato il
suo dissenso alla prassi aziendale, del tutto illegittima».
L'azienda avrebbe potuto trarsi d'impaccio solo dimostrando,
in primo luogo, di «aver fatto tutto il possibile per
impedire diffusi e ripetuti comportamenti illegittimi da
parte dei suoi dipendenti» e, inoltre, di aver adeguatamente
tutelato chi a tali condotte intendeva opporsi. Perché la
responsabilità del datore –chiosa la Cassazione– si
estende anche alla salvaguardia della salute psichica del
dipendente e non è limitata solo alla sfera della integrità
fisica.
La sentenza dell'Aquila dovrà essere rivista però
sotto l'aspetto della liquidazione del danno: «L'accertata
illegittimità del comportamento del datore non
necessariamente è fonte del danno alla salute lamentato dal
lavoratore» (articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2013). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari locali come i dirigenti.
Tribunale di Roma. Sentenza sull'inquadramento.
I segretari
comunali e provinciali sono «equiparati» ai dirigenti.
Lo
dice a chiare lettere la
sentenza
17.10.2013 della I Sez. Lavoro del Tribunale di Roma, con
una decisione che è nata per dirimere una controversia fra
l'agenzia negoziale delle pubbliche amministrazioni e il
sindacato di settore (l'Unione nazionale segretari) ma che
per farlo affronta la natura stessa del ruolo della
categoria; e afferma, appunto, che le leggi in vigore
mostrano «l'intenzione evidente di equiparare e assimilare
la figura professionale dei segretari a quella dei
dipendenti con inquadramento dirigenziale, pur mantenendo la
distinzione dei due profili».
Quasi scontato il ricorso in
appello dell'amministrazione centrale, che ha finora sempre
contrastato l'idea di attribuire ai segretari uno "status"
che farebbe entrare nella dirigenza pubblica almeno altre
6mila persone: con conseguenze da verificare.
Il dibattito nasce su un terreno squisitamente sindacale,
legato al fatto che l'Unione dei segretari era stata esclusa
dai tavoli per i contratti 2006-2009 in quanto ritenuta «non
rappresentativa», dal momento che i calcoli sui parametri da
superare per poter negoziare (raccogliere almeno il 5% di
iscritti a sindacati) erano stati condotti sull'intero
comparto «Regioni-enti locali»: una platea da oltre 500mila
persone, in cui i 6mila segretari pesano ovviamente troppo
poco per ottenere i requisiti di rappresentatività.
L'Unione, anche sulla base delle prassi seguite prima
dell'arrivo di Renato Brunetta al ministero della Pa, ha
contestato questa lettura, rivendicando di essere la sigla
ampiamente maggioritaria nella categoria. La battaglia è
scoppiata nel 2009 (e riguardava i bienni fin dal 2006 per
il ritardo cronico con cui si rinnovavano i contratti
pubblici prima del blocco), ed è sfociata prima in
un'ordinanza (febbraio 2011) e poi nella sentenza del
Tribunale di Roma.
Tutto qui? Per Alfredo Ricciardi, segretario nazionale
dell'Unione, la sentenza «riconosce che i segretari sono una
categoria autonoma di rango dirigenziale», ma non ha
conseguenze sull'ordinamento perché «le regole di fatto già
riconoscono questo ruolo ai segretari, che infatti per
esempio non hanno l'orario di lavoro a 36 ore e lo
straordinario».
Diversi, però, i timori
dell'amministrazione, dove si teme per esempio che la
pronuncia possa alimentare richieste di adeguamenti da parte
dei segretari dei piccoli Comuni, dove non esistono
dirigenti e quindi non si applica il «galleggiamento» che
equipara la retribuzione del segretario a quella del
dirigente di vetta; oppure che, sentenza alla mano, i
segretari che migrano in mobilità verso altre Pubbliche
amministrazioni possano pretendere in automatico
l'inquadramento dirigenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2013). |
APPALTI: Appalti, serve la moralità.
Verifica obbligatoria anche per i procuratori.
Il Consiglio di stato sui requisiti necessari per
accedere ai bandi di gara.
Negli appalti pubblici sono necessari i controlli sulla
moralità professionale anche per i procuratori e non
soltanto per il direttore tecnico e gli amministratori con
poteri di rappresentanza. È possibile l'esclusione dalla
gara solo quando si dimostri che manca in concreto il
requisito morale o professionale. E' illegittimo, se non è
previsto nel bando di gara, escludere per la mera assenza
della dichiarazione di insussistenza della causa di
esclusione (auto certificazione) da parte del procuratore.
È
quanto afferma il Consiglio di Stato con la
sentenza 16.10.2013 n. 23 dell'Adunanza plenaria rispetto ad
una controversia relativa alla fase di verifica dei
requisiti che i partecipanti alle gare di appalto pubblico
sono tenuti ad auto dichiarare ai fini della partecipazione.
Nel caso specifico era stata esclusa una impresa di
costruzioni che non aveva prodotto la dichiarazione del
procuratore, nonostante negli atti di gara non fosse stato
richiesto anche al procuratore la dichiarazione sui
requisiti morali e professionali di norma prodotta dal
direttore tecnico e dagli amministratori. Il tema delle
dichiarazioni da rendere in sede di gara e, in particolare,
dei requisiti morali e professionali è disciplinato
dall'art. 38, lettere b) e c), del dlgs 163/2006 (Codice dei
contratti pubblici).
La norma prevede l'obbligo dichiarativo
per gli «amministratori muniti del potere di rappresentanza»
o per i direttori tecnici, se si tratta di società o di
consorzi organizzati nelle forme diverse dall'impresa
individuale, in accomandita, o in nome collettivo (o del
socio unico persona fisica, o del socio di maggioranza per
le società con meno di quattro soci). Si tratta di un
profilo particolarmente delicato che si collega alla
possibilità di escludere il partecipante alla gara in
relazione al fatto che abbia riportato condanne per reati
nominativamente individuati e che si incardina all'interno
di una fase (verifica dei requisiti) molto complessa e fonte
principale del contenzioso che si registra in sede di
amministrativa.
La sentenza arriva a dirimere una spaccatura
nell'orientamento della giurisprudenza dello stesso
Consiglio di stato che, da una parte, ha in alcuni casi
affermato la valenza limitativa della norma del Codice dei
contratti pubblici (che richiede la compresenza della
qualità di amministratore e dell'esistenza di un potere di
rappresentanza) e, dall'altra, ha, invece, esteso l'obbligo
anche per quei procuratori che, per avere consistenti poteri
di rappresentanza dell'impresa, «siano in grado di
trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione
dell'ordinamento nei riguardi della propria condotta al
soggetto rappresentato».
