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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2013

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aggiornamento al 29.11.2013

aggiornamento al 27.11.2013

aggiornamento al 20.11.2013

aggiornamento all'11.11.2013

aggiornamento al 04.11.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.11.2013

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IN EVIDENZA

Una rondine non fa primavera: ma nel (solo) Veneto sì !!

     Uno contro tutti: la Sez. di controllo della Corte dei Conti veneta si distingue da tutti (in controtendenza all'orientamento ormai pacifico) laddove afferma che l'incentivo alla progettazione in materia di pianificazione urbanistica ai pubblici dipendenti, ex art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, spetta a prescindere che la pianificazione sia o meno correlata al compimento di un'opera pubblica.
     Che dire: fortunati gli U.T.C. dei comuni veneti, laddove la Corte dei Conti non solleverà rilievi sulla liquidazione dell'incentivo de quo e, soprattutto, il firmatario del mandato di pagamento potrà dormire sonni tranquilli ... ai restanti comuni italiani non resta che "far buon viso a cattiva sorte" sperando che, presto o tardi, sulla questione si esprimano le Sezioni Riunite in sede di controllo della Corte dei Conti affinché ci possa (debba) essere una uniformità di interpretazione della norma e conseguente omogeneo comportamento sull'intero territorio nazionale.
     A seguire si ripropone il recentissimo parere di cui sopra.
02.12.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'incentivo alla progettazione previsto a favore dei dipendenti pubblici che materialmente redigono atti di pianificazione spetta sempre e comunque, a prescindere dal fatto che sia collegata o meno al compimento di opere pubbliche.
La Sezione ritiene che la previsione dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 contenga una esplicita norma di incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività. La norma introduce quindi una previsione derogatoria autonoma e distinta rispetto a quella contenuta nel comma 5, ricavabile da numerosi fattori.
Tale conclusione è avvalorata, in particolare, sia dalla analisi dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della sua trasposizione nel corpus del codice dei contratti.
Essa trova conferma altresì nella esplicita previsione testuale della norma (atto di pianificazione comunque denominato), nonché dalla previsione di una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche.
L’oggettiva e dimostrata maggiore complessità delle funzioni di pianificazione trova una sua esplicitazione a livello normativo nella documentazione che viene allegata alle varianti agli strumenti urbanistici rispetto alle modifiche puntuali di essi connesse alla progettazione delle opere pubbliche.
Tali attività di elaborazione sono pertanto di uno scrutinio comparativo alla luce dei principi dell’ordinamento e in particolare di ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36 della Costituzione.
Anche sul piano soggettivo, le mansioni di pianificazione generali –a differenza di quelle di progettazione di opera pubblica- non sono ascrivibili alla specifica competenza di un solo soggetto, ma richiedono una attività multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze professionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse richiedono comunque una intensa attività di coordinamento che trova esplicita conferma testuale nella norma del comma 6 nel rinvio alle modalità e criteri del regolamento di cui al comma precedente.
La stessa commisurazione del compenso, in modo sensibilmente diverso rispetto a quella di progettazione dell’opera pubblica, dimostra come l’intenzione del legislatore è stata quella di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica.

---------------
Il Sindaco del Comune di Cadoneghe (PD), formula a questa Sezione una richiesta di parere, ai sensi dell'articolo 7, comma 8, della Legge 131/2003, in merito alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006.
La predetta disposizione prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, sia ripartito tra i dipendenti che lo hanno redatto, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento in materia approvato dall’Amministrazione.
La richiesta di parere verte sull’individuazione del campo di applicazione del sopra richiamato art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, in particolare “se tale dettato riguardi anche la redazione degli atti di pianificazione urbanistica non esclusivamente finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, come è stato recentemente confermato dall’Avcp – Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture con parere n. AG 22/12 del 21.11.2012.
...
2. Il quesito proposto a questa Sezione involge alcune questioni di carattere generale e altre più specifiche tra le quali rileva, in primo luogo, la portata del principio di onnicomprensività, avuto specificamente riguardo al fatto che l'art. 92, comma 6, del D.L. n. 163/2006 prevede che "Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
In termini generali, la Sezione sottolinea che la questione va risolta alla luce delle disposizioni che regolano la materia della retribuzione corrisposta ai dipendenti come controprestazione del proprio apporto professionale all’amministrazione, ove vige come regola generale il principio di onnicomprensività:
il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 24 del D.Lgs. 165/2001 remunera «tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa», mentre per il personale non dirigente, esso trova la sua enunciazione nella norma contenuta nell’art. 45 del D.Lgs. n. 165/2001.
In virtù di tale principio, nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio (cfr. Corte dei Conti Puglia, Sezione giurisdizionale,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487).
Il principio si coniuga con quello, previsto parimenti dalle norme citate, della riserva alla contrattazione collettiva in tema di determinazione del corrispettivo delle prestazione dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che solo il contratto collettivo nazionale può fissare onnicomprensivamente il trattamento economico, mentre quello decentrato assume rilevanza nei limiti di quanto disposto dalle fonti nazionali.
Al di là dei casi citati,
solo la legge può derogare a tale sistema, prevedendo talora ulteriori specifici compensi (cfr.
parere 26.07.2011 n. 337 di questa Sezione) o addirittura la possibilità di una diversa strutturazione del trattamento economico (cfr., ad esempio, gli artt. 24 e 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001), sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo: con la conseguenza che il contratto individuale o una determinazione unilaterale dell’ente (ad esempio un regolamento) non possono determinare il corrispettivo e, dall’altro, che tale corrispettivo retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività: cfr., ex multis, parere 16.01.2013 n. 22 di questa Sezione).
Premesso quindi che la materia è demandata alle leggi ed ai contratti collettivi nazionali, non derogabile a livello regolamentare locale, l’interrogativo cui è chiamata a rispondere la Sezione concerne propriamente l’individuazione della previsione normativa che consente l’attribuzione di tale compenso derogatorio nel caso di che trattasi, e verte altresì sul significato del rinvio alla norma regolamentare operato dal comma 6 al comma 5 dell’art. 92 D.Lgs. 165/2001.
Al riguardo, questa Sezione aveva osservato (
parere 26.07.2011 n. 337, cit.) che la norma di legge che regola tale disciplina, contenuta nell’art. 92, comma 6, rappresenta una autonoma e distinta previsione di legge che legittima la erogazione dell’incentivo per l'attività di pianificazione, oltretutto commisurato in modo diverso, rispetto a quanto previsto in tema in caso di progettazione interna dal comma 5 ivi citato: l’attribuzione di tale incentivo prescinde dal collegamento con la progettazione di una opera pubblica e il rinvio al comma 5 concernerebbe solo le modalità, da stabilirsi con regolamento, di erogazione.
3. Venendo al merito della richiesta giova premettere come il Collegio non ignora, peraltro, che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente (Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
Lombardia, parere 24.10.2012 n. 452; Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, cfr. parere 30.08.2012 n. 290; Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia, Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Toscana, Toscana, parere 18.10.2011 n. 213; Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Toscana, con il parere 27.11.2012 n. 389) abbia escluso dall'incentivazione la pianificazione di strumenti urbanistici non connessi ad un’opera pubblica, optando per una interpretazione che fa leva sull’individuazione di un’unica previsione normativa di incentivazione, contenuta nell’art. 92 citato.
Secondo la richiamata posizione,
l’esclusione della incentivazione delle attività pianificatorie, non attinenti alla progettazione di opere pubbliche sembrerebbe trovare supporto nella formulazione letterale della norma dell’art. 92, comma 6, che fa riferimento ad una Amministrazione aggiudicatrice, presupponendo -secondo tale ottica- la realizzazione di un'opera pubblica da attuare mediante evidenza pubblica: la qual cosa risulterebbe confermata dalla sedes materiae della disciplina, ricompresa nella Sezione I del Capo IV del Codice dei contratti relativa alla progettazione interna ed esterna delle opere pubbliche.
Nel restringere l’ipotesi di incentivazione ai soli atti di pianificazione collegati alla realizzazione di un’opera pubblica, un indirizzo siffatto postula, in ragione della sedes materiae, e della locuzione Amministrazione aggiudicatrice contenuta nell'art. 92, comma 6, la necessaria ascrizione della attività di progettazione urbanistica ai compiti istituzionali degli Uffici, ricompresa nei doveri d’ufficio (art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001) e pertanto non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006.
Sul punto, la Sezione è di diverso avviso e, in questa sede, non può che ribadire il proprio precedente orientamento che appare supportato da una serie di argomenti di seguito evidenziati.
3.1. Argomento letterale
La Sezione ritiene, in primo luogo, di non aderire alla interpretazione secondo cui la formulazione letterale della norma presuppone necessariamente l’esistenza di un'opera pubblica, da realizzare mediante evidenza pubblica, senza possibilità di estensione analogica della previsione incentivante.
Al riguardo, questa Sezione ha già avuto modo di sottolineare che "il comma 6... [dell'art. 92 del Codice] ha una valenza ben più ampia, esprimendo la qualificazione operata dalla vigente normativa dell'attività di pianificazione urbanistica e la similitudine con la progettazione di lavori pubblici" che esplicita il necessario collegamento con l'affidamento della progettazione urbanistica: essa rientra, al pari della progettazione delle opere pubbliche, nel Codice dei contratti, tanto che è ricompresa nella categoria degli appalti pubblici di servizi elencati nell’allegato IIA del Codice dei contratti pubblici (C. Conti Sez. controllo, Veneto,
parere 26.07.2011 n. 337) e deve essere affidata mediante un appalto (ex multis C. Conti Sez. controllo, Veneto, deliberazione 11.06.2013 n. 146).
Al contrario, è proprio la stessa formulazione letterale, nell’utilizzo della locuzione atto di pianificazione “comunque denominato”, lungi dall’autorizzare interpretazioni restrittive, a consentire di ascrivere all’ambito oggettivo della norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento alla progettazione di un’opera pubblica: anzi, al contrario, il legislatore non ha inteso fare un distinguo tra le tipologie di redazione degli elaborati tecnici, generali o particolari, intendendo utilizzare una dizione sufficientemente generale ed aperta quale “atto di pianificazione comunque denominato”, senza entrare nel merito di ulteriori distinzioni. Il Collegio non ignora nemmeno che tale distonia interpretativa è stata posta in evidenza, da ultimo, nell’atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4 dall’Autorità di Vigilanza dei contratti pubblici.
In particolare, l’Autorità, richiamando la
determinazione 25.09.2000 n. 43, la deliberazione 13.06.2000 ed il parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10 e parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12, ha sottolineato che l’applicazione della norma è particolarmente ampia al punto che possano essere ritenuti assoggettati alla categoria di “atti di pianificazione comunque denominati” i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli organi competenti, ribadendo la considerazione, svolta nelle citate note precedenti, che “tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano“.
L’Autorità ha, dunque, sottolineato il nesso comunque esistente tra pianificazione urbanistica e realizzazione di opere pubbliche (“…i piani regolatori contengono tra le altre previsioni di c.d. zonizzazione …sia norma di localizzazione di aree destinate a formare spazi di uso pubblico, ovvero riservate ad edifici pubblici o di uso pubblico…”). In tale atto, l’Autorità ha segnalato al Governo ed al Parlamento la necessità di superare il predetto contrasto ermeneutico e la contestuale opportunità di procedere ad un definitivo chiarimento interpretativo dell’art. 92, comma 6, del Codice, volto ad individuare in maniera chiara la tipologia di atti di pianificazione in relazione ai quali è possibile riconoscere l’incentivo ivi contemplato in favore dei tecnici interni che li hanno redatti.
In realtà,
come può evincersi dal tenore letterale della norma (ed è sottolineato dalla citata delibera della Autorità), la stessa non individua la tipologia di documenti pianificatori la cui redazione dà luogo al riconoscimento dei predetti compensi, ma ne fornisce una definizione generica, tale da ricomprendere in tale categoria gli atti di pianificazione “comunque denominati”: di talché, è la norma ad affidare l’individuazione degli atti di pianificazione che possono dar luogo al riconoscimento del predetto compenso incentivante all’autonomia regolamentare dell’amministrazione interessata.
Peraltro, anche la giurisprudenza delle Sezioni riunite per la Regione Sicilia in sede consultiva (
parere 03.01.2013 n. 2) ha ricompreso nell'atto di pianificazione comunque denominato "qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi (es. norme tecniche d'attuazione) finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale".
Tuttavia,
anche a volere accedere alla interpretazione avversata, è utile richiamare che "la natura stessa e il contenuto della pianificazione urbanistica e in particolare dei piani regolatori consente l'erogazione dell'incentivo ex art. 92, comma 6, del Codice dei contratti a favore dei dipendenti che abbiano partecipato alla redazione di tali strumenti urbanistici, in quanto tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l'ubicazione nel tessuto urbano" (
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12).
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di sottolineare (cfr. pareri n. 148/2013, n. 150/2013, n. 151/2013, n. 155/2013) che la “conformazione della proprietà”, condizione necessaria del procedimento di esproprio, (…) nasce proprio dalle prescrizioni urbanistiche contenute nei piani, in guisa che tra i due procedimenti, pianificatorio ed espropriativo, esiste un legame molto stretto ed ineludibile. La richiamata evoluzione in senso sociale della proprietà privata ha condotto ad un notevole sviluppo delle regole cd. conformative che disciplinano e limitano le facoltà di godimento del bene (si pensi alla zonizzazione urbanistica, alle prescrizioni in materia edilizia, ai vincoli paesaggistici e di rispetto, alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria ecc.): in guisa, dunque, che qualsiasi limitazione o divieto che incida su uno dei due elementi –nella specie, procedimento di esproprio ma (…) non solo– si ripercuoterà anche sull’altro.
Il registro prettamente letterale della disposizione di legge in questione ("atto di pianificazione comunque denominato") non può quindi che far propendere per un'applicazione dell'istituto premiale estesa a ogni atto di pianificazione, anche di carattere mediato.
3.2. Argomento “storico sistematico”
La posizione interpretativa della Sezione viene corroborata anche dalla interpretazione “storico-sistematica” della disposizione in questione che solamente una accurata disamina analitica consente di confermare.
Ai fini di un corretto inquadramento della questione è d’obbligo pertanto un rapido excursus sull’evoluzione normativa dell’istituto de quo.
Va premesso che la disciplina normativa vigente sul punto, vale a dire l’art. 92 del c.d. Codice dei contratti, rappresenta la trasposizione del testo dell’art. 18 della legge n. 109/1994, la cui versione primigenia, prevedeva la possibilità di erogazione degli incentivi, limitatamente agli autori del progetto esecutivo di un’opera o lavoro e per una percentuale non superiore all’1%.
Con l’art. 6 del D.L. n. 101/1995, il suddetto incentivo era stato esteso anche ai progetti (di opere o lavori) preliminari e definitivi, alle indagini geologiche e geognostiche nonché agli studi di impatto ambientale, ed all’aggiornamento dei progetti già esistenti “di cui sia riscontrato il perdurare dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera”. Il testo prevedeva che: “le amministrazioni competenti destinano una quota complessiva non superiore al 10 per cento del totale degli stanziamenti stessi alle spese necessarie alla stesura dei preliminari di progetto, nonché dei progetti definitivi ed esecutivi, incluse indagini geologiche e geognostiche, studi di impatto ambientale od altre rilevazioni, e agli studi per il finanziamento dei progetti, nonché all'aggiornamento ed adeguamento alla normativa sopravvenuta dei progetti già esistenti d'intervento di cui sia riscontrato il perdurare dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera.”
Successivamente, la Legge 15.05.1997, n. 127 disponeva (con l'art. 6, comma 13) la modifica dell'art. 18, comma 1, e l'introduzione del comma 1-bis prevedendo che: "1. L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, nel quale vengono indicati i criteri di ripartizione che tengano conto delle responsabilità professionali assunte dagli autori dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in corso d'opera
."
La novella del 1997 estendeva quindi, inequivocabilmente, alla pianificazione urbanistica generale od attuativa l’incentivo già riconosciuto in favore degli Uffici che avessero svolto attività di progettazione di opere pubbliche (ovvero studi di impatto ambientale o indagini geognostiche): in questo senso assume rilevanza sia l’espressa disgiunzione recepita dal Legislatore (opera “ovvero” atto di pianificazione), sia il riferimento esteso alla “Amministrazione titolare dell’atto di pianificazione”.
Una siffatta voluntas legis emerge, inoltre, dall'esame dei lavori preparatori in Commissione parlamentare ove si desume con sufficiente chiarezza l’intento normativo di riconoscere il 50% della tariffa professionale in favore degli Uffici che avevano redatto atti di pianificazione generale, senza qualificazione o restrizione alcuna.
La Legge 16.06.1998, n. 191, all’art. 2, comma 18, modificava l’articolato prevedendo l’inserimento di “… criteri di ripartizione che tengano conto delle responsabilità professionali assunte dagli autori dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in corso d'opera".
Successivamente, la legge 17.05.1999, n. 144, art. 13, comma 4, sostituiva i commi 1, 1-bis e 2 dell'articolo 18 della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con il seguente testo “1. Una somma non superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all’entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. Le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie. I commi quarto e quinto dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio decreto 23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, lettera b), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto
".
La Sezione non può quindi fare a meno di rilevare che l’entrata in vigore del Codice dei contratti (decreto legislativo 12.04.2006, n. 163), non ha alterato in alcun modo il suddetto quadro definitorio, posto che il testo sopraccitato è stato fedelmente recepito continuando ad usare la dizione “atto di pianificazione comunque denominato”: anche i più recenti interventi normativi (cfr., ad esempio, il Decreto 22.04.2013, n. 66) hanno privilegiato il dettaglio di aspetti estranei alla questione in esame.
A partire dalla novella introdotta nel 1999, ad opera della legge 144, e rimasta immutata nel corpus normativo del codice dei contratti, il Legislatore ha provveduto quindi ad articolare in due diversi commi le due previsioni originariamente contenute in un'unica proposizione, l'una dedicata agli incentivi dovuti per le opere (art. 18, comma 1, L. n. 109/1994), l'altra concernente la progettazione urbanistica (art. 18, comma 2, L. n. 109/1994).
In altri termini,
a partire dal 1999, gli incentivi per la progettazione delle opere pubbliche e gli incentivi spettanti per la pianificazione urbanistica sono oggetto di due autonome, distinte previsioni, disponendo altresì che il diritto all'incentivo spetti per gli atti di pianificazione "comunque denominati".
Il Collegio osserva quindi, al riguardo, che la formulazione del 1999, recepita nel Codice dei contratti del 2006 (art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006), è rimasta in concreto invariata sino ad oggi e che non a caso, fin dal 2000, l’AVCP aveva già avuto modo di assumere la posizione favorevole ad un'interpretazione estensiva riguardo all'art. 18 del codice dei contratti (
determinazione 25.09.2000 n. 43), mentre, più di recente (parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12), ha ritenuto che esso “riguardi anche la redazione degli atti di pianificazione urbanistica non esclusivamente finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica”.
In questo quadro definitorio,
non assume rilievo, ad avviso del Collegio, la circostanza della collocazione sedes materiae della disposizione, atteso che la norma riproduce la disposizione vigente sin dal 1997 volta a ricomprendere tra le attività incentivate anche la pianificazione urbanistica generale od attuativa, alla luce della formulazione all’epoca recepita: né d’altro canto, in nessun passo della previsione originaria relativa alla progettazione urbanistica (art. 18, comma 2, L. 109/1994), il Legislatore àncora la spettanza dell'incentivo all’adozione di una variante puntuale, propedeutica all’approvazione del progetto di opera pubblica.
3.3. Fonti dell’incentivo
Come si è avuto modo di vedere, è dunque dal 1997 e poi nel 1999, ad opera della legge 144, che il Legislatore individua due autonome, distinte previsioni, volte ad incentivare rispettivamente la progettazione delle opere pubbliche e la pianificazione urbanistica.
Il recepimento nel Codice dei contratti del 2006 (art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006), della previsione del comma 1-bis del medesimo art. 18 della legge Merloni consacra quindi una diversa articolazione, in due diversi commi, delle due previsioni originariamente contenute in un'unica proposizione, l'una dedicata agli incentivi dovuti per le opere (art. 18, comma 1, L. n. 109/1994), l'altra concernente la progettazione urbanistica (art. 18, comma 2, L. 109/1994). Il Codice dei contratti ripropone, infatti, all'art. 92, commi 5 e 6, la previgente disciplina senza sostanziali innovazioni: in particolare, l'ambito applicativo della previsione incentivante non pare aver subito delimitazioni ulteriori a quelle già desumibili dall'art. 18, comma 2, della legge Merloni, come innovato nel 1999, che all’epoca, imponeva l’incentivo per gli strumenti urbanistici (generali od attuativi) redatti dall’Amministrazione titolare dell’atto di pianificazione comunque denominato.
La formulazione del 1999, rimasta in concreto invariata sino ad oggi, induce pertanto a ritenere che vi siano due distinte ipotesi di incentivazione. Non si tratta quindi di una unica previsione normativa di deroga al principio di onnicomprensività, collegabile alla progettazione di opera pubblica, ma di due distinte ipotesi che trovano riferimento in norme diverse e che, non a caso, sono compensate in modo del tutto differente.
3.4. Sotto un profilo sostanziale, le disposizioni in esame devono essere interpretate, ai fini del rispetto del canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e dei principi generali di tutela del lavoro (artt. 35 e 36 Cost. e D.Lgs. n. 165 del 2001).
L’interpretazione secondo cui il compenso incentivante spetta solo in caso di pianificazione urbanistica collegata alla progettazione di un’opera pubblica reca infatti con se un insanabile vulnus ai principi dettati dall'art. 36 della Costituzione, la cui diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego non può non implicare “l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato (Corte Cost. 23.02.1989 n. 57; Corte Cost. ord. 26.07.1988 n. 908; Corte Cost. 27.05.1992 n. 236; Corte Cost. 19.06.1990 n. 296).
Superato infatti l’antico orientamento della giurisprudenza amministrativa volto al diniego dell'applicabilità dell'art. 36 Cost. al pubblico impiego -sul presupposto che la suddetta norma volta al rispetto della giusta retribuzione dovessero prevalere gli artt. 97 e 98 Cost. (cfr. per tale indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2001 n. 1073; Cons. Stato, Sez VI, 04.12.2000 n. 6466; Cons. Stato, Sez. V, 12.10. n. 1438; Cons. Stato, Sez. VI, 29.09.1999 n. 1291)- il principio della corrispondenza ex art. 36 Cost. della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato, non può non trovare applicazione sulla base dell’insegnamento del giudice delle leggi anche nel caso di specie.
Sul versante fattuale, poi, l'estensione della norma costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede in ogni caso che la ben più complessa attività di pianificazione generale non possa avere un trattamento deteriore rispetto alla attività di modesta pianificazione in variante collegata alla realizzazione di un’opera pubblica.
Le anzidette circostanze ben possono ritenersi provate sulla base del dettato normativo che richiede, nel primo caso, unicamente la documentazione inerente all’approvazione in Consiglio Comunale dell’opera pubblica e degli elaborati grafici inerenti la variante urbanistica, una relazione tecnico-esplicativa, una tavola di confronto del P.R.G./P.I. con l’indicazione della modifica della destinazione di zona, una copia delle tavole planimetriche dell'area.
Nel secondo caso, invece, le norme specifiche richiedono una documentazione ben più ampia ed approfondita. Sul piano oggettivo la variante urbanistica va normalmente ad interessare vari aspetti: il dimensionamento ai sensi del D.M. 1444/1968; la verifica della compatibilità con agli strumenti di pianificazione superiore (P.T.R.C. - P.T.P.C. - Piani Paesaggistici, ecc.); la verifica delle invarianti di natura paesaggistica, ambientale, storica, monumentale ed architettonica; la dimostrazione dell'eventuale modifica della SAT (superficie agricola trasformabile), oltre a tutta una serie di elaborati grafici per la lettura delle modifiche di Z.T.O., della viabilità e quant'altro necessario, ovviamente anche sul piano normativo (Norme Tecniche di Attuazione).
Sul piano soggettivo, le anzidette elaborazioni sono, inoltre, frutto di competenze espresse a vario titolo da varie professionalità: a titolo esemplificativo, la norma dell’art. 10 della L.R. n. 11/2004 richiede un quadro conoscitivo, preliminare alla progettazione, inteso come “il sistema integrato delle informazioni e dei dati necessari alla comprensione delle tematiche svolte dagli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica. Le basi informative che costituiscono il quadro conoscitivo sono parte del sistema informativo comunale, provinciale, regionale e dei soggetti pubblici e privati, ivi compresi i soggetti gestori di impianti di distribuzione di energia, che svolgono funzioni di raccolta, elaborazione e aggiornamento di dati conoscitivi e di informazioni relativi al territorio e all'ambiente; dette basi informative contengono dati ed informazioni finalizzati alla conoscenza sistematica degli aspetti fisici e socio-economici del territorio, della pianificazione territoriale e della programmazione regionale e locale”.
Orbene,
attribuire il compenso incentivante solo nel caso in cui si elabori una variante puntuale e non attribuirlo nel caso di variante complessa appare, oltreché irragionevole, palesemente in contrasto con i canoni costituzionali sopra ricordati; i quali canoni invece postulano che, nell'ipotesi di un particolare ulteriore impegno -il quale (pur riconducibile nell’ambito del rapporto di lavoro) richieda, continuativamente o per un determinato periodo di tempo, un'abnegazione di particolare intensità e l'assunzione di specifiche responsabilità- debba essere compensato mediante un adeguamento della prefissata retribuzione ai sensi dell'art. 36, primo comma, Cost., in quanto norma applicabile ad ogni categoria di lavoratori (Cassazione Sezione Lavoro sentenza 05.03.1987, n. 2350 nonché n. 28728 del 23.12.2011).
3.5. Né, al fine di patrocinare una interpretazione del dato normativo diversa da quella seguita sulla scia della giurisprudenza costituzionale, è utile prospettare la possibilità di ritenere ascrivibile tout court alle specifiche professionalità del personale tecnico la elaborazione di una analisi che richiede una complessità superiore, frutto del necessario, imprescindibile apporto di una pluralità di professionalità.
Osta a ciò il chiaro dettato normativo che esplicitamente prevede l’erogazione di un compenso per l’attività di pianificazione comunque denominata e, soprattutto, il necessario discrimine stabilito dalla legge circa le competenze dei diversi ordini professionali, il cui eventuale superamento rileva sul piano privatistico come causa di nullità dell’incarico professionale (Cons. Stato, Sez. IV 28.11.2012 n. 6036).
Va peraltro sottolineato che, secondo la prevalente giurisprudenza (cfr. TAR Brescia, sez. I, 29.10.2008 n. 1466, Cons. St. Sez. IV 03.09.2001 n. 4620) la redazione di un piano di lottizzazione e, in genere, di uno strumento di programmazione urbanistica costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio che postulano valutazioni complessive non rientranti nella competenza professionale del geometra, così come definita dall'art. 16 del R.D. n. 274 del 1929 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.09.2010 n. 3354).
Occorre poi sottolineare l’ampiezza delle competenze riconosciute -rispettivamente- agli ingegneri ed agli architetti ai sensi del combinato disposto dagli articoli 51 e 52 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537 (“Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”), la cui disciplina, contemplata dal citato regio decreto n. 2537 del 1925, è stata più volte vagliata dalla giurisprudenza, che ne ha dovuto sottolineare con maggior dettaglio le fattispecie comprese. Parimenti, è devoluta alla fonte legislativa la disciplina delle competenze professionali dell’agronomo (Legge 07.01.1976 n. 3, modificata ed integrata dalla legge 10.02.1992 n. 152 e dal D.P.R. 08.07.2005, n. 169).
Dal quadro così risultante si palesa che le indicate attività professionali non possono che restare limitate alle specifiche previsioni normative, che non implicano alcuna possibilità di estensione, anche in considerazione di motivi di ordine pubblico e di tutela della sicurezza collettiva (Cons. St., Sez. V, n. 25 del 13.01.1999; n. 3 del 03.01.1992; Cass. civ. sez. II 14.04.2005 n. 7778).
In conseguenza del complesso quadro sopra descritto non può, per le ragioni sopra riferite, aderirsi alla tesi di quella parte della giurisprudenza della Corte dei Conti, che, argomentando proprio sulla natura di “attività vincolata espressamente prevista dalla normativa di riferimento”, assume che “se l’attività rientra nelle funzioni istituzionali dell’ente, il dipendente che abbia redatto materialmente l’atto “svolge un’attività lavorativa ordinaria che deve essere ricompresa nei compiti e nei doveri d’ufficio (art. 53 del D.lgs. n. 165/2001) non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 (Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Lombardia, Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259).
Al contrario, l’attività di che trattasi, sia che essa sia svolta all’interno o che sia affidata all’esterno, per via della necessaria ed inderogabile competenza professionale ex lege, implica una non trascurabile attività di coordinamento delle diverse attività, della platea d'interventori esterni e di verifica tecnica degli elaborati predisposti da progettisti esterni, ai fini dell'approvazione di tali documenti da parte dei competenti organi politici: ma assai spesso una siffatta attività è preceduta da un’attività extra ordinem, di ricerca, organizzazione e/o rielaborazione di dati storici a carattere edilizio, urbanistico e ambientale, da mettere a disposizione degli incaricati esterni.
Ne deriva, da un lato, la palese non conformità al dettato di legge della tesi che ascrive senz’altro alle competenze d’ufficio l’attività di pianificazione, obliterando il quadro normativo che richiede il necessario coinvolgimento di molteplici figure professionali: alle “Analisi urbanistiche di rito” (edificazioni, urbanizzazioni primarie, servizi secondari, edilizia pubblica, presenza di aree e/o manufatti di interesse ambientale, storico, monumentale, archeologico, interessate da una puntuale schedatura), si aggiungono, come si è visto, le prescritte analisi ambientali, idrogeologiche e sull’inquinamento affidate ex lege a professionalità specifiche e non surrogabili.
Diviene allora maggiormente rispondente alla voluntas legislatoris, considerata anche alla luce dei provvedimenti legislativi approvati successivamente al D.L. n. 78/2010 in tema di contrazione della spesa degli incarichi, una soluzione che consenta comunque di operare un risparmio -quantificato già dalla norma nel “massimo” del 70 per cento della tariffa professionale- rispetto all’affidamento all’esterno: di talché solamente un’interpretazione logico-sistematica delle due disposizioni permette di ritenere che la contrattazione delegata possa prevedere l’attribuzione di compensi incentivanti al personale, operando nel contempo un sensibile risparmio rispetto all’attingimento all’esterno delle professionalità richieste, e rispettando in tal modo la ratio della normativa in questione.

3.6. La medesima soluzione, peraltro, trova anche dei referenti indiretti di matrice costituzionale negli artt. 97 e 2 della Carta fondamentale in quanto, ponendosi in linea con le finalità di economicità dell’azione amministrativa, consente una compiuta e meditata attuazione di tale principio che deve reggere l’azione amministrativa. Già da queste riflessioni, sinteticamente riportate, si può inferire, ad avviso del Collegio, come sia in realtà il principio solidaristico ex art. 2 Cost. a fungere da ago valoriale di riferimento per operare, in un’ottica di necessario risparmio delle risorse utilizzate, l’indispensabile bilanciamento con i diritti riconosciuti ai singoli dalla nostra carta costituzionale, ma anche con gli altri principi fondanti della stessa.
Questa Sezione ha già avuto modo di sottolineare in passato (deliberazione n. 185/2012/PAR) sul piano pratico, che, per attingere a risorse esterne in ambito tecnico e legale, l’Amministrazione ben può (e anzi deve) ricorrere a procedure di appalto (cfr., per la progettazione,
parere 26.07.2011 n. 337 di questa Sezione nonché Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP) Determinazione n. 4/2007 e Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Deliberazione n. 296 - Adunanza del 25.10.2007; cfr., per la resistenza in giudizio Corte dei conti, Sezione Basilicata deliberazione n. 19/2009/PAR; Corte dei conti, Sezione Veneto deliberazione n. 7/2009/PAR; TAR Puglia-Lecce, II Sez., n. 5023 del 25/10/2006).
Ove per l’espletamento di un determinato servizio si possa attingere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato (Corte dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51), l’Amministrazione può e deve effettuare una valutazione sull’economicità della spesa affidando tale servizio a risorse interne e compensandole in modo specifico, escludendo nel contempo che le risorse siano potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa (Corte dei conti SS.RR.QM deliberazione 04.10.2011 n. 51).
L’alternativa make or buy che connota imprescindibilmente quindi (nella lettura datane dalle SS.RR. -volta a garantire un più economico uso delle risorse mediante il suo approvvigionamento interno)- la ratio delle esclusioni alle ipotesi sancite dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010, sembra senz’altro praticabile all’attività di pianificazione, dove il legislatore prefissa la quantificazione dell’economia nella misura del trenta per cento della tariffa professionale.
La ragione è chiara:
ove per l’espletamento di un determinato servizio si possa attingere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato (Corte dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51) -il che solo spiega anche il riferimento testuale, contenuto nella norma del comma 6, ai dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice- l’Amministrazione può e deve effettuare una valutazione sull’economicità della spesa affidando tale servizio a risorse interne e compensandole in modo specifico, escludendo nel contempo che le risorse siano potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa (Corte dei conti SS.RR.QM deliberazione 04.10.2011 n. 51).
Proprio per questo, l’attingimento a risorse interne, congiunto all’applicazione dell’altro principio in precedenza evidenziato secondo cui non potrebbe attribuirsi un trattamento economico deteriore oltretutto a chi svolge un’attività ben più complessa rispetto a una semplice variante puntuale, non deve tuttavia obliterare altri principi: in primis quello in base al quale le prestazioni affidate a personale esterno all’organico dell’Ente determinano corrispondenti economie di bilancio (Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008), né tantomeno, in nessun caso, assorbire l'incentivazione correlata all’apporto di liberi professionisti o di altre Amministrazioni pubbliche.
E’ stato chiarito, del resto, sia pure nell’ambito della realizzazione di un'opera pubblica, che costituisce danno erariale la liquidazione integrale dell'incentivo ex art. 18, comma 1, L. n. 109 del 1994 (ora art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 193 del 2006) quando parte delle prestazioni progettuali sono affidate a tecnici esterni all'Amministrazione (Corte dei conti, sezione Calabria, sentenza 28.09.2007 n. 801).
L’analisi dell’evoluzione normativa su descritta fa emergere, in primis, che evidente e costante è stato nel tempo l’intento del legislatore di affidare la redazione di atti tecnici all’interno della PA, incentivando economicamente tali attività: ciò nell’ottica del contenimento dei costi pubblici, derivante dal mancato affidamento a liberi professionisti interni e, al contempo, della valorizzazione del personale interno altamente qualificato.
La esplicita previsione testuale della normativa de qua di un ammontare “massimo” dell'incentivo pari al 30% della tariffa professionale attribuibile al personale interno giustifica allora la conclusione secondo cui spetterà stabilire, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata, la misura della quota parte spettante al responsabile del procedimento tecnico, senza che a questi possa essere liquidata, in caso di mancato svolgimento dell’attività da parte di questi, la quota relativa alla pianificazione esterna o che questa possa essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che
la pianificazione, se affidata a privati professionisti (cd. esterna) o ad uffici di altre amministrazioni pubbliche di cui l’ente si possa avvalere (cd. interna), determina comunque economie di bilancio nell’applicazione dell’incentivo e presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi previsti (in termini, cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008). L’analogia con il comma 5 in caso di lavori implica quindi il doveroso frazionamento dell’incentivo totale della “redazione di atti urbanistici” in quote di prestazioni parziali, sì da poter corrispondere l’incentivo -anche in caso di prestazioni parzialmente esternalizzate- limitatamente a quelle svolte da personale interno.
Milita a favore della suddetta conclusione uno specifico argomento testuale. Non è un caso, infatti, che il rinvio operato dal comma 6 alla previsione del comma 5 non sia integrale, ma riguardi espressamente unicamente “le modalità e i criteri previsti nel regolamento”, e non già l’ambito dell’attività, cui ancorare l’incentivazione: modalità e criteri tra i quali si annovereranno -in base ai criteri contenuti nel comma 5- quelli riferiti, secondo la norma, all’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti, nonché, inter alios, le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima.
Si spiega solamente così, ad avviso del Collegio, la collocazione sedes materiae della disposizione, atteso che la norma riproduce la disposizione vigente sin dal 1997 volta a ricomprendere tra le attività incentivate anche la pianificazione urbanistica generale od attuativa, alla luce della formulazione all’epoca recepita.
In altri termini,
una attenta lettura della disposizione dimostra che il rinvio da essa operato non concerne l’an, ovverosia l’ambito (che per i motivi sopradescritti non è riferibile alla necessaria progettazione dell’opera pubblica, bensì alla pianificazione urbanistica), ma solamente il quomodo (ovverosia, secondo l’esplicito tenore testuale della norma, le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5) della incentivazione.
4. Conclusivamente la Sezione ritiene che la previsione dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 contenga una esplicita norma di incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività. La norma introduce quindi una previsione derogatoria autonoma e distinta rispetto a quella contenuta nel comma 5, ricavabile da numerosi fattori.
Tale conclusione è avvalorata, in particolare, sia dalla analisi dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della sua trasposizione nel corpus del codice dei contratti.
Essa trova conferma altresì nella esplicita previsione testuale della norma (atto di pianificazione comunque denominato), nonché dalla previsione di una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche.
L’oggettiva e dimostrata maggiore complessità delle funzioni di pianificazione trova una sua esplicitazione a livello normativo nella documentazione che viene allegata alle varianti agli strumenti urbanistici rispetto alle modifiche puntuali di essi connesse alla progettazione delle opere pubbliche.

Tali attività di elaborazione sono pertanto di uno scrutinio comparativo alla luce dei principi dell’ordinamento e in particolare di ragionevolezza e di quelli enunciati all’art. 36 della Costituzione.
Anche sul piano soggettivo, le mansioni di pianificazione generali –a differenza di quelle di progettazione di opera pubblica- non sono ascrivibili alla specifica competenza di un solo soggetto, ma richiedono una attività multidisciplinare, che non potrebbe trovare deroga alcuna attese le tassatività delle competenze professionali stabilite dalla legge. Peraltro, esse richiedono comunque una intensa attività di coordinamento che trova esplicita conferma testuale nella norma del comma 6 nel rinvio alle modalità e criteri del regolamento di cui al comma precedente.
La stessa commisurazione del compenso, in modo sensibilmente diverso rispetto a quella di progettazione dell’opera pubblica, dimostra come l’intenzione del legislatore è stata quella di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione, anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 22.11.2013 n. 361).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2013, "Istituzione della Festa regionale lombarda in occasione del 29 maggio, ricorrenza della battaglia di Legnano" (L.R. 26.11.2013 n. 15).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2013, "Rideterminazione dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati per la stagione autunno vernina 2013/2014 - ai sensi del d.m. 07.04.2006" (deliberazione G.R. 26.11.2013 n. 10925).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: E. Stefanelli, Il parere negativo espresso dalla soprintendenza in sede di conferenza dei servizi non deve essere preceduto dal preavviso di rigetto. Non è impugnabile il dissenso espresso da una amministrazione in sede di conferenza dei servizi, in quanto lo stesso ha effetti interni al procedimento - Nota a Consiglio di Stato n. 5084, Sez. VI del 21.10.2013 (25.11.2013 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Stefanelli, Compatibilità paesaggistica: la mancata osservanza da parte della soprintendenza del termine perentorio per il rilascio del parere ne determina la perdita del carattere vincolante - Nota a TAR Puglia-Lecce, Sez. I, n. 1681 del 12.07.2013  (22.11.2013 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. Rinaldi, Demansionamento del lavoratore: rassegna giurisprudenziale (19.11.2013 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: D. David, Il d.lgs. 33/2013 in tema di trasparenza: ricognizione dei nuovi oneri per le amministrazioni pubbliche interessate (19.11.2013 - link a www.diritto.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: INDAGINE CAMPIONARIA INCARICHI ESTERNI AFFIDATI DAGLI ENTI LOCALI VENETI NEL TRIENNIO 2009–2011.
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L'indagine della Corte dei Conti del Veneto la possiamo definire un utilissimo vademecum sul come, quando e perché affidare legittimamente incarichi professionali/progettuali all'esterno dell'Ente senza incappare nel possibile risarcimento del danno circa il modus operandi non conforme alla legge.
Buona lettura e, soprattutto, memorizzate ogni singola parola ...
02.12.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

INDICE
SEZIONE I
PREMESSA E QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO

§1. Quadro normativo di riferimento
§2. Affidamento di incarico, sana gestione e comportamenti elusivi
§3. La distinzione con la fattispecie del contratto di lavoro subordinato
§4. La distinzione con l’ appalto di servizi
§5. Presupposti e disciplina dell’affidamento di incarichi esterni

   5.1 Presupposti di legittimità di carattere sostanziale
     5.1.1 Il preliminare accertamento dell'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno
     5.1.1.1 Le caratteristiche dell’accertamento
     5.1.1.2 Il problema delle competenze specifiche e delle funzioni ordinarie
     5.1.1.3 La necessaria caratteristica oggettiva dell’impossibilità
     5.1.2 La corrispondenza della prestazione alle competenze attribuite dall'ordinamento all’ente
     5.1.3 La corrispondenza dell’oggetto della prestazione ad obiettivi e progetti specifici e determinati
     5.1.4 L’alta qualificazione della prestazione
     5.1.5 La preventiva determinazione della durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione
     5.1.5.1 Durata
     5.1.5.2 Oggetto
     5.1.5.3 Luogo
     5.1.5.4 Compenso
     5.1.5.5 Forma
   5.2 Presupposti di legittimità di carattere procedimentale
     5.2.1 L’obbligo di motivazione della determinazione (o in generale del provvedimento) con cui viene affidato l’incarico esterno
     5.2.2 L’obbligo di effettuare una procedura comparativa per la selezione dell’affidatario
     5.2.3 La previa approvazione di un apposito regolamento (art. 3, c. 56, L. 24-12-2007 n. 244, art. 89 del T.U.E.L)
     5.2.4 Il vincolo quantitativo di spesa
     5.2.5 I limiti di spesa stabiliti dalla legge
     5.2.6 Il possibile superamento del limite di spesa
     5.2.7 L’obbligo di pubblicazione sul sito web
     5.2.8 Le novità introdotte dalla Legge 190/2012 e dal D.Lgs. 33/2013
     5.2.9 La valutazione dell’organo di revisione
     5.2.10 Gli obblighi di comunicazione degli atti di spesa susseguenti al conferimento di incarichi esterni
   5.3 Conclusioni
§6. L’orientamento interpretativo assunto dalla Sezione
§7. Tipologie di incarico

   7.1 Contratti di studio, ricerca e consulenza
   7.2 Collaborazione coordinata e continuativa
§8. Particolare tipologie di rapporti
   8.1 Portavoce e Ufficio stampa
   8.2 Direttore generale e dirigenti a contratto
   8.3 Personale con incarichi all’interno dello staff di organi di governo
   8.4 Incarichi esterni a personale in quiescenza
   8.5 L’incarico all’assistente sociale
   8.6 L’incarico di responsabile del servizio prevenzione e protezione ex D.Lgs. 09.04.2008, n. 81
   8.7 L’affidamento al broker
   8.8 L’affidamento degli incarichi legali
   8.9 Servizi di formazione professionale

SEZIONE II
ANALISI GENERALE DEI DATI RICEVUTI

§9. Premessa metodologica
§10. Analisi generale dei dati pervenuti

SEZIONE III
LE RISULTANZE DELL’INDAGINE: ANALISI DELLA DOCUMENTAZIONE

§11. Le criticità rilevate. Premessa
§12. Criticità derivanti dalla distinzione del concetto di lavoro subordinato con quello di affidamento di incarico
§13. Criticità generate da carenze o violazioni dei presupposti dei contratti d’opera
§14. Criticità generate dalla distinzione tra la fattispecie del contratto d’opera e quello di appalto di servizi
§15. Altre criticità

SEZIONE IV
CONCLUSIONI E SUGGERIMENTI OPERATIVI

§16. Gli esiti collaborativi dell’indagine
§17. L’applicazione necessaria del principio di concorsualità
§18. L’indispensabile utilizzo del controllo interno successivo di regolarità amministrativa (art. 147-bis del Tuel)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, deliberazione 11.06.2013 n. 146).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Possono ritenersi compresi nella categoria degli atti di pianificazione, i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli organi competenti.
Il responsabile del procedimento ha diritto all’incentivo anche nell’ipotesi di affidamento esterno della progettazione, alla luce dell’art. 18, co. 1, della legge 11.02.1994 n. 109 e s.m., che stabilisce che costituiranno economie solo le quote del compenso incentivante per prestazioni affidate all’esterno
(deliberazione 13.06.2000 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO: La legge quadro, all’art. 17, riconosce ai diplomati dipendenti la facoltà di svolgere attività di progettazione, ma rimanda ai singoli ordinamenti professionali la definizione di tipologie dei progetti la cui redazione può essere affidata ai tecnici diplomati ed i relativi limiti (deliberazione 13.06.2000 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che: “la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre".
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio dire anticipato- tale approdo, affermando che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo".
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti.
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”).
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V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che “in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
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Di recente è stato affermato il principio secondo il quale "ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”.
Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò”.
Altra decisione del Consiglio di Stato, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio, con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”.

Il Collegio infatti condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità civile ed amministrativa, secondo la quale, perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez. II, 20.06.2011, n. 13547): “la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio dire anticipato- tale approdo (Cons. Stato Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909), affermando che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo
" (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”, ma anche TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent., 28.09.2012, n. 1624).
Pur potendosi –alla luce di quanto si è dianzi precisato- assorbire le restanti censure, a cagione della già avvenuta dimostrazione della illegittimità del titolo abilitativo edilizio rilasciato a parte contro interessata, in quanto non rispettoso del principio della prevenzione in punto di rispetto delle distanze, ritiene il Collegio di affrontare la tematica che ha costituito l’elemento centrale della decisione di primo grado (motivo n. 1 del mezzo introduttivo del giudizio di prime cure).
Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui all’art. 9 del d.M. 02.04.1968 n. 1444 così prevede: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche
.”.
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ. Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953) “in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
La gravata decisione ha applicato il principio –di recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa– secondo il quale (TAR Toscana Firenze Sez. III, 09.06.2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).”.
La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17.07.2007, n. 15913; 07.09.1996, n. 8159), con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”.
Sennonché, anche sotto tale profilo, la censura dell’appellante appare persuasiva sotto un ulteriore aspetto: la norma del regolamento comunale (articolo 3 comma 8 delle NTA del Piano delle Regole: “nella verifica delle distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi spessori delle murature perimetrali determinati dalla realizzazione di “cappotti termici”) costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e “deroga” (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del dM più volte richiamato".
Non v’è dubbio che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo: ai fini del calcolo della distanza, quindi, il balcone aggettante comunque non può che essere calcolato partendo dalle finestre, arretrate rispetto al fronte dell’edificio: come rimasto incontestato, in tale ipotesi il balcone avrebbe un aggetto di mt. 2,40, e quindi non rientrerebbe nel precetto “di favore” di cui alla norma regolamentare comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa ricorrente richiama impropriamente la decisione n. 36/2012 dell’Adunanza Plenaria, la quale, in realtà, non ha ritenuto che il RUP abbia competenza esclusiva in ordine alla verifica di congruità delle offerte, ma solo che, nelle gare d'appalto da aggiudicare col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, egli ha la facoltà di scegliere, secondo quanto previsto dall’art. 121 del d.P.R. nr. 207 del 2010, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice.
Nel caso di specie il RUP ha preferito delegare la verifica di congruità delle offerte alla commissione tecnica, e ciò non solo non configura alcun profilo di illegittimità della procedura, ma semmai conferisce a tale adempimento le garanzie di approfondimento e di (maggiore) ponderazione proprie delle valutazioni collegiali.
Con un terzo profilo di censura, infine, la ricorrente ha lamentato che la verifica di anomalia sia stata svolta dalla commissione tecnica anziché dal R.U.P.
Anche tale doglianza è infondata.
La ricorrente richiama impropriamente la decisione n. 36/2012 dell’Adunanza Plenaria, la quale, in realtà, non ha ritenuto che il RUP abbia competenza esclusiva in ordine alla verifica di congruità delle offerte, ma solo che, nelle gare d'appalto da aggiudicare col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, egli ha la facoltà di scegliere, secondo quanto previsto dall’art. 121 del d.P.R. nr. 207 del 2010, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice.
Nel caso di specie il RUP ha preferito delegare la verifica di congruità delle offerte alla commissione tecnica, e ciò non solo non configura alcun profilo di illegittimità della procedura, ma semmai conferisce a tale adempimento le garanzie di approfondimento e di (maggiore) ponderazione proprie delle valutazioni collegiali
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILe norme del Codice dei Contratti Pubblici che prevedono l’obbligo per le stazioni appaltanti di specificare i c.d. “oneri da interferenza” nei bandi di gara e l’obbligo per i concorrenti di specificare i c.d. “oneri da rischio specifico” nelle proprie offerte economiche sono sanciti dall’art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dall’art. 87, comma 4, del Codice dei Contratti.
Tali norme, per la loro stretta specificità di dettaglio, sono inidonee ad integrare principi generali, salvo che non si voglia ravvisarne uno in ogni frammento del reticolato normativo del Codice, secondo un ordine di idee che sarebbe, però, incompatibile con la ben diversa logica selettiva sottesa ai suoi articoli 20 e 27.
Non integrando principi generali, le predette norme non sono applicabili -neppure in via di eterointegrazione degli atti di gara- alle procedure che abbiano ad oggetto, come nel caso di specie, servizi di cui all’allegato II B, se non nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente nella legge di gara.
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Nella gara in esame non era sancito l’obbligo per le imprese concorrenti di indicare già in sede di offerta economica l’importo degli oneri della sicurezza.
Ne consegue ulteriormente che la mancata indicazione degli oneri della sicurezza nell’offerta economica non avrebbe potuto comportare l’esclusione del concorrente, in base al principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei Contratti.
Tale conclusione, peraltro, non comporta che nelle gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall’applicazione del Codice dei Contratti i concorrenti, in mancanza di una previsione specifica della legge di gara, siano esentati dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza e dall’osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro: comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia auto-vincolata nella legge di gara ad osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti, il concorrente che non abbia indicato gli oneri della sicurezza nella propria offerta, dovrà essere chiamato a specificarli successivamente nell’ambito della fase, eventuale, di verifica della congruità dell’offerta.
Ai predetti rilievi va aggiunto che, nella fattispecie in esame, neppure il modulo di offerta economica allegato alla lettera di invito contemplava uno spazio per l’indicazione degli oneri di sicurezza, con ciò rafforzando il legittimo affidamento dei concorrenti sulla correttezza di una formulazione dell’offerta economica che non contemplasse anche l’indicazione degli oneri della sicurezza.
Recentemente, il Consiglio di Stato -con affermazione che travalica il ristretto ambito degli appalti esclusi di cui all’allegato II B per estendersi, invece, a qualsivoglia procedura di gara– afferma che “l’Amministrazione che ricorre a moduli per la stipula di contratti pubblici, allorché vi siano contrasti tra prescrizioni predisposte per la gara, è tenuta al rispetto dei principi di buona fede e affidamento delle imprese nella lex specialis al fine di negare che ciò possa risolversi in un danno per le stesse, attraverso la loro espulsione dalla procedura, ed all’adempimento dell’obbligo di comunicare le cause di invalidità di cui abbia conoscenza, la cui violazione non può essere addossata alla parte privata”.
Se tale principio vale nel caso in cui il modulo di offerta sia difforme dalla legge di gara, come nel caso esaminato dalla sentenza da ultimo citata, a maggior ragione esso deve valere nel caso in cui esso sia invece conforme alla lex specialis, come nel caso in esame.

L’appalto di cui si discute rientra, per concorde ammissione delle parti, tra quelli di cui all’allegato II B del Codice dei Contratti, ed in particolare nella categoria n. 23: “Servizi di investigazione e di sicurezza, eccettuati i servizi con furgoni blindati”.
E’ noto che gli appalti di cui all’allegato II B del Codice dei Contratti sono esclusi dall’applicazione delle norme di dettaglio dello stesso Codice, fatta eccezione per quelle specificamente richiamate dall’art. 20 ma non conferenti al caso in esame (art. 68, specifiche tecniche; art. 65, avviso sui risultati della procedura di affidamento; art. 225, avvisi relativi agli appalti aggiudicati). Gli stessi appalti, secondo la previsione dell’art. 27 del Codice, sono assoggettati soltanto al rispetto del principi generali di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità.
Le norme del Codice dei Contratti Pubblici che prevedono l’obbligo per le stazioni appaltanti di specificare i c.d. “oneri da interferenza” nei bandi di gara e l’obbligo per i concorrenti di specificare i c.d. “oneri da rischio specifico” nelle proprie offerte economiche sono sanciti dall’art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dall’art. 87, comma 4, del Codice dei Contratti.
Tali norme, per la loro stretta specificità di dettaglio, sono inidonee ad integrare principi generali, salvo che non si voglia ravvisarne uno in ogni frammento del reticolato normativo del Codice, secondo un ordine di idee che sarebbe, però, incompatibile con la ben diversa logica selettiva sottesa ai suoi articoli 20 e 27.
Non integrando principi generali, le predette norme non sono applicabili -neppure in via di eterointegrazione degli atti di gara- alle procedure che abbiano ad oggetto, come nel caso di specie, servizi di cui all’allegato II B, se non nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente nella legge di gara.
Non è questo il caso, però.
Nel caso di specie, infatti, la legge di gara (art. 1.26 del bando) richiamava esclusivamente l’art. 86, comma 1, in relazione ai casi in cui si sarebbe proceduto alla verifica di anomalia, e l’art. 87, comma 2, in relazione agli elementi che avrebbero potuto costituire oggetto di giustificazione in sede di verifica di congruità.
La legge di gara non richiamava, invece, né l’art. 86 ,commi 3-bis e 3-ter, né l’art. 87, comma 4, ossia gli unici articoli del Codice dei Contratti conferenti al caso di specie.
Ne consegue che nella gara in esame non era sancito l’obbligo per le imprese concorrenti di indicare già in sede di offerta economica l’importo degli oneri della sicurezza.
Ne consegue ulteriormente che la mancata indicazione degli oneri della sicurezza nell’offerta economica non avrebbe potuto comportare l’esclusione del concorrente, in base al principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei Contratti.
Tale conclusione, peraltro, non comporta che nelle gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall’applicazione del Codice dei Contratti i concorrenti, in mancanza di una previsione specifica della legge di gara, siano esentati dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza e dall’osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro: comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia auto-vincolata nella legge di gara ad osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti, il concorrente che non abbia indicato gli oneri della sicurezza nella propria offerta, dovrà essere chiamato a specificarli successivamente nell’ambito della fase, eventuale, di verifica della congruità dell’offerta.
In questi termini la Sezione si è già pronunciata con sentenza n. 1376 del 21.12.2012, alle cui più ampie considerazioni si rinvia e dalle quali non v’è motivo per discostarsi (in senso analogo, anche Consiglio di Stato, sez. V, 06.08.2012, n. 4510).
Ai predetti rilievi va aggiunto che, nella fattispecie in esame, neppure il modulo di offerta economica allegato alla lettera di invito contemplava uno spazio per l’indicazione degli oneri di sicurezza, con ciò rafforzando il legittimo affidamento dei concorrenti sulla correttezza di una formulazione dell’offerta economica che non contemplasse anche l’indicazione degli oneri della sicurezza.
Anche su questo punto la Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi, oltre che nel precedente già citato, con sentenza n. 5 del 09.01.2012.
In senso conforme: Consiglio di Stato, sez. V, 06.08.2012 n. 4510, in cui si richiama il principio di prevalenza, in tali fattispecie, del favor partecipationis, e, soprattutto, la recentissima pronuncia della stessa Sezione del Consiglio di Stato 24.10.2013 n. 5155, in cui -con affermazione che travalica il ristretto ambito degli appalti esclusi di cui all’allegato II B per estendersi, invece, a qualsivoglia procedura di gara– si afferma che “l’Amministrazione che ricorre a moduli per la stipula di contratti pubblici, allorché vi siano contrasti tra prescrizioni predisposte per la gara, è tenuta al rispetto dei principi di buona fede e affidamento delle imprese nella lex specialis al fine di negare che ciò possa risolversi in un danno per le stesse, attraverso la loro espulsione dalla procedura, ed all’adempimento dell’obbligo di comunicare le cause di invalidità di cui abbia conoscenza, la cui violazione non può essere addossata alla parte privata”.
Se tale principio vale nel caso in cui il modulo di offerta sia difforme dalla legge di gara, come nel caso esaminato dalla sentenza da ultimo citata, a maggior ragione esso deve valere nel caso in cui esso sia invece conforme alla lex specialis, come nel caso in esame (in termini analoghi, e con specifico riferimento all’indicazione degli oneri aziendali per la sicurezza, cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 14.01.2013 n. 145) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZINelle procedure aventi ad oggetto gli appalti di cui all’allegato II B, l’obbligo di specificare gli oneri della sicurezza nella offerta economica a pena di esclusione dalla gara non può farsi discendere automaticamente dall’art. 26, comma 6, del D. L.vo 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti aggiudicatori, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte” valutino l’adeguatezza del valore economico al costo del lavoro e della sicurezza: é ben vero che quest’ultimo deve essere “indicato e risultare congruo rispetto all’entità ed alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture”, ma la norma non prescrive affatto che questa indicazione debba essere effettuata, dai partecipanti alla gara, a pena di esclusione nella offerta economica.
Tale conclusione non equivale ad esentare le imprese concorrenti dall’onere di indicare in gara gli oneri da rischio specifico, ma solo a rimandare l’esposizione di tali oneri nella sede, eventuale, del controllo di anomalia dell’offerta, sede nella quale il concorrente dovrà giustificare la sostenibilità e l’attendibilità della propria offerta economica anche alla luce dell’incidenza sul prezzo offerto degli oneri per la sicurezza, che in tale occasione -ma solo in questa- dovranno essere specificamente indicati.
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Ancora di recente, alcune condivisibili decisioni del giudice amministrativo hanno evidenziato che “nell’ipotesi in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine all’onere d’indicare -a pena di esclusione- i costi di sicurezza aziendale, l’esclusione della ditta che abbia omesso tale indicazione verrebbe a colpire (in contrasto con i principi di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento e del favor partecipationis) i concorrenti che hanno presentato un’offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal bando e dall’allegato modulo d’offerta; legittimamente, pertanto, la stazione appaltante, in osservanza del suddetto principio del favor partecipationis, ammette a partecipare alla procedura di evidenza pubblica la medesima ditta".
La Sezione è consapevole che il tema degli oneri della sicurezza nella gare d’appalto è tuttora oggetto di orientamenti non univoci nella giurisprudenza amministrativa, sia di primo che di secondo grado (e talora anche all’interno della stessa Sezione del giudice d’appello), con effetti che possono talora produrre disorientamento negli operatori e disfunzionalità nel sistema.
Tuttavia, al di là del fatto che, ad un esame più approfondito, talune apparenti divergenze giurisprudenziali sembrano trovare fondamento e giustificazione nelle peculiarità delle singole fattispecie esaminate nelle varie decisioni -e in attesa, in ogni caso, di un opportuno intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria- vi è da osservare che l’orientamento più recente del giudice di appello, che il collegio reputa più ragionevole e decisamente più convincente, è quello efficacemente riassunto da Consiglio di Stato, sez, III, 10.07.2013, n. 3706, il quale, anche in riferimento ad appalti di servizi di cui all’allegato II A del Codice dei Contratti, sembra ormai orientato ad escludere che la mancata indicazione degli oneri di sicurezza nell’offerta economica possa comportare ex se l’esclusione del concorrente, potendo l’esclusione conseguire “soltanto all’esito –s’intende, ove negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla sostenibilità dell’offerta economica del suo insieme”.
Osserva il collegio che nelle procedure aventi ad oggetto gli appalti di cui all’allegato II B, l’obbligo di specificare gli oneri della sicurezza nella offerta economica a pena di esclusione dalla gara non può farsi discendere automaticamente dall’art. 26, comma 6, del D. L.vo 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti aggiudicatori, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte” valutino l’adeguatezza del valore economico al costo del lavoro e della sicurezza: é ben vero che quest’ultimo deve essere “indicato e risultare congruo rispetto all’entità ed alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture”, ma la norma non prescrive affatto che questa indicazione debba essere effettuata, dai partecipanti alla gara, a pena di esclusione nella offerta economica (TAR Piemonte, sez. I, 21.12.2012 n. 1376).
Naturalmente, va ribadito che tale conclusione non equivale ad esentare le imprese concorrenti dall’onere di indicare in gara gli oneri da rischio specifico, ma solo a rimandare l’esposizione di tali oneri nella sede, eventuale, del controllo di anomalia dell’offerta, sede nella quale il concorrente dovrà giustificare la sostenibilità e l’attendibilità della propria offerta economica anche alla luce dell’incidenza sul prezzo offerto degli oneri per la sicurezza, che in tale occasione -ma solo in questa- dovranno essere specificamente indicati.
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Ancora di recente, alcune condivisibili decisioni del giudice amministrativo hanno evidenziato che “nell’ipotesi in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine all’onere d’indicare -a pena di esclusione- i costi di sicurezza aziendale, l’esclusione della ditta che abbia omesso tale indicazione verrebbe a colpire (in contrasto con i principi di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento e del favor partecipationis) i concorrenti che hanno presentato un’offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal bando e dall’allegato modulo d’offerta; legittimamente, pertanto, la stazione appaltante, in osservanza del suddetto principio del favor partecipationis, ammette a partecipare alla procedura di evidenza pubblica la medesima ditta" (TAR Bari, sez. II, 22.10.2013 n. 1429).
La Sezione è consapevole che il tema degli oneri della sicurezza nella gare d’appalto è tuttora oggetto di orientamenti non univoci nella giurisprudenza amministrativa, sia di primo che di secondo grado (e talora anche all’interno della stessa Sezione del giudice d’appello), con effetti che possono talora produrre disorientamento negli operatori e disfunzionalità nel sistema.
Tuttavia, al di là del fatto che, ad un esame più approfondito, talune apparenti divergenze giurisprudenziali sembrano trovare fondamento e giustificazione nelle peculiarità delle singole fattispecie esaminate nelle varie decisioni -e in attesa, in ogni caso, di un opportuno intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria- vi è da osservare che l’orientamento più recente del giudice di appello, che il collegio reputa più ragionevole e decisamente più convincente, è quello efficacemente riassunto da Consiglio di Stato, sez, III, 10.07.2013, n. 3706, il quale, anche in riferimento ad appalti di servizi di cui all’allegato II A del Codice dei Contratti, sembra ormai orientato ad escludere che la mancata indicazione degli oneri di sicurezza nell’offerta economica possa comportare ex se l’esclusione del concorrente, potendo l’esclusione conseguire “soltanto all’esito –s’intende, ove negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla sostenibilità dell’offerta economica del suo insieme” (in senso analogo, ancora più di recente, Cons. Stato, sez. III, 18.10.2013, n. 5070).
Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che, nel caso di specie, tale verifica a posteriori è stata effettuata dalla commissione di gara in sede di verifica di congruità e si è conclusa positivamente per entrambi i raggruppamenti aggiudicatari
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZII valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del decreto legislativo 12.04.2006, nr. 163: di modo che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato quando risulti puntualmente giustificato.
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La verifica di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la congruità dell'offerta economica non con riferimento a ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e globalità, servendo le giustificazioni dell'impresa, e il contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e affidabilità dell'offerta nel suo complesso.
Al riguardo, giova preliminarmente richiamare l'indirizzo giurisprudenziale -che questa Sezione condivide- secondo cui i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del decreto legislativo 12.04.2006, nr. 163: di modo che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato quando risulti puntualmente giustificato.
Del pari consolidato è l'indirizzo secondo cui la verifica di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la congruità dell'offerta economica non con riferimento a ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e globalità, servendo le giustificazioni dell'impresa, e il contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e affidabilità dell'offerta nel suo complesso
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 84 del Codice dei Contratti dispone che la commissione valutatrice “è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato dall’organo competente” (comma 3); inoltre, (comma 8) “I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazione aggiudicatrici di cui all’art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:….” (professionisti e professori universitari di ruolo con determinati requisiti).
Il complessivo meccanismo dettato dall'art. 84, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 impone dunque, innanzitutto, di individuare i commissari all'interno della stazione appaltante, ritenendo il legislatore tale soluzione evidentemente non solo la più efficiente in termini di economicità e di semplificazione procedimentale, ma anche di imparzialità, e solo ove vi siano obiettive carenze di organico o professionalità tali da poter inficiare la bontà delle valutazioni dell'offerta tecnica, è ammesso rivolgersi all'esterno, rispettando per altro precisi requisiti di professionalità dei prescelti, oltre che meccanismi selettivi trasparenti.
Per quanto riguarda il requisito relativo alla competenza tecnica dei singoli commissari, è principio consolidato in giurisprudenza quello per cui il requisito richiesto dall’art. 84, comma 2, del Codice dei Contratti (essere “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”) debba essere valutato compatibilmente con la struttura degli enti appaltanti, senza esigere, necessariamente, che l’esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto di gara.
Sotto un primo profilo, la ricorrente ha lamentato che la delibera di nomina della commissione tecnica non avrebbe evidenziato alcuna specifica competenza in capo ai soggetti chiamati a far parte dell’organo; secondo la ricorrente, non si comprenderebbe di quale competenza possano essere dotati il direttore dell’ufficio S.C. I.C.T. (presidente) e il direttore dell’Ufficio Provveditorato negli specifici settori della vigilanza armata, del telecontrollo e del portierato.
La censura è infondata.
L’art. 84 del Codice dei Contratti dispone che la commissione valutatrice “è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato dall’organo competente” (comma 3); inoltre, (comma 8) “I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazione aggiudicatrici di cui all’art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:….” (professionisti e professori universitari di ruolo con determinati requisiti).
Il complessivo meccanismo dettato dall'art. 84, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 impone dunque, innanzitutto, di individuare i commissari all'interno della stazione appaltante, ritenendo il legislatore tale soluzione evidentemente non solo la più efficiente in termini di economicità e di semplificazione procedimentale, ma anche di imparzialità, e solo ove vi siano obiettive carenze di organico o professionalità tali da poter inficiare la bontà delle valutazioni dell'offerta tecnica, è ammesso rivolgersi all'esterno, rispettando per altro precisi requisiti di professionalità dei prescelti, oltre che meccanismi selettivi trasparenti.
Per quanto riguarda il requisito relativo alla competenza tecnica dei singoli commissari, è principio consolidato in giurisprudenza quello per cui il requisito richiesto dall’art. 84, comma 2, del Codice dei Contratti (essere “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”) debba essere valutato compatibilmente con la struttura degli enti appaltanti, senza esigere, necessariamente, che l’esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto di gara (Cons. Stato, sez. III, 12.09.2012, n. 4836; Cons. Stato, sez. V, 28.05.2012, n. 3124; TAR Piemonte, sez. I, n. 88/2010)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE’ noto che nelle gare pubbliche spettano in via esclusiva alla commissione giudicatrice le sole attività di valutazione che implicano un giudizio connotato da discrezionalità, mentre qualora si tratti di espletare attività che non implicano valutazione o scelta non sussiste alcuna riserva di esclusività in capo alla commissione giudicatrice, potendo le stesse essere svolte da organi ordinari dell'Amministrazione.
L'attività valutativa demandata alla commissione tecnica dall’art. 84 del Codice dei Contratti non comprende le attività amministrative afferenti alla verifica della tempestività delle offerte e della regolarità della documentazione a corredo, compiti che, non presupponendo il possesso di alcuna competenza tecnica relativa allo specifico oggetto dell’appalto, possono essere senz’altro affidati agli organi ordinari della stazione appaltante.
Sotto un diverso profilo, la ricorrente ha lamentato la violazione del principio di unicità della commissione, sul presupposto che una prima commissione avrebbe proceduto all’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa e le offerte economiche e all’attribuzione del punteggio a queste ultime, mentre una diversa commissione avrebbe proceduto all’esame delle offerte tecniche e alla valutazione di non anomalia
Anche tale profilo di censura è infondato.
E’ noto che nelle gare pubbliche spettano in via esclusiva alla commissione giudicatrice le sole attività di valutazione che implicano un giudizio connotato da discrezionalità, mentre qualora si tratti di espletare attività che non implicano valutazione o scelta non sussiste alcuna riserva di esclusività in capo alla commissione giudicatrice, potendo le stesse essere svolte da organi ordinari dell'Amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 12.09.2012, n. 4836).
Questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare che l’attività valutativa demandata alla commissione tecnica dall’art. 84 del Codice dei Contratti non comprende le attività amministrative afferenti alla verifica della tempestività delle offerte e della regolarità della documentazione a corredo, compiti che, non presupponendo il possesso di alcuna competenza tecnica relativa allo specifico oggetto dell’appalto, possono essere senz’altro affidati agli organi ordinari della stazione appaltante (TAR Piemonte, sez. I, 30.06.2011, n. 711; TAR Piemonte, sez. I, 16.07.2010, n. 3132).
Alla stregua di tali principi, la procedura di gara in esame non appare affetta dal vizio denunciato dalla ricorrente, in quanto la commissione tecnica ha proceduto correttamente alla valutazione delle offerte tecniche, mentre il seggio di gara (composto da altri dipendenti della stessa ASL: dr. C.A., direttore struttura complessa economato, in qualità di presidente; dr.ssa S.S., collaboratore amministrativo con funzioni di assistenza alle operazioni di gara; e dr.ssa C.C., assistente amministrativo con funzioni di segretario verbalizzante) si è occupato solo di adempimenti privi di aspetti valutativi, quali la verifica della regolarità della documentazione amministrativa e all’attribuzione dei punteggi alle offerte economiche.
Il tutto in perfetto ossequio ai principi giurisprudenziali sopra menzionati
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 27.11.2013

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Legge di conversione del decreto legge 21.06.2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia. Modifica dell'art. 202 del Codice della Strada (Ministero dell'Interno, nota 22.11.2013 n. 8799 di prot.).

APPALTI: Oggetto: Definizione di “socio di maggioranza” rilevante per le dichiarazioni prescritte ai fini della partecipazione alle procedure di gara d’appalto pubblico (ANCE Bergamo, circolare 22.11.2013 n. 250).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Registrazione contratti di locazione a seguito dell’introduzione dell’obbligo di allegazione dell’Attestato di prestazione energetica (APE) (Agenzia delle Entrate, risoluzione 22.11.2013 n. 83/E).

ENTI LOCALI: OGGETTO: Trattamento agli effetti dell’IVA dei contributi erogati da amministrazioni pubbliche - Criteri generali per la definizione giuridica e tributaria delle erogazioni, da parte delle pubbliche amministrazioni, come contributi o corrispettivi (Agenzia delle Entrate, circolare 21.11.2013 n. 34/E).

APPALTI: Oggetto: Dall’01.01.2014 in vigore il sistema denominato “AVCpass” per la verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare d’appalto (ANCE Bergamo, circolare 19.11.2013 n. 249).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Variazioni disponibilità autoveicoli sottoposti alla disciplina SISTRI (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, nota 05.11.2013 n. 1192 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIPartecipate, no eccezioni sulla spending review.
Gli enti locali devono procedere alla verifica dei reciproci rapporti di debito/credito anche rispetto alle società da essi partecipate indirettamente ovvero per quote minimali.

Lo ha precisato la Sezione regionale di controllo della Corte conti Lombardia nel parere 11.11.2013 n. 479, chiarendo la portata dell'art. 6, c. 4, del dl 95/2012 (spending review).
Tale disposizione prevede che, a decorrere dallo scorso esercizio finanziario, i comuni e le province debbano allegare al rendiconto della gestione una nota informativa contenente la verifica dei crediti e debiti con le proprie società partecipate. La nota deve evidenziare analiticamente e motivare eventuali discordanze, nel qual caso occorre adottare senza indugio, e comunque non oltre il termine dell'esercizio finanziario in corso, i necessari provvedimenti di riconciliazione.
Nell'ottica di un sempre maggiore controllo sugli strumenti societari, spesso utilizzati (come ricorda il parere) per scopi poco nobili (ovvero per dribblare i vincoli di finanza pubblica), la suddetta norma mira, quindi, ad arginare il disallineamento delle poste debitorie e creditorie che spesso si riscontra nei bilanci. L'obiettivo, pertanto, è quello di offrire dati certi circa i rapporti finanziari tra l'ente pubblico e la partecipata e di stimolare, se serve, correzioni di eventuali discordanze. Se questa è la ratio dell'intervento normativo, è allora evidente, secondo i giudici, che la latitudine oggettiva della norma non può essere circoscritta alle sole partecipazioni di primo grado, con esclusione di tutte le partecipazioni indirette.
Per le stesse ragioni, il focus non può essere limitato alle partecipazioni qualificate, ma deve essere esteso anche ai casi in cui l'ente detiene quote minimali. Unica soluzione in grado di offrire una rappresentazione trasparente e veritiera dei rapporti finanziari ente pubblico-partecipate (articolo ItaliaOggi del 20.11.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2013, "Avvio del procedimento di approvazione della variante finalizzata alla revisione del piano territoriale regionale e della relativa procedura di valutazione ambientale strategica" (deliberazione G.R. 14.11.2013 n. 937).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2013, "Termini del procedimento amministrativo per il rilascio dell’autorizzazione alla riduzione delle distanze legali dalla linea ferroviaria in concessione, ai sensi dell’art. 60 del d.p.r. 11.07.1980 n. 753" (deliberazione G.R. 21.11.2013 n. 936).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: R. Travaglini, Annotazioni critiche sul documento ITACA - Conferenza delle Regioni “Realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri (26.11.2013 - link a http://venetoius.it).

URBANISTICA: A. Galbiati, Piani attuativi e obblighi di trasmissione alla Regione: commento a Corte Costituzionale 14.11.2013 n. 272 (25.11.2013 - link a www.studiospallino.it).

INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI: C. Trovò, I professionisti e l’obbligo di polizza - Per i professionisti iscritti ad Albi è entrato in vigore, lo scorso 15 agosto, l’obbligo di stipulare un’assicurazione rischi professionali al fine di garantire il soddisfacimento risarcitorio dei clienti. L’obbligo è stato introdotto dalla Riforma delle professioni (Consulente Immobiliare n. 941/2013).

EDILIZIA PRIVATA: E. Ditta, Il diritto al panorama - Si assiste sempre più spesso alla enunciazione del diritto al panorama, ma nella pratica la formula si rivela molte volte problematica e solo in alcuni casi il proprietario di un immobile può usufruire di una effettiva tutela del panorama di cui gode (Consulente Immobiliare n. 941/2013).

SICUREZZA LAVORO: G. Benedetti, Cantieri: ‘‘intreccio’’ delle responsabilità tra appaltatore, datore di lavoro e committente - Cassazione nn. 35826/2013 e 35827/2013 (Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: E. Cuzzola, Irap mai a carico del dipendente (Guida al Pubblico Impiego n. 10/2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: A. Bianco, Uffici tecnici: le regole per l’incentivazione (Guida al Pubblico Impiego n. 10/2013).

EDILIZIA PRIVATA: E. Fumagalli, UNA NORMATIVA ALL’ESAME DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA IN SANATORIA - Le norme italiane che vietano in determinati casi il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, sono rispettose dei principi sanciti dalla normativa comunitaria? (AL n. 494/2013).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli. In Lombardia chi può costruire nelle zone agricole? NUOVI DUBBI DI INCOSTITUZIONALITÀ POTREBBERO INVESTIRE LA LEGGE REGIONALE N. 12/2005 - La disciplina regionale relativa all’edificazione nelle zone agricole forse non è compatibile con l’articolo 117 della Costituzione (AL n. 493/2013).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri: Quali le sanzioni previste nel periodo transitorio?
Domanda
Dopo l'entrata in vigore del SISTRI, come e' punito il trasporto di rifiuti pericolosi senza il formulario, o con formulario con dati incompleti o inesatti?
Risposta
In seguito all’istituzione del SISTRI (2009), il legislatore ha modificato le norme sanzionatorie di cui al TUA:
• eliminando il riferimento ai registri di carico e scarico e ai formulari;
• prevedendo sanzioni soltanto per i trasportatori di rifiuti non pericolosi senza formulario o con formulario incompleto o inesatto, perché solo quest’ultimi avevano la facoltà di decidere di iscriversi, o meno, al SISTRI;
• introducendo per gli altri soggetti le nuove sanzioni di cui agli artt. 260-bis e 260-ter del TUA.
Tuttavia, a partire dal 2010 si sono succedute numerose proroghe dell’operatività del SISTRI che hanno comportato la contestuale sospensione delle novità normative in materia sanzionatoria.
In particolare, l’art. 39 del D.Lgs. n. 205/2010 ha superato la questione circa l’applicabilità o meno delle sanzioni previste dall’art. 258 del TUA, attraverso un’apposita disposizione interpretativa nella quale si è disposto che i soggetti che hanno l’obbligo, o anche solo la facoltà, di iscriversi al SISTRI, fino a quando le nuove prescrizioni del SISTRI non divengono pienamente operative, grazie al superamento della fase transitoria di proroga, qualora non adempiono agli obblighi di tenuta dei registri di carico e scarico e del formulario “sono soggetti alle relative sanzioni previste dall’articolo 258 del TUA nella formulazione precedente all’entrata in vigore del presente decreto.”
In sostanza, sono soggetti alle sanzioni di cui all’art. 258 del D.Lgs. n. 152/2006 nella formulazione antecedente al D.Lgs. n. 205/2010 (22.11.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni senza paletti. La dinamica dei gruppi incide sulla formazione. L'indagine sull'appartenenza alla maggioranza va condotta in concreto.
È possibile nominare, quali rappresentanti di minoranza presso le commissioni consiliari, alcuni consiglieri comunali originariamente appartenenti alla maggioranza consiliare che, nel corso della consiliatura, sono transitati all'opposizione?

Le commissioni consiliari sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
La fattispecie si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti. Il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'articolo 67 della Costituzione, applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza.
Tali mutamenti, pertanto, modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, con evidenti effetti sulla composizione delle commissioni consiliari che deve adeguarsi ai nuovi assetti. Quanto al rispetto del criterio proporzionale il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne l'osservanza. L'indirizzo giurisprudenziale e dottrinario formatosi stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo (anche se formato da un solo consigliere) presente in consiglio.
Peraltro il Tar Lombardia, con la sentenza n. 567/1996, ha specificato che il criterio proporzionale è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile. Al raggiungimento di questo risultato concorrono, non soltanto la rappresentanza individuale proporzionata alla consistenza delle forze politiche presenti nell'organo elettivo, ma anche –quando la varietà di consistenza e di numero dei gruppi non consenta di conseguire l'obiettivo con precisione aritmetica, per quozienti interi– meccanismi tecnici (quali il voto ponderato, il voto plurimo e simili) idonei ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello della forza politica che rappresenta.
Nel caso di specie, un articolo del regolamento delle commissioni consiliari permanenti del comune in oggetto ha previsto che le commissioni consiliari debbano essere composte da tre consiglieri espressi dalla maggioranza e da due dalla minoranza consiliare. La legge non fornisce una definizione di maggioranza o di minoranza. Per maggioranza non può che intendersi il gruppo o la coalizione che esprime il sindaco, mentre per minoranza si intendono le liste che non sostengono il sindaco e, dunque, i gruppi di opposizione. Secondo il Tar Latina, nella sentenza n. 649 del 2004, «l'appartenenza o meno a una maggioranza consiliare è di per sé soggetta alla mutevolezza delle opinioni dei singoli consiglieri. Né si rinviene norma o principio su una possibile cristallizzazione dell'appartenenza alla maggioranza o alla minoranza in relazione, esemplificativamente, ad apposita dichiarazione».
Il medesimo giudice amministrativo ha ritenuto, inoltre, che «lo stabilire se si appartenga o meno a una maggioranza per essersi mutata idea dopo la consultazione elettorale ed, eventualmente, anche successivamente ad un già intervenuto mutamento, è indagine di fatto, la cui conclusione è da assumere con le cautele del caso, dovendo un mutamento ritenersi avvenuto soltanto allorquando sussistano univoci indizi nel senso». La collocazione dinamica dei consiglieri nei vari gruppi costituisce il parametro di individuazione della loro posizione maggioritaria o minoritaria ai fini della corretta formazione delle varie commissioni (articolo ItaliaOggi del 22.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Autorimessa da ricostruire.
Domanda
Dovendo ristrutturare un'autorimessa pertinenziale all'abitazione principale, mediante demolizione e ricostruzione nel rispetto della volumetria esistente, ma variando la sagoma, alla luce delle innovazioni introdotte con il dl n. 69/2013 tale intervento ricade in quelli di ristrutturazione edilizia oggetto della detrazione fiscale del 50%?
Risposta
La risposta è affermativa. L'art. 30 del dl «del Fare» (n. 69 del 21.06.2013, convertito dalla legge 09.08.2013 n. 98) ha introdotto una nuova definizione di ristrutturazione edilizia ampliando la nozione di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr n. 380/2001, alla quale fanno riferimento molte importanti norme della fiscalità immobiliare, anche per quanto riguarda le detrazioni sul recupero edilizio ed energetico.
La nuova definizione –valida dal 21.08.2013– ricomprende ora fra le ristrutturazioni edilizie attuate mediante demolizione e fedele ricostruzione, con l'eccezione degli immobili vincolati, anche quelle che nella riedificazione rispettano il solo volume dell'edificio preesistente, mentre in precedenza era richiesto il doppio requisito consistente nel rispetto sia del volume che della sagoma, in mancanza dei quali si ricadeva nella ben diversa fattispecie della nuova costruzione.
Peraltro, ricordiamo che anche la realizzazione ex novo di autorimesse o posti auto pertinenziali, anche a proprietà comune, rientra, al pari della ristrutturazione, fra gli interventi che possono beneficiare della detrazione per il recupero edilizio ai sensi dell'art. 16-bis, 1° comma, lettera d), del Tuir).
Nessuna rilevanza ha la circostanza che l'unità immobiliare costituisca o meno abitazione principale di chi esegue i lavori, l'importante è che si tratti di un'abitazione (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - SICUREZZA LAVORO: Esposizione a campi elettromagnetici.
Domanda
Vorrei sapere se è obbligatorio effettuare la valutazione dei rischi da esposizione a campi elettromagnetici sui luoghi di lavoro.
Risposta
Nella Gazzetta Ufficiale Europea del 29.06.2013 è stata pubblicata la direttiva n. 2013/35/Ce, sulle esposizioni occupazionali ai campi elettromagnetici, che abroga e sostituisce la precedente direttiva 2004/40. Il termine ultimo di recepimento della nuova direttiva è il 01.07.2016. Bisogna tuttavia considerare che sono immediatamente vigenti le disposizioni generali sulla protezione dagli agenti fisici, contenute nel capo I del titolo VIII del dlgs 81/2008, indipendentemente dall'entrata in vigore dei successivi capi specifici.
Il vincolo più stringente ad oggi in vigore riguarda pertanto l'obbligatorietà della valutazione del rischio elettromagnetico, la cui mancanza è sanzionabile già attualmente. Come chiarito dagli organi istituzionali, ad oggi la valutazione del rischio elettromagnetico va condotta confrontandosi con il nuovo sistema di limiti, contenuto nella nuova direttiva e non più con quello proposto dalla precedente direttiva 2004/40 e ripreso dal dlgs 81/2008, al titolo VIII, capo IV (che sarà riscritto).
L'impianto della valutazione di rischi da esposizione a campi elettromagnetici si presenta fortemente rinnovato a partire dal sistema di limiti. Se la direttiva 2004/40 presentava lo stesso sistema di limiti che Icnirp ha proposto con le linee guida emanate nel 1998, il sistema di limiti presente nella nuova direttiva è aggiornato con le revisioni che la stessa Icnirp ha compiuto delle proprie linee guida nel 2009, con riferimento ai campi magnetici statici e nel 2010, con riferimento ai campi elettrici e magnetici nell'intervallo di frequenze 1 Hz-10 MHz.
La Commissione europea ha inoltre arricchito il sistema di limiti Icnirp alle basse frequenze, introducendo altre due soglie non di derivazione Icnirp denominate «livelli di azione superiori» e «livelli di azione per gli arti». La nuova direttiva identifica inoltre in modo esplicito il metodo del picco ponderato come quello elettivo ai fini della valutazione dell'esposizione (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Potere dei sindaci.
Domanda
Il Sindaco, in forza dei suoi poteri, può emettere un'ordinanza con tingibile e urgente nel caso di abbandono di rifiuti?
Risposta
È da dire che il ricorso allo strumento dell' ordinanza contingibile e urgente da parte dei sindaci presuppone situazioni eccezionali e non prevedibili.
La Corte costituzionale, con la sentenza del 04.04.2011, numero 115, ha escluso che in tema di ordinanze sindacali contingibili ed urgenti vi sia un potere generale dei Sindaci; ha dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo l'articolo 54, comma 4, del decreto legislativo numero 267, del 2000, come sostituito dall'articolo 6 del decreto legge n. 92, del 2008, convertito con legge numero 125, del 2008, su cui detto potere extra ordinem si fonda, nella parte relativa alla locuzione «anche» prima delle parole «contingibili ed urgenti».
In materia di abbandono incontrollato di rifiuti il Tribunale regionale amministrativo (Tar) della Campania, Sezione V, con la sentenza dell'11.05.2010, numero 3683, ha escluso la possibilità del ricorso allo strumento atipico ed eccezionale costituito dall'ordinanza contingibile ed urgente, atteso che l'articolo 192 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, porta in sé uno specifico rimedio a fronte di situazioni di inquinamento ambientale.
Peraltro, aggiungono i predetti giudici, «l'utilizzo dello strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente ex articoli 117 del decreto legislativo numero 112, del 1998, e 54 del decreto legislativo numero 267, del 2000, presupponendo la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile cui non si potrebbe far fronte con il ricorso agli ordinari strumenti apprestati dall'ordinamento, non appare legittimo per disporre in ordine alla bonifica di un sito contaminato» (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Energia da fonti rinnovabili.
Domanda
Si chiede se le regioni, con propria normativa, possano imporre un limite massimo alla produzione di energia da fonte rinnovabile.
Risposta
In tema di produzione di energia da fonte rinnovabile, la direttiva 2001/77/Ce promuove «un maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel relativo mercato interno_» (articolo 1), e ordina agli stati membri di adottare «misure appropriate atte a promuovere l'aumento del consumo di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili» (articolo 3).
La successiva direttiva 2009/28/Ce, che ha sostituito la suddetta direttiva 2001/77/Ce, invita gli stati membri a «stimolare lo sviluppo costante di tecnologie capaci di generare energia a partire da ogni tipo di fonte rinnovabile».
Lo Stato italiano, con il decreto legislativo 29.12.2003, numero 387, recependo la citata direttiva 2001/77/Ce, ha stabilito che le regioni possono adottare «misure per promuovere l'aumento del consumo di elettricità da fonti rinnovabili nei rispettivi territori, aggiuntive rispetto a quelle nazionali».
Il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza del 10.09.2012, numero 4768, ha puntualizzato che qualsiasi normativa interna che preveda un valore quantitativo massimo consentito di produzione di energia elettrica rinnovabile si pone in contrasto con il favor che, al riguardo, la normativa europea accorda allo sviluppo ed al potenziamento della produzione di energia da fonti rinnovabili. Pertanto, per i supremi giudici amministrativi, qualsiasi normativa interna che preveda un limite massimo alla produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile si pone in contrasto con la normativa europea e, per questo motivo, deve essere disapplicata.
Per inciso, si sottolinea che l'Unione europea, con la summenzionata direttiva 2001/77/Ce, aveva posto un limite minimo alla produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile. Infatti, all'articolo 3, detta direttiva aveva disposto, fra l'altro, «l'obiettivo indicativo globale del 12% del consumo interno lordo di energia entro il 2010», e, al riguardo, aveva invitato gli Stati membri a rimuovere gli «ostacoli normativi e di altro tipo all'aumento della produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili» (articolo 6) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Competenza al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche delegate ai Comuni in caso di perdita della delega dopo l'invio degli atti al Soprintendente - Comune di Pomezia (Regione Lazio, parere 04.11.2013 n. 318130 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla operatività della delega conferita ai comuni per il rilascio del parere paesaggistico in sanatoria agli abusi realizzati sui beni culturali vincolati ai sensi della parte II del d.lgs. 42/2004 - Comune di Civitavecchia (Regione Lazio, parere 16.10.2013 n. 76446 di prot.).

NEWS

EDILIZIA PRIVATANiente registro né bollo sull'Ape.
Ape senza registro né bollo. L'attestato di prestazione energetica presentato all'ufficio dell'Agenzia delle entrate in sede di registrazione di un contratto di locazione non sconta un'imposta autonoma. Il prelievo fiscale scatta solo se il contribuente registra volontariamente l'Ape in un secondo momento, per esempio per conferirgli data certa: in questo caso si pagano 168 euro.

È quanto ha chiarito l'amministrazione finanziaria con la risoluzione 22.11.2013 n. 83/E.
Il documento di prassi precisa il trattamento fiscale dell'attestato a seguito delle modifiche introdotte dal dl n. 63/2013, che ha imposto l'allegazione dell'Ape in tutti i contratti di vendita, donazione e locazione di immobili. La pena prevista, in caso di inadempimento, è la nullità dell'atto (tuttavia, in uno dei prossimi provvedimenti del governo la sanzione sarà sostituita con una penalità economica pari a 500 euro, si veda ItaliaOggi dell'8 novembre scorso).
L'Agenzia evidenzia che la regola standard da seguire è quella dettata dall'articolo 11, comma 7, del dpr n. 131/1986 (Tur): la richiesta di registrazione di un atto vale anche per gli allegati. Se però per questi ultimi non vige l'obbligo di registrazione, come appunto nel caso dell'Ape, non si applica un'imposta autonoma. Peraltro le Entrate sottolineano che per i contratti di locazione registrati in via telematica non è possibile trasmettere gli allegati, che devono semmai essere prodotti in forma cartacea insieme alla ricevuta di avvenuta registrazione, anche in questo caso senza oneri. Come detto, invece, l'Ape sconta il registro in misura fissa (168 euro) qualora il contribuente abbia interesse a registrarlo separatamente, a prescindere dalla disciplina applicabile al contratto immobiliare «principale».
Anche ai fini dell'imposta di bollo l'Ape resta esente, sia se prodotto in originale sia in copia semplice. Fa eccezione, però, l'attestato con dichiarazione di conformità all'originale rilasciata da un pubblico ufficiale: in tale ipotesi, va applicato il bollo nella misura di 16 euro per ciascun foglio, ai sensi delle previsioni recate dal dpr n. 642/1972 (articolo ItaliaOggi del 23.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIADue vie per tracciare i rifiuti. Invio online dei dati contestuale o successivo alla raccolta. Raffica di istruzioni operative dal ministero dell'ambiente per le imprese tenute al Sistri.
Doppio binario procedurale per il Sistri. La tracciabilità dei rifiuti si potrà realizzare attraverso una procedura che prevede l'utilizzo contestuale dei dispositivi elettronici Usb oppure successivo. In sostanza, i dati potranno essere inviati contestualmente alla tracciatura dei rifiuti o anche in seconda battuta.
Le due procedure possono essere utilizzate entrambe in funzione delle esigenze operative dei soggetti coinvolti nella movimentazione. E' possibile adottarle anche in modalità mista. Pertanto la procedura adottata per la presa in carico dei rifiuti e per la consegna degli stessi possono differire senza alcun problema. Nella procedura con utilizzo non contestuale dei dispositivi Usb le operazioni di presa in carico e consegna dei rifiuti vengono svolte dal conducente attraverso la sola annotazione di data e ora sulla copia cartacea della scheda Sistri e senza dunque inserire il dispositivo Usb del veicolo nel pc del produttore e/o del destinatario.

Queste sono le due risposte fornite dal Ministero dell'ambiente con la Faq n. 109 e la Faq n. 107 datate 21.11.2013 alle domande in merito alle procedure operative per la tracciabilità dei rifiuti. Ma il ministero formula altre risposte (con 15 ulteriori Faq) che di seguito tracciamo.
Non appena riscontrato il malfunzionamento del dispositivo Usb del veicolo occorre contattare il contact center sistri per attivare le opportune procedure volte alla risoluzione del problema. In caso di malfunzionamento del dispositivo Usb, la compilazione della scheda Sistri (aree produttore e trasportatore) viene comunque effettuata dal trasportatore oppure, in caso di sua indisponibilità, dal gestore.
La movimentazione del rifiuto viene eseguita normalmente con le copie cartacee della scheda sistri sulle quali viene annotato che il dispositivo Usb del veicolo non è funzionante e che dunque non sono state effettuate la sincronizzazione e gli inserimenti nella black box. L'inserimento del dispositivo Usb del veicolo nella black box deve essere effettuato, a prescindere dal numero di prese in carico e di consegne di rifiuti previsti nella giornata, una prima volta all'avvio del trasporto, dopo aver dunque effettuato la presa in carico dei rifiuti presso il produttore e, una seconda volta, successivamente alla consegna al destinatario.
In presenza di più viaggi nella stessa giornata lavorativa, l'inserimento del dispositivo Usb del veicolo nella black box deve essere effettuato solamente dopo la prima presa in carico presso il primo produttore e successivamente all'ultima consegna presso l'ultimo impianto Per la movimentazione dei rifiuti devono essere prodotte due copie cartacee della scheda sistri e comunque in un numero pari a quello dei soggetti coinvolti nella movimentazione (es. presenza di più trasportatori).
La stampa delle schede sistri in bianco si effettua accedendo al sistri con il dispositivo Usb, selezionando nella homepage utente «moduli in bianco per schede sistri» e digitando il numero di moduli desiderati ognuno dei quali riporterà un proprio numero identificativo. La riconciliazione della scheda sistri in bianco si effettua accedendo al Sistri con il dispositivo Usb, selezionando nella homepage utente «moduli in bianco per schede Sistri» e digitando il numero identificativo, della scheda Sistri in bianco che si intende riconciliare, nell'apposita sezione della schermata relativa a tale operazione.
Il destinatario è tenuto ad effettuare la registrazione cronologica di carico per il rifiuto accettato entro 2 giorni lavorativi pertanto anche la compilazione e firma della sezione della scheda sistri di propria competenza deve effettuarsi entro tali termini (articolo ItaliaOggi del 23.11.2013).

ENTI LOCALIContributi, confini Iva. Imposta solo se c'è servizio o bene ceduto. P.A./ Circolare delle Entrate sui trattamenti per le somme erogate.
I contributi dati dalla pubblica amministrazione a soggetti, pubblici o privati, rientrano in campo Iva quando costituiscono il compenso per un servizio effettuato o per un bene ceduto. Al contrario, non si applica l'Iva quando chi riceve il contributo non è obbligato a rendere alcuna controprestazione.
Con la circolare 21.11.2013 n. 34/E l'Agenzia delle entrate detta le regole, condivise con la Ragioneria generale dello stato, da seguire per inquadrare, caso per caso, le somme erogate dalla p.a. e tracciare il confine tra le due tipologie di pagamenti ai fini Iva, laddove non siano immediatamente riconducibili al quadro normativo di riferimento.
Differenze tra contributi e corrispettivi. Si parla di contributi pubblici, spiega un comunicato dell'Agenzia, quando la p.a. non opera all'interno di un rapporto contrattuale, cioè quando le erogazioni sono effettuate secondo norme che prevedono l'erogazione di benefici al verificarsi di presupposti definiti. Si parla, invece, di corrispettivi quando le erogazioni sono conseguenti alla stipula di contratti pubblici, oppure, al di fuori di questi, nelle ipotesi in cui ciò è consentito dalla legislazione sulle attività negoziali delle p.a.
C'è Iva se i risultati dell'attività finanziata vanno alla p.a. I pagamenti della p.a. destinati a un privato «attraggono» l'Iva se prevedono un rapporto di scambio tra i due attori da cui deriva un vantaggio diretto ed esclusivo per la pubblica amministrazione perché, per esempio, acquisisce la proprietà del bene. In questo caso, infatti, ci si trova davanti a una prestazione e controprestazione che rientra nello schema contrattuale.
Clausole risolutive o penalità per inadempimento portano «corrispettività». Le erogazioni della pubblica amministrazione rientrano nell'ambito del rapporto contrattuale quando in convenzione, anche tramite norme di rinvio, sono presenti clausole risolutive o di penalità per inadempimento. L'Agenzia precisa che anche se mancano queste clausole ci si può comunque trovare di fronte a un'erogazione corrispettiva. L'attività finanziata, infatti, può comunque concretizzare un'obbligazione il cui inadempimento comporterebbe una responsabilità contrattuale (articolo ItaliaOggi del 22.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAuto, variazioni Sistri via web. Comunicazioni dalle sezioni dell'albo gestori ambientali. Circolare ministeriale sulle procedure relative al sistema di tracciamento dei rifiuti.
In caso di cessione della disponibilità degli autoveicoli sottoposti alla disciplina Sistri saranno le sezioni regionali dell'albo gestori ambientali che comunicheranno al Sistri le variazioni. Le sezioni regionali dell'albo dovranno così provvedere a trasmettere in via telematica al Sistri gli estremi del fascicolo Sistri e del veicolo a motore, oggetto della cancellazione dall'albo. Specificando la causale: compravendita, usufrutto, locazione e comodato senza conducente.

È quanto si legge nella nota 05.11.2013 n. 1192 di prot. del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio rubricata «variazioni della disponibilità degli autoveicoli sottoposti alla disciplina Sistri».
Con questa nota di prassi il comitato nazionale, in accordo con il concessionario Sistri, ha stabilito le procedure per la variazione dell'iscrizione all'albo del parco dei veicoli a motore sottoposti alla disciplina sul Sistri. I casi di variazione che comportano una variazione dell' iscrizione all'albo del parco veicoli a motore dell'azienda riguardano la compravendita, l'usufrutto, la locazione senza conducente, e il comodato senza conducente.
L'impresa cedente presenta alla sezione regionale la richiesta di cancellazione dell'autoveicolo e contestualmente riconsegna alla sezione i dispositivi Ubs associati al veicolo. Con questa richiesta l'impresa dichiara di mantenere la responsabilità della black box installata. In assenza di questa domanda dell'acquirente, il cedente è obbligato entro 60 giorni dalla presentazione della domanda di cancellazione a provvedere alla immediata disinstallazione della black box fissando con la sezione regionale dell'albo l'appuntamento presso l'officina autorizzata.
Le sezioni regionali dell'albo, deliberata la variazione dell'iscrizione nei casi in cui è richiesta l'emanazione del provvedimento, oppure effettuate le opportune modifiche negli altri casi, dovranno trasmettere in via telematica al Sistri gli estremi del fascicolo Sistri e del veicolo a motore, oggetto della cancellazione dall'albo. Specificando la causale (compravendita, usufrutto, locazione e comodato senza conducente). Il Sistri provvede immediatamente alla disattivazione del dispositivo oggetto della cancellazione dall'albo nonché a trasmettere contestualmente per via telematica alla sezione regionale l'accoglimento della domanda di cancellazione senza disinstallazione.
L'impresa acquirente presenta la richiesta di variazione per incremento dell'autoveicolo del quale l'impresa cedente ha già chiesto la cancellazione. La sezione regionale dell'albo, deliberata la variazione dell'iscrizione invia telematicamente al Sistri gli estremi del fascicolo Sistri e dell'autoveicolo oggetto dell'incremento all'albo. Questa circolare completa e integra i contenuti della circolare n. 350/2011 relativa alle modalità di installazione e di disinstallazione della black box in caso di inserimento o di cancellazione di mezzi dal parco veicoli aziendale (articolo ItaliaOggi del 20.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, registri fino ad agosto. Gli obblighi tradizionali vanno in parallelo con il Sistri. Tutti i chiarimenti sulla tracciabilità nel quadro sinottico diffuso dal Minambiente.
Sistri obbligatorio per i vettori stranieri che eseguono anche solo brevi spostamenti di rifiuti sul territorio nazionale. Divieto di applicazione del regime agevolato per la «micro-raccolta» dei rifiuti oltre ai casi previsti. Necessità di osservare fino al 01.08.2014, insieme a quelli Sistri, i tradizionali obblighi di tracciamento dei rifiuti costituiti da registri di carico/scarico e formulario di trasporto.

Questi alcuni dei chiarimenti rintracciabili nelle risposte fornite dal Minambiente ai diversi quesiti posti dalle associazioni di categoria sugli aspetti applicativi del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti e cristallizzate in un «Quadro sinottico» pubblicato sul portale www.sistri.it lo scorso 11.11.2013.
Il contesto. Il documento segue a stretto giro la circolare del 31.10.2013 n. 1 con la quale lo stesso Dicastero ha recato i primi chiarimenti sulla legge 125/2013 che, nel convertire il dl 101/2013, ha confermato la partenza del Sistri dal 01.10.2013 per i gestori di rifiuti speciali pericolosi e dal 03.03.2014 per i produttori iniziali degli stessi. Il tutto allungando fino al 01.08.2014 il periodo di sospensione delle relative sanzioni ma pretendendo, parallelamente ai nuovi obblighi, l'adempimento di quelli già vigenti relativi alle storiche scritture ambientali (cd. «regime transitorio binario»).
Soggetti obbligati al Sistri. A parere del Dicastero gli unici «nuovi produttori» di rifiuti (soggetti rientranti tra i gestori) non soggetti agli obblighi Sistri (in quanto tali, dalla citata data del 01.10.2013) sono quelli che trattano esclusivamente rifiuti «non pericolosi» dai quali producono «rifiuti non pericolosi». Sono invece soggetti al Sistri i vettori esteri che effettuano anche piccoli servizi di autotrasporto all'interno del territorio Italiano (cd. «trasporto di cabotaggio»).
Termini di operatività del sistema. I gestori di veicoli fuori uso sono tenuti ad adottare il Sistri già dal 01.10.2013, e ciò sia nelle loro vesti di recuperatori o smaltitori sia in quelle di «nuovi produttori» di rifiuti. Dalla stessa data del 01.10.2013 sono obbligati i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che effettuano anche operazioni di trattamento, recupero e smaltimento dei propri rifiuti. Ciò in quanto, limitatamente a tali operazioni, essi rientrano nel novero dei «gestori». Scatta invece solo dal 03.03.2014 (ossia secondo il termine iniziale stabilito per la generalità dei «produttori iniziali» di rifiuti) l'obbligo Sistri per gli enti e le imprese che trasportano rifiuti speciali pericolosi da loro prodotti.
Obblighi procedurali Sistri. Per il Dicastero la procedura di tracciamento semplificato Sistri prevista per la «micro-raccolta» non è estensibile a tutte le procedure di movimentazione dei rifiuti. La procedura agevolata disegnata dal dm 52/2011 (cd. «Testo unico Sistri) che consente flessibilità di itinerario ed elasticità nei modi e tempi di compilazione delle schede Sistri va infatti applicata solo alle ipotesi cui espressamente si riferisce. Per quanto attiene, infine, agli obblighi dei produttori di rifiuti pericolosi che li consegnano a trasportatori, il Dicastero ricorda come la procedura Sistri imponga la conservazione della copia stampata della scheda Sistri - Area Movimentazione che gli trasmette il gestore (cui i rifiuti sono recapitati) o la segnalazione che la scheda non gli è pervenuta.
Regime transitorio. In più di uno dei pareri recati dal nuovo «Quadro sinottico» il Minambiente sottolinea come durante il (citato) «doppio binario» la copia della nuova «scheda Sistri» prodotta dal trasportatore di rifiuti non sostituisce il tradizionale formulario di movimentazione dei rifiuti, la cui omessa tenuta è sanzionata (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

AMBIENTE ECOLOGIAAutorizzazione unica per tutte. Escluse soltanto le imprese sottoposte ad Aia e Via. Nella circolare del 7 novembre meglio definita la platea degli obbligati alla nuova Aua.
L'Autorizzazione unica ambientale si applica a tutte le imprese, grandi o piccole che siano, non soggette alla diversa procedura di «Aia» (o di «Via» non parziale). Per esse l'«Aua» costituisce la strada su cui occorre obbligatoriamente transitare per chiedere i titoli abilitativi individuati dal dpr 59/2013, tranne nei casi in cui essi coincidano con una mera «comunicazione» all'Autorità o con l'adesione ad una sua «autorizzazione generale».

Questi i primi chiarimenti offerti dal Minambiente con la propria circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot. sul campo di applicazione della nuova disciplina autorizzatoria ambientale attivabile esclusivamente tramite i Suap (gli Sportelli unici delle attività produttive di competenza comunale) recata dal dpr 59/2013 e in vigore dallo scorso 13.06.2013.
Soggetti ammessi e soggetti esclusi. Il dpr 59/2013 prevede a monte che l'Aua trovi applicazione in relazione a tre categorie di soggetti: piccole e medie imprese rientranti nei parametri disegnati dal dm 18.04.2005; imprese non soggette ad Autorizzazione integrata ambientale (c.d. Aia»); imprese obbligate a Valutazione di impatto ambientale solo «parziale» (la «Via» da integrare con altri e necessari atti autorizzatori). Il Minambiente affronta, in particolare, il rapporto tra il primo e il secondo dei citati presupposti applicativi, chiarendo come quest'ultimo criterio «assorba» (nel tenore letterale della circolare) il primo.
Ragion per cui, deduce il dicastero, è soggetto ad Aua ogni impianto non obbligato alla diversa disciplina Aia, anche quando il gestore sia una grande impresa. Dal carattere di preminenza evidenziato dal Minambiente appare quindi desumibile che anche le piccole e medie imprese devono ben essere escluse dalla procedura di «Aua» se svolgono una delle attività particolari per le quali l'Allegato VIII alla Parte II del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») impone l'Aia (attività tra le quali figurano alcune lavorazioni proprie dell'industria chimica e della gestione dei rifiuti).
Quando è obbligatoria. Il dpr 59/2013 riconduce nell'Aua sette «titoli» autorizzatori base (cui regioni e province autonome hanno facoltà di aggiungerne ulteriori) lasciando però la facoltà agli interessati di richiedere quelli per propria natura già oggetto di procedura semplificata (come le «comunicazioni» e l'adesione alle c.d. «autorizzazioni generali») in via autonoma e senza ricorrere alla nuova procedura unica, purché si agisca sempre tramite il «Suap».
È sulla collocazione di tale soglia (obbligo/facoltà) che il dicastero interviene, offrendo chiarimenti in merito ad alcuni casi particolari che vedono il concorso di più titoli tra i «sette» previsti dall'articolo 3, comma 1, del dlgs 59/2013, ossia: autorizzazione allo scarico nelle acque ex dlgs 152/2006; comunicazione preventiva per utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del settore ex dlgs 152/2006; autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex articolo 269, dlgs 152/2006; «autorizzazione generale» per le emissioni scarsamente rilevanti in aria ex articolo 272, dlgs 152/2006; nulla osta alle emissioni sonore ex legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali; autorizzazione per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura ex dlgs 99/1992; comunicazione per auto-smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura semplificata ex dlgs 152/2006.
Il dicastero sottolinea innanzitutto che il ricorso all'Aua è obbligatorio ogniqualvolta l'impianto debba ottenere il rilascio, la formazione, il rinnovo o l'aggiornamento di uno dei «titoli abilitativi» previsti dal citato articolo 3, comma 1, del dpr 59/2013 ma non inclusi (anche) tra quelli oggetto di espressa eccezione da successive disposizioni del decreto stesso.
E quando non lo è. Chiarisce di conseguenza la circolare che il gestore non è obbligato ad utilizzare l'Aua: ove l'impianto sia soggetto esclusivamente a «comunicazione» e/o ad «autorizzazione generale alle emissioni» (eccezione prevista dall'articolo 3, comma 3); qualora intenda aderire alla citata «autorizzazione generale alle emissioni» (deroga ex articolo 7, comma 1).
In particolare, il dicastero fa luce su tre situazioni limite che vedono il concorso di più titoli. In caso di attività sottoposta sia a «comunicazione» che a ordinario titolo abilitativo di carattere autorizzatorio il ricorso all'Aua è obbligatorio per tutti gli adempimenti; ciò in quanto non si rientra (sottolinea il Minambiente) né sotto l'eccezione prevista dal citato comma 3, articolo 3, del dpr 59/2013 (che rende facoltativa l'Aua se si deve effettuare esclusivamente una comunicazione e/o aderire ad una autorizzazione generale) né sotto l'eccezione prevista dal ricordato comma 1, articolo 7, del dpr 59/2013 (che fa sempre salva l'autonomia della procedura di adesione all'«autorizzazione generale» alle emissioni).
Ancora, in caso di attività sottoposta sia alla «autorizzazione di carattere generale» che a ordinari titoli abilitativi di carattere autorizzatorio il gestore conserva la facoltà di presentare autonoma istanza di adesione (sempre tramite «Suap») solo in relazione alla «autorizzazione generale». Infine, nel caso di attività sottoposte unicamente a più comunicazioni o autorizzazioni di carattere generale, il ricorso all'Aua è sempre facoltativo.
Quando fare la prima richiesta. La nuova disciplina Aua si applica, per espressa disposizione dpr 59/2013, alle domande di autorizzazione da presentarsi dal 13.06.2013 in poi (data di entrata in vigore del provvedimento) in occasione della scadenza del primo titolo abilitativo da essa sostituito. La circolare del minambiente chiarisce che in caso di titolo autorizzatorio per il quale l'Aua è obbligatoria, la domanda deve necessariamente (e non facoltativamente) essere presentata entro la scadenza indicata. E per il dicastero il termine di scadenza cui fare riferimento è quello previsto dalle norme di settore che disciplinano il titolo da rinnovare.
L'applicazione della disciplina di settore in luogo di quella generale ex dpr 59/2013, sottolinea il ministero, è infatti in questo caso (più che un ossequio al principio di specialità) un atto necessario per consentire ai richiedenti la prosecuzione della propria attività nelle more del rilascio dell'Aua, facoltà che solo le specifiche norme prevedono (tacendo invece il decreto sul punto) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOAutoclave, caldaie, cancelli: il problema va segnalato all'amministratore.
Una delle principali fonti di discussione tra condomini è rappresentata dal rumore proveniente dai vicini. Ma accade spesso che il singolo condomino sia disturbato anche dal rumore eccessivo proveniente dagli impianti comuni (ascensore, autoclave, caldaia, scatto automatico del cancello comune ecc.).

In tale ultimo caso è opportuno denunciare il problema al responsabile della gestione degli impianti comuni, cioè all'amministratore di condominio. Quest'ultimo, al fine di verificare il rispetto dei limiti massimi di rumorosità, si può rivolgere a un tecnico competente in acustica (o al comune, che inoltra la richiesta all'Arpa, Agenzia regionale protezione ambiente).
Se l'amministratore non interviene o non prende provvedimenti in un tempo ragionevole non resta che ricorrere all'autorità giudiziaria (competente in questa materia è il giudice di pace) con una causa che va intentata contro il condominio.
Quando il rumore degli impianti è intollerabile.
Il condomino che è disturbato dai rumori provenienti dagli impianti condominiali si può tutelare chiedendo al condominio il rispetto del limite della cosiddetta normale tollerabilità prevista dalla legge. Stabilire quando tale limite è superato non è facile perché lo stesso è variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona. In ogni caso se il rumore degli impianti rimane entro i livelli massimi fissati dalle normative di tutela ambientale ciò non costituisce circostanza sufficiente a escludere in concreto l'intollerabilità delle immissioni mentre, al contrario, il superamento di detti livelli deve ritenersi senz'altro illecito.
Secondo i giudici, però, per valutare se un rumore supera o meno il limite di legge è necessario effettuare due misurazioni: quella relativa all'immissione di rumore, quando la sorgente in esame è funzionante, e quella del cosiddetto rumore di fondo, quando detta sorgente non è funzionante. L'immissione di rumore non deve superare il limite massimo della normale tollerabilità, che è uguale a 3 decibel oltre il rumore di fondo. Da sottolineare che se questo limite in una prima rilevazione non risulta superato non è detto che invece risulti intollerabile poco tempo dopo.
Come hanno spiegato recentemente i giudici, infatti, i rumori degli impianti possono cambiare nel tempo in relazione a una molteplicità di fattori (frequenza d'uso della fonte, sua manutenzione, intensità volumetrica, additivi di ogni tipo, modifica del rumore di fondo ecc.). In altre parole il funzionamento per lunghi periodi degli impianti rende inevitabile il deteriorarsi di meccanismi, cuscinetti e guarnizioni che assicurano nei macchinari la riduzione del rumore metallico.
La stanza da letto del condomino vicino alla caldaia.
Non c'è dubbio, per esempio, che un condomino abbia il pieno diritto di godere secondo le sue personali abitudini ed esigenze la propria camera da letto, anche se questa sia confinante con il vano caldaia che emette rumori fastidiosi anche di notte. In tal caso, come già accaduto, il giudice può ordinare, invece che il divieto dell'uso dell'impianto, l'esecuzione di opere atte a eliminare i rumori o a ricondurli nei limiti della tollerabilità.
Così, per esempio, la centrale termica può essere collocata su un pavimento galleggiante, si possono installare giunti elastici sulle tubazioni, elementi antivibranti di supporto delle pompe di circolazione, una cuffia sul bruciatore ecc. Se però tali rimedi non sono sufficienti è possibile pure ordinare al condominio la rimozione della centrale termica condominiale dal luogo in cui era stata installata in altro locale insonorizzato.
Il problema dell'autoclave e dell'ascensore
Un disturbo insopportabile può provenire anche da un'autoclave o dall'ascensore condominiale, anche se tali impianti producono una rumorosità discontinua dovuta agli avviamenti e alle fermate: in tal caso il livello sonoro che meglio rappresenta il disturbo è rappresentato dai picchi massimi raggiunti. Tuttavia anche in queste ipotesi le immissioni intollerabili, seppure discontinue, sono da considerare certamente dannose.
Per l'ascensore è possibile eliminare il disturbo imponendo al condominio di intervenire con l'installazione di supporti antivibranti dell'argano-motore, l'insonorizzazione del locale tecnico e, negli ascensori vecchi, di attutire l'impatto della chiusura delle ante della cabina. Per quanto riguarda l'autoclave, se il ricorso all'installazione di pannelli isolanti o rimedi simili non risolve i problemi del singolo condomino, non rimane che ordinare la rimozione dell'autoclave da collocare poi in altro luogo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALILa trasparenza della Pa finisce in un maxi-ingorgo. Entro gennaio vanno adottati 12 tra piani e codici.
Dodici documenti tra piani, codici e relazioni da adottare nel giro di 75 giorni. Tanti ne restano da qui al 31 gennaio, scadenza-simbolo alla quale è ancorata l'approvazione sia del primo piano anti-corruzione, sia del programma triennale per l'integrità e la trasparenza.
La situazione è il frutto dell'accavallarsi di una serie di leggi e norme tutte nate con l'obiettivo di rendere più trasparente, limpida e corretta l'azione amministrativa: dalla legge 190/2012 anti-corruzione, ai decreti legislativi 33 e 39 del 2013, rispettivamente sulla trasparenza e sull'incompatibilità degli incarichi.
Il risultato concreto è che ora le amministrazioni pubbliche si trovano alle prese con un maxi-ingorgo di adempimenti, con il rischio che l'adesione a queste norme si trasformi in un ulteriore diluvio di carta, perdendo di vista gli obiettivi iniziali. Ma vediamo il calendario.
Appena archiviati gli ultimi due impegni (il 20 ottobre era il termine ultimo per pubblicare online i dati sull'attività amministrativa aggregata, mentre il 1° novembre andava completata la relazione sui servizi accessibili in rete), la maratona della trasparenza riparte con l'appuntamento del 18 dicembre. Entro questa data, infatti, tutti gli enti pubblici dovranno dotarsi di un Codice di comportamento integrativo di quello nazionale. Peccato che le istruzioni della Civit (appena trasformata in Anac, autorità anti-corruzione) siano state rese note solo il 7 novembre scorso. E le questioni controverse sono ancora molte. Giuliano Palagi, direttore generale della provincia di Pisa e docente ai corsi sulla legalità, cita il caso dei regali ai dipendenti pubblici: «Molti si interrogano su dove va posizionata l'asticella dei regali ammessi».
Chi supera lo scoglio del Codice non ha tempo per tirare il fiato: oltre ai classici rendiconti e relazioni di fine anno (tra queste quelle degli organismi interni di valutazione su come ogni amministrazione sta reagendo agli obblighi di trasparenza) c'è in vista il traguardo più importante: il primo Piano triennale di prevenzione della corruzione da approvare, insieme con il programma triennale per la trasparenza e l'integrità entro il prossimo 31 gennaio. E, sempre entro gennaio, va concluso il lavoro anche sul piano della performance, senza il quale -particolare non da poco- l'ente pubblico non può assumere né distribuire i premi di risultato.
Facile immaginare l'affanno in cui si trova la gran parte delle amministrazioni. Le grandi realtà hanno cominciato a muoversi per tempo (a Milano, per esempio, si lavora al piano anti-corruzione da febbraio); molto più difficile è la situazione nei piccoli Comuni che, almeno dal punto di vista degli adempimenti, non hanno sconti. Ovvio che le adesioni ai corsi e ai seminari per i tecnici sono massicce: oltre alle attività del Formez, anche altre associazioni si stanno muovendo. Sommersa di richieste, per esempio, è Avviso pubblico, l'associazione che riunisce 240 tra Comuni, Province e Regioni nata per diffondere la cultura della legalità e della trasparenza nella Pubblica amministrazione..
«Nei nostri ultimi due seminari gratuiti con Anci Lombardia abbiamo dovuto chiudere in anticipo le iscrizioni» commenta il coordinatore nazionale Pierpaolo Romani. L'associazione offre alle Pa due strumenti concreti: la «Carta di Pisa», un codice etico già adottato da 22 enti locali, e una matrice di valutazione del rischio, sperimentata nel comune milanese di Corsico. Si inseriscono alcuni parametri indicatori della propria realtà e si riesce così a definire, caso per caso, gli indici di rischio corruzione nei vari settori. «Altrimenti il pericolo è di assistere a un generale copia-e-incolla dei piani che vanificherebbe la portata di questi importanti presidi» sottolinea Romani.
Del resto, proprio la valutazione del rischio richiesta dal piano anti-corruzione è una novità per la Pa: «Finora era riservata solo alle assicurazioni -commenta Palagi- e pochi sanno come impostarla in modo efficace nelle pubbliche amministrazioni». La traccia da seguire è quella del Piano nazionale, prediposto dalla Funzione pubblica e approvato dalla Civit l'11 settembre scorso.
«Sono ottimista, credo che molte amministrazioni rispetteranno la scadenza di gennaio -prevede Andrea Campinoti, sindaco di Certaldo (Firenze) e presidente di Avviso pubblico- anche se proprio l'arrivo del Piano nazionale sta spingendo molti in questo momento a fermarsi per rivedere il lavoro svolto finora» (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

CONDOMINIOVia rapida per riscuotere le spese condominiali. Prima applicazione dell'obbligo di agire entro sei mesi. Dopo la riforma. All'amministratore non serve più l'autorizzazione dell'assemblea.
Corsia rapida per recuperare i contributi dai condomini morosi. L'amministratore, infatti, può ottenere un decreto di ingiunzione al pagamento immediatamente esecutivo in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea senza che ci sia bisogno di un'autorizzazione ad hoc da parte dell'assemblea stessa. Né è necessario mettere in mora preventivamente il condomino inadempiente, neanche quando lo preveda una clausola del regolamento di condominio.

Sono questi alcuni dei profili precisati dalla giurisprudenza negli ultimi mesi, dopo l'entrata in vigore, lo scorso 18 giugno, delle novità introdotte dalla riforma del condominio (legge 220 del 2012).
Inoltre, sempre secondo la riforma, l'amministratore deve agire entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso. Attenzione: nel caso –piuttosto comune– degli esercizi scaduti al 30 giugno, al termine mancano poche settimane.
La riscossione
In particolare, la riforma ha modificato l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, in parte ricalcando una prassi condominiale consolidata. Il nuovo articolo 63 chiarisce, appunto, che all'amministratore non occorre l'autorizzazione dell'assemblea per ottenere un decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante opposizione, per riscuotere i crediti dai condomini morosi.
Ma il decreto non può essere emesso se la spesa non è stata prima approvata dall'assemblea. Infatti, perché il giudice pronunci ingiunzione di pagamento, in base all'articolo 633 del Codice di procedura civile, è necessario che sia dia prova scritta del diritto fatto valere. Questa prova scritta, nel caso dei contributi condominiali, è costituita dal documento da cui risulta l'approvazione da parte dell'assemblea della relativa spesa.
Il mancato puntuale pagamento delle quote da parte dei condomini potrebbe creare problemi all'amministratore, non essendo in grado di fronteggiare gli impegni assunti per conto dei condòmini. Tuttavia, l'amministratore che non avvia la procedura esecutiva per riscuotere gli oneri condominiali dai condomini morosi non commette automaticamente un atto di cattiva gestione. Infatti, l'amministratore non è responsabile se prova di avere notificato ai condomini gli atti di precetto. Poi, il fatto di non avere intrapreso la procedura esecutiva vera e propria si giustifica –secondo l'ordinanza 20100 del 2 settembre scorso della Cassazione– sulla base della non sicura solvibilità dei condomini.
I rapporti con i terzi
La tempestività nella riscossione forzosa delle somme da parte dell'amministratore, che –in base al nuovo testo dell'articolo 1129, comma 9, del Codice civile– deve essere fatta entro sei mesi dalla chiusura del l'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, evita di esporre i condomini morosi alle azioni di recupero da parte dei terzi creditori.
In passato, la responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte dal condominio seguiva la regola della solidarietà verso i creditori e della parziarietà nei rapporti interni. In caso di morosità nei pagamenti di alcuni condomini per un debito del condominio verso terzi (ad esempio, per lavori), il creditore poteva agire, per il recupero del suo credito, per l'intero importo direttamente nei confronti di un solo condomino il quale, a sua volta, poteva agire, in via di regresso, pro quota, nei confronti dei morosi.
La situazione è cambiata dopo la sentenza 9148 del 2008 delle Sezioni unite della Cassazione, che ha introdotto il principio della parziarietà, per cui le obbligazioni e la conseguente responsabilità dei condomini sono passate a essere governate dal criterio della parziarietà: vale a dire che ogni condomino risponde soltanto per la propria quota di competenza. Secondo le Sezioni unite, infatti, «considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile trattandosi di somma di denaro, che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'articolo 1123 del Codice civile non distingue il profilo esterno da quello interno (...), le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio della parziarietà».
La riforma del condominio ha ora reintrodotto la solidarietà del debito del condominio, precisando, però, che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini. I creditori devono cioè dimostrare di avere agito nei confronti del moroso che non vuole pagare e di non potersi soddisfare sul patrimonio di quest'ultimo prima di rivolgersi ai condomini in regola.
Inoltre, per rendere il quadro trasparente, l'amministratore è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

APPALTIIl credito certo con la Pa ora «sblocca» il Durc. Rilascio possibile anche se c'è un debito previdenziale. Regolarità contributiva. Resta il potere di riscossione coattiva degli enti coinvolti.
Le aziende che hanno crediti nei confronti della Pubblica amministrazione non perdono il diritto a ottenere dagli uffici il documento unico di regolarità contributiva (Durc).

È il chiarimento principale contenuto nella circolare 21.10.2013 n. 40/2013, emanata dal ministero del Lavoro.
In realtà, le specifiche ministeriali seguono le disposizioni normative introdotte su questa materia dal Dm del 13.03.2013 (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 165 del 16.07.2013), che ha dato attuazione al comma 5 dell'articolo 13-bis, del decreto legge 52/2012 (convertito dalla legge 94/2012): questa norma stabilisce, infatti, che il Durc «positivo» possa essere rilasciato in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza e l'importo di crediti certi, liquidi ed esigibili nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da uno stesso soggetto.
In sostanza, con questo intervento, è stata finalmente superata la criticità di ottenere il Durc, per le imprese che –pur avendo posizioni debitorie nei confronti di Inps, Inail e/o Casse edili– a loro volta sono creditrici nei confronti della Pubblica amministrazione.
Il principio generale
Il principio che regola il rilascio del Durc in queste situazioni, però, è strettamente correlato al regime che disciplina l'intervento sostitutivo delle stazioni appaltanti, in caso di irregolarità contributiva dell'operatore economico. Nell'alveo dei contratti pubblici, questo principio (articolo 3, comma 1, lettera b), del Dpr 207/2010) comporta che il pagamento dell'importo oggetto di liquidazione da parte della stazione appaltante in relazione alla fase del contratto, sia effettuato a favore degli istituti creditori dei contributi omessi dall'operatore economico.
Lo stesso meccanismo scatta altresì quando il Durc è stato richiesto per l'erogazione di sovvenzioni, benefici normativi e contributivi e altri sussidi. Anche questo aspetto, infatti, è stato toccato dal Dl 69/2013. Il ministero del Lavoro, con la circolare 36/2013, ha chiarito che la Pa deve acquisire il Durc prima di erogare alle imprese sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici.
La circolare 40/2013 dello stesso ministero sottolinea, dunque, che: «data la sostanziale posizione debitoria nei confronti degli Istituti e/o delle Casse edili, gli stessi conservano tutte le facoltà inerenti il potere sanzionatorio e di riscossione coattiva previste in caso di inadempimento dei versamenti contributivi», tra cui, appunto, l'intervento sostitutivo.
I crediti vanno certificati
Passando invece ai dettagli operativi per ottenere il Durc in presenza delle situazioni descritte, gli enti previdenziali e le Casse edili sono tenuti a rilasciare il documento alle imprese che hanno ottenuto la certificazione di uno o più crediti nei confronti della Pa. Il presupposto per poter operare in questo ambito è dunque che i crediti siano stati certificati, secondo quanto previsto in materia dalle indicazioni di prassi del ministero dell'Economia e, in particolare, dalle circolari 35/2012, e 17, 19, 30 del 2013.
La richiesta
Sulle modalità di rilascio, se ci si trova in una delle ipotesi in cui a richiedere il Durc è un ufficio della Pa, sarà l'azienda interessata –nella fase di avvio del procedimento– a dover dichiarare l'esistenza del credito, indicando la data della certificazione, il numero di protocollo, l'importo del credito stesso e l'amministrazione che ha rilasciato la relativa certificazione.
Sarà necessario, inoltre, fornire il codice tramite il quale potrà essere verificata la certificazione, nella piattaforma informatica costituita ad hoc: in pratica, si tratta di un archivio a cui accedono gli Istituti previdenziali e le Casse edili per verificare l'esistenza del credito.
A livello operativo, senza passare attraverso l'amministrazione richiedente, la certificazione potrà essere presentata direttamente agli enti previdenziali e/o alle Casse edili dall'azienda, nel momento in cui riceve il preavviso dell'irregolarità (ed entro la scadenza assegnata per sanarla).
Quando il canale informatico avrà raggiunto la sua piena funzionalità (la piattaforma deve essere ancora implementata), l'interessato non dovrà più comunicare agli enti tutti i dati sulla certificazione, ma saranno direttamente questi a poterli visualizzare (lo ha precisato anche l'Inail con la circolare 53/2013 dell'11 novembre).
Gli enti coinvolti nel rilascio del Durc, verificata la certificazione del credito tramite il sistema della piattaforma, potranno quindi emettere il documento, che dovrà riportare la dicitura «Durc ex art. 13-bis, comma 5, Dl n. 52/2012».
Anche nel caso in cui il Durc sia richiesto direttamente dall'interessato (usando il portale www.sportellounicoprevidenziale.it) si possono inviare i dati tramite posta elettronica certificata (Pec), o con esibizione agli Istituti e alle Casse. 
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Per il saldo lavori il documento va sempre chiesto.
Le regole sul Durc sono in continua evoluzione: l'ultimo intervento sulla materia è avvenuto con il Dl 69/2013 (convertito dalla legge 98/2013).
Sulla validità, è stato previsto che il Durc acquisito ai fini dei contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture abbia una durata di 120 giorni dalla data del rilascio. Questa disciplina, essendo stata introdotta in sede di conversione del Dl, è entrata in vigore il 21 agosto scorso ed è applicabile esclusivamente ai documenti rilasciati a partire da quella data: quelli emessi prima godono invece di una validità di 90 giorni, così come previsto dal regime precedente.
Le modifiche introdotte riguardano poi la previsione in base alla quale –dopo il primo Durc (richiesto dalla Pa ai vincitori di gare d'appalto a conferma dell'autocertificazione del concorrente)– gli enti non devono richiedere un altro documento di regolarità contributiva, dopo la stipula del contratto, ma solo al verificarsi, concretamente, delle ipotesi di pagamento degli stati di avanzamento lavori e per il certificato di collaudo, di regolare esecuzione, di verifica di conformità.
In sostanza, viene così meno l'obbligo per le stazioni appaltanti di acquisire diversi Durc in occasione di ogni stato di avanzamento lavori ma si realizzano tre distinte fattispecie, in relazione alle fasi del contratto pubblico.
In base alla prima, il Durc per la verifica della dichiarazione sostitutiva sulla regolarità contributiva previsto dall'articolo 38 del Codice dei contratti (Dlgs 163/2006) e quello previsto per l'aggiudicazione e la stipula del contratto, ha validità di 120 giorni, con decorrenza dalla data di verifica della dichiarazione sostitutiva, indicata nel documento.
La seconda casistica si riferisce invece alle fasi successive alla stipula del contratto: pagamento di fatture o stati di avanzamento lavori (Sal), certificato di collaudo, certificato di regolare esecuzione o verifica di conformità, attestazione di regolare esecuzione.
In questi casi, il Durc è richiesto solo per lo stato di avanzamento lavori e il certificato di collaudo o di regolare esecuzione, ferma restando la validità per ogni documento, confermata a 120 giorni.
Nell'ultima fase, quella del pagamento del saldo finale, bisogna sempre acquisire un nuovo Durc, poiché non è prevista l'estensione di validità dei documenti richiesti nelle fasi precedenti, anche se non ancora scaduti. L'articolo 31, comma 3, del Dl 69/2013 ha ribadito quanto già previsto dal regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici: nell'ipotesi in cui il Durc segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le amministrazioni sono tenute a trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inottemperanza, versando quanto dovuto dall'appaltatore o dal subappaltatore direttamente all'Inps, all'Inail o alla Cassa edile (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

TRIBUTIBilanci. Caos a dieci giorni dall'adozione dei bilanci, ma la legge 102/2013 prevede espressamente il ritorno ai vecchi tributi.
Impossibile lo stop alla Tarsu. Nonostante la frenata del Governo, i Comuni possono scegliere fra sei prelievi.
Nel 2013 i Comuni possono applicare sei diverse forme di prelievo sui rifiuti.

È questo il quadro che emerge dopo l'approvazione della legge 124/2013. Ma a 10 giorni dall'adozione dei bilanci sono ancora molti gli enti che non hanno deciso cosa fare, in attesa di chiarimenti ufficiali che forse non arriveranno mai. Come la risoluzione ministeriale che avrebbe dovuto stoppare i Comuni con i bilanci già approvati, cioè quelli più efficienti ma penalizzati dall'impossibilità di tornare indietro. Oppure come l'intervento urgente del Governo, chiesto da più parti anche alla luce degli ulteriori dubbi alimentati dalla recente risposta del sottosegretario alle Finanze (si veda Il Sole 24 Ore del 14 novembre), che mette in discussione la possibilità di riapplicare i vecchi prelievi (Tarsu, Tia1, Tia2). Salvo poi affermare, in altra risposta, che i Comuni passati alla Tarsu possono utilizzare gli stessi codici tributo della Tares.
Il comma 4-quater dell'articolo 5 è confuso, ma traspare chiaramente l'intenzione del legislatore di rendere applicabili i vecchi prelievi. Altrimenti non avrebbe alcun senso la deroga all'articolo 14, comma 46, del Dl 201/2011 e l'espresso riferimento al «caso in cui il Comune continui ad applicare per l'anno 2013 la Tarsu». In sostanza quest'anno ci sono sei alternative: Tares ordinaria, Tares derogata, Tares semplificata, Tarsu, Tia1, Tia2.
La prima riguarda i Comuni che applicano integralmente l'articolo 14 del Dl 201/2011 con i criteri del Dpr 158/1999. Ma per gli enti a Tarsu il passaggio alla Tares si è rivelato traumatico, specie per alcune categorie di contribuenti che si sono viste moltiplicare le tariffe, tanto da causare sommosse in diversi centri. Da qui l'esigenza di introdurre alcune deroghe all'impianto originario. Si passa così alla seconda opzione, quella cioè offerta dal comma 1 dell'articolo 5 del Dl 102/2013, che consente di commisurare le tariffe sulla base delle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti, oppure applicando appositi coefficienti.
Peccato però che il Dipartimento delle Finanze non ha chiarito che si trattava di criteri alternativi al Dpr 158/1999 e non cumulativi, circostanza che invece viene precisata nella disciplina del nuovo Trise. Con la conseguenza di rendere difficilmente applicabile tale opzione, di fatto superata dalla Tares semplificata contenuta nella parte centrale del comma 4-quater.
La norma consente di applicare i costi e le tariffe sulla base dei criteri previsti nel 2012 (Tarsu, Tia1, Tia2), mantenendo tuttavia la veste giuridica di Tares. Con l'unico limite di garantire la copertura integrale dei costi, pur senza considerare le voci del Dpr 158/1999. Si tratta dell'opzione al momento più gettonata insieme al ritorno ai vecchi prelievi. Scelta, quest'ultima, che alletta molto i comuni a Tarsu, che continuerebbero così ad applicare le stesse tariffe dell'anno scorso senza la necessità di coprire integralmente i costi del servizio.
Anche il ritorno alla Tia è possibile in virtù della deroga al comma 46, senza che possa costituire ostacolo il riferimento alla sola Tarsu, riguardante però il ricorso alla fiscalità generale dell'ente per coprire i costi eventualmente non coperti dal gettito della tassa. Indicazione superflua nel caso della Tia, che agisce nella logica del pareggio costi-ricavi e deve ovviamente coprire i costi del servizio in conformità al piano finanziario (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

PATRIMONIOFederalismo demaniale. Gli effetti dell'«obolo» del 10 per cento. L'incognita del Patto frena le alienazioni.
Il 10% dei proventi netti derivanti dalle alienazioni immobiliari di Comuni e Province va destinato al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.

Secondo l'articolo 56-bis, comma 11, del Dl 69/2013 gli enti territoriali devono destinare al bilancio statale parte delle risorse nette ricavabili dalla vendita dell'originario patrimonio immobiliare disponibile, salvo l'obbligo di utilizzo delle entrate per il ripristino dei limiti massimi di indebitamento consentiti dall'ordinamento contabile vigente.
La restante parte di risorse non destinabili al Fondo dovrà essere utilizzata per la copertura di spese di investimento oppure, per la parte eccedente, per la riduzione del debito (articolo 1, comma 443, della legge 228/2012).
Le modalità attuative andranno definite con decreto, ma i rischi di censura costituzionale della norma sono evidenti. Già con la sentenza 63 del 26.03.2013, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità di una regola analoga, con cui si prevedeva questo vincolo di destinazione in caso di vendita di terreni agricoli regionali.
Resta il fatto che, in assenza di chiarimenti ufficiali, i bilanci di Comuni e Province dovranno tenere conto della norma e prevedere uno stanziamento in conto capitale per l'ammortamento dei titoli di Stato, oppure costituire un vincolo di destinazione all'eventuale avanzo di amministrazione 2013.
Occorre tuttavia riflettere su alcune difficoltà applicative.
La valorizzazione del patrimonio degli enti locali può infatti comportare la necessità di cessione tramite permuta dei propri immobili, oppure il loro utilizzo secondo le finalità fissate dall'articolo 53, comma 6, del Dlgs 163/2006: in base a questa norma, l'appalto di lavori pubblici può prevedere, a titolo di corrispettivo totale o parziale, il trasferimento all'affidatario della proprietà di beni immobili appartenenti all'amministrazione aggiudicatrice,
In questo caso, l'obbligo di destinazione al bilancio statale di parte dei proventi derivanti dalle alienazioni impone la contabilizzazione netta del valore degli immobili, con evidenti effetti negativi a livello finanziario, economico e patrimoniale per gli enti cedenti.
Anche sulla cessione di aree Peep (piani di edilizia economica popolare), in quanto tecnicamente configurabile alienazione patrimoniale, dovrebbe gravare il vincolo di destinazione imposto dall'articolo 56-bis.
Poiché i proventi da dismissione patrimoniale costituiscono entrata rilevante per il calcolo dei saldi finanziari utili al rispetto del Patto di stabilità interno, occorrerebbe poi chiarire se anche l'uscita ad essi inerente, ma finalizzata ad alimentare il Fondo per l'ammortamento dei titolo di Stato, debba essere considerata, con segno negativo, ai fini della verifica degli obiettivi di finanza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

ENTI LOCALI - PATRIMONIOIndirette. Da gennaio aumenti del 300%. Dal registro stangata per gli enti locali.
È destinata a colpire soprattutto gli enti locali la riforma della tassazione indiretta -Registro e imposte ipocatastali- che dal 01.01.2014 riguarderà i trasferimenti immobiliari. Per tutte le operazioni dei Comuni non assoggettate ad Iva la botta sarà pesante: sul versante delle vendite, ad esempio, non saranno più agevolate le cessioni di alloggi sociali, di aree Peep e/o Pip, di aree o opere di urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione, di immobili di interesse storico-artistico; sul versante degli acquisti, poi, nuove e più pesanti aliquote di tassazione riguarderanno tutti gli acquisti di beni immobili (terreni o fabbricati), compresi gli espropri e i trasferimenti da privati.

A delineare questo scenario è l'articolo 10 del Dlgs 23/2011, che entrerà in vigore dall'anno prossimo. La norma modifica radicalmente la tassazione a Registro dei trasferimenti immobiliari, e incrementa l'imposta fissa da 168 a 200 euro. Nelle operazioni imponibili ad Iva, invece, non ci saranno modifiche apprezabili, dal momento che per, effetto della alternativa Iva/Registro, troverà applicazione l'imposta fissa.
Per la generalità degli atti, l'aliquota base passa dall'8 al 9 per cento; l'unica deroga riguarderà le prime case non di lusso, il cui trasferimento sconterà un'aliquota che passa dal 3 al 2 per cento. Tutte le altre ipotesi di tassazione dei trasferimenti immobiliari previste dall'articolo 1 della Tariffa, parte I° -di solito più favorevoli rispetto all'aliquota dell'8%- vengono abrogate. Allo stesso tempo, l'articolo 10 sopprime tutte le ulteriori agevolazioni, e introduce un minimo fisso da mille euro per i trasferimenti immobiliari.
Altre novità sono state poi introdotte dall'articolo 26 del Dl 104/2013. Per i soli trasferimenti immobiliari, dal 1° gennaio le attuali imposte ipotecarie e catastali verranno sostituite da una tassa fissa di 50 euro per ognuna delle due imposte; nelle altre ipotesi di tassazione l'imposta fissa, oggi fissata in 168 euro per ognuna delle tre imposte (Registro, ipotecaria e catastale), aumenta a 200 euro.
Queste novità rivoluzionano l'articolo 1 della Tariffa, che ora prevede due sole ipotesi di tassazione a Registro degli atti di trasferimenti della proprietà e dei diritti reali su immobili: l'aliquota ordinaria passa dall'8 al 9%, e resta una sola aliquota ridotta per i trasferimenti di prime case non di lusso, che passa dal 3 al 2%: resta in ogni caso ferma la misura minima di 1000 euro: una tassazione che risulta quanto mai regressiva e penalizzante in relazione ai tanti provvedimenti di esproprio di modesto importo. La costituzione di un diritto di servitù o l'esproprio di un reliquato stradale da poche centinaia di euro subirà aumenti di tassazione anche oltre il 300%.
A colpire gli enti locali è anche l'abrogazione di molti "regimi speciali". Rispetto all'attuale imposta fissa di Registro, verrà applicata l'aliquota proporzionale del 9% sugli atti di trasferimento di aree Peep o Pip, le concessioni del diritto di superficie, le cessioni gratuite di aree a Comuni, atti e contratti di attuazione di programmi di edilizia residenziale, gli espropri di aree produttive, gli atti di redistribuzione immobiliare e le operazioni di ricomposizione fondiaria. Stesso incremento di aliquote per le cessioni di aree o opere a scomputo: dato atto che l'articolo 51 della legge 342/2000 esclude da Iva le cessioni nei confronti dei Comuni di aree od opere di urbanizzazione a scomputo o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione. Dal 2014 l'agevolazione sarà ridotta per effetto dell'inasprimento dell'aliquota di Registro, che compenserà quasi del tutto l'esclusione da Iva di queste operazioni.
Molti aumenti colpiranno poi le cessioni di alloggi sociali non soggette ad Iva da parte di Comuni e Iacp, che al posto del Registro fisso di 168 euro sconteranno 100 euro di ipotecaria e catastale più il 2% di Registro (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il rispetto del divieto di edificazione di cui all'art. 338, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, va calcolato con riferimento ad una fascia di rispetto di 200 metri, misurata dal muro di cinta del cimitero, ed entro tale fascia è da escludersi qualsiasi intervento edificatorio, anche se realizzabile in attuazione di atti di natura urbanistica.
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Non può considerarsi edificabile un suolo rientrante nella zona di rispetto cimiteriale, ed assoggettato al relativo vincolo, trattandosi di limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, siccome riconducibile a previsione generale, concernente tutti i cittadini, in quanto proprietari di beni che si trovino in una determinata situazione, e perciò individuabili "a priori".
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La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del vincolo.

Ed invero: “il rispetto del divieto di edificazione di cui all'art. 338, t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, va calcolato con riferimento ad una fascia di rispetto di 200 metri, misurata dal muro di cinta del cimitero, ed entro tale fascia è da escludersi qualsiasi intervento edificatorio, anche se realizzabile in attuazione di atti di natura urbanistica" (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1645 del 2011; meno recentemente ma nello stesso senso, v. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4403 del 2011).
Analogamente la giurisprudenza civile ha ritenuto, in tema di determinazione di indennità espropriativa, che “Non può considerarsi edificabile un suolo rientrante nella zona di rispetto cimiteriale, ed assoggettato al relativo vincolo, trattandosi di limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, siccome riconducibile a previsione generale, concernente tutti i cittadini, in quanto proprietari di beni che si trovino in una determinata situazione, e perciò individuabili "a priori"” ….” (Cass. civ. sez. I, n. 25364/2006).
Né appare potersi derogare a detti principi considerando che tra il muro del cimitero e l’area degli appellati esiste nella fattispecie una grande strada comunale; la “ratio” del vincolo non risiede nella sola tutela delle prospettive di ampliamento ma anche in ragioni di igiene che suggeriscono di tenere le abitazioni sufficientemente distanti dai luoghi cimiteriali.
Del resto, con specifico riferimento all’esistenza di una strada pubblica che interseca l’area di rispetto, la giurisprudenza della Sezione ha già affermato che: “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del vincolo” (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4403 del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio del permesso di costruire l'amministrazione non è tenuta a svolgere complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire, e in specie, verificata l'esistenza di un titolo (in se incontestato) costitutivo di servitù di passaggio carrabile e pedonale a favore del fondo dominante, e come tale idoneo a legittimare la domanda di permesso di costruire, non è tenuta ad operare approfondimenti in ordine alle modalità di esercizio dello jus in re aliena, al fine di valutare se le opere edilizie, finalizzate all'esercizio della servitù, modificative e/o sostitutive di altre opere preesistenti, costituiscano innovazioni più o meno gravose, e quindi escluse ai sensi degli artt. 1065 e 1069 cod. civ., tenuto conto che il permesso è rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, con la connessa facoltà del proprietario del fondo servente di agire dinanzi alla competente autorità giurisdizionale ordinaria per far dichiarare l'illiceità delle nuove e più gravose modalità di esercizio, ai sensi dell'art. 1079 cod. civ..
In sede di rilascio del permesso di costruire l'amministrazione non è tenuta a svolgere complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire (cfr. Cons. Stato. Sez. IV, 08.06.2011 n. 3508 e 10.12.2007, n. 6332), e in specie, verificata l'esistenza di un titolo (in se incontestato) costitutivo di servitù di passaggio carrabile e pedonale a favore del fondo dominante, e come tale idoneo a legittimare la domanda di permesso di costruire (principio affatto pacifico secondo giurisprudenza risalente: cfr. Cons. Stato, Sez. IV 16.03.1984 n. 141) non è tenuta ad operare approfondimenti in ordine alle modalità di esercizio dello jus in re aliena, al fine di valutare se le opere edilizie, finalizzate all'esercizio della servitù, modificative e/o sostitutive di altre opere preesistenti, costituiscano innovazioni più o meno gravose, e quindi escluse ai sensi degli artt. 1065 e 1069 cod. civ., tenuto conto che il permesso è rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, con la connessa facoltà del proprietario del fondo servente di agire dinanzi alla competente autorità giurisdizionale ordinaria per far dichiarare l'illiceità delle nuove e più gravose modalità di esercizio, ai sensi dell'art. 1079 cod. civ. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un'opera pubblica.
Di contro il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione.

Il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un'opera pubblica; di contro il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV 30.07.2012 n. 4321; Consiglio di Stato, Sez. IV 19.01.2012 n. 244) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale di inedificabilità viene ad imporsi ex se, con efficacia diretta ed immediata, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla esistenza o sui limiti di tal vincolo.
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Poiché sia la disposizione di cui all'art. 338, primo comma, del testo unico approvato col R.D. n. 1265/1934, sia quella di cui all'art. 57 del D.P.R. n. 285/1990, dispongono il divieto di costruire o ampliare edifici intorno ai cimiteri, imponendo una fascia di rispetto, si deve ritenere che tali disposizioni determinino il regime giuridico delle aree rientranti nella fascia di rispetto cimiteriale e si applichino indipendentemente da quale sia la loro destinazione prevista dal piano regolatore.
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La giurisprudenza amministrativa si è orientata per la necessità di rispettare il vincolo cimiteriale anche nelle fattispecie di riedificazione di edifici preesistenti e distrutti anche antecedentemente alla data imposizione del vincolo.
Tale orientamento muove dal concetto per cui la riedificazione di un edificio distrutto, comportando necessariamente la demolizione dei resti, ha natura di nuova costruzione; se così è, deve rilevarsi che tale tipologia non è assolutamente collocabile su aree di rispetto cimiteriale, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che detto vincolo assoluto intende tutelare.
Inoltre, il divieto in parola “è riferibile ad ogni tipo di fabbricato o di costruzione … rendendo del tutto inedificabile l'area colpita dal divieto medesimo".

Il ricorso incidentale è fondato, alla luce del motivo in esame, che ha carattere assorbente.
Preliminarmente, e con riferimento alla previsione dell’intervento da parte del PUC (che secondo la ricorrente eviterebbe l’incidenza negativa del vincolo cimiteriale), il Collegio deve ricordare che la giurisprudenza si è da tempo orientata verso il principio opposto, per cui “il vincolo cimiteriale di inedificabilità viene ad imporsi ex se, con efficacia diretta ed immediata, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla esistenza o sui limiti di tal vincolo” (Cons. di Stato, sez. V, n. 519/1996).
Ed ancora è stato sottolineato che: “Poiché sia la disposizione di cui all'art. 338, primo comma, del testo unico approvato col R.D. n. 1265/1934, sia quella di cui all'art. 57 del D.P.R. n. 285/1990, dispongono il divieto di costruire o ampliare edifici intorno ai cimiteri, imponendo una fascia di rispetto, si deve ritenere che tali disposizioni determinino il regime giuridico delle aree rientranti nella fascia di rispetto cimiteriale e si applichino indipendentemente da quale sia la loro destinazione prevista dal piano regolatore" (Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4415/2007).
Nello specifico, poi, rileva il Collegio che la giurisprudenza amministrativa si è orientata per la necessità di rispettare il vincolo cimiteriale anche nelle fattispecie di riedificazione di edifici preesistenti e distrutti anche antecedentemente alla data imposizione del vincolo. Tale orientamento muove dal concetto per cui la riedificazione di un edificio distrutto, comportando necessariamente la demolizione dei resti, ha natura di nuova costruzione (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 2020/2011); se così è, deve rilevarsi che tale tipologia non è assolutamente collocabile su aree di rispetto cimiteriale, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che detto vincolo assoluto intende tutelare (Cons. di Stato, sez. V, n. 1933/2007). Inoltre, il divieto in parola “è riferibile ad ogni tipo di fabbricato o di costruzione … rendendo del tutto inedificabile l'area colpita dal divieto medesimo" (Cons. di Stato, sez. II, n. 3031/1996) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa c.d. “sdemanializzazione tacita” di una strada è altro discorso, dovendosi considerare, a tale proposito, che secondo la giurisprudenza tale evenienza ricorre solo quando, oltre al prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell’ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza osservata da quest’ultimo rispetto ad una occupazione da parte di privati, si constati l’esistenza di comportamenti inequivocabili ed incompatibili con la volontà di conservare quella destinazione, così da non lasciare adito ad altre ipotesi se non a quella che l’Amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino del bene pubblico.
Che “la via vecchia di Novi Ligure” non sia stata, per decenni, utilizzata in tutta la sua lunghezza quale via pubblica, ossia quale viabilità di collegamento con altre strade pubbliche, non pare dunque seriamente contestabile.
Che detta circostanza abbia comportato anche la c.d. “sdemanializzazione tacita” della strada è invece altro discorso, dovendosi considerare, a tale proposito, che secondo la giurisprudenza tale evenienza ricorre solo quando, oltre al prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell’ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza osservata da quest’ultimo rispetto ad una occupazione da parte di privati, si constati l’esistenza di comportamenti inequivocabili ed incompatibili con la volontà di conservare quella destinazione, così da non lasciare adito ad altre ipotesi se non a quella che l’Amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino del bene pubblico (ex multis: C.d.S. sez. V, 30.11.2011 n. 6338) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.11.2013 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI:  In caso di risarcimento dei danni, la somma complessivamente liquidata in sentenza a titolo di risarcimento, va incrementata con la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito di valore con decorrenza dalla data in cui si è verificato il danno (ovvero, nel caso di specie, in cui è stato revocato l’appalto), fino al deposito della decisione: a decorrere da tale momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta.
Inoltre, spettano gli interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza di condanna fino al soddisfo.
Si tratta in entrambi i casi di conseguenze automatiche direttamente discendenti dalla condanna al risarcimento del danno, a differenza della condanna al pagamento degli ulteriori interessi compensativi che, invece, deve essere appositamente oggetto di domanda giudiziale e che non è stata comunque riconosciuta dall’ottemperanda sentenza.
Infatti, la rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell'obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti (ovvero richiesti per la prima volta durante il corso della verificazione), atteso che essi devono ritenersi compresi nell'originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi.

Secondo il Collegio, come esattamente rilevato nel presente ricorso per l’ottemperanza, in caso di risarcimento dei danni, la somma complessivamente liquidata in sentenza a titolo di risarcimento, va incrementata con la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito di valore con decorrenza dalla data in cui si è verificato il danno (ovvero, nel caso di specie, in cui è stato revocato l’appalto), fino al deposito della decisione: a decorrere da tale momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta.
Inoltre, spettano gli interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza di condanna fino al soddisfo.
Si tratta in entrambi i casi di conseguenze automatiche direttamente discendenti dalla condanna al risarcimento del danno, a differenza della condanna al pagamento degli ulteriori interessi compensativi che, invece, deve essere appositamente oggetto di domanda giudiziale e che non è stata comunque riconosciuta dall’ottemperanda sentenza (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, n. 550/2011 e Sez. VI, n. 3144/2009).
Infatti, la rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell'obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti (ovvero richiesti per la prima volta durante il corso della verificazione), atteso che essi devono ritenersi compresi nell'originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23.02.2012, n. 1052) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2013 n. 5471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ legittima la sua collocazione in zona agricola in quanto l’impianto di distribuzione di carburanti per la sua natura di opera di urbanizzazione secondaria può essere collocato, salvo particolari ragioni, in qualsiasi parte del territorio comunale.
E’ legittima la sua collocazione in zona agricola in quanto l’impianto di distribuzione di carburanti per la sua natura di opera di urbanizzazione secondaria può essere collocato, salvo particolari ragioni, in qualsiasi parte del territorio comunale (C. di S., V, 23.01.2007, n. 192) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2013 n. 5469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il preliminare di vendita legittima il promissario a richiedere il permesso di costruire sul fondo
Il preliminare di vendita legittima il promissario a richiedere il permesso di costruire sul fondo (C. di S., IV, 27.04.2005, n. 1947) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2013 n. 5469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICIPur rivestendo, “in subiecta materia”, un rilievo determinante l’attività preparatoria dell’U.T.C., circa il sito ritenuto più idoneo per la realizzazione dell’isola ecologica– pur tuttavia, la concreta adozione della conseguente determinazione esuli dalle competenze immediatamente riferibili ai dirigenti, ai sensi delle richiamate disposizioni del d. l.vo 267/2000, essendo il Tribunale, in tale decisione, confortato dalla massima, in termini, che segue: “L’approvazione del progetto e la localizzazione di un impianto di smaltimento di rifiuti esulano dal mero esercizio della funzione tecnico-amministrativa spettante al dirigente per ricadere nell’ambito più ampio della funzione di indirizzo e di programmazione, affidata all’organo elettivo, quantomeno in relazione alla scelta discrezionale del sito”.
Tanto stabilito, va respinta la prima censura dei motivi aggiunti de quibus, con la quale s’è denunziata l’incompetenza della G.M. a licenziare la deliberazione gravata, ai sensi degli artt. 48 e 107 del T.U.E.L. (atto che rientrerebbe, ad avviso dei ricorrenti, nelle dirette competenze dell’ufficio tecnico comunale); al riguardo, ritiene il Tribunale che –pur rivestendo, “in subiecta materia”, un rilievo determinante l’attività preparatoria dell’U.T.C., circa il sito ritenuto più idoneo per la realizzazione dell’isola ecologica– pur tuttavia, la concreta adozione della conseguente determinazione esuli dalle competenze immediatamente riferibili ai dirigenti, ai sensi delle richiamate disposizioni del d. l.vo 267/2000, essendo il Tribunale, in tale decisione, confortato dalla massima, in termini, che segue: “L’approvazione del progetto e la localizzazione di un impianto di smaltimento di rifiuti esulano dal mero esercizio della funzione tecnico-amministrativa spettante al dirigente per ricadere nell’ambito più ampio della funzione di indirizzo e di programmazione, affidata all’organo elettivo, quantomeno in relazione alla scelta discrezionale del sito” (TAR Lazio – Sez. I, 22/05/2000, n. 4176) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 20.11.2013 n. 2290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPoiché il piano di recupero, inteso quale strumento urbanistico attuativo, è equivalente al piano particolareggiato esecutivo lo stesso deve intendersi del pari soggetto al medesimo limite d’efficacia temporale (10 anni).
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In giurisprudenza, per la descrizione degli effetti conseguenti allo spirare del termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati, tra cui va compreso, come detto sopra, quello di recupero, si è affermato:
Il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall’art. 27. l. n. 865/1971 è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione. Come tale, trascorsi i dieci anni, l’Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata.
Pertanto alla scadenza del termine di dieci anni legislativamente previsto, la inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che, segnando il venir meno dei presupposti per il perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca dell’assegnazione previamente disposta dell’area destinata alla realizzazione del detto P.I.P. e la restituzione al proprietario, di tal che la stessa revoca non presenta profili di discrezionalità;
in tema di piano di lottizzazione: “Con il decorso del termine di dieci anni diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano di lottizzazione che non hanno avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva”.

S’osserva, infatti, che l’art. 16 della l. 1150/1942, rubricato “Approvazione dei piani particolareggiati” (articolo abrogato dall’art. 58, D. Lgs. 08.06.2001, n. 325, con la decorrenza indicata nell’art. 59 dello stesso decreto e dall’art. 58, d. P. R. 08.06.2001, n. 327, come modificato dall’art. 5, comma 1, l. 01.08.2002, n. 166, ma solo “limitatamente alle norme riguardanti l’espropriazione” e con la decorrenza indicata nell’art. 59 dello stesso decreto), prevede al comma 5: “Col decreto di approvazione sono decise le opposizioni e sono fissati il tempo, non maggiore di anni 10, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato ed i termini entro cui dovranno essere compiute le relative espropriazioni”.
Poiché il piano di recupero, inteso quale strumento urbanistico attuativo, è equivalente al piano particolareggiato esecutivo (cfr., ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 09/12/2010, n. 27126; TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 28/01/1998, n. 81) lo stesso deve intendersi del pari soggetto al suddetto limite d’efficacia temporale.
Per di più –stante in ogni caso la vigenza e la cogenza del termine, in tal modo legislativamente fissato– nel decreto di approvazione dei Piani di Recupero dei Centri Storici di Castellabate Capoluogo, S. Maria e S. Marco, prot. 12407 del 28.02–27.05.2002, a firma del Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Castellabate, in atti, per quanto qui rileva è stabilito, conformemente al dettato di legge, quanto segue: “Si è deciso di: (…) approvare i Piani di Recupero dei Centri Storici di Castellabate Capoluogo, S. Maria e S. Marco; stabilire in anni dieci il termine entro il quale il P. di R. dovrà essere attuato; stabilire in anni cinque il termine entro il quale dovranno essere compiute le espropriazioni previste”.
In giurisprudenza, per la descrizione degli effetti conseguenti allo spirare del termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati, tra cui va compreso, come detto sopra, quello di recupero, si legga, da ultimo, la massima che segue: “Il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall’art. 27. l. n. 865/1971 è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione. Come tale, trascorsi i dieci anni, l’Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata. Pertanto alla scadenza del termine di dieci anni legislativamente previsto, la inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che, segnando il venir meno dei presupposti per il perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca dell’assegnazione previamente disposta dell’area destinata alla realizzazione del detto P.I.P. e la restituzione al proprietario, di tal che la stessa revoca non presenta profili di discrezionalità” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 02/10/2013, n. 8551); cfr. anche, in tema di piano di lottizzazione, la seguente ulteriore decisione: “Con il decorso del termine di dieci anni diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano di lottizzazione che non hanno avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva” (Consiglio di Stato – Sez. IV, 04/12/2007, n. 6170) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 20.11.2013 n. 2284 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIL'adottata delibera di giunta comunale ha stabilito che “tra le competenze professionali dei geometri e dei geometri laureati iscritti al Collegio professionale, possa rientrare la progettazione e direzione dei lavori di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1500 adottando quindi il criterio tecnico-qualitativo in relazione alle caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi sia pur con la presenza del cemento armato, che non richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche, riservate per legge ad un diverso professionista, con esclusione di ogni ulteriore aggravio procedimentale a carico del richiedente”.
Orbene, l’impugnata deliberazione comunale deve farsi rientrare nell’ambito degli atti d’indirizzo politico-amministrativo con i quali gli organi politici degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta) fissano le linee generali cui gli uffici devono attenersi nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali.
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì evidenziare che la deliberazione in esame non assume carattere vincolante per gli uffici amministrativi cui essa è rivolta, atteso che questi dovranno pur sempre verificare, in base alla normativa di riferimento, se i progetti sottoposti al loro esame rientrino nella competenza professionale dei geometri, sulla scorta delle caratteristiche dell’opera da realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della determinazione della competenza professionale dei geometri in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un limite quantitativo entro il quale una costruzione in conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri rimane comunque subordinata all’applicazione del fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del quale il progetto non deve implicare la soluzione di problemi particolari (devoluti esclusivamente ai professionisti di rango superiore) con riguardo alla struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della delibera di giunta comunale del Comune di Torri del Benaco in data 09.07.2012, n. 96, recante indirizzi in tema di competenze professionali dei geometri; nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
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Con l’odierno gravame, l’Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia ha adito l’intestato Tribunale per chiedere l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della delibera del Comune di Torri del Benaco in data 09.07.2012, n. 96, con la quale la giunta comunale ha stabilito che “tra le competenze professionali dei geometri e dei geometri laureati iscritti al Collegio professionale, possa rientrare la progettazione e direzione dei lavori di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1500 adottando quindi il criterio tecnico-qualitativo in relazione alle caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi sia pur con la presenza del cemento armato, che non richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche, riservate per legge ad un diverso professionista, con esclusione di ogni ulteriore aggravio procedimentale a carico del richiedente”.
Nei confronti dell’impugnata delibera, parte ricorrente ha eccepito, in via principale, la carenza assoluta di potere in capo alla giunta comunale per aver esercitato de facto funzioni a carattere normativo in tema di competenze professionali, in assenza di una norma attributiva di tale potere; in subordine, è stata dedotta la violazione di legge e l’eccesso di potere nelle forme dell’illogicità, dello sviamento di potere e del difetto di motivazione.
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Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente ha asserito la nullità dell’impugnata deliberazione per il difetto assoluto di attribuzione, deducendo che la giunta comunale avrebbe esercitato de facto funzioni a carattere normativo in tema di competenze professionali, in assenza di una norma attributiva di tale potere.
Il motivo è infondato e, pertanto, deve essere rigettato.
Infatti, ad avviso del Collegio, l’impugnata deliberazione comunale deve farsi rientrare nell’ambito degli atti d’indirizzo politico-amministrativo con i quali gli organi politici degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta) fissano le linee generali cui gli uffici devono attenersi nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 07.04.2011, n. 2154).
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, la deliberazione in esame non assume carattere vincolante per gli uffici amministrativi cui essa è rivolta, atteso che questi dovranno pur sempre verificare, in base alla normativa di riferimento, se i progetti sottoposti al loro esame rientrino nella competenza professionale dei geometri, sulla scorta delle caratteristiche dell’opera da realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della determinazione della competenza professionale dei geometri in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un limite quantitativo entro il quale una costruzione in conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri rimane comunque subordinata all’applicazione del fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del quale il progetto non deve implicare la soluzione di problemi particolari (devoluti esclusivamente ai professionisti di rango superiore) con riguardo alla struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 27.01.1988, n. 736; Cons. St., sez. V, 03.10.2002, n. 5208).
Deve, altresì, essere respinto il secondo motivo di ricorso con cui parte ricorrente deduce che la normativa di specie escluderebbe in toto la competenza del geometra in ordine alla progettazione di costruzioni civili in cemento armato, posto che il d.lgs. 13.12.2010, n. 212 ha abrogato il r.d. 16.11.1939, n. 2229, ai sensi del quale “Ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto all’albo”.
Va, infine, rigettata la censura con la quale l’ordine professionale ricorrente ha rilevato il difetto di motivazione della delibera in esame, avendo invero la giunta comunale accuratamente specificato le ragioni sottese all’adozione di tale atto (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 20.11.2013 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, in società paga l'eco-addetto. Responsabilità penale in chiaro.
Sì alla responsabilità penale del delegato ambientale di una società per il trattamento non autorizzato dei rifiuti. Una volta provata la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio della delega di funzioni in materia ambientale, la responsabilità penale del delegato non è in discussione.

Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione –Sez. III penale– con la sentenza 19.11.2013 n. 46237.
Il fatto in concreto: risultava che il deposito dei rifiuti era avvenuto sia all'interno di una vasca di decantazione, ove erano stati rinvenuti fanghi induriti, sia, mediante tubazione, nelle acque del torrente Bugliesina, ove erano stati rinvenuti, sulla scorta delle analisi sul campioni prelevati il 30.09.2008, tensioattivi, ossia sostanzialmente di detersivi. I giudici di cassazione ricordano che è stata ritenuta la rilevanza penale della delega di funzioni e, conseguentemente, la responsabilità dell'imputato, quale delegato all'ambiente per il reato di cui all'art. 256 dlgs 03.04.2013 n. 152.
Gli ermellini poi evidenziano anche i rapporti tra la contravvenzione di cui all'art. 674 codice penale e il reato ambientale: «Il reato di getto pericoloso di cose può concorrere con i reati di gestione non autorizzata di rifiuti (art. 256, dlgs. 03.04.2006, n. 152) e di scarico di reflui industriali senza autorizzazione (art. 137, dlgs. 03.04.2006, n. 152), purché si accerti la potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato di comune o altrui uso».
Ricordiamo anche come la sentenza del 26.02.2013 n. 9187 la Corte di cassazione stabilì che il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti previsto dall'articolo 256 del dlgs 152/2006 non richiede la continuità dell'attività illecita e si configura anche a seguito di una condotta occasionale. Gli ermellini affermano la configurabilità del reato di trasporto illecito dei rifiuti anche nel caso di attività occasionale (articolo ItaliaOggi del 21.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Con riguardo alla pretesa della comunicazione e alle esigenze di partecipazione dei vicini (Consiglio Stato sez. IV, 31.07.2009, n. 4847) non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2013 n. 5454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate).
Il quarto motivo di ricorso è infondato in quanto la giurisprudenza ha chiarito che il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all’offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell’ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate) (C.d.S, V, 29/02/2012 n. 1183) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.11.2013 n. 991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti, il costo del lavoro rileva solo per l'anomalia.
In appalto pubblico è vietato prevedere l'esclusione dell'offerente in caso di mancata dichiarazione del rispetto dei contratti collettivi di lavoro e delle norme previdenziali; il rispetto delle norme sul costo del lavoro rileva invece ai soli fini della verifica di anomalia dell'offerta.

È quanto afferma il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, con la sentenza 15.11.2013 n. 5143 rispetto a una clausola di un bando di gara che imponeva ai concorrenti, a pena di esclusione dalla gara, di rendere una dichiarazione sul rispetto dell'art. 86 del codice dei contratti pubblici.
In particolare la stazione appaltante aveva previsto l'obbligo di dichiarare che l'offerta fosse formulata «considerando il costo del lavoro calcolato sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva e dalle norme in materia previdenziale e assistenziale applicabili».
La stazione appaltante aveva disposto l'esclusione ma il Tar annulla il provvedimento: l'omissione della dichiarazione, si legge nella sentenza, non integra alcuna delle cause di esclusione tassativamente previste dal comma 1-bis dell'articolo 46 del codice dei contratti pubblici, non essendo espressamente prevista dall'ordinamento vigente.
La dichiarazione relativa al costo del lavoro attiene solo alla valutazione di possibile anomalia dell'offerta ex art. 86 codice di contratti pubblici, da effettuare, se del caso, in un momento successivo della procedura, cioè in sede di verifica dell'anomalia. Semmai la stazione appaltante potrebbe comunque chiedere al concorrente di sanare l'omissione mediante richiesta di integrazione ex art. 46, comma 1 del codice dei contratti pubblici. Per i giudici, quindi, dal punto di vista sostanziale, l'aspetto del costo del lavoro ai fini dell'anomalia dell'offerta non assume significato determinante tale da comportare l'esclusione.
Infatti, secondo giurisprudenza, il mancato rispetto dei limiti tabellari afferenti il costo del lavoro o, in mancanza, dei valori indicati dalla contrattazione collettiva, non determina l'automatica esclusione dalla gara pubblica dell'impresa alla quale si imputa tale trasgressione, ma costituisce un importante indice di anomalia dell'offerta, che dovrà essere verificata mediante un giudizio complessivo di remuneratività, in contraddittorio con l'offerente (articolo ItaliaOggi del 20.11.2013).

URBANISTICA: I piani attuativi approvati dal comune devono essere inviati, in copia, in regione. A rischio di incostituzionalità anche l'art. 14 della L.R. lombarda n. 12/2005??
L’art. 24 della legge n. 47 del 1985, compreso nel Capo II, relativo allo snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie, testualmente dispone: «Salvo che per le aree e per gli ambiti territoriali individuati dalle regioni come di interesse regionale in sede di piano territoriale di coordinamento o, in mancanza, con specifica deliberazione, non è soggetto ad approvazione regionale lo strumento attuativo di strumenti urbanistici generali, compresi i piani per l’edilizia economica e popolare nonché i piani per gli insediamenti produttivi» (primo comma). «Le regioni emanano norme cui i comuni debbono attenersi per l’approvazione degli strumenti di cui al comma precedente, al fine di garantire la snellezza del procedimento e le necessarie forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. I comuni sono comunque tenuti a trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli strumenti attuativi di cui al presente articolo. Sulle eventuali osservazioni della regione i comuni devono esprimersi con motivazioni puntuali» (secondo comma).
Al riguardo, occorre anzitutto osservare che
la legge n. 47 del 1985 da una parte istituzionalizza il disegno di semplificazione delle procedure in materia urbanistica, eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi, dall’altra, però, accentua le forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. Tale disposizione non è pertanto derogabile dalle leggi regionali, come si evince dal precedente articolo 1, primo comma, della medesima legge secondo cui le Regioni emanano norme in materia di controllo dell’attività urbanistica ed edilizia e di sanzioni in conformità ai principî definiti dai Capi I, II e III della stessa legge, senza che possa trarsi argomento in contrario dal secondo comma per il quale, fino all’emanazione delle norme regionali, si applicano le norme contenute nella legge statale.
Al riguardo,
questa Corte ha già affermato che «La statuizione dell’art. 24, secondo comma, della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui prescrive l’invio degli strumenti attuativi comunali alla Regione, è chiaramente preordinata a soddisfare un’esigenza, oltre che di conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento dell’operato delle Amministrazioni locali ed, in questo senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di formulare “osservazioni” sulle quali i Comuni devono “esprimersi”» (sentenza n. 343 del 2005).
Ne consegue che, secondo quanto previsto dalla norma interposta invocata nel presente giudizio,
«Il contrappeso all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale motivazione», con la conclusione che «Il meccanismo istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985 […], in relazione allo scopo perseguito dalla legge, configurando l’obbligo dei Comuni di trasmettere i piani urbanistici attuativi alla Regione, assume il carattere di principio fondamentale».
Quindi la mancata previsione (regionale) dell’obbligo di trasmissione contrasta con un principio fondamentale della legge statale e determina l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui non prevede che copia dei piani attuativi conformi allo strumento urbanistico, per i quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione.
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La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Molise n. 18 del 2012, è fondata.
7.1.— Occorre preliminarmente osservare che l’ambito materiale su cui incide la norma impugnata è inequivocabilmente ascrivibile ai settori dell’edilizia e dell’urbanistica. Ne consegue l’inclusione della stessa nella sfera delle potestà legislative inerenti alla materia concorrente del «governo del territorio», come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011; n. 340 del 2009; nonché sentenze n. 196 del 2004 e n. 362 del 2003).
Questa Corte ha già chiarito, in più pronunce, l’ampiezza e l’area di operatività dei “principi fondamentali” riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, affermando, tra l’altro, che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenza n. 237 del 2009, nonché sentenze n. 200 del 2009, n. 336 e n. 50 del 2005). Né può ritenersi che la specificità delle prescrizioni di per sé possa escludere il carattere di principio di una norma, «qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione» (sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007; nonché n. 211 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 326 del 2010 e n. 297 del 2009).
Ne consegue che l’ambito materiale relativo al presente giudizio rientra nel «governo del territorio», ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, nell’ambito della quale le Regioni debbono osservare i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale.
7.2.— Quanto alla norma interposta invocata nel presente giudizio, occorre anzitutto ricordare che l’art. 24 della legge n. 47 del 1985, compreso nel Capo II, relativo allo snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie, testualmente dispone: «
Salvo che per le aree e per gli ambiti territoriali individuati dalle regioni come di interesse regionale in sede di piano territoriale di coordinamento o, in mancanza, con specifica deliberazione, non è soggetto ad approvazione regionale lo strumento attuativo di strumenti urbanistici generali, compresi i piani per l’edilizia economica e popolare nonché i piani per gli insediamenti produttivi» (primo comma). «Le regioni emanano norme cui i comuni debbono attenersi per l’approvazione degli strumenti di cui al comma precedente, al fine di garantire la snellezza del procedimento e le necessarie forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. I comuni sono comunque tenuti a trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli strumenti attuativi di cui al presente articolo. Sulle eventuali osservazioni della regione i comuni devono esprimersi con motivazioni puntuali» (secondo comma).
Al riguardo, occorre anzitutto osservare che
la legge n. 47 del 1985 da una parte istituzionalizza il disegno di semplificazione delle procedure in materia urbanistica, eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi, dall’altra, però, accentua le forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. Tale disposizione non è pertanto derogabile dalle leggi regionali, come si evince dal precedente articolo 1, primo comma, della medesima legge secondo cui le Regioni emanano norme in materia di controllo dell’attività urbanistica ed edilizia e di sanzioni in conformità ai principî definiti dai Capi I, II e III della stessa legge, senza che possa trarsi argomento in contrario dal secondo comma per il quale, fino all’emanazione delle norme regionali, si applicano le norme contenute nella legge statale.
Al riguardo,
questa Corte ha già affermato che «La statuizione dell’art. 24, secondo comma, della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui prescrive l’invio degli strumenti attuativi comunali alla Regione, è chiaramente preordinata a soddisfare un’esigenza, oltre che di conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento dell’operato delle Amministrazioni locali ed, in questo senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di formulare “osservazioni” sulle quali i Comuni devono “esprimersi”» (sentenza n. 343 del 2005).
Ne consegue che, secondo quanto previsto dalla norma interposta invocata nel presente giudizio, «Il contrappeso all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale motivazione», con la conclusione che «Il meccanismo istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985 […], in relazione allo scopo perseguito dalla legge, configurando l’obbligo dei Comuni di trasmettere i piani urbanistici attuativi alla Regione, assume il carattere di principio fondamentale» (così, la già citata sentenza n. 343 del 2005).
L’art. 1, comma 1, della legge reg. Molise 07.08.2012, n. 18, nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 3, della legge reg. 02.01.2013, n. 1, nello stabilire che i piani attuativi conformi allo strumento urbanistico siano approvati in via definitiva dalla Giunta comunale, senza che essa sia tenuta a trasmetterli alla Regione, si pone in contrasto con l’art. 24, secondo comma, della legge n. 47 del 1985.
Quindi
la mancata previsione dell’obbligo di trasmissione contrasta con un principio fondamentale della legge statale e determina l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui non prevede che copia dei piani attuativi conformi allo strumento urbanistico, per i quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Molise 07.08.2012, n. 18, nel testo vigente anteriormente all’aggiunta del comma 1-bis, inserito dall’art. 1, comma 3, della legge reg. Molise n. 1 del 2013.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1, della legge della Regione Molise 07.08.2012, n. 18 (Disposizioni in merito all’approvazione dei piani attuativi conformi alle norme degli strumenti urbanistici generali vigenti), nel testo vigente anteriormente all’aggiunta del comma 1-bis, inserito dall’art. 1, comma 3, della legge della Regione Molise 02.01.2013, n. 1 (Abrogazioni e modifiche urgenti di norme di leggi regionali), nella parte in cui non prevede che copia dei piani attuativi conformi allo strumento urbanistico generale, per i quali non è prevista l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione (Corte Costituzionale, sentenza 14.11.2013 n. 272).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. 380/2001, può essere chiesto dal proprietario e da chi ne ha titolo. E’ peraltro pacifico che il diritto di usufrutto, in quanto ricomprende anche la possibilità di sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria del suolo, costituisca titolo idoneo a legittimare la richiesta di permesso di costruire.
Pertanto, con la produzione dell’atto di donazione il ricorrente ha assolto al proprio onere di documentare il titolo necessario per ottenere il permesso di costruire in sanatoria, dimostrando di avere la disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento edificatorio e delle pertinenze dello stesso.
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, ma solo la verifica dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria dell’immobile, senza che a tale allegazione debba seguire un’ulteriore indagine in ordine alle implicazioni, di diritto civilistico derivanti dal rilascio del titolo autorizzativo, considerato anche che detto rilascio avviene sempre con la clausola di salvezza dei diritti dei terzi, proprio al fine di lasciare impregiudicate eventuali posizioni soggettive di terzi configgenti.

Con il presente gravame il ricorrente, usufruttuario di un immobile residenziale sito in Lazise (VR), ha impugnato il provvedimento del Servizio Edilizia Privata comunale del 10.05.2012 n. 10757, con cui gli è stato negato il rilascio del permesso di costruire in sanatoria in relazione ad alcune opere consistenti nella realizzazione di una piattaforma elevatrice (ascensore) e di un cappotto termico.
...
In secondo luogo, quanto ai dubbi manifestati dall’amministrazione sulla legittimazione dell’odierno ricorrente a richiedere il titolo in questione, si osserva che dall’atto notarile del 21.12.1991, pure consegnato all’amministrazione comunale, risulta che De Carli Antonio è usufruttuario dell’immobile oggetto dell’intervento e delle aree ad esso pertinenti, avendo egli, con il predetto atto, donato la nuda proprietà ai figli.
Ebbene, il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. 380/2001, può essere chiesto dal proprietario e da chi ne ha titolo. E’ peraltro pacifico che il diritto di usufrutto, in quanto ricomprende anche la possibilità di sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria del suolo, costituisca titolo idoneo a legittimare la richiesta di permesso di costruire.
Pertanto, con la produzione dell’atto di donazione del 21.12.1991, il ricorrente ha assolto al proprio onere di documentare il titolo necessario per ottenere il permesso di costruire in sanatoria, dimostrando di avere la disponibilità dell’immobile interessato dall’intervento edificatorio e delle pertinenze dello stesso.
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente (Cons. St, sez. V, 22.06.2000, n. 3525), ma solo la verifica dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria dell’immobile, senza che a tale allegazione debba seguire un’ulteriore indagine in ordine alle implicazioni, di diritto civilistico derivanti dal rilascio del titolo autorizzativo, considerato anche che detto rilascio avviene sempre con la clausola di salvezza dei diritti dei terzi, proprio al fine di lasciare impregiudicate eventuali posizioni soggettive di terzi configgenti (cfr. Cons. St. n. 368/2004).
D’altra parte (e questo sembra essere lo scrupolo dell’amministrazione) non si comprende come i figli dell’odierno ricorrente, nudi proprietari, possano legittimamente opporsi alla realizzazione degli interventi edilizi posti in essere dal loro padre.
In particolare, dall’atto notarile depositato non risulta che il cortile di pertinenza dell’abitazione sia escluso dal diritto di usufrutto che De Carli Antonio ha mantenuto su tutto il compendio immobiliare in origine di sua proprietà, comprensivo delle pertinenze, né che tale cortile sia, come prospettato dalla Commissione Edilizia, di piena proprietà dei figli di De Carli Antonio. Elemento limitativo, questo, che andrebbe comunque provato da parte dell’amministrazione
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica.
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Si è ritenuto come “...esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale".

Infine, la Commissione Edilizia, nel proprio parere, ha chiesto all’odierno ricorrente di “dimostrare che le opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica non hanno determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, al fine di poter accedere alla possibilità di regolarizzazione delle stesse sotto il profilo paesaggistico. Si rileva infatti che l’elevatore realizzato configurerebbe un incremento di volume ai fini urbanistici che, sebbene assentibile sotto il profilo edilizio-urbanistico ai sensi della L.R. 16/2007, non rientrerebbe nella fattispecie delle opere sanabili ai sensi del D.Lgs. 42/2004”.
Anche tale richiesta è ingiustificata, essendo fondata su di una interpretazione delle norme in argomento non condivisibile.
Infatti, premesso che nella fattispecie oggetto di gravame è pacifico che l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnico”, ciò che la Commissione Edilizia sembra negare è che la realizzazione di un vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi minori” per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004.
Invero, la giurisprudenza prevalente, al quale questo Collegio ritiene di aderire, è di contrario avviso, essendo stato chiarito, che “la stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica” (v. TAR Campania, Napoli, sez. VII 14.01.2011, n. 176; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 15.09.2010, n. 435; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 03.11.2009, n. 6827). Ed inoltre, si è ritenuto come “...esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale” (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. III, 11.01.2013, n. 35; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Pertanto, nel caso in esame, non sembra si possa dubitare dell’astratta sanabilità paesaggistica delle opere oggetto di causa ai sensi del D.lgs. 42/2004
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1270 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato.
Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile.

In proposito, deve osservarsi, innanzitutto, che la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato (Cons. Stato, sez. V, 04.04.2006, n. 1750; sez. IV, 22.02.2001 n. 938, sez. V, 25.09.2000 n. 5069).
Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere.
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Nel caso in esame, mentre le ragioni del diniego di condono delle tettoie non sono state proprio espresse, quelle relative al box in lamiera appaiono, invece, contenute nell’espressione “per tipologia e materiali altera negativamente il contesto tutelato ai sensi della L. 1497/1939”, che per il solo riferimento generico alla tipologia della costruzione e alla scelta dei materiali utilizzati nella edificazione, non appare di certo sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie.
In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione apodittica che non appare soddisfare i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo cui il manufatto in questione mal si inserirebbe nel contesto ambientale per i materiali utilizzati e la tipologia costruttiva, atteso che nulla viene specificato nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse ambientale tutelato.
Inoltre, con riferimento al diniego di sanatoria delle tettoie, vi è proprio un’assenza di motivazione, venendo solo direttamente e semplicemente richiesta l’eliminazione delle stesse senza alcuna previa valutazione dell’incidenza delle opere rispetto all’ambiente tutelato; il che implica una palese illegittimità di tale parte del provvedimento impugnato.

Tale motivazione non appare, all’evidenza, idonea a sorreggere in modo puntuale il diniego della domanda di sanatoria.
Infatti, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere (cfr. Cons. Stato, VI, 08.05.2008, n. 2111).
Nel caso in esame, mentre le ragioni del diniego di condono delle tettoie non sono state proprio espresse, quelle relative al box in lamiera appaiono, invece, contenute nell’espressione “per tipologia e materiali altera negativamente il contesto tutelato ai sensi della L. 1497/1939”, che per il solo riferimento generico alla tipologia della costruzione e alla scelta dei materiali utilizzati nella edificazione, non appare di certo sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie.
D’altra parte, salva ogni valutazione di merito riservata all’amministrazione, l’idoneità del manufatto in questione a ledere il bene paesaggistico oggetto di tutela non appare, almeno allo stato degli atti, così evidente e manifesta da non richiedere una motivazione più approfondita. Considerato che, come risulta dalle fotografie prodotte dalla difesa del ricorrente, si tratta di una costruzione realizzata in un cortile interno, non visibile dall’esterno, e che il contesto ambientale immediatamente interessato (sempre osservando il materiale fotografico prodotto) non sembra presentare caratteristiche di eccezionale pregio tali da rendere stridente e palese il contrasto con il manufatto in oggetto.
In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione apodittica che non appare soddisfare -come evidenziato dal ricorrente- i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo cui il manufatto in questione mal si inserirebbe nel contesto ambientale per i materiali utilizzati e la tipologia costruttiva, atteso che nulla viene specificato nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse ambientale tutelato.
Inoltre, con riferimento al diniego di sanatoria delle tettoie, vi è proprio un’assenza di motivazione, venendo solo direttamente e semplicemente richiesta l’eliminazione delle stesse senza alcuna previa valutazione dell’incidenza delle opere rispetto all’ambiente tutelato; il che implica una palese illegittimità di tale parte del provvedimento impugnato
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La previsione normativa di cui all'art. 34, comma secondo, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) deve essere interpretata -in conformità alla natura di illecito posto in essere ed alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma- nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso. Né in tale contesto, pertanto, possono assumere rilievo aspetti relativi alla eccessiva onerosità dell'intervento.
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In materia di abusivismo edilizio l'art. 34 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) deve essere interpretata nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia "oggettivamente impossibile" procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
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Questo Collegio è a conoscenza di quell’orientamento giurisprudenziale diretto ad affermare come l’interesse pubblico alla demolizione non necessiti di una specifica motivazione, rilevando il carattere “dovuto” dei provvedimenti sanzionatori.
Detto orientamento, tuttavia, deve considerarsi recessivo rispetto alla particolarità della fattispecie in esame, laddove si era accertato come l’abuso fosse da circoscrivere ad un periodo così antecedente nel tempo; laddove l’Amministrazione comunale aveva accertato, seppur implicitamente, la legittimità del manufatto originario.
Tutto queste circostanze avrebbero dovuto determinare l’Amministrazione nel valutare se sussistessero reali ed effettivi motivi per reprimere l’abuso, ragioni di interesse pubblico che evidentemente non avrebbero potuto essere individuate nell’esigenza di preservare la salubrità dei luoghi, esigenza quest’ultima tutelata dall’emanazione dell’Ordinanza n. 4 del 04/05/2011 diretta all’esecuzione delle opere necessarie alla messa in sicurezza dei luoghi.
Sul punto è possibile applicare quell’orientamento diretto a sancire che “Nel sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 L. 06.08.1967, n. 765, la scelta della sanzione (demolizione o sanzione pecuniaria) di volta in volta applicabile è di regola sottratta ad una valutazione del pubblico interesse; tale principio subisce però un'attenuazione:
a) nell'ipotesi in cui l'attività privata, anche se formalmente in contrasto con l'art. 13, perché priva dell'autorizzazione, risulta comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale e,
b) nell'ipotesi in cui l'inerzia del comune di fronte all'abuso perpetrato si sia protratta per un notevole lasso di tempo: in entrambi questi casi non si può infatti dubitare della prevalenza di principi generali di natura diversa da quelli fissati dall'art. 13, con conseguente obbligo per il sindaco di motivare sul pubblico interesse alla demolizione.