L'Adunanza plenaria aderisce al
secondo orientamento, di maggiore garanzia per le stazioni
appaltanti, verificata «l'emersione di figure di procuratori
muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e
riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per
sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di
spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli
amministratori».
In sostanza accade che il procuratore
spesso sia come un amministratore di fatto e, in forza della
procura rilasciatagli, racchiuda in se anche il ruolo di
rappresentante della società, sia pure per alcuni atti. La
pronuncia apre, quindi, all'obbligo di verifica anche per i
procuratori, ma stabilisce che se negli atti di gara non è
prevista la pena dell'esclusione per il procuratore che non
ha reso la dichiarazione, si potrà procedere all'esclusione
dell'impresa non già per la semplice omessa dichiarazione ex
art. 38 del Codice, ma soltanto dove sia effettivamente
riscontrabile l'assenza del requisito in questione. La
stazione appaltante, quindi, avrebbe dovuto, nel caso
specifico, chiedere la prova del requisito al procuratore e
soltanto in caso di verificata assenza del requisito,
procedere all'esclusione.
Uno degli effetti della sentenza
sarà quindi quello di aggravare gli oneri burocratici per le
imprese, anche se l'auspicio è che con l'avvio, da gennaio
2014, dell' Avcp tutto ciò possa essere reso meno complicato
da un sistema automatico di verifica dei requisiti gestiti
dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2013). |
CONDOMINIO: La delibera vincolante salva l'amministratore.
Condominio. Quando la ditta
inadeguata la sceglie l'assemblea.
L'amministratore del condominio non può essere condannato
per aver puntato sulla ditta sbagliata se l'appalto è stato
deciso con una delibera che era costretto ad attuare.
La
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 15.10.2013 n. 42347,
accoglie il ricorso di un amministratore condannato dal
tribunale a pagare un'ammenda, perché per far tagliare un
albero di grandi dimensioni aveva scelto una ditta senza
verificarne le credenziali e non aveva messo in guardia gli
operai sugli eventuali rischi dell'ambiente in cui
operavano. Mentre, secondo i giudici di merito,
l'amministratore rivestiva il ruolo di datore di lavoro con
i relativi oneri. L'amministratore aveva portato i suoi
argomenti in Cassazione e si era difeso, senza però puntare
sull'argomento vincente. Ad avviso del ricorrente la
decisione di rivolgersi a una ditta senza inserirsi in alcun
modo nell'organizzazione, nella direzione e nell'esecuzione
dei lavori lo metteva al riparo dalle responsabilità tipiche
del datore di lavoro.
La Suprema corte dà atto al ricorrente che l'amministratore
assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro
solo quando procede direttamente all'organizzazione dei
lavori nell'interesse del condominio, ma respinge la tesi
che la decisione di appaltarli non comporti alcuna
responsabilità.
Come committente l'amministratore ha comunque il dovere di
accertare in primo luogo l'idoneità tecnico-professionale
della ditta individuata, nel caso specifico risultata tanto
inconsistente da imporre un subappalto.
La condanna viene però annullata. I giudici di merito non
avevano sciolto un nodo fondamentale per affermare la
responsabilità penale.
L'appalto era stato deciso e assegnato con una delibera che
l'imputato, in virtù del suo ruolo, era tenuto ad attuare.
La pena non è giustificata se manca la prova che
l'amministratore godeva dell'autonomia e dei poteri
decisionali per disattendere la scelta dei condomini. Un
argomento che era sfuggito anche al diretto interessato che
aveva scelto un'altra linea di difesa
(articolo Il Sole 24 Ore del
16.10.2013). |
APPALTI:
Nelle gare d’appalto, l’istituto dell’avvalimento
risponde all’esigenza della massima partecipazione
consentendo ai concorrenti, che siano privi dei requisiti
richiesti dal bando, di concorrere ricorrendo ai requisiti
di altri soggetti.
Il Collegio condivide l’orientamento secondo cui tutti i
requisiti di capacità tecnica, economica e professionale
devono essere sussunti nella categoria dei requisiti che
possono essere oggetto di avvalimento e, quand’anche la
certificazione di qualità riguardasse una qualità soggettiva
dell’impresa, ugualmente potrebbe essere oggetto di
avvalimento, rientrando tra i requisiti soggettivi che
possono essere comprovati mediante tale strumento, attesa la
sua portata generale.
Una volta ammessa l’astratta operatività dell’avvalimento
per le attestazioni e le certificazioni, effettivamente non
può essere trascurata l’evidente difficoltà “pratica” di
dimostrare, in concreto, l’effettiva disponibilità di un
requisito che, per le sue caratteristiche, è collegato
all’intera organizzazione dell'impresa, alle sue procedure
interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello
svolgimento delle attività.
In primo luogo, nelle gare d’appalto,
l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza della
massima partecipazione consentendo ai concorrenti, che siano
privi dei requisiti richiesti dal bando, di concorrere
ricorrendo ai requisiti di altri soggetti. Il Collegio
condivide l’orientamento secondo cui tutti i requisiti di
capacità tecnica, economica e professionale devono essere
sussunti nella categoria dei requisiti che possono essere
oggetto di avvalimento e, quand’anche la certificazione di
qualità riguardasse una qualità soggettiva dell’impresa,
ugualmente potrebbe essere oggetto di avvalimento,
rientrando tra i requisiti soggettivi che possono essere
comprovati mediante tale strumento, attesa la sua portata
generale (Consiglio di Stato, sez. V, 23.10.2012, n.
5408).
Una volta ammessa l’astratta operatività dell’avvalimento
per le attestazioni e le certificazioni, effettivamente non
può essere trascurata l’evidente difficoltà “pratica”
di dimostrare, in concreto, l’effettiva disponibilità di un
requisito che, per le sue caratteristiche, è collegato
all’intera organizzazione dell'impresa, alle sue procedure
interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello
svolgimento delle attività (cfr. Cons. Stato 18.04.2011, n.
23446) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
15.10.2013 n. 2306 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire in deroga agli strumenti
urbanistici generali, nel rispetto delle norme igieniche,
sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i
limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti
urbanistici generali ed esecutivi.
Esso è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti
pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del
Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR
06.06.2001, n. 380; in precedenza, l’art. 41-quater della
legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale
costituisce un elemento necessario del procedimento
amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego
della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua
assenza vizia il procedimento stesso, d’altro canto, la
giurisprudenza amministrativa, da sempre (quantomeno a
partire dal 1984), reputa che l’atto terminale del
procedimento è costituito dal permesso di costruire in
deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio
comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si
configura come atto interno del procedimento, non
immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di
uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo
congiuntamente all’atto finale, una volta emanato.
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è
che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli
indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il
rilascio della concessione in deroga; per contro, sono
demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli
accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto
che l’istante presenta al momento della richiesta del titolo
edilizio.
In punto di diritto, il permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali
(deroga che, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e
di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati
di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici
generali ed esecutivi) è rilasciato esclusivamente per
edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa
deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1,
del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l’art. 41-quater
della legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare
del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario
del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel
rilascio o diniego della concessione in deroga, con la
conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso,
d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre
(quantomeno a partire da Consiglio Stato, sez. V, 06.06.1984, n. 433), reputa che l’atto terminale del procedimento
è costituito dal permesso di costruire in deroga, mentre la
previa deliberazione del Consiglio comunale (salvo il caso
di determinazione negativa) si configura come atto interno
del procedimento, non immediatamente lesivo, impugnabile
assieme agli atti di uguale natura confluiti nel
procedimento stesso, solo congiuntamente all’atto finale,
una volta emanato (così TAR Milano, Sez. II, 09.04.1998, n. 728; più recentemente, TAR Sardegna sez. II,
04.06.2012, n. 556).
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è
che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli
indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il
rilascio della concessione in deroga; per contro, sono
demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli
accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto
che l’istante presenta al momento della richiesta del titolo
edilizio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di
destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può
costituire una operazione edilizia o urbanistica per così
dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il
pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo
l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico;
parimenti è stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una “trasformazione
edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi
economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali
il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie
in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la
rimessione in pristino, per evitare un illecito ed
irreversibile cambio di destinazione urbanistica non
accompagnato da adeguate misure per fare fronte
all'aumentato carico urbanistico.
Secondo la
giurisprudenza di questo Tribunale, la specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere
letta e interpretata alla luce dei principi fondamentali e
delle disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) e anche dalla stessa
legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare,
all’art. 51, comma 1, se da una parte ammette in via di
principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa
espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento
urbanistico generale (“...salvo quelle eventualmente escluse
dal PGT…”).
L’art. 52, comma 2, del resto, prevede per i
mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano “...conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria …”. Quanto
alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale”, sanzionata
ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con
l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino, il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi
evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza
opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o
urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi
esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il
cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico
della zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di
destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”,
dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n.
4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione
fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una
categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri
termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la
stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi
all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali
il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie
in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la
rimessione in pristino, per evitare un illecito ed
irreversibile cambio di destinazione urbanistica non
accompagnato da adeguate misure per fare fronte
all'aumentato carico urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E' stato recentemente chiarito
in quali termini le recenti innovazioni normative
(nella specie, l’art. 11, comma 1, lett. e del D.lgs. n. 59
del 2010, nonché l’art. 34, comma 3, lett. a, del D.lgs.
201/2011) subordinano, oramai, la legittimità degli atti di
pianificazione urbanistica, che dispongono limiti o
restrizioni all’insediamento di nuove attività economiche in
determinati ambiti territoriali, ad uno scrutinio molto più
penetrante di quello che si riteneva essere consentito in
passato.
E ciò per verificare, attraverso un’analisi degli atti
preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali
atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti
possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive
esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti
all’ordinato assetto del territorio sotto il profilo della
viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre
opere pubbliche; dovendosi, in caso contrario, reputare che
le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi
imperativi di interesse generale e siano, perciò,
illegittime.
Il Collegio
ritiene, a questo punto, utile la seguente precisazione.
Al
di là dei motivi che hanno portato alla reiezione del
presente ricorso (incentrato, per lo più, sulla
interpretazione del permesso di costruire in deroga che era
stato in fatto rilasciato), preme avvertire che il principio
di legalità impone, in ogni caso, al Comune resistente di
verificare la pretesa del ricorrente alla luce dei
sopravvenuti sviluppi legislativi.
Questo stesso Tribunale,
con una recentissima sentenza (Sez. I, 10.10.2013, n.
2271), ha chiarito in quali termini le recenti innovazioni
normative (nella specie, l’art. 11, comma 1, lett. e del
D.lgs. n. 59 del 2010, nonché l’art. 34, comma 3, lett. a,
del D.lgs. 201/2011) subordinano, oramai, la legittimità
degli atti di pianificazione urbanistica, che dispongono
limiti o restrizioni all’insediamento di nuove attività
economiche in determinati ambiti territoriali, ad uno
scrutinio molto più penetrante di quello che si riteneva
essere consentito in passato; e ciò per verificare,
attraverso un’analisi degli atti preparatori e delle
concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da
sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano
ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di
tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto
del territorio sotto il profilo della viabilità, della
necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche;
dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in
parola non siano riconducibili a motivi imperativi di
interesse generale e siano, perciò, illegittime (sul punto
si veda la sentenza 15/03/2013 n. 38 della Corte
costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità
costituzionale per contrasto con l’art. 31 del D.L. 201 del
2011 dell’art. 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell'art. 6 della
legge della Provincia autonoma di Bolzano 16.03.2012, n.
7, perché con essi veniva precluso l’esercizio del commercio
al dettaglio in aree a destinazione artigianale e
industriale, in assenza di plausibili esigenze di tutela
ambientale che potessero giustificare il divieto)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Indipendentemente
dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento
degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni
qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del
carico urbanistico (cioè la richiesta di una maggiore
dotazione di servizi, quali, ad es. rete viaria, parcheggi,
verde, fognature, ecc.), giacché in tale evenienza sussiste
il presupposto che giustifica la corresponsione, quanto
meno, della differenza tra gli oneri di urbanizzazione
dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori,
dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.
Al riguardo la giurisprudenza
amministrativa ha ripetutamente affermato che,
indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve
ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una
variazione, in aumento, del carico urbanistico (cioè la
richiesta di una maggiore dotazione di servizi, quali, ad
es. rete viaria, parcheggi, verde, fognature, ecc.), giacché
in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la
corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri
di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione
impressa all'immobile (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004
n. 2611; id. Sez. V, 15.09.1997 n. 959; TAR Roma, Sez. II-ter,
17.03.2012 n. 2604; TAR Bari, Sez. III, 22.02.2006, n. 571;
TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003 n. 4502; TAR Bologna, Sez. II,
19.02.2001 n. 157 e 07.05.1999, n. 259)
(TAR Marche,
sentenza
15.10.2013 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La conformità dei
manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce un
presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del
certificato di agibilità, atteso che "ancor prima della
logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere
che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un
fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia
e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del
fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella
disciplina è preordinata".