Nel ricorso di cui all’RG 1069/11 è fondato, in particolare, il primo motivo e, ciò, nella parte in cui si rileva la violazione dell’art. 34 sopra citato, risultando dirimente sul punto l’accertamento della circostanza in base alla quale si rileva come si sia in presenza di un intero fabbricato (quello preesistente) che è del tutto autonomo e distinto dalla nuova costruzione, in proprietà della ricorrente e realizzata sulla base dell’autorizzazione del 1961 sopra ricordata.
Si consideri, ancora, come l’Amministrazione non abbia dimostrato la pregiudizialità della demolizione rispetto alla parte del fabbricato autorizzato, presupposto quest’ultimo anch’esso indispensabile al fine di applicare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
In considerazione di quanto sopra precisato è possibile applicare quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda Cons. Stato Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912) che ha sancito che “La previsione normativa di cui all'art. 34, comma secondo, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) deve essere interpretata -in conformità alla natura di illecito posto in essere ed alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma- nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso. Né in tale contesto, pertanto, possono assumere rilievo aspetti relativi alla eccessiva onerosità dell'intervento”.
Un’analoga pronuncia (Cons. Stato Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912) ha sancito che “In materia di abusivismo edilizio l'art. 34 d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) deve essere interpretata nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia "oggettivamente impossibile" procedere alla demolizione del manufatto abusivo. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso (Riforma della sentenza del Tar Emilia Romagna, sez. I, 28.11.2012, n. 733)”.
Ne consegue come, in applicazione dei principi sopra richiamati l’Amministrazione comunale abbia applicato i principi di cui all’art. 34 citato in una fattispecie del tutto esorbitante e differente rispetto a quella disciplinata dalla stessa disposizione.
Il ricorso di cui all’RG 1069/11 può, pertanto, essere accolto limitatamente a quanto sopra affermato.
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Questo Collegio è a conoscenza di quell’orientamento giurisprudenziale diretto ad affermare come l’interesse pubblico alla demolizione non necessiti di una specifica motivazione, rilevando il carattere “dovuto” dei provvedimenti sanzionatori.
Detto orientamento, tuttavia, deve considerarsi recessivo rispetto alla particolarità della fattispecie in esame, laddove si era accertato come l’abuso fosse da circoscrivere ad un periodo così antecedente nel tempo; laddove l’Amministrazione comunale aveva accertato, seppur implicitamente, la legittimità del manufatto originario.
Tutto queste circostanze avrebbero dovuto determinare l’Amministrazione nel valutare se sussistessero reali ed effettivi motivi per reprimere l’abuso, ragioni di interesse pubblico che evidentemente non avrebbero potuto essere individuate nell’esigenza di preservare la salubrità dei luoghi, esigenza quest’ultima tutelata dall’emanazione dell’Ordinanza n. 4 del 04/05/2011 diretta all’esecuzione delle opere necessarie alla messa in sicurezza dei luoghi.
Sul punto è possibile applicare quell’orientamento (TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 06.09.2007, n. 1399) diretto a sancire che “Nel sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 L. 06.08.1967, n. 765, la scelta della sanzione (demolizione o sanzione pecuniaria) di volta in volta applicabile è di regola sottratta ad una valutazione del pubblico interesse; tale principio subisce però un'attenuazione:
a) nell'ipotesi in cui l'attività privata, anche se formalmente in contrasto con l'art. 13, perché priva dell'autorizzazione, risulta comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale e,
b) nell'ipotesi in cui l'inerzia del comune di fronte all'abuso perpetrato si sia protratta per un notevole lasso di tempo: in entrambi questi casi non si può infatti dubitare della prevalenza di principi generali di natura diversa da quelli fissati dall'art. 13, con conseguente obbligo per il sindaco di motivare sul pubblico interesse alla demolizione (Consiglio Stato a.plen., 19.05.1983, n. 12)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 1268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOBloccato l'ascensore rumoroso. Stop all'impianto che produce immissioni intollerabili. La Cassazione conferma le ragioni di una condomina e la condanna del condominio.
Stop agli impianti di ascensore rumorosi in condominio. La Cassazione ha infatti individuato nelle disposizioni speciali a tutela dell'ambiente i parametri oggettivi per valutare la soglia di normale tollerabilità delle immissioni rumorose anche nei rapporti tra i privati.

Questa l'interessante conclusione contenuta nella sentenza 06.11.2013 n. 25019 pronunciata dalla II Sez. civile della Suprema.
Il caso concreto. Nella specie una condomina aveva citato dinanzi al giudice di pace di Ancona il proprio condominio, in persona dell'amministratore pro tempore, perché fossero dichiarate illegittime le immissioni acustiche provenienti dall'ascensore condominiale e perché, conseguentemente, ne fosse ordinata la cessazione con condanna alla realizzazione di tutte le conseguenti opere necessarie. Nonostante le eccezioni difensive formulate dal condominio costituitosi in giudizio, il giudice, in parziale accoglimento della domanda della condomina, aveva riconosciuto l'illegittimità delle immissioni acustiche provenienti dall'ascensore, ordinandone la cessazione e demandando all'assemblea, sulla scorta della relazione resa dal consulente tecnico d'ufficio, di provvedere all'attuazione dei rimedi indispensabili allo scopo.
Il condominio, per nulla soddisfatto dell'esito del procedimento, aveva quindi impugnato la sentenza dinanzi al tribunale. Anche detto giudice, tuttavia, accogliendo pienamente le valutazioni operate dal consulente tecnico d'ufficio, il quale aveva rilevato che l'ascensore produceva emissioni rumorose superiori ai limiti imposti dalla legge, aveva confermato la valutazione di intollerabilità di queste ultime.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile della Cassazione, nel respingere a sua volta l'impugnazione proposta dal condominio avverso la sentenza di appello, ha chiarito che i criteri per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore indicati dal dpcm del 01.03.1991, ancorché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento anche per stabilire l'intensità e quindi la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati, dunque anche in ambito condominiale.
Tuttavia i giudici di legittimità hanno ritenuto che tali criteri debbano essere considerati come un limite minimo e non massimo, dato che gli stessi sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., norma generale sulle immissioni, con la conseguenza che, in difetto di altri eventuali elementi, il loro superamento è idoneo a determinare la violazione della predetta disposizione codicistica.
Nella specie, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, era stato accertato il superamento della normale tollerabilità delle emissioni provenienti dall'ascensore condominiale prendendo come parametro di riferimento il criterio comparativo tra il rumore con e senza la sorgente disturbante nella differenza massima di 3 decibel. La Suprema corte ha comunque inteso chiarire come i parametri di cui al dpcm del 01.03.1991, pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza al fine di stabilire l'intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non siano vincolanti per il giudice civile che, nell'accertamento discrezionale dell'entità delle immissioni nell'ambito privatistico, può anche motivatamente discostarsene, pervenendo a un giudizio di intollerabilità ex art. 844 c.c. anche nelle ipotesi in cui i limiti minimi di legge non siano stati superati (articolo ItaliaOggi Sette del 18.11.2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIForniture, niente automatismi per l'ok ai debiti fuori bilancio. Tar Marche. Il riconoscimento da parte della Pa è discrezionale.
Non c'è l'obbligo incondizionato per gli enti locali di riconoscere, con la procedura fissata dall'articolo 194, comma 1 del Tuel, i debiti fuori bilancio per acquisizione di beni e servizi avvenuta in violazione delle norme giuscontabili.

Per il TAR Marche (sentenza 25.10.2013 n. 749), a differenza di quanto previsto dalla lettera a) dello stesso articolo 194, che configura come atto dovuto il riconoscimento di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, la lettera e) consente la valutazione discrezionale dell'opportunità e della coerenza con l'interesse pubblico del riconoscimento del debiti di fornitura.
Nel caso, una società ha chiesto la declaratoria d'illegittimità dell'inerzia della Pa sull'istanza di riconoscimento di un debito relativo a lavori urgenti di sistemazione idrica.
Sul punto il Tar è stato chiaro: il potere di riconoscimento del debito fuori bilancio da acquisizione di beni e servizi in violazione delle regole d'impegno della spesa (articolo 191 del Tuel) non può ritenersi vincolato.
Nella delibera di riconoscimento l'ente deve chiarire:
- le ragioni della conformità dell'accollo del debito all'interesse pubblico;
- la riconducibilità dell'acquisizione dei beni e servizi all'espletamento delle funzioni e dei servizi di competenza;
- l'utilità e l'arricchimento derivanti dal riconoscimento.
Per la parte non riconoscibile, infatti, l'articolo 191, comma 4, del Tuel prevede che l'obbligazione sussista tra il privato e l'amministratore o funzionario che hanno consentito la fornitura. In questo caso, dunque, il creditore non ha la garanzia patrimoniale della Pubblica amministrazione, ma solo del soggetto che ha indebitamente ordinato la spesa.
In tempi di risorse scarse e di cronici ritardi di pagamento della Pa, la posizione del Tar riveste grande interesse sia per l'amministrazione sia per i fornitori.
La decisione, infatti, da un lato richiama gli enti locali a motivare compiutamente circa l'utilità e l'arricchimento conseguenti al riconoscimento del debito fuori bilancio, dall'altro invece rappresenta per i privati un monito al rispetto delle regole che disciplinano i rapporti finanziari con gli enti. In base all'articolo 194, comma 1, del Tuel, gli enti possono infatti eseguire spese solo a fronte dell'impegno sul capitolo e dell'attestazione di copertura finanziaria ex articolo 153, comma 5, dello stesso Tuel. Questi vanno comunicati al fornitore contestualmente all'ordinazione della prestazione e la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della comunicazione. In caso contrario, sino alla comunicazione, il privato ha facoltà di non eseguire la prestazione (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2013).

PATRIMONIO: Insidia stradale e condotta negligente del danneggiato: P.A. senza responsabilità.
Nel danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica.
Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può prescindere da un modello relazionale, per cui la cosa deve essere vista nel suo normale interagire con il contesto dato talché una cosa inerte può definirsi pericolosa quando determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante.
Pertanto, se il contatto con la cosa provochi un danno per l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il presupposto per l’operare della presunzione di responsabilità di cui l’art. 2051 cod. civ., atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del danno. In particolare, poi, in tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso.
In applicazione degli enunciati principi, già espressi in precedenti pronunce, la Corte di cassazione ha ritenuto di confermare la decisione con la quale il la corte di merito, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti di un’amministrazione comunale dal conducente di un ciclomotore rimasto vittima di lesioni personali in conseguenza di una caduta dovuta ad una buca presente sul manto stradale.
Facendo corretta applicazione del suddetto criterio relazionale, osserva il giudice di legittimità nella parte motiva, si rileva come nel caso in esame il conducente del motorino fosse ben a conoscenza dell’esistenza di buche sulla strada da lui percorsa per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle.
Inoltre, affrontando sia il problema dell’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ. alla custodia esercitata dagli enti territoriali sulle strade demaniali, sia quello relativo al valore da attribuire alla non visibilità e non prevedibilità dei dissesti del manto stradale, la corte del merito, conclude la Cassazione, ha rilevato che la buca in corrispondenza della quale il conducente è caduto era ampiamente prevedibile e che tanto risulta sia dalle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo ai Vigili Urbani, sia dal verbale degli stessi, sia da quanto dichiarato da un testimone. In conclusione, non opera pertanto nel caso in esame la presunzione di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. in quanto, essendo il conducente del motorino a conoscenza dell’esistenza di buche, ben avrebbe potuto evitarle.
In seguito a tale conoscenza gravava su di lui la prova della non visibilità e non prevedibilità, il cui onere nel caso specifico, non è stato adempiuto (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 22.10.2013 n. 23919).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAI fanghi di cemento sono rifiuti, non altro.
I fanghi di cemento sono rifiuti e non sottoprodotti. I residui derivanti dal lavaggio delle betoniere, come la breccia o il sabbione di cemento, non rientrano nella nozione di sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis del Codice dell'ambiente (dlgs 152/2006), e quindi devono essere trattati come rifiuti.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 15.10.2013 n. 42338.
I giudici di Cassazione precisano che affinché una sostanza possa essere considerata come sottoprodotto, è necessario, tra l'altro, che la stessa: «possa essere utilizzata direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale e che soddisfi, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente» e «sia originata da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la sua produzione» (articolo ItaliaOggi del 21.11.2013).

EDILIZIA PRIVATAAbbisogna del permesso di costruire l’installazione della roulotte, in quanto non si tratta di strutture precarie e contingenti, destinate a soddisfare bisogni occasionali e ad essere definitivamente rimosse dopo un breve uso, ma di beni adibiti ad usi ripetuti nel tempo, come conferma la presenza degli allacciamenti fognari ed elettrici.
Si tratta pertanto, di costruzioni urbanisticamente rilevanti, giacché ciò che rileva a tal fine è l'idoneità del manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio in modo non occasionale.

In relazione al secondo motivo di ricorso, che per comodità espositiva viene esaminato prioritariamente, va rilevato che i manufatti per cui è causa hanno caratteristiche tali da indurre univocamente a ritenere che si è in presenza di costruzioni che alterano visibilmente e notevolmente lo stato dei luoghi, modificano in maniera permanente e significativa l'assetto urbanistico-edilizio del territorio e come tali sono senz'altro abbisognevoli del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Tale qualificazione si attaglia a tutti i manufatti per cui è causa, nonché all’installazione della roulotte, in quanto non si tratta di strutture precarie e contingenti, destinate a soddisfare bisogni occasionali e ad essere definitivamente rimosse dopo un breve uso, ma di beni adibiti ad usi ripetuti nel tempo, come conferma la presenza degli allacciamenti fognari ed elettrici. Si tratta pertanto, di costruzioni urbanisticamente rilevanti, giacché ciò che rileva a tal fine è l'idoneità del manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio in modo non occasionale (cfr., TAR Toscana, III, 11.04.2008, n. 1020).
Alla luce della tipologia delle opere qui rinvenibile e come esattamente qualificata dall'amministrazione, il regime giuridico da applicarsi risulta, quindi, essere quello descritto dalla previsioni di cui al coordinato disposto degli artt. 78, lett. b) (il quale annovera tra gli interventi sottoposti a permesso di costruire “l’installazione di manufatti, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, quali esplicitamente risultino in base alle vigenti disposizioni”) e 132 della legge regionale n. 12/2005, con la sottoposizione dei realizzati abusi alle sanzioni ivi previste per le "opere in assenza di permesso di costruire"
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.09.2013 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il vizio di incompetenza da cui possa essere affetto un provvedimento amministrativo, soprattutto quando si contesta che la competenza appartiene ad un organo diverso dello stesso ente, come nel caso di specie, e non ad un ente radicalmente diverso, è un mero vizio procedimentale e, dunque, sanabile –ove, come nella fattispecie che ci occupa, il provvedimento abbia natura vincolata (ndr: ordinanza di demolizione) e l’irrilevanza del vizio sul contenuto dispositivo sia palese– ai sensi dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, la cui natura processuale è ormai pacifica.
Dalle considerazioni che precedono emerge l’infondatezza anche del primo motivo di ricorso, con cui si lamenta che il provvedimento impugnato avrebbe dovuto essere firmato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale e non da un funzionario del servizio non dirigente né responsabile del competente ufficio.
Infatti, il vizio di incompetenza da cui possa essere affetto un provvedimento amministrativo, soprattutto quando si contesta che la competenza appartiene ad un organo diverso dello stesso ente, come nel caso di specie, e non ad un ente radicalmente diverso, è un mero vizio procedimentale e, dunque, sanabile –ove, come nella fattispecie che ci occupa, il provvedimento abbia natura vincolata e l’irrilevanza del vizio sul contenuto dispositivo sia palese– ai sensi dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, la cui natura processuale è ormai pacifica (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 23.01.2012, n. 282)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.09.2013 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILo jus variandi (in materia di appalti di oo.pp.) spetta al committente solo in casi tassativi e nessuna variazione o addizione al progetto approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei limiti indicati all’articolo 25 della Legge (n. 109/1994 n.d.s.).
Il mancato rispetto di tale disposizione non da titolo al pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la rimessa in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le disposizioni del direttore lavori.
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All’appaltatore che abbia eseguito variazioni a addizioni arbitrarie (perché non richieste od autorizzate dall’amministrazione committente) non spetta nemmeno l’indennizzo ex. art. 2041 c.c.. Non già, beninteso, per l’inammissibilità dell’actio de in rem verso nei confronti della pubblica amministrazione –costituendo, anzi, l’ammissibilità di siffatta azione nei confronti di essa principio ormai saldamente acquisito- ma per l’assorbente ragione della vigenza di un precetto legislativo che, in materia di variazioni apportate dall’appaltatore di opera pubblica unilateralmente ed in carenza di qualsiasi richiesta dell’amministrazione committente, esclude in modo espresso il diritto a qualunque compenso.

Devono allora trovare applicazione gli artt. 132 d.lgs. 163/2006 e art. 134 d.p.r. 554/1999 per i quali lo jus variandi spetta al committente solo in casi tassativi e nessuna variazione o addizione al progetto approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei limiti indicati all’articolo 25 della Legge (n. 109/1994 n.d.s.). Il mancato rispetto di tale disposizione non da titolo al pagamento dei lavori non autorizzati e comporta la rimessa in pristino, a carico dell’appaltatore, dei lavori e delle opere nella situazione originaria secondo le disposizioni del direttore lavori.
Nel caso in esame è pacifico che gli sforamenti non siano mai stati autorizzati dal direttore lavori, né dalla stazione appaltante, e che anzi il primo abbia colpevolmente perso il controllo della contabilità continuando a liquidare i SAL in via provvisoria su misurazioni presuntive, anziché effettive. Dal canto suo l’appaltatore, ben consapevole dello stato dei luoghi e delle opere da realizzare, ha accettato il dimensionamento economico del contratto ad ha seguito dei rilievi sulla profondità della roccia ha realizzato addizioni senza verificare che i lavori spinti così avanti senza rilevazione metrica avrebbero portato allo sforamento dell’importo stanziato.
Come però correttamente osservato del Ctu, l’impresa non era titolata ad introdurre addizioni al progetto e dunque doveva verificare che ciò non avvenisse. Le predette violazioni della normativa in tema di appalti pubblici non danno allora titolo ad alcun pagamento delle addizioni non autorizzate, a nulla rilevando che le stesse siano state funzionali all’opera, atteso che la disciplina pubblicistica non deroga mai alla prescrizione per cui tutte le varianti o addizioni al progetto devono sempre essere disposte dal direttore dei lavori e dalla stazione appaltante, cosa che nel caso di specie non è avvenuto visto che la committente, tramite il direttore lavori, non ha nemmeno realizzato in tempo che l’appalto stava superando l’importo stanziato.
Peraltro, all’appaltatore che abbia eseguito variazioni o addizioni arbitrarie (perché non richieste od autorizzate dall’amministrazione committente) non spetta nemmeno l’indennizzo ex. art. 2041 c.c.. Non già, beninteso, per l’inammissibilità dell’actio de in rem verso nei confronti della pubblica amministrazione –costituendo, anzi, l’ammissibilità di siffatta azione nei confronti di essa principio ormai saldamente acquisito- ma per l’assorbente ragione della vigenza di un precetto legislativo che, in materia di variazioni apportate dall’appaltatore di opera pubblica unilateralmente ed in carenza di qualsiasi richiesta dell’amministrazione committente, esclude in modo espresso il diritto a qualunque compenso (arg. ex Cassazione n. 12681/2004) (TRIBUNALE di Lecco, Sez. I civile, sentenza 17.08.2012 n. 510 - tratta dal sito web del comune ricorrente).

AGGIORNAMENTO AL 20.11.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

URBANISTICA: A. Di Mario, Il Tar Lombardia riafferma l’avvenuta abrogazione del potere comunale di regolazione commerciale inserita nei piani regolatori urbanistici (29.10.2013).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: OPERE DI URBANIZZAZIONE A SCOMPUTO DEGLI ONERI DI URBANIZZAZIONE.
Approvate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nella seduta del 07.11.2013, le linee guida ITACA recanti “Realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione”.
Le Linee Guida sono il risultato dell’attività di uno specifico gruppo di lavoro costituito presso Itaca e coordinato dalla Regione Veneto, allo scopo di fornire strumenti operativi di ausilio alle piccole e medie amministrazioni aggiudicatrici nella realizzazione delle opere di urbanizzazione attraverso l’istituto dello scomputo dei relativi oneri.
Tale esigenza è nata dalla considerazione della particolare complessità della materia, dovuta principalmente al suo assoggettamento alla disciplina degli appalti pubblici, affermato per la prima volta dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza 12.07.2001, (C-399/98), con obbligo per l’operatore edilizio di realizzare le opere di urbanizzazione a scomputo agendo come stazione appaltante mediante indizione di procedure di evidenza pubblica.
I ripetuti interventi normativi finalizzati ad adeguare l’ordinamento interno ai principi comunitari hanno formato oggetto di numerosi indirizzi interpretativi nel tentativo di risolvere le questioni lasciate irrisolte dal legislatore, senza tuttavia offrire un quadro organico e sistematico utile per la concreta gestione dei procedimenti connessi all’attuazione degli interventi di urbanizzazione.
Le linee guida ITACA muovono da un differente approccio, che, partendo dalla corretta qualificazione giuridica della fattispecie normativa, si propone di individuare e diffondere best practices che possano costituire guida per gli enti locali ed operatori economici privati nella strutturazione dei reciproci rapporti in rispondenza a criteri di opportunità ed efficienza. Inoltre, il supporto operativo è fornito anche attraverso l’elaborazione di una convenzione urbanistica tipo che contempla la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo, predisposta in forma modulare a seconda dell’opzione prescelta tra quelle consentite dalla legge.
Il documento si articola pertanto in:
- linee guida (allegato 1), volte ad indicare le best pratices che le amministrazioni dovrebbero seguire operativamente nella gestione del procedimento di realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo;
- due schemi di convenzione-tipo rispettivamente per le opere di urbanizzazione sopra (allegato 2) e sottosoglia (allegato 3).
Nelle linee guida sono trattate le questioni fondamentali della materia, sia con riferimento agli aspetti urbanistici sia con riguardo a quelli appaltistici: i punti più significativi e qualificanti attengono infatti alla enucleazione dei poteri di controllo delle amministrazioni comunali durante tutta la fase di attuazione delle opere previste in convenzione, al ruolo del responsabile del procedimento, alle opere “ulteriori” rispetto a quelle da realizzare a scomputo, alla individuazione delle fattispecie di realizzazione diretta da parte dell’operatore edilizio delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia.
Le linee guida Itaca approvate oggi dalla Conferenza delle Regioni –afferma l’assessore Massimo Giorgetti di Regione Veneto, Vicepresidente di ITACA– forniranno un importante ausilio alle piccole e medie amministrazioni comunali, impegnate nella delicata gestione delle gare per l’affidamento delle opere, ed al rapporto convenzionale tra l’operatore edilizio e la stessa amministrazione”.
Tale esigenza –sottolinea Giorgetti– deriva dalla circostanza che si tratta pur sempre di opere pubbliche e che, una volta realizzate, sono destinate ad essere acquisite al patrimonio pubblico, e quindi, la qualità delle opere e la rispondenza delle stesse alle esigenze dell’amministrazione, sono fattori determinanti ai fini del corretto agire pubblico” (11.11.2013 - link a www.itaca.org)

APPALTI FORNITURE E SERVIZIConsip, Spending review: AGGIORNATA la tabella obblighi/facoltà per gli acquisti di beni e servizi.
E' stata pubblicata sul Portale degli acquisti (www.acquistinretepa.it) la tabella aggiornata a ottobre 2013 che riassume il quadro relativo all'obbligo/facoltà di utilizzo degli strumenti d'acquisto di Consip e delle centrali regionali di committenza.
La tabella, elaborata da Consip con il Ministero dell'Economia e delle Finanze, intende orientare e facilitare le pubbliche amministrazioni nell'acquisto di beni e servizi, ponendosi come agile strumento di consultazione.
Le amministrazioni, attraverso la tabella, avranno rapido accesso alla normativa applicabile in base alla propria categoria di appartenenza (amministrazione centrale, regionale, territoriale, ente del servizio sanitario nazionale, scuola/università, organismo di diritto pubblico), alla tipologia di acquisto (sopra la soglia comunitaria o sotto la soglia comunitaria) e alla categoria merceologica a cui appartengono i beni o servizi oggetto di acquisto (03.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: REGOLAZIONE REGIONALE DELLA GENERAZIONE ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI (GSE, settembre 2013).

ARAN & SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Malattia e visite specialistiche nel pubblico impiego. La conversione in legge del d.l. 101/2013 (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.11.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Abolizione delle province - Tra i due litiganti l'importante è non farsi usare (CGIL-FP di Bergamo, nota 11.11.2013).

SEGRETARI COMUNALIIl badge per il segretario non è più un tabù.
Nonostante l'orario di lavoro del segretario comunale non preveda alcuna quantificazione di tale prestazione fondandosi, come noto, su un sistema di «autoresponsabilizzazione» del segretario stesso, non è preclusa all'amministrazione comunale la possibilità di dotarsi di un sistema di rilevazione delle sue presenze e assenze, al solo fine della redazione della valutazione annuale, dell'erogazione della retribuzione di risultato e della gestione delle ferie o delle malattie.

È quanto ha precisato l'Aran nel recente parere 24.10.2013 n. 34/2013, con cui fa luce sulla possibilità per un comune di dotare il proprio segretario di un tesserino magnetico per la rilevazione delle sue presenze e assenze.
Secondo la disciplina contrattuale prevista dall'articolo 19 del Ccnl, che sostanzialmente ricalca le norme previste per la dirigenza del comparto regioni e autonomie locali, per il segretario comunale non è prevista alcuna quantificazione complessiva dell'orario di lavoro, neppure attraverso la sola definizione di un limite massimo di durata delle prestazioni lavorative dovute. Spetta, invece, al segretario l'organizzazione complessiva del proprio tempo di lavoro, in modo da assicurare il completo soddisfacimento dei compiti affidati e degli obiettivi assegnati.
Pertanto, adottando una linea di pensiero sostanzialmente analoga a quella per la dirigenza, l'Aran ammette che se il nuovo sistema è basato su una sorta di «autoresponsabilizzazione» del segretario nell'organizzazione del proprio orario di lavoro, l'ente locale può sempre assumere iniziative per l'adozione di sistemi di rilevazione e accertamento delle presenze e delle assenze del segretario. Un sistema che sarà poi utile ai fini della valutazione annuale del segretario, dell'erogazione della retribuzione di risultato nonché per la gestione degli altri istituti connessi al rapporto di lavoro, quali, per esempio, le ferie e la malattia.
In pratica, ciò che non è ammesso è che l'ente utilizzi la rilevazione automatica per fini diversi da quella del semplice accertamento delle presenze e delle assenze. Ovvero, che la «strisciata» del badge da parte del segretario possa essere rilevante ai fini della «quantità oraria» delle prestazioni giornaliere. Possibilità espressamente preclusa dalla norma contrattuale sopra rilevata che non prevede per i segretari alcuna quantificazione dell'orario di lavoro dovuto settimanalmente (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 47 del 19.11.2013, "Approvazione di criteri per la redazione dei piani di assestamento forestale (PAF)" (deliberazione G.R. 08.11.2013 n. 901).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 47 del 19.11.2013, "Modifiche alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale) concernente i mercati rurali e la promozione dei prodotti locali" (L.R. 18.11.2013 n. 14).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 18.11.2013, "Approvazione criteri per l’assegnazione di contributi per la riqualificazione di impianti sportivi scolastici di uso pubblico" (deliberazione G.R. 08.11.2013 n. 902).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 11.11.2013 n. 264 "Testo del decreto-legge 12.09.2013, n. 104, coordinato con la legge di conversione 08.11.2013, n. 128, recante: «Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca»".
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Di interesse si leggano:
● Art. 10 - Mutui per l’edilizia scolastica e per l’edilizia residenziale universitaria e detrazioni fiscali
● Art. 10-bis - Disposizioni in materia di prevenzione degli incendi negli edifici scolastici
● Art. 10-ter - Interventi di edilizia scolastica

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Ferrari, Il codice di comportamento di ente (tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it n. 56 - novembre 2013).
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Mario Ferrari ha fornito un’analisi sintetica del compito a cui sono chiamate tutte le amministrazioni pubbliche: adottare, entro il 15.12.2013, un codice di comportamento specifico di ente.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale News (tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 05.11.2013 n. 20).

ESPROPRIAZIONE: Di Giulio Veltri, LA TUTELA RESTITUTORIA IN MATERIA ESPROPRIATIVA: LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA ED I NODI ANCORA IRRISOLTI (novembre 2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: A. Di Mario, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il ‘‘decreto del fare’’ (per gentile concessione dell'autore - Urbanistica e appalti n. 11/2013).

TRIBUTI: Tributi News (tratto dalla newsletter gratuita di www.publika.it, 22.10.2013 n. 20).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture (determinazione 06.11.2013 n. 5).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Sentenza della Corte costituzionale n. 203 del 03.07.2013 - Estensione del diritto al congedo di cui all’art. 42, comma 5, decreto legislativo n. 151 del 26.03.2001 a parente o affine entro il terzo grado convivente con la persona in situazione di disabilità grave (INPS, circolare 15.11.2013 n. 159 - link a www.inps.it).

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Art. 20, comma 5-bis, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98. Modifica all'art. 202 del D.Lgs. 18.05.1998, n. 285 (Codice della Strada) . Prime indicazioni operative (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, lettera-circolare 11.11.02013 n. 19442 di prot.).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Rilascio del Documento unico di regolarità contributiva anche in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte di un medesimo soggetto - D.M. 13.03.2013 (INAIL, circolare 11.11.2013 n. 53 - link a www.inail.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4035/2013 del 31.07.2013 in materia di diritto di accesso alle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede ispettiva. Istruzioni operative (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 08.11.2013 n. 43/2013).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni e integrazioni - risposta al quesito sulla formazione degli addetti alla gestione delle emergenze per la prevenzione incendi, DM 10.03.1998 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 24.10.2013 n. 10/2013).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie.
Le ferie spettanti al dipendente e da questi non godute entro i limiti legali e/o contrattuali, a tal fine, previsti nel singolo comparto di appartenenza prima della vigenza del d.l. 95/2012 (convertito), non possano ritenersi assoggettate al divieto di monetizzazione, trattandosi di un diritto ormai sorto ovvero di una fattispecie già perfezionata, della quale, cioè, sono venuti ad esistenza tutti i presupposti (ove, naturalmente, ciò sia effettivamente accaduto, secondo le disposizioni contrattuali e di legge, in concreto, operanti nel caso specifico).
In mancanza di una disciplina “intertemporale” che abbia esteso gli effetti del divieto anche alle ferie non più fruibili alla data di entrata in vigore della norma –come nella specie– dunque, non può che concludersi nel senso della esclusione delle stesse (e del conseguente diritto alla monetizzazione) dalla relativa previsione.
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Il Sindaco del Comune di Porto Tolle, con la suindicata nota, ha sollecitato l’esercizio della funzione consultiva da parte di questa Sezione, ponendo i seguenti quesiti:
- se sia possibile riconoscere, in favore di una dipendente del comune, collocata in quiescenza per inabilità totale al lavoro, la monetizzazione delle ferie maturate e non godute prima della entrata in vigore dell’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95 del 06.07.2012, conv. nella Legge n. 135 del 07.08.2012, a norma del quale “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi”) ovvero se tale riconoscimento sia suscettibile di generare, in capo al responsabile del servizio finanziario che ne disponga la liquidazione, responsabilità disciplinare ed amministrativa, così come previsto dall’ultimo capoverso della citata disposizione;
- se il suddetto riconoscimento possa estendersi anche alle ferie maturate dopo l’entrata in vigore del citato Decreto, in ragione del fatto che la mancata fruizione delle stesse debba imputarsi alla cessazione del rapporto per sopravvenuta inabilità al lavoro e, dunque, per causa non imputabile alla dipendente.
...
Nel caso di specie, i quesiti formulati, sia pure in forma estremamente concreta e circostanziata, vertono, in ultima analisi, sulla interpretazione ed applicazione di una norma vincolistica avente quale finalità quella di conseguire una riduzione della spesa di personale, in un’ottica di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica, di sicura rilevanza rispetto alla nozione di contabilità dianzi delineata.
La Sezione, tuttavia, onde non travalicare i limiti della funzione consultiva e non esprimersi su di una vicenda concreta, suscettibile di avere ripercussioni sia sul piano delle scelte gestionali dell’ente, sia su quello della responsabilità amministrativo-contabile, si limiterà ad esprimere alcune considerazioni generali sull’ambito di operatività della disposizione.
Quest’ultima, come si è detto, al fine di conseguire un’ulteriore razionalizzazione della spesa pubblica, ha introdotto il divieto di “monetizzazione”, tra l’altro, delle ferie maturate e non godute dal personale dipendente delle pubbliche amministrazioni, escludendo la corresponsione di qualsivoglia trattamento sostitutivo e rendendo obbligatoria la fruizione delle ferie medesime nei tempi e nei modi previsti dai singoli comparti di contrattazione.
La stessa, inoltre, ha espressamente esteso il divieto ai casi di mancata fruizione per cessazione del rapporto di lavoro, mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età, prevedendo, tra l’altro, la cessazione dell’applicazione, a decorrere dalla entrata in vigore del decreto, di tutte le disposizioni “più favorevoli”, sia di natura normativa che di natura contrattuale.
In forza del generale principio di irretroattività, le leggi “in materia civile” –per quelle in materia penale, il principio è di rango costituzionale (art. 25 Cost.)– dispongono, di norma, solo per l’avvenire e non possono investire fattispecie che abbiano già prodotto o esaurito i loro effetti, applicandosi soltanto a fattispecie, status e situazioni esistenti o sopravvenute alla data di entrata in vigore della legge medesima e, in quest’ultimo caso, anche se scaturenti da un fatto verificatosi anteriormente, quando debbano essere prese in considerazione in se stesse, prescindendo dal fatto che le ha generate (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile).
Sulla scorta di tale principio,
è evidente che le ferie spettanti al dipendente e da questi non godute entro i limiti legali e/o contrattuali, a tal fine, previsti nel singolo comparto di appartenenza prima della vigenza del decreto legge (convertito), non possano ritenersi assoggettate al divieto di monetizzazione, trattandosi di un diritto ormai sorto ovvero di una fattispecie già perfezionata, della quale, cioè, sono venuti ad esistenza tutti i presupposti (ove, naturalmente, ciò sia effettivamente accaduto, secondo le disposizioni contrattuali e di legge, in concreto, operanti nel caso specifico).
In mancanza di una disciplina “intertemporale” che abbia esteso gli effetti del divieto anche alle ferie non più fruibili alla data di entrata in vigore della norma –come nella specie– dunque, non può che concludersi nel senso della esclusione delle stesse (e del conseguente diritto alla monetizzazione) dalla relativa previsione. Nello stesso senso, peraltro, si è espresso anche il Dipartimento della Funzione Pubblica, nella nota del 06.08.2012, in risposta ad analogo quesito dell’ANCI.
In merito al secondo quesito ed, in generale, alla estensione del divieto anche alle ipotesi nelle quali la mancata fruizione delle ferie sia dovuta al sopravvenire di una vicenda estintiva del rapporto di lavoro non “dipendente dalla volontà dell’interessato” (nella specie, collocamento in quiescenza per inabilità assoluta alla prestazione lavorativa),
deve rilevarsi come proprio la formulazione della norma, oltre a ragioni di equità e di ragionevolezza, conducano alla esclusione di una interpretazione di tal genere.
L’espressa individuazione dei casi nei quali l’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro non fa venir meno la preclusione alla monetizzazione, all’evidenza, è indice della volontà del Legislatore di lasciare al di fuori dell’ambito di operatività della norma le ipotesi non contemplate; inoltre, la natura dei casi indicati –fattispecie nelle quali il dipendente determina o concorre a determinare, con propri atti o comportamenti, la cessazione del rapporto o, comunque, nelle quali è ben possibile, in previsione dell’evento, pianificare il godimento delle ferie (mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età)– lascia chiaramente intendere che
la prevedibilità e, quindi, la riconducibilità, anche mediata, della fattispecie estintiva alla volontà del dipendente costituisca elemento determinate ai fini della delimitazione della portata del divieto di corresponsione di trattamenti economici “sostitutivi”; divieto che, dunque, non può ritenersi operante, in generale, per le ferie delle quali, nel singolo contesto normativo e contrattuale del comparto di riferimento, non è più possibile godere in ragione della sopravvenuta interruzione del rapporto di impiego per cause diverse da quelle previste dalla norma in esame (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 12.11.2013 n. 342).

INCENTIVO PROGETTAZIONEGli atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 non possono che riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori pubblici con la conseguenza che i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche.
Nella specie, la partecipazione alla predisposizione del piano di azione e della mappatura acustica, i quali sono atti solo potenzialmente e non specificamente collegati alla realizzazione di singole opere pubbliche, rientra nell’espletamento di un’attività riconducibile ad una funzione istituzionale, rispetto alla quale il dipendente che abbia materialmente redatto l’atto svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2011) e come tale non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
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Dato il carattere multidisciplinare dell’attività di pianificazione delle opere pubbliche, l’incentivo può essere riconosciuto a tutti i soggetti che hanno partecipato alla redazione dell’atto, senza che sia necessario assumere il ruolo di progettista del piano.
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Il Commissario Straordinario della Provincia di Genova ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che prevede la corresponsione di incentivi a favore del personale dipendente dell’amministrazione aggiudicatrice che abbiano partecipato alla redazione di un atto di pianificazione, nell’ipotesi di attività previste dal d.lgs. 19.08.2005, n. 194 relative alla bonifica acustica della rete viabile.
La Provincia, nel formulare la richiesta di parere, muove da un precedente di questa Sezione (parere 21.12.2012 n. 109), in occasione del quale è stato affermato che i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti per la partecipazione alla redazione di atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche. Ritiene al riguardo la Provincia che questa Sezione, nel citato parere, abbia inteso affermare uno stretto collegamento tra pianificazione e progettazione di opere pubbliche laddove in altri precedenti di diverse Sezioni regionali sembrerebbe –ad avviso della Provincia– ammettersi la corresponsione dell’incentivo correlato all’attività di pianificazione anche nel caso di prestazione affidata a professionisti esterni, qualora alcune attività siano comunque svolte dai dipendenti pubblici (Sez. regionale di controllo per il Veneto
parere 26.07.2011 n. 337).
Riferisce, inoltre, la Provincia che la normativa relativa alle attività di bonifica acustica della rete viabile, nel prevedere una serie di adempimenti che consistono in una mappatura acustica e nella definizione di un piano di azione per le zone con supero, la cui mancata adozione è dalla legge sanzionata, configura tali atti nel loro insieme come attività di pianificazione e programmazione finalizzate a valutare il sistema infrastrutturale provinciale dal punto di vista delle criticità acustiche, definendo tali atti gli obiettivi a medio e lungo termine ed identificando gli interventi e la stima presuntiva dei costi oltreché il grado di priorità esecutiva per ciascun intervento. Sicché il piano di azione comporta interventi di risanamento acustico che possono anche riguardare la realizzazione di opere (posizionamento di barriere antirumore, ecc.) riconducibili alle categorie dei lavori pubblici previste dal d.P.R. 05.10.2010, n. 207 e che in ogni caso devono essere recepiti nel piano triennale delle opere pubbliche.
Di qui il primo quesito concernente la possibilità o meno di riconoscere l’incentivo al personale che partecipa alla predisposizione del piano di azione e della mappatura acustica che ne costituisce il presupposto.
Il secondo quesito, subordinato al primo, che muove da un orientamento della Sezione regionale di controllo per la Lombardia (deliberazioni n. 9 del 2009 e n. 430 del 2011), secondo cui gli atti di pianificazione richiamati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, devono presentare un contenuto tecnico documentale rientrante nelle competenze professionali degli architetti e degli ingegneri, concerne, invece, la possibilità o meno che l’incentivo sia riconosciuto a tutte le professionalità necessarie per la redazione del piano d’azione e cioè non solo agli architetti ed agli ingegneri.
A sostegno della tesi prospettata, la Provincia richiama il precedente citato della Sezione regionale di controllo per il Veneto (
parere 26.07.2011 n. 337), nel quale si afferma il carattere multidisciplinare dell’attività di pianificazione con la possibilità, quindi, che l’incentivo possa essere riconosciuto a tutti i soggetti che hanno partecipato alla redazione dell’atto, senza che sia necessario assumere il ruolo di progettista del piano.
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Nel merito, occorre richiamare il comma 6 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Sulla portata applicativa della norma si sono più volte pronunciate, in sede consultiva, diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (Sez. contr. Puglia
parere 16.01.2012 n. 1, Sez. contr. Campania n. 14 del 2008, Sez. contr. Toscana parere 18.10.2011 n. 213), tra cui anche questa Sezione con il parere 21.12.2012 n. 109, richiamato nella richiesta di parere.
E’ stato al riguardo affermato che l’analisi delle fattispecie non può prescindere dalla collocazione sistematica della norma nel Codice dei contratti e più specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata alla progettazione interna ed esterna relativa a lavori pubblici. Sicché, come precisato da questa Sezione nel citato parere n. 109 del 2012,
gli atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 non possono che riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori pubblici con la conseguenza che i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche.
Nella specie,
la partecipazione alla predisposizione del piano di azione e della mappatura acustica, i quali sono atti solo potenzialmente e non specificamente collegati alla realizzazione di singole opere pubbliche, rientra nell’espletamento di un’attività riconducibile ad una funzione istituzionale, rispetto alla quale il dipendente che abbia materialmente redatto l’atto svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2011) e come tale non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Rimane, pertanto, assorbito il secondo quesito concernente la possibilità o meno che l’incentivo sia riconosciuto a tutte le professionalità necessarie per la redazione del piano d’azione e cioè non solo agli architetti ed agli ingegneri, fermo restando che –ad avviso del Collegio– vale quanto affermato dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto nel citato
parere 26.07.2011 n. 337 a proposito della pianificazione e progettazione delle opere pubbliche, secondo cui, dato il carattere multidisciplinare dell’attività di pianificazione delle opere pubbliche, l’incentivo può essere riconosciuto a tutti i soggetti che hanno partecipato alla redazione dell’atto, senza che sia necessario assumere il ruolo di progettista del piano (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 11.11.2013 n. 80).

ENTI LOCALIDismissioni, l'holding non salva. Illegittimo costituire una capogruppo per dribblare i tagli. La Corte conti Lombardia sull'obbligo di mettere in liquidazione le società strumentali.
Niente escamotage sulla dismissione delle società partecipate. Non basta infatti costituire una holding per dribblare gli obblighi che impongono (entro il 31 dicembre) ai comuni sotto i 30.000 abitanti di liberarsi di tutte le società strumentali, lasciando al contempo agli enti tra 30.000 e 50.000 abitanti la possibilità di mantenere la partecipazione in una sola società detenuta. Se infatti si consentisse ai comuni di avere una partecipazione diretta in una società la quale a sua volta ne controlla svariate altre, si legittimerebbe una condotta elusiva di una norma di legge. Poiché la ratio dell'art. 14, comma 32 del dl 78/2010 è quella di ridurre le partecipazioni societarie detenute dai comuni.

Lo ha chiarito con il parere 04.11.2013 n. 474 la Corte dei Conti della Lombardia, Sez. controllo.
A rivolgersi ai giudici contabili è stato il comune di Bollate (Mi) che chiedeva un parere sulla legittimità di un'operazione realizzata nel 2007, ma divenuta a rischio alla luce del dl 78/2010. L'ente aveva costituito una srl, interamente partecipata, la quale, a seguito di trasferimento di quote, era salita fino a detenere il 100% di due ulteriori società: una, affidataria di servizi socio-assistenziali e delle farmacie comunali e un'altra affidataria di servizi per il territorio. Nella richiesta di parere, il sindaco chiedeva se fosse possibile unificare le due partecipazioni trasformando la società partecipata in una holding (detentrice di sole partecipazioni e quindi connotabile come holding strategica). Ma l'operazione ha ricevuto l'altolà della Corte conti lombarda.
I giudici erariali hanno sottolineato che le società strumentali per essere tali devono avere un oggetto sociale esclusivo. Se infatti si consentisse a questo tipo di società la possibilità di svolgere ulteriori attività a favore di altri soggetti pubblici o privati, «si verificherebbe un'alterazione o comunque una distorsione della concorrenza all'interno del mercato locale». Ma la gestione di partecipazioni societarie esula dal concetto di «oggetto sociale esclusivo», perché non è ammissibile che «la stessa società che opera in house svolga, per conto di uno o più enti, sia attività strumentali sia di gestione di servizi pubblici locali».
Ma a parte questo vizio di fondo, l'operazione congegnata dal comune di Bollate è da cassare soprattutto perché «collide con la disposizione prevista dall'art. 14, comma 32, del dl 78/2010 e con il principio di eliminazione quantitativa delle partecipazioni societarie detenute e non più detenibili». L'unica chance per gli enti è ampliare la compagine societaria coinvolgendo altri comuni in modo da superare i limiti demografici previsti. Una possibilità già ammessa dalla stessa Corte conti Lombardia (delibera n. 66/2013) (articolo ItaliaOggi del 14.11.2013).

APPALTI: In materia di regolarizzazione delle spese di "somma urgenza" e di debiti fuori bilancio.
La regolarizzazione delle spese “di somma urgenza” senza attivare la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio può essere disposta in tutti i casi in cui esistono stanziamenti in bilancio (anche ordinari) sufficientemente capienti all’effettuazione della spesa di somma urgenza.
Nel caso in cui non vi siano idonei stanziamenti in bilancio, la Giunta, su proposta del responsabile del procedimento, attiva la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio di competenza consiliare.
Il rinvio all’art. 194 TUEL è da intendersi unicamente riferito alla forma dell’atto e alla competenza dell’Organo (Consiglio) e quindi si ritiene che in nessun caso debba operare, per il riconoscimento della spesa, il limite “degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’Ente”.
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Con la nota indicata in epigrafe il Presidente della Provincia di Torino chiede:
1) se, ai sensi dell’art. 191 TUEL la regolarizzazione delle spese “di somma urgenza” possa essere disposta dalla Giunta solo ed esclusivamente nelle ipotesi di stanziamenti appositamente intestati a tale finalità;
2) se, invece, la competenza dell’esecutivo si possa ritenere radicata anche nell’ipotesi di ricorso agli ordinari stanziamenti di bilancio per la manutenzione ordinaria o straordinaria purché preesistenti, anche in ordine alla capienza, all’effettuazione della spesa regolarizzata;
3) se le regolarizzazioni di che trattasi costituiscono, sempre, debito fuori bilancio anche quando allocate sugli ordinari stanziamenti di bilancio o solo nell’ipotesi di competenza consiliare;
4) se, pertanto, le regolarizzazioni attuate con provvedimento dell’esecutivo siano indenni dall’onere del riconoscimento solo nei limiti dell’utilità conseguita;
5) se, in sede di prima applicazione della norma, le regolarizzazioni effettuate con deliberazione consiliare, anche quando potevano esserlo con provvedimento di giunta, possano essere ugualmente escluse dall’assimilazione ai debiti fuori bilancio facendo prevalere considerazioni di ordine sostanziale rispetto a quelle di ordine formale.
...
L’art. 191, comma 3, del TUEL, nel testo modificato dal D.L. n. 174/2012, convertito nella L. n. 213/2012 così dispone: “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare”.
Nella relazione illustrativa della nuova norma, come innovata dall’art. 3, comma 1, lett. i) del D.L. n. 174/2012, come convertito nella L. n. 213/2012, si evidenzia che “si prevede una maggiore responsabilizzazione degli organi di governo per l’effettuazione di lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile. La norma mira, infatti, a ricondurre al sistema di bilancio le spese effettuate con procedure non tipiche in considerazione dell’urgenza di realizzare gli interventi eccezionali ed imprevedibili”.
In effetti, l’art. 191, comma 3, del TUEL nel testo antecedente alla novella del 2012 prevedeva unicamente che “per i lavori di somma urgenza cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale od imprevedibile, l’ordinazione fatta a terzi è regolarizzata, a pena di decadenza entro trenta giorni e comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente alla regolarizzazione.”
Immutato invece è rimasto il tenore del comma 4 dell’art. 191 TUEL che prevede: “Comma 4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni”.
Come noto, l'art. 191 TUEL fissa le "Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese".
Il primo comma dell’articolo individua l'ordinaria procedura di spesa per cui l'Ente può attivarsi solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Solo dopo il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione.
Se questa, come detto, è la procedura ordinaria, il comma 3 dell’art. 191 risulta essere una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di "autorizzazione" da parte del legislatore a diversamente procedere in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Tuttavia, proprio perché si tratta di una procedura derogatoria a quella ordinaria di spesa, deve essere applicata in maniera restrittiva e deve, in ogni caso, essere seguita da una rigorosa “regolarizzazione” a posteriori, che riconduca tale spesa anomala nell’ambito della contabilità ordinaria dell’Ente.
Nell’ambito della disciplina antecedente al D.L. n. 174/2012, la norma contenuta nel comma 3 dell’art. 191 TUEL, nello stabilire che, per i lavori di somma urgenza, l'ordinazione fatta a terzi andava regolarizzata dall'Ente locale improrogabilmente entro 30 giorni -e, comunque, entro la fine dell'esercizio, a pena di decadenza-, serviva ad evitare che, alla fine di ciascun esercizio s'accumulassero ordinativi di pagamento per lavori di somma urgenza che, non trovando debita copertura finanziaria, si trasformavano in debiti fuori bilancio (cfr. in tal senso Cass. n. 20763/2009; Cons. Stato, Sez. 5, 23/04/2001, n. 2419).
Nell’ambito di questa logica normativa ancora attuale, la finalità della novella legislativa del 2012 sembra essere quella di responsabilizzare maggiormente gli organi di governo dell’Ente.
Come già evidenziato da questa Corte, “appare chiara la volontà del legislatore di consentire una deroga alla procedura ordinaria non ogni qualvolta vi siano lavori di somma urgenza ma solo allorquando non vi siano difatti, sufficienti fondi a tal fine stanziati. In tale circostanza, non è possibile per l'Ente procedere all'impegno di somme sul competente capitolo o intervento di bilancio in quanto, appunto perché fondi non ve ne sono o non sono sufficienti" (Sez. controllo Liguria, deliberaz. n. 12/2013 e n. 22/2013).
Pertanto,
il dirigente responsabile del centro di costo su cui deve essere fatta gravare la spesa deve procedere a verificare la presenza in bilancio di risorse disponibili da utilizzare per i lavori di somma urgenza e, nel caso di esito positivo, deve predisporre la determinazione dirigenziale per l’assunzione dell’impegno dei fondi.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga appurata l’indisponibilità, in toto o in quota parte, delle risorse in bilancio, il dirigente responsabile del centro di costo deve predisporre una proposta di deliberazione di riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità, sottoponendo tale delibera alla Giunta, la quale, in base al nuovo dettato dell’art. 191 TUEL, deve attivare la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194 di competenza dell’Organo consiliare entro il termine breve indicato dalla norma.
Che poi tali fondi vadano reperiti ex novo o possano trovarsi all'interno del bilancio dell'Ente non interessa al fine della corretta applicazione della norma. Altro non farà l'Ente, in sede di riconoscimento del debito, se non quello che è già previsto dagli artt. 175 (Variazioni al bilancio di previsione ed al piano esecutivo di gestione) e 193 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio) del TUEL
(Sez. controllo Liguria, deliberaz. n. 12/2013 e n. 22/2013).
Si ritiene, pertanto, che ai quesiti posti dall’Amministrazione provinciale possano essere date le seguenti risposte:
- la regolarizzazione delle spese “di somma urgenza” senza attivare la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio può essere disposta in tutti i casi in cui esistono stanziamenti in bilancio (anche ordinari) sufficientemente capienti all’effettuazione della spesa di somma urgenza;
- nel caso in cui non vi siano idonei stanziamenti in bilancio, la Giunta, su proposta del responsabile del procedimento, attiva la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio di competenza consiliare;
- il rinvio all’art. 194 TUEL è da intendersi unicamente riferito alla forma dell’atto e alla competenza dell’Organo (Consiglio) e quindi si ritiene che in nessun caso debba operare, per il riconoscimento della spesa, il limite “degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’Ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 24.10.2013 n. 360).

INCENTIVO PROGETTAZIONEGli atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, dlgs 163/2006 non possono che riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori pubblici come confermato tra l’altro dal testo della norma in esame allorquando dispone che il compenso deve essere ripartito tra i “dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Pertanto i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche.
Solo in tal modo si giustifica una deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione sancito dall’art. 45 del D.lgs. n. 165 del 2001, in quanto nell’ambito dei lavori pubblici il legislatore vede con favore l’espletamento dei compiti di progettazione e di pianificazione da parte del personale interno dotato nelle necessarie professionalità in modo sa valorizzare queste ultime e conseguire risparmi di spesa in conseguenza del mancato ricorso a professionalità esterne.
Ne consegue che l’attività ordinaria d’ufficio, tra cui rientra la variante al PRG oggetto della richiesta di parere, deve essere svolta dal personale dipendente dell’Amministrazione locale che nel caso di specie, proprio in virtù del tenore letterale del quesito posto e della finalità sottesa allo stesso, è in possesso delle professionalità richieste dalla redazione della variante in esame che, come detto, costituisce atto rientrante tra i doveri d’ufficio.
Pertanto questa Sezione ritiene nel senso che
non sia possibile attribuire compensi incentivanti per atti di pianificazione che non siano direttamente collegati alla realizzazione di opere pubbliche, atti di pianificazione che devono essere affidati a risorse interne all’Ente al fine di non incorrere nelle conseguenze previste dalla legge per l’ingiustificato ricorso a professionalità esterne.
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... la Commissione straordinaria presso il Comune di Bordighera chiede alla Sezione di controllo un parere in ordine al corretto ambito applicativo dell’art. 92, comma 6, del D.lgs. n.163/2007 (Codice degli appalti) in base a cui “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Nello specifico si evidenzia che a seguito di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da una società immobiliare sono stati impugnati il DPGR della Liguria, di approvazione condizionata della variante integrale al Piano regolatore generale del comune di Bordighera, e la Delibera di Consiglio comunale, con cui è stata disposta l’accettazione delle prescrizioni imposte dalla regione Liguria per l’approvazione del PRG. Il Presidente della Repubblica ha accolto l’impugnazione e conseguentemente annullato gli atti citati determinando in capo al Comune la necessità di adottare una variante al PRG vigente per dotare di opportuna disciplina urbanistica le aree interessate appartenenti alla società ricorrente.
Potendo la variante essere predisposta dal personale interno in possesso dei requisiti professionali necessari, la Commissione straordinaria chiede se sia legittimo il riconoscimento agli stessi dell’incentivo di cui al comma 6, dell’art. 92 sopra citato (pari al 30% della tariffa professionale) evitando così di ricorrere all’affidamento di incarico professionale esterno mediante la procedura di cui all’art. 124 del D.Lgs. 163/2006, ed ottenendo conseguentemente un notevole risparmio di spesa.
...
Con la richiesta di parere in esame la Commissione straordinaria presso il comune di Bordighera chiede di sapere se la variante al Piano regolatore generale possa essere ricompresa tra gli atti di pianificazione richiamati dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 e giustificare, pertanto, l’attribuzione dell’incentivo ivi individuato al personale dipendente dell’amministrazione che provvederà materialmente alla redazione dello strumento urbanistico.
Dispone infatti la citata norma che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Questo Collegio nel dare risposta al quesito in esame non può che ripercorrere gli stessi passaggi argomentativi già svolti nei confronti della richiesta di parere presentata dal medesimo Comune in pari data per una questione pressoché identica.
Per rispondere compiutamente al quesito occorre, sulla base di un’analisi testuale della norma in esame, individuare quali siano gli atti di pianificazione ricompresi nel dettato normativo.
Come già affermato da altre Sezioni regionali (Sez. controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1, Sez. controllo Campania parere 10.07.2008 n. 14, Sez. controllo Toscana parere 18.10.2011 n. 213) l’analisi non può prescindere dalla collocazione sistematica della norma che trova posto nel cd. Codice dei contratti e più specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata alla progettazione interna ed esterna relativa a lavori pubblici.
Pertanto
gli atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, citato non possono che riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori pubblici come confermato tra l’altro dal testo della norma in esame allorquando dispone che il compenso deve essere ripartito tra i “dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”. Pertanto i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche.
Solo in tal modo si giustifica una deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione sancito dall’art. 45 del D.lgs. n. 165 del 2001, in quanto nell’ambito dei lavori pubblici il legislatore vede con favore l’espletamento dei compiti di progettazione e di pianificazione da parte del personale interno dotato nelle necessarie professionalità in modo sa valorizzare queste ultime e conseguire risparmi di spesa in conseguenza del mancato ricorso a professionalità esterne.
Nel caso di specie appare di tutta evidenza che la variante al PRG non è necessitata dalla realizzazione di un’opera pubblica bensì discende dalla necessita di adempiere ad obblighi imposti dal Decreto del Presidente della Repubblica (in accoglimento di un ricorso proposto da privati), obblighi che si sostanziano in atti amministrativi finalizzati a disciplinare l’assetto urbanistico che pertanto rientrano nell’espletamento “di una funzione istituzionale” e “il dipendente/i che abbia redatto materialmente l’atto regolamentare, svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da ricomprendersi nei compiti e doveri d'ufficio (art. 53 D.lgs. n. 165/2001), non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, c. 6, D.lgs. n. 163/2006” (Sez. controllo Toscana sopra richiamata).
Ne consegue che
l’attività ordinaria d’ufficio, tra cui rientra la variante al PRG oggetto della richiesta di parere, deve essere svolta dal personale dipendente dell’Amministrazione locale che nel caso di specie, proprio in virtù del tenore letterale del quesito posto e della finalità sottesa allo stesso, è in possesso delle professionalità richieste dalla redazione della variante in esame che, come detto, costituisce atto rientrante tra i doveri d’ufficio (si veda l’articolo 21, commi 3 e 4, della legge 05.05.2009, n. 42 richiamato anche dall’art. 3 del d.lgs. 26.11.2010, n. 216 in materia di funzioni fondamentali degli Enti locali).
Pertanto questa Sezione ritiene nel senso che
non sia possibile attribuire compensi incentivanti per atti di pianificazione che non siano direttamente collegati alla realizzazione di opere pubbliche, atti di pianificazione che devono essere affidati a risorse interne all’Ente al fine di non incorrere nelle conseguenze previste dalla legge per l’ingiustificato ricorso a professionalità esterne (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 21.12.2012 n. 109).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Spogliatoi per la polizia locale, tempo di vestizione della divisa.
La giurisprudenza (C. Cass. sez. lav. 08.04.2011, n. 8063), pronunciandosi in generale sul 'tempo tuta' ha così affermato: 'La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto occasione di affermare che ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad esso necessario deve essere retribuito (Cass. 21.10.2003, n. 15374, 08.09.2006, n. 19273)'.
Il Comune formula un quesito in merito alla sussistenza di un eventuale obbligo di 'reperire adeguati ed idonei locali, suddivisi uomini e donne, da adibire a locali spogliatoio per il personale dipendente della Polizia locale'. Un tanto -afferma sempre il Comune- in relazione a quello che lo stesso Comune dice sia un 'conclamato principio' di attuare le operazioni di vestizione e svestizione durante l'orario di servizio.
L'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs 66/2003 da la definizione di orario di lavoro: 'Qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni'. Nulla viene detto espressamente riguardo alle attività preparatorie alla prestazione lavorativa quale il tempo di vestizione.
Si ritiene quindi, sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni sindacali di comparto di questa Direzione centrale che il quadro giuridico di riferimento possa essere correttamente interpretato ricorrendo a pronunce giurisprudenziali.
Non sono state reperite specifiche sentenze riguardanti la presente fattispecie in relazione alla 'polizia locale', ma ve ne sono inerenti, in generale, 'il tempo tuta': 'la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto occasione di affermare che ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad esso necessario deve essere retribuito (Cass. 21.10.2003, n. 15374, 08.09.2006, n. 19273)'
[1].
All'Aran era stato sottoposto un quesito
[2] che riguardava 'la possibilità di computare nell'orario di lavoro, anche a fini retributivi, il tempo impiegato dal personale della polizia municipale per indossare la divisa'; la stessa così rispondeva 'Utili indicazioni possono essere tratte anche da alcune pronunce giurisprudenziali (Corte di Cassazione, sez. lav., n. 8063/2011 [3], Corte di Cassazione sez. lav., n. 19358/2010...) che sembrerebbero escludere che, in casi analoghi a quello esposto, il tempo per indossare la divisa possa essere considerato orario di lavoro'.
Sembra perciò non sussistere alcun obbligo per l'Amministrazione di dotarsi di spogliatoi per il personale di polizia locale.
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[1] C. Cass. sez. lav. 08.04.2011, n. 8063; si veda anche C. Cass., sez. lav., 07.06.2012, 9215 e, da ultimo, C. Cass. sez. lav. 16.05.2013, n. 11828.
[2] RAL 1281.
[3] Che è quella della nota 1
(18.11.2013 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Richiamo in servizio dalle ferie.
L'ARAN ha chiarito come il dipendente richiamato in servizio dalle ferie ai sensi dell'art. 18, comma 11, del CCNL del 6 luglio 1995, sia tenuto a rendere l'ordinaria prestazione di lavoro, anche sotto il profilo della durata. Pertanto, per detta attività non può essere riconosciuto alcun compenso a titolo di lavoro straordinario.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti il richiamo dalle ferie di un dipendente per motivi di servizio. In particolare, l'Ente si è posto le seguenti questioni:
- se sia corretto non riconoscere, in detta fattispecie, il compenso per lavoro straordinario, considerando il servizio svolto come ordinario;
- se sia corretto applicare un istituto specifico del contratto decentrato (indennità di disagio per disponibilità) con riferimento ad una disposizione contrattuale, l'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, che non sembra riconoscere benefici di questo tipo.
Preliminarmente si osserva che esula dalle competenze dello scrivente Ufficio valutare la correttezza o meno del concreto operato delle amministrazioni locali, dovendo limitarsi a fornire consulenza giuridico-amministrativa su fattispecie generali ed astratte.
Tutto ciò premesso, in via collaborativa, si esprime quanto segue.
L'art. 18, comma 11, del CCNL del 06.07.1995
[1], prevede che, qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie, nonché all'indennità di missione per la durata del medesimo viaggio. Il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non goduto.
L'Aran
[2] ha ritenuto che, in mancanza di una diversa e specifica disciplina nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 18, comma 11, citato, il dipendente richiamato dalle ferie per motivi di servizio sia tenuto a rendere l'ordinaria prestazione di lavoro, anche sotto il profilo della durata.
Conseguentemente la giornata del rientro in servizio si configura quale ordinaria giornata lavorativa, e non può dare diritto al compenso per prestazioni straordinarie se non si protrae oltre l'ordinario orario giornaliero di lavoro.
Per quanto concerne la seconda problematica prospettata (corresponsione di indennità di disagio per disponibilità), si precisa che lo scrivente non può esprimersi in merito.
Compete, infatti, esclusivamente all'Ente istante interpretare le clausole approvate in contrattazione decentrata integrativa, tenendo conto della reale volontà delle parti negoziali.
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[1] Applicabile agli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia, in virtù del disposto di cui all'art. 83 del CCRL del 07.12.2006.
[2] Cfr. parere RAL 1428
(15.11.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quote rosa senza vincoli. Assessori donna esterni solo se è possibile. Nei comuni sotto i 15 mila abitanti non c'è obbligo di nomina.
La legge 23.11.2012, n. 215 prevede che sia garantita la «presenza di entrambi i sessi» nelle giunte comunali. Per adeguarsi alle modifiche recate dalla citata legge , sussiste l'obbligo di modificare lo statuto nelle ipotesi in cui, nei comuni con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, non sia prevista la facoltà di nominare gli assessori tra «cittadini non facenti parte del consiglio»?

La legge n. 215/2012 ha modificato il comma 3 dell'art. 6 del dlgs n. 267/2000, prevedendo che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per «garantire» la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti.
Inoltre la presenza di entrambi i sessi deve essere resa effettiva nei consigli comunali, sia nella formazione delle liste dei candidati, sia prevedendo l'obbligo, per l'elettore che voglia esprimere due voti di preferenza, di indicare persone di sesso diverso. La giurisprudenza aveva già affermato l'effettività della previsione costituzionale sulla «parità di genere» recata dall'art. 51, precisando, con riguardo alla nomina della giunta, che «la mancanza di specifiche norme statutarie sulla rappresentanza di genere è irrilevante, in quanto per previsione legislativa, attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata, il sindaco è vincolato a formulare le proprie scelte in modo da conseguire anche tale obbiettivo».
La scelta del sindaco, nel designare i componenti della giunta, seppur discrezionale, deve cedere alla sindacabilità dell'atto da parte del giudice amministrativo in quanto vincolata dalla specifica disposizione normativa, proprio per quanto riguarda la presenza di cittadini di entrambi i sessi.
Peraltro, l'obbligo di garantire la presenza nella giunta di persone di entrambi i sessi «si scioglie solo se il sindaco offre la dimostrazione di non aver potuto in concreto individuare un assessore di genere femminile. A tal fine non possono essere utilizzate motivazioni di tipo meramente soggettivo e neppure ragioni di opportunità collegate agli equilibri tra i gruppi politici di maggioranza».
In ordine ai comuni con popolazione fino a 15 mila abitanti, la novella legislativa, all'art. 1, comma 2, se da un lato impone all'ente di adeguare il proprio statuto alle previsioni volte a garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte, dall'altro non reca in modo espresso l'obbligo di prevedere la nomina di assessori c.d. esterni, rimanendo nelle prerogative dell'ente la facoltà di autodeterminarsi in tal senso. Una recente pronuncia giurisprudenziale ha affrontato proprio l'argomento in esame, relativo a un ente con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, il cui statuto prevede espressamente che, nel caso di rinuncia o di assenza di donne nella maggioranza consiliare, «il verificarsi di tali circostanze non obbliga il sindaco a nominare assessori di sesso femminile persone estranee al consiglio».
Il giudice, al riguardo, ha stabilito che al fine di contemperare gli opposti interessi, in caso di assenza di donne all'interno della maggioranza consiliare il sindaco non può ritenersi obbligato a individuare assessori di sesso femminile al di fuori della maggioranza consiliare, oppure al di fuori della compagine consiliare, ma neppure può ritenersi tout court esonerato dall'obbligo di nomina di assessori di sesso femminile, occorrendo invece che egli svolga un minimum di indagini conoscitive, tese a individuare, all'interno della società civile, nel solo bacino territoriale di riferimento del comune, personalità femminili in possesso di quelle qualità necessarie per ricoprire l'incarico di componente la giunta municipale.
È ovvio che tali indagini e, con esse la nomina di assessori di sesso femminile al di fuori della maggioranza consiliare, avranno ragion d'essere solo se compatibili con l'esigenza primaria della «governabilità», cioè se non pregiudicano l'esistenza del «governo locale» espresso dalle urne. Di tali indagini, e del loro esito, dovrà darsi conto nel decreto sindacale con il quale vengano eventualmente nominati unicamente assessori di sesso maschile. Solo entro tali termini, pertanto, può dirsi che non vi sia obbligo per il sindaco a nominare assessori di sesso femminile persone estranee al Consiglio «e solo se così interpretata la disposizione statutaria su richiamata» può dirsi «in linea con le suddette coordinate comunitarie e nazionali in punto di tutela della parità dei sessi nell'accesso alle cariche elettive».
È, pertanto, evidente la necessità di contemperare l'obbligo di garantire la rappresentanza di entrambi i sessi con quello di assicurare il potere di organizzazione dell'ente che cede, in via di eccezione, al verificarsi di una concreta necessità di ricorrere a cittadini non presenti in consiglio. Entro tali termini va ricondotto l'obbligo, per il comune, di adeguare il proprio statuto alle disposizioni recate dalla legge n. 215/2012, intervenendo con un'apposita previsione nel senso indicato.
Invero, le prescrizioni sulla presentazione delle candidature e sull'obbligo di indicare nella doppia preferenza di voto persone di entrambi i sessi potrebbero, in concreto, consentire al sindaco di comporre la giunta nel rispetto della normativa qui richiamata rendendo remoto il ricorso alle citate eccezioni (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Videoregistrazioni.
Domanda
Sono utilizzabili in sede penale, ai fini della prova di un reato commesso dal dipendente, le videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro?
Risposta
L'art. 4 St. Lav. è una disposizione mirata e limitata al divieto di controllo della attività lavorativa in quanto tale, ovvero al divieto di controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore subordinato, ma tale stessa disposizione non impedisce, invece, i controlli destinati alla difesa dell'impresa rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o, comunque, a tutela del patrimonio aziendale.
Secondo la Giurisprudenza vale la piena utilizzabilità ai fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario del divieto, laddove agisca non per il controllo della prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela dell'azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò non è esatto affermare che dalla citata disposizione dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio che riguardi la polizia giudiziaria, sia perché il divieto, coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il controllo dell'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGOCome si configura il mobbing?
Il c.d. «mobbing» è una condotta protrattasi nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente, in violazione degli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. Esso si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

ENTI LOCALI: Partecipazioni societarie dei comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti.
L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010 stabilisce, per i comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti, oltre al divieto di nuove partecipazioni societarie, la dismissione di tutte quelle già acquisite, salve le eccezioni previste dalla norma e salvo, inoltre, quanto disposto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 244/2007.
In merito a quest'ultima 'clausola di salvezza', la giurisprudenza attualmente prevalente ha interpretato tale disposto secondo la regola del 'doppio binario', nel senso, cioè, che le uniche partecipazioni societarie ammesse sono quelle che rispondono sia ai criteri teleologici di cui all'art. 3, comma 27, della L. n. 244/2007, sia ai criteri demografici di cui all'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010. E' stato, inoltre, puntualizzato che tale regime vincolistico può essere derogato anche in presenza di norme, di carattere speciale, che prevedano il necessario esercizio di attività e funzioni comunali solo a mezzo di organismi partecipati.

Il Comune, avente una popolazione inferiore a 30.000 abitanti, pone un articolato quesito in materia di partecipazioni societarie degli enti locali. Vengono, in particolare, chiesti i seguenti chiarimenti:
1) come si deve interpretare l'espressione 'fermo quanto previsto dall'art. 3, comma 27, della legge 24.12.2007, n. 244
[1]', utilizzata dall'art. 14, comma 32, del decreto legge 31.05.2010, n. 78 [2];
2) quale arco temporale deve essere preso in considerazione per la verifica delle eventuali riduzioni di capitale o degli eventuali ripiani delle perdite delle società partecipate ai quali fa riferimento l'art. 14, comma 32, lettere b) e c), del D.L. 78/2010.
Si osserva che le disposizioni citate fanno parte di una serie di misure che il legislatore ha deciso per ridurre considerevolmente il ricorso allo strumento delle società partecipate da parte degli enti pubblici e favorire, conseguentemente, il contenimento della spesa pubblica nonché il ricorso a procedure comparative per la scelta degli operatori privati ai quali affidare la realizzazione di attività di pubblico interesse.
L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010 è, tra queste, la norma più impattante in quanto correla la possibilità di mantenere partecipazioni societarie alla dimensione demografica dell'ente locale. In particolare, per i comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti, è stabilita, oltre al divieto di nuove partecipazioni societarie, la dismissione di tutte quelle già acquisite, salve le eccezioni previste dalla norma e salvo, inoltre, quanto disposto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 244/2007.
In merito a quest'ultima 'clausola di salvezza', la giurisprudenza attualmente prevalente ha interpretato tale disposto secondo la regola del 'doppio binario', nel senso, cioè, che le uniche partecipazioni societarie ammesse sono quelle che rispondono sia ai criteri teleologici di cui all'art. 3, comma 27, della L. n. 244/2007, sia ai criteri demografici di cui all'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010
[3].
La giurisprudenza ha, inoltre, puntualizzato che tale regime vincolistico presenta la possibilità di essere derogato anche in presenza di norme, di carattere speciale, che prevedano il necessario esercizio di attività e funzioni comunali solo a mezzo di organismi partecipati
[4].
Con riferimento all'art. 14, comma 32, lettere b) e c), del D.L. 78/2010, si osserva che la normativa, utilizzando l'espressione 'nei precedenti esercizi', non sembra definire l'arco temporale in cui debba essere accertato se nella società partecipata vi siano state riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio ovvero perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.
Tale aspetto, criticato dalla dottrina
[5], è stato oggetto di un parere della Corte dei conti, la quale ha sostenuto che 'per stabilire il mantenimento della partecipazione, il comune dovrà verificare se, a partire dall'esercizio 2009, a ritroso, sino alla data di costituzione della società [6], la medesima non abbia subito riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio, ovvero non abbia subito perdite di bilancio in conseguenza delle quali l'ente socio sia stato gravato dall'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime'. Tale opzione interpretativa è stata preferita 'in ragione della maggiore aderenza alle esigenze di coordinamento della finanza pubblica che pone per i comuni demograficamente minori la dismissione delle partecipazioni come regola e il mantenimento entro stringenti limiti come eccezione' [7].
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[1] L'art. 3, comma 27, della L. 244/2007 stabilisce che: 'Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza'.
[2] L'art. 14, comma 32, del D.L. 78/2010 (convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122) prevede che: 'Fermo quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24.12.2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il 31.12.2012 i comuni mettono in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. Le disposizioni di cui al secondo periodo non si applicano ai comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti nel caso in cui le società già costituite:
   a) abbiano, al 31.12.2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi;
   b) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio;
   c) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.
La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società; entro il 31.12.2011 i predetto comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite'.
[3] V. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per l'Emilia Romagna, del. 13.02.2012, n. 9/Par e sez. reg. di controllo della Basilicata, del. 13.07.2012, n. 15. Anche l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, in un suo parere, si è espressa nel senso che 'le amministrazioni pubbliche che intendano costituire società sono soggette ad un vincolo di scopo, mentre i comuni con popolazione inferiore a 50.000 o 30.000 abitanti sono sottoposti anche ad un vincolo di tipo quantitativo (una società, nessuna società, obbligo di aggregazione con altri comuni)' (Parere 04.04.2012, AG 40/11).
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Friuli Venezia Giulia, del. n. FVG/69/2012/Par e sez. reg. di controllo per la Lombardia, del. 15.09.2010, n. 861.
[5] Il rimando alla vita intera della società e, quindi, anche ad epoche assai risalenti, sembra, infatti, poco opportuno se l'intendimento del legislatore fosse quello di salvare le partecipazioni pubbliche di società che risultano essere in stato di salute e non fonte di debiti per gli enti locali (V. 'Limiti all'utilizzabilità dello strumento societario da parte dei comuni di piccole e medie dimensioni', di Fabio Moretti, in Azienditalia, 2012, 7, 554).
[6] Ovvero sino alla data di acquisizione della partecipazione pubblica, come la Corte dei conti precisa nella medesima deliberazione.
[7] Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, del. 27.02.2013, n. 66
(08.11.2013 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Inabilità temporanea.
Nel caso di dipendente dichiarato inabile temporaneamente, per un determinato periodo, si ritiene che lo stesso debba comunque produrre il certificato medico a giustificazione di detta assenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti l'inabilità temporanea ed assoluta al servizio d'istituto e a proficuo lavoro, per la durata di 180 giorni, di un dipendente, riscontrata a seguito di visita medico collegiale. L'ente si è posto, in particolare, la questione se detto periodo debba essere considerato quale malattia.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni sindacali comparto, si osserva quanto segue.
Si evidenzia in proposito che l'ARAN, nell'esprimersi in relazione ad un dipendente dichiarato temporaneamente inidoneo a qualsiasi attività lavorativa, ha affermato il principio, sancito dalla giurisprudenza, per cui deve essere considerata malattia ogni alterazione patologica in atto di organi e delle loro funzioni (anche dell'organismo nel suo complesso) che, per i sintomi con cui si manifesta e per le conseguenze che produce sull'organismo del lavoratore impedisce temporaneamente l'esecuzione della prestazione lavorativa dovuta, in quanto risulta del tutto incompatibile con l'ulteriore svolgimento delle attività necessarie all'espletamento della prestazione stessa
[1].
L'ANCI ha evidenziato specificamente come i periodi di inidoneità a qualsiasi proficuo lavoro sono assolutamente da ricondurre all'interno del giustificativo per malattia, non potendo in alcun modo essere gestiti a diverso titolo
[2].
Conseguentemente il relativo periodo è da considerarsi malattia a tutti gli effetti, anche ai fini del periodo di comporto, previsto dall'art. 9, comma 1, del CCRL del 06.05.2008, e del necessario certificato medico
[3].
Relativamente al computo dei predetti 180 giorni, si ritiene vadano conteggiati ordinariamente, da calendario, non rilevando a tal fine il fatto che lo stipendio si calcoli in trentesimi.
Con riferimento, da ultimo, all'obbligo o meno di richiedere la visita fiscale, si rinvia alle considerazioni espresse dal Dipartimento della funzione pubblica
[4]. In particolare, il predetto Dipartimento ha ricondotto alla discrezionalità del dirigente/titolare di posizione organizzativa la decisione di richiedere la visita fiscale, tenendo conto della condotta complessiva del dipendente e degli oneri connessi all'effettuazione della visita medesima.
Inoltre si precisa che le fattispecie di esclusione dall'obbligo di reperibilità, in caso di visita fiscale, sono elencate all'art. 2 del D.M. n. 206 del 18.12.2009
[5]. Nello specifico, sono esclusi dall'obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali l'assenza è riconducibile ad una delle seguenti circostanze:
a) patologie gravi che richiedono terapie salvavita;
b) infortuni sul lavoro;
c) malattie per le quali è stata riconosciuta la causa di servizio;
d) stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta.
Sono altresì esclusi i dipendenti nei confronti dei quali sia già stata effettuata la visita fiscale per il periodo di prognosi indicato nel certificato.
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[1] Cfr. parere RAL517, consultabile sul sito:www.aranagenzia.it
[2] Cfr. parere del 30.07.2003.
[3] Si osserva ad ogni buon conto che l'art. 13 del medesimo contratto, richiamato dal Comune istante, disciplina invece le assenze per malattia in caso di terapia salvavita.
[4] Cfr. circolare n. 10/2011.
[5] Cfr. anche Dipartimento della funzione pubblica, parere del 15.03.2010
(08.11.2013 -
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PATRIMONIO: Oneri assicurativi per convenzioni con associazioni.
Compete alle associazioni/imprese agricole, con cui il Comune stipula una convenzione per l'attività di pulizia a titolo gratuito, provvedere alla copertura assicurativa dei propri collaboratori. Nel caso di convenzione con le organizzazioni di volontariato o le associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) i relativi oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Il Comune intende stipulare una convenzione con delle associazioni locali e delle aziende agricole che si sono rese disponibili, a titolo gratuito, ad attività di pulizia del territorio.
Il Comune, che si limiterà unicamente a fornire il carburante, chiede di conoscere i propri eventuali profili di responsabilità tanto nel caso di infortunio che dovesse occorrere ad un soggetto operante per conto di taluna delle suddette associazioni e/o aziende agricole, quanto nel caso di danni arrecati a terzi nello svolgimento delle attività dedotte in convenzione.
In ambedue i casi l'ente chiede di conoscere se sia legittima la stipula di idonea polizza assicurativa.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni premettendo che non compete allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine alla legittimità di atti/attività posti in essere dagli enti locali.
Si osserva, innanzi tutto, come secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato
[1] gli aderenti alle associazioni che presteranno la loro attività in forma volontaria non pare possano essere assimilati ai prestatori di lavoro subordinato di cui all'articolo 2094 del codice civile. Un tanto come già chiarito nel parere prot. 13600 dd. 06.03.2012, reso dallo scrivente, che s'intende qui integralmente richiamato [2].
Inoltre, tanto le associazioni quanto le aziende agricole in commento, nella misura in cui per lo svolgimento della propria attività si avvalgono di singoli soggetti a vario titolo (volontari, associati, lavoratori dipendenti etc.), dovrebbero essere dotate di un'organizzazione interna facente capo ad uno o più responsabili i quali saranno tenuti all'osservanza delle disposizioni di cui al d.lgs. 09.04.2008, n. 81, recante 'Attuazione dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro'.
Un tanto pare poter escludere che eventuali profili di responsabilità del Comune siano riconducibili a quella del datore di lavoro ai sensi del summenzionato d.lgs. 81/2008.
Da quanto premesso sembra potersi affermare che compete alle associazioni/imprese agricole in commento provvedere alla copertura assicurativa dei propri collaboratori. Un tanto, peraltro, è espressamente previsto dalla disciplina delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale (lr 23/2012) la quale dispone (mediante un rinvio alla disciplina statale di cui rispettivamente all'art. 4 della l. 266/1991 e all'art. 30 della l. 383/2000) che le predette organizzazioni/associazioni che svolgono attività mediante convenzioni devono assicurare i propri aderenti, che prestano tale attività, contro gli infortuni e le malattie connessi con lo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso terzi e che i relativi oneri assicurativi sono a carico degli enti con cui la convenzione è stipulata.
Si suggerisce, in ogni caso, che tanto le attività che verranno poste in essere dalle associazioni e/o aziende agricole, quanto gli obblighi relativi alla sicurezza, gravanti sui responsabili di queste, vadano espressamente riscontrati nelle convenzioni, che verranno approvate tanto dagli organi competenti delle associazioni e/o aziende agricole quanto dell'Ente locale.
Va inoltre tenuto presente che i singoli soggetti incaricati delle attività dedotte in convenzione opereranno su immobili di proprietà dell'Ente instante e, presumibilmente, secondo le direttive con esso concordate. Sulla base di tali presupposti sembra opportuno che il Comune adotti, comunque, tutte le precauzioni ritenute utili, in ossequio ai criteri di diligenza e prudenza che, in via preventiva, possano escludere o ridurre, per quanto possibile, i fattori di rischio nell'impiego dei predetti soggetti, in ossequio del principio del neminem laedere, a tutela dei diritti soggettivi primari, quali la salute fisica e morale e degli altri principi che sicuramente informano lo statuto dell'Ente, quali la salvaguardia del benessere e della sicurezza dei propri cittadini.
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[1] Consiglio di Stato, Sez. I, 21.01.2004, n. 2040.
[2] Il parere è reperibile sul portale delle autonomie locali all'indirizzo internet: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(06.11.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALISocietà pubbliche tra due fuochi. Crisi d'impresa. La Corte di cassazione precisa che possono anche essere soggette a fallimento a tutela dei creditori.
Possibile apertura delle Sezioni unite al danno erariale per gli amministratori
Le società pubbliche possono fallire. E questo testimonia della loro natura privatistica. Ma i loro amministratori potrebbero essere considerati funzionari pubblici e quindi essere chiamati a risarcire il danno erariale provocato.

A queste due conclusioni arriva la Corte di Cassazione con la sentenza
n. 22209/2013, di poche settimane fa e con una altra pronuncia delle Sezioni unite che verrà resa nota nei prossimi giorni.
Le novità sono emerse al convegno organizzato dalla Associazione albese di studi di diritto commerciale, che ha celebrato quest'anno il ventennale, sul tema «I debitori non fallibili: alternative e punti critici del nuovo diritto fallimentare». Il convegno ha visto l'intervento di magistrati come Luigi Rovelli, Presidente aggiunto della Cassazione, Luciano Panzani, Presidente del tribunale di Torino, e Alida Paluchovsky; docenti come Alberto Jorio e Michele Sandulli; professionisti come Davide Di Russo.
Il punto di partenza è rappresentato da una situazione di rilevante problematicità visto che soprattutto sul fronte delle società in house, si discute da tempo se in caso di insolvenza si deve dichiarare il fallimento e se, di conseguenza i loro amministratori devono rispondere davanti alla Corte dei conti al pari dei pubblici funzionari.
Su questi punti, a quanto emerso, la Cassazione ha provato a fare chiarezza, stabilendo innanzitutto (il caso riguardava una Srl, che aveva il compito di realizzare e gestire un impianto per lo stoccaggio e smaltimento di rifiuti, detenuta per una quota) che la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e pertanto di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, ha come conseguenza anche che queste assumono i rischi collegati alla loro insolvenza. In caso contrario, a venire compromessi, sarebbero i principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con la società entrano in rapporto, ai quali deve essere permesso di fare ricorso a tutti gli strumenti offerti dall'ordinamento.
Inoltre, la Cassazione ha precisato che il fallimento della partecipata non impedisce comunque all'ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione a un nuovo soggetto. Nel frattempo, qualsiasi rischio collegato all'interruzione del servizio potrebbe essere evitato attraverso il ricorso all'esercizio provvisorio previsto dall'articolo 104 della legge fallimentare.
Per quanto riguarda la responsabilità degli amministratori della società partecipata dall'ente pubblico, le Sezioni unite della Cassazione si apprestano a depositare (il relatore è Renato Rordorf) un'importante sentenza che dovrebbe mettere in luce (ma bisognerà leggere le motivazioni) come possono essere equiparati a pubblici funzionari e, di conseguenza, essere chiamati dalla Procura della Corte dei conti a dovere rispondere per danno erariale. La questione, che riguarda municipalizzate come anche aziende erogatrici di servizi, ha una considerevole rilevanza pratica e ha visto sinora sovrapporsi da parte della stessa Cassazione pronunce con orientamenti contrastanti.
Il Convegno si però soffermato anche, con dovizia di riferimenti giurisprudenziali, su altri due temi "caldi" della crisi d'impresa. Da una parte è stato fatto il punto sugli accorgimenti dei giudici nell'affrontare una delle grandi assenze della nostra legislazione, la mancata previsione di norme dedicate al concordato preventivo nei gruppi d'impresa. Escamotage per coordinare le procedure relative alle diverse società con un unico piano, ma masse attive e passive separate a tutela della posizione dei creditori di ciascuna società. Sottolineato anche che il principio secondo cui il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni, può forse trovare deroga in sede di concordato preventivo con l'assenso dei creditori.
Sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, infine, è stato rilevato come questa procedura sia inadeguata e non trasparente, prestandosi alle scelte del ministero delle Attività produttive, mentre sarebbe auspicabile un ritorno alla competenza del giudice ordinario, anche perché le pretese grandi imprese sono in realtà società di medie dimensioni, sottratte alla sorte delle loro consorelle senza un vero interesse pubblico che lo giustifichi (articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIContributi, la p.a. non fa nomi. Se le delibere contengono dati sanitari o reddituali. Rispondendo a un comune, la Civit ha chiarito l'applicazione del dlgs sulla trasparenza.
Niente nomi nella pubblicazione delle deliberazioni delle pubbliche amministrazioni, se contengono dati sanitari o sulla situazione reddituale e patrimoniale dei beneficiari di vantaggi economici.

Lo ha chiarito la Civit, con parere prot. n. 8746/2013, rispondendo a un quesito posto dal comune di Trezzano sul Naviglio, relativo all'applicazione dell'articolo del decreto legislativo 33/2013.
Al centro della questione è l'interpretazione dell'articolo 26, comma 4, del dlgs 33/2013, che, per motivi di privacy, in alcuni casi, esclude la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici. Il divieto di pubblicazione, si legge nella norma, scatta «qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati».
Il problema posto dal quesito è di natura strettamente interpretativa di una disposizione non scritta bene, con notevoli risvolti pratici. In effetti la norma vieta la pubblicazione di dati identificativi, dai quali sia desumibile un dato sanitario o un dato economico della persona. Tuttavia correttamente il comune ha evidenziato che dai dati identificativi (nome e cognome) non pare potersi mai desumere alcuna informazione relativa allo stato di salute o alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati. Non è certamente dal nome di una persona che si può desumere se è malata o se è povera.
Tra l'altro i provvedimenti amministrativi devono essere completi in tutti i loro elementi e uno di questi è certamente l'indicazione delle persone destinatarie dello stesso. Nel quesito, dunque, si chiedeva se sia possibile indicare nome e cognome del destinatario del beneficio nel provvedimento di assegnazione di un contributo economico di una sovvenzione/sussidio a una persona fisica, omettendo nel contempo, le motivazioni della concessione, oppure se occorra in ogni caso anonimizzare il beneficiario, (ad esempio, inserendo le iniziali del cognome e nome o un numero identificativo interno), ed esplicitare la motivazione della concessione effettuata.
L'alternativa, dunque, è tra la omissione di nome e cognome o la omissione del dato sanitario o economico. La Civit ha esaminato la questione nella seduta del 17.10.2013 e ha espresso un indirizzo, che per la prima volta prende posizione netta. La commissione ha espresso l'avviso che, qualora «dalla norma o dal titolo a base dell'attribuzione del vantaggio economico, da pubblicare ai sensi dell'art. 27, comma 1, lettera c), del dlgs. n. 33/2013, sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute o alla situazione economica dei soggetti beneficiari, l'amministrazione deve omettere i nominativi di questi ultimi».
Dunque, ai sensi dell'articolo 26 del dlgs 33/2013, le pubbliche amministrazioni devono pubblicano gli atti di concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati di importo superiore a mille euro. L'obbligo di pubblicazione comprende la divulgazione anche della la norma o del titolo a base dell'attribuzione (articolo 27, comma 1, lettera c), del dlgs 33/2013). Per il comma 4 dell'articolo 26, sempre del dlgs 33/2013, è esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati. La Civit, nel parere in commento, compie un'interpretazione sistematica e alla luce dello scopo della legge ritiene che si deve anonimizzare l'atto pubblicato, quando dalla norma o dal titolo a base dell'elargizione economica (e quindi non dai dati identificativi, come invece si legge nel comma 4 del citato articolo 26) si ricavano dati sanitari o sulla situazione economica dei beneficiari.
Il parere in commento ha sottolineato, infine, che per la tutela della riservatezza, ci sono altre precauzioni da osservare: oltre al divieto di pubblicare i nomi, le pubbliche amministrazioni devono rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili. Si tratta, si aggiunge, di misure da osservare nella pubblicazione, poiché nella stesura degli atti istruttori e del provvedimento definitivo il nominativo del beneficiario va indicato; d'altra parte è ammessa la circolazione interna o la comunicazione tra enti pubblici (trattamenti, questi, differenti dalla pubblicazione) dell'atto completo, senza omissis, quando sia motivata da necessità di servizio (articolo ItaliaOggi del 16.11.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente stabilizzazioni per gli incarichi fiduciari. Per la loro stessa natura sono contratti a tempo determinato.
Niente stabilizzazioni per i lavoratori assunti ai sensi dell'articolo 110 del dlgs 267/2000, anche se non in possesso della qualifica dirigenziale.