Ai sensi dell’art. 24 del d.P.R. n. 380/2001: “1. Il
certificato di agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone la normativa
vigente”.
Il successivo art. 25 disciplina il procedimento di rilascio
del certificato di agibilità, ponendo precise scansioni
temporali e individuando con altrettanta precisione gli
adempimenti posti a carico del richiedente e quelli gravanti
sul responsabile del procedimento.
Infine, per qual che qui rileva, l’art. 36 dello stesso
decreto, occupandosi dei presupposti per il rilascio del cd.
permesso in sanatoria o “accertamento di conformità”,
prevede al comma secondo che: “Il rilascio del permesso
in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di
oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia,
ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari
a quella prevista dall'articolo 16.”.
Da quanto suesposto si ricava agevolmente come, la
conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie
costituisca un presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, atteso che "ancor
prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza
ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa
urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto
con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata" (cfr.
C.d.S., sez. V, 30.04.2009, n. 2760; TAR Campania, Napoli,
Sez. II, Sent. 21.02.2013, n. 969).
Nel caso in esame, tale conformità urbanistico–edilizia del
manufatto rispetto al quale il Comune ha denegato il
rilascio del certificato di agibilità risulta per tabulas,
avendo lo stesso Comune adottato il provvedimento prot. n.
4420 del 18.06.2012 avente ad oggetto “accoglimento
dell’accertamento di conformità edilizia pratica n. 5/2011”.
La circostanza che tale provvedimento subordini il rilascio
del titolo al pagamento delle sanzioni pecuniarie ivi
determinate e che la ricorrente abbia impugnato tale
condizione sul presupposto, poi rivelatosi infondato (cfr.
la decisione assunta all’odierna camera di consiglio in
relazione al ricorso n. 2496/2012) dell’illegittimità delle
sanzioni applicate, non fa venire meno l’esistenza
dell’accertamento di conformità urbanistico-edilizia ivi
contenuto.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi anche tenendo conto
della sospensiva accordata alla ricorrente in sede
cautelare, sempre in relazione al ricorso n. 1789/2012,
dapprima da questo Tribunale, limitatamente al 50%
dell’importo delle sanzioni irrogate col provvedimento di
accertamento di conformità, indi dal Consiglio di Stato, in
relazione all’intero importo delle sanzioni irrogate.
La sospensione in parola non può che concernere soltanto le
sanzioni (effettivo thema decidendum del ricorso n.
1789/2012) lasciando inalterato l’accertamento di conformità
urbanistico–edilizio contenuto nel provvedimento ex art. 36
d.P.R. n. 380/2001 cit., che di per sé è sufficiente ad
integrare il presupposto poc’anzi tratteggiato del
certificato di agibilità, ai sensi della su riportata
normativa.
Dalle suesposte considerazioni consegue, al di là
dell’infondatezza del primo motivo di ricorso, la fondatezza
del secondo motivo, poiché il Comune ha illegittimamente
negato il rilascio del certificato sull’erroneo presupposto
della sospensione dell’accertamento di conformità, atteso
che la sospensione in parola ha riguardato soltanto
l’importo delle sanzioni –sub iudice nella causa n.
1789/2012 r.g., chiamata anch’essa all’odierna udienza– e
non anche l’accertamento di conformità (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 11.10.2013 n. 2279 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Tar Lombardia. La libertà economica.
Il piano regolatore non può ostacolare i supermercati.
DALL'EUROPA/ La direttiva Bolkestein ha eliminato i
contingenti numerici e i limiti territoriali all'apertura di
nuovi esercizi
La libertà di iniziativa economica e l'uniformità di accesso
dei consumatori a beni e servizi prevalgono sulle
destinazioni dei piani urbanistici.
È il principio posto dal
TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2271, che accoglie
la tesi una catena discount che voleva ampliare da 600 ad
800 metri quadri la propria struttura di San Giuliano
Milanese. La sentenza è rilevante perché ritiene validi per
l'intero territorio nazionale alcuni princìpi desunti dalla
direttiva Bolkestein (123/2006) che abroga le disposizioni
di atti di pianificazione e programmazione territoriale che
pongano divieti e restrizioni all'apertura di attività
commerciali.
Il legislatore italiano ha recepito la direttiva eliminando
contingenti numerici e limiti territoriali all'apertura di
nuovi esercizi, salvaguardando solo le esigenze di ambiente
e salute e i vincoli culturali (articolo 31 del Dl
201/2011). Ma i piani urbanistici hanno continuato a imporre
limiti alle aperture di medie e grandi strutture di vendita.
La sentenza interrompe questa prassi, aggirando il limite
posto dal piano urbanistico e ritenendo che il Comune non
possa inserirvi limitazioni commerciali.
Secondo i giudici, i piani urbanistici non possono eccedere
dalla programmazione territoriale, invadendo quella
economica: non possono porre divieti sproporzionati rispetto
alla tutela dell'ambiente urbano, all'assetto del
territorio, alla viabilità e agli standard (verde,
parcheggi). Altrimenti devono intendersi abrogati dalla
direttiva e dalla legge nazionale di attuazione (Dl 1/2012).
Con questo ragionamento, il ricorso del discount è stato
accolto perché il Comune si era limitato a eccepire il
contrasto con lo strumento urbanistico, senza richiamare
problemi di viabilità o infrastrutture.
Secondo il Tar, la direttiva Bolkestein dal marzo 2012 (per
effetto della conversione in legge del Dl 1/2012) supera i
divieti urbanistici comunali su nuovi insediamenti o
ampliamenti commerciali. Devono infatti prevalere libertà di
iniziativa economica e di concorrenza, non vi possono essere
limiti numerici, autorizzazioni, licenze o preventivi atti
di assenso non giustificati da interesse generale (articolo
11 del Dl 1/2012).
Questi princìpi hanno già passato il vaglio della Corte
costituzionale (sentenza 38/2013): la Provincia autonoma di
Bolzano aveva tentato di limitare l'insediamento in zone
produttive, consentendovi solo vendita di auto, materiali
edili e prodotti agricoli. Questi limiti sono stati
eliminati dalla Consulta per contrasto coi princìpi di
libertà di iniziativa economica e di stabilimento.
Allo stesso modo, applicando la sentenza del Tar di Milano,
i piani urbanistici vedono ampliarsi le loro maglie, che
invece erano state via via ristrette dalle prassi comunali.