Il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013, riserva la possibilità di attivare le procedure per assumere a tempo indeterminato i lavoratori precari ai soli dipendenti non aventi qualifica dirigenziale, che abbiano prestato servizio per tre anni negli ultimi cinque o che dispongano dei requisiti per la stabilizzazione a suo tempo fissati dalle leggi 296/2006 e 244/2007.
L'articolo 110 del Testo unico degli enti locali consente di effettuare assunzioni a termine non solo per acquisire «dirigenti a contratto», ma anche per «la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici» e per le qualifiche «di alta specializzazione». Si tratta di incarichi attribuibili anche senza la qualifica dirigenziale. Anzi, nella grandissima maggioranza degli enti locali, priva della dirigenza, gli incarichi a contratto riguardano proprio i «quadri».
Il dl 101/2013, come, del resto, le precedenti norme sulle stabilizzazioni, sul punto si presta a possibili equivoci: escludendo espressamente, infatti, le sole qualifiche dirigenziali in apparenza consente di stabilizzare i responsabili di servizio assunti con incarichi a contratto a termine.
Si tratta, però, di una lettura non condivisibile. Sostanzialmente, le stabilizzazioni hanno lo scopo di rimediare all'utilizzo improprio dei contratti a tempo determinato e, dunque, si rivolge a situazioni di fatto nelle quali i «precari» sono stati a ben vedere assunti non in presenza delle legittime condizioni per apporre il termine al contratto di lavoro, ma per fare fronte a fabbisogni lavorativi stabili, violando così le disposizioni contenute nell'articolo 36, comma 1, del dlgs 165/2001 e i principi contenuti nel Testo unico sul rapporto di lavoro a termine, il dlgs 368/2001.
Gli incarichi regolati dall'articolo 110 del dlgs 267/2000, invece, sono per loro stessa natura a tempo determinato. L'attribuzione anche reiterata nel tempo di detti incarichi non può comportare la «precarizzazione», perché è proprio la legge che configura tali contratti come destinati a concludersi entro una scadenza precisa, che coincide, come termine massimo, con la fine del mandato elettorale.
Peraltro, la stretta connessione tra questi incarichi e gli organi di governo, dovuta alla loro configurazione «fiduciaria» è un'altra decisiva ragione per escluderli dalle stabilizzazioni, anche se non si tratta di qualifiche dirigenziali.
Non è un caso che l'articolo 4, comma 6, del dl 101/2013 vieti di considerare ai fini del computo dei tre anni di servizio nell'ultimo quinquennio, necessari per accedere alle stabilizzazioni, i servizi prestati in staff agli organi di governo. Lo stretto legame fiduciario tra incaricati e organi politici costituisce un impedimento alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, perché se così non fosse si renderebbe duraturo nel tempo un incarico che trova le sue ragioni e causa esclusivamente nella attualità del mandato elettorale (articolo ItaliaOggi del 16.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo ampio per assistere i disabili.
La platea dei beneficiari del congedo straordinario comprende i parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi della persona con grave disabilità.

Lo spiega l'Inps nella circolare 15.11.2013 n. 159 recependo la sentenza n. 203/2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001 (T.u. maternità). L'Inps riesaminerà le richieste nel termine di prescrizione della relativa indennità (un anno dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario spetta per un massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto disabile assistito. Durante la fruizione si ha diritto ad un'indennità pari all'ultima retribuzione e il periodo è coperto da contribuzione figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano fino a un importo massimo di euro 46.836 per il congedo di durata annuale (valore per l'anno 2013).
La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato art. 42, nella parte in cui, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona disabile in situazione di gravità, non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario il parente o l'affine entro il terzo grado convivente della persona disabile grave.
Alla luce della sentenza, l'Inps spiega che il congedo va riconosciuto a seguenti familiari o affini entro il terzo grado convivente del disabile grave, secondo il seguente ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile, in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quanto ai requisiti di «mancanza», di affezione da «patologie invalidanti» e di «convivenza», l'Inps conferma le istruzioni precedenti (circolare n. 32/2012). Per «mancanza» va intesa non solo l'assenza naturale e giuridica (celibato o stato di figlio naturale non riconosciuto), ma anche ogni altra condizione giuridicamente assimilabile quale: divorzio, separazione legale o abbandono. Mentre per l'individuazione delle «patologie invalidanti», in assenza di un'esplicita definizione di legge, sentito il ministero della salute, l'Inps stabilisce di prendere a riferimento solo quelle a carattere permanente indicate dall'art. 2, comma 1, lettera d, numeri 1, 2 e 3 del dm n. 278/2000 (articolo ItaliaOggi del 16.11.2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti pagati dopo la verifica. L'appaltatore non potrà emettere la fattura fino al controllo della sua attività.
Pubblica amministrazione. Diffuse le linee guida dell'Autorità di vigilanza sul regolamento attuativo del Codice dei contratti.
Le stazioni appaltanti devono effettuare controlli accurati sull'esecuzione degli appalti di servizi e forniture, facendo leva sulla figura del direttore dell'esecuzione, anche per gestire correttamente le eventuali varianti.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha definito nella determinazione 06.11.2013 n. 5, pubblicata ieri, le Linee guida per l'applicazione del Dpr 207/2010 (regolamento attuativo del Codice appalti) relative alla programmazione, alla progettazione, all'esecuzione, alle verifiche e alla gestione delle variazioni negli appalti di beni e servizi. L'Autorità evidenzia anzitutto che la programmazione degli acquisti, pur essendo facoltativa (articolo 271 del regolamento) è essenziale per la gestione delle risorse e un efficace sviluppo delle procedure selettive.
La linea di maggior attenzione è dedicata al flusso di gestione degli appalti, definito in sede di progettazione e modulato nei suoi effetti concreti attraverso le verifiche di esecuzione.
Il progetto di ogni appalto di beni e servizi (obbligatorio in base all'articolo 279 del Dpr 207/2010) deve essere predisposto dai dipendenti della stazione appaltante, anche ampliando i contenuti essenziali con elementi quali la stima analitica delle prestazioni, il cronoprogramma, la specificazione dei livelli di servizio mediante indicatori numerici o quantitativi e le modalità di esercizio del controllo.
Nell'analisi dell'Authority, proprio il controllo delle prestazioni rese dagli appaltatori costituisce l'elemento-chiave dell'intero processo di gestione dell'appalto di fornitura o di servizi.
In questo quadro, l'attore principale diviene la nuova figura del direttore dell'esecuzione, che deve essere distinto dal responsabile del procedimento quando l'appalto presenti rilevanti profili di complessità, come nel caso degli affidamenti di servizi sanitari o informatici.
L'Autorità evidenzia che i contratti di appalto devono prevedere clausole specifiche e dettagliate in ordine alle verifiche di conformità dell'esecuzione (disciplinate dagli articoli 312-325 del regolamento attuativo). I controlli, infatti, sono finalizzati a garantire la stazione appaltante dai comportamenti degli appaltatori riconducibili al "moral hazard", determinando una maggiore responsabilizzazione degli stessi, a fronte del rischio di risoluzione del contratto e della conseguente impossibilità di partecipare, per un certo periodo, a gare indette dalla stessa amministrazione.
Le verifiche, inoltre, sono indicate dall'Authority come passaggio propedeutico necessario per i pagamenti delle prestazioni (articolo 307, comma 2, del regolamento), per cui l'appaltatore non potrà emettere fattura sino all'intervenuto controllo della sua attività.
L'equilibrio nel rapporto deve essere garantito da penali specifiche, correlate ai possibili inadempimenti e definite in relazione ai livelli qualitativi delle prestazioni.
La determinazione 5/2013 focalizza l'attenzione sulle varianti in corso di esecuzione (regolate dagli articoli 310 e 311 del Dpr 207/2010), evidenziando come la stazione appaltante non possa richiedere alcuna variazione ai contratti stipulati, se non nei casi previsti dalle disposizioni del regolamento attuativo del Codice. La deroga al principio di immodificabilità del contratto è dunque di stretta interpretazione ed agisce in presenza di specifici presupposti.
Secondo l'Autorità, infatti, è nel quadro della rigorosa disciplina delle varianti (sia necessitate che migliorative) che si colloca, tra l'altro, il divieto delle proroghe e dei rinnovi taciti o espressi per gli appalti di servizi e forniture, poiché in tali casi l'uso di questi strumenti modifica la prestazione e il suo valore economico, fatta salva la disciplina prevista dall'articolo 57, comma 5, lettere a) e b), del Codice per i servizi analoghi e complementari
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2013).

ENTI LOCALI - VARIMulte a ruolo senza interessi. Importi raddoppiati, ma senza maggiorazione del 10%. Il parere dell'Avvocatura generale dello stato sulle cartelle esattoriali per violazioni stradali.
L'automobilista che non paga la multa presa per strada o non propone ricorso al verbale riceverà una cartella esattoriale contenente un importo raddoppiato, ma senza più l'applicazione dei pesanti interessi previsti dalla legge. La maggiorazione semestrale del 10% non si applica, infatti, alle violazioni stradali che sono disciplinate dall'art. 203 del codice senza più rinvio alle penalità previste dalla legge 689/1981.
Lo ha chiarito l'Avvocatura generale dello stato con il parere prot. cs 32494 del 31.07.2013, solo ora divulgato dalla Prefettura di Novara con la nota 09.10.2013 n. 41901 di prot..
La questione della riscossione dei proventi delle multe stradali è da sempre ritenuta legata a doppio filo alle disposizioni della legge di depenalizzazione n. 689/1981, la quale prevede all'art. 27 una maggiorazione del 10% per ogni semestre di ritardato pagamento dei verbali in generale. In buona sostanza, anche per l'espresso rinvio contenuto nell'art. 206 del codice della strada, le cartelle esattoriali vengono da sempre maggiorate oltre che dell'importo raddoppiato della multa anche delle spese del procedimento e degli interessi semestrali del 10%.
Con una recente pronuncia però la Corte di cassazione, sez. II civile, ha disposto diversamente (sentenza n. 3701 del 16.02.2007), ovvero che la maggiorazione del 10% semestrale non si può applicare alle multe stradali in virtù di quanto evidenziato dall'art. 203 del codice stradale. Ovvero che qualora non sia stato effettuato il pagamento del verbale o non sia stato proposto nessun tipo di ricorso la multa costituirà titolo esecutivo per la riscossione di una somma pari alla metà del massimo edittale, corrispondente in genere al doppio del minimo (o meglio al raddoppio dell'importo che si poteva pagare entro 60 giorni).
L'Avvocatura generale dello stato conferma questa interpretazione che però non ha precedenti giurisprudenziali. Infatti, specifica la nota del 31.07.2013, «alle sanzioni, come nella specie stradali, si applica l'art. 203 cds, comma 3, che, in deroga alla legge n. 689 del 1981, art. 27, in caso di ritardo nel pagamento della sanzione irrogata nell'ordinanza ingiunzione, prevede l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10%». In pratica saranno da rivedere tutte le cartelle esattoriali in spedizione per multe non pagate dai trasgressori. E gestire l'inevitabile contenzioso che potrà avviarsi nelle prossime settimane in riferimento alle posizioni già consolidate.
Seguendo l'interpretazione dell'Avvocatura le multe non pagate d'ora in poi raddoppieranno semplicemente e potranno essere iscritte a ruolo per questo importo ulteriormente implementato solo delle spese del procedimento. Ma senza più applicare una penalizzazione del 10% su base semestrale calcolata dal giorno in cui la sanzione è divenuta esigibile. Ovvero per importi considerevolmente ridotti rispetto al passato (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti tracciati su carta e web. Doppio adempimento per le imprese vincolate al Sistri. Il ministero dell'ambiente diffonde in un quadro sinottico le risposte a 25 quesiti delle imprese.
Doppio regime degli adempimenti per il Sistri. La tracciabilità dei rifiuti viaggia sia in formato cartaceo sia informatico. Infatti, fino a che non entreranno in vigore le sanzioni sul Sistri la copia della scheda informatica «movimentazione» non sostituisce il formulario cartaceo di identificazione dei rifiuti. Dunque, per i produttori iniziali dei rifiuti pericolosi sono mantenuti al momento gli adempimenti cartacei.

La conferma giunge dal nuovo quadro sinottico redatto dal ministero dell'ambiente, volto a chiarire alcuni degli aspetti operativi relativi all'applicazione del sistema di tracciabilità dei rifiuti alla luce degli interventi legislativi in materia.
L'articolo 11 del decreto legge n. 101/2013, così come modificato in sede di conversione in legge, dispone infatti per i primi dieci mesi di operatività del Sistri una sorta di doppio regime degli adempimenti. Il quadro sinottico riporta i 25 pareri del ministero in riferimento alle richieste avanzate da alcune organizzazioni di categoria: Confindustria, Fise, Assoelettrica, Fai_sistri, le associazioni gestori rifiuti, Ansep-Unitam e Selex.
Il ministero dell'ambiente è intervenuto anche in materia di trasporto dei rifiuti pericolosi a titolo professionale, chiarendo che in questo caso l'obbligo di adesione al Sistri decorre dal 03.03.2014. E precisando che la locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale», contenuta al comma 2 dell'articolo 11 del dl n. 101/2013, si riferisce agli enti e imprese che trasportano rifiuti pericolosi prodotti da terzi.
Si sottolinea inoltre che sono altresì tenuti ad aderire al Sistri, in caso di trasporto intermodale, i soggetti ai quali sono affidati i rifiuti speciali pericolosi in attesa della presa in carico degli stessi da parte dell'impresa navale o ferroviaria o dell'impresa che effettua il successivo trasporto. Entro fine anno, uno o più decreti del ministro dell'ambiente definiranno le modalità di applicazione a regime del Sistri al trasporto intermodale (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

APPALTIAppalti, ribassi selvaggi verso il tramonto. Il decreto con i nuovi criteri alla firma del ministro.
È finita (forse) l'era delle liberalizzazioni selvagge nei bandi per la pubblica amministrazione. L'era in cui cioè, con l'eliminazione delle tariffe, le gare per i servizi di ingegneria e architettura venivano aggiudicate a prezzi stracciati con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo iniziale.

Dopo la recente firma del ministero delle infrastrutture Maurizio Lupi (che ha seguito quello della giustizia), infatti, il decreto ministeriale che determina «i corrispettivi a base di gare per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria», sia avvia a saltare l'ultimo ostacolo: il visto di legittimità della Corte dei conti, alla cui attenzione è attualmente.
Si tratta di un testo dall'elaborazione complessa (prima le consultazioni con le categorie tecniche, poi le bocciature del Consiglio e dell'Autorità superiore dei lavori pubblici) ma indispensabile per il settore degli appalti pubblici per superare, come rileva il Consiglio di stato nel suo recente parere (n. 3626/2013), «la situazione di indeterminatezza venutasi a creare a seguito dell'elaborazione di tutta la disciplina in materia di tariffe professionali». Ma soprattutto, un testo fondamentale dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le corrette procedure per l'affidamento.
Un'assenza di regole denunciata a gran voce dai periti industriali e dalle categorie tecniche tutte, che ha alimentato tra le altre cose un'eccessiva discrezionalità delle stazioni appaltanti. Queste ultime, infatti, in caso di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all'ingegneria e all'architettura, non disponevano più di riferimenti certi per la definizione dell'importo da porre a base di gara. Ecco perché, per sanare tale criticità il governo era intervenuto con il decreto sviluppo stabilendo che per la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi tecnici, si sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un decreto interministeriale che avrebbe anche definito «le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi». Nel frattempo per disciplinare la fase transitoria, il legislatore aveva previsto che nelle more dell'emanazione di tale decreto si sarebbero potute applicare le tariffe professionali stabilite nel dm 4/4/01(Aggiornamento degli onorari spettanti agli ingegneri e architetti).
Il punto è che tale opzione è stata disattesa dalla grande maggioranza delle stazioni appaltanti. Secondo i numeri forniti dal Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri infatti, il 61% dei bandi non dà alcun chiarimento sul criterio utilizzato per la determinazione dell'importo a base d'asta, un ulteriore 4,6% segue i dettami della legge 143/1949, il 4,5% quelli del decreto 207/10, mentre nel 14% vengono menzionati altri riferimenti normativi. Insomma l'offerta economica calcolata su basi fittizie, è diventata tristemente negli ultimi anni l'unica variabile nelle aggiudicazioni e le corse al ribasso per firmare contratti un po' usa e getta sono state la maggioranza. Ma non solo, perché nonostante l'evidente abnormità dei ribassi, le stazioni appaltanti, forse perseguendo un miope criterio di risparmio, non hanno quasi mai dato applicazione al concetto di offerta anomala.
Uno scenario quasi da Far West che sull'onda delle selvagge liberalizzazioni ha assimilato le attività professionali a quelle dell'impresa dove prevale il minor costo anche a scapito della qualità dei servizi. Ecco perché questo decreto è fondamentale ed è urgente sia approvato al più presto. Solo così, per i periti industriali si potrà risollevare l'alto livello qualitativo che, da sempre, ha caratterizzato gli studi di progettazione in Italia (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIProgrammi triennali per gli appalti pubblici. L'Autorità di vigilanza detta le linee guida alle p.a..
Obbligo di programmazione triennale anche per gli appalti pubblici di servizi e di forniture; verifica annuale sulla fattibilità tecnica, economica e amministrativa di ogni intervento; affidamenti a terzi solo per complessità dell'intervento.

Sono queste alcune delle indicazioni fornite dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la
determinazione 06.11.2013 n. 5 che detta le linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture, alla luce delle diffuse criticità rilevate dall'organismo di vigilanza.
L'intervento dell'Autorità presieduta da Sergio Santoro, deriva dall'aver rilevato problemi in termini sia di «debolezza» dei contratti (mancanza di chiarezza o incompletezza nell'articolato) sia in termini di scarsa attenzione prestata alla fase postaggiudicazione, che invece, dice l'Autorità, «appare di preminente rilievo ai fini della corretta esecuzione della prestazione».
La materia, regolata dal dpr 207/2010 (il regolamento del codice dei contratti pubblici), secondo una disciplina in larga parte modellata su quella dei contratti di lavori viene affrontata dalla determina partendo dalla fase di programmazione (facoltativa per questi contratti), in relazione alla quale l'Autorità auspica l'introduzione dell'obbligo di programmazione triennale anche negli appalti di servizi e forniture, per garantire una visione di insieme dell'intero ciclo di realizzazione dell'appalto.
La determina afferma inoltre che le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero, in ogni caso, provvedere all'adozione del programma annuale per l'acquisizione di beni e servizi e, successivamente, effettuare una verifica della fattibilità tecnica, economica e amministrativa di ogni singolo intervento.
Per quel che riguarda la fase di progettazione, la determina mette in evidenza che la predisposizione di un progetto preciso e di dettaglio, atto a descrivere in modo puntuale le prestazioni necessarie a soddisfare specifici fabbisogni della stazione appaltante, appare come uno strumento indispensabile per ovviare al fenomeno di porre in gara non specifici servizi, ma categorie di servizi; ciò avviene in particolare nel settore informatico ove spesso accade che il cui contenuto sia oggetto di specificazione successiva all'atto della richiesta di esecuzione.
Sull'affidamento a terzi di questa fase, la determina ricorda che soltanto in casi di particolare complessità si può appaltare a soggetti privati e che al progettista si applica il divieto di esecuzione, «posto a tutela della concorrenza, altrimenti alterata da situazioni di evidente asimmetria informativa».
Per l'esecuzione del contratti la determina chiarisce che il direttore dell'esecuzione è figura che coincide con quella del Responsabile unico del procedimento (Rup), salvo diversa indicazione della stazione appaltante, mentre il direttore dell'esecuzione deve essere sempre distinto dal Rup se il contratto vale più di 500.000 euro, o se si tratta di prestazioni complesse. In fase di esecuzione del contratto l'Autorità afferma l'opportunità di prevedere penali strettamente correlate ai livelli di servizio stabiliti nel capitolato prestazionale (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri obbligatorio per gli autodemolitori. Ambiente. Le istruzioni del ministero alle associazioni.
Chi gestisce autoveicoli fuori uso doveva aderire al Sistri dal 01.10.2013.

È questa una delle 25 risposte fornite dalla Direzione generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche ad altrettanti quesiti sul Sistri, da tempo posti al ministero dell'Ambiente dalle seguenti Associazioni di categoria: Confindustria, Fise, Assoelettrica, Fai-Sistri, Associazione Gestori Rifiuti tramite Assofermet e Ansep Unitam.
Le risposte sono pubblicate in www.sistri.it e sono fornite in forma tabellare come "quadro sinottico-aspetti normativi" e contengono il parere della Direzione sulle tematiche presentate dalle associazioni. La posizione ministeriale su alcuni punti mutua la Circolare dello scorso 31 ottobre (relativa all'articolo 11, legge 125/2013) salvo discostarsene in modo eclatante per alcuni aspetti, come quello relativo al solo stoccaggio dei rifiuti prodotti che per la Circolare obbliga al Sistri il produttore iniziale di rifiuti pericolosi dal 03.03.2014 «anche con riferimento» alle attività di stoccaggio (R13 e D15).
Secondo la nuova nota, invece, costui inizia il Sistri dall'01.10.2013 poiché il soggetto interessato «prima ancora che produttore» è gestore (risposta n. 8). Con riguardo ai soggetti obbligati la nota riprende, poi, la legge 125/2013 quando riferisce che i nuovi produttori sono obbligati ad aderire se trattano o producono rifiuti pericolosi.
Sul punto, la Direzione individua tre ipotesi: trattamento di rifiuti pericolosi e produzione di rifiuti pericolosi; trattamento di rifiuti non pericolosi e produzione di rifiuti pericolosi; trattamento di rifiuti pericolosi e produzione di rifiuti non pericolosi. In tali casi «sarà obbligatorio aderire al Sistri, come gestori e anche come produttori».
Il che, come ricorda la Circolare, «nelle more delle modifiche delle procedure informatiche» ripropone il tema della doppia iscrizione del nuovo produttore sia nella categoria dei produttori, sia in quella dei gestori. L'obbligo non scatta se si trattano e si producono rifiuti non pericolosi.
Su altri punti la nota rinvia a norme da rivedere o da implementare. Tuttavia, alcune problematiche sono rese più esplicite: la risposta n. 5 precisa che i «raccomandatari marittimi delegati da armatore o noleggiatore che intervengono nel trasporto navale sono comunque ricompresi nella nozione di trasporto a titolo professionale». I soggetti che gestiscono veicoli fuori uso dovevano aderire al Sistri dall'01.10.2013, come recuperatori o smaltitori, o nuovi produttori, secondo l'attività che svolgono.
Per una serie di cose, invece, la nota della Direzione rinvia a una nuova e futura normativa come gli obblighi dell'intermediario. La nota ventila la possibilità di semplificare ulteriormente la procedura agevolata per la microraccolta di cui all'articolo 18, comma 4-bis, del Dm 52/2011. Mentre per la non ripudiabilità dei dati in sede di convalida massiva, si riserva chiarimenti con l'Agenzia per l'Italia digitale.
Sulla interoperabilità, dice la nota, il «problema potrebbe essere parzialmente superato grazie alla creazione da parte delle software houses (e/o di Selex) di software in grado di consentire una gestione asincrona delle comunicazioni Sistri rispetto alle attività di compilazione delle schede, che rimarrebbero nella sfera delle attività gestionali aziendali. Rimane da definire un sistema di certificazione dei sistemi di interfaccia tra software gestionali e Sistri. Potrà essere considerata anche l'ipotesi di una modifica del Sistri per consentire il funzionamento del sistema off-line»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.11.2013).

INCARICHI PROGETTUALIAppalti, progettisti più liberi. Possono partecipare ai lavori di cui hanno fatto i progetti. L'apertura nel ddl europea 2013-bis. Unico limite: dimostrare di non avere vantaggi.
Negli appalti integrati di progettazione e costruzione il progettista potrà partecipare alla procedura per l'affidamento dei lavori pubblici se riuscirà a dimostrare che l'avere predisposto il progetto posto a base di gara non lo favorisce rispetto agli altri concorrenti.

È quanto prevede il disegno di legge europea 2013-bis all'esame del Parlamento con una modifica al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici) relativamente agli affidatari di incarichi di progettazione che partecipano alla successiva fase di affidamento dell' appalto o della concessione di lavori dell'opera progettata.
Attualmente il codice dei contratti pubblici, all'articolo 90, comma 8, stabilisce il divieto per l'affidatario di un incarico di progettazione di partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi per i quali hanno svolto le prestazioni progettuali. La norma riguarda i casi di progettisti che intendono partecipare con una impresa di costruzioni ad una procedura di affidamento di un appalto di lavori (appalto integrato) e, di fatto, sono esclusi da ogni possibile ruolo: non possono essere in raggruppamento con l'impresa, né essere indicati dal momento che hanno predisposto la progettazione posta a base di gara.
In passato su questa disposizione il Consiglio di stato (sez. VI, 02.10.2007 n. 5087) aveva affermato che il divieto opera «nella sola ipotesi in cui il progettista partecipi della esecuzione dei lavori, e non nel caso in cui un soggetto che abbia eseguito lavori partecipi ad una gara per l'affidamento di un incarico di progettazione»; inoltre era stato precisato che la regola è «espressione del principio generale di trasparenza ed imparzialità, la cui applicazione è necessaria per garantire parità di trattamento, che ha per suo indefettibile presupposto il fatto che i concorrenti ad una procedura di evidenza pubblica debbano rivestire la medesima posizione».
Nella modifica proposta all'esame del Parlamento si prevede un divieto non, tout court, a partecipare alle gare, bensì ad «essere affidatari degli appalti o delle concessioni di lavori pubblici, nonché degli eventuali subappalti o cottimi». Fin qui la norma non sembra cambiare molto la situazione attuale. È invece il comma aggiuntivo 8-bis ad introdurre un elemento rilevante laddove stabilisce che il divieto non si applica laddove il progettista dimostri «che l'esperienza acquisita nell'espletamento degli incarichi di progettazione non sia tale da determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori.».
In tal senso si era espressa in passato la Corte di giustizia europea, ma quel che è certo è che la dimostrazione di non avere assunto posizioni di vantaggio sarà sempre difficile da dimostrare, dal momento che non è sempre detto che avere messo a disposizione di tutti i concorrenti la progettazione redatta (e quindi posta a base di gara) di per sé costituisca elemento tale da mettere tutti i concorrenti sullo stesso piano. Chi ha studiato l'intervento a fondo progettando a livello preliminare o definitivo difficilmente sarà sullo stesso piano di chi non sa nulla dell'opera (articolo ItaliaOggi del 14.11.2013).

APPALTIPatente a punti per gli appalti. Requisiti di onorabilità e sicurezza certificata in azienda. In arrivo il regolamento che istituisce la sezione speciale edilizia in camera di commercio.
Serve un «responsabile tecnico in possesso di adeguate competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro». E la dimostrazione da parte delle imprese del possesso del «requisito di onorabilità» (assenza di procedimenti in corso a carico degli operatori) e della capacità tecnico-finanziaria.

Queste alcune delle novità contenute nel regolamento per la qualificazione delle imprese (che ha ottenuto il via libera dal consiglio di stato e deliberato preliminarmente dal consiglio dei ministri) previsto dall'articolo 6, comma 8, lettera g), del dlgs 09.04.2008, n. 81.
Vengono dunque stabilisce i requisiti inderogabili richiesti alle imprese per il rilascio da parte della camera di commercio (sezione speciale per l'edilizia) della «patente a punti» per partecipare agli appalti. Il regolamento individua le caratteristiche, attinenti alla salute e sicurezza sul lavoro, delle quali le imprese devono essere in possesso per avere titolo preferenziale alla partecipazione di gare relative ad appalti e subappalti pubblici e per l'accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica.
La patente a punti sarà rilasciata dalla sezione speciale per l'edilizia, istituita presso la camera di commercio ove ha sede e domicilio l'operatore economico. La sezione speciale dell'edilizia, entro dieci giorni dal ricevimento della domanda, rilascia la patente oppure rifiuta adducendone il motivo. L'impresa può comunque iniziare provvisoriamente la sua attività nel caso in cui la sezione speciale ritardi nel rispondere alla richiesta. Le sezioni saranno interconnesse con le Asl, le direzioni territoriali del lavoro e l'inail attraverso un rete predisposta da unioncamere. La patente a punti verrà rilasciata automaticamente alle imprese già iscritte alla Camera di commercio, in possesso dell'attestazione soa e in regola con il documento unico di regolarità contributiva.
Potranno ottenere la patente a punti anche quanti, in possesso del Durc regolare e dei requisiti per la qualificazione, non abbiano l'attestazione soa. Il punteggio della patente professionale, comprensivo del valore attribuito inizialmente, verrà segnato in un apposito riquadro del documento unico di regolarità contributiva, il quale assume la funzione di attestato per la patente professionale. I requisiti che daranno diritto al rilascio della patente sono la designazione di un responsabile tecnico in possesso di adeguate competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro e l'assenza di misure di prevenzione per reati come riciclaggio, insolvenza fraudolenta o usura.
L'impresa deve inoltre dimostrare di possedere un'idonea attrezzatura tecnica, ma anche lo svolgimento di un addestramento specifico per il suo utilizzo. Il valore minimo dell'attrezzatura dovrà essere di 30 mila euro. Un successivo decreto attuativo del Ministero del lavoro definirà infine il punteggio iniziale, le procedure di verifica periodica e il meccanismo di decurtazione dei punti (articolo ItaliaOggi del 12.11.2013).

SICUREZZA LAVOROL'accesso ai verbali è blindato. No alla consultazione delle dichiarazioni dei lavoratori. Il ministero del lavoro adegua le istruzioni agli ispettori a una sentenza del Consiglio di stato.
Blindate le dichiarazioni dei lavoratori. Gli ispettori, infatti, devono negare al datore di lavoro e ai suoi eventuali obbligati in solido il diritto di accesso alle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede di ispezione. Un'eccezione, da valutarsi comunque caso per caso: quando sia possibile adottare modalità che escludono l'identificazione degli autori delle dichiarazioni (come ad esempio con le cancellature e/o gli omissis).
Lo stabilisce il ministero del lavoro nella circolare 08.11.2013 n. 43/2013 con cui invita gli uffici ad attenersi alla sentenza n. 4035/2013 del consiglio di stato nelle decisioni sulle richieste di accesso alla documentazione ispettiva.
Orientamenti contrastanti. La questione riguarda la legittimità del diniego opposto dagli uffici ispettivi alle richieste di accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso di verifiche ispettive, avanzate da datori di lavoro o loro coobbligati in solido. Una questione, spiega il ministero, connotata da orientamenti contrastanti e oscillanti nel tempo tra due opposti: la prevalenza del diritto di difesa (quindi la illegittimità dei dinieghi agli accessi); ovvero la prevalenza della tutela della riservatezza dei lavoratori unitamente alla preservazione della funzione pubblica di vigilanza (quindi la legittimità dei dinieghi).
Orientamento a sfavore. L'orientamento che ritiene illegittimo il diniego dato al datore di lavoro di prendere visione delle dichiarazioni rilasciate agli ispettori dai suoi collaboratori (lavoratori) si basa sul presupposto che l'esigenza di riservatezza e di protezione dei lavoratori intervistati è recessiva di fronte al diritto esercitato dal richiedente (il datore di lavoro) per la difesa di un interesse giuridico.
Peraltro, tale orientamento si fonda anche sulla possibilità che gli ispettori possano intervenire con opportuni accorgimenti (cancellature e omissis per nascondere i nominativi dei dipendenti interessati) al fine di consentire il giusto contemperamento tra gli opposti interessi in gioco: diritto alla difesa e tutela privacy.
Orientamento a favore. L'orientamento che ritiene legittimo il diniego verte invece sulla prevalenza dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile informazione, a tutela della sicurezza e regolarità dei rapporti di lavoro rispetto al diritto di difesa della società o impresa sottoposte a ispezione, poiché il primo non potrebbe non essere compromesso dalla comprensibile reticenza dei lavoratori, mentre il secondo è comunque garantito dall'obbligo di motivazione per eventuali contestazioni e dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere.
Peraltro questo orientamento dissente pure dalla possibilità di adottare accorgimenti per celare l'identità dei lavoratori (cancellature ecc.), in quanto tali cautele risultano del tutto insufficienti nelle imprese di piccole dimensioni in cui già il semplice contenuto delle dichiarazioni consente facilmente di risalire alla persona che le ha rese.
La sentenza n. 4035 del 31.07.2013. In questo contesto di orientamenti contrastanti, e dopo un biennio di pronunce del tutto favorevoli all'accesso, spiega il ministero, è sopraggiunta la pronuncia n. 4035/2013 con cui il consiglio di stato pur entro certi limiti e previa valutazione caso per caso riafferma la legittimità per gli ispettori (direzioni territoriali del lavoro) di sottrarre all'accesso le dichiarazioni rese durante l'accesso ispettivo (si veda tabella). Ad essa, in conclusione, invita gli uffici a uniformare il proprio operato (articolo ItaliaOggi del 12.11.2013).

SICUREZZA LAVOROPrevenzione incendi, insegna l'ingegnere. I professionisti possono svolgere i corsi per gli addetti.
Gli ingegneri possono svolgere i corsi per addetti all'emergenza nella prevenzione incendi e, quindi, possono rilasciare anche i relativi attestati di frequenza.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 24.10.2013 n. 10/2013 in risposta ai quesiti del Consiglio nazionale degli ingegneri.
Il Consiglio nazionale, in particolare, ha posto due quesiti chiedendo di sapere:
a) se l'ingegnere sia un professionista adeguatamente titolato ai sensi del dm 10.03.1998 quale soggetto formatore per gli addetti alle aziende valutate a rischio medio e basso;
b) se l'ingegnere sia un professionista abilitato al rilascio degli attestati di frequenza per gli stessi corsi e se tali attestati siano validi agli effetti della documentazione e delle formazione prevista come obbligatoria del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008).
Le risposte della commissione sono entrambe positive. Il citato decreto 10.03.1998 (che reca i criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei luoghi di lavoro), spiega la commissione non prevede né requisiti specifici né titoli ai fini dell'idoneità del soggetto formatore per gli addetti all'emergenza. Infatti, il provvedimento stabilisce che «i datori di lavoro assicurano la formazione dei lavoratori addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione dell'emergenza secondo quanto previsto nell'allegato IX» (art. 7) e che «è obbligo del datore di lavoro fornire ai lavoratori un'adeguata informazione e formazione sui principi di base della prevenzione incendi e sulle azioni da attuare in presenza di un incendio» (allegato VII). Tuttavia, aggiunge la commissione, i soggetti formatori devono possedere competenza nella specifica materia antincendio. Pertanto, conclude nel ritenere che gli ingegneri, abilitati ai sensi della legge n. 818/1984 possano svolgere i corsi per addetti all'emergenza e, quindi, rilasciare i relativi attestati di frequenza.
La commissione, inoltre, sottolinea che, per le aziende individuate nell'allegato X del predetto dm 10 marzo 1998 (si tratta dei luoghi di lavoro dove si svolgono attività a rischio d'incidente rilevante quali fabbriche e depositi di esplosivi; centrali termoelettriche; impianti di estrazione di oli minerali e gas combustibili; impianti e laboratori nucleari; depositi al chiuso di materiali combustibili aventi superficie superiore a 10 mila metri quadrati; attività commerciali e/o espositive con superficie aperta al pubblico superiore a 5 mila metri quadrati; aeroporti, infrastrutture ferroviarie e metropolitane; alberghi con oltre 100 posti letto; ospedali, case di cura e case di ricovero per anziani; scuole di ogni ordine e grado con oltre 300 persone presenti; uffici con oltre 500 dipendenti ecc.), «i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze» debbano conseguire «l'attestato di idoneità tecnica di cui all'art. 3 della legge n. 609/1996», ossia l'attestato di formazione rilasciato dal corpo nazionale dei vigili del fuoco.
Infine, la commissione precisa che i predetti attestati di formazione sono validi anche ai fini della formazione degli addetti alla prevenzione e alle emergenze (obbligo previsto dall'art. 37, comma 9, del T.u. sicurezza) (articolo ItaliaOggi del 12.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti urbani, Sistri rinviato. Obbligo al via il 30/6. Dai centri di raccolta in avanti. Le istruzioni sulle prossime tappe alla luce degli ultimi chiarimenti ministeriali.
Sistri obbligatorio dal 03.03.2014 per tutti gli enti e le imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi, indifferentemente dalle quantità generate. Rinvio, invece, alla primavera del 2014 per la partenza (a titolo sperimentale) dell'obbligo a carico dei gestori di rifiuti urbani pericolosi (diversi dagli operatori della regione Campania).

Arrivano dopo appena 24 ore dalla pubblicazione della legge 125/2013 di conversione del dl 101/2013 i chiarimenti del Minambiente sulle novità introdotte dal nuovo provvedimento (pubblicato sulla Guri del 30.10.2013 n. 255 ed in vigore dal giorno successivo) in merito al sistema di tracciamento telematico dei rifiuti già partito lo scorso 1° ottobre e ora in procinto di entrare nella «fase due».
Con la circolare 31.10.2013 n. 1 (pubblicata sul sito web del dicastero nella tarda serata dello stesso giorno) il Minambiente prende atto delle principali novità in materia (come la moratoria delle sanzioni Sistri fino all'agosto del 2014 e la parallela estensione dell'obbligo di tenere le ordinarie scritture ambientali, Mud compreso) soffermandosi su alcuni punti critici relativi al riformulato panorama dei soggetti tenuti ad aderire al Sistema informatico.
Enti e imprese produttori iniziali di rifiuti «speciali» pericolosi. La legge 125/2013 conferma la partenza dal 03.03.2014 degli obblighi Sistri per tale categoria di soggetti. La nuova circolare Minambiente chiarisce ora come tale data valga anche per i produttori in parola che si spingono fino a effettuare lo stoccaggio (quindi, tecnicamente, una vera e propria attività di gestione) dei propri rifiuti all'interno del luogo di produzione. E ciò in luogo della diversa (e precedente) data del 01.10.2013 che vale per i «puri» gestori di rifiuti speciali pericolosi. Tale futura data, illustra il Minambiente, vale sia per coloro che effettuano il deposito preliminare di cui al punto D15, allegato B, sia per quelli che ricorrono alla messa in riserva di cui al punto R13, allegato C alla Parte IV del dlgs 152/2006.
Enti e imprese che trasportano rifiuti da loro stessi prodotti. La nuova circolare chiarisce (evidentemente riferendosi a una norma già presente nel dm 52/2011, cd. Tu Sistri) come l'obbligo di adesione al Sistri valga per tutti gli enti e le imprese che trasportano i rifiuti (speciali pericolosi) da loro stessi prodotti. La nota del Dicastero ricorda che tale obbligo riguarda infatti sia le imprese iscritte all'Albo nazionale dei gestori ambientali secondo il regime light dell'articolo 212, comma 8 (ossia le imprese che effettuano raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti 30 Kg o litri al giorno e quale parte integrante e accessoria dell'organizzazione aziendale che li produce) sia quelli iscritti alla categoria 5 dello stesso Albo (che raccoglie, invece, tutti quelli che effettuano raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi).
Enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale sul territorio nazionale. La legge 125/2013 ha allargato il novero dei soggetti in parola: da un lato prevedendo l'obbligo (sebbene a titolo sperimentale e subordinatamente alla futura adozione di uno specifico dm) anche per i gestori (nei quali rientrano i raccoglitori e trasportatori) di rifiuti urbani pericolosi; dall'altro includendo tra i trasportatori tenuti ad adottare il Sistema anche i vettori stranieri. In relazione agli urbani pericolosi la Circolare chiarisce come l'obbligo non prenderà comunque via prima del 30.06.2014 (laddove per gli speciali è già partito il 01.10.2013) e riguarderà comunque solo coloro che gestiscono detti rifiuti dal momento in cui sono conferiti nei centri di raccolta in avanti.
In relazione ai vettori stranieri la stessa Nota, interpretando le nuove norme unitamente a quelle recate dal dlgs 152/2006, sottolinea invece come l'obbligo Sistri valga sia per i vettori stranieri che a titolo professionale effettuano trasporti esclusivamente all'interno del territorio nazionale sia per quelli che effettuano trasporto transfrontaliero partendo dall'Italia verso Stati Esteri. Per i vettori stranieri che invece effettuano trasporti transfrontalieri dall'estero con destinazione Italia (o con solo attraversamento di questa) è sufficiente il rispetto delle regole sulla tracciabilità del trasporto previste dal regolamento comunitario n. 1013/2006.
Enti e imprese di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti pericolosi. L'obbligo Sistri è già dall'originario dl 101/2013 posto in capo sia ai gestori di rifiuti urbani che di speciali (sempre pericolosi). La nuova circolare chiarisce però che (salve le eccezioni per la Campania) in virtù dell'introduzione da parte della legge 125/2013 della (già ricordata e futura) fase sperimentale per la categoria gestori di rifiuti urbani pericolosi, slitta anche per questi soggetti (che in tale categoria rientrano) l'obbligo di adesione al Sistri. Ciò mentre per la gestione degli speciali, lo ricordiamo, l'obbligo vige dal 01.10.2013.
Nuovi produttori di rifiuti pericolosi. La legge 125/2013 ha ulteriormente ritoccato la nozione di nuovi produttori di rifiuti pericolosi già rivista dall'originario dl 101/2013, identificandoli nei «nuovi produttori che trattano o producono rifiuti pericolosi». Il Minambiente chiarisce prontamente che si tratta sia dei soggetti che sottopongono rifiuti pericolosi ad attività di trattamento e ottengono nuovi rifiuti (eventualmente anche non pericolosi) diversi da quelli trattati (per natura o composizione), sia coloro che trattando rifiuti non pericolosi ottengono nuovi rifiuti pericolosi. Ciò sottolineando l'obbligo per tali soggetti di iscriversi al Sistri sia nella categoria gestori (alla quale originariamente appartengono) sia in quella dei produttori.
Comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione Campania. Sia in base all'originario dl 101/2013 che alla relativa legge di conversione per tali soggetti l'obbligo scatta dal 03.03.2014. La circolare ricorda il carattere tassativo di tale previsione dal punto di vista geografico, sottolineando però che saranno invece sottoposti a futuro obbligo Sistri (seppur sperimentale) anche i raccoglitori e trasportatori di rifiuti urbani (ma solo se) pericolosi operanti in altre Regioni.
Operatori dell'intermodale. La legge 125/2013 ha posto tra i soggetti obbligati, nell'ambito del trasporto intermodale, anche coloro cui sono affidati i rifiuti speciali pericolosi in attesa della presa in carico degli stessi da parte dei successivi trasportatori.
In Minambiente chiarisce che trattasi dei cd. terminalisti e degli altri operatori della fase intermedia del trasporto, reinclusi tra gli obbligati al Sistri dopo la loro espunzione dal dlgs 152/2006 ad opera dell'originaria versione del dl 101/2013. Come ricorda il Dicastero con la nuova circolare 31.10.2013 n. 1, sarà però un futuro decreto dello stesso Minambiente a disciplinare le modalità di applicazione del Sistri a tale categoria (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

VARICalze da neve, fermi tutti. Niente multa (per ora).
Circolare con le calze da neve in tessuto al posto dei tradizionali dispositivi antislittamento al momento non può essere sanzionato dalla polizia stradale. Almeno fino a diversa determinazione del Ministero dei trasporti.

Lo ha evidenziato il Ministero dell'interno con la circolare 05.11.2013 n. 300/A/8321/13/105/1/2.
La questione della regolarità o meno dell'impiego in Italia di questi nuovi dispositivi in caso di maltempo dovrà essere definita dal Consiglio di stato e dal Ministero dei trasporti. In buona sostanza al momento tutto resta sospeso perché mentre da una parte il Ministero dei trasporti ritiene di non poter ancora concedere il via libera dall'altra parte il Tar Lazio, sez. III, con la sentenza n. 6482 del 28.06.2013, ha annullato una determinazione ministeriale limitativa e per questo l'organo tecnico centrale ha proposto appello. In attesa della definizione della vicenda la polizia stradale dovrà astenersi dall'elevare verbali.
Quindi via libera, temporaneamente, alla catene di tessuto sulle strade italiane (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARILa locazione non dribbla l'attestato energetico. Nullità e multe fino a 1.800 euro senza allegazione. Efficienza in edilizia. Gli obblighi in attesa dell'annunciato intervento del Governo.
In attesa di vedere se e come gli annunciati provvedimenti del Governo interverranno sulla materia, resta obbligatoria la produzione e l'allegazione del certificato energetico nel caso di stipula di un nuovo contratto di locazione.
Lo stabilisce il nuovo articolo 6, comma 3-bis, del Dlgs 192/2005 –in vigore dal 4 agosto scorso– introdotto dalla legge 90/2013, di conversione del Dl 63.
Secondo la nuova norma, qualora l'unità immobiliare locata non ne sia già dotata, il proprietario è tenuto a produrre l'attestato di prestazione energetica (Ape), renderlo disponibile al nuovo locatario già nel momento dell'avvio delle trattative, consegnarglielo alla fine delle stesse e –infine– ad allegarlo al contratto a pena di nullità dello stesso.
L'Ape, a regime, è un attestato di contenuto più ampio dell'attestato di certificazione energetica (Ace), che ha lo scopo di portare a conoscenza del conduttore l'effettivo rendimento energetico dell'immobile locatogli e nel contempo di suggerire al locatore gli eventuali miglioramenti apportabili ai fini dell'ottenimento di un risparmio energetico. Deve essere redatto con nuove modalità di calcolo, che però sono ancora in fase di individuazione: di conseguenza, per ora valgono i vecchi criteri indicati dalle linee guida contenute nel Dpr n. 59 del 02.04.2009, tradotte nelle norme Uni /Ts 11300.
Con l'introduzione dell'Ape, continua a poter essere utilizzata la vecchia Ace (per cui era prevista una durata decennale) rilasciata sino al 05.06.2013, sempre che dopo il rilascio non sia intervenuta una notevole ristrutturazione dell'immobile perché avrebbe perso di validità. Sotto tale profilo, concorrono a modificare la classe energetica, e quindi impongono la sostituzione con l'Ape, il cambio degli infissi, la sostituzione dell'impianto di riscaldamento e ogni intervento di coibentazione di soffitti e/o pareti.
Sta di fatto che il proprietario dell'immobile, ancor prima di concederlo in locazione ora deve dotarlo dell'Ape, cioè di un "corredo" documentale che lo seguirà anche negli eventuali avvicendamenti relativi la sua proprietà.
La scelta del certificatore deve ricadere su tecnici esperti qualificati e indipendenti, in possesso di titolo di studio che prepara a questa professione. L'incarico non può essere conferito al coniuge del locatore o ad un suo parente sino al quarto grado.
L'Ape deve essere messo a disposizione del conduttore già dall'avvio delle trattative diretta a concludere il contratto (articolo 6, comma 2, Dlgs 192/2005). In difetto di specifiche precisazioni da parte della legge, si deve intendere che il «mettere a disposizione» voglia dire almeno mostrare al potenziale conduttore, prima che questo formuli una proposta di locazione, la copia dell'Ape (o della vecchia Ace) affinché la esamini e si renda conto del consumo energetico del l'immobile che si appresta a condurre in locazione. Non si tratta di una semplice formalità, perché la legge adesso prevede che nel contratto debba essere inserita una apposita clausola con cui il conduttore dichiari di avere ricevuto le informazioni e la documentazione in ordine alla attestazione della prestazione energetica dell'unità immobiliare oggetto del contratto stesso (articolo 6, comma 3).
Oltre alla sanzione della nullità, il proprietario che non dota di Ape gli edifici o le unità immobiliari oggetto di nuova locazione è punito con la sanzione amministrativa non inferiore a 300 euro e non superiore a 1.800 euro.
Resta infine da valutare come ottemperare al rinato obbligo di allegare l'Ape al nuovo contratto di locazione, condizione questa che, se non rispettata, conduce alla nullità del contratto, con le ben immaginabili conseguenze, anche economiche, per entrambe le parti.
L'oggetto dell'allegazione è la copia dell'Ape, con firma in originale del tecnico certificatore. Si può optare anche per una fotocopia, a colori, in quanto le otto classi nelle quali può rientrare l'unità immobiliare locata sono rappresentate da un grafico a istogrammi orizzontali colorati che le identificano. La fotocopia deve essere possibilmente autenticata dallo stesso tecnico certificatore. È necessario che nel contratto venga dato atto, in modo chiaro e con apposita clausola, dell'eseguita allegazione, a costituire anzi parte integrante del contratto stesso. Non servono formule sacramentali, ma un semplice richiamo al fatto che le parti reciprocamente riconoscono l'avvenuta effettiva allegazione dell'Ape, del cui contenuto hanno preso piena cognizione, al pari della altre clausole contrattuali.
Sotto il profilo della materiare esecuzione dell'allegazione, essa avviene mediante la semplice pinzatura dell'Ape in calce al contratto o con altro mezzo equipollente, in modo da formare un atto unico con il contratto. Da qui la necessità per le parti di apporre una firma di congiunzione tra il contratto e l'allegato Ape, in segno di conferma e sicurezza che l'uno e l'altro non vengano magari disgiunti e/o sostituiti.
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Nelle Regioni. L'intreccio tra livello territoriale e nazionale. Regole locali prevalenti per il calcolo di prestazione.
A livello nazionale si chiama Ape. Anche se, in attesa delle linee guida, viene ancora redatto alla vecchia maniera. Al contrario, nelle Regioni che, in anticipo rispetto al completamento della disciplina statale, hanno normato, creando un proprio sistema per il rilascio delle targhe verdi, il certificato da allegare anche in caso di contratto di affitto continua a chiamarsi Ace o attestato di certificazione energetica o segue, almeno in parte, le regole di compilazione sancite a livello territoriale.
La situazione riguarda diverse Regioni, dalle province autonome alla Lombardia, dalla Valle d'Aosta al Piemonte, passando per Liguria, Toscana e Sicilia. Solo in Emilia Romagna l'Ace si può anche chiamare Ape: l'equiparazione infatti era già contenuta nella deliberazione del 26.09.2011, n. 1366. Al di là del nome, però, anche in Emilia ciò che conta è che laddove è presente una disciplina locale per la compilazione delle targhe, si procede ancora con le regole fissate dalle singole Autonomie. Anche nel caso in cui le leggi regionali non facciano ancora esplicito riferimento alla direttiva 2010/31/Ce, ma siano ancora ferme alla vecchia 2002/91/Ce.
A far luce su questo punto è venuta in soccorso, oltre alla clausola di cedevolezza contenuta nella legge 90/2013, anche la nota n. 16416 del ministero dello Sviluppo economico. Successivamente, chiarimenti sono arrivati anche dalle Regioni stesse (il comunicato n. 100 della Giunta regionale della Lombardia dell'8 agosto 2013 e quello del 30.09.203 dell'Emilia Romagna), che avevano temuto –nei primi giorni dopo la conversione nella legge 90/2013 del Dl 63/2013– un blocco delle pratiche sia di compravendita, ma anche di affitto, sui propri territori.
Sovraordinato, invece, rispetto alle Regioni è l'obbligo di allegare il certificato (comunque esso si chiami e con qualunque forma si compili) ai contratti di locazione. Pena la nullità: almeno fino a che il Governo, come annunciato, non avrà imboccato la retromarcia su questo punto, cancellando per la seconda volta quella che è una esplicita richiesta da parte dell'Unione europea.
Più intricata è la questione delle sanzioni. Alcune regioni, come Piemonte e Lombardia, avevano previsto – ben prima che ci arrivasse lo Stato – una serie di multe per chi non provvede a redigere correttamente gli attestati o a corredare di Ape/Ace gli atti di cessione a titolo oneroso, quindi anche gli affitti. «Nel caso della Lombardia –spiega la dirigente del servizio, Alice Tura– le sanzioni restano quelle stabilite a livello regionale. Non c'è, infatti, tipologia di ammenda nella nostra legislazione che non sia prevista anche dallo Stato. Solo le cifre sono più severe. E sono quelle da applicare». Multe che, la Lombardia, caso unico in Italia, ha anche iniziato a comminare in caso di certificati non corretti.
Diversa la lettura di altre Regioni, come il Piemonte e l'Emilia Romagna. Ad esempio, quest'ultima, in calce al comunicato diffuso a fine settembre specifica: «Per quanto riguarda gli obblighi di produzione e allegazione dell'attestato devono invece essere rispettate le disposizioni di cui al comma 1, 2, 3 e 3-bis del medesimo articolo 6 del Dlgs 192/2005 e s.m.». La Lombardia, tuttavia, rilancia. «A rendere più certa la nostra interpretazione –conclude Tura– c'è il fatto che l'articolo 9 della legge 24/2006, così come modificato dalla legge 3/2011, cita l'ultima direttiva Ue del 2010. Cosa che non avviene in tutte le discipline locali» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2013).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALISponsor obbligato? Concussione. Il sindaco che fa pressioni per la squadra di calcio locale rischia l'incriminazione. Cassazione. Secondo i magistrati bisogna però provare il vantaggio politico personale del primo cittadino promotore
Il sindaco che fa pressioni su un imprenditore per costringerlo a sponsorizzare la squadra di calcio locale risponde di concussione solo se l'accusa prova che in tal modo il primocittadino ha ottenuto un vantaggio di «natura politica» e personale, e non invece solo di «natura istituzionale». In questa seconda ipotesi, infatti, la sussistenza del reato è esclusa perché il beneficio andrebbe nella direzione del buon funzionamento della Pa che è il bene giuridico tutelato dalla stessa norma incriminatrice.

Con l'articolata sentenza 15.11.2013 n. 45970 la II Sez. penale della Corte di Cassazione ha riaperto per la terza volta il processo di appello all'ex sindaco di Altamura che a fine anni'90 avrebbe –tra le altre ipotesi di accusa– costretto una cordata di imprenditori a impegnarsi in soccorso della squadra di calcio locale.
Il caso era stato affrontato e risolto nei due gradi di merito già nel 2002 –assoluzione in primo grado, condanna in Appello– ma a un primo annullamento da parte della Cassazione (21991/2006), di fatto ignorato dalla Corte di appello barese, seguì una nuova condanna e, ieri, l'ulteriore annullamento dei giudici di piazza Cavour.
Proprio con il primo annullamento di sette anni fa, la Cassazione aveva affermato il principio secondo cui «ai fini della configurabilità del delitto di concussione, nell'espressione "altra utilità" di cui all'articolo 317 del codice penale va ricompreso anche il vantaggio di natura politica, da non identificarsi con il vantaggio di natura istituzionale che, in quanto giova esclusivamente alla Pubblica Amministrazione, esclude la sussistenza del reato».
"Spacchettando" il concetto, la Sesta penale, due anni più tardi (33843/2008) aveva poi chiarito che nella concussione il termine «utilità indica tutto ciò che rappresenta un vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale. oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in un dare quanto in un facere e ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal convincimento comune, conseguentemente rientrandovi anche il vantaggio di natura politica».
Nel caso specifico, quindi, si tratta di verificare se il sindaco della cittadina pugliese abbia agito per ottenere visibilità politica (cioè un beneficio "personalizzato") oppure per finalità istituzionali «nelle quali potrebbe di fatto rientrare anche quello di promuovere l'attività sportiva, finanziando una squadra di calcio», scrive il giudice del rinvio.
Per la stessa Cassazione, comunque, il "promo" all'esercizio fisico nelle vicende di causa sarebbe da considerare una «mera evenienza» ma comunque sarebbe stata meritevole di valutazione nel primo giudizio di rinvio. In sostanza il pubblico ministero ha l'onere, di fronte all'ipotesi di concussione formulata dagli investigatori, di dimostrare la presenza di una «finalità personale» del sindaco, mentre non spetta a quest'ultimo provare il contrario.
La Corte di appello di Bari, per la verità, nel secondo giudizio di rinvio aveva provato a tracciare una definizione del perimetro delle condotte lecite per il sindaco "amante" dello sport, valutando che «l'impegno a reperire soggetti disposti a sponsorizzare le squadre di calcio ovvero a favorire la formazione di "cordate" di imprenditori che rilevino la società da precedenti titolari non rientra fra i fini istituzionali dell'ente ma solo ed esclusivamente a quelli politici».
I giudici di piazza Cavour hanno però tacciato quest'affermazione di essere «astratta ed apodittica, prescindendo dalla specifica disamina del caso di specie, ovvero dalla verifica di quello che era accaduto in concreto» ignorando tra l'altro anche le direttive della sentenza di rinvio. La stessa esclusione delle finalità istituzionali dell'intervento in pressing del sindaco, e il solo fine di visibilità politica, non sono stati motivati nella sentenza nuovamente bocciata (articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2013).

EDILIZIA PRIVATANel caso in cui l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione.
... per l'annullamento del provvedimento di decadenza permesso di costruire;
...
- Considerato che il mancato inizio dei lavori di cui al permesso di costruire n. 31/2011 risulta correlato all’adozione del provvedimento con il quale il Comune ha negato il rilascio della concessione relativa all’installazione di chiosco per la vendita di prodotti non alimentari, annullato con sentenza n. 714/2013 del 25.06.2013 di questo Tribunale;
- Considerato che il ricorso risulta manifestamente fondato, atteso che secondo la giurisprudenza, nel caso in cui l’amministrazione sia a conoscenza di eventi che hanno impedito al titolare della concessione edilizia di ultimare i lavori, la stessa non può adottare un provvedimento di decadenza della concessione, trovando applicazione, anche senza richiesta del concessionario, la proroga del termine per la ultimazione dei lavori per fatti estranei alla volontà del concessionario che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione (così, da ultimo, TAR Calabria, Reggio Calabria, 20.04.2010 n. 420);
- Considerato che deve essere rigettata la domanda di risarcimento del danno, in quanto l’annullamento del provvedimento impugnato soddisfa l’interesse di parte ricorrente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 15.11.2013 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché dal combinato disposto di cui agli art. 87 e 88 del d.P.R. 24.07.1977 n. 616 si evince che le valutazioni urbanistiche inerenti la realizzazione di elettrodotti con tensione inferiore ai 150.000 volts rientrano nella competenza delle regioni, l'ubicazione in difformità delle previsioni di piano e le caratteristiche di dette opere non sono subordinate al previo rilascio di apposita variante agli strumenti urbanistici vigenti o di intese Stato-regione, essendo al riguardo sufficiente l'intervenuta intesa tra l'ENEL e la regione interessata.
Così coerentemente si esclude che per la costruzione di dette opere sia necessaria la concessione edilizia o l’autorizzazione comunale.

Con ricorso notificato in data 24.02.2001 e ritualmente depositato il 5 marzo successivo, la Società Enel Distribuzione S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, impugna l’ordinanza, meglio distinta in epigrafe, colla quale il Comune di Ospidaletto d’Alpinolo le ha ordinato di provvedere allo smontaggio “dei tralicci in ferro per il sostegno di cavi di alta tensione (elettrodotto)”, ubicati alla Via Utracchi, assumendone l’abusività dal punto di vista urbanistico.
La ricorrente, dopo aver premesso che l’elettrodotto da rimuovere esiste da circa trenta anni ed è necessario per l’erogazione del servizio elettricità, solleva, sotto distinti e concorrenti profili, i vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere, lamentando che l’installazione dell’elettrodotto è stata a suo tempo autorizzata dalla Regione e si tratterebbe di un intervento irrilevante sul piano urbanistico.
...
Il ricorso è fondato.
Parte ricorrente evidenzia, nel contesto del primo motivo di ricorso, che l’elettrodotto, la cui realizzazione risale al 1980, è di tensione inferiore a 150 Kv e pertanto assume che non rientrerebbe nella competenza comunale a norma del R.D. 11.12.1933, n. 1775. Si allega quindi al ricorso decreto regionale prot. n. 10024 del 21.10.1980 con il quale si autorizza l’ENEL “a costruire e a porre in esercizio la linea elettrica in oggetto (Comuni di Avellino – Mercogliano – Ospedaletto)”.
Le su citata disciplina invero prevede, all’art. 108, che “Le linee di trasmissione e distribuzione di energia elettrica aventi tensione non inferiore a 5000 volta sono autorizzate dal Ministro dei lavori pubblici”. La successiva evoluzione della normativa, per effetto dell’introduzione degli enti regionali, ha determinato lo spostamento di competenza in favore di questi ultimi, invece che dei Comuni, tant’è che si afferma in giurisprudenza: “Poiché dal combinato disposto di cui agli art. 87 e 88 del d.P.R. 24.07.1977 n. 616 si evince che le valutazioni urbanistiche inerenti la realizzazione di elettrodotti con tensione inferiore ai 150.000 volts rientrano nella competenza delle regioni, l'ubicazione in difformità delle previsioni di piano e le caratteristiche di dette opere non sono subordinate al previo rilascio di apposita variante agli strumenti urbanistici vigenti o di intese Stato-regione, essendo al riguardo sufficiente l'intervenuta intesa tra l'ENEL e la regione interessata” (cfr. Tar Marche, 10.04.1992, n. 245). Così coerentemente si esclude che per la costruzione di dette opere sia necessaria la concessione edilizia o l’autorizzazione comunale (Tar Marche, 09.10.1992, n. 588).
Va conclusivamente rilavata la fondatezza del rilievo in considerazione della estraneità della fattispecie alla sfera di competenza dell’ente comunale.
Il ricorso è pertanto fondato, atteso il carattere assorbente della censura in esame, e va accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.11.2013 n. 2276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 13 l. 28.02.1985, n. 47 impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione ed impone al Comune il previo esame della domanda di sanatoria, con la necessità, in caso di rigetto (espresso o tacito, ex art. 13, comma 2, l. n. 47 del 1985), dell'adozione di una nuova misura demolitoria.
Da ciò consegue che, nel caso in cui il ricorso sia stato proposto o contestualmente o dopo la presentazione della predetta istanza, esso è inammissibile per carenza di interesse ab origine.

Assume rilievo dirimente la presentazione di istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della l.n. 47/1985, ora trasfuso nell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, avvenuta in data 2.12.1998, prot. n. 59096, quindi in data antecedente al ricorso, siccome depositato l’11.12.1998.
Infatti, secondo un cospicuo indirizzo giurisprudenziale, al quale il Collegio intende aderire, "la presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 13 l. 28.02.1985, n. 47 impedisce l'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione ed impone al Comune il previo esame della domanda di sanatoria, con la necessità, in caso di rigetto (espresso o tacito, ex art. 13, comma 2, l. n. 47 del 1985), dell'adozione di una nuova misura demolitoria. Da ciò consegue che, nel caso in cui il ricorso sia stato proposto o contestualmente o dopo la presentazione della predetta istanza, esso è inammissibile per carenza di interesse ab origine" (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 18.05.2006, n. 4743) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.11.2013 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di sanatoria di costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Così pedissequamente si afferma, con specifico riferimento alla presentazione della domanda di condono ai sensi della l. n. 326 del 2003 successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione che essa "produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera al fine di verificarne l'eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento impugnato".

Secondo cospicuo orientamento della giurisprudenza, al quale il Collegio intende aderire, infatti, "La presentazione dell'istanza di sanatoria di costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa" (cfr. Tar Napoli, Sez. IV, n. 1542 del 03.04.2012).
Così pedissequamente si afferma, con specifico riferimento alla presentazione della domanda di condono ai sensi della l. n. 326 del 2003 successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, come avvenuto nel caso di specie, che essa "produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera al fine di verificarne l'eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento impugnato" (cfr. Tar Napoli, Sez. VI, 09.05.2013, n. 2417) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.11.2013 n. 2272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Di regola, gli atti amministrativi si perfezionano e producono effetti fin dalla loro emanazione, salvo che non sia altrimenti disposto da una norma, che richieda un controllo preventivo di legittimità o che preveda la comunicazione dell’atto al suo destinatario.
In via generale sono considerati come recettizi, ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 241 del 1990, i soli provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, fatta salva l’immediata efficacia di quelli aventi carattere cautelare ed urgente.
In ogni caso, anche per gli atti recettizi, la comunicazione incide unicamente sull'efficacia del provvedimento, nonché ovviamente sul decorso dei termini per l'impugnativa giurisdizionale, ma comunque non influisce sull’esistenza e sulla validità dell’atto.
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Quanto al “protocollo interno”, esso dimostra appunto la formalizzazione dell’atto, laddove la mancanza di un protocollo generale o di uscita costituisce semmai una omissione o dimenticanza inidonea a travolgere, eliminare o escludere la esistenza dell’atto stesso.
Infatti è stato chiarito che l'omessa registrazione di protocollo del provvedimento, prevista dall'art. 53 del d.P.R. n. 445 del 2000 per ogni documento ricevuto o spedito dalle pubbliche amministrazioni, non può ritenersi causa di nullità o annullabilità dell’atto.

Il Comune resistente obietta, in primo luogo, che il documento relativo all’annullamento d’ufficio esibito dal ricorrente sarebbe in realtà una mera “bozza” di provvedimento, che non si sarebbe mai concretizzata con la formale emanazione di un atto di autotutela. Infatti, a detta del Comune resistente, il responsabile dell’Area non si sarebbe convinto della legittimità dell’annullamento, tant’è che l’atto in questione non recherebbe né un numero di protocollo generale (ma solo un numero di protocollo interno all’ente), né un destinatario (visto che mancherebbe una notifica all’interessato e ad Equitalia). La difesa comunale soggiunge altresì che il Comune stesso non conoscerebbe come il ricorrente sia entrato in possesso del documento in questione.
Al riguardo giova osservare che il ricorrente ha prodotto in giudizio un atto recante data, timbro del Comune e sottoscrizione del Capo Area Tecnica, protocollato “prot. int. n. 668” e inviato al ricorrente a mezzo plico raccomandato in data 04/12/2010.
Giova premettere che, di regola, gli atti amministrativi si perfezionano e producono effetti fin dalla loro emanazione, salvo che non sia altrimenti disposto da una norma, che richieda un controllo preventivo di legittimità o che preveda la comunicazione dell’atto al suo destinatario (cfr. Cons. St., sez VI, 18/06/2002, n. 3319). In via generale sono considerati come recettizi, ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 241 del 1990, i soli provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, fatta salva l’immediata efficacia di quelli aventi carattere cautelare ed urgente.
In ogni caso, anche per gli atti recettizi, la comunicazione incide unicamente sull'efficacia del provvedimento, nonché ovviamente sul decorso dei termini per l'impugnativa giurisdizionale, ma comunque non influisce sull’esistenza e sulla validità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. IV, 21/08/2006, n. 4860).
Nella specie va tuttavia rilevato che non è mancata la comunicazione dell’atto all’interessato, il quale ha prodotto, in originale, il documento in questione ed il plico raccomandato, apparentemente proveniente dal Comune di cui reca i timbri, a nulla rilevando, di fronte a tale evidenza documentale, le asserzioni del difensore in ordine allo “stupore” manifestato al riguardo dal funzionario comunale.
Quanto al “protocollo interno”, esso dimostra appunto la formalizzazione dell’atto, laddove la mancanza di un protocollo generale o di uscita costituisce semmai una omissione o dimenticanza inidonea a travolgere, eliminare o escludere la esistenza dell’atto stesso.
Infatti è stato chiarito che l'omessa registrazione di protocollo del provvedimento, prevista dall'art. 53 del d.P.R. n. 445 del 2000 per ogni documento ricevuto o spedito dalle pubbliche amministrazioni, non può ritenersi causa di nullità o annullabilità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. VI, 06/08/2013, n. 4113).
Ne consegue che gli atti adottati dal Comune per la determinazione dei contributi di costruzione risultano annullati in sede di autotutela con il provvedimento n. 668 del 02/12/2010, che risulta adottato, comunicato e non eliminato nelle forme previste dall’ordinamento.
Gli atti consequenziali di riscossione sono viziati da illegittimità derivata (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 13.11.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lo sbancamento di un terreno, l’arretramento del muro di contenimento e la pavimentazione cortilizia non costituiscono interventi effettuati sull’edificio contiguo e pertanto non sono configurabili come lavori di manutenzione del medesimo.
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Il muro di contenimento, determinando una durevole trasformazione dell’area dallo stesso impegnata, non rappresenta intervento di mera manutenzione.

Sennonché lo sbancamento di un terreno, l’arretramento del muro di contenimento e la pavimentazione cortilizia non costituiscono interventi effettuati sull’edificio contiguo e pertanto non sono configurabili come lavori di manutenzione del medesimo.
Peraltro è stato chiarito che il muro di contenimento, determinando una durevole trasformazione dell’area dallo stesso impegnata, non rappresenta intervento di mera manutenzione (cfr. Cass., sez. pen. III, 03/03/2010, 15370) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 13.11.2013 n. 5076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASi rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione, che ancora una volta si trascrive: <<se i princìpi dell’Unione europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del 21.04.2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13° e 24° considerando) –in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica>>.
In definitiva, alla luce di quanto esposto, si rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione, che ancora una volta si trascrive: <<se i princìpi dell’Unione europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del 21.04.2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13° e 24° considerando) –in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica>> (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 13.11.2013 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d’illecito previste dalla legge; circostanza, questa, implicante che il provvedimento sanzionatorio non richieda particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.  
Quanto alla riproposta (con il sesto motivo) censura di carenza di motivazione, in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso, a distanza di molto tempo dalla relativa realizzazione, questo Collegio non reputa vi siano ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza dominante anche di questa Sezione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 20.07.2011 n. 443; sez. VI, sent. 11.05.2011 n. 2781; sez. V, sent. 27.04.2011 n 2526), secondo cui il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento della relativa realizzazione e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie d’illecito previste dalla legge; circostanza, questa, implicante che il provvedimento sanzionatorio non richieda particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.11.2013 n. 5368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione all’art. 12, legge n. 47/1985 (ora, art. 34, d.P.R. n. 380/2001), la valutazione sulla reale fattibilità, pratica e giuridica, della demolizione deve essere effettuata al momento dell’irrogazione della sanzione, in quanto la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione di tale fattibilità finisce col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non esserle possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva.
Inoltre, in materia di applicabilità dell'art. 12, legge n. 47/1985, la previsione di cui al comma secondo di detta norma non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la costruzione sia avvenuta in assenza di concessione edilizia, essendo costituito il presupposto per l'applicazione della disciplina sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non abusiva del manufatto e non anche dalla circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio.

La giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 12, legge n. 47/1985 (ora, art. 34, d.P.R. n. 380/2001), dopo alcune oscillazioni, si è attestata sull’orientamento, che questo collegio condivide, secondo cui la valutazione sulla reale fattibilità, pratica e giuridica, della demolizione debba essere effettuata al momento dell’irrogazione della sanzione, in quanto la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione di tale fattibilità finisce col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non esserle possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva.
Osserva, inoltre, il collegio, alla stregua della più attenta giurisprudenza formatasi in materia di applicabilità dell'art. 12, legge n. 47/1985, che la previsione di cui al comma secondo di detta norma non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la costruzione sia avvenuta in assenza di concessione edilizia, essendo costituito il presupposto per l'applicazione della disciplina sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non abusiva del manufatto e non anche dalla circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 29.09.2011 n. 5412, e sez. V, sent. 11.05.2007 n. 2339)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.11.2013 n. 5368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Ente civico è tenuto a corrispondere il quantum che risulta essere stato corrisposto dal ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e di costi di costruzione, maggiorato degli interessi legali, nella misura vigente nel periodo dal versamento al soddisfo, e della rivalutazione monetaria, ove nel periodo suindicato il tasso d’inflazione sia superiore al tasso di interesse legale, laddove il concessionario rinunci all'edificazione di quanto richiesto.
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Rinunciando all'esecuzione di una concessione edilizia rilasciata, nulla deve invece essere restituito quali diritti di segreteria, atteso che tale importo è una tariffa stabilita per l’instaurazione e lo svolgimento del procedimento amministrativo introdotto dalla domanda di rilascio di permesso di costruire e non già correlata al rilascio del titolo.

... avverso il silenzio inadempimento del Comune di Barletta sull’istanza di restituzione degli oneri di urbanizzazione relativi ad una domanda di permesso di costruire, mai accolta ed oggetto di rinuncia da parte del ricorrente.
...
Considerato:
- che, ai sensi dell’art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo”;
- che è evidente che il contributo concessorio sopra specificato è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio assentita col titolo edilizio rilasciato e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare;
- che, in assenza di restituzione, si determinerebbe in favore del Comune un indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 c.c.;
- che conseguentemente nella specie l’Ente civico intimato è tenuto a corrispondere il quantum che risulta essere stato corrisposto dal ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e di costi di costruzione, maggiorato degli interessi legali, nella misura vigente nel periodo dal versamento al soddisfo, e della rivalutazione monetaria, ove nel periodo suindicato il tasso d’inflazione sia superiore al tasso di interesse legale;
- che nulla deve invece essere restituito quali diritti di segreteria, atteso che tale importo è una tariffa stabilita per l’instaurazione e lo svolgimento del procedimento amministrativo introdotto dalla domanda di rilascio di permesso di costruire e non già correlata al rilascio del titolo;
Ritenuto:
- che, pertanto, il ricorso debba accogliersi, con le precisazioni sopra fatte, e, per l’effetto, il Comune di Barletta sia tenuto a riscontrare l’istanza del ricorrente con provvedimento espresso, determinandosi a versare in suo favore la somma suindicata nel termine indicato in dispositivo, con l’avvertenza che, in assenza, sarà nominato un commissario ad acta, che dovrà provvedere in sua vece (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 08.11.2013 n. 1526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del conseguimento del condono edilizio è stato osservato che:
- la nozione di ultimazione delle opere cui occorre fare riferimento coincide con l'esecuzione del rustico -da intendersi come muratura priva di rifinitura- e da non confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi come mere rifiniture;
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria;
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere l'immobile da incursioni estranee non determina il completamento della copertura;
- la semplice installazione di lamiere, che non consente una precisa individuazione del volume e non esclude la possibile modificazione dell'opera non può configurare una copertura definitiva e stabile del fabbricato abusivo.
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E' onere del richiedente il condono edilizio provare che l'opera sia stata completata entro la data utile fissata della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti, specificandosi che la prova del completamento dell'edificio entro la data prevista dalla legge può essere validamente fornita attraverso la produzione della documentazione, munita di data certa, delle fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la realizzazione dell'opera.

Va rilevato che:
- il D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito nella L. 24.11.2003, n. 326 -condono edilizio del 2003- consente la sanabilità delle "opere abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003", rinviando alla previsioni normative di cui alla legge n. 47 del 1985 per i profili di disciplina generale dell'istituto;
- in particolare, per quanto qui interessa, la L. n. 47, all'art. 31, comma 2, stabilisce che "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura".
- a sua volta la definizione di "rustico" non può prescindere, secondo la costante giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, dall'intervenuto completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali anche le "tamponature esterne";
- tale interpretazione -come ha evidenziato la Corte costituzionale nella sentenza 27.02.2009 n. 54- è rafforzata dalla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 7 dicembre 2005 n. 2699, che riconosce, sulla base della giurisprudenza in materia, "che l'esecuzione del rustico implica la tamponatura dell'edificio stesso, con conseguente non sanabilità di quelle opere ove manchino in tutto o in parte i muri di tamponamento".
Ancora, è stato osservato che:
- la nozione di ultimazione delle opere cui occorre fare riferimento coincide con l'esecuzione del rustico -da intendersi come muratura priva di rifinitura- e da non confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi come mere rifiniture (cfr. TAR Campania sez. IV, 07.09.2012 n. 3803);
- l'esecuzione del c.d. rustico è riferita al completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria (cfr. TAR Salerno, sez. II, 13.10.2006 n. 1745);
- la mancanza di tamponature esterne e la presenza di semplici tavole sovrapposte finalizzate a proteggere l'immobile da incursioni estranee non determina il completamento della copertura (cfr. Cassazione penale, sez. III, 02.12.2008 n. 8064);
- la semplice installazione di lamiere, che non consente una precisa individuazione del volume e non esclude la possibile modificazione dell'opera non può configurare una copertura definitiva e stabile del fabbricato abusivo (cfr. TAR Piemonte, I, 13.09.2007 n. 2925, TAR Liguria, Sez. 1, 19.03.2010 n. 1206).
Sotto altro profilo, va rilevato (cfr. Cons. St., Sez. V, 03.06.2013 n. 3034; Sez. IV, 06.06.2001 n. 3067; Sez. V, 14.03.2007 n. 1249) che è onere del richiedente il condono edilizio provare che l'opera sia stata completata entro la data utile fissata della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti, specificandosi che la prova del completamento dell'edificio entro la data prevista dalla legge può essere validamente fornita attraverso la produzione della documentazione, munita di data certa, delle fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la realizzazione dell'opera.
Con riguardo alla fattispecie all’esame, non solo non è stata fornita alcuna prova del completamento del rustico del primo piano entro la data del 31.03.2003, ma proprio dal verbale di sopralluogo della Polizia municipale del 22.09.2004, al quale si richiama parte ricorrente, emerge che -a tale data, successiva a quella limite del 31.03.2003- erano stati eseguito il solo scheletro e non risultavano ancora realizzati i tamponamenti laterali (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 08.11.2013 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Diritto all’indennizzo – Bando di gara – Previsione di modalità limitative della responsabilità per fatti illeciti della P.A. – Illegittimità.
Il diritto all’indennizzo, previsto dalla legge, può essere escluso legittimamente dall’Amministrazione con un proprio atto –come ad es. il bando di gara– in tutti i casi in cui la pretesa patrimoniale non si ricolleghi a un fatto illecito dell’Amministrazione, come accade nelle ipotesi di revoca (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990) e di annullamento di ufficio (ex art. 1, co. 136, l. n. 311/2004).
Allorquando invece siffatto diritto si ricolleghi a un fatto illecito, come accade nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., l’Amministrazione non può legittimamente imporre ai privati di formalizzare una preventiva rinuncia a siffatto diritto patrimoniale; è, del pari, illegittima la clausola del bando con la quale la stazione appaltante introduca in via preventiva, una modalità limitativa della responsabilità per fatti illeciti dalla stessa, posti in essere nello svolgimento del procedimento (Cons. Stato, Sez. IV, 14.01.2013, n. 156) (TAR Molise, sentenza 08.11.2013 n. 641 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIAl Tar le controversie sulla regolarità del Durc
Spettano al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la regolarità del Durc nei casi in cui esso costituisce un requisito di ammissione a gare pubbliche.

Lo ha ribadito il TAR Puglia-Lecce, Sez. I, nella sentenza 07.11.2013 n. 2258, annullando un Durc irregolare rilasciato dall'Inps su richiesta di un comune calabrese.
La ditta ricorrente aveva dedotto l'inesistenza della pretesa economica e del debito contributivo (avendo essa integralmente pagato quanto dovuto), oltre alla violazione dell'art. 13-bis, comma 5, della l 94/2012 (vantando essa crediti certi, liquidi ed esigibili verso la p.a. per un importo superiore alla presunta irregolarità). Preliminarmente, il Tar ha ritenuto di riaffermare espressamente la propria giurisdizione in materia, negata da altre pronunce «sulla base della consistenza di diritto soggettivo della pretesa giudiziale».
In altri termini, secondo alcuni, il giudice amministrativo non potrebbe occuparsi delle posizioni sostanziali di diritto soggettivo afferenti al rapporto contributivo, che andrebbero devolute al giudice ordinario ai sensi dell'art. 442, comma 1, cpc. In senso contrario, tuttavia, si sono espresse le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 09.02.2011, n. 3169), confermando l'orientamento del Consiglio di stato (sez. V, sentenza 11.05.2009 n. 2874) che ha attribuito alla regolarità contributiva, attestata dal documento unico, il carattere di vero e proprio requisito di partecipazione alla gara. Secondo il collegio pugliese, l'emissione del Durc si innesta in una procedura pubblicistica e attiene ad una fase del procedimento amministrativo, costituendo il documento «uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara».
La necessaria valorizzazione di tale dato induce, quindi, a ritenere appartenenti alla giurisdizione amministrativa le questioni attinenti alla regolarità del Durc. Un altro aspetto interessante della pronuncia riguarda la proiezione temporale della verifica di regolarità che precede il rilascio del documento: nel caso di specie, essa era stata compiuta sull'autodichiarazione rilasciata dal contribuente in un momento in cui il pagamento non era ancora stato effettuato.
Tuttavia, ciò che conta è la data (successiva) in cui il Durc è stato rilasciato: a quel punto, esso doveva attestare la regolarità della ditta, che nel frattempo si era messa a posto con i versamenti (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

EDILIZIA PRIVATASenza barriere gli studi dei difensori d'ufficio. Tar Parma. I locali sono «aperti al pubblico».
Studi legali senza barriere architettoniche, se i clienti sono ammessi al patrocinio a carico dello Stato.

Questo è il principio posto dalla sentenza 06.11.2013 n. 303 del TAR Emilia Romagna-Parma, al termine di una controversia tra il locale Ordine degli avvocati e il Comune.
Il piano urbanistico di Parma, dal 2007, impone negli edifici "aperti al pubblico" il rispetto delle norme per il superamento delle barriere architettoniche.
Ciò ha messo in allarme le categorie professionali. In particolare, gli avvocati eccepivano difficoltà e costi per adeguamenti strutturali di locali che, a loro parere, dovevano considerarsi di uso privato. Secondo il Comune, invece, la legge 104/1992 impone di eliminare difficoltà di accesso anche negli edifici privati, se aperti al pubblico.
La norma del 1992 prevede tre livelli di qualità: accessibilità (ingresso), visitabilità (dislivelli, spigoli, rampe accesso) e adattabilità (fruibilità senza modifiche alla struttura): agli studi legali il Comune richiedeva appunto la visitabilità e cioè la possibilità, per le persone impedite, di accedere agli spazi di relazione senza dislivelli o spigoli e con servizi adeguati. Lo stesso tipo di controversia ha riguardato studi medici e ambulatori (Tar Brescia 227/2011, Palermo, 9199/2010) ritenendo aperti al pubblico i servizi di medicina generale, ma ora per la prima volta riguarda gli avvocati.
Secondo i giudici amministrativi, gli studi legali privati, devono essere "visitabili", tutte le volte che l'accesso, seppur escluso alla generalità delle persone, sia comunque consentito a determinate categorie, anche se ricevute con rispetto di orari e con obbligo di preventivo appuntamento. L'obbligo di rendere "visitabili" gli studi non riguarda, quindi, tutti gli uffici legali di Parma, ma solo i casi in cui l'avvocato ha uno studio "aperto al pubblico", cioè i casi in cui il professionista non è in grado di selezionare clienti, in quanto ha comunque l'obbligo di prestare loro il patrocinio.
Lo studio è quindi per principio "privato", ma diventa "aperto al pubblico", quando l'avvocato chieda di essere iscritto nell'elenco dei difensori d'ufficio e di coloro che prestano il patrocinio a carico dello Stato: tali servizi hanno infatti un pubblico indistinto, di cittadini non abbienti le cui ragioni risultino non manifestamente infondate a parere della specifica Commissione prevista dal Decreto del presidente della Repubblica 115/2002.
Il meccanismo di selezione dei clienti, nel caso di cittadini non abbienti, avviene infatti a monte, dapprima con una verifica delle possibilità di esito favorevole del ricorso alla giustizia, e poi con un elenco di professionisti che accettano le difese, con successivo onorario a carico dello Stato.
Ciò significa che quando l'avvocato accetta (mediante volontaria iscrizione negli elenchi specifici) le difese di ufficio ed i patrocini gratuiti, presta la propria utilità in favore di un'ampia ed indiscriminata categoria di aventi diritto. Quindi, a fronte del vantaggio di un compenso corrisposto dallo Stato, il professionista ha l'onere di adeguare il proprio studio alla normativa statale finalizzata ad eliminare le barriere architettoniche.
Le ricadute della sentenza possono essere rilevanti, perché l'accesso al pubblico può avere conseguenze sull'indennità per finita locazione (articoli 34 e 35 e legge 392/1978), mentre l'eliminazione delle barriere architettoniche può generare contrasti condominiali anche in presenza delle più agevoli maggioranze che l'articolo 1120 del codice civile (maggioranza intervenuti e metà valore immobile) ha di recente modificato (legge 220/2012).
Altre categorie professionali sono avvisate: dai notai ai tecnici, in corrispondenza all'ampliarsi delle funzioni pubbliche delegate, sarà necessario adeguare studi ed uffici (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2013).

APPALTI: L’espressione “socio di maggioranza” di cui alle lettere b) e c) dell’art. 38, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006, e alla lettera m-ter) del medesimo comma, si intende riferita, oltre che al socio titolare di più del 50% del capitale sociale, anche ai due soci titolari ciascuno del 50% del capitale o, se i soci sono tre, al socio titolare del 50%.
Riguardo ai quesiti posti con l’ordinanza di rimessione si afferma quindi il seguente principio di diritto: “L’espressione “socio di maggioranza” di cui alle lettere b) e c) dell’art. 38, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006, e alla lettera m-ter) del medesimo comma, si intende riferita, oltre che al socio titolare di più del 50% del capitale sociale, anche ai due soci titolari ciascuno del 50% del capitale o, se i soci sono tre, al socio titolare del 50%” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 06.11.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIContratti professionali scritti. Se la p.a. è parte, forma richiesta ad substantiam. Una sentenza della Corte di cassazione interviene sul conferimento di incarichi.
È richiesta la forma scritta ad substantiam per il contratto d'opera professionale, al fine di garantire il regolare svolgimento dell'attività amministrativa.

Ad affermarlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. I civile, con sentenza 04.11.2013 n. 24679, esprimendosi su un caso di contratti stipulati con la pubblica amministrazione, circa il conferimento di incarico per il rifacimento parziale dell'illuminazione pubblica.
Già i giudici di legittimità, sulla vicenda, ebbero modo di affermare che la ricostruzione della volontà negoziale del Comune, «si scontra con la necessità della forma scritta e della chiara e contestuale formazione della volontà contrattuale delle parti».
I giudici della Suprema corte, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 1167/2013 e n. 1752/2007), secondo cui per il contratto d'opera professionale, quando ne sia parte committente una pubblica amministrazione, e anche quando questa agisce iure privatorum, è richiesta «la forma scritta ad substantiam, che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia della collettività, agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e, per tale via, espressione dei principi di imparzialità e buon andamento della p.a. posti dall'art. 97 Cost.».
Hanno, poi, osservato gli Ermellini che «il contratto deve, quindi, tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell'organo attributario del potere di rappresentare l'ente interessato nei confronti dei terzi, dal quale possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da rendere e al compenso da corrispondere. Di conseguenza, in mancanza di detto documento contrattuale, ai fini d'una valida conclusione del contratto rimane del tutto irrilevante l'esistenza di una deliberazione con la quale l'organo collegiale dell'ente abbia conferito un incarico a un professionista, o ne abbia autorizzato il conferimento, in quanto essa non costituisce una proposta contrattuale, ma un atto con efficacia interna all'ente avente natura autorizzatoria e quale unico destinatario il diverso organo legittimato ad esprimere la volontà all'esterno» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).
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La massima
1. Per il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una P.A., e pur ove questa agisca “iure privatorum”, è richiesta, in ottemperanza al disposto degli artt. 16 e 17 del r.d. 18.11.1923, n. 2440, la forma scritta “ad substantiam”, che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa nell’interesse sia del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia della collettività, agevolando l’espletamento della funzione di controllo, e, per tale via, espressione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. posti dall’art. 97 Cost.
2. Il contratto d’opera professionale, quando ne sia parte committente una P.A. deve tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo attributario del potere di rappresentare l’ente interessato nei confronti dei terzi, dal quale possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da rendere e al compenso da corrispondere
(massima tratta da e link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: No ai parchi eolici vicino agli aeroporti
No alla realizzazione di un parco eolico nelle vicinanze di un aeroporto. In quanto vi è il rischio che gli aerogeneratori possano incidere con le traiettorie di decollo e atterraggio degli aerei. Al fine di garantire la sicurezza della navigazione aerea, l'Enac individua le zone da sottoporre a vincolo nelle aree limitrofe agli aeroporti e stabilisce le limitazioni relative agli ostacoli per la navigazione aerea e ai potenziali pericoli per la stessa, conformemente alla normativa tecnica internazionale.
Gli enti locali, nell'esercizio delle proprie competenze in ordine alla programmazione e al governo del territorio, adeguano i propri strumenti di pianificazione alle prescrizioni dell'Enac e che «le zone aeroportuali e le relative limitazioni sono indicate dall'Enac su apposite mappe pubblicate mediante deposito nell'ufficio del comune interessato».

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, VI Sez., con la sentenza 04.11.2013 n. 5291 (articolo ItaliaOggi del 15.11.2013).

EDILIZIA PRIVATANiente serre in campagna se deturpano il paesaggio.
Niente serre, neppure in zona agricola, se queste deturpano il paesaggio. Ciò in quanto le valutazioni di carattere paesaggistico, di competenza della soprintendenza sono indipendenti, e comunque prevalenti rispetto a quelle di carattere urbanistico.

La Sezione VI del Consiglio di Stato con la sentenza 31.10.2013 n. 5273 ha ribaltato il giudizio del Giudice di primo grado che aveva annullato il diniego opposto dalla Soprintendenza al rilascio della autorizzazione paesaggistica in relazione al fatto che gli uffici competenti non avevano tenuto conto che l'area era tipizzata dallo strumento urbanistico quale area E–verde agricolo produttivo, per la quale, secondo le Nta dello strumento urbanistico del comune erano anche ammesse attività industriali connesse all'agricoltura, costruzioni al servizio dell'agricoltura quali fabbricati rurali, case coloniche, laboratori a carattere artigiano-agricolo, magazzini per la lavorazione dei prodotti agricoli, commisurati alle normali esigenze dell'azienda agricola su cui dovranno sorgere.
Ma per il Consiglio di stato, pur dando atto che le serre sono una delle costruzioni tipiche in agricoltura, il tribunale regionale si era limitato ad una visione parziale della problematica. Perché è di tutta evidenza che il compito dell'autorità preposta alla valutazione paesaggistica è quello di doversi esprimere in un giudizio sulla compatibilità paesaggistica dell'intervento, così come prospettato, nel sito tutelato, senza esservi condizionata dalla disciplina urbanistica vigente.
Di conseguenza è del tutto irrilevante la circostanza che in base alla disciplina urbanistica potessero realizzarsi delle serre. Ciò in quanto tale fatto non è di per se idoneo ad eliminare la valutazione di compatibilità che è comunque intrinseca a quel vincolo ed è autonoma dalla pianificazione edilizia. Come del resto, secondo la Sezione, è da considerarsi irrilevante il fatto che la zona, complessivamente, fosse stata in stato di degrado (articolo ItaliaOggi del 12.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA:  Il permesso di costruire derivante da reato è nullo o annullabile?
E' affetto da annullabilità -e non da nullità- il provvedimento che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui emanazione abbia comportato alla commissione di un reato.
Il Consiglio di Stato si pronuncia sul tipo di invalidità del permesso di costruire adottato in seguito ad una condotta costituente un reato, concludendo che in tal caso il titolo edilizio è annullabile e non nullo.
La sentenza di primo grado aveva ritenuto che il reato commesso in sede di adozione del permesso di costruire avesse determinato l’interruzione del nesso di riferibilità soggettiva degli atti del funzionario all’Ente con conseguente radicale nullità dell’atto per carenza di un elemento essenziale, ai sensi dell’articolo 21-septies della l. 241 del 1990.
Il giudice d’appello è di contrario avviso e, richiamando una risalente decisione dell’Adunanza Plenaria (n. 3 del 1976), afferma il principio secondo cui è affetto da annullabilità (e non da nullità) il provvedimento amministrativo (per sua natura autoritativo) che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui emanazione abbia comportato alla commissione di un reato.
Rileva in proposito che la cosiddetta frattura del nesso di immedesimazione organica (per il caso di commissione di un reato doloso) riguarda la diversa tematica della responsabilità dell’amministrazione di cui risulti dipendente l’autore del reato, che è esclusa quando il dipendente abbia posto in essere una condotta materiale “per scopi egoistici”.
Ipotizzare la nullità del titolo edilizio in siffatti casi comporterebbe gravi turbamenti all’esigenza di certezza dei rapporti di diritto pubblico.
Anche i subacquirenti sarebbero infatti esposti in ogni tempo ad una declaratoria di nullità per atti divenuti inoppugnabili e richiamati negli atti notarili di alienazione. Tale grave conseguenza della nullità, che la legge pur potrebbe astrattamente prevedere a maggiore tutela del territorio, non è stata però in concreto prevista dal legislatore.
Inoltre, la sanzione dell’annullabilità consente comunque l’adeguata tutela del territorio e degli interessi pubblici coinvolti.
A seguito dell’accertamento dei fatti in sede penale, d’ufficio o su istanza di chi vi abbia interesse, il Comune deve valutare se e sotto quale profilo l’immobile realizzato si sia posto in contrasto con la disciplina urbanistica.
Ove tale contrasto risulti, l’Amministrazione, previo contraddittorio con i proprietari attuali, può rilevare il vizio dell’atto e, sussistendo inevitabilmente l’attuale interesse pubblico per il contrasto con la disciplina urbanistica e l’esigenza di ripristinare la legalità, può disporne l’annullamento, con le conseguenze specificamente previste dall’art. 38 del D.P.R. n. 280/2001 Testo unico sull’edilizia (ovverosia l’ordine di demolizione o la sanzione amministrativa pecuniaria).
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Esito
Riforma parzialmente TAR Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, n. 536 del 2012
Precedenti giurisprudenziali conformi
Cons. Stato, Ad. Plen., n. 3/1976
Precedenti giurisprudenziali difformi
Cons. Stato Sez. V Sent., 04.03.2008, n. 890
Riferimenti normativi

Art. 21-septies della l. 241 del 1990; art. 38 del D.P.R. n. 280/2001
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.10.2013 n. 5266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOSottotetto, rigore sui divieti. Clausole regolamentari inderogabili da leggi regionali. Gli effetti di una sentenza della Corte di cassazione sull'utilizzo delle parti comuni.
I divieti contenuti nel regolamento condominiale sull'utilizzo delle parti comuni rimangono impermeabili anche a eventuali disposizioni di favore contenute nelle leggi regionali. E così, in materia di destinazione dei sottotetti, le clausole regolamentari non possono essere derogate dai condomini nemmeno facendosi scudo delle leggi emanate a livello regionale per favorire il recupero delle soffitte.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.10.2013 n. 24125.
Nella specie alcuni condomini avevano chiesto che il tribunale inibisse la prosecuzione di opere iniziate nell'appartamento sito al piano solaio del medesimo edificio, opere che avrebbero concretato violazione del regolamento condominiale, che vietava la trasformazione d'uso del sottotetto, con conseguenti ripercussioni sulla struttura e sul decoro architettonico dell'immobile. Visto l'esito negativo del giudizio di primo grado, i medesimi condomini avevano quindi provveduto ad appellare la sentenza di rigetto emessa dal tribunale, senza però ottenere il risultato sperato. Di qui il successivo ricorso in Cassazione.
In sede di legittimità i supremi giudici, nel cassare la sentenza impugnata, hanno però correttamente evidenziato la portata del divieto contenuto nel regolamento del condominio in questione –regolamento di natura contrattuale– nel quale di disponeva espressamente che i condomini non potessero mutare la destinazione del sottotetto a uso deposito. A questo proposito la Cassazione ha ribadito come le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in essere per contratto possano imporre limitazioni al godimento e alla destinazione di uso degli immobili in proprietà esclusiva dei singoli condomini, disposizioni che si risolvono nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti e, in quanto costituiscono oneri reali o servitù reciproche, afferiscono immediatamente al bene immobile, purché espressamente e chiaramente manifestate dal documento contrattuale.
Ma nel caso in questione i giudici di legittimità hanno anche bacchettato i giudici di appello per avere attribuito efficacia di ius superveniens alla legge regionale per il recupero dei sottotetti che, secondo la sentenza impugnata, avrebbe avuto la meglio sui principi previsti in tema di interpretazione del regolamento condominiale e sugli specifici divieti previsti da quest'ultimo. Anche in questo caso la Cassazione ha ribadito la propria giurisprudenza formatasi in materia, secondo la quale anche la regolarizzazione di una costruzione mediante il c.d. condono delle violazioni di norme urbanistiche perpetrate nel realizzarla esplica effetti soltanto sul piano pubblicistico, precludendo alla pubblica amministrazione l'applicazione delle previste sanzioni, ma non incide in alcun modo sui diritti dei terzi direttamente pregiudicati dall'attività costruttiva oggetto di sanatoria.
In particolare i giudici hanno chiarito che una eventuale legge regionale finalizzata al recupero ai fini abitativi dei sottotetti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo territorio e favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, pur evidentemente autorizzando e anzi auspicando gli interventi di recupero dei sottotetti, non può mai produrre l'effetto di sanare le conseguenze della violazione del regolamento contrattuale condominiale commessa dai condomini, con connessa caducazione del diritto spettante agli altri condomini di pretenderne la puntuale osservanza.
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Sì alla trasformazione in abitazione se non ci sono rischi per la sicurezza.
Accade spesso che un condomino, titolare del sottotetto, decida di trasformarlo in abitazione. Se nel regolamento o successiva delibera non è previsto alcun limite alla facoltà di utilizzazione e destinazione di questa particolare parte comune, i singoli condomini non possono opporsi alla trasformazione in locale abitabile, a meno che non vi sia il rischio di pregiudizi alla sicurezza o alla stabilità dell'edificio.
La trasformazione (lecita) del sottotetto: i diritti del singolo condomino
Se i pericoli sopra detti non esistono, il singolo condomino può procedere alla trasformazione. Da notare che, qualora un sottotetto venga trasformato in vani abitabili, ciò non comporta l'insorgere di alcun diritto in capo agli altri condomini, a nulla rilevando che le opere siano o non siano legittime nei confronti della pubblica amministrazione, in relazione agli strumenti urbanistici vigenti. In ogni caso è possibile richiedere l'allaccio ai servizi condominiali: l'allaccio di nuove utenze a una rete di servizi (fognaria, elettrica, idrica o di altro tipo) è, infatti, per sua natura capace di accogliere nuove utenze.
Tuttavia è possibile negare l'autorizzazione all'allaccio se il condominio dimostra che, per motivi tecnici, l'allaccio di una sola nuova utenza incide sulla funzionalità dell'impianto. In caso contrario, però, l'assemblea non può ostacolare l'uso di quei servizi comuni indispensabili alla trasformazione con il preciso intento di impedire mutamenti di destinazione. Del resto il condomino ha molte più possibilità di intervenire sulle parti comuni di quanto normalmente si pensi. Così, ad esempio, può installare un'autoclave per portare l'acqua fino all'ultimo piano, creare un'apertura sul pianerottolo comune, modificare l'andamento del tetto ecc.
Sottotetto e regolamento di condominio
Non è raro trovare nel regolamento una norma che prevede il divieto di utilizzo delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini per fini diversi da quelli previsti al momento della costruzione e dell'acquisto del caseggiato. L'obiettivo di tali divieti è quello di evitare un godimento e un uso di servizi e parti comuni eccedenti le facoltà del condomino che operi la trasformazione di locali. In tal caso il divieto della norma regolamentare è applicabile anche a un bene (sottotetto) che, pur se di pertinenza dell'appartamento di un condominio, risulti costruito, realizzato e acquistato non come vano abitabile ma come deposito e, in quanto tale, destinato a un utilizzo (diverso da quello di abitazione) non modificabile in virtù del divieto previsto dal regolamento condominiale.
Ma non è possibile trasformare il sottotetto in vano abitabile neppure se il regolamento contenga una clausola contrattuale che impedisce di compiere qualsiasi opera interna. Quanto sopra vale però solo nel caso in cui dette clausole siano valide. A tale proposito bisogna ricordare che tali norme del regolamento se predisposte dall'originario proprietario dello stabile devono essere accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati. Se deliberate, invece dall'assemblea, esse debbono essere approvate all'unanimità, dovendo in mancanza considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea.
In ogni caso, se il regolamento è trascritto o richiamato nei singoli atti di acquisto, anche gli acquirenti sono tenuti a osservare scrupolosamente queste limitazioni alle proprietà esclusive. Queste considerazioni valgono anche per quelle disposizioni del regolamento che permettono la trasformazione del sottotetto soltanto nel caso in cui le opere necessarie siano autorizzate dall'assemblea dei condomini.
Anche tali clausole hanno natura contrattuale e, quindi, sono valide solo se sono state predisposte dall'originario proprietario del caseggiato e accettate nei singoli atti d'acquisto, oppure se sono state deliberate all'unanimità in un'assemblea.
La violazione del regolamento
Nella ristrutturazione di un sottotetto si pongono una serie di problemi in misura molto superiore a quello che accade in una normale ipotesi di ristrutturazione, problemi che consigliano di operare con una certa accortezza. È quindi consigliabile, prima di mettersi all'opera, richiedere un consiglio all'amministratore, il quale conosce eventuali divieti contenuti nel regolamento di condominio. Se però un condomino, ignorando la presenza di particolari divieti regolamentari, trasforma illecitamente il sottotetto in abitazione è inevitabile la reazione del condominio.
In particolare, a fronte del mutamento di destinazione abusivo del sottotetto che il proprietario esclusivo del locale realizzi mediante opere esclusivamente interne, in violazione di un vincolo imposto dal regolamento del condominio, deve escludersi che gli altri condomini possano conseguire l'eliminazione di dette opere interne, potendo soltanto ottenere l'inibizione del diverso uso. Si potrebbe ad esempio sostenere che il titolare del sottostante appartamento risulti danneggiato a causa dei maggiori rumori derivanti dalla destinazione ad abitazione del sottotetto, prima utilizzato solo saltuariamente come soffitta (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

TRIBUTITia, rifiuti speciali esonerati anche dalla quota fissa
È illegittimo il regolamento comunale sulla Tia che prevede l'applicazione della quota fissa della tariffa per le attività le cui superfici sono produttive di rifiuti speciali. Queste superfici sono totalmente escluse dalla tassazione.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 26.09.2013 n. 4756.
La regola vale anche per la Tarsu, la Tares e il nuovo tributo sui rifiuti (Tari) che entrerà in vigore il prossimo anno. Per i giudici di palazzo Spada, il comune non ha alcun potere regolamentare di disciplinare il trattamento fiscale dei rifiuti speciali né di deliberare «la tariffa seppure limitata alla componente fissa». In effetti, il tributo sui rifiuti non può essere applicato sulle superfici o sulle aree nelle quali, per specifiche caratteristiche strutturali o per destinazione, si producono rifiuti speciali. Tuttavia le superfici in cui vengono prodotti anche rifiuti speciali non sono né escluse dal tributo né esenti.
Nella determinazione della superficie non si tiene conto solo di quella parte di essa dove si formano questi rifiuti, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Quindi, non si conteggia la parte di superficie che ha questa destinazione nell'ambito di un immobile. E l'esclusione dell'obbligo di conferire i rifiuti al servizio pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del trattamento.
Qualora il produttore abbia fornito la prova di aver avviato effettivamente al recupero i rifiuti, per la relativa superficie non è prevista la detassazione ma una riduzione della misura della tassa che il comune ha facoltà di stabilire con un'apposita norma regolamentare rapportata proporzionalmente «all'entità del recupero rispetto alla produzione complessiva dei rifiuti» (circolare del ministero delle finanze n. 111/1999).
La riduzione della tassa può quindi essere calcolata in base a un coefficiente di proporzionalità rispetto ai rifiuti destinati al recupero. Fermo restando che, anche nelle ipotesi di recupero totale dei rifiuti, idoneamente documentato, non si ottiene l'esonero totale dall'assoggettamento al prelievo tributario, in quanto lo stesso è finalizzato a coprire i costi comuni e collettivi del servizio. Spetta al contribuente provare quale parte dell'immobile debba essere esclusa dalla tassazione (articolo ItaliaOggi del 16.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: No al permesso di costruire se manca la rete fognaria.
La rete fognaria, quale opera di urbanizzazione primaria, costituisce conditio sine qua non per l'attuazione della lottizzazione: in assenza di un efficiente rete di raccolta dei liquami e di un idoneo impianto di depurazione è legittimo il diniego di rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un edificio residenziale.
Il TAR di Cagliari ha sancito che è pienamente legittimo il provvedimento di diniego opposto a un’istanza tesa a ottenere il rilascio di un permesso di costruire per la realizzazione di un edificio residenziale su un’area pressoché del tutto edificata, ove sia motivato con riferimento all’insufficienza delle opere di urbanizzazione primaria –rete fognaria e idoneo impianto di depurazione- realizzate in quella stessa area, indipendentemente dalla natura di c.d. “lotto intercluso” del suolo sede d’intervento.
Analisi del caso
Il ricorrente, proprietario di un lotto di terreno facente parte di una più ampia lottizzazione realizzata diversi anni prima e pressoché interamente edificata mediante distinte concessioni edilizie –per oltre 150 fabbricati- rilasciate in via diretta ai singoli comproprietari dell’area, ha presentato al competente Comune istanza per il rilascio di concessione edilizia per realizzare sul proprio suolo un edificio trifamiliare a uso civile abitazione.
Con parere del Responsabile dell’area tecnica, la civica P.A. ha rigettato l’istanza in quanto l’area interessata dall’intervento risultava sprovvista di piani attuativi e non era possibile il rilascio della concessione c.d. “diretta”, atteso che dallo stato dei luoghi di fatto riscontrabile emergeva l’assenza di apposite aree pubbliche da destinare a standards urbanistici e a viabilità pubblica, nonché di un’efficiente rete fognaria munita di idoneo impianto di depurazione delle acque reflue.
Sicché, il ricorrente ha contestato la legittimità del diniego opposto, censurandolo per violazione e falsa applicazione dell’art. 28, comma 5, L. n. 1150/1942 e ss.mm.ii., dell’art. 44, L. n. 865/1971 e della normativa regionale; ha ulteriormente censurato l’illegittimità dell’atto per eccesso di potere per erroneità dei presupposti per il rilascio della concessione edilizia diretta, travisamento dei fatti, difetto d’istruttoria e motivazione, oltreché disparità di trattamento, atteso che l’amministrazione non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che la porzione di suolo di proprietà del ricorrente integrasse ipotesi di c.d. “lotto intercluso” e rientrasse, così, in un’area ormai quasi del tutto edificata e adeguatamente urbanizzata –strade, spazi verdi e per attività ricreative- in misura congrua alle esigenze della zona.
La soluzione
Il Collegio ha preliminarmente rilevato come, per quanto il lotto di proprietà del ricorrente fosse effettivamente inserito in un contesto per grandissima parte edificato, la comunione immobiliare ivi realizzata risultasse solo parzialmente dotata di opere di urbanizzazione, stante l’incomprensibile discrasia tra il numero, le dimensioni e le conseguenti notevoli esigenze dal punto di vista urbanistico, dei fabbricati insistenti, tutti autorizzati con concessioni dirette risalenti nel tempo e il reale (sotto)dimensionamento delle opere di urbanizzazione esistenti.
Il TAR ha, così, evidenziato che non poteva ulteriormente tollerarsi l’edificazione di nuove unità immobiliari in assenza, quantomeno, di un’adeguata ed efficiente rete di raccolta dei liquami fognari; la situazione di fatto venutasi a creare per effetto del ricordato incontrollato rilascio da parte dell’Amministrazione di titoli abilitativi edilizi diretti senza la contestuale realizzazione –o adeguamento- delle idonee opere di urbanizzazione primaria, non può neppure, come ha precisato il Tribunale, consentire l’applicazione del regime di favore previsto in relazione ai cc.dd. “lotti interclusi”, poiché presupposto di quello è che le finalità imposte con lo strumento attuativo siano comunque già integralmente soddisfatte.
Il G.A. sardo ha, dunque, ravvisato la clamorosa carenza nell’ambito della lottizzazione edilizia all’interno di cui rientrava la proprietà del ricorrente di un’opera di urbanizzazione primaria di assoluta rilevanza, qual è senza dubbio la rete idrica fognaria, anche avuto riguardo alla delicatezza e al particolare pregio ambientale del sito ove avrebbe dovuto realizzarsi l’intervento edificatorio; tanto, al punto da costituire vera a propria conditio sine qua non per l’attuazione dell’intera lottizzazione e rendere, pertanto, infondate le censure del ricorrente in merito alla disparità di trattamento per la mancata applicazione in suo favore della disciplina prevista, in deroga all’art. 9, D.P.R. n. 380/2001, per i lotti interclusi, essendo evidente che alla cennata carenza non avrebbe potuto (per l’ennesima volta) sopperirsi mediante la realizzazione di un modesto impianto individuale di discarica a dispersione di cui l’area era ormai satura.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
La giurisprudenza è unanime nel considerare come una concessione edilizia possa essere rilasciata anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di P.R.G. solo quando in fase istruttoria l'Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato -lotto residuale e intercluso- e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione; e che, pertanto, si possa prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria pari, almeno, agli standards urbanistici minimi (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 05.12.2012, n. 6229; TAR Piemonte, Sez. I, 24.07.2013, n. 927; in termini leggermente diversi, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 06.09.2013, n. 1821).
Si è affermato, dunque, che la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza solo quando non si rinvenga alcuno spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non risulta applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte, cioè, al rischio di compromissione di valori urbanistici –o addirittura di rilevanza ambientale e paesaggistica- nelle quali la pianificazione consegue l'effetto di correggere e compensare il disordine edificatorio in atto (Cons. Stato, Sez. IV, 17.07.2013, n. 3880), l'esigenza di un piano di lottizzazione ex art. 9, D.P.R. n. 380/2001 si impone, quindi, anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche a quello di armonizzare aree già compromesse e urbanizzate (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012, n. 3140).
Dovrebbero sempre esser fatte salve, tuttavia, quelle particolari, confliggenti situazioni che abbiano potuto ingenerare –ed è proprio il caso di specie- affidamenti e aspettative qualificate, derivanti da convenzioni di lottizzazione, accordi con le amministrazioni comunali o modificazioni della destinazione di area interclusa da fondi edificati (Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2013, n. 1323); in tal senso la decisione segnalata coglie appieno la problematica nella parte in cui, in un obiter dictum, richiama la P.A. a non limitarsi a pretendere che siano i proprietari dei lotti non ancora edificati a presentare piani di recupero dell’intera area precedentemente lottizzata, ma a farsi parte attiva nella soluzione del problema, con iniziative pubbliche, onde non veder del tutto frustrato lo ius aedificandi degli stessi (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.10.2013 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIPassaggio di personale anche tra privati. Trasferimenti tra gestori del servizio integrato dei rifiuti.
L'art. 202, comma 6, del dlgs 152/2006, il quale stabilisce che vi sia un passaggio diretto e immediato al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti del personale impiegato presso il gestore uscente, si applica anche nel caso in cui quest'ultimo sia un'impresa privata.

Questo è quanto ha precisato il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II con la sentenza 23.09.2013 n. 780.
Nel caso in esame il comune di Calcinato, dopo aver praticato negli ultimi anni l'esternalizzazione della gestione del servizio di igiene urbana, aveva deciso di affidare il servizio mediante affidamento in house.
Il gestore prescelto era stata la società Garda Uno spa, di cui il Comune era divenuto socio mediante l'acquisto dello 0,1% del capitale per un importo pari a 10.000.
La controversia verte, oltre che sulla mancanza del requisito del controllo analogo, essendovi una minima partecipazione al capitale sociale, sulla presunta violazione dell'art. 202, comma 6, del dlgs 03.04.2006 n. 152, che prevede il passaggio diretto al nuovo gestore dei dipendenti presso il gestore uscente, otto mesi prima dell'affidamento del servizio.
Il Tar non rileva alcuna illegittimità.
I giudici amministrativi, dopo aver confermato come sussista il requisito del controllo analogo anche nel caso di partecipazione minoritaria, se dallo statuto della società risulti che il socio ultraminoritario eserciti il proprio controllo non solo in forma congiunta con gli altri enti pubblici, ma anche in modo effettivo, analizzano l'art. 202, comma 6, del dlgs152/2006: questa disciplina, che prevede il passaggio diretto del personale, si applica espressamente anche nel caso in cui il gestore uscente sia un'impresa privata.
Tale previsione, osserva il Collegio, pur avendo di mira un obiettivo di sicura utilità sociale come la tutela dell'occupazione, si espone a dubbi di costituzionalità, in quanto fa gravare sul nuovo gestore un costo aggiuntivo che può poi tradursi in incrementi tariffari per gli utenti o in minore qualità del servizio, oppure può costituire ex ante un disincentivo alla partecipazione a eventuali gare.
La disposizione, tuttavia, va applicata in base alla disciplina sopravvenuta, e in particolare alla stregua dell'art. 3-bis comma 2 del dl n. 138/2011, convertito dalla legge 14.09.2011, n. 148, secondo cui, nelle procedure a evidenza pubblica, «l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione dell'offerta e non condizione per il subentro nel servizio» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di veranda in senso tecnico-giuridico - Esigenze temporanee e contingenti con successiva rimozione – Orientamento conforme giurisprudenziale penale e amministrativo - Artt. 36 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 184 d.Lgs. n. 42/2004.
Una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
Sicché, la realizzazione di una veranda, anche mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica od altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire ( Cass., Sez. III: 18.09.2007, n. 35011, Camarda; 28.10.2004, D'Amelio; 27.3.2000, n. 3879, Spaventi). Il medesimo orientamento si rinviene nelle decisioni dei giudici amministrativi (vedi Cons. Stato, Sez. V: 08.04.1999, n. 394 e 22.07.1992, n. 675, nonché Cons. giust. amm. sic., Sez. riunite, 15.10.1991, n. 345) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di "pertinenza urbanistica" - Peculiarità - Rapporto di subordinazione e di servizio con una costruzione preesistente - C.d. strumentalità funzionale - Fattispecie: ampliamento di un edificio.
La nozione di "pertinenza urbanistica" ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica: deve trattarsi, invero, di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza di un edificio principale, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede.
Il durevole rapporto di subordinazione deve instaurarsi con una costruzione preesistente e la relazione con detta costruzione deve essere, in ogni caso, non di integrazione ma "di servizio", allo scopo di renderne più agevole e funzionale l'uso (carattere di strumentalità funzionale), sicché non può ricondursi alla nozione in esame l'ampliamento di un edificio che costituisce parte di esso quale elemento che attiene all'essenza dell'immobile e lo completa affinché soddisfi ai bisogni cui è destinato (vedi Cass., Sez. III: 16.03.2010, n. 20349, Catania; 11.05.2005, Gricia; 17.01.2003, Chiappalone) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio del permesso di costruire in sanatoria - Attività vincolata della P.A. - Reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche - Declaratoria di estinzione - Giudice penale potere-dovere di verifica della legittimità - Effetti - Inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell'estinzione del reato - Art. 36 e 45 T.U.E. n. 380/2001 - Art. 5 L. 20.3.1865, n. 2248, all. E).
Gli artt. 36 e 45 del T.U. n. 380/2001 vanno interpretati in stretta connessione ai fini della declaratoria di estinzione dei "reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti" e il giudice penale, pertanto, ha il potere-dovere di verificare la legittimità del titolo edilizio rilasciato "in sanatoria" e di accertare che l'opera realizzata sia conforme alla normativa urbanistica.
In mancanza di tale conformità, infatti, non si produce l'estinzione dei reati ed il mancato effetto estintivo non si ricollega ad una valutazione di illegittimità del provvedimento della P.A. cui consegua la disapplicazione dello stesso ex art. 5 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E), bensì alla effettuata verifica della inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell'estinzione del reato in sede di esercizio del doveroso sindacato della legittimità del fatto estintivo incidente sulla fattispecie tipica penale (vedi Cass., Sez. III: 30.05.2000, Marinaro; 07.03.1997, n. 2256, Tessari e altro; 24.05.1996, Buratti e altro).
Ai fini del corretto esercizio di tale controllo deve ricordarsi che si pone quale presupposto indispensabile, per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del T.U. n. 380/2001, la necessità che l'intervento sia "conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Inoltre, il rilascio del provvedimento sanante consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Successiva alla realizzazione dei lavori - Interventi minori - Valutazione postuma - Artt. 146, 167 e 181 d.Lgs. n. 42/2004 - Art. unico c. 36 L. n. 308/2004.
Il comma 36 dell'articolo unico della legge n. 308/2004 [con previsioni trasfuse nei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 181 del d.Lgs. n. 42/2004 e, successivamente, nei commi 4 e 5 dell'art. 167] -contrastando con il principio (enunciato dall'art. 146 del d.Lgs. n. 42/2004 fino dalla sua formulazione originaria) dell'impossibilità di rilascio di una autorizzazione paesaggistica successiva alla realizzazione dei lavori- ha introdotto la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori, all'esito della quale -pur restando ferma l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all'art. 167 del d.Lgs. n. 42/2004- non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal 1° comma dell'art. 181 dello stesso d.Lgs. n. 42/2004 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38004 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria ambientale è possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzabili; impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal quarto comma e con le modalità previste dal quinto comma dell’articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai fini dell'accertamento della compatibilità paesistica degli interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni; qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione).
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Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già affermato con altra pronuncia ossia che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.
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Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi, vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali”.

L’art. 146, comma 12, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (modificato dall’art. 16, d.lgs. 24.03.2006 n. 157), prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni paesistiche a sanatoria, salvi i casi e con le modalità di cui all’art. 167, commi 4 e 5, citato codice.
Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria è, quindi, possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzabili; impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal quarto comma e con le modalità previste dal quinto comma dell’articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai fini dell'accertamento della compatibilità paesistica degli interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni; qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione).
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già affermato con la propria sentenza 20.06.2012 n. 3578, la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.
Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi, vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali” (evenienze ben lungi dal verificarsi) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sede della Associazione dei Testimoni di Geova non può certo qualificarsi quale luogo di culto o edificio religioso, ma ha prettamente una destinazione di carattere direzionale dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, trattandosi nel caso in esame della costruzione di un edificio non destinato all’esercizio del culto, bensì destinato ad ospitare la sede di una associazione religiosa, non può ritenersi che tale opera rientri tra quelle qualificate come opere di urbanizzazione secondaria, per cui legittimamente il Comune ha assoggettato la sua realizzazione al pagamento degli oneri concessori.

... per l’annullamento della concessione edilizia, rilasciata dal Sindaco del Comune di Cerea il 16/05/1994, relativamente alla parte in cui determina il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione per la realizzazione della sede dell’Ente Religioso Testimoni di Geova.
...
FATTO
Con atto notificato il 06.07.1994, depositato nei termini, l’Associazione Testimoni di Geova di Cerea – Casaleone – Sanguinetto, in persona del legale rappresentante pro tempore, ha chiesto l’annullamento della concessione edilizia, rilasciata dal Sindaco del Comune di Cerea il 16/05/1994, relativamente alla parte in cui determina il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione per la realizzazione della sede dell’Ente Religioso Testimoni di Geova, oltre che per l’accertamento che la ricorrente nulla deve a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per il rilascio della concessione edilizia, con conseguente condanna del Comune di Cerea alla restituzione delle somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, non dovute, con rivalutazione e interessi.
L’Associazione ricorrente fa presente di aver presentato al Sindaco del Comune di Cerea istanza di concessione edilizia per realizzare la sede religiosa della stessa Associazione ma ne contesta la onerosità.
A sostegno del gravame vene dedotta la seguente censura:
Violazione di legge: art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10; erronea applicazione dell’art. 3 della legge n. 10 del 1977 e dell’art. 81 della L.R. 26.06.1985 n. 61, eccesso di potere per difetto di presupposto.
Si sostiene che essendo classificata la costruzione de quo quale opera di urbanizzazione secondaria,la concessione edilizia non poteva essere soggetta al pagamento di alcun onere o contributo, e pertanto illegittimamente il Comune di Cerea ha previsto il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, la cui difesa contesta le ragioni dell’impugnativa ed insiste per il rigetto del ricorso siccome infondato.
Alla pubblica udienza del 22.01.2009 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
L’oggetto della presente impugnativa è la concessione edilizia rilasciata dal Sindaco di Cerea in data 16.05.1994 per la realizzazione della sede dell’Associazione ricorrente, nella parte in cui dispone il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, con la conseguente restituzione delle somme pagate a tale titolo.
Il ricorso non si appalesa fondato.
Va premesso che l’art. 4, secondo comma, lettera e), della legge 29.09.1964 n. 847 individua come opere di urbanizzazione secondaria le “chiese ed altri edifici religiosi” per le quali la successiva legge n. 10 del 1977 prevede, secondo determinate condizioni, l’esonero dal pagamento dei contributi.
Occorre, pertanto, verificare se la costruzione della sede della Associazione ricorrente, oggetto della concessione edilizia impugnata in parte qua, possa rientrare tra quelle opere di carattere religioso, ossia destinate all’esercizio del culto, per le quali la norma prevede l’esenzione dal pagamento dei contributi concessori.
La risposta a tale quesito non può che essere negativa, solo se si consideri che la sede della Associazione dei Testimoni di Geova non può certo qualificarsi quale luogo di culto o edificio religioso, ma ha prettamente una destinazione di carattere direzionale dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, trattandosi nel caso in esame della costruzione di un edificio non destinato all’esercizio del culto, bensì destinato ad ospitare la sede di una associazione religiosa, non può ritenersi che tale opera rientri tra quelle qualificate come opere di urbanizzazione secondaria, per cui legittimamente il Comune di Cerea ha assoggettato la sua realizzazione al pagamento degli oneri concessori (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.01.2009 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIstituzionalmente competenti alla realizzazione di strutture di carattere religioso non sono tanto enti pubblici o concessionari di questi quanto piuttosto, ordinariamente, enti religiosi, vale a dire enti privati il cui scopo assunto nell’atto costitutivo (istituzionale, appunto) è proprio quello di dedicarsi senza scopo di lucro a opere ed attività di carattere religioso.
Le strutture di carattere religioso sono, normalmente, di proprietà privata e titolare della concessione edilizia ad erigerle è l’ente religioso. Del resto, la stessa giurisprudenza invocata dal Comune non richiede la necessaria soggettività pubblica dell’ente realizzatore dell’intervento quanto piuttosto che esso curi istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
L’espressione “struttura di carattere religioso” utilizzata dal legislatore provinciale ha portata generale ed implica un riferimento a ipotesi più ampie dello specifico caso degli edifici di culto, quali possono essere, tradizionalmente, quelle delle scuole o degli ospedali.
Il requisito essenziale è dato dall’essere “destinate a uso pubblico”, vale a dire preordinate al servizio della collettività indistinta (salvi gli eventuali limiti intrinseci al tipo d’opera, quali ad esempio, l’età per le scuole o l’esigenza di cure per gli ospedali).
La finalità dell’esenzione dal contributo di concessione è quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre un’utilità.
Non osta all’esenzione l’eventualità che l’accesso della collettività sia subordinato al pagamento di una retta (di frequenza o di degenza, per tornare agli esempi delle scuole e degli ospedali), purché sia escluso lo scopo di lucro. L’esistenza di un qualche risvolto economico non è considerato ostativo neppure dalla giurisprudenza invocata dal Comune, la quale riconosce l’esenzione anche per opere d’interesse generale realizzate da un concessionario della pubblica amministrazione, vale a dire da un’impresa il cui scopo è il conseguimento di un profitto.
Rileva detta giurisprudenza che la logica dell’esenzione sta anche nell’evitare una contribuzione intimamente contraddittoria, quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività. Non contraddice tale ratio l’ammettere all’esenzione opere destinate a uso pubblico realizzate a carico di privati istituzionalmente dediti, senza scopo di lucro, a opere di interesse generale (eventualmente con contributo pubblico, come nella specie: la provincia ha concesso contributi ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. b), l.r. 05.11.1968, n. 40, disposizione relativa ad opere eseguite da “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, società cooperativa e altri enti, associazioni e comitati aventi finalità di pubblica utilità”).
Nel caso di specie la ricorrente, come si rileva dallo Statuto, è un ente ecclesiastico concordatario civilmente riconosciuto, senza scopi di lucro, istituzionalmente dedito ad attività ospedaliera e di educazione ed istruzione.
L’opera concessionata ha carattere scolastico (come riconosciuto dal Comune; per l’attività scolastica l’Istituto religioso ha stipulato una convenzione con la cooperativa Gardascuole, quale ente gestore delle attività scolastiche, prevedendo la partecipazione di propri religiosi all’attività didattica; con dichiarazione del 14.10.2005 –dimessa in udienza– l’ente ecclesiastico si è impegnato a non alienare la proprietà dell’edificio in questione per un periodo di venticinque anni).
Sussistono, pertanto, i presupposti soggettivo ed oggettivo per il riconoscimento dell’esenzione del contributo di concessione delineato dall’art. 111, co. 1, lett. e), l.p. 22/1991.

Si controverte in tema di diritti soggettivi (onde non sono pertinenti le censure di carattere formale dedotte col primo motivo avverso un atto privo di efficacia provvedimentale) e più precisamente della spettanza all’Ente ecclesiastico ricorrente dell’esonero dal contributo di concessione previsto dall’art. 111, lett. e), l.p. 22/1991 in relazione al concessionato edificio polifunzionale, ospitante una palestra, aule, mensa scolastica, a servizio dell’Istituto Padre Monti (ove, come riferisce la ricorrente e non viene contestato, sono attivi l’Istituto Tecnico per il Turismo ed un corso di scuola media inferiore paritaria, in compresenza con la scuola media statale).
L’art. 111, comma 1, lett. e), della legge provinciale n. 22/1991 dispone che il contributo di concessione non è dovuto “... per le opere pubbliche o di interesse generale, ivi comprese le strutture di carattere religioso destinate ad uso pubblico e gli interventi di edilizia abitativa pubblica, realizzate dagli enti istituzionalmente competenti...”.
Detta disposizione ricalca, in parte, la previsione dell’art. 9, lett. f), l. 28.1.1997, n. 10 che stabilisce la gratuità della concessione “per ... le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti ....”.
La formulazione dell’art. 111 cit. viene peraltro arricchita (in materia ascritta alla potestà legislativa primaria della Provincia) dall’inciso “ivi comprese le strutture di carattere religioso destinate ad uso pubblico e gli interventi di edilizia abitativa pubblica” che, nella specie, assume, ad avviso del collegio, valenza chiarificatrice e dirimente.
L’applicazione del beneficio dell’esenzione richiede –ai sensi dell’art. 9, l. 10/1977 come pure ai sensi dell’art. 111, l.p. 22/1991– la sussistenza di due presupposti, uno oggettivo e l’altro soggettivo.
Il requisito oggettivo implica che il manufatto oggetto di concessione edilizia sia ascrivibile alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale e dunque idonee a soddisfare esigenze della collettività; il legislatore provinciale annovera espressamente tra esse anche le strutture di carattere religioso.
Il ricorso di tale presupposto non è in contestazione, in quanto riconosciuto dal Comune il quale, nella nota 29.12.2005 di preavviso di diniego, scrive: “pur non potendo negare il rilievo pubblico esplicato dalla realizzazione di un edificio da adibirsi a scuola privata...”, aggiungendo che, però, “difetta, nel caso di specie, il requisito soggettivo”.
Il tema del contendere è pertanto circoscritto all’individuazione del ricorso o meno del requisito soggettivo, il quale implica che le opere di interesse pubblico siano realizzate da parte degli “enti istituzionalmente competenti”.
Il Comune, nell’esprimere il proprio rifiuto di restituzione del contributo di concessione e, successivamente, nelle proprie difese oppone alla pretesa dell’ente ecclesiastico il rilievo che la giurisprudenza –espressasi con riferimento all’art. 9, l. n. 10/1977– ha affermato che per enti istituzionalmente competenti alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico debbano intendersi enti pubblici ovvero altri soggetti che realizzino l’opera per conto di un ente pubblico come nel caso di concessionario di opera pubblica o altre analoghe figure organizzatorie (cfr. ad es. Cons. Stato sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005, n. 3774; ed 11.01.2006, n. 51, casi, questi, in cui è stato escluso il diritto all’esenzione, anche, però, sulla base del rilievo che l’opera non era rivolta alla collettività in senso generale, ma tendeva al soddisfacimento di interessi privatistici o comunque alle esigenze di un numero limitato di persone –v. sent. 3774/2005 cit. pronunciata nei confronti della Fondazione Collegio Ghisleri– ovvero che l’opera era destinata a rimanere nella piena disponibilità del privato esecutore, senza alcun vincolo atto a preservare la funzione nel tempo –caso di realizzazione di una residenza per anziani da parte di una ONLUS, v. sent. 51/2006 cit.).
La tesi del resistente non sembra tenere adeguatamente conto della formulazione dell’art. 111, co. 1, lett. e), della l.p. 22/1991, la quale espressamente menziona come agevolabili le “strutture di carattere religioso destinate a uso pubblico”.
Orbene, istituzionalmente competenti alla realizzazione di strutture di carattere religioso non sono tanto enti pubblici o concessionari di questi quanto piuttosto, ordinariamente, enti religiosi, vale a dire enti privati il cui scopo assunto nell’atto costitutivo (istituzionale, appunto) è proprio quello di dedicarsi senza scopo di lucro a opere ed attività di carattere religioso. Le strutture di carattere religioso sono, normalmente, di proprietà privata e titolare della concessione edilizia ad erigerle è l’ente religioso. Del resto, la stessa giurisprudenza invocata dal Comune non richiede la necessaria soggettività pubblica dell’ente realizzatore dell’intervento quanto piuttosto che esso curi istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
L’espressione “struttura di carattere religioso” utilizzata dal legislatore provinciale ha portata generale ed implica un riferimento a ipotesi più ampie dello specifico caso degli edifici di culto, quali possono essere, tradizionalmente, quelle delle scuole o degli ospedali.
Il requisito essenziale è dato dall’essere “destinate a uso pubblico”, vale a dire preordinate al servizio della collettività indistinta (salvi gli eventuali limiti intrinseci al tipo d’opera, quali ad esempio, l’età per le scuole o l’esigenza di cure per gli ospedali).
La finalità dell’esenzione dal contributo di concessione è quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre un’utilità.
Non osta all’esenzione l’eventualità che l’accesso della collettività sia subordinato al pagamento di una retta (di frequenza o di degenza, per tornare agli esempi delle scuole e degli ospedali), purché sia escluso lo scopo di lucro. L’esistenza di un qualche risvolto economico non è considerato ostativo neppure dalla giurisprudenza invocata dal Comune, la quale riconosce l’esenzione anche per opere d’interesse generale realizzate da un concessionario della pubblica amministrazione, vale a dire da un’impresa il cui scopo è il conseguimento di un profitto. Rileva detta giurisprudenza che la logica dell’esenzione sta anche nell’evitare una contribuzione intimamente contraddittoria, quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività. Non contraddice tale ratio l’ammettere all’esenzione opere destinate a uso pubblico realizzate a carico di privati istituzionalmente dediti, senza scopo di lucro, a opere di interesse generale (eventualmente con contributo pubblico, come nella specie: la provincia ha concesso con determinazione 03.11.2005, n. 60 –dimessa in udienza– contributi ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. b), l.r. 05.11.1968, n. 40, disposizione relativa ad opere eseguite da “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, società cooperativa e altri enti, associazioni e comitati aventi finalità di pubblica utilità”).
Nel caso di specie la ricorrente, come si rileva dallo Statuto, è un ente ecclesiastico concordatario civilmente riconosciuto, senza scopi di lucro, istituzionalmente dedito ad attività ospedaliera e di educazione ed istruzione.
L’opera concessionata ha carattere scolastico (come riconosciuto dal Comune; per l’attività scolastica l’Istituto religioso ha stipulato una convenzione con la cooperativa Gardascuole, quale ente gestore delle attività scolastiche, prevedendo la partecipazione di propri religiosi all’attività didattica; con dichiarazione del 14.10.2005 –dimessa in udienza– l’ente ecclesiastico si è impegnato a non alienare la proprietà dell’edificio in questione per un periodo di venticinque anni).
Sussistono, pertanto, i presupposti soggettivo ed oggettivo per il riconoscimento dell’esenzione del contributo di concessione delineato dall’art. 111, co. 1, lett. e), l.p. 22/1991.
Il ricorso va dunque accolto con declaratoria che all’ente ricorrente spetta il rimborso del contributo versato con interessi dal giorno del versamento (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 06.09.2007 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa gratuità del permesso (al pari di quanto accadeva nel precedente regime concessorio) è subordinata a due condizioni, l’una di carattere oggettivo (l’essere il manufatto destinato a servire un interesse generale), l’altra di natura soggettiva (il manufatto deve essere realizzato da un soggetto pubblico o istituzionalmente competente a realizzare opere pubbliche).
In linea generale l’esonero dal pagamento dei contributi di costruzione è finalizzato ad agevolare l’esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarre utilità e ad evitare che il soggetto che interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento.
Perché si possa configurare il presupposto soggettivo occorre che tra il soggetto abilitato ad intervenire nell’interesse pubblico e il materiale esecutore della costruzione sussista un vincolo diretto alla realizzazione del fine pubblicistico dell’amministrazione così da configurare quest’ultimo come “ente istituzionalmente competente”; occorre dunque un mandato espresso conferito da una pubblica amministrazione istituzionalmente competente alla realizzazione di opere di interesse generale.
Sotto tale angolazione si è ammesso a fruire del beneficio dell’esenzione il concessionario di opera pubblica ma a condizione che tale speciale modulo organizzatorio sia effettivamente esistente; si è così esclusa la ricorrenza di tale figura nel caso di privato che aveva realizzato un fabbricato destinato ad essere locato per ospitare una scuola elementare; ovvero di opera realizzata da un imprenditore per l’esercizio in via immediata e diretta della propria attività d’impresa; ovvero in vista di un fine genericamente egoistico (laddove è stato negato il beneficio in favore di azienda agrituristica), o limitato ad una cerchia ristretta di persone (laddove è stato negato il beneficio ad una fondazione nel presupposto che si tratti di persona giuridica di diritto privato che tende al soddisfacimento di interessi privatistici e comunque di esigenze di un numero limitato di persone).
Il carattere pubblico dell’iniziativa, onde conseguire il beneficio di cui all’art. 17 cit., non può neppure essere desunto dalla qualificazione delle strutture alberghiere quali impianti destinati a finalità di carattere generale, ai fini del rilascio dei titoli edilizi, trattandosi di argomento che la giurisprudenza di questo Consiglio, ha utilizzato in un ambito diverso da quello relativo all’individuazione delle condizioni soggettive ed oggettive indispensabili per consentire l’esenzione totale dal pagamento dei contributi.

L’art. 17, comma 3, lett. c), t.u. edilizia sancisce l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione <<per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>.
Sulla scorta del dato positivo, la gratuità del permesso (al pari di quanto accadeva nel precedente regime concessorio) è quindi subordinata a due condizioni, l’una di carattere oggettivo (l’essere il manufatto destinato a servire un interesse generale), l’altra di natura soggettiva (il manufatto deve essere realizzato da un soggetto pubblico o istituzionalmente competente a realizzare opere pubbliche).
In linea generale l’esonero dal pagamento dei contributi di costruzione è finalizzato ad agevolare l’esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarre utilità e ad evitare che il soggetto che interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento (cfr. Cons. giust. amm., 27.12.2006, n. 792; Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2005, n. 3744).
Perché si possa configurare il presupposto soggettivo occorre che tra il soggetto abilitato ad intervenire nell’interesse pubblico e il materiale esecutore della costruzione sussista un vincolo diretto alla realizzazione del fine pubblicistico dell’amministrazione così da configurare quest’ultimo come “ente istituzionalmente competente”; occorre dunque un mandato espresso conferito da una pubblica amministrazione istituzionalmente competente alla realizzazione di opere di interesse generale (cfr. Cons. giust. amm., n. 792 del 2006 cit.; Corte giust. CE, sez. VI, 12.07.2001, n. 399).
Sotto tale angolazione si è ammesso a fruire del beneficio dell’esenzione il concessionario di opera pubblica ma a condizione che tale speciale modulo organizzatorio sia effettivamente esistente; si è così esclusa la ricorrenza di tale figura nel caso di privato che aveva realizzato un fabbricato destinato ad essere locato per ospitare una scuola elementare (cfr. Cons. giust. amm., n. 792 del 2006); ovvero di opera realizzata da un imprenditore per l’esercizio in via immediata e diretta della propria attività d’impresa –come si verifica nel caso di specie- (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.10.2004, n. 6818); ovvero in vista di un fine genericamente egoistico (Cons. giust. amm., 12.02.2004, n. 26; 18.04.2006, n. 159 che ha negato il beneficio in favore di azienda agrituristica), o limitato ad una cerchia ristretta di persone (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3774 del 2005 cit. che ha negato il beneficio ad una fondazione nel presupposto che si tratti di persona giuridica di diritto privato che tende al soddisfacimento di interessi privatistici e comunque di esigenze di un numero limitato di persone).
Il carattere pubblico dell’iniziativa, onde conseguire il beneficio di cui all’art. 17 cit., non può neppure essere desunto dalla qualificazione delle strutture alberghiere quali impianti destinati a finalità di carattere generale, ai fini del rilascio dei titoli edilizi, trattandosi di argomento che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 21.04.1997, n. 424 ampiamente commentata dalla difesa appellante), ha utilizzato in un ambito diverso da quello relativo all’individuazione delle condizioni soggettive ed oggettive indispensabili per consentire l’esenzione totale dal pagamento dei contributi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.05.2007 n. 2327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa "Casa religiosa di accoglienza" -assentita dallo Sportello unico della Comunità montana– risulta strutturalmente destinata ad ospitare i pellegrini che si recano all'annesso Santuario "Maria SS. Immacolata di Lourdes" ed è, dunque, riconducibile, anche avuto riguardo alle sue caratteristiche in concreto, alla categoria degli "immobili adibiti nell'esercizio del ministero pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative, di accoglienza e di ristoro che non abbiano fini di lucro", prevista dal sopra riportato art. 4 della legge reg. cal. n. 21/1990.
Ne discende che essa costituisce, per espressa previsione di legge (comma 3 dell'art. 4, cit.), un'opera di urbanizzazione secondaria.
Pertanto, non sussiste la debenza, ai sensi dell'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, del contributo di costruzione per la realizzazione della Casa di ospitalità in parola.

Ai sensi dell'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, "il contributo di costruzione non è dovuto: … c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
La legge della Regione Calabria n. 21/1990 (recante "Norme in materia di edilizia di culto e disciplina urbanistica dei servizi religiosi") puntualizza all'art. 4 che "ai sensi e per gli effetti dell'art. 3, secondo comma, lettera B, del decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 02.04.1968 e ai fini dell'applicazione della presente legge sono attrezzature di interesse comune per servizi religiosi: … c) gli immobili adibiti, nell'esercizio del ministero pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative, di accoglienza e di ristoro che non abbiano fini di lucro (comma 1)". Lo stesso articolo 4 della citata legge regionale specifica pure (comma 3) che "in relazione al disposto dell'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847 e successive modificazioni, le attrezzature di cui al precedente primo comma costituiscono opere di urbanizzazione secondaria".
Ciò posto, il collegio osserva che la "Casa religiosa di accoglienza" -assentita dallo Sportello unico della Comunità montana del versante tirrenico settentrionale con permesso di costruire n. 387 del 02.02.2006– risulta strutturalmente destinata ad ospitare i pellegrini che si recano all'annesso Santuario "Maria SS. Immacolata di Lourdes" ed è, dunque, riconducibile, anche avuto riguardo alle sue caratteristiche in concreto, alla categoria degli "immobili adibiti nell'esercizio del ministero pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative, di accoglienza e di ristoro che non abbiano fini di lucro", prevista dal sopra riportato art. 4 della legge reg. cal. n. 21/1990.
Ne discende che essa costituisce, per espressa previsione di legge (comma 3 dell'art. 4, cit.), un'opera di urbanizzazione secondaria.
Inoltre, il Programma di fabbricazione vigente presso il Comune di Molochio, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa delle amministrazioni resistenti, conferma tale caratteristica, in quanto prevede –giusta variante approvata con D.P.G.R. n. 11688 dell'11.08.2003- per l'area interessata la destinazione urbanistica F2, corrispondente ad "attrezzature pubbliche di interesse comune", sicché la realizzazione della Casa di accoglienza in questione deve ritenersi operata "in attuazione di strumenti urbanistici".
In relazione a tutto quanto precede il ricorso in esame si appalesa fondato e va quindi accolto, rimanendo assorbite le censure non affrontate, con conseguente annullamento, per quanto di ragione, del provvedimento impugnato e declaratoria della non dovutezza, ai sensi dell'art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, del contributo di costruzione per la realizzazione della Casa di ospitalità in parola (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 08.02.2007 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per il rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) imposto dalla legge 28.01.1977, n. 10 (art. 3; v. ora art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde totalmente dall’esistenza, o meno, delle singole opere di urbanizzazione; esso ha natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
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Per quanto riguarda il contributo di costruzione da corrispondere per la realizzazione di opere od impianti non destinati ad usi residenziali l’art. 10, legge 28.01.1977, n. 10 (v. ora art. 19 d.P.R. 06.06.2001, n. 380), prevede, al comma 1, una esenzione da tale contributo per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività <<industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi>>, mentre uguale esenzione non è prevista al comma 2 per la concessione relativa a costruzioni o impianti destinati <<ad attività turistiche, commerciali e direzionali>>.
Alla luce, dunque, sia del chiaro disposto dell’art. 10 L. n. 10/1977, sia della predetta natura tributaria della componente in esame del contributo, sia della tassatività dell’elencazione legislativa dei casi di esenzione o di concessione edilizia gratuita, deve ritenersi infondata la tesi dell’appellante, secondo cui il convenzionamento e la previsione dell’assunzione di determinati oneri di urbanizzazione, valgano di per sé ad escludere il pagamento degli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio della concessione edilizia, potendo incidere finanche sull’obbligo tributario del pagamento del contributo afferente al costo di costruzione.
Il contributo controverso, dunque, come sostenuto dal Comune appellato, deve essere corrisposto nella misura prevista dall’art. 10, comma 2, L. n. 10/1977, in quanto le costruzioni della società ricorrente, odierna appellante, per la loro destinazione ad uso commerciale, non sono esenti dal pagamento di tale contributo.

Occorre premettere che il contributo per il rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) imposto dalla legge 28.01.1977, n. 10 (art. 3; v. ora art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde totalmente dall’esistenza, o meno, delle singole opere di urbanizzazione; esso ha natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (cfr. Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462; per la natura tributaria di tale prestazione, v., altresì, C.G.A.R.S., 05.05.1999, n. 203).
Ora, per quanto riguarda il contributo di costruzione da corrispondere per la realizzazione di opere od impianti non destinati ad usi residenziali l’art. 10, legge 28.01.1977, n. 10 (v. ora art. 19 d.P.R. 06.06.2001, n. 380), prevede, al comma 1, una esenzione da tale contributo per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività <<industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi>>, mentre uguale esenzione non è prevista al comma 2 per la concessione relativa a costruzioni o impianti destinati <<ad attività turistiche, commerciali e direzionali>>.
Alla luce, dunque, sia del chiaro disposto dell’art. 10 L. n. 10/1977, sia della predetta natura tributaria della componente in esame del contributo, sia della tassatività dell’elencazione legislativa dei casi di esenzione o di concessione edilizia gratuita, deve ritenersi infondata la tesi dell’appellante, secondo cui il convenzionamento e la previsione dell’assunzione di determinati oneri di urbanizzazione, valgano di per sé ad escludere il pagamento degli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio della concessione edilizia, potendo incidere finanche sull’obbligo tributario del pagamento del contributo afferente al costo di costruzione.
Il contributo controverso, dunque, come sostenuto dal Comune appellato, deve essere corrisposto nella misura prevista dall’art. 10, comma 2, L. n. 10/1977, in quanto le costruzioni della società ricorrente, odierna appellante, per la loro destinazione ad uso commerciale, non sono esenti dal pagamento di tale contributo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2005 n. 7140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’esenzione del contributo ex art. 9 della L. n. 10/1977, lett. f), occorre che l’opera sia pubblica o di interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo essa alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell’attività da essi esercitata nella (o con la) opera edilizia alla quale la concessione si riferisce.
Quanto, invece, all’esenzione dovuta (sempre ai sensi della citata lett. f) per le <<opere di urbanizzazione eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>, occorre che si tratti di opera di urbanizzazione specificamente indicata come tale nello strumento urbanistico, anche attuativo.

Quanto al richiamo, contenuto nell’appello in esame, all’art. 9 della L. n. 10/1977 cit., riguardante i casi di concessione gratuita, e, segnatamente, alla lett. f), deve dirsi che -a prescindere dalla fondatezza o meno dell’eccezione, sollevata dall’appellato Comune, relativa alla novità della questione (in quanto il vizio non è stato formulato nel giudizio di primo grado)- tale norma non è applicabile al caso di specie, in quanto la concessione edilizia è stata rilasciata alla Promingros S.r.l., mentre, ai fini dell’esenzione de qua occorre che l’opera sia pubblica o di interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo essa alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell’attività da essi esercitata nella (o con la) opera edilizia alla quale la concessione si riferisce (cfr. Cons. St., sez. V, 21.01.1997, n. 69; Cons. St., sez. V, 19.09.1995, n. 1313; C.G.A.R.S., 20.07.1999, n. 369); quanto, invece, all’esenzione dovuta (sempre ai sensi della citata lett. f) per le <<opere di urbanizzazione eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>, occorre che si tratti di opera di urbanizzazione specificamente indicata come tale nello strumento urbanistico, anche attuativo (cfr. Cons. St., sez. V, 21.01.1997, n. 69; Cons. St., sez. V, 01.06.1992, n. 489) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2005 n. 7140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, l’art. 9, comma 1, lett. f), L. n. 10/1977 richiede due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; mentre, per effetto del secondo, esse devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
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E’ stato chiarito che la ratio dell’esenzione in argomento è finalizzata da un lato ad agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarne utilità e dall’altro ad evitare che il soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa Comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione agevolativa è stata estesa, oltre che agli enti pubblici, anche a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività. Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse generale.
Occorre cioè un ben preciso vincolo tra il soggetto abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale esecutore della costruzione, vincolo che in linea di massima è stato identificato nella concessione di opera pubblica o analoghe figure organizzatorie in modo tale che l’attività edilizia sia compiuta da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate, per cui non può usufruire dell’esenzione dal contributo l’opera costruita da un imprenditore per la propria attività d’impresa.

Con sentenza TAR Toscana, Sezione III, n. 450 del 22.09.1999 è stato accolto il ricorso proposto dalla Società Carrani costruzioni avverso il Comune di Empoli che le aveva negato l’esenzione dagli oneri contributivi relativi alla concessione edilizia rilasciata il 07.10.1992 e successive varianti.
In particolare, il TAR ha ritenuto che la Società, esercitando un’attività edilizia riguardante un immobile destinato a sede INAIL, venisse a rivestire una posizione assimilabile a quella degli “Enti istituzionalmente competenti” e perciò avesse titolo ad usufruire dell’esenzione di cui all’art. 9, comma 1, lett. f.), L. 28.01.1997 n. 10.
Avverso detta sentenza ha proposto appello il Comune, sostenendo in sostanza che la Società non aveva agito quale commissionario di soggetto pubblico istituzionalmente competente ma in proprio, realizzando la ristrutturazione di un immobile di sua proprietà.
L’appello è fondato.
Come è noto, l’art. 9, comma 1, lett. f), L. n. 10/1977 richiede due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo (cfr. la decisone di questa Sezione n. 3860 del 10.07.2000).
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; mentre, per effetto del secondo, esse devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
Si può prescindere dal primo aspetto di carattere oggettivo, atteso che nella specie difetta senz’altro il secondo aspetto.
E’ stato chiarito che la ratio dell’esenzione in argomento è finalizzata da un lato ad agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarne utilità e dall’altro ad evitare che il soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa Comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione agevolativa è stata estesa, oltre che agli enti pubblici, anche a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività. Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse generale (cfr. la decisone di questa Sezione n. 1280 del 07.09.1995).
Occorre cioè un ben preciso vincolo tra il soggetto abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale esecutore della costruzione, vincolo che in linea di massima è stato identificato nella concessione di opera pubblica o analoghe figure organizzatorie in modo tale che l’attività edilizia sia compiuta da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere di interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate, per cui non può usufruire dell’esenzione dal contributo l’opera costruita da un imprenditore per la propria attività d’impresa (cfr. la decisione di questa Sezione n. 6618 del 2.12.2002) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.10.2004 n. 6818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl concetto di edificio destinato all’esercizio pubblico del culto cattolico risulta suscettibile di estendersi anche alle pertinenze, per la cui configurazione non appare decisiva la materiale unicità della costruzione dei locali, bensì il legame funzionale derivante dalla loro destinazione al servizio dell’edificio principale al fine di permettere l’esercizio dell’attività di culto.
Il concetto di edificio destinato all’esercizio pubblico del culto cattolico risulta suscettibile di estendersi anche alle pertinenze, per la cui configurazione non appare decisiva la materiale unicità della costruzione dei locali, bensì il legame funzionale derivante dalla loro destinazione al servizio dell’edificio principale al fine di permettere l’esercizio dell’attività di culto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.03.2004 n. 133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARitiene il Collegio che nella fattispecie coesistono i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla più volte richiamata norma di cui all’art. 9, primo comma, lettera f), prima parte, della L. n. 10/1977, secondo cui il contributo afferente il rilascio della concessione edilizia non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti.
Circa il requisito soggettivo ritiene infatti il Collegio di dover condividere quell’ampia e qualificata giurisprudenza per cui ai fini dell’individuazione dell’“ente istituzionalmente competente” non è necessariamente rilevante la natura pubblica immediata dell’ente realizzatore quanto piuttosto quella oggettiva relativa alla realizzazione dell’opera; in tale ambito questa Sezione ha avuto modo di precisare che ai fini dell’esecuzione del contributo di costruzione la norma può venire riferita anche ad un’opera realizzata ad un soggetto privato perché per conto di un ente pubblico; mentre sotto il profilo oggettivo è indubbio che la realizzazione dell’opera in questione –caserma dei Vigili del Fuoco– risponde sicuramente alle caratteristiche di un’opera pubblica e/o di un’opera di interesse generale.
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L’elenco delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria non deve intendersi tassativo e vincolato perché, come esattamente ritenuto dalla giurisprudenza condivisa dalla Sezione, debbono ritenersi rientrare nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un immobile da adibirsi a caserma dei VV.FF..
Inoltre, è errato escludere il carattere di urbanizzazione della Caserma de qua perché la stessa sarebbe al servizio di utenti appartenenti a più centri abitativi.
Invero, come esattamente dedotto dall’appellante, il requisito del dimensionamento di quartiere risulta previsto solo per i mercati, gli impianti sportivi e le aree vedi (cfr. art. 4, 2° comma, della legge n. 847/1964), con la conseguenza che le altre opere di urbanizzazione secondaria ben possono essere dimensionate su scala diversa e superiore.

In punto di fatto va rammentato che la realizzazione in oggetto riguardava la costruzione di un fabbricato da adibirsi a Caserma dei Vigili del Fuoco, realizzazione per la quale il Comune di Prato con i provvedimenti originariamente impugnati negava l’esenzione dal pagamento per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
Ritiene al riguardo il Collegio che nella fattispecie coesistono i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla più volte richiamata norma di cui all’art. 9, primo comma, lettera f), prima parte, della L. n. 10/1977, secondo cui il contributo afferente il rilascio della concessione edilizia non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti.
Circa il requisito soggettivo ritiene infatti il Collegio di dover condividere quell’ampia e qualificata giurisprudenza per cui ai fini dell’individuazione dell’“ente istituzionalmente competente” non è necessariamente rilevante la natura pubblica immediata dell’ente realizzatore quanto piuttosto quella oggettiva relativa alla realizzazione dell’opera; in tale ambito questa Sezione ha avuto modo di precisare che ai fini dell’esecuzione del contributo di costruzione la norma può venire riferita anche ad un’opera realizzata ad un soggetto privato perché per conto di un ente pubblico (cfr. C.S. Sezione V n. 206/1999); mentre sotto il profilo oggettivo è indubbio che la realizzazione dell’opera in questione –caserma dei Vigili del Fuoco– risponde sicuramente alle caratteristiche di un’opera pubblica e/o di un’opera di interesse generale.
Fondate sono anche le censure contenute nel secondo motivo di appello perché ritiene il Collegio che al contrario di quanto dedotto dal Tribunale l’elenco delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria non debba intendersi tassativo e vincolato perché, come esattamente ritenuto dalla giurisprudenza condivisa dalla Sezione, debbono ritenersi rientrare nella nozione di opere di urbanizzazione previste dalla normativa anche quelle realizzazioni di specifica rilevanza pubblica e sociale, qual è certamente la costruzione di un immobile da adibirsi a caserma dei VV.FF..
Inoltre, la decisione appare errata nella parte in cui è stato escluso il carattere di urbanizzazione della Caserma de qua perché la stessa sarebbe al servizio di utenti appartenenti a più centri abitativi.
Invero, come esattamente dedotto dall’appellante, il requisito del dimensionamento di quartiere risulta previsto solo per i mercati, gli impianti sportivi e le aree vedi (cfr. art. 4, 2° comma, della legge n. 847/1964), con la conseguenza che le altre opere di urbanizzazione secondaria ben possono essere dimensionate su scala diversa e superiore.
Conclusivamente pertanto il ricorso deve essere accolto e, in riforma dell’impugnata sentenza va annullata la determinazione comunale di non concedere la gratuità della concessione edilizia n. 2643 del 16.12.1995 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.09.2003 n. 5315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI moderni sistemi aereportuali si presentano come una struttura polifunzionale integrata, nella quale le funzioni tecniche di assistenza al volo ed ai passeggeri e quelle commerciali fanno parte di un insieme difficilmente scindibile, soprattutto ove il legislatore abbia esplicitamente fatto la scelta di assegnare unitariamente tali funzioni ad un unico gestore, proprio per creare le condizioni più favorevoli al raggiungimento di una posizione di equilibrio e di autosufficienza finanziaria, senza oneri correnti a carico del bilancio pubblico.
In questo contesto, il legislatore ha esplicitamente espunto dai costi di esercizio della società che gestisce il servizio in via esclusiva gli oneri di urbanizzazione, collocandoli in un regime del tutto diverso, nel quale sono lo Stato e la Regione ad assumere il ruolo di soggetti che assorbono nei relativi bilanci il peso dei costi che rimangono a carico della collettività.
E comunque eventuali oneri a carico degli enti locali minori sono regolabili nei rapporti con la Regione e con lo Stato, ma mai attraverso la configurazione di oneri diretti a carico della società che gestisce il sistema aeroportuale. E ciò in ragione di una specifica scelta del legislatore statale, confermata da quello regionale.

2. La tesi dell’appellante non è fondata. Il sinallagma che si instaura tra le attività tecniche di gestione, controllo e coordinamento del traffico aereo in una grande e complessa struttura aeroportuale ed i proventi delle attività commerciali che si svolgono in una tale infrastruttura, costituisce una delle caratteristiche funzionali del rapporto di concessione che articola obblighi e diritti del concedente e del concessionario.
Per affrontare la questione al nostro esame, occorre ricordare che tutte le opere oggetto della controversia sono inserite in un unico progetto, al cui interno si integrano linee di intervento che attengono all’ampliamento e all’ammodernamento della aerostazione ed interventi sugli spazi ad uso commerciale e direzionale. La SEA spa –che rimane un soggetto sociale a quasi totale partecipazione pubblica- sulla base delle legge n. 449 del 1985 gestirà fino al 2022, in regime di concessione e gestione esclusiva il sistema aeroportuale di Milano (Linate e Malpensa).
La SEA sulla base della Convenzione n. 4014 del 16.12.1986, è stata delegata a realizzare tutte le opere di ampliamento ed ammodernamento del nuovo sistema aeroportuale milanese: tale sistema è descritto, nelle sue linee e negli obiettivi (interventi in termini di transiti di aeromobili e passeggeri e di volumi commerciali intermediati) nel Piano Regolatore Aeroportuale “Malpensa-2000”, approvato con decreti del Ministero dei trasporti n. 903 del 13.2.1987 e n. 1299 del 14.04.1993.
3. La SEA è una società per azioni destinata, nell’arco di vigenza della convenzione, cioè comunque entro il 2022, ad essere privatizzata e quotata in borsa. Il punto di equilibrio della sua gestione si costruisce all’incrocio pluriennale di due flussi di costi e ricavi: quelli relativi al traffico degli aeromobili; quello relativo alle attività commerciali.
In questo equilibrio, i costi di ammortamento degli oneri finanziari delle opere di ampliamento della struttura rimangano in larga misura a carico dello Stato, secondo quanto stabilito con l’art. 14 della legge finanziaria n. 67 dell’11.03.1988. Dunque il bilancio dello Stato, e quindi la collettività nazionale, contribuisce direttamente allo sforzo finanziario dell’ampliamento della struttura, accollandosi, tra l’altro,gli oneri del piano di ammortamento dei mutui; ed il piano degli interventi, come rappresentato nella convenzione e come, ed il punto è decisivo, articolato nel Piano Regolatore Aeroportuale, descrive in modo puntuale tutte le opere di collegamento urbanistico e di viabilità che servono ad innervare il nuovo sistema aeroportuale nel tessuto urbanistico circostante.
Non è certamente casuale se la legge finanziaria del 1988, mentre finanzia le opere a carico del bilancio statale, stabilisce che il parere espresso dalla Regione e dagli enti locali, con la procedura prevista dall’art. 81 del DPR n. 616 del 1977 sui piani regolatori aeroportuali ( di Malpensa e Fiumicino) comprende ed assorbe a tutti gli effetti la verifica di conformità urbanistica delle singole opere inserite negli stessi piani regolatori.
4. Il raggiungimento dell’intesa tra lo Stato, la Regione Lombardia e gli enti locali territoriali interessati, ai sensi e per gli effetti dell’art. 81 del DPR prima richiamato, sottrae gli interventi de quo al regime concessorio ed autorizzativo, previsto dalla vigente disciplina urbanistica ed edilizia; sul punto la legge regionale n. 10 del 1999 è molto chiara e conferma il quadro della legislazione statale. In sostanza, la SEA spa non deve chiedere alcuna concessione urbanistica e non deve pagare alcun contributo in ragione di una disciplina speciale, di fonte statale e regionale, che in forza del preminente interesse nazionale dell’intervento, e del correlativo impegno diretto del bilancio dello Stato, sottrae tale intervento alla disciplina di ordine generale e disegna per esso un percorso di concertazione istituzionale tra enti territoriali che mette capo all’intesa prima richiamata.
Tale disciplina derogatoria trae la propria ragione di essere dal carattere unitario e complesso della struttura aeroportuale, nella quale aspetti tecnici e commerciali vanno ad integrare un’unica gestione, finanziaria e patrimoniale, il cui punto di equilibrio è stato costruito, grazie anche alle previsioni contenute nel Piano Regolatore Aeroportuale “Malpensa 2000”, considerando: a) una gestione esclusiva dell’aerostazione fino all’anno 2022; b) l’accollo degli oneri finanziari dei mutui, a carico del bilancio dello Stato; c) la realizzazione di tutti gli interventi di ammodernamento a carico della concessionaria d) la concessione alla SEA della gestione di tutti i punti commerciali; e) il non intervento dello Stato a sollievo di alcun profilo di ripiano della gestione corrente.
In questo contesto, gli oneri connessi alla realizzazione della rete di collegamento della struttura aeroportuale alla restante area, già in parte urbanizzata, sono tutti considerati, anche nei relativi profili finanziari, nel Piano Regolatore: e vedono in primo piano l’impegno finanziario dello Stato e della Regione Lombardia. In questa cornice, la ragione di ordine generale che è alla base dell’esonero dagli oneri di urbanizzazione stabilito, per le opere di interesse generale, dall’art. 9, lett. f), della legge n. 10 del 1977, trova una ulteriore e più puntuale disciplina, a carattere speciale, nella cornice che regola ad hoc gli interventi per il sistema aeroportuale di Roma e di Milano, prima richiamata; ed il carattere speciale sta proprio nella radicale eliminazione della fase di conformità urbanistica,fase che viene totalmente assorbita dalla procedura dell’intesa, ai sensi dell’art.81 del DPR n. 616 del 1977.
La natura “oggettiva” dell’opera non solo esonera la stessa dalla concessione edilizia comunale, ma ne impone la sua riconduzione all’ambito di operatività delle norme, statali e regionali, che specificamente regolano i profili finanziari e urbanistici della sua realizzazione. Ora si tratta di un’opera la cui gestione viene affidata, per un lungo tratto di tempo, ad una società a prevalente capitale pubblico, proprio per consentire un graduale ma stabile passaggio della sua gestione ad una situazione di equilibrio, con prospettive di profitto commerciale, che renda possibile una vera privatizzazione della stessa società.
L’esonero dai contributi di urbanizzazione non risponde al fine, che sarebbe del tutto non giustificato, di escludere l’impresa da costi che deve subire poi la collettività: risponde invece alla scelta di caricare sui bilanci dello Stato e della regione oneri finanziari che rispondono ad un quadro di interessi generali , oneri che non vengono invece caricati sulle comunità locali, solo parzialmente interessate da fenomeni di urbanizzazione; si tratta infatti, di fenomeni che vanno valutati e finanziati a scala nazionale e regionale; e in questo contesto, la progressiva gestione in equilibrio delle società aeroportuali, con tassativa esclusione di interventi correnti pubblici a riequilibrio della gestione, e con la creazione delle premesse di redditività che possono consentire la privatizzazione delle società stesse, con recuperi di efficienza anche a favore dell’utenza, sono tutti elementi che entrano a comporre un quadro di riferimento, di natura legislativa e convenzionale, che tiene conto della scelta di sottrarre la società concessionaria dall’obbligo dei contributi di urbanizzazione e di sottoporla invece ad obblighi di servizio e di equilibrio corrente del bilancio che sono decisivi per rendere plausibile il percorso di privatizzazione e di redditività effettiva.
5. In questa cornice, la pretesa del Comune di applicare rilevanti oneri di urbanizzazione alle aree commerciali e direzionali non trova alcuna giustificazione nel sistema delle leggi in vigore. Se tale pretesa fosse accolta, tutto l’equilibrio finanziario che è sotteso alle concessioni esclusive alle società di gestione dei servizi aeroportuali, per come è stato disciplinato dal legislatore nazionale e regionale, risulterebbe compromesso. In ogni caso, per restare sul filo delle argomentazioni svolte dall’appellante, nel caso in esame non si configura alcun debito contributivo a carico della SEA in quanto l’attività di trasformazione del territorio, connessa alla realizzazione del progetto aeroportuale, rimane largamente a carico dello Stato e della Regione proprio in ragione delle caratteristiche dell’opera, unitaria, complessa ed integrata, e soprattutto di preminente interesse generale.
E tale attività è stata in conseguenza disciplinata dal legislatore,statale e regionale, in modo da escludere del tutto l’intervento della concessione edilizia comunale: il presupposto del debito contributivo dunque non esiste sia in senso formale (l’ordinamento non attribuisce nel caso in esame il relativo potere e quindi manca l’atto concessorio), sia in senso sostanziale (l’attività di trasformazione del territorio è presa in carico da un livello superiore di cura degli interessi pubblici). In definitiva dove non c’è concessione non c’è contributo; ed in questo caso la legge, statale e regionale, si incarica di disciplinare un sistema speciale per la concertazione degli interessi delle comunità locali interessate ed un quadro gestionale al cui interno, anche in ragione della durata della concessione, trovano un punto di sintesi gli interessi pubblici generali e quelli ad una gestione finanziariamente equilibrata.
6. Il preminente interesse generale giustifica la scelta del legislatore statale e di quello regionale di sottrarre gli interventi alla ordinaria disciplina urbanistica, per sottoporli ad una procedura speciale che fa centro sull’intesa, di cui al richiamato art. 81 del DPR n. 616 del 1977, intesa che assorbe e sostituisce tutti gli altri atti concessori ed autorizzativi: in questa ottica, appare chiaro che il parere espresso dalla Regione a dagli altri enti locali territorialmente interessati investe tutte le opere inserite nei Piani regolatori aeroportuali di Malpensa e di Fiumicino.
7. I moderni sistemi aereportuali si presentano come una struttura polifunzionale integrata, nella quale le funzioni tecniche di assistenza al volo ed ai passeggeri e quelle commerciali fanno parte di un insieme difficilmente scindibile, soprattutto ove il legislatore abbia esplicitamente fatto la scelta di assegnare unitariamente tali funzioni ad un unico gestore, proprio per creare le condizioni più favorevoli al raggiungimento di una posizione di equilibrio e di autosufficienza finanziaria, senza oneri correnti a carico del bilancio pubblico.
In questo contesto, il legislatore ha esplicitamente espunto dai costi di esercizio della società che gestisce il servizio in via esclusiva gli oneri di urbanizzazione, collocandoli in un regime del tutto diverso, nel quale sono lo Stato e la Regione ad assumere il ruolo di soggetti che assorbono nei relativi bilanci il peso dei costi che rimangono a carico della collettività. E comunque eventuali oneri a carico degli enti locali minori sono regolabili nei rapporti con la Regione e con lo Stato, ma mai attraverso la configurazione di oneri diretti a carico della società che gestisce il sistema aeroportuale. E ciò in ragione di una specifica scelta del legislatore statale, confermata da quello regionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.12.2002 n. 7043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'esenzione dal contributo di costruzione ex art. 9, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10, occorre che l'opera da costruire sia pubblica o d'interesse pubblico e venga realizzata o da un ente pubblico, o da altro soggetto per conto di un ente pubblico, come nel caso di concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie.
Seppure è stata esclusa, talvolta, la necessaria soggettività pubblica dell'ente realizzatore dell'intervento, si è sempre affermato che deve trattarsi di attività compiuta da un concessionario o, più in generale, da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere d'interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
In questa prospettiva si è anche chiarito che non ricade nell'esenzione l'opera costruita da un imprenditore per la propria attività d'impresa, considerato altresì che il fine dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione intimamente contraddittoria (quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività) e non quella di esonerare gli imprenditori dai costi d'impresa.

Con un secondo gruppo di censure, l’appellante sostiene che l'opera in questione non è soggetta a contribuzione, rientrando nel raggio di azione dell’articolo 9, lettera f), della legge n. 10/1997.
La censura è infondata.
La norma richiamata dall'appellante prevede l'esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione "per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzati dagli enti istituzionalmente competenti".
La gratuità della concessione è quindi subordinata a due condizioni, l'una di carattere oggettivo e l'altra di natura soggettiva.
Con riguardo al primo profilo, si potrebbe anche convenire con l'appellante che il manufatto in questione costituisce un'opera di interesse generale, considerando il collegamento con il pubblico servizio esercitato dalla SIP.
Ma, con riguardo all'altro necessario presupposto, di carattere soggettivo, non può dubitarsi che il titolare della concessione è un imprenditore privato e non un "ente istituzionalmente competente" alla realizzazione dell'opera.
La Sezione ha ripetutamente chiarito, al riguardo, che, ai fini dell'esenzione dal contributo di costruzione ex art. 9, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10, occorre che l'opera da costruire sia pubblica o d'interesse pubblico e venga realizzata o da un ente pubblico, o da altro soggetto per conto di un ente pubblico, come nel caso di concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie (Consiglio Stato sez. V, 07.09.1995, n. 1280; 13.12.1993, n. 1280; 04.01.1993, n. 11; 31.10.1992, n. 1145; 16.01.1992 n. 46).
Seppure è stata esclusa, talvolta, la necessaria soggettività pubblica dell'ente realizzatore dell'intervento, si è sempre affermato che deve trattarsi di attività compiuta da un concessionario o, più in generale, da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere d'interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate.
In questa prospettiva si è anche chiarito che non ricade nell'esenzione l'opera costruita da un imprenditore per la propria attività d'impresa, considerato altresì che il fine dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione intimamente contraddittoria (quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività) e non quella di esonerare gli imprenditori dai costi d'impresa (Consiglio Stato, Sez. V 10.12.1990 n. 857; sez. V, 20.11.1989 n. 752) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.10.2000 n. 5558 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo concessorio non è dovuto quando si tratta della realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale da parte di enti istituzionalmente competenti.
La norma (art. 9, lettera f), legge n. 10 del 1977) enuncia due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità.
L’esecuzione di un’opera pubblica, inoltre, quando è compiuta da un “ente istituzionalmente competente”, garantisce il perseguimento di interessi di ordine generale e giustifica la concessione di un beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile di impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce dell’opera una volta compiuta.
L’imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
La disposizione, dunque, ha un ambito applicativo limitato in duplice senso: essa si rivolge in primo luogo a chi intende realizzare opere la cui fruizione (in via diretta od indiretta) soddisfa interessi generali; in secondo luogo si rivolge, oltre che agli enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo o che accompagnano al lucro soggettivo un collegamento giuridicamente rilevante con l’amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l’azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività. Tale raccordo, peraltro, dev’essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell’obiettivo privatistico dell’esecutore dell’opera col fine pubblicistico realizzato.
Questo raccordo, secondo la giurisprudenza, è ravvisabile in concreto anche nei casi che registrano l’intervento del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d’impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l’esecuzione di opere di interesse generale.

La questione controversa concerne l’applicabilità dell’art. 9, lettera f), legge n. 10 del 1977, al complesso polifunzionale della Polizia di Stato costruito dalla società appellata, ed il relativo riconoscimento del diritto all’esenzione dal pagamento del contributo di concessione di cui all’art. 3 della legge n. 10 del 1977.
La disposizione in oggetto viene richiamata per due distinti profili, ciascuno dei quali idoneo, in linea di ipotesi, a giustificare l’esenzione.
Il primo è quello per cui il contributo concessorio non è dovuto quando si tratta della realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale da parte di enti istituzionalmente competenti.
La norma enuncia due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente (v., ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 20.07.1999, n. 849; id., 29.09.1997, n. 1067).
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità.
L’esecuzione di un’opera pubblica, inoltre, quando è compiuta da un “ente istituzionalmente competente”, garantisce il perseguimento di interessi di ordine generale e giustifica la concessione di un beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile di impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce dell’opera una volta compiuta.
L’imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l’istituzionale attuazione del pubblico interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
La disposizione, dunque, ha un ambito applicativo limitato in duplice senso: essa si rivolge in primo luogo a chi intende realizzare opere la cui fruizione (in via diretta od indiretta) soddisfa interessi generali; in secondo luogo si rivolge, oltre che agli enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo o che accompagnano al lucro soggettivo un collegamento giuridicamente rilevante con l’amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l’azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività. Tale raccordo, peraltro, dev’essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell’obiettivo privatistico dell’esecutore dell’opera col fine pubblicistico realizzato.
Questo raccordo, secondo la giurisprudenza, è ravvisabile in concreto anche nei casi che registrano l’intervento del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d’impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l’esecuzione di opere di interesse generale (v., ex plurimis, Consiglio Stato sez. V, 07.09.1995, n. 1280)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.07.2000 n. 3860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Perché possa qualificarsi la costruzione come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici” è, invero, necessario che essa sia specificamente indicata come tale nello strumento urbanistico.
Il complesso polifunzionale edificato non solo non è mai stato qualificato come opera di urbanizzazione, ma non corrisponde ad alcuna precisa indicazione dello strumento urbanistico, sicché l’esenzione dal contributo di concessione non può essere riconosciuta.
L’argomento contrario dedotto dall’appellata e fondato sulla vigenza del piano di zona è del tutto insufficiente a sovvertire il chiaro contenuto precettivo della disposizione: essa beneficia il privato che dà immediata esecuzione alla previsione di piano relativa ad una specifica opera di urbanizzazione. Solo nel caso espressamente previsto dalla norma, a ben vedere, risulta contraddittoria ed irragionevole la richiesta al privato del pagamento di un contributo commisurato anche alle “spese di urbanizzazione”, che di regola sono sopportate dall’ente pubblico. In ogni altro caso il contributo è dovuto.
A margine delle suddette considerazioni, d’altra parte, deve rimarcarsi che la disposizione in oggetto, poiché concede un beneficio derogatorio al regime generale, deve interpretarsi secondo criteri restrittivi ed in stretta armonia con il suo tenore e la sua ratio.

La seconda parte dell’art. 9, lettera f), è parimenti inapplicabile all’ipotesi in esame.
Perché possa qualificarsi la costruzione come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici” è, invero, necessario che essa sia specificamente indicata come tale nello strumento urbanistico.
Il complesso polifunzionale edificato dalla Fingruppo non solo non è mai stato qualificato come opera di urbanizzazione, ma non corrisponde ad alcuna precisa indicazione dello strumento urbanistico, sicché l’esenzione dal contributo di concessione non può essere riconosciuta.
L’argomento contrario dedotto dall’appellata e fondato sulla vigenza del piano di zona è del tutto insufficiente a sovvertire il chiaro contenuto precettivo della disposizione: essa beneficia il privato che dà immediata esecuzione alla previsione di piano relativa ad una specifica opera di urbanizzazione. Solo nel caso espressamente previsto dalla norma, a ben vedere, risulta contraddittoria ed irragionevole la richiesta al privato del pagamento di un contributo commisurato anche alle “spese di urbanizzazione”, che di regola sono sopportate dall’ente pubblico. In ogni altro caso il contributo è dovuto.
A margine delle suddette considerazioni, d’altra parte, deve rimarcarsi che la disposizione in oggetto, poiché concede un beneficio derogatorio al regime generale, deve interpretarsi secondo criteri restrittivi ed in stretta armonia con il suo tenore e la sua ratio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.07.2000 n. 3860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.11.2013

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UTILITA'

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Guida al D.L. n. 101/2013 - Le novità in materia di Pubblica Amministrazione e pubblico impiego (Dipartimento Funzione Pubblica, novembre 2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTIAppalti, pagamento subfornitori: cosa cambia con il Decreto Fare (12.10.2013 - link a www.giurdanella.it).

APPALTIDecreto Fare e costo del lavoro negli appalti (04.10.2013 - link a www.giurdanella.it).

APPALTILa responsabilità solidale appalti dopo la conversione dei decreti Fare e Lavoro (04.10.2013 - link a www.giurdanella.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc: semplificazione su regole e tempi dopo il decreto Fare (03.10.2013 - link a www.giurdanella.it).

LAVORI PUBBLICI: C. Crosato, Le attività del Rup: proposta per una lista di controllo - La lista di controllo permette al Rup di mettere a fuoco tutte le attività nell’ambito di un lavoro pubblico.
L’attività del Rup nella realizzazione di un lavoro pubblico si esercita nelle seguenti macroaree: nomina e programmazione, progettazione, individuazione dell’esecutore del lavoro, esecuzione e collaudo dei lavori. All’interno di tali macro attività si propone una lista di controllo costruita sulla base delle indicazioni fornite dal Codice dei contratti pubblici e dal Regolamento (Diritto e Pratica Amministrativa n. 6/2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Gallucci, L’installazione di una canna fumaria in un condominio - Di chi è la proprietà della canna fumaria? Nella sua installazione devono essere rispettate le distanze? Che cosa succede se le tubazioni alterano l’estetica dell’edificio? Indicazioni pratiche valide per impianti termici o al servizio di attività commerciali e artigianali (Quaderni di Legislazione Tecnica n. 1/2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICIAppalti, la referenza resta. Validi i certificati esecuzione lavori pre 2006. L'Autorità lavori pubblici cambia rotta e salva tre anni di qualificazione.
Nelle gare pubbliche di appalto è possibile qualificarsi come imprese di costruzioni, anche presentando certificati di esecuzione dei lavori emessi in forma cartacea prima del luglio 2006. Ma la stazione appaltante dovrà garantire l'autenticità dei certificati stessi.

È quanto stabilisce l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la deliberazione 25.09.2013 n. 35 depositata il 29 ottobre (relatore Luciano Berarducci) che rettifica parzialmente e integra la precedente delibera n. 24 del 23.05.2013 relativa alle indicazioni fornite a Soa e stazioni appaltanti in materia di emissione dei cosiddetti Cel (Certificati esecuzione lavori).
Il problema si era posto rispetto all'articolo 83, comma 7, del dpr 207/2010 (il regolamento del codice dei contratti pubblici) che impone alle Soa di accertare la presenza dei certificati nel Casellario gestito dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ai fini del rilascio dell'attestazione e, in caso accertino che non siano presenti, impone loro di darne comunicazione all'Autorità per i conseguenti provvedimenti sanzionatori.
La norma prevede che i Cel non siano utilizzabili fino al loro inserimento nel casellario informatico e quindi non pone difficoltà, nel caso in cui i certificati siano stati emessi in forma digitale e inseriti nel Casellario. Ma per alcuni casi, precedenti il 2006 quando non era ancora in vigore l'obbligo di emettere i Cel in forma telematica, l'impresa disponeva soltanto di copie cartacee. Rispetto a questi certificati cartacei nel maggio scorso l'Autorità aveva stabilito la regola dell'inutilizzabilità, per cui le imprese avrebbero dovuto chiedere alle stazioni appaltanti, a distanza di molti anni, la emissione ex novo in forma telematica e la trasmissione al Casellario.
Dal momento che i requisiti di qualificazione prendono in considerazione anche dieci anni, per i certificati non inseriti nel Casellario e riguardanti gli anni dal 2003 al 2006, l'impresa si sarebbe trovata nell'impossibilità di utilizzare le referenze dei lavori eseguiti, ancorché fosse in possesso del regolare certificato emesso in forma cartacea. La delibera n. 24 (resa nota a luglio) prevedeva come ulteriore possibilità quella di considerare validi anche i certificati trasmessi, in via telematica, direttamente al casellario dalle stazioni appaltanti secondo i format previsti dall'organismo di vigilanza.
Con la delibera dei giorni scorsi l'Authority, per esigenze di semplificazione ammette la possibilità di utilizzazione, in sede di attestazione presso la Soa, dei Cel cartacei che però non dovranno più essere emessi nuovamente dalla stazione appaltante (attività che avrebbe potuto creare molte difficoltà operative); sarà infatti sufficiente la «previa conferma scritta circa la veridicità degli stessi da parte della stazione appaltante» per poterli utilizzare.
In ogni caso, dice l'Autorità, la mancanza di questa conferma scritta impedisce l'utilizzabilità del Cel e l'inerzia della stazione appaltante, a fronte della richiesta dell'impresa, costituisce elemento passibile di sanzione (fino a circa 26 mila euro) (articolo ItaliaOggi del 05.11.2013).

NOTE, CIRCOLARI E  COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: ulteriori modifiche (ANCE Bergamo, circolare 08.11.2013 n. 242).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Circolare recante chiarimenti interpretativi relativi alla disciplina dell'autorizzazione unica ambientale (A.U.A.) nella fase di prima applicazione del D.P.R. 13.03.2013 n. 59 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot.).

APPALTI: Oggetto: Provvedimenti antimafia – Operativa la procedura per l’iscrizione nelle cosiddette white list presso la Prefettura di Bergamo (ANCE Bergamo, circolare 04.11.2013 n. 236).

TRIBUTI: Oggetto: Conversione in legge del Dl n. 102/2013 – Nota di lettura (ANCI Emilia Romagna, nota 29.10.2013 n. 182 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Linee guida in materia di codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni (art. 54, comma 5, d.lgs. n. 165/2001) (CIVIT, deliberazione 24.10.2013 n. 75/2013).

COMPETENZE PROGETTUALI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Applicazione del DM 37/2008 (in particolare per gli Impianti Elettronici nei lavori Pubblici e Privati - rispetto delle prescrizioni e privativa per gli Ingegneri del Settore dell'Informazione) (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 11.10.2013 n. 279).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.10.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 04.11.2013 n. 128).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2013, "Reticoli idrici regionali e revisione canoni di occupazione delle aree del demanio idrico" (deliberazione G.R. 31.10.2013 n. 883).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 05.11.2013, "Individuazione dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati per la stagione autunno vernina 2013/2014 - ai sensi del d.m. 07.04.2006" (deliberazione G.R. 31.10.2013 n. 9953).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Abolizione delle Province - Ora i politici si preoccupano per le sorti del personale (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.11.02013).