Gli effetti della sentenza del Tar di Milano sono in parte
mitigati dall'articolo 31, comma 2, del Dl 201/2011
(modificato nell'agosto scorso dal Dl 69/2013), che consente
agli enti locali di prevedere aree interdette agli esercizi
commerciali o limitazioni agli insediamenti di attività
produttive e commerciali.
Poiché tuttavia la normativa comunitaria prevale,
l'innovazione contenuta nel Dl 69/2013 non può convalidare
tutte le previsioni in dettaglio dei piani urbanistici, ma
può operare solo per generiche zone ed in presenza di
specifiche esigenze di tutela della salute, dei beni
culturali e dell'ambiente urbano (articolo Il Sole 24 Ore 17.10.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danno della Pa risarcibile se c'è «cattivo
esercizio».
Il risarcimento del danno da cattivo esercizio dell'attività
amministrativa è legato alla violazione di principi che il
Consiglio di Stato (quinta sezione, sentenza 4968),
identifica sotto il profilo oggettivo e soggettivo. La
compromissione deve riguardare: i criteri di economicità,
efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza;
l'aggravamento del procedimento non dovuta a straordinarie e
motivate esigenze imposte dalla doverosa attività
istruttoria; la mancata doverosa conclusione del
procedimento amministrativo con un provvedimento espresso;
la mancata motivazione dei provvedimenti autorizzatori che
devono essere motivati - i principi di legalità,
imparzialità e buon andamento (art. 97 Costituzione);
l'ingiustificato arresto procedimentale, rinviando sine die
il doveroso esercizio della funzione amministrativa.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 09.10.2013 n. 4968 ha affrontato una
situazione di ritardo nel rilascio di un permesso a
costruire, ritardo ritenuto ingiustificato. Tale evenienza
è, in genere, destinata a riguardare ogni tipo di attività
diretta al rilascio di un provvedimento amministrativo, in
ipotesi in cui l'Amministrazione richiede, ovvero dispone
incombenti istruttori non oggettivamente necessari, i quali,
proprio per tale motivo, diventano ingiustificati e
causativi di responsabilità. La sentenza merita di essere
segnalata non tanto perché riprende l'affermata
risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo,
riconosciuta fin dalla sentenza 500 del 1999 delle Sezioni
unite della Cassazione, quanto per l'individuato decalogo
che con chiarezza viene a indicare le condizioni per
ottenere il risarcimento del danno verso la Pa.
Spiegano i giudici che l'immotivata e irragionevole inerzia
a provvedere, e a non provvedere tempestivamente, genera il
diritto al risarcimento allorché si tenga presente che: non
si è mai in presenza di un mero ritardo nell'esercizio
dell'attività amministrativa, qualora il provvedimento venga
successivamente rilasciato. Dal momento che in tal caso si
dimostra la sussistenza in capo al richiedente del diritto
al «bene della vita», rappresentato dall'interesse
perseguito e meritevole di tutela con l'ottenimento del
richiesto provvedimento; di fronte all'inerzia della
situazione è irrilevante la circostanza che il richiedente
abbia omesso di impugnare il silenzio rifiuto che si era
eventualmente formato. A tal proposito il Consiglio di Stato
afferma che «il decorso del termine per provvedere -per
il rilascio del provvedimento- non esaurisce il
potere/dovere dell'amministrazione di provvedere sulla
domanda del privato (si veda pure Consiglio di Stato, Quinta
sezione, sentenza 6623/2005). Tale evenienza costituisce
silenzio/rifiuto del richiesto provvedimento».
Si vuole con ciò attribuire al richiedente «la facoltà di
liberarsi dell'inerzia dell'amministrazione e dell'onere
della diffida e messa in mora di quest'ultima,
indispensabile per adire il giudice amministrativo (C.d.S.,
sez. V, 25.09.1998, n. 1326; sez. IV, 01.10.1993, n. 818)».
Il che fa sì che la mancata impugnazione dell'inerzia, cioè
del silenzio serbato dalla Pa, rileva sotto il diverso
profilo della richiesta risarcitoria come causa del danno e
della concreta sua determinazione (art. 1227 del Codice
civile e 30, comma 3, del Codice del processo
amministrativo). La sola illegittimità dell'atto è,
tuttavia, di per sé insufficiente per dar luogo alla
responsabilità e al conseguente risarcimento del danno per
lesione dell'interesse legittimo.
È, quindi, necessario anche il concorso dell'elemento
soggettivo, cioè del requisito della "colpa", come
negligenza tenuta nell'esercizio dell'attività della Pa.
Spiega il Consiglio di Stato che la colpa ricorre allorché
vengano violati i principi di imparzialità, collegato al
dovere della parità di trattamento per l'Amministrazione. A
ciò si aggiunga, ora, anche la compromissione del dovere di
astensione in capo al responsabile del procedimento, in caso
di conflitti di interesse (articolo 6-bis della Legge 241
del 1990, introdotto con la Legge 190 del 2012 di buon
andamento, di difetto assoluto di motivazione, di
ingiustificato illogico aggravamento o arresto del
procedimento.
Tutti tali aspetti sono in grado, se ricorrenti, di
determinare la sussistenza dell'elemento soggettivo della
colpa, necessario agli effetti risarcitori. L'errore
scusabile elimina l'elemento psicologico per la
responsabilità, se sussistono: peculiari complessità dei
fatti; contrasti giurisprudenziali; incertezza normativa;
determinazione presa in conformità a un precedente atto
amministrativo.
Infine sono irrilevanti prassi o comportamenti reiterati
degli Uffici amministrativi (articolo Il
Sole 24 Ore del 02.11.2013). |
PATRIMONIO: Stazioni,
locazione pubblica.
Illegittima la trattativa privata per la locazione di vani
commerciali all'interno della stazione. Ciò quando i
contenuti specifici del contratto vanno ben oltre la
cessione della mera detenzione dell'immobile. Ovvero nel
caso in cui prevedono un'ingerenza delle Ferrovie non
giustificata da un mero rapporto di locazione ed
evidenziano, invece, che il contratto è caratterizzato dalla
volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.
Se non vi è in sostanza, ha precisato il Consiglio di Stato,
Sez. VI, nella
sentenza
04.10.2013 n. 4902, una
mera connessione logistica dovuta alla collocazione
dell'attività in locali destinati al servizio pubblico ma
una chiara connessione funzionale con i viaggiatori, va
applicato il codice degli appalti.
Tanto gli appalti «sotto
soglia», che fruiscono di una temporanea esenzione, che gli
appalti e le concessioni di servizi «esclusi», che fruiscono
di un regime di parziale esenzione, precisa infatti la
sentenza, rientrano negli scopi del diritto comunitario. Con
la conseguenza che va applicato l'art. 27 del dlgs 163/2006,
il quale estende l'applicazione dei principi del trattato Ue
anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di
oggetto. E ciò in quanto è posto un principio di rispetto
delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della
concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al
rispetto del codice degli appalti.