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, ottobre 2013).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il segretario comunale non deve esimersi dal controllare l'operato dei vari uffici.
Ciò che radica la responsabilità (anche) del segretario comunale (circa il fatto che la dirigente non aveva provveduto ad iscrivere a ruolo le contravvenzioni del c.d.s. con la conseguente perdita del credito erariale) non è certo il non avere controllato minuziosamente l’attività della responsabile d'area, adempimento che non poteva essergli richiesto, ma il fatto di non avere mai effettuato dei controlli, sia pure a campione, di essersi del tutto disinteressato dell’andamento di quel settore di attività amministrativa, sino alla scoperta dei fatti, consentendo che per un lunghissimo periodo di tempo un adempimento fondamentale, come quello dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute a seguito di verbali non pagati, fosse pretermesso, ignorando, così, un fenomeno di dimensioni assolutamente abnormi, che una corretta attività di vigilanza avrebbe sicuramente individuato per tempo.
Le conseguenze della mancata iscrizione a ruolo delle contravvenzioni, infatti, non possono non ricadere anche sul segretario comunale V., il quale, in assenza della figura del responsabile dell’Area Vigilanza, nominato nella persona del dott. N. con determina n. 14/2007 del Commissario straordinario, ha omesso, come esposto, sia l’attività di vigilanza che l’adozione di atti surrogatori per evitare che le contravvenzioni cadessero in prescrizione; tale doverosa attività, tenuto conto del regolamento comunale, non comporta certamente alcuna dipendenza gerarchica del Corpo di Polizia Municipale dalla sua figura.
In effetti, ciò che, ad avviso del Collegio, radica la responsabilità del V. non è certo il non avere controllato minuziosamente l’attività della N.V., adempimento che non poteva essergli richiesto, ma il fatto di non avere mai effettuato dei controlli, sia pure a campione, di essersi del tutto disinteressato dell’andamento di quel settore di attività amministrativa, sino alla scoperta dei fatti, consentendo che per un lunghissimo periodo di tempo un adempimento fondamentale, come quello dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute a seguito di verbali non pagati, fosse pretermesso, ignorando, così, un fenomeno di dimensioni assolutamente abnormi, che una corretta attività di vigilanza avrebbe sicuramente individuato per tempo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. d'appello Siciliana, sentenza 05.11.2013 n. 309).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Vigenza del divieto di assunzione per le province.
La Corte dei Conti, sezione delle Autonomie, esamina le questioni di massima rimesse dalla sezione regionale di controllo per l'Emilia-Romagna (deliberazione n. 207/2013/PAR).
Il primo quesito riguarda l'attuale vigenza del divieto introdotto dall'art. 16, comma 9, d.l. 95/2012 (convertito in legge 135/2012) a tenore del quale: "nelle more dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province è fatto comunque divieto alle stesse di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato".
Le considerazioni svolte in proposito sono le seguenti:
"... appare condivisibile l'interpretazione data dalla Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna: non vi sono elementi giuridici per affermare che il processo di riordino delle province si è arrestato, in quanto, a seguito della mancata conversione del D.L. 188 del 2012, il legislatore ha procrastinato al 31.12.2013 il termine entro il quale il riordino dovrà essere attuato e l'art. 1, comma 115, della L. 228 del 2012 al terzo periodo prevede che: ‘nei casi in cui in una data compresa tra il 15.11.2012 e il 31.12.2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli organi delle province, oppure la scadenza dell'incarico di Commissario straordinario delle province nominato ai sensi delle vigenti disposizioni ... o in altri casi di cessazione anticipata del mandato degli organi provinciali ... è nominato un commissario straordinario...per la provvisoria gestione dell'ente fino al 31.12.2013'. Inoltre il Governo in data 20.08.2013 ha presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge costituzionale per l'Abolizione delle province. Il riordino delle province non appare né arrestato né abbandonato, il legislatore ha provveduto a procrastinarne il termine finale al 31.12.2013 ; l'art 16, comma 9, del D.L. 16.07.2012, n. 95 convertito con modificazioni nella L. 07.08.2012, n. 135 è vigente, non essendo stato abrogato né colpito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, pertanto le province non possono assumere personale a tempo indeterminato";
Il secondo quesito, attiene a "... se lo stesso (divieto) ricomprenda anche le assunzioni di unità di personale aventi diritto al collocamento obbligatorio, disposto dalla legge 68/1999; ciò nel caso in cui l'ente debba procedere ad assunzioni, allo scopo di raggiungere la copertura della prevista quota d'obbligo".
L'esame della sezione reca queste motivazioni:
"La disposizione di cui all'art. 16, comma 9, del DL 95 del 2012 impone un divieto assoluto d'assunzione con contratto a tempo indeterminato. Le ragioni di tale divieto sono da ricercarsi nella disciplina che prevede il riordino e la razionalizzazione (con conseguente riduzione) delle province ... Le considerazioni -a fondamento della prevalenza per materia della legislazione che prevede l'assunzione obbligatoria di soggetti appartenenti alle ‘categorie protette' sulla legislazione che prevede il divieto di assunzione per limitare la spesa di personale- non paiono estensibili con riguardo alla norma che vieta alle province di effettuare assunzioni a tempo indeterminato nelle more del processo di riduzione/razionalizzazione delle medesime; si tratta, infatti, di una disposizione che esula da motivazioni strettamente finanziarie per collocarsi su un piano di razionalità organizzativa: stante la possibile soppressione dell'ente datore di lavoro, il Legislatore ha ritenuto corretto e doveroso cristallizzare la struttura burocratica (nel comparto risorse umane) dello stesso, in vista dell'accennata ‘soppressione' ed ancora che ‘In definitiva, la norma, nelle more dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province, mira ad anticipare giuridicamente la stessa condizione di impossibilità di fatto all'assunzione che deriverebbe dall'eventuale estinzione dell'ente'. Pertanto, per le considerazioni suesposte, non è possibile assumere con contratto a tempo indeterminato lavoratori rientranti nelle categorie protette entro la quota d'obbligo di cui alla L. n. 68/1999, alla luce del divieto generale stabilito dalla menzionata norma di cui all'art. 16, comma 9, del D.L. n. 95/2012, convertito dalla L. n. 135/2012".
Si perviene, quindi, alla formulazione del seguente principio:
"
Il divieto, posto a carico delle province, di assumere personale a tempo indeterminato, di cui all'art. 16, comma 9, del D.L. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni nella L. 07.08.2012, n. 135, è tuttora in vigore. Tale divieto ricomprende anche le unità di personale aventi diritto al collocamento obbligatorio disposto dalla L. 12.03.1999, n. 68, nel caso in cui l'ente debba assumerle per raggiungere la copertura della quota d'obbligo prevista dalla legge medesima" (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 29.10.2013 n. 25 - tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe province non possono più assumere.
Il processo di riduzione e razionalizzazione delle province, varato dal decreto legge della spending review dello scorso anno, non si è certo arrestato, ma ha subito soltanto uno spostamento temporale. Ne discende che, ad oggi, è operante in capo alle province il divieto alle stesse di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato. Inoltre, in considerazione della ratio della disposizione legislativa, che è quella di «cristallizzare» la struttura delle risorse umane delle province in vista della loro soppressione, non è altrettanto possibile assumere a tempo indeterminato personale appartenente alle cosiddette categorie protette, ex legge n. 68/1999.

Non ammette repliche la conclusione cui è pervenuta la sezione autonomie della Corte dei conti, nel testo della deliberazione 29.10.2013 n. 25, con cui ha fatto chiarezza su un aspetto particolare del travagliato iter di riduzione e soppressione delle province, rispondendo a due quesiti posti dalla Corte conti Emilia Romagna.
Il primo, se sia ancora vigente il divieto di assumere personale a tempo indeterminato da parte delle province. Il secondo, se tale divieto ricomprenda anche le unità di personale aventi diritto al collocamento obbligatorio, quale appartenenti alle categorie protette previste dalla legge n. 68/1999.
Come si ricorderà, con l'articolo 16, comma 9 del dl n. 95/2012, le province, nelle more dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione, si è disposto il divieto per le province di assumere personale a tempo indeterminato. Con il dl n. 188/2012, poi, si era provveduto a dare corso a queste disposizioni, ma tale dl non fu poi convertito in legge. L'obiettivo del legislatore di provvedere alla riduzione e soppressione degli enti provinciali non è stato abbandonato, in quanto, nella legge di stabilità per il 2013 (all'articolo 1, comma 115), a causa della mancata conversione in legge del predetto dl n. 188, si è rinviato al 31.12.2013, l'attuazione delle norme di razionalizzazione e riduzione degli enti provinciali.
Sulla scorta di questo quadro normativo, la sezione regionale di controllo dell'Emilia Romagna della Corte ha chiesto una pronuncia definitiva della sezione autonomie, posto che altra sezione regionale della Corte (Corte conti Lombardia, nel parere n. 44/2013) ha ammesso le assunzioni di personale a tempo indeterminato, in quanto «il ridimensionamento delle province doveva intendersi arrestato».
La sezione autonomie non ha condiviso tale assunto. L'articolo 16 del decreto legge n. 95/2012 è tuttora in vigore, non appare né arrestato né abbandonato, anzi, procede con le migliori intenzioni, tenuto conto che il 20 agosto scorso il governo ha depositato un ddl recente misure di abolizione delle province. Il legislatore ha solamente rinviato l'adozione delle misure di ridimensionamento delle province al 31.12.2013, con la conseguenza che le stesse non possono assumere personale a tempo indeterminato.
Sulla stessa lunghezza d'onda le considerazioni relative all'assunzione di personale appartenente alle categorie protette. Nonostante la legge n. 68/1999 ne disponga l'obbligatorietà, ci si trova di fronte al volere del legislatore di «cristallizzare» il personale delle province, in vista della loro soppressione (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONELa giurisprudenza della Sezione ha concluso che l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
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L’art. 92 del dlgs 163/2006 presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata.
Quanto espresso pare escludere dal novero delle attività retribuibili con l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili”.

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Il Commissario Straordinario della Provincia di Como ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in merito alla corresponsione dell’incentivo alla progettazione ex art. 92 d.lgs. n. 163/2006 per alcune attività svolte dagli Uffici Tecnici dell’Ente, del seguente testuale tenore.
Con riferimento al
parere 06.03.2013 n. 72 già pronunciato da questa Corte, l’organo rappresentativo dell’ente chiede –a miglior chiarimento della tematica ed evidenziate le modalità attuative utilizzate in merito dalla Provincia- se sia corretto corrispondere l’incentivo di cui al prefato art. 92 a personale dipendente interno dell’Ufficio Tecnico coinvolto nella progettazione di opere e di lavori di manutenzione ordinaria sulle strade di competenza quali:
Manutenzione ordinaria delle strade provinciali e loro pertinenze;
Manutenzione ordinaria della segnaletica;
Manutenzione ordinaria di opere del verde;
Manutenzione ordinaria di pareti rocciose, reti e barriere paramassi.
Il Commissario precisa che le attività prestate dal personale interno consistono nell’esecuzione delle procedure previste per la realizzazione delle opere pubbliche in tutte le fasi a partire dalla predisposizione di progetti nei livelli necessari all’appalto: progettazione preliminare, definitiva/esecutiva, passando per lo svolgimento di gara pubblica, sino al conseguente svolgimento delle attività di direzione lavori e coordinamento della sicurezza (ai sensi dei Titoli II – X – parte II del DPR 207/2010).
I progetti sono redatti in conformità all’art. 105 “Lavori di manutenzione” del D.P.R. 207/2010 e sono costituiti dagli elaborati previsti dal medesimo: Relazione generale, Elenco dei prezzi unitari delle lavorazioni previste, computo metrico estimativo, Piano di sicurezza e di coordinamento con l’individuazione analitica dei costi della sicurezza da non assoggettare a ribasso nonché da Schema di Contratto, Capitolato speciale d’appalto, Cronoprogramma dei lavori, Corografia ed elaborati grafici di dettaglio ove necessari.
L’Amministrazione evidenzia come la redazione di progetti di manutenzione delle strade sia una necessità inderogabile e non sostituibile dalla sola mera programmazione generale, dettata dall’esteso patrimonio viario -circa 560 Km di strade- dalla complessità e variabilità geomorfologica, planoaltimetrica e tipologica delle strade provinciali e relative strutture ed opere viarie quali rilevati stradali, ponti e viadotti, muri di sostegno, muri di controriva e di sottoscarpa, opere di contenimento di pareti, reti paramassi, etc..
Precisa infine che l’ammontare complessivo della manutenzione ordinaria si attesta annualmente su importi di circa Euro 800.000,00/1.000.000,00 Euro la cui realizzazione è prevista con inserimento nel programma triennale dei lavori pubblici, e quindi trattasi di somme di non modesta rilevanza economica, elemento che pare quanto meno di rilievo nel 
parere 13.11.2012 n. 293 della Corte dei Conti della Toscana .
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Nel merito, l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
Il comma 6 del medesimo articolo 92 recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
La fattispecie in esame è stata già oggetto di delibazione in sede consultiva da parte di questa Sezione (
parere 06.03.2013 n. 72), come peraltro rammentato dalla medesima Amministrazione istante; dagli approdi di cui alla predetta delibera -nel prosieguo testualmente richiamati– non vi è ragione per discostarsi in questa sede.
Orbene,
il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, rappresenta un’eccezione legale al principio per cui il trattamento economico dei dipendenti pubblici è fissato dai contratti collettivi, in quanto attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Corte dei Conti, Sezione reg. controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla littera legis, la disposizione pone alcuni “paletti” per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 di questa Sezione) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione) purché, come sarà meglio specificato, il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza, la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2, comma 3, del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione: obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione.
Sulla base di tali criteri, venendo più specificamente alla fattispecie oggetto del quesito,
la giurisprudenza della Sezione ha concluso che l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione (
parere 06.03.2013 n. 72, diffusamente riportato in questa sede). Tale approdo interpretativo è, ormai, consolidato nell’ambito della giurisprudenza contabile: sul punto, ex multis, si richiama la successiva pronuncia -resa in sede consultiva- dalla Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 19.03.2013 n. 15, secondo cui “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata. Quanto espresso pare escludere dal novero delle attività retribuibili con l’incentivo in questione i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.10.2013 n. 442).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Va condannato, per danno erariale, il responsabile del servizio finanziario per aver liquidato al Segretario Comunale il compenso in qualità di Presidente del Nucleo di Valutazione.
L’art. 41, comma 6, del CCNL del 16/05/2001 stabilisce il principio di onnicomprensività della retribuzione di posizione del Segretario comunale, a corredo del quale è prevista –altresì– la possibilità di riconoscere una maggiorazione di detto emolumento, che con il contratto integrativo stipulato il 21/12/2003 è stata fissata fino ad un massimo del 50%, in ragione della riscontrata presenza di condizioni di natura soggettiva ed oggettiva, indicate nel medesimo accordo.
Tra dette condizioni rientra anche la partecipazione al Nucleo di valutazione e, già nell’agosto del 2003, l’ARAN –in risposta a specifico quesito– indicava chiaramente che è ammissibile una remunerazione separata (e aggiuntiva) per tale attività soltanto qualora essa si collochi al di fuori delle competenze ordinarie del segretario, altrimenti la stessa può solo concorrere al riconoscimento della maggiorazione di cui sopra.
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Va posto quindi –doverosamente- l’accento sulla qualifica dirigenziale rivestita dal responsabile del servizio finanziario, in relazione alla quale s’impongono requisiti di professionalità e conoscenza che la stabile giurisprudenza di questa Corte reputa non legittimino alcuna forma di ignorantia legis, men che mai nel settore di specifica competenza.
Nel caso di specie, non può ammettersi che il responsabile dell’ufficio finanziario di un Comune non abbia piena cognizione e padronanza delle norme che regolano la corresponsione dei trattamenti economici dei dipendenti e del segretario comunale, così come non è ammissibile che non faccia uso della propria autonomia decisionale per svolgere un’istruttoria pur minima rispetto alla richiesta di un compenso aggiuntivo, ovvero non ritenga di poter/dover interloquire formalmente sulla questione con il segretario comunale richiedente.
A ben vedere la situazione del segretario comunale era assolutamente chiara: rivestendo di diritto il ruolo di Presidente del Nucleo di valutazione e beneficiando –nel periodo contestato– della maggiorazione massima della retribuzione di posizione, a nessun titolo ed in alcuna forma era possibile riconoscerle un ulteriore remunerazione per quell’incarico.
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Con atto di citazione depositato in data 11/05/2011, la Procura Regionale ha convenuto in giudizio il sig. D.C.F., per sentirlo condannare –in qualità di Responsabile del Servizio finanziario del Comune di Montecorvino Pugliano– al pagamento della somma di € 5.400,00, a titolo di danno erariale cagionato all’amministrazione comunale, in relazione alla corresponsione in favore del Segretario comunale p.t. (B.G.), di un compenso aggiuntivo, nel triennio 2003/2006, per il suo incarico di Presidente del Nucleo di valutazione.
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Nel merito, la condotta del convenuto si palesa gravemente colposa, per un duplice ordine profili, oggettivi e soggettivi.
Innanzitutto è importante ribadire –anche in questa vicenda– come il quadro normativo, ermeneutico ed applicativo di riferimento sia sostanzialmente chiaro ed intellegibile nei suoi contenuti. L’art. 41, comma 6, del CCNL del 16/05/2001 stabilisce, infatti, il principio di onnicomprensività della retribuzione di posizione del Segretario comunale, a corredo del quale è prevista –altresì– la possibilità di riconoscere una maggiorazione di detto emolumento, che con il contratto integrativo stipulato il 21/12/2003 è stata fissata fino ad un massimo del 50%, in ragione della riscontrata presenza di condizioni di natura soggettiva ed oggettiva, indicate nel medesimo accordo. Tra dette condizioni rientra anche la partecipazione al Nucleo di valutazione e, già nell’agosto del 2003, l’ARAN –in risposta a specifico quesito– indicava chiaramente che è ammissibile una remunerazione separata (e aggiuntiva) per tale attività soltanto qualora essa si collochi al di fuori delle competenze ordinarie del segretario, altrimenti la stessa può solo concorrere al riconoscimento della maggiorazione di cui sopra.
Nel descritto contesto, il Regolamento, approvato dal Comune di Montecorvino Pugliano nel 2002 per disciplinare l’istituzione e il funzionamento dei servizi di controllo interno e, in particolare, del Nucleo di valutazione, prevede –all’art. 6, comma 3– che detto organo “...è un collegio composto dal Segretario comunale, che lo presiede e da n° 2 membri esperti esterni di provata qualificazione...”. Come rilevato dal Requirente, il tenore di questa disposizione non lascia spazio a dubbi circa il fatto che la presidenza del Nucleo sia attribuita al segretario comunale di diritto, ovverosia senz’altro ratione officii, non trovando pertanto alcun riscontro gli assunti difensivi secondo i quali, al contrario, la dott.ssa G. avrebbe ricevuto quell’incarico per specifiche competenze amministrative, non menzionate (né richieste) nella norma.
Altro dato pacifico nella fattispecie all’esame, è la percezione da parte di costei –nel periodo considerato– della misura massima della retribuzione di posizione, nonché di un compenso separato per l’espletamento delle funzioni di Direttore generale dell’ente.
A fronte dei summenzionati elementi fattuali e giuridici, va posto quindi –doverosamente- l’accento sulla qualifica dirigenziale rivestita dal D.C., in relazione alla quale s’impongono requisiti di professionalità e conoscenza che la stabile giurisprudenza di questa Corte reputa non legittimino alcuna forma di ignorantia legis, men che mai nel settore di specifica competenza. Nel caso di specie, non può ammettersi che il responsabile dell’ufficio finanziario di un Comune non abbia piena cognizione e padronanza delle norme che regolano la corresponsione dei trattamenti economici dei dipendenti e del segretario comunale, così come non è ammissibile che non faccia uso della propria autonomia decisionale per svolgere un’istruttoria pur minima rispetto alla richiesta di un compenso aggiuntivo, ovvero non ritenga di poter/dover interloquire formalmente sulla questione con il segretario comunale richiedente.
A ben vedere la situazione della dott.ssa G. era assolutamente chiara: rivestendo ella di diritto il ruolo di Presidente del Nucleo di valutazione e beneficiando –nel periodo contestato– della maggiorazione massima della retribuzione di posizione, a nessun titolo ed in alcuna forma era possibile riconoscerle un ulteriore remunerazione per quell’incarico. In proposito –diversamente da quanto dedotto dalla difesa del convenuto- si palesa corretto e conferente il richiamo, operato dalla Procura, alla sentenza di questa Sezione n. 1775/2010, in cui detta affermazione è suffragata da ampie argomentazioni, pienamente condivise dall’odierno Collegio giudicante.
Nei descritti termini va accolta, altresì, l’identificazione del danno erariale nell’intero ammontare delle somme conferite. Come osservato più volte da questa Corte, infatti, in fattispecie come queste non può trovare ingresso il principio della compensatio lucri cum damno, con cui è possibile dare rilievo ai risultati comunque conseguiti dall’organo contestato nell’interesse della comunità amministrata: il vizio che colpisce la struttura e/o i poteri di un organo pubblico, infatti, fa sì che gli oneri finanziari da questo generati siano completamente e irrimediabilmente contra legem, e perciò costituiscano integralmente danno erariale, restando così preclusa qualsivoglia operazione compensativa.
Anche su questo punto, dunque, gli assunti difensivi vanno respinti
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 11.10.2013 n. 1347).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Al fine di determinare il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte a tenore del quale l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione (quale è ad esempio la variante al vigente P.G.T.).
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Il sindaco del comune di Legnano (MI), mediante nota n. 24233/2013, pervenuta alla Sezione in data 31.07.2013, chiede di conoscere il parere della Corte circa la possibilità di riconoscere l'incentivo previsto dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 in favore del personale del comune incaricato di redigere una variante allo strumento urbanistico generale.
Tale incarico prevede una revisione parziale dei documenti del vigente P.G.T., trattandosi, nella fattispecie, di una prestazione, non strettamente rientrante fra i compiti d'ufficio, e consiste nella “diretta redazione di un atto di pianificazione”, benché non correlata alla realizzazione di un’opera pubblica.
Il sindaco sottolinea che la valorizzazione delle professionalità interne dell’ente eviterebbe il ricorso ad onerosi incarichi esterni.
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Il quesito ripropone questioni che rientrano in un consolidato orientamento consultivo delineato dalla Sezione, posto che, a partire dalla deliberazione SRC Lombardia n. 1023/2010/PAR, l’orientamento della Sezione ha avuto ad oggetto i requisiti di legge per poter affidare ai dipendenti gli incarichi di progettazione, piuttosto che la qualificazione giuridica degli atti di pianificazione ai sensi dell’art. 93, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, a proposito della quale, il collegio si è espresso in termini potenziali e generali.
Al fine di determinare il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs., 12.04.2006, n. 163, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290, riportato nel precedente SRC Lombardia, deliberazione n. 453/2012/PAR. In termini SRC Lombardia deliberazione n. 452/2012), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione (quale è ad esempio la variante al vigente P.G.T.).
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione),
si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (In termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che
l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92 comma 7 del D.Lgs. 12.04.2006, n.163, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
Non sussistono pertanto motivi per discostarsi dagli orientamenti già espressi in materia (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.09.2013 n. 391).

ATTI AMMINISTRATIVITransazioni, esame dei revisori solo sugli atti del Consiglio. Corte conti. Il chiarimento della sezione di controllo del Piemonte.
La Sezione di Controllo della Corte dei Conti per il Piemonte, con il parere 26.09.2013 n. 345, va in soccorso dei revisori (e delle amministrazioni comunali), circoscrivendo con chiarezza il contenuto dell'articolo 239, comma 1, lettera b), del Tuel, la norma che stabilisce su quali atti sia necessario il parere dell'organo di controllo.
Il Dl 174/2012 ha rivisto infatti le attribuzioni dell'organo di revisione, ridefinendone e ampliandone i contenuti, ma suscitando dubbi e incertezze, in particolare sui pareri, con il risultato che i revisori sono stati inondati di richieste sulle questioni più varie.
La Corte dei conti del Piemonte risponde a un Comune che chiede se sia compito del collegio esprimersi o meno su tutte le proposte di transazione. Rispondendo, i magistrati contabili ribadiscono l'importante principio di carattere generale che: «L'esame di casi nei quali è richiesto il parere del Collegio conferma che si tratta di un'attività di collaborazione che riguarda le attribuzioni consiliari nelle materie economico-finanziarie, propedeutica all'assunzione delle delibere di competenza del Consiglio».
In sostanza, il Collegio si deve esprimere solo quando la competenza degli atti è consiliare. Pertanto, l'obbligo di parere è limitato a pochi e specifici casi, ovvero, ad esempio, le proposte di transazione riferite a passività per le quali non è stato assunto uno specifico impegno di spesa, gli accordi che comportano variazioni di bilancio, l'assunzione di impegni per gli esercizi successivi (articolo 42, comma 2, lettera i), del Tuel) o ancora le transazioni che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute (articolo 42, comma 2, lettera l) del Tuel).
Sempre in tema di transazioni, è utile ricordare che da tempo la Corte dei conti distingue con nettezza le transazioni dai debiti fuori bilancio, sottolineando che gli accordi transattivi non necessariamente comportano un atto di Consiglio comunale. È sintomatica la delibera 132/2010 della sezione di controllo per la Toscana, che, nell'ambito della sua «Relazione generale sul fenomeno dei debiti fuori bilancio e linee di orientamento in materia» precisa che «gli accordi transattivi presuppongono la decisione dell'Ente di pervenire ad un accordo con la controparte per cui è possibile per l'Ente definire tanto il sorgere dell'obbligazione quanto i tempi dell'adempimento».
In ragione di ciò, «nel caso in cui l'ente a fronte di una sentenza esecutiva, voglia (...) pervenire ad un accordo transattivo, non si rende necessario il riconoscimento della legittimità del debito che peraltro risulterebbe contraddittorio rispetto al contenuto della volontà transattiva che si vuole porre in essere».
In sostanza, le transazioni che devono essere sottoposte a parere obbligatorio dell'organo di revisione sono solo quelle destinate a essere oggetto di una decisione di Consiglio comunale, e non anche gli accordi che si concludono in determinazioni dirigenziali o atti di Giunta. Ancora, non dando necessariamente luogo a debiti fuori bilancio non dovranno, a differenza di questi ultimi, essere comunicati alla Procura della Corte dei conti (e quindi l'organo di revisione non dovrà neppure preoccuparsi di verificare ciò).
Gli orientamenti della Corte sono molto utili non solo ai revisori, che si liberano così di una incombenza, ma soprattutto alle amministrazioni comunali, perché da una parte contribuiscono a rimuovere le remore a stipulare transazioni, dall'altra a semplificare la procedura degli accordi transattivi (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2013).

ENTI LOCALIUtilizzare l'avanzo non è tabù. Il divieto vale in caso di ricorso reiterato o continuativo. Dalla Corte conti Piemonte un utile chiarimento per gli enti alla prese con gli assestamenti.
Il divieto di utilizzare l'avanzo di amministrazione non vincolato per gli enti che fanno ricorso all'anticipazione di cassa non si pone in termini assoluti, ma solo in presenza di un ricorso reiterato o continuativo a tale forma di finanziamento. Esso, inoltre, opera esclusivamente in costanza di utilizzo dell'anticipazione stessa.

Il doppio chiarimento è stato fornito dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti per il Piemonte nel recente parere 29.08.2013 n. 310 e risulta particolarmente utile agli enti che si apprestano a procedere all'assestamento di bilancio.
Come noto, il comma 3-bis dell'art. 187 del Tuel, introdotto dall'art. 3, comma 1, lett. h), del dl 174/2012, vieta l'utilizzo, da parte degli enti locali, dell'avanzo di amministrazione non vincolato, nelle situazioni previste dagli artt. 195 (Utilizzo di entrate a specifica destinazione) e 222 (Anticipazioni di tesoreria) del Tuel, fuorché per i provvedimenti di riequilibrio di cui all'articolo 193 dello stesso Tuel.
Come rileva il parere in commento, la ratio della norma richiamata è quella di impedire che enti in condizioni di cassa deficitarie possano incrementare le spese per effetto della capacità autorizzatoria del bilancio di previsione, senza un corrispondente effettivo incremento delle entrate di competenza.
Analogo discorso vale per l'utilizzo delle entrate a specifica destinazione, non a caso consentito per un importo non superiore all'anticipazione disponibile e con insorgenza di un vincolo su quest'ultima per una quota corrispondente.
Oltre alla salvaguardia degli equilibri contabili, il legislatore ha contemplato una sola deroga espressa al divieto, a favore degli enti che hanno fatto ricorso all'anticipazione per compensare il mancato introito del gettito dell'Imu a seguito della sospensione dell'obbligo di pagamento della prima rata disposta, per alcune tipologie di immobili, dall'art. 1 del dl 54/2013.
La sezione piemontese, invece, sulla base di una condivisibile interpretazione sistematica, chiarisce opportunamente che il divieto non si applica neppure alle situazioni in cui l'ente, pur sopperendo a momentanee carenze di liquidità, quantitativamente limitate, mediante anticipazioni di cassa tempestivamente rimborsate, sia comunque in grado di acquisire entrate sufficienti a garantire i propri equilibri di bilancio durante l'esercizio finanziario.
La pronuncia ha anche il pregio di chiarire un ulteriore aspetto controverso della disciplina in esame, ovvero la portata temporale del divieto.
In effetti, il ricorso all'anticipazione di tesoreria (così come, analogamente, l'utilizzo delle entrate a specifica destinazione) non si cristallizza, per così dire, in un momento preciso, ma è normalmente variabile nel corso dell'esercizio finanziario, ovviamente nei limiti quantitativi autorizzati dalla deliberazione della giunta. In altri termini, nel corso del medesimo esercizio, l'ente può andare in anticipazione, rientrare, riattivarla e rientrare nuovamente. In simili casi, il divieto opera solo in costanza di utilizzo dell'anticipazione di cassa, situazione in cui versa l'ente locale che, avendo deliberato in merito, non abbia ancora provveduto al relativo rimborso.
Sempre in tema di utilizzo dell'avanzo, ricordiamo che il parere n. 437/2013 della Corte dei conti Lombardia ha precisato che quest'anno i comuni possono applicarlo in parte corrente anche in sede di bilancio di previsione se provvedono ad approvare contestualmente la variazione generale di assestamento ex art. 175 del Tuel (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il gruppo dà diritto di parola. Non può intervenire il consigliere che resta da solo. La materia è rimandata al regolamento e allo statuto che possono prevedere diversamente.
Un consigliere comunale, fuoriuscito dal gruppo di appartenenza senza aderire ad altro gruppo, quante volte e per quanto tempo può intervenire nel corso della seduta consiliare? Può rendere, anche ai fini di una sua responsabilità, la dichiarazione di voto una volta terminata la discussione?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3 – art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000). In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia. Nel caso di specie, lo statuto del comune prevede che «ogni consigliere deve poter svolgere liberamente le proprie funzioni»; inoltre dispone che «i consiglieri si costituiscono in gruppi, secondo le modalità stabilite dal regolamento».
Peraltro, la disciplina dettata dallo statuto del comune non appare esaustiva, in quanto la norma citata si limita a fornire indicazioni in merito solo alla formazione dei gruppi all'atto dell'insediamento nel consiglio comunale. Il regolamento comunale prevede, invece, una disciplina più dettagliata, stabilendo, che i gruppi sono formati da un numero minimo di tre consiglieri, derogabile solo nel caso in cui si tratti di consiglieri eletti nella medesima lista. Solo in tale ultima eventualità è ammessa la costituzione di gruppi unipersonali, pertanto il consigliere che si distacchi dal gruppo originario e che non aderisca ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti al gruppo consiliare.
Per quanto riguarda gli interventi dei consiglieri nel corso delle sedute, il regolamento, nel disciplinare la facoltà di intervento, a volte fa riferimento al singolo consigliere, altre al gruppo consiliare, facendo supporre che colui che non appartiene a nessun gruppo, fattispecie indirettamente prevista, non possa intervenire nella discussione. In particolare, per le dichiarazioni di voto, una volta terminata la discussione, può intervenire, «un solo consigliere per ogni gruppo», formulazione che letteralmente escluderebbe la possibilità di esposizione della dichiarazione di voto da parte dei consiglieri che non appartengono ad alcun gruppo.
Il regolamento, pertanto, ha disciplinato gli interventi affidando maggiore spazio ai capigruppo in quanto questi agiscono in qualità di portavoce dei consiglieri che fanno parte dei medesimi gruppi, e di converso non ha riconosciuto al consigliere che per sua scelta non faccia parte di alcun gruppo gli stessi spazi previsti per i capigruppo, potendo invero svolgere i propri interventi nelle medesime modalità riconosciute ai singoli consiglieri non capigruppo.
Ciò posto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative, posto che, diversamente, sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a tali fonti di disciplina locale. Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAOSSERVATORIO VIMINALE/ Diritto di accesso.
È legittima la richiesta di accesso alle concessioni edilizie rilasciate da un comune, effettuata da un cittadino che esercita la professione di geometra ai sensi dell'articolo 10 del Tuel n. 267/2000?

L'articolo 22, comma 2, della legge n. 241/1990 prevede che «l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza».
In materia di enti locali, l'articolo 10 del dlgs n. 267/2000 dispone che tutti gli atti dell'amministrazione comunale sono pubblici, e rinvia alla previsione regolamentare la disciplina delle modalità di esercizio del diritto di accesso che deve essere assicurato a tutti i cittadini. L'art. 124 del dlgs n. 267/2000 prevede la pubblicazione all'albo pretorio di tutte le deliberazioni del comune, che pur essendo soggetta ad una limitazione temporale, consente, tuttavia, a chiunque di prendere visione degli atti prodotti.
In materia la commissione d'accesso ai documenti amministrativi del 27.03.2003, nonché il parere del 14.10.2003, hanno rinviato alla decisione n. 549 del 23.05.1997 con la quale il Consiglio di stato, V sezione, ha riconosciuto che «in virtù dell'art. 22 della legge 241 del 1990, qualsiasi soggetto abitante nel comune ha diritto di accesso agli atti relativi a una concessione edilizia rilasciata dal sindaco».
Secondo quanto rilevato dalla Commissione d'accesso, trattandosi di diritto del cittadino di accedere ai documenti del proprio comune, la materia è soggetta non alla disciplina generale della legge n. 241/1990 ma a quella particolare della legge 17.08.1942, n. 1150, che all'art. 31, comma 8, stabilisce che «chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali della concessione edilizia e dei relativi atti di progetto», e del dlgs. n. 267/2000 T.u. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, art. 10.
La legge n. 1150/1942 è stata sostituita, tra le altre, anche dal dpr n. 380 del 06/06/2001, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, il quale pur non avendo riproposto il contenuto dell'articolo 31, comma 8, ha mantenuto, all'art. 20, la disposizione relativa alla pubblicità del permesso di costruire mediante affissione all'albo pretorio, ferma restando la più generale applicazione dell' articolo 10 del T.u. n. 267/2000.
I permessi per costruire, pertanto, non sono soggetti a particolare riservatezza potendo essere conosciuti da qualsiasi cittadino, ferma restando la necessità del rispetto delle linee guida in materia di trattamento di dati personali per finalità di pubblicazione e diffusione di atti e documenti di enti locali, adottate dal Garante per la protezione dei dati personali con deliberazione n. 17 del 19.04.2007, nonché l'opportunità della valutazione in ordine alla individuazione di eventuali controinteressati che abbiano titolo ad essere avvisati con le modalità di cui all'articolo 3 del dpr 12.04.2006, n. 184. Nondimeno, la richiamata legge n. 241/1990, all'art. 24, comma 3, dispone che «non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni»
Tale assunto è stato confermato anche dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi che, con delibera in data 27.02.2013, ha rilevato che il diritto d'accesso ai documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non si atteggia come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in ambito locale.
Al contrario, da un lato, l'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e, dall'altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse, oltre che individuata o ben individuabile (così Cds, sez. VI, n. 820/1998) (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sito contaminato.
Proprietario non responsabile dell'inquinamento: a chi spetta l'onere di bonifica?
Domanda
Nel caso in cui il proprietario di un sito contaminato non sia anche il responsabile dell'inquinamento, e quest'ultimo non sia identificabile, a chi spetta l'onere di bonifica?
Risposta
La questione relative all’individuazione dei soggetti ai quali spetta l’onere di bonificare un sito contaminato è da sempre stata molto dibattuta, e ha visto la stessa giurisprudenza dividersi in due scuole di pensiero.
Da una parte ci sono quei giudici amministrativi che, evidenziando la necessità di far uso dei principî posti alla base della presunzione di responsabilità oggettiva del proprietario di un suolo, hanno affermato che:
• il proprietario di un sito contaminato si presume responsabile, secondo quanto previsto dalle regole civilistiche, dei danni cagionati a terzi dalle cose in custodia, inclusi i danni derivanti dall’inquinamento presente nel sito, salvo che non provi il caso fortuito o il fatto altrui;
• il principio comunitario «chi inquina paga» imputa il danno a chi si trovi nelle condizioni di controllare i rischi, cioè imputa il costo del danno al soggetto che ha la possibilità della cost-benefit analysis, per cui lo stesso deve sopportarne la responsabilità per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo in modo più conveniente.
Dall’altra, invece, quella giurisprudenza che, nel mettere in evidenza le conseguenze paradossalmente dannose per l’ambiente di tale impostazione ermeneutica "l’adozione di un criterio di responsabilità oggettiva in capo alle imprese, connesso a rischi oggettivi di impresa, non garantisce una migliore tutela del valore della difesa ambientale, rispetto ad un sistema di “due care”, perché finirebbe con l’incentivare il danno ambientale, invece di impedirlo o di portare a rimuoverne durevolmente le cause prima ancora che gli effetti, risultato che si ottiene solo promuovendo un corretto rapporto tra la produzione e l’ambiente”. Si tratta di una via semplice, perché facilmente percorribile: ipotizzando che la PA recuperi i costi integrali della bonifica a carico del proprietario-detentore incolpevole del suolo, spetterebbe a quest’ultimo la rivalsa sul precedente proprietario-possessore inquinante, con tutte le difficoltà operative che tale operazione comporta" ha affermato che la P.A. non può imporre ai soggetti che non abbiano alcuna responsabilità diretta con la contaminazione di un suolo, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento. Tale principio, conforme a quello comunitario del «chi inquina paga» vale, oltre che per le misure di bonifica, anche per le misure di messa in sicurezza d’emergenza.
Di recente, nell’analizzare questo contrasto giurisprudenziale, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’adunanza plenaria la seguente questione di diritto: in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina paga”, l’Amministrazione nazionale può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza, sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri sostenuti?
L’adunanza plenaria ha risposto in senso negativo, conformandosi all’orientamento contrario a qualsiasi ipotesi di responsabilità oggettiva: l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia ancora l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restano limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del testo unico ambientale, in tema di onere reali e privilegi speciale immobiliare.
Di conseguenza, nel caso in cui il proprietario di un sito contaminato non sia anche il responsabile dell’inquinamento, e quest’ultimo non sia identificabile, spetta al Comune territorialmente competente la realizzazione degli interventi di bonifica dei siti contaminati.
Nel caso in cui neanche l’amministrazione comunale provveda, spetta alla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica (07.11.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Responsabile del procedimento.
Solo qualora il responsabile del procedimento risulti titolare di posizione organizzativa, sarà legittimato a firmare i provvedimenti finali espressivi di volontà verso l'esterno.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di nominare un dipendente di categoria C, non titolare di P.O., quale responsabile del procedimento con firma di atti esterni (ad es., accertamenti).
La questione posta dall'Ente, riferita al responsabile del procedimento, va esaminata considerando la disciplina generale del procedimento amministrativo, così come dettata dalla l. 241/1990.
L'art. 5, comma 1 (Responsabile del procedimento), della predetta legge dispone che 'Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento, nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale'.
Il comma successivo stabilisce che, fino a quando non sia effettuata tale assegnazione, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla singola unità organizzativa competente.
Ciò significa che di norma il responsabile del procedimento coincide con il dirigente di ciascuna unità organizzativa o con il funzionario preposto all'ufficio stesso, che assume la veste di responsabile di tutti i procedimenti, a partire dal loro impulso fino alla loro conclusione.
La sua competenza in merito all'adozione del provvedimento finale discende, in primis, dalla posizione giuridica e professionale di dirigente di una pubblica amministrazione (e, per analogia, dalla titolarità di posizione organizzativa nelle amministrazioni locali prive di posizioni dirigenziali, ai sensi dell'art. 40 e successivi del CCRL del 07.12.2006), al quale, ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 107, comma 2 e 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000, è attribuita espressamente la competenza all'adozione di atti e provvedimenti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nell'ambito del suo potere di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.
Pertanto, il dirigente/titolare di posizione organizzativa preposto alla direzione di una unità organizzativa cessa dalla posizione di responsabile del procedimento nel momento in cui assegna il singolo procedimento ad altro dipendente addetto alla medesima struttura.
In tal caso, su questo soggetto nominato responsabile del procedimento vengono ad incentrarsi una serie di attribuzioni ampiamente descritte all'art. 6 della L. 241/1990, connesse all'impulso, agli avvisi, all'istruttoria, alla comunicazione del provvedimento e, soltanto quando ne abbia la competenza, all'adozione del provvedimento finale.
Infatti, per quanto concerne, nello specifico, il problema della competenza all'emanazione del provvedimento finale, la questione non può essere trattata separatamente dalla verifica della posizione giuridica e professionale del soggetto cui è affidata la rappresentanza esterna della pubblica amministrazione.
La necessità di tale verifica è resa evidente dalla combinazione della previsione di cui all'art. 5, comma 1, della l. 241/1990 richiamato, che prevede eventualmente l'adozione del provvedimento finale da parte del responsabile del procedimento, e della previsione di cui all'art. 6, comma 1, lett. e), della medesima legge, che prescrive che il responsabile del procedimento adotta il provvedimento finale 'ove ne abbia la competenza', ovvero, in caso contrario, impone la trasmissione degli atti all'organo competente per l'adozione.
In virtù del disposto dell'art. 4, comma 2, del d.lgs. 165/2001, solo i dirigenti (o figure equiparate come i titolari di posizione organizzativa) possono impegnare l'amministrazione verso l'esterno, per cui non sarà possibile attribuire il potere di gestione se non ai responsabili formalmente incaricati.
Un autorevole parere del Consiglio di Stato
[1] chiarisce la portata della figura del responsabile del procedimento, evidenziando che l'attribuzione di tali funzioni implica l'assegnazione della responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al procedimento, rimanendo 'solo eventuale' l'adozione del provvedimento finale, che resta, invece, attribuzione propria del dirigente/titolare di posizione organizzativa.
Ne consegue pertanto che le funzioni di responsabile del procedimento sono organizzative e propulsive e non hanno necessariamente natura dirigenziale.
Si ha conferma di un tanto anche esaminando le declaratorie riportate all'allegato A del CCRL del 07.12.2006, riferite alle categorie di inquadramento professionale C e D.
Nell'elencare le mansioni peculiari di dette categorie, si è evidenziato espressamente che vi rientra anche la possibilità di firma di atti finali, in quanto attribuita e relativa alle mansioni di competenza, laddove non aventi, però, contenuti espressivi di volontà con effetti esterni.
Dal quadro complessivo sopra delineato, emerge quali siano le rispettive competenze attribuite ed esercitabili da parte del responsabile del procedimento e da parte del dirigente/titolare di posizione organizzativa. In particolare, si sottolinea che rientra nella competenza esclusiva del dirigente/titolare di posizione organizzativa l'adozione e la conseguente firma di tutti gli atti finali, espressivi di volontà verso l'esterno (provvedimenti di autorizzazione, accertamenti, ecc.).
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[1] Cfr. Sez. I, n. 304 del 03.03.2004 (06.11.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione con ampliamento.
Domanda
A breve inizierò un intervento di ristrutturazione con un piccolo ampliamento che potrebbe rientrare in una casistica citata su un vostro fascicolo del 20.08.2012 ItaliaOggi Sette: Ristrutturazioni e risparmio energetico - nella pagina 3 al penultimo capoverso del capitolo che vi trascrivo testualmente: «... Possono, essere ammessi alla detrazione fiscale i costi degli interventi di ampliamento degli edifici esistenti, purché con tale ampliamento non si realizzino unità immobiliari utilizzabili autonomamente».
Chiedo se tale indicazione deriva da una risoluzione, da una circolare dell'Agenzia della entrate o da quale altro documento ministeriale.
Risposta
La guida alle agevolazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie (edizione di ottobre 2013, disponibile sul sito «agenziaentrate.it» nella sezione accessibile dalla home page dedicata alle guide fiscali) ribadisce, conformemente alla prassi pregressa, che alla detrazione del 50% possono essere ammessi gli ampliamenti di superfici e volumi preesistenti relativi alla creazione di servizi igienici (pag. 11) oppure (pag. 26) di volumi tecnici («Demolizione e/o costruzione di scale, vano ascensore, locale caldaia ecc. con opere interne ed esterne»).
Salvo quanto precede, se la ristrutturazione avviene, senza demolire l'edificio, con ampliamento dello stesso, allora la Guida precisa che la detrazione spetta solo per le spese riguardanti la parte esistente in quanto l'ampliamento configura, comunque, una «nuova costruzione», inclusi gli ampliamenti in attuazione dei «Piani Casa», come già precisato nella ris. n. 4/E/2011 (pag. 12).
Se questo è il caso oggetto del quesito, trova riscontro negativo la possibilità di fruire della detrazione per la parte in ampliamento.
Infine, la ristrutturazione potrebbe avvenire mediante demolizione e «fedele» ricostruzione, il che richiede il rispetto dei requisiti precisati dall'art. 3, 1° c., lettera d), del dpr n. 380/2001 (T.u. dell'edilizia): tale definizione è stata sensibilmente modificata dall'art. 30 del dl «del fare» (n. 69 del 21.6.2013, convertito dalla legge 09.08.2013 n. 98), cosicché, dal 21.08.2013, con l'eccezione dei fabbricati vincolati (per i quali continua a valere la vecchia definizione), se la ricostruzione rispetta il volume precedente e non anche la sagoma (fino alla citata modifica occorreva rispettare sia il volume che la sagoma preesistenti) costituisce comunque ristrutturazione. Diversamente, si ricade nella «nuova costruzione», alla quale non si può applicare la detrazione per il recupero edilizio.
Con questa ultima precisazione, frutto del recente aggiornamento normativo, deve essere intesa l'affermazione, contenuta a pag. 11 della Guida dell'Agenzia delle entrate, laddove si afferma che «per la demolizione e ricostruzione con ampliamento, la detrazione non spetta in quanto l'intervento si considera, nel suo complesso, una «nuova costruzione» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.11.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - EDILIZIA PRIVATA: Un consigliere comunale può accedere agli atti relativi al rilascio di un permesso di costruire e poi chiederne copia?
Un Comune ha chiesto un parere in merito alla richiesta di accesso agli atti, relativi al rilascio di un permesso di costruire e alle connesse comunicazioni, effettuata da un consigliere comunale. In particolare, il consigliere, che avrebbe già preso visione degli atti, ha successivamente chiesto copia della documentazione.
Il responsabile del servizio, in funzione della asserita natura riservata dei documenti, ha chiesto se sia obbligato a comunicare la richiesta del consigliere al titolare del permesso a costruire, nella qualità di interessato al procedimento e se sussista, in capo ai consigliere richiedente un dovere di "astensione", per eventuale conflitto di interesse, anche nel caso di accesso agli atti.

Al riguardo, come più volte sostenuto sia dalla Commissione per l'Accesso ai documenti amministrativi il "diritto di accesso" e il "diritto di informazione" dei consiglieri comunali nei confronti della Pa trovano la loro disciplina specifica nell'articolo 43 del Dlgs 267/2000 (Testo unico degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il "diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del Comune e della Provincia, nonché dalle loro aziende ed Enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento dei proprio mandato".
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (articolo 10 del Tuel) sia, più in generale, nei confronti della Pa quale disciplinato dalla legge 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dai consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della Pa, opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di! compiti di controllo e verifica dell'operato della maggioranza).
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la Pa si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (articoli 4 e 14 del Dlgs 265/2001) sancita per gli Enti locali dall'articolo 107 del Dlgs 267/2000, che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
La giurisprudenza dei Consiglio di Stato si è orientata nel senso di ritenere che ai consiglieri comunali spetti un'ampia prerogativa a ottenere informazioni, senza che possano essere opposti profili di riservatezza nel caso in cui la richiesta riguardi l'esercizio del mandato istituzionale, restando fermi, peraltro, gli obblighi dì tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali secondo la vigente normativa sulla riservatezza (secondo la quale, ai sensi dell'articolo 43, comma 2, Dlgs 18.08.2000 n. 267, i consiglieri comunali e provinciali "sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge").
L'eventuale segretezza (delle indagini o professionale) che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell'atto, ma al suo comportamento che non può essere divulgativo ("nei casi specificamente determinati dalla legge") del contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto in capo al consigliere comunale dal citato articolo 43 all'osservanza del segreto d'ufficio nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge, nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del Dlgs 196/2003 e successive modificazioni (in senso favorevole Tar Toscana, Firenze, Sezione II, 06.04.2007 n. 622).
Nel caso specifico, peraltro, occorre fare riferimento al parere della Commissione d'accesso del Comune … nonché al parere del ... di rinvio alla decisione n. 549 del 23.05.1997 con cui il Consiglio di Stato, V sezione ha riconosciuto che "in virtù dell'articolo 22 della legge 241/1990, qualsiasi soggetto abitante nel Comune ha diritto di accesso agli alt relativi a una concessione edilizia rilasciata dal sindaco".
In particolare, secondo quanto rilevato dalla Commissione d'accesso, trattandosi di diritto del cittadino di accedere ai documenti del proprio Comune, la materia è soggetta non alla disciplina generale della legge 241/1990, ma a quella particolare della legge 17.08.1942 n. 1150, che all'articolo 31, comma 8, stabilisce che "chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali della concessione edilizia e dei relativi atti di progetto" e dell'articolo 10 del Dlgs 267/2000.
Tuttavia occorre precisare che la legge 1150/1942 è stata sostituita, tra le altre anche dal Dpr 380/2001, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, il quale pur non avendo riproposto il contenuto dell'articolo 31, comma 8, tuttavia ha mantenuto all'articolo 20 la disposizione relativa alla pubblicità del permesso di costruire mediante affissione all'albo pretorio, ferma restando la più generale applicazione dell' articolo 10 del Tuel.
Ciò comprova ulteriormente che anche i permessi per costruire non sono soggetti a particolare riservatezza potendo essere conosciuti da qualsiasi cittadino, A maggior ragione, il consigliere comunale, essendo portatore di un interesse pubblico, non sindacabile dagli uffici comunali, non può essere escluso dall'accesso e conseguentemente ha diritto ad ottenere copia degli atti, fatto salvo il loro utilizzo per finalità esclusivamente istituzionali
(novembre 2013 - tratto da Guida agli Enti Locali).

NEWS

APPALTICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Appalti, sconti alle ditte verdi. Cauzioni e garanzie giù del 20% a chi è eco-certificato. Nel Collegato ambiente criteri ecologici minimi nei bandi.
Arriva un incentivo per gli operatori economici che partecipano ad appalti pubblici e sono muniti di registrazione Emas o Ecolabel: sarà ridotta del 20% la cauzione a corredo dell'offerta. Il bonus sarà esteso anche alla garanzia di esecuzione, prestata dall'aggiudicatario. E negli appalti pubblici di forniture e negli affidamenti di servizi diventeranno obbligatori anche i cosiddetti criteri ambientali minimi (Cam, definiti ai sensi del decreto interministeriale 11.04.2008): il costo di prodotti e dei servizi non sarà più riferito al mero prezzo di acquisto, ma al costo che il bene ha nel suo ciclo di vita. I nuovi criteri saranno vincolanti nei bandi e nei documenti di gara relativi agli acquisti della p.a., a partire dalla ristorazione collettiva e dalle derrate alimentari.

Sono due delle principali novità contenute in un disegno di legge collegato alla legge di stabilità, esaminato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri. Il testo reca disposizioni per promuovere misure di green economy e di contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali.
Ma andiamo per punti, dicendo subito che il Collegato estende anche il ventaglio applicativo del principio di responsabilità in capo al produttore di rifiuti. Che ricadrà anche sui proprietari di navi che trasportano carichi inquinanti. Petrolieri in primis.
Appalti verdi. Verrà introdotto un incentivo per le imprese munite di registrazione Emas (che certifica la qualità ambientale dell'organizzazione aziendale) e marchio Ecolabel (che certifica la qualità ecologica dei prodotti, comprensivi di beni e servizi). Come detto, partecipando ad appalti pubblici questi operatori beneficeranno di un taglio del 20% della cauzione a corredo dell'offerta. Beneficio che si estenderà anche alla garanzia di esecuzione, prestata dall'aggiudicatario. L'obiettivo è introdurre tra i criteri ambientali di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa anche quello per cui le prestazioni oggetto del contratto siano dotate di marchio Ecolabel. In più, tra i criteri, il collegato ambientale introduce anche il costo del ciclo di vita dell'opera, del prodotto o del servizio.
Sul fronte certificazioni ambientali, invece, basterà la mera Valutazione di impatto ambientale (Via) per autorizzare le attività di scarico in mare di acque derivanti da attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi. Stessa cosa per le attività di movimentazione fondali per la posa di cavi e condotte. Verranno, quindi, unificate in una sola le commissioni tecniche per il rilascio di Via (Valutazione di impatto ambientale), Vas (Valutazione ambientale strategica) e Aia (Autorizzazione integrata ambientale). La misura, che punta a contenere i costi a carico dello stato, detta anche un taglio dei componenti le rispettive commissioni. La cui attività, però, sarà svolta da sottocommissioni facenti capo alla commissione unificata.
Sul versante emissioni inquinanti, invece, il ddl esenta tutta una serie di impianti a scarso inquinamento dagli obblighi di incassare l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera. Avranno meno vincoli le linee di trattamento fanghi, gli essiccatoi agricoli, gli allevamenti in ambienti confinati a basso numero di capi e le cantine. Siano esse di vino, aceto e altre bevande fermentate. In più, i vincoli relativi al controllo delle emissioni a effetto serra decadranno anche per i velivoli di stato e per quelli legati alla sicurezza nazionale.
I cambi di governance. La prima rivoluzione di poteri riguarda i Parchi nazionali: il ddl punta a sottrarre la nomina dei direttori di Parco al ministro dell'ambiente, per affidarla ai rispettivi consigli direttivi. In più, viene disposta la cancellazione dell'albo direttori di Parco nazionale. Sul fronte rifiuti, invece, archiviato l'Osservatorio nazionale, tornerà al ministro dell'ambiente il compito di attuare le norme nel settore imballaggi e rifiuti di imballaggio. Al dicastero spetterà anche il controllo sui consorzi, la gestione del gettito del contributo ambientale e il riconoscimento dei sistemi autonomi di gestione imballaggi (articolo ItaliaOggi del 09.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAutorizzazione ambientale doc. Ma procedura più complessa in presenza di emissioni. Una circolare ministeriale sul placet unico che semplifica la procedura.
Autorizzazione unica ambientale obbligatoria per le imprese. Di tutte le dimensioni e tipologie. Una sola eccezione: quando l'impresa produce emissioni. In tal caso infatti va chiesta la più complessa autorizzazione generale.

Questo è il principio espresso dal Ministero dell'ambiente con la circolare 07.11.2013 n. 49801 di prot..
L'autorizzazione unica sostituisce ogni atto di comunicazione, notifica e autorizzazione previsto dalla legislazione vigente. Ed è finalizzata alla riduzione degli oneri burocratici connessi alla gestione dell'impresa. I tecnici di prassi ricordano che nel caso di attività di carattere autorizzatorio alla scadenza del primo dei titoli abilitativi il gestore è obbligato a richiedere l'autorizzazione unica ambientale. Salvo che ricorra una delle due ipotesi di deroghe sopra indicate. Al contrario nel caso di autorizzazione generale in scadenza il gestore ha la facoltà e non l'obbligo di richiedere l'autorizzazione unica.
È facoltà del gestore di ricorrere allo sportello unico delle attività produttive e di aderire all'autorizzazione generale. Lo sportello unico trasmetterà per via telematica all'autorità competente. Anche nelle ipotesi di attività soggette unicamente a più comunicazioni o autorizzazioni il gestore ha la facoltà di richiedere l'autorizzazione unica ambientale. Infatti l'articolo 3, 3 comma, del dpr 13.03.2013 n. 159 prevede che il gestore possa decidere di non avvalersi dell'autorizzazione ambientale quando l'impianto è soggetto esclusivamente alle comunicazioni o alle autorizzazioni generali alle emissioni.
Inoltre dal combinato disposto dell'articolo 3, commi 1 e 3, del dpr n. 159/2013 si evince che il gestore possa non avvalersi dell'autorizzazione unica ambientale anche quando l'impianto sia soggetto esclusivamente alle comunicazioni o alle autorizzazioni generali alle emissioni. In definitiva, quando l'attività è soggetta unicamente a più comunicazioni oppure, congiuntamente alle comunicazioni e alle autorizzazioni di carattere generale, il gestore ha la facoltà e non l'obbligo di richiedere l'Aua.
Occorre inoltre chiarire ricordano i tecnici del Ministero che il dpr 13.03.2013 n. 159 si applica solo alle piccole e medie imprese non soggette all'autorizzazione integrata ambientale. Ovvero a tutti gli impianti non soggetti all'autorizzazione integrata, quindi a prescindere dai requisiti dimensionali del gestore. Pertanto un impianto produttivo non soggetto all'Aia è soggetto all'Aua anche quando il gestore sia una grande impresa.
Il termini di presentazione della prima autorizzazione unica ambientale è quella legata alla scadenza del titolo. Per poter beneficiare della possibilità di continuare l'attività anche in caso di mancata risposta nei termini (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

EDILIZIA PRIVATAIL COLLEGATO IMPRESA/ Vendite e affitti salvi senza l'Ape. Niente nullità dei contratti. Al suo posto 500 euro di multa. Cessioni di credito Gse per tagliare i costi della bolletta elettrica.
La mancata allegazione dell'Attestato di prestazione energetica (Ape) ai contratti di vendita e ai nuovi contratti di locazione degli immobili non comporterà più la nullità dei contratti stessi, ma costerà solo una sanzione da 500 euro. Sparirà anche ogni obbligo di consegna dell'Ape in sede di trasferimento gratuito della proprietà degli immobili; di conseguenza non sarà più necessario prevedere una specifica clausola di avvenuta consegna dell'Attestato negli atti di trasferimento a titolo gratuito. La bolletta elettrica di imprese e cittadini, invece, potrebbe sgravarsi di oneri sulle tariffe anche fino al 20% nei prossimi anni (2 mld di euro circa): merito di nuovi titoli di credito che il Gestore dei servizi energetici (Gse) potrebbe immettere sul mercato, per attutire l'impatto sulla bolletta dei finanziamenti alle energie rinnovabili.

Sono queste le disposizioni più rilevanti in fatto di energia contenute nella bozza di ddl Collegato impresa alla legge di stabilità, presto sul tavolo del Consiglio dei ministri.
C'è poi una terza norma, sulle liberalizzazioni del mercato delle grandi locazioni a uso non abitativo, che modifica il regime delle Siiq (Società di investimento immobiliare quotate). E introduce un nuovo regime fiscale di esenzione e di distribuzione delle plusvalenze realizzate sugli immobili oggetto di locazione. Prevedendo, in particolare, l'esenzione di tali plusvalenze con un obbligo di distribuzione del 50% nei due anni successivi. Tra l'altro, viene anche disposta la riduzione della percentuale di distribuzione minima dell'utile da gestione esente dall'85% al 70%. Ma andiamo con ordine, partendo dall'Attestato di prestazione energetica.
Le modifiche in ambito Ape. In sede di conversione in legge del decreto legge 63/2013 sono stati introdotti due obblighi: produrre l'Ape e inserire una clausola di avvenuta consegna dello stesso attestato nei contratti di vendita, locazione e trasferimento a titolo gratuito di immobili. Inoltre, è stato introdotto il principio di nullità del contratto, in caso di mancata allegazione dello stesso Ape.
Ora, stando alla bozza del Collegato impresa, il governo sembra fare marcia indietro: vengono infatti cancellati i due obblighi di produzione dell'Ape e di inserimento della clausola di consegna per gli atti relativi ai trasferimenti a titolo gratuito. Lo scopo sembra essere quello di sanare una disparità di trattamento evidente che vede attualmente tali obblighi vigenti per la stipula di tutti gli atti: vendita, locazione e trasferimento gratuito di immobili. Ma sul piano delle sanzioni relative alla mancata allegazione dell'Ape, queste scattano solo nei casi dei contratti di vendita e di locazione.
In seconda battuta, il collegato Impresa punta a cancellare il principio di nullità del contratto quale sanzione oggi prevista per la mancata allegazione all'atto stesso dell'Ape: al suo posto si prevede una sanzione amministrativa pari a 500 euro. Importo che il governo considera «cumulabile» con le sanzioni previste a norma di legge (dlgs 192/2005, art. 15) per non aver già dotato l'intero immobile dell'Attestato.
La bolletta. Poiché le agevolazioni al rinnovabile e al fotovoltaico pesano su imprese e famiglie con oneri di sistema cresciuti dal 2010 al 2013 da 4,5 a 11 mld di euro l'anno (e un impatto medio sul prezzo dell'energia di circa 2,5 cent. di euro per kWh), il Collegato impresa prevede che il Gse, che oggi gestisce i fondi alle rinnovabili, ricorra al mercato finanziario con una operazione di cessione crediti, per un ammontare che ogni anno verrà stabilito dal ministro dello sviluppo economico. Su queste risorse verrebbero pagati gli interessi annuali e, a scadenza, il capitale. Il tutto a favore degli acquirenti dei titoli di credito (soggetti abilitati e istituti finanziari) e a spese dello Sviluppo economico.
Il gettito per pagare interessi maturati e capitale deriverebbe dalla raccolta delle tariffe elettriche, ma con un effetto di riduzione degli oneri legati alla componente A3 della bolletta per i prossimi anni e un incremento al termine dell'operazione. Quando la progressiva fine degli incentivi alle rinnovabili farà calare tali oneri. L'operazione però è sotto esame del ministro dell'economia. Ciò che preoccupa via XX Settembre è che la cessione crediti impatti sull'indebitamento netto dello stato. Ed Eurostat finisca per chiedere di consolidare il Gse nel bilancio pubblico del paese (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Diritti edificatori ipotecabili per finanziare le imprese.
Possibili i finanziamenti alle imprese con garanzia ipotecaria sui diritti edificatori, e cioè sulla cubatura dei terreni.

La bozza di disegno di legge Impresa, collegato alla legge di stabilità (presto sul tavolo del Cdm) integra l'articolo 2810 del codice civile che individua i beni capaci di ipoteca. Oltre agli immobili, l'ipoteca, dunque, potrà avere a oggetto anche i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale.
La relazione illustrativa allo schema di Collegato spiega che il decreto legge 70/2011 ha modificato l'art. 2643 del codice civile includendo al n. 2-bis, tra gli atti soggetti a trascrizione, anche i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori.
La cessione di cubatura è uno strumento per evitare effetti sperequativi dalle previsioni dei piani regolatori.
Ora il ddl semplificazione completa l'operazione e include tra i beni sui quali è possibile costituire il vincolo ipotecario anche i diritti edificatori.
Per diritti edificatori si intendono i diritti di edificare su una certa area e i contratti con i quali si cedono diritti edificatori sono contratti con cui si cede la cubatura realizzabile su una certa area.
Il decreto 70/2011 ha regolamentato i contratti di cessione di cubatura, prevedendo la trascrizione degli atti relativi a diritti edificatori.
Al fine di garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori, in base al modificato articolo 2643, comma 1, del codice civile, devono essere resi pubblici, attraverso la trascrizione, i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque definiti nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, e anche nelle convenzioni urbanistiche a essi relative.
Prima del 2011 i contratti di trasferimento di diritti edificatori erano diffusi nella prassi, ma non esplicitamente riconosciuti a livello legislativo.
Le sentenze riconoscevano, comunque, i contratti di cessione di cubatura come gli accordi con i quali una delle parti cede la facoltà di edificare dal proprio terreno a quello appartenente all'altra parte, compreso nella stessa zona urbanistica, per consentire di chiedere e ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello a cui avrebbe diritto.
Il decreto del 2011 ha codificato i contratti di cessione di cubatura e ne ha stabilito la trascrivibilità.
Ora il ddl semplificazione completa il quadro, consentendo la stipulazione di un contratto di garanzia, avente a oggetto i medesimi diritti ipotecari. La cubatura serve, quindi, per poter ottenere finanziamenti dalle banche.
Il risultato che si vuole raggiungere è, infatti, di carattere finanziario. Anche qui è utile citare la relazione governativa, secondo la quale scopo dell'intervento normativo è quello di consentire alle imprese di costruzione di accedere più agevolmente ai finanziamenti per lo svolgimento della loro attività ampliando l'ambito dei diritti suscettibili di ipoteca.
Da un punto di vista tecnico-giuridico è necessario integrare l'articolo 2810 del codice civile, in quanto l'elenco dei beni e dei diritti che possono essere costituiti in garanzia è ritenuto tassativo, e, pertanto, insuscettibile di estensione analogica fatta eccezione per i casi espressamente previsti da altre leggi speciali (quali, per esempio, i diritti inerenti a concessioni di beni pubblici). Quindi se l'articolo 2810 codice civile non ne fa menzione, il diritto edificatorio non potrebbe essere messo a garanzia ipotecaria.
L'articolo 2810 del codice civile, attualmente vigente, dichiara capaci di ipoteca i beni immobili, che sono in commercio con le loro pertinenze, l'usufrutto dei beni stessi, il diritto di superficie, il diritto dell'enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico.
Sono anche capaci d'ipoteca le rendite dello Stato nel modo determinato dalle leggi relative al debito pubblico, e inoltre le navi, gli aeromobili e gli autoveicoli, secondo le leggi che li riguardano. Sono considerati ipoteche i privilegi iscritti sugli autoveicoli a norma della legge speciale (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., il codice etico è per tutti. Sanzioni in caso di violazione. Anche per i collaboratori. La Civit, in qualità di Autorità anticorruzione, ha elaborato le linee guida per gli enti.
Tutto pronto per i codici etici delle singole amministrazioni.

La Civit ha approvato e pubblicato sul suo sito la deliberazione 24.10.2013 n. 75/2013 contenente le «Linee guida in materia di codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni (art. 54, comma 5, dlgs n. 165/2001)».
Si trattava di un passaggio fondamentale per la messa a regime del sistema anticorruzione, impostato dalla legge 190/2012 e dal dpr 62/2013, che contiene il codice nazionale di comportamento, al quale ciascun ente dovrà affiancare il proprio codice «personalizzato», seguendo quanto indicato dalle linee guida disciplinate dalla Civit nella sua veste di Autorità nazionale anticorruzione.
Il documento, pur non potendo entrare nel dettaglio sul «cosa» scrivere nei codici ci comportamento, è estremamente puntuale sul «chi» e sul «come» redigerlo. Un punto operativo è fondamentale, per quanto solo indirettamente ricavabile dalla delibera della Civit: i codici etici interni delle amministrazioni non debbono essere la ripetizione di quanto già prevede il dpr 62/2012, ma contenere solo specificazioni connesse alla tipologia delle attività lavorative e del rischio di comportamenti «corruttivi» rilevati. Per questa ragione occorre un coordinamento tra i codici e i piani triennali anticorruzione che debbono essere elaborati entro il 31 gennaio.
Adozione. Competente alla predisposizione dei codici è il responsabile della prevenzione della corruzione, mentre l'adozione del codice spetta all'organo di governo. La Civit consiglia, opportunamente, che l'elaborazione del testo sia condivisa anche con gli uffici dei procedimenti disciplinari e gli organismi indipendenti di valutazione, i quali ultimi, per altro, debbono fornire obbligatoriamente un parere preventivo. Sono tenute ad approvare i codici tutte le amministrazioni pubbliche, tra le quali ovviamente rientrano anche gli enti locali. In particolare, questi ultimi debbono adottare i codici «interni», ai sensi dell'intesa raggiunta il 24.07.2013 in sede di Conferenza unificata entro 180 giorni dall'entrata in vigore del dpr 62/2013 e cioè entro il 16.12.2013.
Procedura. La normativa impone di seguire una procedura aperta alla partecipazione. Secondo la Civit occorre coinvolgere non solo i sindacati, ma anche tutti i potenziali portatori di interesse, tra cui le associazioni rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti che operano nel settore. La partecipazione può avvenire in forma telematica, con la pubblicazione di un avviso e della bozza di regolamento, fissando un termine per la presentazione di osservazioni e proposte.
Controlli. I protagonisti principali dei controlli sul rispetto dei codici specifici di ogni amministrazione sono i dirigenti, che debbono assicurarne il rispetto. Si ricorda che destinatari non sono solo i dipendenti, ma anche collaboratori esterni e dipendenti delle aziende che prestano servizi per le amministrazioni. I codici interni debbono fornire indicazioni per stabilire in particolare quali collaboratori esterni siano soggetti al rispetto del codice e determinare le clausole obbligatorie di rispetto dei codici nei contratti di servizio. A vigilare sul rispetto dei codici da parte dei dirigenti provvede l'Oiv, supportato dal responsabile anticorruzione.
Effetti e formazione. La Civit ricorda agli enti di chiarire bene che le disposizioni dei codici etici interni sono vincolanti e la loro violazione comporta sempre violazione disciplinare. Allo scopo, occorrono diffusi interventi di illustrazione e formazione dei destinatari delle norme. Contenuto particolare dei codici interni sarà la graduazione delle sanzioni disciplinari da applicare in relazione alle violazioni.
Struttura. Oltre a specificare i destinatari, comprendendo con chiarezza tra essi anche i collaboratori in staff agli organi di governo, i codici hanno il precipuo scopo di determinare la soglia di valore dei regali «d'uso», anche imponendo limiti inferiori ai 150 euro. Inoltre, debbono dettare le modalità per restituire o devolvere i regali che i dipendenti non possono accettare. Altri contenuti speciali sono la determinazione degli ambiti di interesse di ciascun ente a conoscere l'appartenenza dei dipendenti ad associazioni, nonché la proceduralizzazione del conflitto di interessi. Occorre, cioè, stabilire come ogni dipendente debba dichiarare l'esistenza di una causa di impedimento a gestire una procedura al dirigente, che deve poi decidere in merito all'effettiva sussistenza del conflitto di interessi o meno (articolo ItaliaOggi dell'08.11.2013).

APPALTIPagamenti veloci negli appalti. I termini di 30 e 60 giorni si applicano anche ai lavori. Nel ddl europea-bis per il 2013 una norma che cristallizza l'interpretazione del Mise.
Pagamenti sprint negli appalti pubblici. Anche i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi o forniture e la realizzazione di opere per la p.a. saranno soggetti alla tempistica accelerata (30 giorni prorogabili fino a 60, ma solo in casi eccezionali) prevista dal decreto legislativo n. 192/2012 che ha recepito in Italia la direttiva sui ritardati pagamenti.

A sancire l'applicabilità delle nuove norme ai lavori pubblici è lo schema di disegno di legge europea per il secondo semestre 2013 che è stato esaminato ieri dal preconsiglio dei ministri.
Si tratta di una norma di interpretazione autentica che fuga ogni dubbio sull'estensione dei nuovi termini di pagamento agli appalti. In realtà, che i contratti di cui al dlgs 163/2006 non potessero sfuggire al decreto di recepimento della direttiva voluta dal vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajani, era già stato sancito dal ministero dello sviluppo economico con una circolare del 23.01.2013 (si veda ItaliaOggi Sette del 28/01/2013).
Il Mise aveva riconosciuto le lacune del dlgs 192 che non aveva accolto le indicazioni della direttiva 2011/7/Ue la quale invece nei «considerando» includeva nella nozione di «fornitura di merci e prestazione di servizi», rilevante ai fini della direttiva, anche «la progettazione e l'esecuzione di opere e di edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile».
Ma niente di tutto questo era stato trasposto nel testo del decreto legislativo che per di più si era limitato a modificare il dlgs 231/2002 senza sostituirlo integralmente. Di qui le incertezze sull'estensione dei pagamenti sprint agli appalti. Su sollecitazione dei costruttori edili e dello stesso Tajani (che aveva minacciato l'allora governo Monti di avviare un procedura di infrazione contro l'Italia qualora l'esecutivo non fosse intervenuto con una presa di posizione ufficiale), il dicastero ai tempi guidato da Corrado Passera era intervenuto a chiarire la necessità di «assoggettare anche i lavori pubblici a un'uniforme regolamentazione per i pagamenti derivanti dai relativi contratti» in modo da evitare distorsioni delle concorrenza.
Ma, pur trattandosi di una presa di posizione ufficiale, tale lettura non avrebbe potuto sanare i vizi del dlgs 192 che non ha applicato come avrebbe dovuto i princìpi contenuti nella direttiva comunitaria. Di qui la necessità di una norma di interpretazione autentica che è stata inserita nello schema di ddl.
L'art. 22 del provvedimento, oltre a far rientrare gli appalti pubblici nell'alveo della direttiva sui ritardati pagamenti, introduce una norma di favore per le imprese creditrici. Si prevede la possibilità di applicare termini di pagamento e tassi diversi rispetto a quelli dei dlgs 231/2002 e 192/2012 ma solo se più favorevoli per i creditori. Diversamente si applicheranno le regole generali che prevedono nelle transazioni commerciali tra p.a. e imprese, ma anche tra impresa e impresa (B2B), pagamenti entro 30 giorni con pochissime eccezioni.
Le parti, infatti, non possono decidere di allungare o meno i termini a proprio piacimento a meno che non vi siano circostanze eccezionali che legittimino lo slittamento del termine a 60 giorni (aziende pubbliche, sanità, particolari procedure di appalto come il dialogo competitivo). Al di fuori di questi casi, il periodo massimo per saldare le fatture resta di 30 giorni. Dopo scatteranno gli interessi di mora fissati dal 01.01.2013 all'8% più il tasso Bce (articolo ItaliaOggi del 07.11.2013).

TRIBUTIIntoppo sul ritorno alla Tarsu. La chance solo per chi non ha approvato il bilancio. Il Mef spiegherà nei prossimi giorni alle amministrazioni come abbandonare la Tares.
Solo i comuni che non hanno ancora approvato il bilancio 2013 potranno continuare ad applicare la Tarsu in vigore lo scorso anno. Tutti gli altri dovranno restare con la Tares, eventualmente modificando le tariffe già deliberate.
Il chiarimento è contenuto in una risoluzione che il Mef diffonderà nei prossimi giorni per fugare i numerosi dubbi interpretativi posti dall'art. 5 del dl 102/2013, così come modificato in sede di conversione. In particolare, verrà precisata la portata della seconda parte del comma 4-quater, che consente ai comuni di continuare ad applicare anche per quest'anno «la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu), in vigore nell'anno 2012».
Tale possibilità verrà concessa solo ai comuni che (avvalendosi della proroga al 30 novembre del relativo termine) non hanno ancora licenziato il preventivo. Tale condizione dovrebbe essere verificata assumendo a riferimento la data di entrata in vigore della legge 124/2013 (che ha convertito il dl 102), ovvero il 29 ottobre.
Al contrario, gli enti che, a tale data, hanno già approvato il bilancio potranno soltanto modificare i criteri di commisurazione delle tariffe, ma pur sempre all'interno del regime Tares. Ad essi, però, sarà consentito utilizzare tutta le altre forme di flessibilità consentite dall'art. 5. Come chiarito dall'Anci Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi di ieri), tale norma consente, nella sostanza, di applicare la Tares nello stesso modo in cui si applicava la Tarsu, senza la necessità di fare riferimento al piano finanziario o ai criteri di articolazione delle categorie e delle tariffe previste nel dpr 158/1999.
Inoltre, non vi è né l'obbligo di considerare le componenti di costo del piano finanziario, come il Carc, né quello di articolare le tariffe delle utenze domestiche per numero dei componenti della famiglia. L'unico vincolo riguarda la necessità di dare copertura integrale dei costi, che invece non sussiste per i comuni che potranno mantenere, anche formalmente, il regime Tarsu: in tali casi, anzi, per espressa previsione del comma 4-quater, «la copertura della percentuale dei costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del comune».
La circolare in via di definizione a via XX Settembre chiarirà anche un altro aspetto importante: per chi ha già dato il via libera al preventivo 2013, la revisione della disciplina dei tributi potrà essere disposta mediante una semplice variazione del documento contabile già approvato, così come chiarito dalla precedente risoluzione dello stesso Mef 1/2011. Non sarà, quindi, necessario procedere (come richiesto da alcune sezioni regionali della Corte dei conti) alla riadozione del bilancio, per la quale non ci sarebbero i tempi tecnici prima della dead-line del 30 novembre.
Infine, da segnalare che da ieri, sul sito del Ministero dell'interno, è consultabile il testo del Dpcm di riparto del fondo di solidarietà comunale, il cui procedimento è in corso di perfezionamento (articolo ItaliaOggi del 07.11.2013).

TRIBUTIImu, comodato senza tetto Isee. L'Anci Emilia-Romagna sul dl 102.
I comuni non sono obbligati a subordinare a un valore massimo di Isee la fruizione dei benefici «prima casa» a favore degli immobili concessi in comodato ai parenti.

Lo afferma l'Anci Emilia-Romagna, che nella dettagliata nota 29.10.2013 n. 182 di prot. interpretativa ha analizzato le principali novità introdotte in sede di conversione del decreto Imu (dl 102/2013).
Fra queste, il documento si sofferma anche sull'art. 2-bis, che consente ai comuni di equiparare all'abitazione principale, ai fini dell'Imu, le unità immobiliari (escluse quelle classificate in A/1, A/ 8 e A/9) e relative pertinenze concesse in comodato a parenti in linea retta entro il primo grado (ovvero da padri e figli e viceversa) che le utilizzano come abitazione principale. L'assimilazione è subordinata a una delibera comunale, da adottare entro il prossimo 30 novembre.
Ogni ente è chiamato a definire i criteri e le modalità per l'applicazione dell'agevolazione, «ivi compreso il limite dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee) al quale subordinare la fruizione del beneficio». Tale inciso, nella sua formulazione letterale, ha posto il dubbio se la definizione di un livello massimo di Isee sia o meno obbligatoria. La circolare Anci ammette che il testo si presta a diverse interpretazioni, ma ritiene che «non via sia l'obbligo per i comuni di subordinare il beneficio a un determinato livello di situazione economica».
Tale scelta, insomma, rientra nella piena discrezionalità dei sindaci, che possono valutare se, in regime di ristrettezze economiche, sia o meno opportuno concentrare gli aiuti sui soggetti più in difficoltà. Come gli altri contribuenti, quindi, anche quelli interessati dalla misura in commento dovranno attendere il 9 dicembre, data ultima entro la quale i provvedimenti assunti in materia di Imu dovranno essere pubblicati sul sito istituzionale di ciascun comune.
In ogni caso, l'assimilazione a prima casa, se e nei limiti in cui i comuni decideranno di introdurla, varrà solo ai fini del saldo di dicembre, che non sarà dovuto se sarà confermata l'esclusione anche della seconda rata per le abitazioni principali. Le somme versate in acconto, quindi, non sono in nessun caso rimborsabili (articolo ItaliaOggi del 06.11.2013).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni, bonus ampio. Anche il compromesso registrato consente il beneficio. Riportate dal governo le risposte delle Entrate ai quesiti più frequenti dei cittadini.
Anche il compromesso registrato, se consente l'immissione in possesso dell'immobile, può consentire la detrazione delle spese di ristrutturazione. Hanno diritto alle detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie non soltanto i proprietari degli immobili ma anche, per esempio, i locatari o i comodatari. A patto naturalmente che le fatture per le spese di ristrutturazione siano a loro intestate e che questi ultimi effettuino i pagamenti tramite bonifico bancario. Se invece i lavori di ristrutturazione sono effettuati in proprio, senza cioè l'ausilio di imprese edili, allora le detrazioni fiscali spetteranno solo per l'acquisto dei materiali necessari per l'intervento.

Sono queste alcune delle risposte alle domande più frequenti (c.d. Faq) messe on-line nella serata di ieri sul sito internet del governo, nell'ambito della campagna «rimetti la casa al centro del tuo mondo».
Le risposte fornite ai dubbi più frequenti dei cittadini italiani sono state redatte a cura dell'Agenzia delle entrate così come le tre guide operative che affiancano le Faq sul sito del governo. Si tratta, nello specifico, della guida alle agevolazioni per il risparmio energetico, della guida al bonus mobili ed elettrodomestici e della guida alle ristrutturazioni edilizie.
Tornando alle risposte fornite on-line sul sito del governo in materia di agevolazioni fiscali sulla casa, una delle più interessanti riguarda la possibilità di sfruttare le detrazioni Irpef anche prima di aver stipulato il rogito definitivo di acquisto dell'abitazione. Perché ciò possa realizzarsi nel concreto è necessario che sia stato stipulato e registrato un contratto preliminare di compravendita (il c.d. compromesso) e che nello stesso sia prevista l'immissione in possesso del futuro acquirente. Solo se si è immessi nel possesso del bene, precisa infatti l'Agenzia delle entrate, è possibile detrarre le spese per ristrutturazione edilizia sostenute nel periodo di tempo intercorrente fra la stipula del compromesso e l'atto definitivo di compravendita.
Possono accedere alle agevolazioni Irpef sulle ristrutturazioni edilizie anche soggetti che non sono né proprietari né titolari di altri diritti reali sull'immobile, come la nuda proprietà, l'usufrutto, l'uso o l'abitazione. Il caso esaminato è quello dell'inquilino che sostiene le spese per i lavori di ristrutturazione e che può accedere al bonus Irpef che spetta a chi sostiene la spesa e quindi anche al locatario o al comodatario.
Chiarimenti importanti da parte delle Entrate su quali sono in concreto i lavori finalizzati alla prevenzione di atti illeciti da parte di terzi che danno diritto alle detrazioni fiscali.
Fra queste tipologie particolari di spese, precisa l'Agenzia delle entrate, rientrano per esempio, gli interventi di rafforzamento, sostituzione o installazione di cancellate o recinzioni murarie degli edifici e ancora l'apposizione di grate sulle finestre o la loro sostituzione con infissi blindati, l'installazione di porte blindate o rinforzate; l'apposizione o la sostituzione di serrature, lucchetti, catenacci, spioncini; l'installazione di rilevatori di apertura e di effrazione sui serramenti; l'apposizione di saracinesche; tapparelle metalliche con bloccaggi, vetri antisfondamento, casseforti a muro, fotocamere o cineprese collegate con centri di vigilanza privati; apparecchi rilevatori di prevenzione antifurto e relative centraline.
Non sono soltanto le spese di ristrutturazione vere e proprie a dare diritto ai bonus fiscali. Nel novero delle spese agevolate rientrano infatti anche quelle per la progettazione o per le altre prestazioni professionali connesse e, in ogni caso, le spese per prestazioni professionali comunque richieste in relazione al tipo di intervento eseguito. Ovvio che anche in questo caso la parcella dell'architetto o del geometra dovrà essere intestata al soggetto fruitore dei benefici fiscali e dovrà essere pagata con le stesse modalità -bonifico bancario- previste per le fatture delle ditte esecutrici o fornitrici dei materiali edili (articolo ItaliaOggi del 05.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAManette per chi incendia rifiuti. Giro di vite in arrivo anche per chi si disfa del frigorifero. Il ministro dell'ambiente Orlando annuncia una stretta contro roghi e smaltimento illecito.
Manette pronte a scattare ai polsi di chi incendia rifiuti, e pene severe per coloro che (all'esterno delle discariche) si disfano di un vecchio frigorifero. E il giro di vite convergerà in una «riforma organica dei reati ambientali» poiché, essendo questi ultimi di carattere «contravvenzionale», in genere accade che vengano prescritti «prima ancora che si arrivi all'individuazione dei responsabili».

Un piano, quello anticipato dal ministro dell'Ambiente Andrea Orlando ieri, per agire con durezza su un fenomeno, quello degli eco-crimini, ormai tristemente d'attualità, grazie alle rivelazioni di un pentito della camorra sullo smaltimento illecito di materiale tossico e inquinante nella cosiddetta «Terra dei fuochi», situata fra le province di Napoli e Caserta.
Nell'area campana, riferisce, sono stati compiuti «passi importanti» per le bonifiche, così come state destinate «decine di milioni di euro ai comuni», e la regione ha indirizzato finora alle operazioni di recupero una somma pari a 300 milioni; a questo proposito, bisogna fare i conti con quello che prevede il Patto di stabilità interno, i cui vincoli fanno sì che anche quando anche gli stanziamenti per intervenire ci sono, «non si possono sbloccare. Ecco perché», va avanti, bisognerà trovare una soluzione all'interno della legge di stabilità, adesso al vaglio del Parlamento.
Molto, però, resta da fare sul fronte della messa in sicurezza di zone nelle quali gli abitanti segnalano da anni l'insorgenza di patologie tumorali legate all'esposizione a fattori nocivi per la salute: sulla base della «mappatura attualmente conosciuta degli interramenti fatti negli anni 90, siamo intervenuti nelle discariche abusive più pericolose. Diciamo», va avanti l'esponente governativo, che «un passo è stato fatto», e ne restano ora da compiere «altri due, o tre».
Quanto alla strategia per inasprire le pene a carico di chi commette delitti contro l'ambiente, Orlando lascia intendere che non saranno lunghi i tempi per l'approdo di un decreto legge in Consiglio dei ministri: quel che è necessario, dice, è attuare un restyling organico della materia, soprattutto per evitare che i reati «contravvenzionali» restino impuniti, finendo in prescrizione in anticipo rispetto all'accertamento dei responsabili.
Nella «black list» delle azioni segnalate c'è il fenomeno (assai frequente) degli incendi di materiale di scarto di qualunque natura, perseguibile con l'arresto del responsabile. Ma costerà caro anche abbandonare un elettrodomestico fuori dai luoghi autorizzati per la raccolta dei rifiuti (articolo ItaliaOggi del 05.11.2013).

APPALTITrasparenza nelle gare da 40.000.
Dal 29 ottobre regole più stringenti per le comunicazioni all'osservatorio dei contratti pubblici. È stata infatti allineata a 40 mila euro la soglia minima per le comunicazioni riguardanti gli appalti pubblici. In precedenza la soglia a partire dalla quale le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori dovevano ottemperare ali obblighi di comunicazione previsti dall'articolo 7 comma 8 del codice degli appalti (dlgs n. 163 del 2006) era di 150 mila euro.

Questo è quanto prevede il comunicato dell'autorità di vigilanza sui contratti pubblici pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 29.10.2013 n. 254. Per gli appalti successivi al 29.10.2013, data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del comunicato dell'Authority, passa da 150 mila a 40 mila euro la soglia a partire dalla quale le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori devono ottemperare ali obblighi previsti dall'articolo 7, comma 8, del codice degli appalti.
Le comunicazioni dei dati, da inoltrare all'osservatorio dei contratti pubblici, riguardano il contenuto dei bandi, i verbali di gara, i soggetti invitati, l'importo di aggiudicazione, il nominativo dell'affidatario, il nome del progettista, l'inizio e lo stato di avanzamento dei lavori, l'effettuazione del collaudo e l'importo finale. Per i contratti di lavori, servizi e forniture, di importo pari o superiore a 40 mila, dovranno essere inviati per i settori ordinari, i dati relativi all'intero ciclo di vita dell'appalto. Al di sotto dei 40 mila euro, invece, sarà necessaria solo l'acquisizione della smartcig.
Il comunicato del 22.10.2013 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 29 ottobre posticipa di circa sette mesi l'operatività dei nuovi obblighi di comunicazione. Infatti con il comunicato del 29 aprile scorso, infatti, era stato stabilito che le nuove regole delle comunicazioni riguardavano gli appalti pubblicati dal primo gennaio 2013 (articolo ItaliaOggi del 05.11.2013).

ENTI LOCALIDal decreto Pa sui sindaci arrivano 12 nuovi obblighi. Decreto Pa. Richieste di informazioni sui capitoli di spesa.
Per dare attuazione al Dl 101/2013 sul pubblico impiego (convertito dalla legge 125/2013), gli enti locali si trovano di fronte a 12 adempimenti, tra fornitura di informazioni, partecipazione a censimenti, deliberazioni e scelte da inserire nel programma per il fabbisogno del personale. Alcuni di questi adempimenti sono obbligatori –con sanzioni nel caso di inadempienza– altri sono una condizione per poter usare le opportunità previste dallo stesso provvedimento.
Questi vincoli si aggiungono ai numerosi compiti che gravano sui comuni, per la prima volta, in questi mesi: l'adozione del codice di comportamento integrativo (entro la metà di dicembre), del regolamento sulle incompatibilità (entro il 27.01.2014), del piano per la lotta alla corruzione e per la trasparenza (entro la fine di gennaio), la pubblicazione sul sito internet dei dati richiesti dal Dlgs 33/2013 (entro la fine di dicembre) e il regolamento sulla disciplina delle sanzioni per la violazione alle informazioni sugli amministratori. Vediamo, dunque, quali sono i principali adempimenti previsti dal Dl 101/2013.
Le amministrazioni che non partecipano al monitoraggio sulle autovetture dovranno tagliare ulteriormente le relative spese. Per i dirigenti e i responsabili che non trasmetteranno entro l'anno al dipartimento della Funzione Pubblica i dati disaggregati sulla spesa per le consulenze, matureranno la responsabilità disciplinare e quella amministrativa, e dovrà essere irrogata una sanzione compresa fra 1.000 e 5.000 euro. Si tratta della stessa sanzione prevista in caso di violazione degli accresciuti vincoli di spesa per il conferimento di questi incarichi. Inoltre, si dovrà prevedere nel bilancio preventivo l'istituzione di un capitolo di spesa dedicato a questa voce, fatti salvi gli incarichi previsti da specifiche leggi.
Nella programmazione del fabbisogno, le amministrazioni dovranno assumere a tempo determinato, se ne ricorrono le condizioni, gli idonei nelle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato e potranno deliberare di avvalersi delle graduatorie di altre Pa, anche per le assunzioni flessibili. Dovranno decidere, ancora – dopo aver partecipato al monitoraggio della Funzione pubblica e applicando i principi che saranno dettati in un Dpcm ad hoc di dare corso alla stabilizzazione dei lavoratori precari in possesso dei requisiti di anzianità triennale maturati alla data di conversione del decreto, il 30 ottobre (e non più, come nel testo iniziale, a quella della sua entrata in vigore) e dei Cococo che sono stati prestabilizzati, cioè assunti a tempo determinato, in base alle base delle previsioni delle leggi Finanziarie per il 2007 e per il 2008.
A latere, si deve decidere la proroga delle assunzioni a tempo determinato che raggiungono i 36 mesi: a differenza delle regole dettate dalla legge di stabilità 2013 questa possibilità è riservata esclusivamente alle figure che gli enti decidono di stabilizzare. Nello stesso documento, dovranno decidere di avvalersi delle graduatorie regionali degli Lsu e degli Lpu per le assunzioni di dipendenti per posti per i quali si prevede il requisito del possesso del titolo di studio della scuola dell'obbligo. Gli enti devono inoltre determinare quante unità di personale appartenente alle categorie protette devono avere in servizio e procedere alla loro assunzione, anche se sono soggetti a divieti di assunzione, e in deroga ai tetti di spesa (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2013).

EDILIZIA PRIVATAI controlli della Pa per il cambio sede. Monitorata la compatibilità.
Il trasferimento di sede di un'attività commerciale, ferme restando le specifiche normative assunte o da assumere in sede regionale, richiede un'autorizzazione da parte della pubblica amministrazione o comunque una comunicazione alla Pa.

Quindi, ai fini del trasferimento di un esercizio occorre, in primo luogo, verificare la compatibilità urbanistico-territoriale della nuova ubicazione prescelta. E, infatti, le prescrizioni contenute nei piani urbanistici –rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio– possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di iniziativa economica (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 2060/2012 ).
In sede di rilascio dell'autorizzazione al trasferimento, l'amministrazione terrà, pertanto, conto degli aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui si andrà a svolgere l'attività commerciale, con la conseguenza che l'amministrazione potrà legittimamente negare il trasferimento di sede di un esercizio ove sussistano ragioni di abusivismo o di non conformità del fabbricato rispetto alle prescrizioni urbanistiche.
In generale, dunque, l'esercizio di un'attività commerciale deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del titolo autorizzatorio, sia per l'intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui viene svolta l'attività (Consiglio di Stato, sezione V - sentenza n. 5590/2012).
Le autorizzazioni
Le future liberalizzazioni in materia di tutela della concorrenza porteranno le Regioni ad assumere specifiche normative che, quantomeno, agevolino l'ottenimento delle autorizzazioni commerciali. Le autorizzazioni (richieste dal Dlgs 114/1998, in forma espressa o tacita, per le medie e grandi strutture di vendita) rappresentano uno degli elementi essenziali di un'azienda commerciale. Il passaggio di gestione o di proprietà di un'azienda commerciale, come recentemente precisato dalla giurisprudenza, reca in sé anche il diritto al trasferimento della relativa autorizzazione e la facoltà per il subentrante di continuare l'attività, se in possesso dei prescritti requisiti (Consiglio di Stato, sentenza n. 3035/2011).
I giudici amministrativi hanno anche precisato che, una volta che un'azienda sia stata trasferita a un terzo, la pubblica amministrazione dovrà procedere alla voltura dell'autorizzazione in favore dell'acquirente, non potendo in alcun caso subordinare il subingresso al consenso del cedente e originario intestatario del titolo (Consiglio di Stato sezione V, sentenza n. 853/1988).
Il "valore" del titolo abilitativo è, ad ogni modo, direttamente connesso agli altri elementi che costituiscono l'esercizio commerciale. Il valore di un'azienda muta al variare di diversi parametri, tra i quali rilevante è l'ubicazione dell'esercizio: e difatti, a parità di superficie, un esercizio collocato su una viabilità ad ampio scorrimento avrà maggiore capacità di attrarre clientela. In tale ottica, il trasferimento della sede dell'azienda può contribuire a migliorare le capacità di reddito dell'impresa (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, la partenza è graduale. Stop sanzioni fino al 1° agosto 2014. Obblighi allargati. Regime transitorio ampliato dalla legge n. 125/2013. Inclusi gli operatori intermodali.
Sospensione delle sanzioni Sistri fino al 01.08.2014 con parallelo obbligo di tenere nelle more (anche) le ordinarie scritture ambientali (Mud compreso), inclusione nel nuovo sistema di tracciamento telematico sia degli ausiliari del trasporto intermodale che di tutti i trasportatori professionali di rifiuti urbani pericolosi (in via sperimentale, dal 30.06.2014).