Nel caso specifico, il contratto stipulato dalle Ferrovie
prevedeva che la struttura e la destinazione dei locali, i
tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e
gli arredi dovevano essere predisposti e organizzati sotto
la direttiva delle Ferrovie allo scopo del migliore
soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori. Il contratto
prevedeva, inoltre, che «la ditta è obbligata a mantenere
in condizioni di pulizia il pavimento dell'intero atrio
biglietteria, sala d'attesa e quant'altro adibito a luogo di
accesso al pubblico interno ed esterno della stazione»
(articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Edificabilità dei terreni, no all'azione obbligata.
Cassazione sulla negazione della
concessione comunale.
Il proprietario di un terreno non può essere obbligato ad
agire in sede giurisdizionale per affermare l'edificabilità
del terreno e, inoltre, qualora il comune dovesse negare la
concessione edilizia, chi ha alienato il terreno non può
azionare il ricorso poiché la richiesta di concessione
presuppone un interesse di tipo pretensivo, del quale il
dante causa non può ritenersi titolare.
Ad affermarlo è stata la V Sez. del Consiglio di
Stato con la
sentenza
30.09.2013 n. 4827.
Secondo i giudici di Palazzo Spada non giova richiamare la
giurisprudenza amministrativa che riconosce la
legittimazione a impugnare strumenti urbanistici non solo ai
titolari di aree in essi comprese, ma anche quelli di aree
vicine, ogniqualvolta costoro lamentino una diminuzione di
valore a causa del nuovo assetto pianificatorio.
Gli obblighi discendenti in capo all'alienante del terreno
non sono idonei a fondare invece alcuna relazione
qualificata con il medesimo.
L'esposizione dello stesso alle possibili impugnative
contrattuali dell'acquirente non gli consentono certamente
di chiedere in luogo di questi i necessari titoli edilizi,
trattandosi di un'ingerenza nella proprietà altrui non
consentita da alcuna norma di legge, e tanto meno di reagire
davanti all'autorità giurisdizionale contro i relativi
dinieghi, pena altrimenti la violazione del divieto di
sostituzione processuale sancito con carattere di generalità
dall'art. 81 cod. proc. civ.
I giudici amministrativi hanno poi sottolineato che, in base
alla disciplina normativa applicabile «ratione temporis» e
cioè la legge n. 10/1977, «la concessione a edificare poteva
essere rilasciata al proprietario dell'area o a chi abbia
titolo per richiederla» (art. 4, comma 1, sostanzialmente
corrispondente all'art. 11, del Testo unico dell'edilizia di
cui al dpr n. 380/2001 attualmente in vigore). Il
riferimento operato dalla citata disposizione al «titolo»
era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale
di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a
chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base a un
diritto personale (come per esempio il promissario
acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il
proprietario; Consiglio di stato, sez. V, 24.08.2007, n.
4485).
In conclusione: è solo un legame qualificato con
l'area da sfruttare a fini edificatori che fonda l'interesse
legittimo a ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo, in assenza, si è, rispetto a quest'ultimo, nella
posizione di «quisque de populo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Rito tributario, atti pubblici.
A processo finito sempre possibile conoscere i documenti.
La sentenza del Consiglio di stato sul diritto di accesso a
conclusione dei procedimenti.
Deve ritenersi sussistente il
diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario
ormai concluso.
Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato con
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
I giudici amministrativi hanno osservato che sebbene l'art.
24, della legge 241/1990 vada a escludere il diritto
d'accesso nei procedimenti tributari, per i quali restano
ferme le particolari norme che li regolano, «è da
ritenere che la norma debba essere intesa, secondo una
lettura della disposizione costituzionalmente orientata, nel
senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.
In ragione di ciò deve riconoscersi il diritto di accesso
qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento,
con l'emanazione del provvedimento finale».
È stato poi osservato che si profilano precisi obblighi in
capo al concessionario alla riscossione, infatti ai sensi
dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, recante
disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, «il
concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o
la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta
notificazione o l'avviso del ricevimento e ha l'obbligo di
farne esibizione su richiesta del contribuente o
dell'amministrazione».
Pertanto i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come
la cartella esattoriale costituisca presupposto di procedure
esecutive e, quindi, risulta strumentale alla tutela dei
diritti del contribuente la richiesta di accesso alla
cartella, in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico considerate più rispondenti ed opportune e quindi
essa deve essere rilasciata, in copia, dalla società
concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia
proporre ricorso, avverso atti esecutivi iniziati nei suoi
confronti.
Una tesi diversa andrebbe a determinare una vera e propria
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, comunque, rendere estremamente difficoltosa
la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe
impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle
cartelle. E una tale limitazione finirebbe col collidere con
i principi costituzionali posti a garanzia della tutela
giurisdizionale, oltre che con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La bonifica ricade sulla Pa se l'inquinatore non è noto.
Ambiente. Nessun obbligo per il
proprietario del sito.
Grava sulla
pubblica amministrazione l'obbligo di bonificare i siti
contaminati, nel caso in cui il responsabile non sia
individuabile o non sia in grado di intervenire.
Così il
Consiglio di Stato in adunanza plenaria, con l'ordinanza
25.09.2013 n. 21, ha interpretato le disposizioni in materia
di bonifica di siti contaminati introdotte dal Dlgs 152/2006
e, in particolare, gli obblighi e le responsabilità dei
diversi soggetti coinvolti. Allo stesso tempo, però,
l'adunanza plenaria ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di
valutare se la normativa nazionale sia in linea con i
principi comunitari: se non lo fosse, sarebbe necessario
riscrivere la parte quarta, titolo quinto, del Dlgs
152/2006.
L'ordinanza dell'adunanza plenaria arriva dopo un primo
filone giurisprudenziale che escludeva qualsiasi obbligo di
bonificare in capo al proprietario incolpevole di un sito
contaminato (gli unici soggetti obbligati sarebbero il
responsabile dell'inquinamento e, in subordine, la Pa), da
cui però hanno preso le distanze alcune pronunce più recenti
(ad esempio, la sentenza 2263/2011 del Tar Lazio). Infatti,
in considerazione dei principi comunitari di precauzione e
prevenzione e della responsabilità per il danno causato da
cose in custodia (prevista dall'articolo 2051 del Codice
civile), alcuni giudici amministrativi hanno riconosciuto in
capo al proprietario incolpevole una responsabilità da
posizione di tipo oggettivo che impone di intervenire nella
bonifica, pur non avendo contribuito alla contaminazione.
L'ordinanza 21 dell'adunanza plenaria, invece, ha confermato
che il proprietario incolpevole non è obbligato a
bonificare, né deve attuare le misure di messa in sicurezza
d'emergenza, a meno che non decida di intervenire
volontariamente. L'unico obbligo da "posizione" previsto
dall'articolo 245 del Dlgs 152/2006 per il proprietario
incolpevole è quello di attuare le misure di prevenzione al
momento della scoperta di una contaminazione storica: vale a
dire, porre in essere le iniziative immediate volte a
contrastare un evento che possa creare una minaccia per
l'ambiente.
Il Consiglio di Stato ha spiegato che una responsabilità da
posizione non può ricondursi all'articolo 253 del Dlgs
152/2006, che introduce un onere reale sulle aree bonificate
dalla Pa d'ufficio, perché questo onere reale rappresenta
solo una garanzia patrimoniale limitata al valore dell'area
per il rimborso dei costi di ripristino ambientale. Né si
applica la responsabilità per i beni tenuti in custodia,
perché far riferimento all'articolo 2051 del Codice civile,
di fatto, snaturerebbe l'impianto normativo del Dlgs
152/2006.
Quindi, se il responsabile della contaminazione non è più
individuabile o non è in grado di intervenire, l'obbligo di
bonificare grava unicamente sulle spalle della Pa. Come
detto, però, l'adunanza plenaria ha comunque chiesto alla
Corte di giustizia europea di valutare, in via
pregiudiziale, se l'impianto normativo nazionale in materia
di bonifiche così interpretato sia effettivamente in linea
con i principi comunitari «chi inquina, paga», di
precauzione e di prevenzione.
In attesa che si pronunci la
Corte Ue, i Comuni e le Regioni rischiano di dover mettere a
bilancio le risorse economiche necessarie per bonificare i
siti contaminati per i quali non provveda il responsabile. A
fronte di tale rischio, potrebbe, quindi, essere opportuno
programmare interventi di recupero ambientale di siti
contaminati concordati tra pubblico e privato, anche in
un'ottica di sostenibilità economica degli interventi di
bonifica, supportati da una valorizzazione urbanistica delle
aree (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013). |
SICUREZZA LAVORO: Il datore risponde per rischi specifici.
La responsabilità del datore per l'infortunio del lavoratore
scatta solo se il rischio è specifico.
Infortuni sul lavoro. Il pericolo occulto non
rientra nell'attività di controllo quotidiano.
Lo ha precisato la
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la
sentenza 24.09.2013 n. 39491.
La vicenda riguarda una ditta, aggiudicataria dell'appalto
della nettezza urbana dell'area mercatale comunale, che
aveva consentito a un proprio dipendente di lavorare vicino
a un cancello in ferro, senza il perno di fermo di fine
corsa. Così, il lavoratore, mentre spostava una delle ante
scorrevoli per effettuare le pulizie, ha fatto fuoriuscire
l'anta dal binario, che lo ha travolto e gli ha provocato
gravi lesioni, con compromissione della colonna vertebrale.
Sia in primo grado sia in appello, l'imprenditore è stato
condannato per il delitto di lesioni colpose, poiché non ha
garantito la piena sicurezza del luogo dove l'operaio
svolgeva le sue mansioni, informandolo dei rischi specifici
della sua attività. Infatti, precisa il giudice del merito,
gli obblighi di sicurezza gravano non solo sul committente,
titolare dell'area dove si svolgono i lavori, ma anche sul
l'appaltatore.
La vicenda arriva in Cassazione. La Corte, ribaltando la
decisione, afferma che il datore di lavoro non è
responsabile per l'infortunio del dipendente, se il rischio
non è specifico e proprio dell'attività imprenditoriale
svolta. In sostanza, sono rischi specifici soltanto quelli
rispetto ai quali sono richieste precauzioni e regole che
comportano una determinata competenza tecnica, mentre il
pericolo occulto non rientra nel quotidiano controllo di cui
deve farsi carico il datore.
Inoltre la Cassazione, con la sentenza 14468 del 7 giugno,
ha affermato che l'obbligo di tutela dell'integrità fisica
del lavoratore imposto dall'articolo 2087 del Codice civile
è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro
di adottare non solo le particolari misure tassativamente
imposte dalla legge per il tipo specifico di attività
esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza,
ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano
necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi legati
all'impiego di attrezzi e macchinari e anche al l'ambiente
di lavoro.
Con la sentenza 23670 del 31 maggio, la Corte di legittimità
ha sostenuto che, in caso di affidamento dei lavori a
imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno
dell'azienda, tra gli altri obblighi che gravano sul datore,
c'è quello di fornire a questi soggetti informazioni
dettagliate sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in
cui sono destinati a operare e sulle misure di prevenzione e
di emergenza adottate per la propria attività.
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I principi
01 | ONERI DEL DATORE
In base alla sentenza della Cassazione 39491 del 24
settembre, il datore di lavoro non è responsabile per
l'infortunio del dipendente, se il rischio non è specifico e
proprio dell'attività imprenditoriale svolta. Sono rischi
specifici quelli per i quali è richiesta una competenza
tecnica
02 | APPALTO DI LAVORI
In base alla sentenza della Cassazione 23670 del 31 maggio,
in caso di affidamento dei lavori a imprese appaltatrici o a
lavoratori autonomi all'interno dell'azienda, il datore deve
fornire agli stessi soggetti informazioni dettagliate sui
rischi specifici dell'ambiente in cui lavoreranno
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio: quando il vincolo paesaggistico e' ''insuperabile''.
Non è possibile il rilascio del condono
edilizio ex legge n. 326/2003, su zone sottoposte a vincolo
paesaggistico, qualora sussistano congiuntamente queste due
condizioni ostative: a) il vincolo di in edificabilità sia
preesistente all'esecuzione delle opere abusive; b) le opere
realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo
non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici. In tal caso l'incondonabilita' non e'
superabile nemmeno con il parere positivo dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo.
La questione posta all’attenzione del Consiglio di Stato
riguarda la legittimità del rigetto dell’istanza di condono
edilizio, presentata ai sensi dell’art. 32, del d.l.
n.269/2003 convertito in legge n. 326/2003, per abusi
insistenti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
preesistente e non conformi alle norme ed alle prescrizioni
urbanistiche.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con una serie di sentenze di
pari data (17.09.2013) aventi analoga motivazione (sent. n.