Questo l'assetto dato dalla legge 30.10.2013 n. 125 di conversione del dl 101/2013 al sistema di controllo dei rifiuti partito lo scorso 01.10.2013.
Il nuovo provvedimento (pubblicato sulla Guri del 30.10.2013 n. 255 e in vigore dal giorno successivo) conferma gli altri termini di operatività previsti dall'originario testo del dl 101/2013 (01.10.2013 per gestori, 03.03.2014 per gestori di rifiuti speciali pericolosi e operatori della Regione Campania) e viene seguita a stretto giro da una circolare interpretativa del Minambiente (pubblicata sul sito web del Dicastero nella serata del 31.10.2013) che sostituisce la precedente nota diramata in ottobre.
Proroga sospensione di sanzioni e doppio binario. La nuova legge proroga seccamente di dieci mesi (da calcolarsi a partire dal 01.10.2013) l'oramai noto periodo transitorio composto dalla sospensione dell'applicazione delle sanzioni Sistri e dal contemporaneo obbligo di continuare ad adempiere (insieme ai nuovi oneri telematici di trasmissione dati con chiavetta usb e black box) al tracciamento cartaceo tradizionale dei rifiuti. Lo slittamento unico salda e allunga i due precedenti e differenti regimi transitori che sarebbero terminati, rispettivamente per gestori e produttori di rifiuti, il 01.11.2013 e il 03.04.2014.
In base al nuovo assetto, fino al prossimo 01.08.2014 (data indicata dal Minambiente come termine di applicabilità delle sanzioni Sistri) tutti i soggetti Sistri in operatività dovranno di conseguenza: onorare la tenuta dei registri di carico/scarico e formulario di trasporto rifiuti secondo (come specifica la legge) la relativa disciplina prevista dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 precedenti alle modifiche di allineamento al Sistri apportate dal dlgs 205/2010 (c.d. versione «classica» vs. versione «Sistri compatibile»); effettuare l'annuale dichiarazione ambientale Mud entro la rituale data del prossimo 30 aprile (e ciò in virtù dell'espresso richiamo fatto dalla nuova legge 125/2013 all'articolo 189, sempre versione classica, del Codice ambientale che la impone).
Revisione del (futuro) regime di tracciamento tradizionale. Il legislatore si porta con il nuovo provvedimento avanti, ritoccando ulteriormente la versione «Sistri compatibile» dei citati articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 che entreranno in vigore dal prossimo 02.08.2014. E ciò, si ritiene, sia per eliminare alcune incongruenze normative introdotte con le modifiche apportate dal dlgs 205/2010 sia per aggiornare alla luce delle ultime novità il quadro degli adempimenti a carico dei soggetti che, avendone solo facoltà, non aderiranno al Sistri e continueranno con il tracciamento cartaceo dei rifiuti. Nell'effettuare tale upgrade il legislatore segue la logica di obbligare al regime cartaceo quanti non scelgono il Sistri, ma con alcune eccezioni.
Secondo il tenore del nuovo (futuro) articolo 190 del Codice ambientale non sono infatti obbligati a tenere i registri sia enti e imprese produttrici di rifiuti speciali non pericolosi derivanti da attività commerciali e di servizio sia coloro che effettuano attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi di cui sono produttori iniziali. Il formulario (ex futuro articolo 193, stesso dlgs 152/2006) diventerà invece obbligatorio per tutti gli enti e le imprese che, trasportando rifiuti, che avendone facoltà non aderiranno al Sistri.
Nuovi soggetti interessati: operatori dell'intermodale. A fianco di produttori e gestori, la legge di conversione del dl 101/2013 (ri)colloca tra i soggetti obbligati al Sistri coloro che svolgono attività ausiliarie del trasporto intermodale di rifiuti speciali pericolosi, ossia i soggetti cui tali rifiuti vengono affidati durante i trasferimenti da un mezzo all'altro (i c.d. «trasbordi» strada-rotaia, rotaia-mare, strada-mare, terra-aria). Operatori logistici, pur previsti dal dlgs 152/2006 e relativo dm attuativo 52/2011 (c.d. «Testo unico Sistri») rimasti fino ad oggi in stand-by a causa della loro mancata inclusione, da parte dell'originaria versione del dl 101/2013, nell'ultimo calendario di operatività sistema di tracciamento telematico.
La loro inclusione tra i soggetti obbligati non scatterà però (ad avviso dello scrivente) subito, essendo tale previsione dalla legge 125/2013 stata disposta non direttamente, ma solo indirettamente tramite la modifica della nuova versione dell'articolo 188-ter del Codice ambientale apprestata dal citato dlgs 205/2010, versione che entrerà in vigore (insieme a quelle «Sistri compatibili» dei più sopra ricordati articoli 190 e 193, stesso Codice) solo alla fine del citato periodo transitorio.
Nuovi soggetti interessati: trasportatori rifiuti urbani (pericolosi). Ferme restando le disposizioni per gli operatori della Campania (comuni e imprese di trasporto della Regione obbligati dal 03.03.2014 in relazione ai rifiuti urbani) la nuova legge 125/2013 allarga il novero dei soggetti obbligati al Sistri in virtù della gestione di rifiuti urbani pericolosi, mettendo a fianco di Enti o imprese di trattamento, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione anche raccoglitori e trasportatori a titolo professionale dei stessi rifiuti. Per tutti l'obbligo è però previsto a titolo sperimentale, solo a partire dal 30.06.2014 e subordinatamente all'adozione di specifico decreto da parte del Minambiente (articolo ItaliaOggi Sette del 04.11.2013).

EDILIZIA PRIVATAApe, l'obbligo è per tutti gli atti. Attestato da allegare non solo ai contratti di vendita. L'interpretazione della nuova certificazione energetica in uno studio del Notariato.
Attestato di prestazione energetica obbligatorio per tutti gli atti onerosi con effetto traslativo e non solo per la compravendita.

Questa la rigorosa interpretazione fatta propria dal Consiglio nazionale del notariato nel recentissimo e ampio studio 28.10.2013 n. 657-2013/C che ha investigato la nuova disciplina della certificazione energetica degli edifici introdotta dal dl n. 63/2013 (convertito con legge 03.08.2013 n. 90), con il passaggio dall'attestato di certificazione al c.d.
Ape. Tra le numerose novità introdotte dal legislatore è da tempo sotto i riflettori la questione dell'ambito oggettivo di applicazione dell'obbligo di allegazione del nuovo attestato di prestazione energetica. La nuova norma parla espressamente di contratti di vendita, atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito e di nuovi contratti di locazione, sancendo la nullità dei relativi atti in caso di inottemperanza.
Si tratta di una disposizione che ha messo in allarme gli operatori del mercato immobiliare e le associazioni di categoria, tenuto conto del fatto che la nuova disciplina rimane di fatto inapplicabile fino all'emanazione, da parte del ministero dello sviluppo economico, degli specifici decreti previsti dal medesimo dl n. 63/2013 per l'individuazione dei criteri e contenuti obbligatori dell'Ape. Tra gli atti traslativi a titolo oneroso la nuova disposizione limita dunque espressamente l'obbligo di allegazione dell'Ape ai soli contratti di vendita.
Tuttavia, secondo i notai, per ragioni sistematiche detto obbligo dovrebbe essere prudenzialmente esteso anche agli altri atti rientranti nell'anzidetta categoria che abbiano per oggetto un bene immobile per il quale sia obbligatoria la dotazione della certificazione energetica, dalla permuta all'assegnazione di alloggi ai soci delle cooperative edilizie, dalla datio in solutum alla transazione, dal conferimento di edifici in società alla costituzione di rendita vitalizia.
Per quanto riguarda invece gli atti traslativi caratterizzati da uno spirito di liberalità, l'obbligo di allegazione non riguarda soltanto la donazione, ma anche i patti di famiglia, il fondo patrimoniale, l'assoggettamento di un bene immobile alla comunione legale dei beni, l'adempimento di un'obbligazione naturale e il trust. Per quanto riguarda i contratti di locazione lo studio del notariato si limita invece a osservare che perché scatti il predetto obbligo deve trattarsi di una nuova locazione e non, ad esempio, di un nuovo contratto che rinnovi, proroghi o reiteri un precedente rapporto di locazione. L'Ape dovrà invece essere allegato in caso di sub-locazione.
Due casi particolari sono poi rappresentati rispettivamente dal preliminare di compravendita e dal trasferimento di un immobile in esecuzione di un verbale di separazione consensuale omologato o in esecuzione di una sentenza di divorzio. Nella prima fattispecie si ritiene infatti che si esuli dall'ambito di applicazione del nuovo obbligo, in quanto trattasi di contratto privo di effetti traslativi. Nel secondo caso, al contrario, si tratta sicuramente di un atto traslativo, che trova la propria causa nella regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Anche se di norma in questi casi non è previsto un corrispettivo a carico del coniuge assegnatario, il notariato, in base alla predetta interpretazione sull'assoggettabilità a detto obbligo di tutti gli atti traslativi, in questo caso ritiene sussistente l'obbligo di allegazione dell'attestato di prestazione energetica (articolo ItaliaOggi Sette del 04.11.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sia l’art. 11 del DPR 380/2001 sia l’art. 36 della L.R. 28/12/1978 n. 71 consentono che il permesso di costruire, ovvero la concessione edilizia, possano essere richieste anche dal promissario del terreno, a condizione che al momento del materiale rilascio sia conosciuto il destinatario obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del contributo del costo di costruzione.
Con un unico motivo ricorso il ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato sia sotto il profilo della erronea valutazione operata dal Comune circa la mancanza di legittimazione del richiedente al rilascio del titolo edificatorio, sia in ordine alla falsa applicazione di legge relativamente alle altre due motivazioni che lo sorreggono, ritenendo di avere adeguatamente dimostrato al Comune che il fondo risulterebbe di fatto intercluso, perché delimitato da due strade, nonché che la zona sarebbe intensamente edificata e dotata di tutte le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sicché non sarebbe necessaria l’elaborazione di un piano di lottizzazione.
La prima censura deve essere accolta, nel senso che sia l’art. 11 del DPR 380/2001 sia l’art. 36 della L.R. 28/12/1978 n. 71 consentono che il permesso di costruire, ovvero la concessione edilizia, possano essere richieste anche dal promissario del terreno, a condizione che al momento del materiale rilascio sia conosciuto il destinatario obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del contributo del costo di costruzione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 08.11.2013 n. 2071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie sull'ammontare dei contributi di concessione edilizia involgono diritti soggettivi; per cui il relativo pagamento non comporta acquiescenza alla liquidazione dei contributi medesimi e non preclude la tutela giurisdizionale contro gli atti relativi, dovendo piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell'attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell'opera progettata.
In via preliminare, va disattesa l’eccezione di irricevibilità e/o inammissibilità del ricorso, sollevata dal resistente Comune di Agrigento, in quanto è noto che le relative controversie sono soggette all’ordinario termine di prescrizione e non a quello decadenziale (cfr., da ultimo, TAR Sicilia–Catania sez. I - 26.09.2013, n. 2287).
Peraltro, le controversie sull'ammontare dei contributi di concessione edilizia involgono diritti soggettivi; per cui il relativo pagamento non comporta acquiescenza alla liquidazione dei contributi medesimi e non preclude la tutela giurisdizionale contro gli atti relativi, dovendo piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell'attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell'opera progettata (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 12.10.1990, n. 716; TAR Sicilia–Palermo – sez. I, 30.09.2002, n. 2715) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 08.11.2013 n. 2066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell'inottemperanza d'ingiunzione di demolizione e al decorso del termine di legge, che ne costituiscono i presupposti. Ne consegue che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe alla p.a. un peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura della acquisizione.
E’, infatti, incontroverso in giurisprudenza l’orientamento, secondo il quale l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell'inottemperanza d'ingiunzione di demolizione e al decorso del termine di legge, che ne costituiscono i presupposti. Ne consegue che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe alla p.a. un peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura della acquisizione (per tutte Consiglio di Stato, V, 27.04.2012, n. 2450; TAR Campania Napoli, II, 21.06.2013, n. 3203) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 08.11.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare pubbliche trasparenti. Diritto penale. Per la sanzione basta l'inquinamento della procedura.
Massima severità a presidio della trasparenza dei bandi della pubblica amministrazione. Anche se la bozza di bando frutto di collusione non si è poi tradotta nella versione definitiva, la pena prevista dall'articolo 353 del Codice penale scatta egualmente.

Lo sottolinea la Corte di Cassazione con la sentenza 07.11.2013 n. 44896 della VI Sez. penale depositata ieri. La pronuncia sposa un concetto esteso di turbativa in coerenza con la classificazione come «di pericolo» del reato stesso.
L'obiettivo della norma penale è infatti quello di mettere in sicurezza la fase dei pubblici incanti antecedente alla pubblicazione del bando. L'azione illecita consiste allora nel turbare attraverso atti predeterminati (violenza, minaccia, doni, promesse, collusione o altri mezzi fraudolenti) il procedimento amministrativo di formazione del bando per condizionare la scelta del contraente. E allora il reato si consuma indipendentemente dal raggiungimento dell'obiettivo. «Per integrare il delitto, dunque, non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata». È sufficiente invece un inquinamento del procedimento amministrativo.
Cosa che, nel caso approdato in Cassazione, si è appunto verificata quando un sindaco ha consegnato al funzionario responsabile dell'ufficio appalti pubblici la bozza del bando frutto di un accordo collusivo. E nulla conta il fatto che poi il funzionario ha rifiutato l'imposizione e proceduto alla redazione di una diversa versione del bando (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILicenziato il dipendente che gioca con il computer. Cassazione. Provocato un danno economico all'azienda.
Rischia il licenziamento il dipendente sorpreso a giocare, anche per ore, al computer in ufficio invece di svolgere il suo lavoro.

Lo puntualizza la Corte di Cassazione, con la sentenza 07.11.2013 n. 25069 della Sez. lavoro, depositata ieri.
La pronuncia ha accolto il ricorso di una società contro il giudizio della Corte d'appello di Roma che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato a un dipendente accusato di «avere utilizzato, durante l'orario di lavoro, il computer dell'ufficio per giochi, con un impiego calcolato nel periodo di oltre un anno di 260-300 ore», provocando così un danno economico e di immagine all'azienda. Un giocatore compulsivo, quindi, la cui condotta era di gravità di tale, nella valutazione aziendale, da motivare l'interruzione del rapporto di lavoro.
I fatti risalgono al 2007: in primo grado, il tribunale di Roma aveva confermato il licenziamento, mentre la Corte d'appello ha invece deciso di annullarlo, condannando il datore di lavoro a riassumere entro tre giorni il dipendente o a risarcirlo con sei mensilità. La decisione dei giudici di secondo grado era stata motivata dal fatto che, nella lettera di contestazione che era stata indirizzata al lavoratore, si faceva riferimento a un solo episodio concreto. In questo modo, nella lettura dei giudici di secondo grado, la lettera, per la sua genericità, non lasciava margini sufficienti di difesa al dipendente.
Per la Corte d'appello, però, il monitoraggio del computer effettuato dall'azienda, dal quale era emerso il suo improprio utilizzo, non poteva configurare un esempio di (illecito, secondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori) controllo a distanza, visto che il lavoratore stesso aveva «probabilmente» acconsentito.
La Sezione lavoro ha invece accolto il ricorso dell'azienda sottolineando che «l'addebito mosso al lavoratore di utilizzare il computer in dotazione a fini di gioco non può essere ritenuto logicamente generico per la sola circostanza della mancata indicazione delle singole partite giocate abusivamente dal lavoratore». Per la Cassazione è dunque illogica la motivazione della sentenza d'appello «che lamenta indicazione specifica delle singole partite giocate, essendo il lavoratore posto in grado di approntare le proprie difese anche con la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici isolati, il computer aziendale».
In questo senso ha trovato accoglienza la tesi della difesa dell'azienda che aveva tra l'altro messo in evidenza come la lettera di contestazione in realtà conteneva elementi precisi dell'addebito contestato, grazie anche a un accertamento tecnico da cui risultava il numero complessivo delle partite giocate. La Corte d'appello di Roma, dunque, dovrà riaprire il caso «non considerando generica la lettera di contestazione da cui poi è conseguito il licenziament(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIOIl rumore si valuta con criteri ampi. Condominio. Cassazione su decibel e ascensore.
Se l'ascensore è rumoroso, il problema è condominiale e non del singolo proprietario.

La II Sez. civile della Corte di Cassazione, presieduta da Roberto Triola, ha depositato ieri la sentenza 06.11.2013 n. 25019, con la quale ha esaminato il caso di una condòmina che chiedeva che venissero dichiarate illegittime le immissioni acustiche dell'ascensore e che il condominio provvedesse a realizzare «tutte le conseguenti opere necessarie».
Il Giudice di pace di Ancona dichiarava effettivamente l'illegittimità delle immissioni. L'appello del condominio veniva rigettato dal Tribunale di Ancona, che lo condannava anche alle spese.
La Cassazione ha anzitutto ricordato che i criteri adottati per definire la normale tollerabilità, cioè quelli definiti dal Dpcm del 01.03.1991, essendo meno rigorosi di quelli desumibili dall'articolo 844 del Codice civile, sono comunque accettabili. Possono cioè essere utilizzati anche per individuare la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo.
Ma il Tribunale di Ancona aveva preso a parametro proprio il superamento di 3 decibel del rumore di fondo ma ampliando anche il dettato dell'articolo 844 del Codice civile con la valutazione del livello medio dei rumori di zona (a carattere residenziale e con scarsa presenza di attività commerciali e di servizi), alle rilevazioni e agli accertamenti delle Asl e al riconoscimento della loro rumorosità (non fisiologica) da parte della stessa assemblea condominiale. E in ogni caso, ha ricordato la Cassazione, il giudice di merito può discostarsi dalle norme dettate a tutela dell'ambiente, secondo il suo «prudente apprezzamento», e utilizzare il criterio dell'articolo 844 del Codice civile, senza che questo sia oggetto di sindacato di legittimità.
La Cassazione ha quindi rigettato tutti i motivi di ricorso indicato dal condominio e confermando anche la condanna al pagamento di tutte le spese che il Tribunale di Ancona aveva espresso ribaltando quanto disposto al riguardo dal Giudice di Pace (articolo Il Sole 24 Ore del 07.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza, ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10 è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale, e dunque anche quando si tratti della realizzazione di una antenna destinata a stazione radio, poiché col termine “costruzione” si intende non soltanto un edificio caratterizzato da volumetria e superfici calpestabili, ma qualsiasi opera o manufatto da collocare sul territorio, la cui realizzazione è consentita nei limiti previsti dallo strumento urbanistico o da un atto ad esso equivalente.
Più puntualmente in relazione a fattispecie analoga al caso in esame, è stato affermato che l'installazione di un'antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi del cit. art. 1 della legge n. 10 del 1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione edilizia e che tale principio è stato recepito dal d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il quale, all'art. 3, assoggetta a permesso di costruire “l'installazione di torri e tralicci per impianti radio -ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, appunto in quanto "interventi di nuova costruzione”.

La Sezione concorda col primo giudice laddove ha ricordato che, per pacifica giurisprudenza, ai sensi dell'art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10 è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale, e dunque anche quando si tratti della realizzazione di una antenna destinata a stazione radio, poiché col termine “costruzione” si intende non soltanto un edificio caratterizzato da volumetria e superfici calpestabili, ma qualsiasi opera o manufatto da collocare sul territorio, la cui realizzazione è consentita nei limiti previsti dallo strumento urbanistico o da un atto ad esso equivalente (cfr. Cons. St., sez. VI 26.09.2003 n. 5502, richiamata dal TAR).
Più puntualmente in relazione a fattispecie analoga al caso in esame, è stato affermato che l'installazione di un'antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi del cit. art. 1 della legge n. 10 del 1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione edilizia e che tale principio è stato recepito dal d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il quale, all'art. 3, assoggetta a permesso di costruire “l'installazione di torri e tralicci per impianti radio -ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, appunto in quanto "interventi di nuova costruzione” (cfr. Cons. St., sez. VI 18.05.2004 n. 3193).
Tuttavia il primo giudice non ha correttamente applicato i principi suesposti.
Nella specie, il Comune di Parma ha ingiunto la demolizione di antenne/parabole ad Elemedia (ed all’INAIL) ai sensi dell’art. 10, co. 1, della legge 28.02.1985 n. 47, concernente “Opere eseguite senza autorizzazione”, non già ai sensi del precedente art. 7, concernente “Opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali”, sicché esso stesso si è reso conto che l’installazione dell’antenna/parabola non necessitava di concessione edilizia, bensì di autorizzazione (ovvero di d.i.a.).
Del resto, a prescindere dal dato giuridico che la sanzione della demolizione non è applicabile nell’ipotesi di cui all’art. 10 della legge n. 47 del 1985, prevedente la sola sanzione pecuniaria, nella specie –come dedotto dall’attuale appellante– il Comune non si è dato carico di enucleare gli elementi di fatto in base ai quali l’antenna/parabola, di cui non è controversa l’installazione su un traliccio preesistente e regolarmente assentito, avrebbe rilievo quanto meno sul piano ambientale ed estetico e di conseguenza costituisca significativa trasformazione del territorio, dovendosi ovviamente aver riguardo a unicamente alla stessa antenna/parabola e non anche all’insieme di analoghe strutture eventualmente già presenti sull’immobile, in ipotesi sanzionabili autonomamente qualora ricorrano i prescritti presupposti.
Non senza dire che, com’è ben noto, un’antenna di modeste dimensioni, irrilevante sotto il profilo edilizio, neppure necessita di mera autorizzazione parimenti edilizia, occorrendo invece, trattandosi di impianto di emittenza radio, unicamente la ben diversa e specifica autorizzazione tecnica (nella specie, ex art. 6 della legge regionale Emilia Romagna 31.10.2000, n. 30, recante “Norme per la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento elettromagnetico”).
In conclusione, condivise le censure attinenti ai profili trattati contenute nel secondo motivo di gravame ed assorbita ogni ulteriore doglianza, l’appello va accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata nel senso dell’annullamento dell’impugnata ordinanza comunale di ingiunzione di demolizione in accoglimento del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.11.2013 n. 5313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il principio di segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, è interdetta al seggio di gara la conoscenza delle percentuali di ribasso offerte per evitare ogni possibile influenza sulla valutazione dell’offerta tecnica, atteso che il principio della segretezza dell’offerta economica è presidio dell’attuazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, predicati dall’art. 97 Cost., sub specie della trasparenza e della par condicio dei concorrenti, intendendosi così garantire il corretto, libero ed indipendente svolgimento del processo intellettivo-volitivo che si conclude con il giudizio sull’offerta tecnica e, in particolare, con l’attribuzione dei punteggi ai singoli criteri con i quali quest’ultima viene valutata.
La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio afferma, infatti, che il principio di segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, è interdetta al seggio di gara la conoscenza delle percentuali di ribasso offerte per evitare ogni possibile influenza sulla valutazione dell’offerta tecnica, atteso che il principio della segretezza dell’offerta economica è presidio dell’attuazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, predicati dall’art. 97 Cost., sub specie della trasparenza e della par condicio dei concorrenti, intendendosi così garantire il corretto, libero ed indipendente svolgimento del processo intellettivo-volitivo che si conclude con il giudizio sull’offerta tecnica e, in particolare, con l’attribuzione dei punteggi ai singoli criteri con i quali quest’ultima viene valutata (v., da ultimo, in questo senso Cons. St., sez. V, 19.04.2013, n. 2214) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.11.2013 n. 5309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare pubbliche. Ordinanza Tar Milano
Bando alle cauzioni pari all'importo posto in garanzia. Una cauzione non può avere lo stesso importo del contratto che intende garantire.

Questo è il principio –valido negli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture– adottato dal TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con l'ordinanza 06.11.2013 n. 1181.
La questione riguarda la futura autostrada Pedemontana lombarda, che aveva posto in gara il servizio di esazione dei pedaggi della propria viabilità (160 km di autostrade e tangenziali). Per la progettazione, realizzazione e manutenzione del servizio, la società autostradale richiedeva all'aggiudicatario una specifica cauzione, a copertura dell'eventuale mancato funzionamento dei sistemi di pedaggio. Il problema è sorto in quanto questa sola garanzia, volta a coprire eventuali mancati introiti della concessionaria, ammontava a 60 milioni di euro.
Questo importo sbilanciava la gara, introducendo una selezione sulla base di parametri diversi da quelli strettamente tecnici di progettazione, realizzazione e manutenzione del complesso sistema viario. Il Tar ha quindi sospeso la gara, ritenendo violato il principio di massima partecipazione. Un principio che impone un rapporto logico tra valore dell'appalto ed importo della cauzione.
Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto illogico porre a carico del progettista e gestore del servizio di esazione anche il rischio del mancato pagamento dell'utenza. In altri termini, attraverso una gara finalizzata a selezionare il miglior sistema tecnico di esazione dei pedaggi e la relativa manutenzione, è sembrato eccessivo pretendere la copertura anche un diverso settore, cioè quello più strettamente finanziario del rischio di mancato pagamento da parte dell'utenza.
Nelle opere pubbliche realizzate con finanza di progetto (articolo 153 del Dlgs. 163/2006), il piano economico finanziario assume particolare rilievo, tant'è vero che è previsto il coinvolgimento, fin dalla fase di progettazione, di uno o più istituti finanziatori. Ma per la singola gara, volta ad individuare il soggetto idoneo a progettare e gestire un settore specifico come l'esazione dei pedaggi, il Tar non ritiene possibile chiedere una fideiussione volta a coprire i mancati introiti.
Questo orientamento del Tar applica il principio di massima partecipazione, che impone una ragionevole proporzione tra il valore dell'appalto e le garanzie richieste. I principi di proporzionalità e di non aggravamento impediscono quindi alle amministrazioni di chiedere oneri inutili o eccessivamente gravosi, che diventerebbero elementi di selezione incongrui rispetto all'oggetto del lavoro, servizio o fornitura posti in gara.
Inoltre, inciderebbero sulla stessa partecipazione delle imprese, perché una garanzia di importo rilevante (nel caso specifico, 60 milioni di euro) presuppone una particolare solidità economica (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma 4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della disciplina concernente l’eliminazione delle barriere architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia consentito ad una determinata categoria di aventi diritto sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della visitabilità, come normativamente tratteggiato.

L’art. 82 del Testo unico dell’edilizia (D.P.R. 380/2001), che ripropone il testo dell’art. 24 della L. 05.02.1992, n. 104, sotto la rubrica “Eliminazione o superamento delle barriere architettoniche negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico”, stabilisce che tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità, sono eseguite in conformità alle norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche e al decreto del Ministro dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236.
Tale decreto ministeriale, nel dettare prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche, all’art. 3, per quanto in questa sede di interesse, precisa: “In relazione alle finalità delle presenti norme si considerano tre livelli di qualità dello spazio costruito. L'accessibilità esprime il più alto livello in quanto ne consente la totale fruizione nell'immediato. La visitabilità rappresenta un livello di accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla persona con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale. La adattabilità rappresenta un livello ridotto di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria previsione progettuale, di trasformazione in livello di accessibilità; l'adattabilità è, pertanto, un'accessibilità differita”.
Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma 4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della disciplina concernente l’eliminazione delle barriere architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia consentito ad una determinata categoria di aventi diritto sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della visitabilità, come normativamente tratteggiato.
Nel caso di specie, peraltro, l’impugnata norma comunale, non riguarda tutti gli studi professionali ma soltanto quelli di alcune categorie di professionisti.
Invero, all’esito di osservazioni proposte dai Presidenti dell’Ordine degli Architetti, dell’Ordine degli Ingegneri e dell’Ordine dei Geometri della Provincia di Parma (cfr. Estratto del processo verbale n. 2 del C.C. 22.01.2007, pag. 3), la norma ha limitato la censurata prescrizione soltanto agli studi professionali “quando il professionista si legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione istituzionale in forza della quale riceva un pubblico indistinto”, indicando fra questi, a titolo esemplificativo, anche gli “avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e al gratuito patrocinio”.
In proposito va ricordato che il D.P.R. 30.05.2002, n. 115, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, all’art. 74 dispone che è assicurato il patrocinio a spese dello Stato sia nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria, sia nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.
Inoltre, in base all’art. 97, comma 5, c.p.p., segnatamente il difensore di ufficio ha l'obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo.
La stessa norma, a tal fine, al comma 2 prevede che siano i consigli dell'ordine forense di ciascun distretto di corte d'appello, al fine di garantire l'effettività della difesa d'ufficio, deputati a predisporre gli elenchi dei difensori che, a richiesta dell'autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria, sono indicati ai fini della nomina, fissando i criteri per la nomina dei difensori sulla base delle competenze specifiche, della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità.
Osserva il Collegio che, in entrambi i suddetti casi il difensore, se si eccettua la caratteristica dell’obbligatorietà che connota la sola difesa d’ufficio, è chiamato a prestare la propria attività professionale in favore di una ampia e indiscriminata platea di aventi diritto.
L’avvocato, dunque, esercita in detti casi un munus pubblicum di particolare interesse per la collettività, al quale accede poiché iscritto in appositi elenchi, l’inserimento nel quale avviene a domanda dell’interessato e non certo d’ufficio, né in via autoritativa.
L’appartenenza alle suddette categorie professionali, in definitiva, è il frutto di una libera scelta del professionista; scelta che, da una parte comporta il vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello Stato, dall’altra impone al professionista l’onere di adeguare il proprio studio professionale alla normativa statale finalizzata all’eliminazione delle barriere architettoniche.
Così riguardata la funzione in discorso, l’impugnata norma regolamentare comunale non appare né illogica né irragionevole, né appare il frutto di un distorto esercizio del potere.
D'altra parte richiedere la visitabilità quale livello di fruizione degli edifici, anche con riguardo agli studi professionali e, segnatamente, delle con riguardo agli studi delle suindicate circoscritte categorie di avvocati, risulta in linea con la ratio della normativa in tema di abolizione delle barriere architettoniche, di talché l’impugnata disciplina regolamentare si profila immune anche dal proposto vizio di violazione di legge.
Non vi è dubbio che la ratio della legge sia quella di garantire anche al soggetto disabile la possibilità di usufruire, nella massima autonomia possibile, delle prestazioni rese dal professionista presso il proprio studio, senza che ciò incontri limiti o impedimenti derivanti dall'esistenza di barriere architettoniche (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 06.11.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVincoli. Il Codice della navigazione. Resta reato costruire su aree demaniali.
Costruire una casa con vista mare a meno di trenta metri dal bagnasciuga, senza il nulla osta dell'autorità marittima, è un reato.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 05.11.2013 n. 44644, bacchetta i giudici di merito che avevano assolto un'intera famiglia dall'accusa di aver realizzato una costruzione abusiva a Modica in Sicilia.
Il Gip aveva chiesto un decreto di condanna per gli amanti del mare che avevano superato la zona off limits dei trenta metri, piazzando nell'area demaniale una casa mobile circondata da un muro senza curarsi di ottenere il nulla osta del Capo dipartimento. Più indulgente il tribunale, che considerava l'azione ormai depenalizzata per effetto delle modifiche apportate alle norme di riferimento.
Per il giudice di merito a cancellare il reato sarebbe stata l'introduzione del Dlgs 96/2005, il quale, nel modificare l'articolo 1161 del codice della navigazione, cancellava ogni riferimento all'articolo 55 dello stesso codice che prevede l'obbligo del nulla osta in caso di «esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare».
L'azione contestata agli imputati non poteva dunque più ricadere nel raggio d'azione dell'articolo 1161 dello stesso codice, che usa la mano pesante con chi occupa senza titolo le aree di proprietà del demanio, punendoli con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a 516 euro. Un verdetto impugnato dai procuratori dei tribunali di Modica e di Catania, che smontano la tesi dei giudici di primo grado. Secondo i Pg il mancato riferimento al codice della navigazione non va letto come una lancia spezzata in favore degli abusivi, che renderebbe "veniale" l'abuso, ma al contrario come un irrigidimento in caso di trasgressione.
L'articolo 19 del Dlgs 96/2005 nella nuova formulazione sostituisce le parole «non osserva le disposizioni di cui agli articoli 55, 714 e 716» con «non osserva i vincoli cui è assoggettata la proprietà privata nelle zone prossime al demanio marittimo o agli aereoporti». Scopo della modifica -spiega la Cassazione- non è quello di depenalizzare la violazione, ma di rafforzare la tutela dei vincoli posti a difesa delle aree in prossimità del mare e degli aereoporti.
«La novella -si legge nella sentenza- ha sostituito l'individuazione di specifici vincoli indicati nella precedente formulazione con la più amplia previsione di qualsiasi vincolo a tutela del demanio». Una protezione più vasta che include anche tutti gli obblighi già imposti dal codice della navigazione: primo tra tutti il nulla osta preventivo, di cui si può fare a meno solo quando le nuove costruzioni sono indicate in piani regolatori o di ampliamento che hanno già ottenuto l'ok dell'autorità. L'articolo 1161 anche dopo il restyling conserva tutta la sua forza deterrente nel sanzionare anche chi impedisce l'uso pubblico delle aree demaniali o fa innovazioni non autorizzate (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn discarica filtri anti-odore. Giustizia. La Corte di cassazione ha condannato i gestori per non aver utilizzato le migliori tecnologie.
La difesa degli imputati si era basata sull'assenza di prescrizioni
Rischiano una multa fino a trentamila euro i gestori delle discariche che non fanno ricorso alle migliori tecnologie per eliminare i miasmi provenienti dai rifiuti.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 05.11.2013 n. 44444 spezza una lancia in favore degli abitanti che vivono vicino agli impianti che raccolgono tonnellate di spazzatura, affermando il loro diritto a non essere soffocati dalle emissioni.
Nel caso specifico a vincere la battaglia contro i cattivi odori sono stati gli abitanti della Garfagnana che, dopo anni di proteste per le esalazioni che provenivano dai rifiuti in attesa di finire nel termovalorizzatore, hanno visto condannare i responsabili del loro disagio al pagamento di un'ammenda.
I giudici della terza sezione penale hanno, infatti, contestato al direttore tecnico (nonché legale rappresentante della Spa "incriminata") e al gestore, la violazione degli articoli 8, comma 1, e 19, comma 12 del Dlgs 133/2005. La norma che attua la direttiva comunitaria (2000/76/Ce) sull'incenerimento dei rifiuti prevede, con l'articolo 8, la necessità di adottare «tutte le misure affinché le attrezzature utilizzate per la ricezione, gli stoccaggi, i pretrattamenti e la movimentazione dei rifiuti, nonché per la movimentazione o lo stoccaggio dei residui prodotti, siano progettate e gestite in modo da ridurre le emissioni e gli odori, secondo i criteri della migliore tecnologia disponibile». Obblighi che i ricorrenti sostenevano di non avere, dando della norma una lettura "minimalista" per l'assenza di uno degli elementi costitutivi del reato: l'inesistenza di prescrizioni riguardanti le emissioni di odori.
Secondo gli imputati, quando sia l'articolo 8 sia il 19 che individua le condotte sanzionabili, parlano delle migliori tecnologie possibili fanno riferimento a quelle imposte nell'atto con cui l'autorità autorizza l'impianto. È una lettura che tenta uno "scaricabarile" senza successo. Per la Suprema corte non è pensabile che una norma affidi all'ente preposto delle missioni impossibili: non solo il compito di l'individuare le migliori tecnologie disponibili in futuro ma anche quello di stabilire le modalità di progettazione e gestione delle apparecchiature utilizzate.
Decisamente meno favorevole ai ricorrenti l'interpretazione della Cassazione. Per i giudici della terza sezione è sufficiente stare al tenore letterale della legge per capire da che parte stanno gli obblighi. La disposizione prende in considerazione l'attività svolta in concreto dagli impianti nella fase post realizzazione e autorizzazione, esaminando le modalità di gestione delle apparecchiature utilizzate per abbattere i cattivi odori in tutte le fasi di gestione dei rifiuti. Si tratta di una norma generale che indica le conseguenze da evitare e che riguarda non l'impianto nel suo complesso, per il quale si è ottenuto il via libera, ma i singoli macchinari utilizzati.
La Suprema corte ricorda che il richiamo al criterio della migliore tecnologia disponibile è spesso utilizzato dal legislatore per bilanciare l'interesse alla tutela ambientale con lo sviluppo economico. Una quadratura del cerchio che si raggiunge «prevedendo nel tempo, l'adozione in maniera progressiva, di tecniche sempre più avanzate con costi sopportabili, senza che ne sia ovviamente possibile la preventiva individuazione». Il reato scatta dunque quando gli impianti non utilizzano i moderni sistemi per ridurre le emissioni e gli odori. Senza che per questo serva una espressa previsione nel titolo abilitativo (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2013).

PATRIMONIOIl Comune paga per le buche in strada. Infortuni stradali. La rete estesa non è una giustificazione.
Il gestore di una strada ha sempre l'obbligo di tenerla in condizioni di sicurezza e non può più liberarsene semplicemente affermando che l'estensione della propria rete stradale è talmente estesa da non consentirne una sorveglianza puntuale e continua.

È il cosiddetto obbligo di custodia, che è stato riaffermato dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza 05.11.2013 n. 24793, depositata ieri. Ma ciò non basta a sollevare il danneggiato da ogni responsabilità: dev'essere lui a dimostrare di aver percorso la strada «con la dovuta attenzione» e, se si tratta di un pedone, con le scarpe adatte.
La questione sta nell'interpretare l'articolo 2051 del Codice civile, che prevede la responsabilità che ha il custode (e il gestore della strada è assimilato ad esso, come prevede il regio decreto 2056 del 1923) sulle cose che ha in custodia, «salvo che provi il caso fortuito». Per anni, sulla scia della sentenza 156/1999 della Consulta, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che l'estensione della rete bastasse di per sé a configurare il caso fortuito. Ma già negli ultimi cinque anni la Corte aveva adottato un'interpretazione più restrittiva per il gestore.
La durata dei processi ha fatto sì che ci siano ancora casi in cui c'è un verdetto che risale a prima e che non sono ancora arrivati alla sentenza definitiva. Uno di questi è appunto quello deciso dalla Cassazione con la sentenza depositata ieri, che si riferisce alla frattura di una gamba riportata da una signora inciampata sul dislivello tra una basola e l'altra di una via di Napoli. L'infortunio è del 2001 e la pronuncia della Corte d'appello era del 2006.
La causa si era sviluppata fondamentalmente sul fatto che il Comune non potesse garantire una custodia effettiva della sua rete stradale, a causa della sua vasta estensione (e quindi non poteva essere ritenuto responsabile della sua custodia) e sul fatto che la donna abitasse nel quartiere dov'è avvenuto l'incidente (e quindi ne conoscesse lo stato delle strade). Si era anche discusso se fosse configurabile una responsabilità da fatto illecito (articolo 2043 del Codice civile), perché il dislivello era occultato da immondizia e scarsa illuminazione.
La Cassazione ha ricordato che ora la sua giurisprudenza è cambiata. I giudici si riferiscono alla sentenza 20427/2008, che solleva l'ente proprietario della strada dalle sue responsabilità solo se dimostra di non aver potuto fare nulla per evitare il danno, causato da un evento improvviso.
La sentenza di appello sulla vicenda di Napoli si limitava a respingere la richiesta di risarcimento perché all'epoca l'obbligo di custodia non era inteso in modo così stringente. Quindi in appello non ci si era addentrati nell'analisi dell'eventuale responsabilità della donna. La Cassazione ha quindi rinviato il caso in appello, dove si dovrà considerare che il Comune ha una sua responsabilità e la si dovrà comparare a quella che eventualmente emerge dalla distrazione della danneggiata e al fatto che potesse indossare scarpe che hanno amplificato il danno (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2013).

PUBBLICO IMPIEGODisabili, nuovo ufficio senza consenso.
Anche il lavoratore portatore di handicap può essere legittimamente trasferito in nuova sede di lavoro, in presenza di una sopravvenuta incompatibilità ambientale, prescindendo dalla necessità di raccogliere il suo preventivo consenso.

Ad affermarlo è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 05.11.2013 n. 24775.
La Suprema corte ha ribadito il principio, già espresso in una precedente decisione delle Sezioni Unite in materia di assistenza alle persone handicappate, secondo cui il diritto del lavoratore disabile di non essere trasferito senza il suo consenso –previsto dall'articolo 33, comma 6, della legge 104/1992– se costituisce un limite invalicabile in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze aziendali, non può prevalere ove sia accertato che la presenza del lavoratore nella sede di provenienza costituisce condizione d'incompatibilità ambientale.
Per i giudici di legittimità la tutela prevista a favore dei lavoratori portatori di handicap non configura un diritto assoluto e illimitato per il quale, in assenza di espresso consenso del lavoratore, non sia possibile adottare la misura del trasferimento della sede di lavoro, ma incontra un limite nell'esigenza di tutelare altri rilevanti interessi di rango costituzionale, tra cui quello di impedire che le esigenze economico-produttive ed organizzative del datore di lavoro siano lese in maniera consistente.
Occorre, in altri termini, operare un equilibrato bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti, tutti espressione di valori costituzionali, per concludere che, se la misura del trasferimento è sollecitata da una sopravvenuta situazione di incompatibilità ambientale, il regime di tutela previsto dalla legge 104/92 non può prevalere rispetto al preminente interesse datoriale alla organizzazione dell'attività aziendale.
Il caso sottoposto ai giudici di legittimità riguardava una lavoratrice disabile alle dipendenze di ente pubblico, che era stata trasferita ad altro luogo di lavoro nell'ambito dello stesso comune in seguito ad un'insorta incompatibilità ambientale derivante dalla situazione di contrasto con gli altri colleghi di lavoro. La difesa della lavoratrice aveva sostenuto, tra le altre rivendicazioni, che la misura del trasferimento fosse illegittima, in quanto non era stato raccolto in precedenza il consenso della dipendente portatrice di handicap.
La Corte d'appello aveva rigettato le argomentazioni della lavoratrice e la Suprema Corte conferma la decisione.
Ad avviso della Cassazione il profilo di diritto che rende legittimo il trasferimento della lavoratrice affetta da disabilità, anche in assenza di consenso preventivo, risiede nella circostanza che l'incompatibilità ambientale, ponendosi come causa che pregiudica l'organizzazione e il funzionamento dell'attività aziendale, realizza un'obiettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Sia dal parere della sovrintendenza sia dalla proposta del Comune e poi dall’atto di diniego in sanatoria adottato dal medesimo, non è dato comprendere le ragioni di contrasto con l’interesse paesaggistico in relazione allo specifico vincolo insistente sulle aree in esame.
Le Amministrazioni coinvolte hanno utilizzato frasi generiche senza analizzare in concreto le ragioni del presunto contrasto con i valori paesaggistici.
Pertanto, si verte in un’ipotesi in cui è ammesso l’intervento demolitorio del Giudice amministrativo, atteso non risultano adeguate l’istruttoria e la motivazione dei provvedimenti impugnati.
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Ha errato l’Amministrazione nel ritenere che i lavori relativi a cabine prefabbricate e strutture ombreggianti comportino aumento di superfici utili o volumi e quindi che non si possa procedere con riferimento ad essi all’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4 del d.lgs. cit..
In realtà, secondo la giurisprudenza, il concetto di volume presupposto dalla citata normativa è il medesimo che assume rilievo urbanistico.
Difatti, se è ben vero che anche un volume irrilevante urbanisticamente (es. perché è un volume tecnico) può astrattamente incidere in modo pregiudizievole sul paesaggio (la cui maggior esigenza di tutela ha impedito al legislatore di esportare in materia con analoga ampiezza l’istituto della sanatoria a regime ex articolo 36 del d.p.r. n. 380 del 2001), e che la normativa paesaggistica ha una sua autonomia rispetto a quella edilizia ed urbanistica, nondimeno il Collegio condivide quella giurisprudenza che per ragioni di coerenza sistematica non ritiene condivisibile un’interpretazione letterale del divieto di cui all’articolo 167, comma 5, del citato d.lgs..
Difatti, il rischio di lesione per il bene paesaggistico è comunque minore in caso di volumi irrilevanti urbanisticamente, atteso il loro intrinseco carattere di accessorietà (che quindi presuppone un precedente intervento già valutato ed autorizzato), e considerato che la sottoponibilità dell'intervento al parere della Soprintendenza non comporta automaticamente il giudizio di compatibilità, che viene rilasciato solo quando la sua incidenza sul paesaggio non è tale da compromettere il bene protetto.
I ricorrenti avrebbero realizzato, secondo quanto risulta dai provvedimenti impugnati:
1) una piattaforma in cemento mediante la posa di piancozze di varie misure per un totale di mq. 615;
2) una struttura in legno insistente sulla predetta piattaforma coperta con telo plastificato per un totale di mq. 78,00 circa, n. 6 gazebo in ferro con copertura in compensato e ulteriore tetto in plastica per un totale di circa mq. 150 nonché n. 4 cabine in legno con una superficie di circa mq. 9,00.
Con ordinanza del 19.11.2012 il Comune di Ortona ha ordinato la rimozione di tali opere, sul presupposto che si tratterebbe di manufatti abusivi, in quanto realizzati in assenza di titoli abilitativi nonché di autorizzazione ex art. 55 del Codice della Navigazione in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Con istanza del 03.08.2012, i ricorrenti hanno chiesto il permesso di costruire in sanatoria.
Il 27.11.2012 il Comune di Ortona ha espresso parere favorevole ai sensi dell’autorizzazione ex articolo 55 del codice della navigazione.
Il 09.01.2013, il Comune resistente, ai sensi dell’articolo 146, comma 7, del d.lgs. n. 42 del 2004, ha proposto alla sovrintendenza l’adozione di un parere negativo ai fini dell’autorizzazione paesaggistica “ritenuto che le opere da eseguire e riportate nel progetto in oggetto recano pregiudizio alla conservazione delle caratteristiche ambientali dei luoghi interessati dall’intervento in quanto incompatibili con i valori paesaggistici riconosciuti a norma del comma 7 dell’articolo 146 del d.lgs. n. 42 del 2004”.
Il 21.02.2013 questo Tribunale ha accolto l’istanza cautelare.
Il 13.06.2013, infine, il Comune di Ortona, sulla scorta del parere negativo della Sovrintendenza, vincolante ai sensi del comma 5 del citato articolo 146, rilevato che l’intervento ricade in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in base al d.m. 25.03.1970 e al d.lgs. n. 42 del 2004, ha rigettato l’istanza di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
La sovrintendenza ha motivato il proprio diniego, nel preavviso di rigetto, rilevando che “per i lavori relativi a cabine prefabbricate e strutture ombreggianti che comportano aumento di superfici utili o volumi non può procedere all’accertamento della compatibilità paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4, e pertanto si rinvia al Comune per il seguito di competenza. Per i lavori relativi alle pavimentazioni che non comportano aumento di superfici utili o volumi … i lavori eseguiti sono fortemente pregiudizievoli alla conservazione del contesto paesaggistico a prescindere dalle opere realizzate che, in ogni caso, mai potrebbero essere considerate di modesta entità né modello del miglioramento del paesaggio”.
Ciò, su presupposto che gli interventi realizzati ricadono in area sottoposta a tutela ai sensi della parte III del d.lgs. n. 42 del 2004, e che il comma 4 dell’articolo 146 del medesimo d.lgs. consente il rilascio dell’autorizzazione in sanatoria per i casi di cui all’articolo 167, comma 4.
Avverso il diniego di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, i ricorrenti hanno proposto motivi aggiunti depositati il 17.07.2013, rilevando sostanzialmente la genericità della motivazione contenuta nei dinieghi, in relazione alla natura delle opere di lieve impatto paesaggistico e facilmente amovibili.
...
Il ricorso per motivi aggiunti è fondato.
Come si evince agevolmente dalla premessa in fatto, sia dal parere della sovrintendenza sia dalla proposta del Comune e poi dall’atto di diniego in sanatoria adottato dal medesimo, non è dato comprendere le ragioni di contrasto con l’interesse paesaggistico in relazione allo specifico vincolo insistente sulle aree in esame.
Le Amministrazioni coinvolte hanno utilizzato frasi generiche senza analizzare in concreto le ragioni del presunto contrasto con i valori paesaggistici.
Pertanto, si verte in un’ipotesi in cui è ammesso l’intervento demolitorio del Giudice amministrativo, atteso non risultano adeguate l’istruttoria e la motivazione dei provvedimenti impugnati (cfr. TAR Bari sentenza 10.07.2012 n. 1395; TAR Trieste sentenza 15.12.2011 n. 560).
Il Collegio rileva inoltre che ha errato l’Amministrazione nel ritenere che i lavori relativi a cabine prefabbricate e strutture ombreggianti comportino aumento di superfici utili o volumi e quindi che non si possa procedere con riferimento ad essi all’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4 del d.lgs. cit..
In realtà, secondo la giurisprudenza, il concetto di volume presupposto dalla citata normativa è il medesimo che assume rilievo urbanistico (cfr. TAR Roma sentenza 15.07.2013 n. 6997).
Difatti, se è ben vero che anche un volume irrilevante urbanisticamente (es. perché è un volume tecnico) può astrattamente incidere in modo pregiudizievole sul paesaggio (la cui maggior esigenza di tutela ha impedito al legislatore di esportare in materia con analoga ampiezza l’istituto della sanatoria a regime ex articolo 36 del d.p.r. n. 380 del 2001), e che la normativa paesaggistica ha una sua autonomia rispetto a quella edilizia ed urbanistica, nondimeno il Collegio condivide quella giurisprudenza che per ragioni di coerenza sistematica non ritiene condivisibile un’interpretazione letterale del divieto di cui all’articolo 167, comma 5, del citato d.lgs. (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 1748 del 2009).
Difatti, il rischio di lesione per il bene paesaggistico è comunque minore in caso di volumi irrilevanti urbanisticamente, atteso il loro intrinseco carattere di accessorietà (che quindi presuppone un precedente intervento già valutato ed autorizzato), e considerato che la sottoponibilità dell'intervento al parere della Soprintendenza non comporta automaticamente il giudizio di compatibilità, che viene rilasciato solo quando la sua incidenza sul paesaggio non è tale da compromettere il bene protetto (cfr. TAR Roma 15.07.2013 n. 6997).
Ciò premesso, è appena il caso di rilevare che, dato il loro carattere del tutto accessorio, nel caso in esame, come si evince anche dalla documentazione fotografica allegata, le cabine non hanno una propria funzione autonoma, ed hanno una dimensione tutto sommato poco rilevante in relazione alle opere cui accedono e conseguentemente manifestano un limitato valore di mercato rispetto ad esse, e pertanto possono essere ritenute irrilevanti urbanisticamente, proprio quali pertinenze.
Le strutture ombreggianti, viceversa, non appaiono ontologicamente idonee a determinare volumi nuovi in senso urbanistico.
Ne consegue che la Sovrintendenza, come dedotto dai ricorrenti (cfr. pagg. 9 e 10 dei motivi aggiunti), non doveva esimersi dal valutarne la compatibilità paesaggistica in sanatoria, atteso che non si tratta di costruzioni idonee a creare volumi urbanisticamente rilevanti.
Quanto, infine, alle superfici in cemento, anche a prescindere dalla circostanza dedotta dalla parte ricorrente secondo cui gran parte di esse sarebbero già oggetto di autorizzazione, appaiono del tutto generiche e poco comprensibili le ragioni di presunto contrasto paesaggistico, atteso che, peraltro, la valutazione sembra prescindere addirittura dalle opere concretamente realizzate: “… i lavori eseguiti sono fortemente pregiudizievoli alla conservazione del contesto paesaggistico a prescindere dalle opere realizzate che, in ogni caso, mai potrebbero essere considerate di modesta entità né modello del miglioramento del paesaggio” (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 05.11.2013 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto ai diritti di segreteria, la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che la relativa imposizione contrasta con l'art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 259 del 2003, che vieta di subordinare il rilascio delle autorizzazioni in materia di telecomunicazioni ad oneri economici diversi rispetto a quelli individuati dal legislatore statale e non rientranti nell'ambito dell'elencazione ammessa dal Codice delle telecomunicazioni.
Per le stesse ragioni, inoltre, risulta illegittima la previsione dell’onere di adempiere ad un deposito cauzionale o ad altre forme di garanzia per l’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 93 cit..
In ultima analisi, anche la prestazione di depositi cauzionali rientra pur sempre nell’ambito della categoria degli oneri (finanziari), espressamente vietati dalla norma citata.
In tal senso, e su fattispecie analoga, del resto, si è già espressa la giurisprudenza, secondo cui, appunto, l'art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 vieta espressamente l'imposizione ai gestori di oneri non previsti dalla legge, sicché l'imposizione di una polizza assicurativa a garanzia dello smontaggio dell'impianto e del ripristino dello stato dei luoghi, deve ritenersi senz'altro illegittimo.

... per l'annullamento dei provvedimenti n. 003541 del 26.11.2010 e n. 00372 del 20.12.2010 con cui il Consorzio dell'area di sviluppo industriale del vastese ha subordinato il rilascio dell'autorizzazione richiesta dalla ricorrente per la posa cavo su pali su strada consortile, al versamento di somme pecuniarie.
...
Il ricorso è fondato.
Quanto ai diritti di segreteria, la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che la relativa imposizione contrasta con l'art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 259 del 2003, che vieta di subordinare il rilascio delle autorizzazioni in materia di telecomunicazioni ad oneri economici diversi rispetto a quelli individuati dal legislatore statale e non rientranti nell'ambito dell'elencazione ammessa dal Codice delle telecomunicazioni (cfr. Tar Cagliari, sentenza 02.02.2010 n. 119).
Per le stesse ragioni, inoltre, risulta illegittima la previsione dell’onere di adempiere ad un deposito cauzionale o ad altre forme di garanzia per l’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 93 cit..
In ultima analisi, anche la prestazione di depositi cauzionali rientra pur sempre nell’ambito della categoria degli oneri (finanziari), espressamente vietati dalla norma citata.
In tal senso, e su fattispecie analoga, del resto, si è già espressa la giurisprudenza, secondo cui, appunto, l'art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 vieta espressamente l'imposizione ai gestori di oneri non previsti dalla legge, sicché l'imposizione di una polizza assicurativa a garanzia dello smontaggio dell'impianto e del ripristino dello stato dei luoghi, deve ritenersi senz'altro illegittimo (cfr. TAR Napoli sentenza 22.12.2004 n. 19627).
Quanto, infine, alla disposizione di cui all’articolo 27 del codice della strada, ad avviso del Collegio anche qui colgono nel segno le censure di parte ricorrente, atteso che, ai sensi dell’articolo 231, comma 3, del d.lgs. n. 285 del 1992, in deroga a quanto previsto dal capo I del titolo II (articoli da 13 a 34-bis), si applicano le disposizioni di cui al capo V del titolo II del codice delle comunicazioni elettroniche (articoli da 86 a 95), di cui al decreto legislativo 01.08.2003, n. 259, e successive modificazioni.
Ne consegue che la norma di cui all’articolo 27 del codice della strada, invocata dalla parte resistente, non può essere considerata integrativa della disciplina di cui all’articolo 93, comma 1, del codice delle telecomunicazione, proprio perché per espressa previsione non si applica alle concessioni e autorizzazioni per la realizzazione di opere di telecomunicazioni (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 05.11.2013 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. E’ affetto da annullabilità (e non da nullità) il provvedimento amministrativo (per sua natura autoritativo) che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui emanazione abbia comportato alla commissione di un reato.
2. La sussistenza della annullabilità consente l’adeguata tutela del territorio e degli interessi pubblici coinvolti. Difatti, a seguito dell’accertamento dei fatti in sede penale, d’ufficio o su istanza di chi vi abbia interesse, il Comune (così come la Regione, nell’esercizio del potere in precedenza attribuito allo Stato dall’art. 27 della legge n. 1150 del 1942 e dall’art. 7 della legge n. 865 del 1967, poi trasferito con il decreto legislativo n. 8 del 1972) deve valutare se (e sotto quale profilo) l’immobile realizzato si sia posto in contrasto con la disciplina urbanistica.
Ove tale contrasto risulti, previo contraddittorio con i proprietari attuali l’amministrazione può rilevare il vizio dell’atto e –sussistendo inevitabilmente l’attuale interesse pubblico, per il contrasto con la disciplina urbanistica e l’esigenza di ripristinare la legalità– può disporne l’annullamento, con le conseguenze specificamente previste dall’art. 38 del testo unico sull’edilizia (cioè l’ordine di demolizione o la sanzione amministrativa pecuniaria).
3. L’obbligo dell’amministrazione –di prendere in considerazione i fatti accertati in sede penale– può essere attivato anche su istanza di un interessato (da determinare in base al consueto criterio della vicinitas) specie quando egli si sia costituito parte civile nel processo penale
(massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.10.2013 n. 5266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sia il disuso protratto nel tempo che l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico non sono sufficienti a dimostrare l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico.
In questa sede il Collegio non può che ribadire i consolidati principi secondo cui sia il disuso protratto nel tempo che l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico non sono sufficienti a dimostrare l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico (cfr. Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez. VI, 09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V, 01.12.2006, n. 7081) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2013 n. 5207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La norma di PRG che impone uno strumento attuativo come condizione di esercizio dello “ius aedificandi” non impone vincoli di inedificabilità, ma regole procedimentali per l’esercizio del diritto di costruire e non può quindi essere equiparata alla situazione, e relativi effetti decadenziali, regolata dall’art. 2 della legge n. 1187/1968, che si riferisce agli strumenti che impongano vincoli preordinati alla espropriazione della proprietà privata.
Un ulteriore ordine di censure imputa alla sentenza l’errata interpretazione combinata tra il citato 71 delle NTA di PRG e l’art. 2, della legge n. 1187/1968, in base al quale i vincoli di edificabilità perdono efficacia qualora entro cinque anni dalla loro approvazione non siano stati approvati i piani particolareggiati.
Anche questa tesi non può essere condivisa, confondendo essa norme di differente valenza.
La norma di PRG che impone uno strumento attuativo come condizione di esercizio dello “ius aedificandi” non impone vincoli di inedificabilità, ma regole procedimentali per l’esercizio del diritto di costruire e non può quindi essere equiparata alla situazione, e relativi effetti decadenziali, regolata dall’art. 2 della legge n. 1187/1968, che si riferisce agli strumenti che impongano vincoli preordinati alla espropriazione della proprietà privata (v. C.d.S., sez. IV, n. 336/1995; sez. V, n. 1013/2004).
E’ pur vero che anche il rinvio alla disciplina di futuri strumenti particolareggiati non può essere illimitato nel tempo (Cons. di Stato, sez. IV, n. 723/1983), ma si tratta di questione che non viene in rilievo nel presente giudizio, che non investe la legittimità della norma di PRG applicata o il mancato esercizio del potere di pianificazione da parte dell’autorità a ciò preposta (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2013 n. 5202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il vincolo preordinato all’esproprio connesso alla previsione nel piano regolatore generale della realizzazione di un’opera di pubblica utilità (quale il progetto di allargamento di una pubblica via), è sottoposto al termine di decadenza di cinque anni, trascorso il quale trova applicazione l’art. 9 DPR n. 380/2001, regolante l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica.
La decadenza del vincolo espropriativo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento di adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare il vincolo, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese alla necessità di reiterazione.

Ai sensi dell’art. 9 DPR n. 327/2001, il vincolo preordinato all’esproprio connesso alla previsione nel piano regolatore generale della realizzazione di un’opera di pubblica utilità (quale il progetto di allargamento di una pubblica via), è sottoposto al termine di decadenza di cinque anni, trascorso il quale trova applicazione l’art. 9 DPR n. 380/2001, regolante l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica.
La decadenza del vincolo espropriativo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento di adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare il vincolo, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di diritto pubblico sottese alla necessità di reiterazione (Cons. St., Sez. IV, 06.05.2013, n. 2432; 12.05.2010, n. 2843, 19.03.2008, n. 1095)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2013 n. 5197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La circostanza che la delibera comunale non abbia impresso direttamente vantaggi al suolo oggetto di promessa di vendita in favore di un congiunto del sindaco, attiguo a quello oggetto di espropriazione e di approvazione del progetto di allargamento e sistemazione della strada, non esclude l’ipotizzabilità di vantaggi indiretti connessi alla realizzazione dell’opera idonei a fondare un potenziale conflitto di interessi.
Affinché si verifichi la fattispecie generatrice dell’obbligo di astensione, invero, occorre prescindere dalla produzione, in concreto, di un vantaggio alla posizione privata e di uno svantaggio a quella della p.a., a maggior ragione quando l’oggetto sia circoscritto e, nel caso di provvedimenti di natura edilizia, la deliberazione non investa l’intero territorio comunale o ampie zone di esso.

L’art. 78 del d.lgs. n. 267/2000 prescrive per gli amministratori l’obbligo di astensione dalla discussione e votazione di delibere riguardanti interessi propri o di parenti o affini fino al quarto grado.
La circostanza che la delibera comunale non abbia impresso direttamente vantaggi al suolo oggetto di promessa di vendita in favore di un congiunto del sindaco, attiguo a quello oggetto di espropriazione e di approvazione del progetto di allargamento e sistemazione della strada, non esclude l’ipotizzabilità di vantaggi indiretti connessi alla realizzazione dell’opera idonei a fondare un potenziale conflitto di interessi.
Affinché si verifichi la fattispecie generatrice dell’obbligo di astensione, invero, occorre prescindere dalla produzione, in concreto, di un vantaggio alla posizione privata e di uno svantaggio a quella della p.a. (Cons. St. Sez. IV, n. 28.01.2011, n. 693), a maggior ragione quando l’oggetto sia circoscritto e, nel caso di provvedimenti di natura edilizia, la deliberazione non investa l’intero territorio comunale o ampie zone di esso
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2013 n. 5197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione da una gara d’appalto per l’esistenza di precedenti penali.
In presenza di precedenti penali, il Codice dei contratti pubblici impone alla stazione appaltante di eseguire una specifica valutazione del precedente penale oggetto di dichiarazione, in relazione alla sussistenza di due autonomi e concorrenti elementi: la gravità del reato e la sua incidenza sulla moralità professionale.
I due elementi, per avere effetto ostativo sulla partecipazione alla gara, debbono coesistere ed entrambi necessitano, ai fini dell’esclusione dell’impresa, di una puntuale ed adeguata valutazione da parte della stazione appaltante.

La decisione in esame riguarda l’esclusione da una gara d’appalto per assenza del requisito di moralità professionale ex art. 38 del Codice dei contratti pubblici per l’esistenza di un precedente penale a carico di un direttore tecnico per un reato di gestione illecita dei rifiuti, contestata per difetto di motivazione dalla ditta esclusa.
Il Consiglio di Stato accoglie la doglianza di difetto di motivazione del provvedimento di esclusione, puntualizzando il contenuto delle valutazioni che la stazione appaltante deve effettuare in caso di esistenza di precedenti penali.
In particolare, motiva la sentenza, l’art. 38, comma 1, lett. c) del Codice dei contratti pubblici impone alla stazione appaltante di eseguire una specifica valutazione del precedente penale oggetto di dichiarazione, in relazione alla sussistenza di due autonomi e concorrenti elementi: la gravità del reato e la sua incidenza sulla moralità professionale.
I due elementi, per avere effetto ostativo sulla partecipazione alla gara, debbono coesistere ed entrambi necessitano, ai fini dell’esclusione dell’impresa, di una puntuale ed adeguata valutazione da parte della stazione appaltante.
In sostanza, la sola gravità non è di per sé sufficiente ad integrare la causa di esclusione, laddove il reato commesso sia insuscettibile di incidere sulla moralità professionale del concorrente e, di converso, l’astratta incidenza sulla moralità professionale non integra la suddetta causa, quando il reato medesimo non risponda al requisito della oggettiva gravità.
La stazione appaltante, quindi, pur non potendo prescindere dalla vincolatività della sentenza quanto ai fatti accertati dal giudice penale, deve accertare in via autonoma la sussistenza della gravità e della incidenza del reato commesso, tenendo conto anche degli spazi non coperti dal giudicato che pure emergano in maniera obiettiva ed inequivoca.
Il giudice penale accerta i fatti per sussumerli in una fattispecie astratta di reato ai fini dell’applicazione della pena, mentre la stazione appaltante deve valutare il precedente penale ai fini di salvaguardare l’esigenza di non avere rapporti contrattuali con appaltatori inaffidabili, che non garantiscano, cioè, una adeguata moralità professionale.
Nel caso di specie l’amministrazione ha omesso di effettuare in modo autonomo ed esaustivo una specifica e circostanziata valutazione in ordine alla sussistenza della gravità e della incidenza del reato commesso dal direttore tecnico e, pertanto, il provvedimento risulta illegittimo.
Né a tal fine è sufficiente una semplice valutazione di inerenza del reato commesso all’oggetto dell’appalto, né l’esistenza della recidiva, qualora ciò non sia accompagnato da una puntuale e esaustiva valutazione sulla effettiva gravità del reato e sulla sua reale incidenza sulla moralità professionale del soggetto interessato.
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Esito
Riforma TAR Campania Napoli, Sezione I, n. 4323/2012
Precedenti giurisprudenziali
TAR Valle d'Aosta Aosta Sez. I, 20.06.2012, n. 59; Cons. Stato Sez. III, 07.05.2012, n. 2607; Cons. Stato Sez. III, 07.05.2012, n. 2611
Riferimenti normativi

Art. 38 del Codice dei contratti pubblici
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.10.2013 n. 5122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza del termine per impugnare il permesso di costruire.
Ai fini della decorrenza iniziale del termine di decadenza per impugnare il permesso di costruire rilasciato a terzi, le iniziative giudiziali e stragiudiziali poste in essere da uno dei coniugi, comportanti la necessaria conoscenza dell’esistenza e del contenuto del permesso di costruire contestato, costituiscono indizi seri, precisi e concordanti che anche l’altro coniuge (che ha presentato da solo ricorso al TAR) avesse piena consapevolezza delle caratteristiche dell’intervento edilizio autorizzato e della sua lesività.
E’ quindi tardivo il ricorso presentato da uno dei coniugi oltre il termine di decadenza di 60 giorni dalle iniziative poste in essere dall’altro coniuge.

Secondo giurisprudenza amministrativa consolidata, il termine per l'impugnazione del permesso di costruire da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla costruzione assentita, decorre dalla effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività (ex multis TAR Marche, sez. I, 26.09.2007, n. 1574; TAR Campania Salerno, sez. II, 19.07.2007, n. 860).
Al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, con la conseguenza che in mancanza di altri e inequivoci elementi probatori il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, ma con il loro completamento a meno che non venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o di analoga natura, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (Consiglio Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6342).
La pronuncia in esame ribadisce, innanzitutto, che la conoscenza rilevante ai fini della decorrenza del termine per impugnare un permesso di costruire, deve consistere nella consapevolezza del contenuto della concessione o del progetto edilizio o del manufatto completo dei suoi elementi essenziali (Cons. St. Sez. V, 12.07.2010, n. 4482; Sez. IV, 10.12.2007, n. 6342; 12.02.2007, n. 599). La prova di tale conoscenza può essere desunta anche da elementi presuntivi, quando, per la loro concordanza e precisione, non lascino dubbi circa la conoscenza dell’entità dell’intervento edilizio.
Afferma poi, e qui risiede la peculiarità della decisione, che le iniziative giudiziali e stragiudiziali poste in essere da uno dei coniugi, comportanti la necessaria conoscenza dell’esistenza e del contenuto del permesso di costruire contestato, costituiscono indizi seri, precisi e concordanti che anche l’altro coniuge (che ha presentato da solo ricorso al TAR) avesse piena consapevolezza delle caratteristiche dell’intervento edilizio autorizzato e della sua lesività, essendo le relative azioni, pur se improntate sulla legittimazione attiva disgiunta del coniuge in regime di comunione ex art. 180 cod. civ., tese a difendere l’integrità del patrimonio comune in ordine ad un rapporto sostanziale unico dedotto in causa, secondo la prospettazione del ricorrente, e ad ottenere il bene della vita da parte di entrambi i coniugi (Cons. Stato Sez. V, 24.02.1990, n. 202).
Le azioni rivolte alla tutela dell’integrità del patrimonio immobiliare, in cui la rappresentanza in giudizio deve considerarsi spettante, a norma dell’art. 180 cod. civ., ad entrambi i coniugi disgiuntamente, rientrano tra quelle a carattere reale o con effetti reali, dirette alla tutela della proprietà e del godimento comune, con la conseguenza che gli effetti si estendono anche nei riguardi nel coniuge assente, escludendosi il litisconsorzio necessario, sulla base della natura unica ed inscindibile del rapporto dedotto in giudizio e l’incidenza sul rapporto medesimo dell’iniziativa dell’unico coniuge, con effetti sulla comunione in quanto tale (Cons. St. Sez. IV, 30.11.2006, n. 7014).
Dovendosi ammettere che tutte le iniziative intraprese da uno dei coniugi a tutela del bene comune producano effetti anche nei confronti dell’altro coniuge, non è possibile negare la conoscenza in capo a quest’ultimo dell’atto produttivo degli effetti lesivi avversati con iniziative anche in sede giudiziaria. Di conseguenza è tardivo di un ricorso al TAR presentato da uno dei due coniugi (a vantaggio sostanziale anche dell’altro) oltre il termine di decadenza di 60 giorni da quelle iniziative.
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Esito
Riforma TAR Puglia Bari: Sezione II n. 2242/2010
Precedenti giurisprudenziali generali sul termine per impugnare il permesso di costruire rilasciato a terzi:
Cons. Stato Sez. IV, 12.02.2013, n. 844; Cons. Stato Sez. IV, 07.11.2012, n. 5657; Cons. Stato Sez. V, 27.06.2012, n. 3777; Cons. Stato Sez. IV, 17.09.2012, n. 4923; Cons. Stato Sez. IV, 16.07.2012, n. 4132, Cons. Stato Sez. IV, 23.09.2011, n. 5346, Cons. Stato Sez. IV, 16.07.2012, n. 4132, Cons. Stato Sez. IV, 30.07.2012, n. 4287; Cons. St., Sez. V, 12.07.2010, n. 4482; Cons. St., Sez. IV, 10.12.2007, n. 6342; Cons. St., Sez. IV, 12.02.2007, n. 599; TAR Marche, sez. I, 26.09.2007, n. 1574; TAR Campania Salerno, sez. II, 19.07.2007, n. 860; Cons. St., sez. IV, 10.12.2007, n. 6342
Precedenti giurisprudenziali sugli effetti ai fini della presunzione di conoscenza di uno dei coniugi delle azioni poste in essere dall’altro coniuge:
Cons. Stato Sez. V, 24.02.1990, n. 202
Riferimenti normativi

Art. 180 cod. civ.
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2013 n. 5103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILAVORO/ Dal Tar Lombardia paletti ai datori. Legittimo il diniego di accesso ai verbali.
È legittimo il diniego di accesso ai verbali degli ispettori del lavoro, se il datore di lavoro non abbia indicato compiutamente le ragioni difensive che giustificano l'acquisizione degli atti richiesti.

Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III con la sentenza 17.10.2013 n. 2314.
Nel caso in esame la titolare di una ditta aveva chiesto l'esibizione di atti redatti dagli ispettori del lavoro nell'ambito di ispezioni svolte a carico di società collegate con la sua azienda.
La Direzione territoriale del lavoro di Pavia aveva, tuttavia, negato l'accesso dal momento che si trattava di documentazione acquisita in veste di organo di polizia giudiziaria e non nell'esercizio della propria attività istituzionale amministrativa, con la conseguente applicabilità dell'art. 329 c.p.p. che disciplina le ipotesi di segreto istruttorio.
Con ricorso, era stato così impugnato il provvedimento di diniego dal momento che in questo modo si era impedito alla ricorrente una piena e consapevole difesa dei propri interessi, anche considerando che i lavoratori interessati non potevano subire alcuna seria conseguenza dalla visione della documentazione richiesta, essendo dipendenti di altre società.
Il tar respinge il ricorso.
Infatti, come evidenziato dal dm 04/11/1994, n. 757 (Regolamento concernente le categorie di documenti, formati o stabilmente detenuti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale sottratti al diritto di accesso), è sottratta al diritto di accesso la documentazione acquisita dagli ispettori del lavoro nell'ambito dell'attività di controllo loro affidata.
Precisato ciò, secondo il Collegio, ai fini dell'accoglimento di un'istanza ostensiva, non è sufficiente addurre generiche esigenze di difesa, dovendosi piuttosto assumere come «strettamente indispensabile per la tutela dei propri interessi la conoscenza di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari».
Il tutto naturalmente dovrà avvenire con una valutazione da effettuarsi volta per volta, ossia con riguardo alla concreta situazione cui si riferisce la richiesta, non potendosi affermare in modo aprioristico «una generalizzata recessività dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte a ispezione» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.11.2013).

SEGRETARI COMUNALIDirigenza ai segretari senza nuovi costi.
Con la sentenza 17.10.2013, il Tribunale civile di Roma ha riconosciuto l'appartenenza dei segretari comunali e provinciali alla dirigenza della Pubblica amministrazione, una questione che da tempo interessa la categoria.
Sulla vicenda sono già apparse le prime repliche dell'Aran (si veda l'articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 29 ottobre), che alludono a pesanti conseguenze finanziarie e meritano qualche ulteriore considerazione.
La decisione trae origine dal ricorso presentato dall'Unione nazionale dei segretari comunali e provinciali (il sindacato più rappresentativo della categoria) che si era vista esclusa dalla negoziazione per il rinnovo del Ccnl di categoria per il quadriennio 2006-2009. Il Tribunale ha confermato la tesi del sindacato, in base a un'ampia serie di indici normativi, a partire dalle stesse procedure di selezione dei segretari tramite concorso pubblico, con l'acquisizione di un'abilitazione concessa dalla «Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione».
L'aspetto principale che è preso in considerazione, però, attiene alle funzioni esercitate in base al Testo unico e ad altre fonti più recenti (legge anticorruzione). Nella dettagliata ricostruzione normativa, il giudice dimostra che al segretario è stato affidato un ruolo sempre più rilevante di coordinamento dei dirigenti e di garanzia di «buon andamento», per un'amministrazione efficiente, trasparente e vicina al cittadino: un ruolo che richiede evidentemente un'adeguata qualificazione professionale e una collocazione apicale all'interno della struttura.
Appare chiara, quindi, l'intenzione del legislatore di assimilare la figura professionale dei segretari alla dirigenza della Pa, anche se in un'area autonoma di contrattazione.
Alle disposizioni normative sopra indicate (che la sentenza definisce «precise» e «inequivocabili») si aggiunge la disciplina contrattuale, anch'essa significativa, applicabile in caso di mobilità tra pubbliche amministrazioni: sarebbe quanto meno illogico che il segretario, se accedesse alla mobilità, lo facesse da dirigente, senza esserlo. Non appaiono peraltro condivisibili i timori dell'Aran sugli effetti della sentenza, a meno di voler rimettere in discussione la regolarità delle procedure finora seguite e degli atti adottati.
È incomprensibile, inoltre, la considerazione che l'inquadramento dei segretari all'interno della classe dirigenziale della Pa possa produrre un aumento di spesa, perché in realtà la loro retribuzione resta quella prevista contrattualmente. La sentenza non introduce alcuna novità neppure con riferimento all'istituto del «galleggiamento» che consente al segretario, indipendentemente dalla sua categoria di appartenenza, di avere un trattamento economico non inferiore al dirigente che lo stesso coordina: questo istituto, riguardando solo la retribuzione di posizione, è da sempre pacificamente applicato anche nei piccoli Comuni, naturalmente con riferimento non ai dirigenti ma ai responsabili titolari di posizione organizzativa.
Dalla sentenza non deriva dunque alcuna spesa a carico della finanza pubblica.
Al contrario, il giudice si è basato proprio sull'ordinamento già esistente (normativo e contrattuale). La sentenza serve semmai ad aiutare i segretari a svolgere il loro ruolo in modo proficuo per gli enti e per le comunità locali (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2013).

URBANISTICANuovi insediamenti. Limiti all'avvio delle attività e applicazione dei principi nazionali.
Piani urbanistico-edilizi: niente freni al commercio. Programmazione edilizia ed economica con iter paralleli.
La pianificazione urbanistica non può essere utilizzata come un freno alla liberalizzazione delle attività commerciali.

Il principio è stato ribadito di recente con la sentenza 10.10.2013 n. 2271 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
I giudici amministrativi hanno chiarito che la pianificazione territoriale non ha il potere di introdurre limitazioni all'insediamento di nuove attività.
Fin dalla fase di pianificazione l'inserimento sul territorio di complessi commerciali di ampie dimensioni segue due percorsi autorizzativi: quello urbanistico-edilizio e quello commerciale. La costruzione dei complessi commerciali, quindi, oltre a dover passare necessariamente per il rispetto delle norme urbanistiche locali (ricorrendo quasi sempre alla pianificazione urbanistica attuativa), deve anche rispettare gli scenari di sviluppo o qualificazione della rete di vendita delineati dagli strumenti di programmazione commerciale.
Da un lato, infatti, c'è l'esigenza di garantire che lo sviluppo del territorio si svolga in maniera ordinata, dall'altro che le nuove strutture commerciali rispettino le previsioni sulle garanzie dei servizi commerciali, la valorizzazione della rete distributiva, la ponderazione dell'offerta commerciale e così via.
Sia i percorsi autorizzativi (edilizio e commerciale) di ciascun singolo intervento che le forme pianificatorie a monte (urbanistica e commerciale) non possono essere scoordinate tra di loro. Diversamente, si correrebbe il rischio di costruire edifici di rilevanti dimensioni destinati a restare vuoti fino a quando gli iter per il rilascio delle autorizzazioni commerciali non si concludano.
Il coordinamento tra le forme di pianificazione e programmazione però, si presenta molto delicato. Spesso infatti, accade che previsioni contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica incidano su quella commerciale, prevedendo –ad esempio– limiti territoriali all'inserimento di nuove strutture commerciali. Ma questi interventi si scontrano con i principi di liberalizzazione introdotti dalla Direttiva Bolkestein e recepiti in Italia con il Dlgs 59/2010, risolvendosi in misure anticoncorrenziali, sempre sanzionate dalla giurisprudenza, compreso appunto il Tar Milano.
L'evoluzione normativa
La liberalizzazione nel settore commerciale ha seguito un tortuoso percorso, spesso connotato da contrasti tra le previsioni regionali e la disciplina nazionale. Infatti, a seguito alla riforma del titolo V della Costituzione, la materia del commercio è stata ricondotta alla competenza legislativa delle Regioni. Questa, tuttavia, deve essere armonizzata con la tutela della concorrenza, di competenza statale (Corte costituzionale, sentenza n. 150/2011).
La principale disposizione nazionale a tutela della concorrenza è ora l'articolo 3 del Dl 223/2006, secondo cui le piccole, medie e grandi strutture di vendita e le attività di somministrazione di alimenti e bevande devono essere svolte senza limiti e prescrizioni, quali il rispetto di distanze tra esercizi, il contingentamento dei titoli, vincoli merceologici e altri.
Su questo assetto è dapprima intervenuto l'articolo 35 del Dl 98/2011 che ha previsto che le attività commerciali e di somministrazione, incluse nei Comuni classificati dalle Regioni come «turistici» o «città d'arte», non fossero tenute al rispetto di orari di esercizio, né dell'obbligo di chiusura domenicale o festiva. Successivamente è intervenuto il Dl 138/2011, che ha introdotto un generale principio di liberalizzazione, secondo il quale Comuni, Province, Regioni e Stato –entro il 30.09.2012– avrebbero dovuto adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa economica è libera ed «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
Con il decreto salva-Italia (Dl n. 201/2011) la liberalizzazione degli orari è stata poi estesa a tutti gli esercizi commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande.
Da ultimo è intervenuto il Dl 1/2012, che ha disposto l'abrogazione, a decorrere dall'entrata in vigore di determinati regolamenti del Governo (ad oggi non ancora emanati), delle norme che impongono limiti non giustificati all'avvio di attività economiche e che, ancor più, prevede che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'esercizio delle attività economiche sono comunque da interpretare ed applicare in senso tassativo e proporzionato alle finalità di interesse generale, alla stregua del principio per il quale l'iniziativa economica privata è libera, dando a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni il termine del 31.12.2012 per adeguarsi. La strada delle liberalizzazioni è dunque chiaramente tracciata. È ora dovere e responsabilità delle amministrazioni locali darvi attuazione senza costringere i privati a passare per la via del contenzioso (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2013).

INCARICHI PROFESSIONALISugli onorari non si discute. L'importo è nel range? Il giudice non deve motivare. È quanto emerge da una sentenza della Corte di cassazione sui compensi dei legali.
Onorari dell'avvocato: il giudice non è tenuto a dare alcuna motivazione se l'importo è contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa.

È quanto emerge nella sentenza 09.10.2013 n. 22982. Secondo i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione infatti: «La determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice, che, se contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità a meno che l'interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate».
Così argomentando, hanno quindi respinto il ricorso di un avvocato, il quale, in primo grado, aveva chiesto (e solo in parte ottenuto, vedendosi negare il riconoscimento dei maggiori importi dovuti dagli interessi moratori) ingiunzione di pagamento a titolo di compenso per le prestazioni professionali rese al Comune: in particolare, tra i motivi di censura il legale lamentava la violazione dell'art. 115 c.p.c. per avere il tribunale riconosciuto come «non dovuti i diritti indicati nel provvedimento impugnato, voci peraltro disconosciute senza articolare una puntuale motivazione».
Anche in sede di legittimità, tuttavia, il motivo è stato ritenuto «privo di pregio» e dunque respinto: è sul ricorrente –spiegano all'uopo gli ermellini– che ricade «l'onere dell'analitica specificazione delle voci della tariffa professionale che ritiene violate e degli importi considerati, al fine di consentire il controllo [_] senza bisogno di procedere alla diretta consultazione degli atti» e questo anche perché l'eventuale violazione delle tariffe professionali integrerebbe un'ipotesi di error in iudicando e non in procedendo.
Il tribunale avrebbe, dunque, correttamente motivato le proprie determinazioni «sia indicando le voci della parcella da escludere sia provvedendo alla liquidazione del compenso».
Quanto, poi, al problema degli interessi, il collegio giudicante ha avuto modo di precisare che il debitore può essere ritenuto in mora solo a seguito di liquidazione, la quale «avviene con l'ordinanza che conclude il procedimento» (ex art. 28, legge 794/1942) (articolo ItaliaOggi Sette del 04.11.2013).

APPALTI: PA condannata a pagare una somma di denaro: astreinte da parte del giudice dell’ottemperanza?
Non è possibile disporre, in sede di giudizio di ottemperanza, una astreinte nel caso in cui la mancata esecuzione del giudicato da parte dell’amministrazione riguardi la condanna al pagamento di una somma di denaro.
Anche nel giudizio di ottemperanza dinanzi al g.a., come in quello di esecuzione dinanzi al g.o., la misura dell’astreinte è ammissibile solo per l’inottemperanza a sentenze di condanna relative a obblighi di non fare o fare infungibili.

L’art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a. prevede che in sede di giudizio di ottemperanza la parte possa chiedere, oltre alla nomina del commissario ad acta, anche la fissazione di una “somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato”.
La suddetta norma ha comportato una rilevante innovazione, introducendo anche nel processo amministrativo l’istituto della cd. astreinte, già disciplinato nel processo civile dall’art. 614-bis c.p.c..
Sull’applicazione di questa norma al giudizio di ottemperanza delle sentenze di condanna pecuniaria si è verificato un contrasto di giurisprudenza, non ancora sopito, tra alcuni TAR e il Consiglio di Stato.
Il TAR Napoli, conformandosi a un suo orientamento giurisprudenziale, si esprime negativamente sulla controversa questione della possibilità di disporre una astreinte nel caso in cui la mancata esecuzione della p.a. riguardi la condanna al pagamento di una somma di denaro.
In ciò si conforma, nel silenzio del c.p.a., alla disciplina del processo civile che consente l’astreinte solo per l’inottemperanza di obblighi di non fare o fare infungibili.
La pronuncia si pone in contrasto con il diverso orientamento del Consiglio di Stato che, considerando l’astreinte un rimedio di carattere generale, la differenzia da quella prevista dal c.p.a., ammettendola anche per gli obblighi di dare o fare fungibili e, in particolare, anche per le condanne al pagamento di somme di denaro
Il TAR Campano motiva la sua conclusione in base a diverse considerazioni:
a) L’astreinte costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, configurabile quando si è in presenza di obblighi di facere infungibili. Non sembra possibile né equo condannare l’Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando l’obbligo di cui si chiede l’adempimento consiste, esso stesso, nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Occorre considerare che, in tal caso, per il ritardo nell’adempimento sono già previsti dalla legge gli interessi legali, ai quali la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ad aggiungersi, con effetti iniqui di indebito arricchimento per il creditore.
b) Una puntuale disanima dei lavori preparatori dei lavori preparatori della disposizione del c.p.a. in questione, nonché l’osservazione che il testo dell’art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a è simile a quello del corrispondente articolo del c.p.c. e per il processo civile il riferimento agli obblighi di fare infungibili è contenuto nella rubrica e non nel testo del 614-bis c.p.c., portano a conclude che l’intento del legislatore sia stato proprio quello di riprodurre la norma del c.p.c. nel c.p.a. e che si sia semplicemente “dimenticato” di esplicitare la limitazione agli obblighi di facere infungibile.
c) La stessa conclusione verrebbe ricavata anche dalla disamina della legge delega per la riforma del processo amministrativo (n. 69/2009), relativamente al giudizio di ottemperanza, in quanto ove si ritenesse la norma di portata difforme da quella del c.p.c., si potrebbe configurare un profilo di eccesso di delega, non facilmente superabile attraverso argomenti extratestuali.
d) Infine depongono nel senso indicato anche esigenze di omogeneità dell’ordinamento e il principio di eguaglianza. A fronte di una condanna pecuniaria del giudice ordinario la parte può scegliere se agire con il processo di esecuzione dinanzi al g.o. o adire il g.a. in sede di ottemperanza. Ora se si ammettesse l’astreinte per l’esecuzione di condanne pecuniarie nel giudizio di ottemperanza si finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca. Il creditore pecuniario della p.a. potrebbe ottenere infatti maggiori utilità nel giudizio di ottemperanza rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile, e ciò semplicemente in base ad una opzione puramente potestativa. Tale tutela differenziata offerta al cittadino non sembra ragionevole all’interno di un sistema che svolge la stessa funzione esecutiva, ancorché dinanzi a giudici diversi.
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Esiti del ricorso
Accoglie il ricorso ma rigetta la domanda sul punto
Precedenti giurisprudenziali conformi
TAR Campania Napoli Sez. IV, 22.05.2013, n. 2644; TAR Campania Napoli Sez. IV, 22.05.2013, n. 2671; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 03/12/2012, n. 4887; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 19/03/2013, n. 1537; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 19/03/2013, n. 1538; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 15.04.2011, n. 2162;  TAR Puglia Lecce Sez. I, 21.06.2013, n. 1504; TAR Puglia Lecce Sez. I, 21.06.2013, n. 1506; TAR Puglia Lecce Sez. I, 07.06.2013, n. 1356; TAR Puglia Lecce Sez. I, 07.06.2013, n. 1357; TAR Puglia Lecce Sez. I, 07.06.2013, n. 1358; TAR Puglia Lecce Sez. I, 05.06.2013, n. 1336; TAR Lazio Roma Sez. II, 15.05.2013, n. 4885; TAR Lazio Roma Sez. II, 15.05.2013, n. 4886; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater 31.01.2012, n. 1080
Precedenti giurisprudenziali difformi
Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3339; Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3340; Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3341; Cons. Stato Sez. V, 19.06.2013, n. 3342; TAR Basilicata Potenza Sez. I, 06.06.2013, n. 335; Cons. Stato Sez. III, 30.05.2013, n. 2933; Cons. Stato Sez. V, Sent., 14.05.2012, n. 2744
Riferimenti normativi

Art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 01.10.2013 n. 4500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Riammissione alla gara in seguito al successivo rinvenimento di documenti.
E’ illegittimo il provvedimento dell’amministrazione che, dopo aver escluso una ditta partecipante ad una gara per l’assenza di un documento necessario, riammetta la medesima concorrente in seguito al rinvenimento della documentazione originariamente ritenuta mancante, qualora tale ritrovamento sia avvenuto in seduta riservata anziché pubblica e a seguito di operazioni di verifica effettuate senza preventiva comunicazione ai partecipanti alla gara.
E’ stata portata all’esame del Consiglio di Stato su una fattispecie particolare dove un concorrente di una gara di appalto, inizialmente escluso per l’assenza di un documento necessario, è stato successivamente riammesso in seguito al rinvenimento della documentazione originariamente mancante.
Tale ritrovamento però è avvenuto in seduta riservata anziché pubblica e a seguito di operazioni di verifica effettuate senza preventiva comunicazione ai partecipanti alla gara e, pertanto, ne è stata contestata la legittimità.
Il medesimo Coniglio si è espresso per l’illegittimità del provvedimento di riammissione, ritenendo dirimente l’incertezza che circonda le modalità di “riemersione” della dichiarazione risultata alla Commissione di gara in un primo tempo mancante.
In particolare, la lettera di invito aveva prescritto, con riferimento alla procedura di aggiudicazione, che la verifica della regolarità formale delle buste contenenti la documentazione amministrativa, come pure quella della regolarità della documentazione medesima, dovessero avvenire in “seduta pubblica aperta a tutti”, così imponendo la pubblicità delle operazioni di acquisizione della documentazione presentata dai concorrenti, al fine di acclararne senza equivoci la correttezza.
Di fatto l’iniziale apertura delle buste era effettivamente avvenuta in seduta pubblica, comportando l’immediata esclusione della ditta concorrente, ma successivamente, dopo che anche le offerte economiche erano state esaminate, la medesima ditta è stata riammessa in forza di un autonomo rinvenimento del documento prima ritenuto mancante.
Tale ritrovamento è però avvenuto in seduta non pubblica, e a seguito di operazioni di verifica effettuate senza preventiva comunicazione ai concorrenti.
La pronuncia in esame ha puntualizzato in proposito che, se è vero che la Pubblica Amministrazione, in applicazione del principio di autotutela, può attivare procedimenti di riesame, questi devono però svolgersi con cautele atte ad assicurare garanzie equipollenti a quelle prescritte per gli atti e le operazioni che formano oggetto di rivalutazione.
Il rispetto del canone del contrarius actus è difatti necessario ad impedire l’elusione delle suddette garanzie.
Nella specie tale canone è stato violato, non essendo stata rispettata la regola della pubblicità della seduta, la quale era stata dettata dalla lex specialis per la verifica della regolarità della documentazione amministrativa e da tale “anomalia” deriva l’illegittimità del provvedimento di esclusione.
Ciò a maggior ragione se di consideri che dai verbali della gara non è affatto desumibile, in connessione con le modalità di riemersione del documento in questione, il rispetto delle garanzie di custodia e segretezza proprie delle procedure di evidenza pubblica.
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Esito
Conferma TAR Puglia Lecce, Sez. III, n. 743/2009
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.09.2013 n. 4842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 04.11.2013

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UTILITA'

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EDILIZIA PRIVATAIVA in Edilizia: ecco lo speciale di BibLus-net con tutte le novità e le tavole sinottiche alla luce delle recenti disposizioni normative.
L’IVA in edilizia costituisce un argomento abbastanza complesso; la legislazione fiscale classifica in modo dettagliato i diversi ambiti di applicazione in edilizia, definendo e delimitando i diversi tipi di intervento e le varie aliquote applicabili.
Il D.L. 06.07.2011 n. 98 (come da ultimo modificato dal D.L. 28.06.2013, n. 76) ha disposto l’aumento dell’aliquota Iva ordinaria dal 21 al 22% a decorrere dal 01.10.2013.
In linea generale, anche in edilizia l’aliquota ordinaria dell’IVA è del 22%, ma ci sono due aliquote agevolate al 4% e al 10%.
In questo articolo proponiamo uno Speciale a cura della redazione di BibLus-net che ha lo scopo di chiarire e riassumere le modalità di applicazione dell’IVA ai vari interventi edilizi.
In particolare, vengono analizzate le 3 aliquote e tutti i casi e le modalità di applicazione.
In Appendice sono disponibili le seguenti tavole sinottiche:
Nuove Costruzioni
Interventi di manutenzione, recupero, risanamento e ristrutturazione di cui al DPR 380/2001 (art. 3, comma 1)
Beni finiti
Prestazioni di servizi
Tabella riepilogativa IVA al 4%
Tabella riepilogativa IVA al 10% (31.10.2013 - link a www.acca.it).