4587, 4592, 4593, 4594, 4595, 4597, 4598, 4599, 4601), ha
ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui non è
possibile il rilascio del condono edilizio ex legge n.
326/2003, su zone sottoposte a determinati vincoli di
inedificabilità relativa, tra cui i vincoli paesaggistici,
qualora sussistano congiuntamente queste due condizioni
ostative:
- a) il vincolo di in edificabilità sia preesistente
all’esecuzione delle opere abusive;
- b) le opere realizzate in assenza o in difformità del
titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
In tal caso l’incondonabilità non è superabile nemmeno con
il parere positivo dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo (che nel caso in questione era stato reso).
In presenza di queste condizioni non si può nemmeno fare
riferimento, al fine di conseguire la sanatoria, alla
disciplina del primo condono edilizio di cui alla legge n.
47/1985, in gran parte richiamata nei condoni edilizi
successivi di cui alle leggi n. 724/1994 e n. 326/2003
Nel regime previsto dalla legge n. 47/1985, difatti, la
sanatoria delle opere abusive realizzate su aree sottoposte
vincoli di edificabilità relativa, quali quelli di carattere
paesaggistico, è preclusa solo nel caso di parere negativo
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso.
La legge n. 326/2003 che ha introdotto il c.d. terzo
condono, però, pur collocandosi sull’impianto generale della
legge n. 47/1985, disciplina in maniera più restrittiva le
ipotesi in cui sussistano determinati vincoli di
inedificabilità relativa (tra cui quelli a protezione dei
beni paesistici), precludendo la sanatoria delle opere
abusive sulla base della anteriorità del vincolo e della
difformità dalla normativa o dagli strumenti urbanistici,
senza la previsione procedimentale di alcun parere
dell’autorità ad esso preposta, con ciò collocando gli abusi
nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria.
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Esito
Conferma TAR Puglia Lecce, Sez. III n. 736/2009
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato Sez. VI, 29.04.2013, n. 2343; TAR Campania
Napoli Sez. IV, 03.01.2013, n. 90; Cons. Stato Sez. IV,
19.05.2010, n. 3174; Cons. Stato Sez. IV, 18.06.2009, n.
4020; Cons. di Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4396
Riferimenti normativi
Art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n.269/2003 convertito
in legge n. 326/2003; art. 33 della legge n. 47/1985
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 17.09.2013 n. 4587 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il box autonomo non si può rialzare.
Condominio. Niente «Tognoli»
La sopraelevazione della copertura di un'autorimessa
pertinenziale ma strutturalmente autonoma non rientra nella
legge 122 del 1989 (legge Tognoli), che si applica solo nei
casi di parcheggio realizzati nel sottosuolo o al piano
terreno degli edifici.
Lo ha ricordato la Corte di Cassazione che,
con la
sentenza 11.09.2013 n. 20850, ha dato
torto al proprietario di un fondo che aveva sopraelevato la
propria autorimessa, appellandosi alla legge Tognoli.
Questa legge, anche se intende favorire la realizzazione di
autorimesse, punta anche a salvare l'aspetto visibile del
territorio: consente di realizzare parcheggi nel sottosuolo
o al piano terreno di un fabbricato preesistente, proprio
perché queste strutture non comportano alterazioni visibili
del territorio. Dopo il ricorso di un vicino, il
proprietario è stato condannato, sia in primo, sia in
secondo grado, a ripristinare lo stato dei luoghi. L'uomo ha
quindi fatto ricorso in Cassazione.
Secondo i giudici di
legittimità, l'articolo 9 della legge 122 del 1989
stabilisce che «i proprietari di immobili possono realizzare
nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo dei
residenti, nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del
traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante
e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici».
Nel caso analizzato, però, l'autorimessa non era stata
realizzata nel sottosuolo dell'edificio, né nei suoi locali
al piano terreno, bensì in un'area pertinenziale
all'immobile. Non è quindi ammessa la deroga agli obblighi
di distanza, dato il carattere eccezionale della norma
derogatoria rispetto all'ordinaria disciplina delle distanze
che non legittima alcuna interpretazione estensiva.
Gli stessi giudici, infatti, hanno richiamato la più recente
giurisprudenza amministrativa secondo la quale «la
realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è
soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra».
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Il percorso
01 | IL CASO
Il proprietario di un'autorimessa realizzata in un'area
pertinenziale a un edificio, che ne aveva sopraelevato la
copertura, è stato condannato in primo e in secondo grado, a
ripristinare lo stato dei luoghi
02 | LA SOLUZIONE
Per la Cassazione, che si è espressa nella sentenza 20850
dell'11 settembre scorso, la sopraelevazione della copertura
di un'autorimessa pertinenziale ma strutturalmente autonoma
non rientra nella legge 122 del 1989 (legge Tognoli), che si
applica solo nei casi di parcheggio realizzati nel
sottosuolo o al piano terreno degli edifici. Non è quindi
ammessa la deroga agli obblighi di distanza (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013). |
TRIBUTI: Denuncia Tarsu, sanzione unica.
La sanzione per l'omessa denuncia Tarsu deve essere
applicata una sola volta. Di più. Se l'obbligo di
dichiarazione era scattato oltre cinque anni prima della
contestazione, non è dovuto alcunché.
Questi i principi che si leggono nella sentenza
26.07.2013 n. 123/02/13
della Ctp di Lecco.
Un contribuente agiva contro il comune di Calco (Lc)
per degli avvisi di accertamento relativi ad un locale per
il quale non mai stata presentata la denuncia ai fini della
Tarsu.
Interessante la parte della decisione che riguarda la
sanzione: «La sanzione per l'omessa denuncia deve essere
applicata una sola volta in relazione all'anno rispetto al
quale non è stata presentata la dichiarazione agli effetti Tarsu, atteso che tale dichiarazione non deve essere
ripetuta tutti gli anni, trattandosi di una violazione
tributaria omissiva di carattere istantaneo e non già
permanente».
Dunque, poiché l'omissione che si va a
sanzionare è punibile una sola volta, nel momento in cui è
consumata, ne deriva che, qualora l'obbligo di dichiarazione
sia insorto più di cinque anni prima della constatazione, la
sanzione non può più essere irrogata. «Infatti», afferma la Ctp, «ai sensi dell'articolo 20 del dlgs
472 del 1997, l'atto di contestazione della violazione deve
essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la
violazione».
Ciò che rileva, dunque, è valutare quando il contribuente
sia entrato in possesso del bene: da tale momento scatta
l'obbligo di denuncia e, di conseguenza, il termine
quinquennale per irrogare la sanzione relativa all'eventuale
omissione
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013). |
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