VARIBonus mobili 2013-1014, ecco il vademecum operativo di FederlegnoArredo.
Ricordiamo che è in esame alle Camere il testo definitivo del disegno di legge contenente "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato" (Legge di Stabilità 2014) che, tra i diversi provvedimenti, definisce le proroghe relative alle detrazioni per ristrutturazioni edilizie e per riqualificazione energetica per tutto il 2014.
Alla detrazione del 50% per la realizzazione di interventi di ristrutturazione edilizia, si associa un ulteriore incentivo per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici.
FederlegnoArredo, Federmobili e Angaisa, con riferimento anche a quanto stabilito dalla Legge 90/2013 e dalla Circolare n. 29/E dell’Agenzia delle Entrate, hanno pubblicato un nuovo opuscolo informativo, denominato Vademecum operativo – Bonus mobili 2013-2014, per meglio comprendere:
chi sono i beneficiari
la validità dell’agevolazione
quali sono i beni agevolabili
a quali interventi è collegato
le modalità di pagamento (31.10.2013 - link a www.acca.it).

CONDOMINIO: L’amministratore condominiale: compiti e responsabilità - Le novità alla luce della legge n. 220/2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, ottobre 2013).

APPALTI: Vademecum per le stazioni appaltanti, volto all’Individuazione di criticità concorrenziali nel settore degli appalti pubblici (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, deliberazione 18.09.2013).

APPALTI: Linee guida per la lotta contro le turbative d'asta begli appalti pubblici (OECD, febbraio 2009).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2013, "Linee guida regionali ai Comuni per la regolamentazione delle attività di trasporto merci in area urbana" (deliberazione G.R. 25.10.2013 n. 834).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2013, "Simboli distintivi di grado del personale dei corpi e servizi di polizia locale della Regione Lombardia" (Regolamento Regionale 29.10.2013 n. 4).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 30.10.2013 n. 255 "Testo del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, coordinato con la legge di conversione 30.10.2013, n. 125, recante: «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni»".
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Di particolare interesse:
Art. 2, comma 13-sexies
Art. 2, comma 13-septies
Art. 11. - Semplificazione e razionalizzazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti e in materia di energia

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2013, "Disposizioni in materia ambientale. Modifiche alle leggi regionali n. 26/2003 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), n. 7/2012 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione) e n. 5/2010 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale)" (L.R. 29.10.2013 n. 9).

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 29.10.2013 n. 254 "Testo del decreto-legge 31.08.2013, n. 102, coordinato con la legge di conversione 28.10.2013, n. 124, recante: “Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di trattamenti pensionistici”.
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Di particolare interesse:
Art. 8. - Differimento del termine per la deliberazione del bilancio di previsione ed altre disposizioni in materia di adempimenti degli enti locali
Art. 13. - Disposizioni in materia di pagamenti dei debiti degli enti locali
Art. 14. - Definizione agevolata in appello dei giudizi di responsabilità amministrativo-contabile

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte dei Conti - Patto di stabilità e assunzioni nelle aziende speciali e limite di spesa del personale (CGIL-FP di Bergamo, nota 28.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: La pensione anticipata e le penalizzazioni sui contributi non derivanti da "lavoro effettivo" (CGIL-FP di Bergamo, nota 28.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Decurtazione quota sulla pensione anticipata (CSA Milano, nota 21.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Modalità applicative della disciplina contrattuale della retribuzione di risultato in presenza di una posizione organizzativa a tempo parziale.
Domanda

Ad un dipendente di categoria D, con contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo parziale, con durata della prestazione pari a 18 ore settimanali, è stato affidato la titolarità di una posizione organizzativa.
La retribuzione di posizione, conseguentemente, è stata parametrata al 50% in relazione alla durata settimanale della prestazione lavorativa.
In questa particolare ipotesi, la retribuzione di risultato deve essere calcolata facendo riferimento al valore riproporzionato della retribuzione di posizione oppure può essere erogata per intero, con riferimento cioè all’ammontare pieno della stessa, qualora vengano raggiunti tutti gli obiettivi assegnati al dipendente, dato che tale voce retributiva, sulla base della disciplina contrattuale, è legata esclusivamente al conseguimento dei suddetti obiettivi?
Risposta

In relazione a tale particolare fattispecie, si ritiene utile precisare quanto segue.
Innanzitutto, si deve ricordare che
al personale con contratto di lavoro a tempo parziale, ordinariamente, non può essere conferita la titolarità di posizione organizzativa, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000. Tale disciplina non è stata in alcun modo modificata o abrogata.
L’eventuale deroga è ammessa solo nei limiti ed alle condizioni stabiliti dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004.

L’effettiva attuazione della disciplina del citato art. 11 è rimessa solo ed esclusivamente alle valutazioni del singolo ente che preventivamente individua, in relazione alle proprie esigenze organizzative, anche in via solo temporanea, le posizioni organizzative che possono essere conferite anche a personale con rapporto a tempo parziale, di durata comunque non inferiore al 50% del rapporto a tempo pieno.
La particolare formulazione della clausola contrattuale, con il riferimento esclusivamente alle “esigenze organizzative” come autonomamente valutate dall’ente, vale ad evitare che l’individuazione delle posizioni organizzative conferibili a personale a tempo parziale finisca per essere collegata alle scelte individuali del singolo lavoratore.
L’ente potrebbe avvalersi della disciplina di cui si tratta anche con riferimento a posizioni organizzative attualmente ricoperte da personale a tempo pieno ed indeterminato.
Nessuna disposizione contrattuale esclude tale possibilità, tenuto conto che l’introduzione di posizioni organizzative a tempo parziale risponde, nella logica dell’istituto, alla necessità di soddisfare specifiche esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico.
Sarà il dipendente, attualmente incaricato, a valutare l’opportunità di accettare il nuovo incarico, trasformando il suo rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale in relazione all’orario previsto per la posizione organizzativa.
Ai fini dell’applicazione della disciplina dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004, l’ente, come detto, procede alla preventiva valutazione delle proprie esigenze organizzative, per verificare se effettivamente queste richiedano posizioni organizzative a tempo parziale, anche con riferimento alla determinazione del tempo di lavoro delle stesse.
La verifica può anche concernere singoli casi, ma sempre sulla base di criteri oggettivi e trasparenti preventivamente adottati, per evitare forme di abuso o applicazioni personalizzate.
Il CCNL ha inteso evitare, invece, che il dipendente richieda, per esigenze personali, la trasformazione del proprio rapporto in rapporto a tempo parziale, e l’ente per assecondare la richiesta modifichi la propria organizzazione.
In relazione alla minore durata della prestazione lavorativa, l’ente dovrà procedere anche al riproporzionamento del valore della retribuzione di posizione ordinariamente connessa all’incarico conferito, in relazione al tempo di lavoro previsto per il rapporto di lavoro a tempo parziale, come espressamente prescritto dalla citata normativa dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004.
Diversamente ritenendo (prescindendo quindi dal riproporzionamento) si determinerebbe il paradosso di un incarico di posizione organizzativa retribuito allo stesso modo, sia se svolto a tempo pieno sia se svolto a tempo parziale.
In presenza di una posizione organizzativa a tempo parziale, secondo quanto sopra detto, non si pone alcun problema specifico di determinazione della relativa retribuzione di risultato.
Infatti, essendo questa particolare voce retributiva quantificata in una quota percentuale della retribuzione di posizione attribuita alla singola posizione organizzativa, diminuendo, formalmente e necessariamente, quest’ultima, secondo quanto sopra detto, automaticamente, non può non essere diminuita anche la retribuzione di risultato (settembre 2013 - link a www.aranagenzia.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Circolare 31.10.2013 n. 1 per l’applicazione dell’articolo 11 del d.l. 31.08.2013, n. 101, concernente “semplificazione e razionalizzazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti …” (SISTRI), convertito in legge 30.10.2013, n. 125 (G.U. n. 255 del 30.10.2013) (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per la Tutela del Territorio e delle Risorse Idriche).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: ALLEGHE (Belluno) - Immobile denominato Resti di Casa trecentesca. RISCONTRO A QUESITO (Mibac Veneto, nota 29.10.2013 n. 18569 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: La certificazione energetica (dall’Attestato di Certificazione all’Attestato di Prestazione Energetica) (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 28.10.2013 n. 657-2013/C).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Consulenza giuridica – Art. 2, comma 5, d.l. 25.06.2008, n. 112 – IVA - Aliquota agevolata - Opere di urbanizzazione primaria - Infrastrutture destinate all'installazione di reti e impianti di comunicazione elettronica in fibra ottica (Agenzia delle Entrate, risoluzione 16.10.2013 n. 69/E).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Monea, La segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico - Il “wistleblowing” rappresenta, nell’ordinamento italiano, un’interessante novità nel quadro del cambiamento normativo per la lotta alla corruzione. La disciplina attuale presenta, però, luci e ombre. Approfondiamone gli aspetti salienti, evidenziandone principali contenuti, limiti e criticità (Diritto e Pratica Amministrativa n. 10/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P. M. Zerman, Quando il mobbing diventa danno erariale (Diritto e Pratica Amministrativa n. 10/2013).

APPALTI: E. Occhipinti, L’arbitrato amministrato nelle opere pubbliche (Il Tecnico Legale n. 10/2013).

EDILIZIA PRIVATA: B. De Rosa, L’abuso edilizio minore - L’abuso edilizio minore di cui all’art. 34 del D.P.R. 380/2001. L’applicazione della sanzione pecuniaria non sana l’abuso: effetti penali, civili e urbanistici (Consulente Immobiliare n. 939/2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Chiarimenti sulle modifiche all’art. 6-bis del d.lgs. n. 163/2006, introdotte dalla legge di conversione del D.L. n. 101/2013 (comunicato del Presidente 30.10.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Indicazioni operative per la comunicazione del soggetto Responsabile dell’Anagrafe per la Stazione Appaltante (RASA) incaricato della compilazione ed aggiornamento dell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA) (comunicato del Presidente 28.10.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Il Comunicato del Presidente del 28.10.2013 fornisce indicazioni operative per la comunicazione del soggetto Responsabile dell’Anagrafe per la Stazione Appaltante (RASA) incaricato della compilazione ed aggiornamento dell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA). Il comunicato fa anche riferimento al Manuale utente che descrive le modalità operative con le quali il Responsabile deve richiedere l’associazione delle proprie credenziali al profilo di RASA.

APPALTI: Trasmissione dei dati dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture - settori ordinari e speciali – allineamento a 40.000 € della soglia minima per le comunicazioni ex art. 7, co. 8, d.lgs. n. 163/2006 – rettifica (comunicato 22.10.2013 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Il Comunicato dell’Avcp del 29.04.2013 sugli obblighi comunicativi ex art. 7, co. 8, del dlgs 163/2006 e s.m.i. è stato rettificato. Il nuovo Comunicato del 22.10.2013 precisa che per importi pari a 40.000 euro esatti non è più prevista l’acquisizione dello ‘smartCIG’, ma del ‘CIG’ tradizionale e il successivo invio delle schede informative, analogamente a quanto avviene per gli importi superiori a 40.000 euro.

APPALTI: Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Efficacia della sanzione di cui al comma 1-ter dell’art. 38 del Codice dei contratti (atto di segnalazione 09.10.2013 n. 5 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Avcp segnala l'esigenza di cambiare il Codice. La lieve sanzione non mini il contratto.
Garantire la stipula del contratto in caso di lieve sanzione irrogata a seguito di false dichiarazioni rese in gara dal concorrente.

È quanto chiede, proponendo una apposita modifica al Codice dei contratti pubblici, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici presieduta da Sergio Santoro con la segnalazione 09.10.2013 n. 5 a Governo e Parlamento per intervenire sull'attuale formulazione dell'art. 38, comma 1, lett. h), del Codice dei contratti pubblici.
La norma impone alle stazioni appaltanti di escludere i soggetti (imprese, professionisti e ogni altro aspirante all'aggiudicazione di contratti pubblici) che risultino iscritti, a seguito di una apposita procedura in contraddittorio gestita dall'Autorità, nel casellario informatico dell'Osservatorio per presentazione in gara di documentazione falsa o di dichiarazioni false relativamente a requisiti o a condizioni rilevanti per la partecipazione alla procedura di affidamento.
L'organismo di vigilanza segnala un aspetto di particolare rigidità della norma che andrebbe rettificato; fa presente che un operatore economico, a cui sia stata inibita la partecipazione alle gare per un breve periodo di tempo (ad esempio 15 giorni) in ragione della lievità dei fatti, possa in concreto venire espulso dalle fasi di gara successive alla presentazione dell'offerta/domanda, con l'effetto di dilatare, nella pratica, l'efficacia della sanzione fino ad abbracciare un periodo molto più lungo di quello indicato nel provvedimento. Ciò determina, afferma l'Autorità, un'ultrattività della sanzione che arriva a coprire l'intero arco temporale dello svolgimento delle operazioni di gara.
La proposta dell'Authority è quindi quella di prevedere che la sanzione non impedisca al concorrente la stipulazione del contratto quando l'annotazione nel casellario sia intervenuta successivamente alla scadenza fissata per la presentazione della domanda di partecipazione o dell'offerta (data in cui, pertanto, l'operatore era in possesso del requisito in parola) e l'interdizione comminata abbia esaurito i suoi effetti prima dello svolgimento dei controlli sui requisiti, eventualmente espletati in corso di procedura, ivi compreso il controllo a seguito dell'aggiudicazione definitiva.
Infine l'Autorità chiede che sia anche fissato un minimo della sanzione (un mese) ed elabora quindi una proposta di modifica dell'articolo 38, comma 1, lettera h), conseguente a quanto segnalato (articolo ItaliaOggi del 25.10.2013).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Assunzione a tempo indeterminato in categoria superiore.
Dopo l'intervenuta abrogazione del sistema della progressione verticale, l'accesso alla categoria superiore comporta la novazione del rapporto di lavoro e si configura quale assunzione vera e propria, con l'obbligo di stipulare un nuovo contratto di lavoro.
Il Comune ha chiesto di conoscere se, nel caso in cui un dipendente inquadrato in categoria C risulti vincitore di un concorso bandito dall'Amministrazione di appartenenza per la copertura di un posto di categoria D, sia necessario che l'interessato presenti le dimissioni dal rapporto in essere, per essere poi 'riassunto' con un nuovo contratto di lavoro e se sia soggetto ai termini di preavviso.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni sindacali comparto, si ritiene utile preliminarmente riassumere l'evoluzione normativa intervenuta in materia di accesso alle categorie superiori nell'attuale sistema di classificazione del personale.
In precedenza la contrattazione collettiva
[1] prevedeva un sistema di selezioni totalmente riservate al personale interno, finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria immediatamente superiore.
In particolare, l'art. 38, comma 1, del CCRL del 01.08.2002, prevedeva che, in caso di progressione verticale del personale, gli enti comunicano ai dipendenti il nuovo inquadramento conseguito, in applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 152/1997.
Sempre con riferimento alle procedure di progressione verticale, la giurisprudenza amministrativa aveva rimarcato che dette procedure 'risolvendosi nel passaggio alla categoria immediatamente superiore del sistema di classificazione delle professionalità, costituiscono un mero sviluppo di carriera nell'ambito del rapporto di lavoro già incardinato con la pubblica amministrazione, con la conseguenza che, in assenza di una specifica contraria prescrizione legislativa, esse, ai fini della disciplina finanziaria, non integrano la fattispecie della <> ivi prevista e, dunque, sfuggono al blocco dei reclutamenti'
[2]. In sostanza, la progressione verticale nel sistema di classificazione, in quanto espressione di un rapporto di lavoro già instaurato, non implicava la sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro, risultando sufficiente che l'ente di appartenenza comunicasse al dipendente il nuovo inquadramento.
Tutto ciò premesso, è doveroso evidenziare che le progressioni verticali sono state eliminate dalla riforma Brunetta e, allo stato attuale, non sussiste alcuno spazio per l'espletamento legittimo di selezioni interamente riservate agli interni, a partire dall'anno 2010, perché l'art. 52 novellato del d.lgs. 165/2001 determina l'immediata disapplicazione di ogni fonte incompatibile col principio di assunzione esclusivamente per concorso pubblico: i contratti collettivi, ma anche i regolamenti e gli atti di programmazione triennale delle assunzioni.
Emerge pertanto nel vigente ordinamento che il dipendente interno all'ente può accedere alla categoria superiore esclusivamente mediante partecipazione ad una procedura concorsuale pubblica, la cui conclusione è finalizzata alla copertura di posti della dotazione organica.
Conseguentemente l'accesso alla categoria superiore comporta la novazione del rapporto di lavoro e si configura quale assunzione vera e propria, con l'obbligo di procedere alla stipulazione di un nuovo contratto di lavoro.
Si consideri inoltre che l'art. 15, comma 6, del CCRL del 07.12.2006, prevede che antecedentemente all'inizio del servizio, l'interessato all'assunzione deve dichiarare di non avere altri rapporti di impiego pubblico. Pertanto, nella fattispecie di cui si discute, il dipendente è tenuto a rilasciare le proprie dimissioni, nel rispetto dei termini prescritti dall'art. 33 del citato contratto regionale.
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[1] Cfr. art. 27 del CCRL del 01.08.2002 e art. 37 del CCRL del 07.12.2006.
[2] Cfr. TAR Sicilia, sez. III, sentenza n. 647/2011. Nella fattispecie si trattava di verificare la possibilità di assumere in esito ad una selezione interna bandita nel corso del 2004, alla luce delle disposizioni introdotte dalla l. 311/2004 (finanziaria 2005), che disponevano il divieto di assunzioni per gli enti non rispettosi degli obiettivi del patto di stabilità
(29.10.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Posizioni organizzative. Orario di lavoro e straordinario.
L'art. 41, comma 9, del CCRL del 07.12.2006, prevede che, per tutta la durata dell'incarico di posizione organizzativa, il dipendente ha l'obbligo di adeguare il proprio orario di lavoro, anche oltre le 36 ore settimanali, alle effettive esigenze degli enti e dei servizi cui è preposto.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti l'orario di lavoro delle posizioni organizzative, nonché il lavoro straordinario effettuato dalle medesime.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni sindacali comparto, preliminarmente si osserva che compete alle singole amministrazioni locali definire con norme regolamentari gli aspetti inerenti alla corretta gestione dell'orario dovuto dal personale in servizio, compresi i titolari di posizione organizzativa, ovviamente nel rispetto delle clausole contrattuali stabilite in materia.
Premesso un tanto, in via generale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 41, comma 9, del CCRL del 07.12.2006, prevede che, per tutta la durata dell'incarico di posizione organizzativa, il dipendente ha l'obbligo di adeguare il proprio orario di lavoro, anche oltre le 36 ore settimanali, alle effettive esigenze degli enti e dei servizi cui è preposto.
La ratio della citata norma non è certo quella di consentire alle posizioni organizzative una particolare flessibilità dell'orario, intesa quale 'libera gestione' del medesimo, sottratta agli obblighi imposti al restante personale dipendente. l titolari di posizione organizzativa sono, infatti, tenuti a garantire la propria disponibilità oltre il minimo orario dovuto contrattualmente (36 ore settimanali)
[1].
Per le ragioni sopra esposte, l'art. 44, comma 1, del citato contratto regionale stabilisce che il trattamento economico riconosciuto ai titolari di posizione organizzativa assorbe tutte le competenze accessorie, compreso il lavoro straordinario, per un numero pari a 120 ore annue. Ciò significa che, per le prestazioni lavorative settimanali oltre le 36 ore, fino al raggiungimento delle 120 ore annue, essendo vietata la corresponsione del compenso per lavoro straordinario, deve ritenersi vietata anche l'applicazione di istituti sostitutivi di detto compenso (c.d. riposo compensativo).
In relazione a quanto già sopra evidenziato, il titolare di posizione organizzativa è tenuto ad osservare, come tutti gli altri dipendenti le regole stabilite (dal contratto e dall'ente) per una corretta gestione dell'orario di lavoro. Pertanto, qualora si ravvisi la necessità di uscire anticipatamente, tale assenza dovrà essere debitamente autorizzata e giustificata mediante gli istituti contrattuali previsti (permessi brevi, festività soppresse, ecc).
Per quanto concerne, da ultimo, il concetto di lavoro straordinario, l'art. 17, commi 1 e 2, del CCRL del 01.08.2002, dispone che le prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e sono espressamente autorizzate dal dirigente o figura equivalente, sulla base delle esigenze organizzative e di servizio individuate dall'ente, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.
E' da rilevare che compete al soggetto che autorizza lo svolgimento di lavoro straordinario valutare le esigenze concrete ed effettive che determinano la necessità della prestazione ulteriore del dipendente. La giurisprudenza amministrativa ha rilevato come la preventiva autorizzazione implichi la verifica in concreto delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l'orario normale di lavoro
[2]. Pertanto, si ritiene che tale prestazione oltre orario possa riguardare anche l'attività ordinaria, intesa come svolgimento delle funzioni proprie, in fattispecie che richiedano, ad esempio, la presenza del dipendente in particolari sedi (ad es. partecipazione a sedute degli organi politici, permanenza in servizio per attività istituzionali da ultimare entro termini temporali definiti e improrogabili).
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[1] Cfr. parere RAL 1383, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 5953 del 2012
(29.10.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Diniego di concessione demaniale.
Domanda
È legittimo il comportamento dell'Amministrazione che, a fronte della presentazione di istanza di concessione da parte di un terzo, nega il rilascio di una concessione demaniale, senza preventivamente comunicarne i motivi ostativi?
Risposta
L'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi prevede che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti».
Tale principio generale si applica anche in materia di concessioni demaniali. Pertanto, nel merito del quesito posto, se l'Amministrazione intende respingere una istanza di concessione demaniale, anche se nell'esercizio dei propri poteri discrezionali, occorre trasmettere il preavviso previsto dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e smi (cfr. Consiglio di stato, sezione VI n. 3614 del 09/07/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Mini-giunte, c'è tempo. Riduzione assessori dal prossimo rinnovo. Il caso specifico del rinnovo parziale di una sola sezione elettorale.
Se, tra il rinnovo degli organi elettivi di un comune, avvenuto a seguito di elezioni amministrative oggetto di impugnativa giurisdizionale presso il Consiglio di Stato, e il rinnovo parziale di una sola sezione elettorale, ordinato dal giudice amministrativo, è entrata in vigore la legge n. 42 del 2010 -che ha comportato, per i comuni con popolazione fino a 3 mila abitanti, una riduzione del numero di assessori da quattro a tre- il numero massimo di assessori di cui può essere composta la giunta comunale, nel caso di specie, deve essere conformato alla legge n. 42/2010?
L'intervento giurisdizionale ha comportato solamente il rinnovo di una fase del procedimento elettorale che, a tutti gli effetti, rimane quello instaurato in epoca precedente all'entrata in vigore della legge n. 42/2010.
A tale data bisogna, pertanto, necessariamente far riferimento per quanto riguarda la normativa sulla composizione degli organi dell'ente.
Ne consegue che le disposizioni sulla riduzione del numero dei componenti degli organi comunali, disposte con la citata legge n. 42 del 2010, troveranno applicazione, nel caso di specie, solamente a decorrere dal prossimo rinnovo del consiglio comunale per scadenza naturale del mandato (articolo ItaliaOggi del 25.10.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Tourbillon di consiglieri.
In un comune con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, nel caso in cui alcuni consiglieri comunali abbiano rassegnato le dimissioni per assumere gli incarichi di assessori comunali, i candidati risultati primi dei non eletti nell'ambito della lista di appartenenza dei consiglieri dimessisi possono partecipare alla prima seduta consiliare al posto dei consiglieri nominati assessori?

Nel caso di specie, i consiglieri di minoranza hanno eccepito l'irregolarità della procedura di sostituzione dei consiglieri dimissionari, lamentando che i consiglieri subentranti avrebbero potuto partecipare alla seduta del consiglio comunale solo successivamente all'adozione delle relative delibere di surroga da parte del collegio.
Ai sensi dell'art. 38, comma 4, del dlgs 267/2000 è previsto, infatti, che i consiglieri entrino in carica all'atto della proclamazione, ovvero non appena adottata dal consiglio la deliberazione di surrogazione.
Ad avviso dei suddetti consiglieri di minoranza, si sarebbe erroneamente fatta applicazione dell'art. 64, comma 2, del dlgs n. 267/2000 che, per i comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti, prevede il subentro automatico del primo dei non eletti della lista del consigliere che, avendo accettato la carica di assessore, sia cessato ope legis dalla carica di componente del consiglio comunale.
Sulla questione si rinvia al parere del Consiglio di stato n. 2755/2005 contenente chiarimenti interpretativi sull'applicazione dell'art. 64 del dlgs n. 267/2000, sul quale, a suo tempo, è stata richiamata l'attenzione degli enti interessati nella circolare n. 5 del 2005 del Dipartimento affari interni e territoriali, Direzione centrale per gli uffici territoriali del governo e per le autonomie locali, alla quale si rinvia per una completa lettura, ancora attuale, come espressamente dichiarato in una recente pronuncia del Tar Campania n. 8 del 2012.
In particolare, è stato precisato che nei comuni con popolazione fino a 15 mila abitanti non vi è incompatibilità tra le cariche di consigliere e di assessore.
Qualora, il consigliere nominato assessore intenda egualmente rinunciare alla sua carica di membro dell'organo rappresentativo, dovrà dimettersi formalmente secondo le norme di cui all'art. 38, comma 8, del Tuoel n. 267/2000; in tali casi si applicherà l'ordinario procedimento di surroga, disciplinato dal medesimo art. 38 (e dal successivo art. 45, comma 1).
Conseguentemente, i consiglieri surroganti non dovranno essere convocati per la seduta in cui si procede alla surroga, in quanto i medesimi entrano in carica, ai sensi del comma 4 del citato art. 38, solo dopo l'adozione della delibera di surroga (articolo ItaliaOggi del 25.10.2013).

VARI: Detrazione arredi condizionata.
Domanda
Ci sono condizioni per richiedere la detrazione Irpef per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici?
Risposta
Sì e per una più ampia illustrazione rinviamo alla recente circolare dell'Agenzia delle entrate n. 29/E/2013.
Tale circolare ha confermato che gli interventi di recupero presupposto per il beneficio sugli arredi non sono limitati alla «ristrutturazione edilizia» (espressione usata nella norma, art. 16, 2° comma, dl n. 63/2013), ma anche la manutenzione straordinaria e il restauro/risanamento conservativo di singole unità residenziali o di parti comuni condominiali (per queste ultime è sufficiente anche la manutenzione ordinaria); del pari vi rientrano anche quelli di ristrutturazione o di restauro/risanamento conservativo di interi fabbricati, eseguiti da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare o da cooperative edilizie, ai quali faccia seguito la vendita delle unità immobiliari (sia il bonus per il recupero edilizio –con particolari modalità di calcolo– che quello per gli arredi competono, in questo caso, agli acquirenti). Per contro, non è stata accolta l'interpretazione secondo cui, per come formulata la norma, la detrazione sembrava poter essere estesa anche a tutti gli altri interventi «minori» di cui all'art. 16-bis del Tuir.
La circolare ha poi precisato che è idoneo, ai fini del «bonus arredi», il sostenimento di spese per i lavori di recupero fin dal 26.06.2012.
Le spese per l'acquisto di arredi possono essere sostenute anche prima di quelle per la «ristrutturazione», a condizione che siano stati già avviati i lavori di recupero dell'unità cui i beni sono destinati. In pratica, la data di inizio lavori deve essere anteriore a quella in cui sono sostenute le spese per l'acquisto degli arredi, ma non è necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle per l'arredo dell'abitazione.
Tra le spese su cui è possibile chiedere la detrazione rientrano quelle di trasporto e montaggio dei mobili e degli elettrodomestici, se sostenute con bonifico bancario o postale oppure –novità– con carte di credito o di debito (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

PATRIMONIO: Concessione di un'area demaniale.
Domanda
È legittimo escludere un concorrente, che abbia commesso un'irregolarità contributiva di minima entità, da una procedura ad evidenza pubblica per la concessione di un'area demaniale marittima?
Risposta
Alla procedura per il rilascio di una concessione demaniale marittima non sono direttamente applicabili le disposizioni che disciplinano l'aggiudicazione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Nello specifico è illegittima l'esclusione del concorrente che sia stata disposta per un'irregolarità contributiva di minima entità, ed è altresì illegittima la clausola del bando che rechi una simile previsione, dal momento che risulta violato il principio di proporzionalità (cfr. Tar Lazio, sezione Latina n. 618 del 15/07/2013).
L'esigenza della proporzionalità nell'azione amministrativa si articola infatti nei distinti profili inerenti: 1) l'idoneità, ovvero il rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo perseguito; 2) la necessarietà, ovvero l'assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in maniera minore sulla sfera del singolo; 3) l'adeguatezza ovvero la tollerabilità della restrizione per il privato (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri - Quali sono oggi i soggetti obbligati e le date di operatività del Sistema?
Domanda
Lavoro per un'impresa di trasporti di rifiuti pericolosi. Le disposizioni in materia di SISTRI e tracciabilità dei rifiuti sono state di recente modificate dal D.L. n. 101/2013 (Pacchetto razionalizzazione spese nella PA): quali sono adesso i soggetti obbligati e le relative date di operatività del Sistema?
Risposta
Il “nuovo” Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, meglio noto come SISTRI –istituito dal D.M. 17.12.2009 ma non ancora divenuto pienamente operativo– sembra avviarsi verso la sua partenza, o più correttamente “piena operatività”.
A tal fine, i più recenti interventi normativi hanno cercato di alleggerirlo dalle pesantezze burocratiche che lo affliggevano e, contestualmente, si stanno ancora oggi svolgendo una serie di verifiche della funzionalità che dovranno garantirne un funzionamento efficiente e più semplice.
È in questa ottica che vanno letti il D.M. Ambiente 20.03.2013, n. 96 di “riavvio progressivo del SISTRI” (“Definizione termini iniziali di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)”) – che, per il riavvio del SISTRI, ha “calendarizzato” le date del 01.10.2013 e del 03.03.2014 – e l’art. 11 del D.L. 31.08.2013, n. 101, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”.
In particolare, l’art. 11 (Semplificazione e razionalizzazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti e in materia di energia) del D.L. n. 101/2013 –le cui disposizioni sono entrate in vigore dal 01.09.2013 e sono ora in corso di conversione in legge– ha introdotto una serie di semplificazioni in materia di SISTRI che hanno ristretto l’obbligo di adesione ai soli rifiuti pericolosi (produttori iniziali, raccolta/trasporto professionale, gestori e intermediari, inclusi i nuovi produttori) mentre è prevista l’adesione volontaria per produttori e gestori di rifiuti non pericolosi.
Il decreto ha anche ammorbidito le sanzioni, e sono previsti ulteriori decreti di semplificazione (periodici), oltre alla rideterminazione dei contributi e l’istituzione di un Tavolo tecnico di monitoraggio e concertazione del SISTRI, in sostituzione del Comitato di vigilanza e controllo di cui all’art. 27 del D.M. 18.02.2011, n. 52 (TU SISTRI), soppresso dallo stesso art. 11, comma 13, del D.L. n. 101/2013.
Per introdurre tali rilevanti novità il legislatore d’urgenza ha dovuto modificare, innanzitutto, il D.Lgs. n. 152/2006 (TUA) e in particolare l’articolo 188-ter (sostituendo i commi 1-3 e abrogando il comma 5) e l’art. 188-bis (inserendovi il nuovo comma 4-bis).
Come accennato, dunque, e venendo più da vicino all’oggetto del quesito, tali modifiche hanno circoscritto il novero dei soggetti obbligati ai soli produttori e gestori di rifiuti pericolosi, mentre per gli enti e imprese intermediari nei rifiuti diversi dai pericolosi, rimane ancora in piedi il “tradizionale” sistema dei registri cartacei (Registro di carico/scarico, Formulario dei rifiuti).
Il provvedimento demanda, poi, ad un ulteriore D.M. da adottarsi entro il 03.03.2014 l'individuazione di ulteriori categorie tenute ad aderire al SISTRI (termine che potrà essere ulteriormente prorogato di altri sei mesi con apposito D.M., se ciò sarà necessario per rendere operative le semplificazioni). Quanto alla partenza o più correttamente “operatività” del SISTRI, è stato previsto che dal 01.10.2013 il sistema è attivo solo per i gestori di rifiuti pericolosi, e non anche per i produttori di rifiuti pericolosi (ciò, secondo il Ministro Orlando, farà sì che il numero preventivato di 70.000 utenti per il 1° ottobre scenda a circa 17.000 utenti).
Per i produttori di rifiuti pericolosi il SISTRI partirà il 03.03.2014, così che nel frattempo si possa provvedere alle necessarie semplificazioni, con la possibilità di ulteriore proroga di sei mesi se a tale data le semplificazioni non saranno operative.
Dunque, riepilogando, in base al D.L. n. 101/2013, questi sono i nuovi termini di operatività del SISTRI e i relativi soggetti obbligati:
- il 01.10.2013 il SISTRI è partito per gli enti o le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale;
- il 03.03.2014, il SISTRI (a meno di una ulteriore proroga di sei mesi) partirà per i “produttori iniziali” di rifiuti pericolosi, nonché per i Comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani del territorio della regione Campania. Naturalmente, dal 1° ottobre 2013, il SISTRI sarà operativo anche per enti e imprese che lo vorranno utilizzare su base volontaria.
Questo è il quadro attualmente vigente, a meno di ulteriori modifiche in corso d’opera (21.10.2013 - tratto da www.ispoa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza burocrazia. Le difficoltà organizzative non scusano. Le richieste dei consiglieri vanno evase nel minor tempo possibile.
Un consigliere comunale può accedere agli atti e alle informazioni relative all'ente locale?

Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato dall'art. 43, comma 2, dlgs 18.08.2000, n. 267, il quale prevede in capo agli stessi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
In merito all'individuazione di specifici giorni ed orari riservati all'accesso, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha affermato, con parere del 12.10.2010, che «la limitazione dell'orario d'accesso agli uffici non è di per sé sola lesiva delle prerogative, ma è necessario che l'ente garantisca l'accesso al consigliere comunale nell'immediatezza, e comunque nei tempi più celeri e ragionevoli possibili».
Ciò trova conferma nell'indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr. Cds sez. V. n. 929/2007) secondo il quale il diritto di accesso «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente» (limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando ferma la «necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all'espletamento del mandato, con le esigenze di funzionamento degli uffici». (Cds, sezione V, del 17.09.2010, n. 6963).
In relazione alla situazione concreta qui prospettata va distinto il diritto di accesso dei consiglieri dalla disciplina di «accesso», ma più correttamente si dovrebbe dire di ingresso, agli uffici comunali da parte sia dei privati cittadini che dei consiglieri comunali, ed è importante sottolineare che si tratta di aspetti connessi ma diversi che, di conseguenza, rispondono a distinte regolamentazioni.
Pur operando in ambiti contigui, infatti, le due discipline regolamentari dovranno essere necessariamente distinte: l'una, infatti, trova il proprio fondamento nell'art. 38 del Tuel n. 267/2000, l'altra, per quanto attiene ai consiglieri, deriva automaticamente dall'art. 43, comma 2, del medesimo Tuel.
Non può non evidenziarsi che, pur nella propria autonomia, l'ente, attraverso l'adozione di appositi regolamenti, dovrebbe individuare, tra le varie opzioni possibili, le regole che, in concreto, meglio contemperino esigenze concorrenti, quali quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali, con quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente nonché, inoltre, quella di stretta tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio.
Inoltre, il diritto di accesso del consigliere, finalizzato all'esercizio delle funzioni istituzionali, si differenzia dal più generale diritto di accesso riconosciuto ai singoli cittadini, come disciplinato dalla legge n. 241/1990. In merito anche il Tar Toscana, Sez. I, con sentenza 11/11/2009, n. 1607 ha ritenuto opportuno sottolineare (concordando in questo con l'indicazione fornita dal ministero dell'interno in fattispecie analoghe) l'opportunità che l'ente locale, nell'ambito della propria autonomia, si doti da un lato di apposita regolamentazione, utile a disciplinare il corretto esercizio del diritto di accesso agli atti e alle informazioni sancito dall'art. 43, comma 2, del Tuel, dall'altro di strumenti organizzativi adeguati a soddisfare le esigenze connesse con l'esercizio del diritto in questione (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAParere in ordine al regime vincolistico delle fasce di rispetto alle acque pubbliche all'interno delle perimetrazioni urbanistiche del centro abitato - Comune di Castelliri (Regione Lazio, parere 10.10.2013 n. 208886 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito al computo del volume di un portico in area soggetta a vincolo paesaggistico - Comune di Anguillara Sabazia (Regione Lazio, parere 08.10.2013 n. 12124 di prot.).

APPALTI SERVIZI: Bandi di gara: anche per i servizi socio-educativi-culturali le stesse regole di pubblicità. Per importi sia inferiori che superiori alla soglia comunitaria.
Domanda
Quali sono le modalità di pubblicazione dei bandi di gara e degli avvisi di aggiudicazione inerenti i servizi socio-educativi-culturali elencati nell'allegato II B del D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, per importi sia inferiori che superiori alla soglia comunitaria?
Risposta
L'art. 2 comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 stabilisce che "1. L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice".
Si ritiene che, sebbene l'art. 20 D.Lgs. cit. stabilisca l'applicabilità agli appalti nei servizi di cui all'allegato II B di alcune norme soltanto del codice, debba comunque trovare applicazione il principio generale di adeguata pubblicità della gara in relazione al suo valore.
Infatti, l'AVCP con Deliberazione n. 108 del 19.12.2012 ha stabilito che "I servizi elencati nell'allegato II B restano soggetti, oltre che all'art. 20 del D.lgs. n. 163/2006, anche all'art. 27 del medesimo decreto in base al quale l'affidamento di contratti pubblici, sottratti in tutto o in parte all'applicazione del codice, deve avvenire nel rispetto di principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità".
Con Deliberazione n. 25 del 08.03.2012 ha stabilito che "La riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B del Codice non esonera le amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione dei principi generali in materia di affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale, con particolare riferimento al principio di pubblicità, espressione dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 03.12.2008, n. 5943; 22.04.2008, n. 1856; 08.10.2007, n. 5217; 22.03.2007, n. 1369; TAR Lazio, Sez. III-ter, 05.02.2008, n. 951). Nella deliberazione n. 102 del 05.11.2009 l'Autorità ha, inoltre, sottolineato che sebbene i servizi rientranti nell'allegato II B siano soggetti, a stretto rigore, solo alle norme richiamate dall'art. 20 del D.Lgs. 163/2006, oltre a quelle espressamente indicate negli atti di gara (in virtù del c.d. principio di autovincolo), quando il valore dell'appalto è decisamente superiore alla soglia comunitaria è opportuna anche una pubblicazione a livello comunitario, in ossequio al principio di trasparenza (cui è correlato il principio di pubblicità), richiamato dall'art. 27 D.Lgs. 163/2006 a tenore del quale l'affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l'oggetto del contratto".
La codificazione di tali principi conferma dunque la contrarietà per l'affidamento fiduciario. Pertanto, in ossequio ai principi del Trattato, la stazione appaltante dovrà opportunamente nell'ambito della propria discrezionalità scegliere il modulo procedimentale più consono, favorendo la procedura ristretta quando il criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Conseguentemente, occorre rispettare le regole di pubblicità dei bandi relativi alle gare di importo sopra e sotto soglia anche per le gare inerenti ai servizi di cui all'allegato II B (01.10.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIParere in merito alle condizioni per l'esercizio del potere di annullamento di ufficio dei provvedimenti amministrativi illegittimi (art. 21-nonies legge 241/1990) - Comune di Fontana Liri (Regione Lazio, parere 30.09.2013 n. 202602 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla procedibilità di accordi di programma o alla possibilità di rilascio di permessi di costruire in deroga per la realizzazione di interventi inseriti nell'ambito di un PRUSST con riferimento a comuni sprovvisti di PRG ovvero dotati unicamente di programma di fabbricazione o di perimetrazione urbana - Comune di Sora (Regione Lazio, parere 30.09.2013 n. 65047 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito al procedimento autorizzatorio concernente gli interventi agro-forestali in ambiti gravati da vincoli paesaggistici boschivo e di interesse archeologico (art. 142, comma 1, lettere g) ed m), d.lgs. 42/2004), indicati nella Tavola B del PTPR (Regione Lazio, parere 27.09.2013 n. 356054 di prot.).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: Corte conti. Legittime le permute alla pari.
Solo le permute «pure» (in cui gli immobili vengono scambiati alla pari senza il pagamento di una differenza in termini di prezzo) sono escluse dal divieto che, ai sensi della legge di stabilità 2013, ha colpito tutte le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della p.a. tenuto dall'Istat (e quindi anche gli enti locali).

Lo ha chiarito la Corte conti del Veneto nel parere 23.10.2013 n. 302, emessa su richiesta del comune di Chioggia che voleva sapere se fosse o meno legittima un'operazione che prevedeva l'acquisizione da parte dell'ente di un immobile di proprietà della Marina militare a fronte dell'impegno a realizzare (per un valore equivalente) un intervento di ristrutturazione su un immobile di proprietà della Marina.
La Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza in materia che in più di un'occasione ha ristretto l'ambito applicativo del divieto ai soli acquisti «a titolo derivativo» tra privati. Sulla base di questo presupposto, la sezione veneta ha sempre escluso che la locuzione «acquisti a titolo oneroso», contenuta nella legge, potesse estendersi anche alle espropriazioni per pubblica utilità (che fanno acquisire la proprietà a titolo originario e senza il pagamento di un corrispettivo in senso tecnico).
La Corte estende l'esonero anche alle permute a parità di prezzo, in quanto le stesse rispettano «la ratio della norma vincolistica volta a escludere esborsi di denaro a titolo di corrispettivo».
Le tesi della Corte conti Veneto sono state recepite nel decreto sui pagamenti della p.a. (dl n. 35/2013, convertito nella legge n. 64) che all'art. 10-bis ha espressamente escluso dal divieto «le procedure relative agli acquisti a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità, le permute a parità di prezzo» e infine le operazioni di acquisto programmate da delibere assunte dagli enti prima del 31.12.2012 (articolo ItaliaOggi del 29.10.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione dei compensi per incarichi di collaudo affidati a dipendenti di pubbliche amministrazioni.
In caso di incarico di collaudo conferito dall'ente locale ad un dipendente pubblico di altro ente, anche statale, opera l'obbligo di trattenuta del 50% sul 'compenso spettante' prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008.
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La trattenuta si applica nei modi previsti dall'art. 61 ma a far data dall'entrata in vigore della legge. In considerazione di tale conclusione non dovrebbe determinarsi l'inconveniente adombrato da codesto Comune che si preoccupa di evidenziare come 'prima dell'entrata in vigore della disciplina in esame costituiva prassi tra i professionisti offrire un corrispettivo determinato da tariffa professionale e scontato di una percentuale oscillante tra il 30% ed il 40% (70% o 60% dell'onorario desumibile dalla tariffa professionale)'.
Sicché ove 'la riduzione del 50% si ritenesse applicabile all'onorario già scontato del 30% o del 40%, il professionista incaricato finirebbe per percepire (a titolo di compenso per gli affari affidatigli) soltanto la metà della somma (35% oppure 30%), a suo tempo convenuta con l'Amministrazione'. Tale conseguenza potrebbe esporre 'l'Amministrazione a costi ed oneri legali aggiuntivi'. Orbene, tale 'inconveniente' può ritenersi scongiurato dal fatto che la disposizione in parola spiega i suoi effetti dalla data della sua entrata in vigore dunque non ex tunc.
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Occorre premettere che la norma nella sua formulazione fa riferimento a collaudi conferiti nell'ambito dell'Amministrazione statale, anche se la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 341 del 2009, ha chiarito che la disposizione è di generale applicazione e dunque riguarda anche gli enti locali; sicché si pone il problema di stabilire a quale ente pubblico debba essere riversata la metà del compenso professionale nel caso in cui il collaudatore sia terzo rispetto all'Amministrazione pubblica committente.
Circa la risoluzione del quesito occorre aggiungere che dall'istruttoria compiuta è emerso che, nel caso di specie, i compensi a tariffa professionale previsti per l'espletamento del collaudo sono a carico dell'Ente locale; in tale ipotesi deve ritenersi che i beneficiari del 'risparmio di spesa' per il Comune committente debbano essere i dipendenti dell'Ente locale medesimo, indipendentemente dal fatto che il collaudo sia conferito ad un soggetto terzo all'Ente.
La soluzione prospettata appare la più aderente alla ratio della norma intesa al contenimento della spesa corrente dell'Ente, che vede contestualmente alimentato il fondo di amministrazione dei dirigenti dell'Ente medesimo.
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La Corte dei Conti, sezione regionale Emilia-Romagna, esamina i seguenti quesiti del Comune di San Giovanni in Persiceto:
- "nel caso di incarico di collaudo conferito dall'ente locale ad un dipendente pubblico di altro ente, anche statale, opera la trattenuta del 50% sul 'compenso spettante' prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008?";
- "ove la risposta al quesito precedente sia affermativa, la trattenuta prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, va calcolata sull'importo spettante ai sensi della tariffa professionale vigente al momento del conferimento dell'incarico oppure sull'importo già scontato pattuito nel contratto di incarico stipulato tra l'ente locale e collaudatore pubblico di altra amministrazione?";
- "ove la risposta al primo quesito sia affermativa, il 50% del compenso spettante al collaudatore dipendente pubblico va versato in apposito capitolo di bilancio dell'Amministrazione conferente l'incarico oppure in apposito capitolo di bilancio dell'Amministrazione cui appartiene il dipendente pubblico incaricato del collaudo?".
...
Preliminarmente, la sezione rammenta che la Corte costituzionale, con sentenza n. 341 del 2009, ha evidenziato che la norma in contesto si applica a tutte le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, in quanto concorre alla realizzazione di obiettivi di contenimento e razionalizzazione della spesa, imponendo una riduzione delle somme che, in aggiunta alla retribuzione, sono corrisposte, a titolo di incentivo o di compenso, a determinate categorie di dipendenti pubblici, per lo svolgimento di specifiche attività.
Altrettanto opportuno il richiamo testuale alla disposizione di cui si discorre (art. 61, comma 9, d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008), a mente del quale: "Il 50 per cento del compenso spettante al dipendente pubblico per l'attività di componente o di segretario del collegio arbitrale è versato direttamente ad apposito capitolo del bilancio dello Stato; il predetto importo è riassegnato al fondo di amministrazione per il finanziamento del trattamento economico accessorio dei dirigenti ovvero ai fondi perequativi istituiti dagli organi di autogoverno del personale di magistratura e dell'Avvocatura dello Stato ove esistenti; la medesima disposizione si applica al compenso spettante al dipendente pubblico per i collaudi svolti in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai corrispettivi non ancora riscossi relativi ai procedimenti arbitrali ed ai collaudi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Quindi la precisazione del successivo comma 17 che prevede la non applicabilità agli enti territoriali dell'obbligo di versamento (delle riduzioni di spesa in commento) in apposito capitolo del bilancio dello Stato.
Conseguentemente delineato il quadro giuridico di riferimento, la sezione esprime i propri avvisi sugli aspetti inquadrati dall'ente istante, come segue:
- come detto "
... la Corte costituzionale ha ritenuto che la disposizione in esame sia di portata generale; essa pertanto si applica anche agli enti territoriali ad esclusione della parte in cui essa impone l'obbligo di versare ad apposito capitolo del bilancio dello Stato le riduzioni di spesa derivanti dalla misura in essa prevista. Ne discende che al primo quesito va data risposta affermativa e dunque in caso di incarico di collaudo conferito dall'ente locale ad un dipendente pubblico di altro ente, anche statale, opera l'obbligo di trattenuta del 50% sul 'compenso spettante' prevista dall'art. 61, comma 9, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008";
- quanto al secondo quesito,
"... la trattenuta si applica nei modi previsti dall'art. 61 ma a far data dall'entrata in vigore della legge. In considerazione di tale conclusione non dovrebbe determinarsi l'inconveniente adombrato da codesto Comune che si preoccupa di evidenziare come 'prima dell'entrata in vigore della disciplina in esame costituiva prassi tra i professionisti offrire un corrispettivo determinato da tariffa professionale e scontato di una percentuale oscillante tra il 30% ed il 40% (70% o 60% dell'onorario desumibile dalla tariffa professionale)'. Sicché ove 'la riduzione del 50% si ritenesse applicabile all'onorario già scontato del 30% o del 40%, il professionista incaricato finirebbe per percepire (a titolo di compenso per gli affari affidatigli) soltanto la metà della somma (35% oppure 30%), a suo tempo convenuta con l'Amministrazione'. Tale conseguenza potrebbe esporre 'l'Amministrazione a costi ed oneri legali aggiuntivi'. Orbene, tale 'inconveniente' può ritenersi scongiurato dal fatto che la disposizione in parola spiega i suoi effetti dalla data della sua entrata in vigore dunque non ex tunc";
- quanto al terzo quesito, "...
occorre premettere che la norma nella sua formulazione fa riferimento a collaudi conferiti nell'ambito dell'Amministrazione statale, anche se la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 341 del 2009, ha chiarito che la disposizione è di generale applicazione e dunque riguarda anche gli enti locali; sicché si pone il problema di stabilire a quale ente pubblico debba essere riversata la metà del compenso professionale nel caso in cui il collaudatore sia terzo rispetto all'Amministrazione pubblica committente. Circa la risoluzione del quesito occorre aggiungere che dall'istruttoria compiuta è emerso che, nel caso di specie, i compensi a tariffa professionale previsti per l'espletamento del collaudo sono a carico dell'Ente locale; in tale ipotesi deve ritenersi che i beneficiari del 'risparmio di spesa' per il Comune committente debbano essere i dipendenti dell'Ente locale medesimo, indipendentemente dal fatto che il collaudo sia conferito ad un soggetto terzo all'Ente. La soluzione prospettata appare la più aderente alla ratio della norma intesa al contenimento della spesa corrente dell'Ente, che vede contestualmente alimentato il fondo di amministrazione dei dirigenti dell'Ente medesimo" (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 23.10.2013 n. 269 - tratto da www.publika.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nessun compenso può essere corrisposto al personale tecnico comunale in occasione della redazione di atti di pianificazione del territorio (PRG, Piani Attuativi, ecc.) che non siano finalizzati alla realizzazione di specifiche opere pubbliche, come si evince dal comma 6 dell’art. 92 del Codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006).
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Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di Gualdo Cattaneo, dopo aver premesso che detto Comune è dotato di un regolamento interno in materia di incentivazione della progettazione interna che prevede esplicitamente la possibilità di elargire detto incentivo anche per la progettazione di tipo urbanistico (PRG, Piani Attuativi) e che l'Amministrazione intende valorizzare le figure presenti all'interno dell'Area Urbanistica, Edilizia e Sviluppo Economico, concedendo ai dipendenti di detta Area il beneficio dell'incentivo alla progettazione per la redazione di atti di natura urbanistica ai sensi dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, chiede l’avviso di questa Sezione sulla legittimità della corresponsione di detto incentivo al personale interno nonché, in caso di risposta positiva, le relative condizioni.
...
Quanto al merito, il Comune di Gualdo Cattaneo intende conoscere l’avviso di questa Corte in merito alla possibilità di corrispondere al personale dipendente, come peraltro prevede il regolamento dell’Ente, l’incentivo di progettazione in relazione alla redazione di atti di natura urbanistica (PRG, Piani attuativi) ai sensi dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006.
Della tematica concernente la corresponsione al personale comunale dell’incentivo di progettazione per attività di pianificazione redazione (nel caso di specie, della “parte operativa” del piano regolatore generale), questa Sezione si è già occupata adottando una recentissima pronuncia (parere 09.07.2013 n. 119). In detta pronuncia, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, la Sezione ha ritenuto di aderire all’orientamento diffuso presso altre Sezioni di controllo di questa Corte, secondo il quale
l’atto di pianificazione comunque denominato” indicato nel comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la pianificazione del territorio collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera attività di pianificazione del territorio, quale la redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione la Sezione è pervenuta anche sulla base di una attenta esegesi della normativa che disciplina l’erogazione del compenso incentivante per gli incarichi di pianificazione, osservando quanto segue: “Il comma 6 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
La norma succitata, nonché quella contenuta nel comma 5, esprime un preciso favor del legislatore per l’affidamento di incarichi concretanti prestazioni d’opera professionale a dipendenti di ruolo dell’ente locale, disponendo misure volte a remunerare le specifiche professionalità coinvolte e rinviando ai regolamenti comunali e alla contrattazione collettiva decentrata la determinazione di “criteri e modalità” di riparto del compenso.
Comportando una deroga al principio di onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici, tali disposizioni, secondo un condivisibile orientamento (ex multis, Sezione controllo Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008), costituiscono norme di stretta interpretazione, per le quali opera il divieto di analogia ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Va, quindi ben delimitato l’ambito di applicazione della succitata normativa derogatoria. In tale ottica appare necessario precisare, preliminarmente, l’esatto significato della locuzione “atto di pianificazione”, contenuta nel comma 6 della norma citata. L’indirizzo affermatosi al riguardo in seno alle Sezioni di controllo della Corte dei conti (ex multis, Sez. contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sez. contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sez. contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213 e parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290), dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, è nel senso che “l’atto di pianificazione comunque denominato” indicato nel comma 6 del citato art. 92 si riferisce ad atti che abbiano ad oggetto la pianificazione del territorio collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non si estende alla mera attività di pianificazione del territorio, quale la redazione del Piano regolatore o una variante generale.
A tale conclusione conduce peraltro, a giudizio di questa Corte, un’interpretazione sistematica della normativa che disciplina l’incentivo di progettazione, atteso che la previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i commi precedenti del medesimo art. 92 sia con l’art. 90 del codice dei contratti pubblici. Invero, l’intero impianto dell’art. 92, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, ruota intorno all’attività di progettazione di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica, in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare.
Nel comma 1 del citato art. 92 si parla di “compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata”. Il successivo comma 2 si occupa delle tabelle dei corrispettivi che la stazione appaltante può utilizzare quale criterio per determinare l’importo da porre a base dell’affidamento. Il comma 3 si occupa a sua volta dei criteri di calcolo dei corrispettivi dei vari livelli di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva). Il comma 5 dispone che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori…”.
L’art. 90 del medesimo D.Lgs. 163/2006 dispone, in relazione alle “prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente”, che tali attività siano espletate da risorse interne alla stazione appaltante, purché in possesso dei requisiti di abilitazione professionale. In effetti, l’affidamento a soggetti comunque interni al plesso pubblicistico viene considerato dal codice dei contratti preferenziale, tanto che il comma 6 dello stesso articolo 90 stabilisce i casi in cui l’incarico di progettazione preliminare può essere legittimamente affidato a professionalità esterne all’Amministrazione.
Le suesposte considerazioni consentono al Collegio di affermare che,
ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, assume rilevanza non già il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, bensì il suo contenuto specifico, intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica quale, ad esempio, una variante necessaria per la localizzazione di un’opera (cfr. Corte conti, sez. controllo Toscana
parere 18.10.2011 n. 213), ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Va ulteriormente precisato che
il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante è ancorato dalla normativa suindicata all’ulteriore presupposto che la redazione dell’atto di pianificazione -comunque riferibile alla realizzazione di opere pubbliche– avvenga interamente all’interno dell’Ent
e”.
La Sezione, nell’estendere alla fattispecie in esame le osservazioni, sopra riportate, svolte nel precedente parere 09.07.2013 n. 119, ribadisce
il preciso intento del legislatore di limitare la corresponsione del compenso di progettazione alle ipotesi di progettazione strettamente collegate alla realizzazione di un’opera pubblica. A tale conclusione conduce, in modo inequivoco, finanche la presenza, nel comma 6 dell’art. 92 del D.L.gs. 163/2006, della locuzione “amministrazione aggiudicatrice”. Elemento quest’ultimo che costituisce conferma ulteriore della validità della soluzione sopra esposta, sulla quale non può esplicare alcuna influenza la diversa previsione di una norma del regolamento comunale che espressamente riconosce al personale interno il diritto all’incentivo in parola, trattandosi, in ogni caso, di norma secondaria (regolamentare) confliggente con una disciplina successiva di fonte legislativa.
In conclusione,
la Sezione ritiene che nessun compenso possa essere corrisposto al personale comunale, ovviamente in possesso delle specifiche professionalità richieste dalla legge, in dipendenza della redazione di atti di pianificazione del territorio (PRG, Piani Attuativi, ecc.) che non siano finalizzati alla realizzazione di determinate opere pubbliche (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 23.10.2013 n. 125).

ENTI LOCALIEquilibri contabili da verificare in ogni ente locale. Corte dei conti. Le istruzioni.
La salvaguardia degli equilibri di bilancio deve essere effettuata in tutti gli enti locali, nonostante le proroghe e le deroghe che hanno seguito i rinvii dei termini per la chiusura del preventivo 2013, e i revisori dei conti devono effettuare una serie di verifiche ad hoc sulla gestione della spesa e la situazione del fondo cassa, con un occhio particolare all'utilizzo dei fondi vincolati.
La sezione Autonomie della Corte dei conti, con la deliberazione 17.10.2013 n. 23/2013 diffusa ieri, prova a rifare ordine in un quadro di finanza locale travolto dal diluvio di regole che ne hanno minato ogni certezza.
I magistrati contabili entrano in campo con una delibera inusuale, che sospende l'approvazione dei questionari sui preventivi 2013 (verranno diffusi insieme a quelli sui consuntivi, perché di fatto oggi la verifica è impossibile e l'accoppiamento dei due controlli può consentire una visione più organica delle dinamiche contabili) e non risparmia considerazioni dure nei confronti di Governo e Parlamento.
«La situazione dell'esercizio 2013», taglia corto la delibera riferendosi ai termini per il preventivo spostati a fine novembre, alle deroghe sugli obblighi di verifica degli equilibri e alle incertezze che ancora circondano Imu e Tares, si presenta «al limite dell'irragionevolezza». La possibilità di decidere a fine anno le aliquote 2013 «confligge con lo Statuto del contribuente», e i troppi punti interrogativi che circondano i bilanci locali «finiscono per collidere con il principio di coordinamento della finanza pubblica» fissato dalla Costituzione.
A sostegno di questa posizione la Corte ricorda gli inciampi della gestione provvisoria in dodicesimi, che misura le spese sugli stanziamenti dell'anno scorso mentre la spending review ha ridotto i fondi locali, con il risultato di aprire pericolosi disavanzi della gestione: ne sanno qualcosa al Comune di Roma, dove il rosso da recuperare in extremis sfiora i 900 milioni di euro, ma problemi analoghi in proporzione tornano in moltissimi bilanci locali.
Per evitare il peggio, la Corte chiede ad amministratori e revisori di rifarsi al principio contabile della «prevalenza della sostanza sulla forma», prima di tutto con la verifica della permanenza degli equilibri in corso d'esercizio.
Un controllo particolare dovrà poi concentrarsi sulle spese ordinarie che nell'ultimo bilancio erano state coperte con entrate eccezionali, perché se riproposte quest'anno devono trovare una nuova fonte di finanziamento. Sul fondo cassa, invece, occorre distinguere la quota alimentata da fondi vincolati, perché il loro utilizzo per finanziare spese correnti finisce per minare gli equilibri fondamentali dei conti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni da altre Pa anche se manca l'intesa. Personale. Sì all'utilizzo di graduatorie «esterne».
LA CONDIZIONE/ La chance è ammessa solo se le posizioni lavorative ricercate e quelle offerte sono omogenee.

Per le assunzioni i Comuni possono utilizzare le graduatorie di altre amministrazioni pubbliche anche se non è stata raggiunta una intesa preventiva rispetto all'indizione del concorso o almeno all'approvazione dei suoi esiti e se questa volontà non è contenuta nel bando.
È questa l'indicazione contenuta nel parere 03.10.2013 n. 124 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti dell'Umbria.
In tal modo si consolida l'interpretazione estensiva del dettato legislativo (articolo 3, comma 61, legge n. 350/2003), con tutti i rischi di possibili abusi, come il pescare dalle graduatorie di altri enti in modo arbitrario. Rischi che sono ben presenti nel parere. Per evitarli vengono fornite specifiche raccomandazioni. Ricordiamo che, sempre con riferimento alle assunzioni a tempo indeterminato, l'utilizzazione della graduatoria dello stesso ente è invece obbligatoria.
Il parere è motivato con argomentazioni di tipo sostanziale. Vi si legge che: «La lettera e lo scopo della norma non consentono interpretazioni tanto restrittive da ancorare il previo accordo» alla sua conclusione entro una data prefissata. E ancora, la stessa disposizione prevede la proroga di tali graduatorie, per cui appare illogica e contraddittoria la eventuale limitazione della utilizzazione delle stesse.
Il parere prosegue affermando che: «Ai fini della corretta applicazione, non è tanto (e non è solo) la data in cui le amministrazioni interessate devono raggiungere il previo accordo, quanto piuttosto che l'accordo stesso (che comunque deve intervenire prima dell'utilizzazione della graduatoria) si inserisca in un chiaro e trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare graduatorie concorsuale di altri enti, così da escludere ogni arbitrio e/o irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle regole di concorsualità per l'accesso ai pubblici uffici».
Da sottolineare infine che i magistrati contabili subordinano l'utilizzazione delle graduatorie di altre Pa al ricorso a posizioni lavorative «omogenee».
E questa condizione non si considera nel parere soddisfatta nel caso di un concorso indetto per assunzioni a tempo pieno e utilizzazione della graduatoria per assunzioni in part-time (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

ENTI LOCALIDelibera della Corte conti: monitoraggio accurato della gestione. Bilanci, avviso ai comuni. Esercizio per dodicesimi senza eccezioni.
La Corte dei conti lancia un avviso per i bilanci dei comuni nel ricorrere all'esercizio provvisorio. In un contesto caratterizzato da continui rinvii del termine di approvazione del bilancio di previsione, gli enti locali dovranno vigilare sul particolare regime delle spese nella misura non superiore di un dodicesimo delle somme previste nell'ultimo bilancio approvato. Per evitare rischi della tenuta dei conti, è prudente che gli enti locali provvedano in corso d'anno a controllare e a monitorare l'intera gestione finanziaria.

È quanto ha rilevato, ieri con la deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, la Sezione autonomie della Corte dei conti, nel rendere note le proprie indicazioni per la gestione delle risorse nel caso del protrarsi dell'esercizio provvisorio e gli indirizzi relativi al bilancio di previsione 2013.
Un documento, questo, che a causa dei continui rinvii dei termini di legge, la stessa magistratura contabile ha statuito di dover ritenere sostitutivo delle consuete linee guida elaborate annualmente dopo la legge finanziaria del 2006. Operando in regime di esercizio provvisorio e mancando l'approvazione del bilancio 2013, gli enti devono sapere che maggiore è il periodo di provvisorietà, maggiore sarà la parte del bilancio di previsione che risulterà già impegnata in termini di spesa.
Un rischio che potrà essere evitato se l'ente provvederà più volte, in corso d'anno, ad effettuare il controllo a salvaguardia degli equilibri di bilancio, previsto al 30 settembre dall'art. 193, comma 2 Tuel e che oggi, invece, il legislatore, per effetto dell'articolo 12-bis del dl n. 93/2013, ammette come facoltativo per gli enti che hanno approvato o approveranno il bilancio di previsione dopo il 1° settembre.
Un monitoraggio che non deve essere disatteso in quanto l'ente deve essere vigilante sulla gestione dei residui, dei debiti fuori bilancio e di altre passività che potrebbero portarlo alla bancarotta. Sul versante degli equilibri di cassa, la Corte ammette che un ricorso all'anticipazione dal tesoriere è un indicatore di criticità degli equilibri e della gestione che evidenzia «l'incapacità dell'ente di costituire un normale flusso di cassa nel corso della gestione annuale».
Infine, la Corte ricorda agli enti l'osservanza delle norme varate in questi anni per ridurre la spesa corrente. Il riferimento va al taglio sulle spese per convegni, pubblicità, a quello sulle vetture di rappresentanza, nonché al giro di vite sull'acquisto di immobili ed arredi. Senza dimenticare che è necessario verificare annualmente la dotazione organica del personale in relazione alle esigenze funzionali dell'ente e, soprattutto, alle risorse di cui si dispone (articolo ItaliaOgggi del 19.10.2013).

NEWS

VARICarrelli elevatori, targa obbligatoria. Il ministero dei trasporti sulle regole per circolare.
Per uscire dall'area privata di una ditta per le comuni operazioni di carico e scarico della merce i carrelli elevatori dovranno essere immatricolati e muniti di targa. Per quelli già autorizzati alla circolazione saltuaria, invece, arriva una procedura ad hoc molto semplificata.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 25.10.2013 n. 26363 di prot..
La questione della circolazione stradale saltuaria dei muletti a forca abilitati al carico dei mezzi pesanti risente delle vicende di un codice stradale ormai irriconoscibile per le troppo modifiche intervenute nel tempo. L'utilizzo del carrello elevatore nelle strade fino a qualche mese fa risultava disciplinato dal decreto del Ministero dei trasporti 28/12/1989. In pratica, la motorizzazione poteva autorizzare una circolazione saltuaria di queste macchine operatrici, previa verifica di una serie di condizioni tecniche.
A differenza di tutti gli altri veicoli, quindi, anche senza immatricolazione, il muletto poteva impegnare certe strade in presenza di traffico ed operare nel rispetto del codice stradale. Dal 10 giugno scorso, con la circolare n. 14906 il Ministero ha, invece, cambiato orientamento. Specifica, infatti, la nota centrale, che per una serie di modifiche normative succedutesi nel tempo ora non è più possibile rilasciare autorizzazioni alla circolazione saltuaria. Questi veicoli per poter circolare regolarmente devono essere immatricolati ovvero dotati di targa e tutti i dispositivi di sicurezza richiesti dalla legge. Per i mezzi già autorizzati alla circolazione, anche con documenti scaduti (purché non antecedenti al 31/12/2007), con la nota del 25 ottobre viene però introdotta una procedura accelerata e semplificata di regolarizzazione.
In pratica, la procedura burocratica prevede la presentazione di una istanza di collaudo al centro prova autoveicoli corredata dell'autorizzazione alla circolazione, della scheda tecnica e informativa, della dichiarazione Ce con i disegni quotati del mezzo. Seguirà un collaudo semplificato e veloce finalizzato a regolarizzare il veicolo con tutte le dotazioni minime di sicurezza, nel rispetto della particolarità dello stesso (articolo ItaliaOggi del 02.11.2013).

VARIBonus arredi, limiti dall'Agenzia delle entrate.
L'Agenzia delle entrate limita la portata del bonus arredo, ma gli artigiani non ci stanno, anche nell'interesse dei contribuenti che stanno valutando come sfruttare al meglio le opportunità previste dal decreto energia (dl 63/2013 convertito in legge 90/2013), per la particolare convenienza ad abbinare gli acquisti per l'arredo agli interventi sull'immobile agevolati con la detrazione Irpef del 50%.

Con la proroga del bonus arredi al 31/12/2014, prevista nel disegno di legge di Stabilità, ci sarà sì più tempo per decidere, ma si dovrà comunque fare i conti con l'impatto della circolare dell'Agenzia delle entrate n. 29 del 18/09/2013. Infatti, nell'individuare gli interventi cui è abbinabile l'ulteriore detrazione per l'arredo, l'Agenzia elenca solo quelli riconducibili agli interventi di recupero veri e propri, oltre al ripristino di immobili danneggiati da calamità, e sembra quindi implicitamente escludere gli altri interventi pur compresi nella norma (art. 16, comma 2, del dl 63 del 04/06/2013) che con una serie di richiami rinvia all'art. 16-bis del dpr 917/1986.
Quest'ultimo disciplina la detrazione Irpef del 36% (ora 50%) citando tra gli interventi agevolati anche specifici lavori che possono non configurarsi come interventi di recupero (elencati dalla lettera c alla lettera l, ossia: ripristino di immobili danneggiati da calamità, eliminazione di barriere architettoniche; interventi per favorire la mobilità dei disabili, per la prevenzione di atti illeciti, per la prevenzione di infortuni domestici, per la cablatura degli edifici, per il contenimento dell'inquinamento acustico, per la bonifica dell'amianto, per l'adozione di misure antisismiche e per il conseguimento di risparmi energetici).
Seguendo l'interpretazione dell'Agenzia molti lavori di tipo minore (per es. montaggio di corrimano lungo le scale, di rilevatori di gas, o di condizionatori con pompe di calore), seppure agevolati con la detrazione prevista per gli interventi di recupero, sarebbero inutilizzabili per l'accesso alla detrazione sull'arredo, con una evidente drastica restrizione del campo di applicazione della norma. Così si penalizzano i contribuenti che hanno già acquistato mobili ed elettrodomestici pensando di estendere all'arredo l'agevolazione spettante per i lavori sull'immobile. Inoltre si rischia di depotenziare quel rilancio del settore del legno espressamente voluto dal legislatore, come risulta dalla relazione illustrativa, e di penalizzare non solo gli operatori del settore del legno e i rivenditori, ma anche le imprese, soprattutto artigiane, che normalmente effettuano gli interventi minori.
Questa interpretazione restrittiva non appare condivisibile. Se il legislatore avesse voluto limitare l'agevolazione agli interventi di recupero (manutenzioni ordinarie limitatamente alle parti comuni condominiali; manutenzioni straordinarie; ristrutturazioni; restauri e risanamenti conservativi) lo avrebbe fatto all'inizio della disposizione, richiamando in modo specifico gli interventi della lettera a) e b) del comma 1 dell'art. 16-bis del dpr 917/1986 e non tutto il comma 1 dell'art. 16-bis che comprende anche gli altri interventi.
A livello normativo il bonus arredi è agganciato a tutti i lavori agevolabili con il 36% (ora 50%) e quindi anche ai lavori elencati dalla lettera c) alla lettera l) dell'art. 16-bis del dpr 917/1986, che sono agevolabili indipendentemente dalla definizione dell'intervento dal punto di vista edilizio, altrimenti sarebbe stato inutile elencarli in aggiunta agli altri. Di conseguenza le manutenzioni ordinarie nelle singole unità abitative (riparazione di una tubazione), se non rientrano in uno degli interventi elencati dalla lettera c) alla lettera l) dell'art. 16-bis del dpr 917/1986, non sono in alcun modo agevolate, né con la detrazione per interventi edilizi, né attraverso la possibilità di accesso al bonus arredo, mentre l'installazione di un condizionatore con pompa di calore (intervento diretto al risparmio energetico per la presenza della pompa di calore), così come l'installazione di corrimano o di un rilevatore di gas (interventi diretti a prevenire infortuni domestici secondo la stessa guida «Ristrutturazioni edilizie: le agevolazioni fiscali» recentemente pubblicata dall'Agenzia sul suo sito nella versione aggiornata a ottobre 2013), danno comunque diritto sia al bonus edilizio, sia all'accesso al bonus arredo. Non è possibile, dato che la legge non lo prevede, creare una discriminazione tra le tipologie di intervento basata sull'entità della spesa sostenuta.
Alcuni autori giustamente danno per scontata l'inclusione di tutti gli interventi citati dall'art. 16-bis del dpr 917/1986 nel perimetro dell'agevolazione bonus arredi, prescindendo del tutto dalla circolare e dando esclusivo rilievo alla legge, che costituisce una fonte di rango superiore. Il problema è che se l'Agenzia non cambia idea si rischiano migliaia di contenziosi e in molti casi saranno gli stessi Caf a escludere l'agevolazione per non rischiare sanzioni, mortificando così i diritti dei contribuenti (articolo ItaliaOggi del 02.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIANiente «Sistri» per i professionisti. Ambiente. Secondo la circolare ministeriale 1/13 il sistema si applica a enti e imprese.
I professionisti sono esclusi dal Sistri.
Lo precisa la circolare 31.10.2013 n. 1 diffusa giovedì dal ministero dell'Ambiente in merito alla conversione del decreto legge 101/2013 (legge 125/2013) che, con l'articolo 11, ha modificato lo scenario delle norme sostanziali di riferimento (si veda anche «Il Sole 24 Ore» di ieri).
La circolare, infatti, ricorda che i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che non sono organizzati in enti o imprese sono esclusi dal Sistri.
La locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale» contenuta nell'articolo 11, viene riferita dal Ministero a enti e imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi "prodotti da terzi". Nella locuzione «vettori esteri che operano sul territorio nazionale» il ministero dell'Ambiente colloca i «vettori esteri che effettuano trasporti di rifiuti all'interno del territorio nazionale o trasporti transfrontalieri in partenza» dall'Italia.
Su commercianti e intermediari di rifiuti speciali pericolosi la circolare chiarisce che dal 01.10.2013 l'obbligo di Sistri è operante anche se non detengono rifiuti.
Nel parere ministeriale si trova anche l'impegno a far sì che il decreto che individuerà ulteriori categorie di soggetti a cui sarà esteso il Sistri sia adottato entro il 03.03.2014, cioè entro la seconda fase di operatività del sistema. Da tale data, infatti, il Sistri partirà per i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi e, nel territorio della Campania, per i Comuni e le imprese di trasporto di rifiuti urbani.
Mentre dal 30.06.2014, previo decreto, partirà la sperimentazione sui rifiuti urbani pericolosi.
Sul punto la circolare precisa che la sperimentazione e i suoi effetti «non riguardano i produttori iniziali di rifiuti pericolosi urbani, e neanche le eventuali fasi di raccolta e conferimento precedenti al momento in cui i rifiuti sono conferiti» ai centri di raccolta o in altri siti dedicati. In pratica, il passaggio del rifiuto urbano pericoloso dal cittadino fino al centro di raccolta non è soggetto alla sperimentazione Sistri. Tuttavia, ai soggetti che gestiscono i rifiuti urbani pericolosi si applicherà il Sistri solo se la sperimentazione darà esito positivo. Per questo, la circolare precisa che la disciplina degli adempimenti e delle sanzioni per i gestori di rifiuti urbani pericolosi «verrà dettata da norme successive».
La legge 125/2013 stabilisce, inoltre, che per i primi dieci mesi di operatività del Sistri dal 1° ottobre scorso (quindi, fino al 01.08.2014), non saranno applicate le sanzioni di cui agli articoli 260-bis e 260-ter del Dlgs 152/2006. Fino ad allora gli obbligati al Sistri dovranno osservare le regole su registro e formulario di cui agli articoli 190 e 193 del Dlgs 152/2006 nella formulazione previgente alle modifiche di cui al Dlgs 205/2010, assistite dalle relative sanzioni vigenti prima che il Sistri venisse introdotto nel "Codice ambientale". Gli obbligati al Sistri saranno nuovamente impegnati con il Mud «con riferimento ai rifiuti prodotti e gestiti negli anni 2013 e 2014».
La legge 125/2013 modifica, poi, anche gli articoli 190 e 193 del "Codice ambientale" su registro e formulario. La nuova formulazione «sarà applicabile dal 01.08.2014, ai soggetti che non aderiscono al Sistri».
La Circolare al paragrafo 7 conferma la sospensione dei punti 7.3 e 7.1.2. del Manuale operativo relativi al tracciamento interno agli impianti e alla presa in carico delle giacenze alla mezzanotte del 30.09.2013.
Al tavolo tecnico, la circolare affida, infine, il compito di risolvere alcuni dei problemi endemici del Sistri, a partire dalla microraccolta
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2013).

APPALTI: Gare, verifica dei requisiti a carico di appaltante via Bdncp. Le novità della legge sulla razionalizzazione delle p.a..
La verifica dei requisiti dichiarati in una gara di appalto dovrà essere effettuata dalle stazioni appaltanti obbligatoriamente e in via esclusiva attraverso la Banca dati nazionale sui contratti pubblici (Bdncp). Vietata la verifica attraverso la richiesta di documenti ai concorrenti.

È quanto stabilisce la legge 30.10.2013, n. 125 di conversione in legge del decreto-legge n. 101 sulla razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 255 del 30.10.2013).
Il provvedimento all'articolo 2, comma 13-sexies, modifica l'articolo 6-bis, comma 1, del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) rafforzando l'obbligo di acquisizione dei documenti necessari alla verifica dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi dichiarati in sede di gara (oggi la norma recita «acquisita presso» e la disposizione della legge 125 la modifica in «acquisita esclusivamente attraverso la Banca dati nazionale sui contratti pubblici»).
In sostanza si ribadisce l'operatività di quanto stabilito dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con l'obbligo di iscrizione al sistema dell'AVCPass, lo strumento operativo a disposizione di stazioni appaltanti e operatori privati per la verifica dei requisiti. La norma del codice in realtà prevedeva l'obbligo di verifica dal primo gennaio 2013, ma l'organismo di vigilanza ha modulato l'obbligo in funzione del valore dei contratti e comunque lo rende applicabile da inizio 2014 a tutti i contratti oltre i 40 mila euro. Dal 1° gennaio prossimo sarà vietata la verifica dei requisiti tramite richiesta dei documenti ai concorrenti. Dovranno essere le stazioni appaltanti a passare attraverso l'Autorità per accertare la regolarità di quanto dichiarato, con una notevole semplificazione per gli operatori privati.
La legge 125 ribadisce questo percorso vincolato e abroga, per maggiore chiarezza, l'articolo 49-ter del decreto-legge del fare (69/2013 convertito nella legge n. 90/2013) che, come già segnalato (si veda Italia Oggi del 31.07.2013), non risultava coerente con il sistema delineato dal Codice dei contratti. La norma abrogata, infatti, prevedeva l'obbligo di acquisizione della documentazione a comprova dei requisiti tramite la Bdncp per i contratti di appalto «sottoscritti» dalle amministrazioni a partire dai tre mesi successivi alla data di conversione del decreto. La norma non era affatto chiara visto che la verifica dei requisiti si effettua ben prima della sottoscrizione del contratto (anche per sorteggio, durante la gara).
Inoltre così facendo si sarebbe anticipata la scadenza dell'obbligo a metà novembre, rispetto al termine del primo gennaio 2014 fissato inderogabilmente dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Da ciò la necessità di eliminare la norma (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, l'applicazione è limitata. Non obbligati produttori di rifiuti urbani (pure pericolosi). I chiarimenti della circolare n. 1 del ministero dell'ambiente sul sistema di tracciabilità.
Non sono assoggettati al Sistri i produttori iniziali di rifiuti urbani, ancorché pericolosi, e i produttori iniziali che non sono organizzati in enti o imprese. Per i primi dieci mesi di operatività del Sistema di tracciamento dei rifiuti, a decorrere dal 01.10.2013, nei confronti dei soggetti obbligati ad aderire al Sistri non trovano applicazione le sanzioni previste dagli articoli 260-bis e 260-ter, del dlgs 152/2006. Sospesa l'applicazione del Manuale operativo Sistri relativamente al tracciamento dei rifiuti nei passaggi interni degli impianti. Per il periodo di moratoria delle sanzioni del Sistri, operatori tenuti, oltre che a effettuare gli adempimenti del Sistri, a tenere i registri di carico e scarico, a redigere i formulari di trasporto e a compilare la dichiarazione annuale al catasto dei rifiuti (secondo le previsioni previgenti al Sistri stesso).

Sono solo alcuni dei chiarimenti contenuti nella circolare 31.10.2013 n. 1 del ministero dell'ambiente diffusa ieri per l'applicazione dell'articolo 11 del decreto legge 31.08.2013, n. 101, concernente «semplificazione e razionalizzazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti_» (Sistri), convertito in legge 30.10.2013, n. 125 (G.U. n. 255 del 30.10.2013). La circolare specifica come la normativa non contempli l'obbligo di adesione per:
- i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi;
- gli enti e le imprese che effettuano attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti non pericolosi;
- i raccoglitori e i trasportatori di rifiuti urbani del territorio di regioni diverse dalla regione Campania (limitatamente ai rifiuti urbani pericolosi, sono comunque interessati alla fase di sperimentazione).
Questi soggetti possono aderire al Sistri su base volontaria. Per quanto riguarda la prima categoria elencata, in essa come detto non rientrano i produttori iniziali di rifiuti urbani, ancorché pericolosi. «Inoltre», si legge nella nota, «si ritiene che da tale obbligo debbano essere esclusi i produttori iniziali che non sono organizzati in enti o imprese». Per quanto riguarda gli enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale, compresi i vettori esteri che operano sul territorio nazionale, anche in tal caso la norma si riferisce ai soli rifiuti speciali pericolosi. Mentre per vettori esteri che operano sul territorio nazionale si intendono quelli che effettuano trasporti di rifiuti all'interno del territorio nazionale o trasporti transfrontalieri in partenza dal territorio.
Relativamente invece agli enti o imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti urbani e speciali pericolosi, in tal caso la norma si riferisce a tutti i rifiuti pericolosi, sia speciali che urbani. La circolare ricorda che alla data del 01.10.2013 il Sistri è scattato tra gli altri per gli enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale, «compresi i vettori esteri che effettuano trasporti di rifiuti all'interno del territorio nazionale o trasporti transfrontalieri in partenza dal territorio» nazionale.
Con riferimento alle attività di trasporto dei rifiuti, la locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale», contenuta al comma 2 dell'articolo 11 del dl n. 101/2013, deve intendersi riferita, spiega il Minambiente, agli enti e imprese che (raccolgono o) trasportano rifiuti speciali pericolosi prodotti da terzi. Pertanto, il trasporto in conto proprio è soggetto ad altra decorrenza. I vettori stranieri che, a titolo professionale, effettuano trasporti esclusivamente all'interno del territorio nazionale, sono soggetti all'obbligo di iscrizione al Sistri, e lo stesso vale per il trasporto transfrontaliero in partenza dal territorio nazionale e verso stati esteri. Mentre per i vettori stranieri che effettuano trasporti transfrontalieri dall'estero con destinazione nel territorio nazionale, o con solo attraversamento del territorio nazionale, valgono le disposizioni sulla tracciabilità previste dal Regolamento comunitario n. 1013/2006.
Dalla data del 03.03.2014 è invece previsto l'avvio dell'operatività del Sistri per le seguenti categorie: i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi; gli enti e le imprese che trasportano i rifiuti da loro stessi prodotti, iscritti all'Albo nazionale dei gestori ambientali nonché i soggetti che effettuano il trasporto dei propri rifiuti, iscritti all'Albo nazionale dei gestori ambientali in categoria 5; i Comuni e le imprese di trasporto di rifiuti urbani del territorio della Regione Campania.
Tra le altre specificazioni della circolare, le regole ad hoc valide fino al 03.03.2014, per i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che non aderiscono su base volontaria al Sistri; e la previsione che, nel caso in cui un'impresa non obbligata, decida di procedere all'adesione volontaria al Sistri, essa possa in qualunque momento optare per il ritorno al sistema cartaceo (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONella p.a. disabili col posto fisso. Contratti a tempo indeterminato per le categorie protette. La legge del 1999 non poneva vincoli al tipo di contratto da stipulare. Il dl D'Alia cambia tutto.
Le amministrazioni pubbliche debbono assumere i lavoratori appartenenti alle categorie protette solo mediante contratti a tempo indeterminato.

L'articolo 7, comma 6, del dl 101/2013, come modificato dalla legge di conversione 125/2013 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 255 del 30.10.2013) introduce un'innovazione nel sistema di assunzione dei disabili di cui alla legge 68/1999, coerente con la stretta alle assunzioni «flessibili» contenuta nel decreto sulla pubblica amministrazione.
Il citato articolo 7, comma 6, stabilisce che le amministrazioni pubbliche debbono rideterminare il numero delle assunzioni obbligatorie delle categorie protette, applicando i criteri previsti dalla legge 68/1999 sulle dotazioni organiche rideterminate a seguito all'attuazione della normativa vigente, in particolare, dunque, tenendo conto degli effetti della spending review.
Sulla base del nuovo computo degli obblighi di assunzione obbligatoria, le amministrazioni dovranno assumere un numero di lavoratori corrispondente alla differenza tra il numero delle scoperture accertato rideterminando le dotazioni organiche e il numero dei lavoratori già presenti.
L'innovazione consiste nel fatto che il testo novellato dell'articolo 7, comma 6, citato dispone espressamente che «ciascuna amministrazione è obbligata ad assumere a tempo indeterminato».
L'intento, dunque, non è solo indurre le amministrazioni pubbliche a rispettare gli obblighi posti dalla legge 68/1999, ma di considerare esclusivamente l'assunzione a tempo indeterminato come strumento per adempiere.
È una novità di non poco conto. La legge 68/1999 non pone vincoli alla tipologia di contratti da stipulare. Di certo, tuttavia, se da un lato la legge 125/2013, convertendo il decreto del ministro Gianpiero D'Alia conferma e rafforza il principio secondo il quale il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche deve essere regolato in via principale e predominante da contratti di lavoro a tempo indeterminato, sembra una conseguenza inevitabile che l'adempimento agli obblighi della legge 68/1999 avvenga per l'appunto mediante assunzioni a tempo indeterminato. Così da evitare la creazione di sacche di precariato proprio tra soggetti colpiti da altri svantaggi.
Si spiega meglio, dunque, il penultimo periodo sempre del citato articolo 7, comma 6, il quale chiarisce che le disposizioni ivi contenute derogano «ai divieti di nuove assunzioni previsti dalla legislazione vigente, anche nel caso in cui l'amministrazione interessata sia in situazione di soprannumerarietà». Disposizione, questa, che sembra consentire anche alle province, nonostante il divieto di assumere a tempo indeterminato e di stabilizzare, di regolare le proprie posizioni ai fini del rispetto della legge 68/1999 mediante contratti a tempo indeterminato.
Il penultimo periodo dell'articolo 7, comma 6, si cura della situazione dei lavoratori appartenenti alle categorie protette assunti, in passato, a tempo determinato. Nei loro confronti, stabilisce la norma, «si applica l'articolo 5, commi 4-quater, 4-sexies del decreto legislativo 06.09.2001, n. 368, nei limiti della quota d'obbligo». In sostanza, quindi i lavoratori disabili assunti con contratti a tempo determinato che abbiano prestato servizio per oltre 6 mesi, acquisiranno il diritto di precedenza per assunzioni a tempo indeterminato, effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2013).

TRIBUTIRifiuti, tornano i vecchi tributi. Per il 2013 resuscita non solo la Tarsu, ma anche la Tia. L'opzione è consentita a tutti i comuni. Per decidere c'è tempo fino al 30 novembre.
Resuscitano i vecchi regimi di prelievo sul servizio di smaltimento rifiuti. Con una mossa azzardata effettuata quasi alla fine dell'anno in corso il legislatore, in deroga alla disciplina Tares, fa rivivere in modo confuso i tributi sui rifiuti che erano stati abrogati. Le amministrazioni locali, infatti, possono applicare Tarsu, Tia1 e Tia2 anche per il 2013 e determinare i costi del servizio e le tariffe in base ai criteri previsti e utilizzati nel 2012, fermo restando che va versata la maggiorazione allo stato.
Possono anche derogare per la Tarsu all'obbligo di copertura integrale dei costi del servizio, che invece è già imposto per Tia1 e Tia2. Lo prevede l'articolo 5, comma 4-quater, del dl 102/2013 convertito nella legge 124/2013.
Questa scelta legislativa ha colto di sorpresa anche chi durante l'anno ha sempre auspicato una proroga al 2014 della Tares, per le difficoltà tecniche legate alla sua applicazione e, soprattutto, per la complessità dei criteri di determinazione delle tariffe. Quindi, può essere data una risposta positiva ai comuni che in questi ultimi giorni si sono posti il problema se il ritorno ai vecchi balzelli è consentito a tutti o solo a quelli che nel 2012 sono stati in regime di Tarsu. L'incertezza della formulazione letterale della norma di legge ha creato dei dubbi interpretativi.
Tarsu, Tia1 e Tia2. In realtà, i comuni hanno facoltà di applicare non solo la Tarsu per l'anno in corso, come si evince in maniera più chiara dal testo dell'articolo 5, ma anche Tia1 e Tia2. Entro il termine per l'approvazione del bilancio di previsione (30 novembre) è consentito fare questa scelta. Fermo restando, però, che i contribuenti sono tenuti a pagare la maggiorazione allo stato. Com'è noto, l'articolo 10 del dl 35/2013 ha stabilito che la maggiorazione va pagata contestualmente all'ultima rata del tributo, nella misura fissa di 30 centesimi al metro quadrato, e viene incassata dallo stato. A prescindere dalle opzioni di cui si può avvalere l'amministrazione comunale, oltre al tributo sui rifiuti i contribuenti sono tenuti a sborsare un'ulteriore somma a titolo di maggiorazione per i servizi indivisibili, rapportata alle dimensioni dell'immobile posseduto o occupato.
L'articolo 5 recita che in deroga a quanto stabilito dall'articolo 14, comma 46, del dl 201/2011, convertito nella legge 214/2011, il comune può determinare i costi del servizio e le relative tariffe sulla base dei criteri previsti e applicati nel 2012. È evidente che la norma fa ritornare in vita le vecchie discipline abrogate, derogando per il 2013 a quanto previsto dall'articolo 14 del dl «salva Italia», che ha istituito la Tares. In effetti, quest'ultima disposizione aveva abrogato tutti i tributi sui rifiuti vigenti, compresa l'addizionale per l'integrazione dei bilanci degli enti comunali di assistenza (ex Eca). Non ha invece subìto modifiche il tributo per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente, dovuto nella percentuale deliberata dalla provincia sull'importo della tassa, esclusa la maggiorazione.
Peraltro, che sia possibile il ritorno alla gestione di Tarsu e Tia trova conferma nell'ulteriore previsione contenuta nell'ultimo periodo del comma 4-quater, nella parte in cui viene specificato che qualora il comune scelga di applicare la Tarsu, è consentito raggiungere lo stesso livello di copertura dei costi del servizio dell'anno precedente (per evitare eccessivi aumenti delle tariffe in un momento di difficoltà economiche), facendo ricadere il peso delle mancate entrate sull'intera platea dei contribuenti.
Pertanto, qualora il gettito non copra tutte le spese, gli enti possono fare ricorso a risorse diverse dai proventi della Tarsu, derivanti dalla fiscalità generale. Questa regola, però, vale solo per la Tarsu. Per la tariffa «Ronchi» e per quella «puntuale», la quale ha per espressa previsione di legge natura corrispettiva, disciplinate rispettivamente dai decreti legislativi 22/1997 e 152/2006, l'obbligo della copertura integrale dei costi non può essere aggirato (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2013).

ENTI LOCALI: Mini-enti, solo convenzioni doc. Obiettivi: meno spesa, più efficacia ed efficienza nei servizi. Decreto Viminale con le indicazioni per la gestione associata delle funzioni fondamentali.
Contenere la spesa corrente e raggiungere livelli più elevati nei servizi. Sono questi i due obiettivi che i piccoli comuni che decideranno di convenzionarsi per esercitare in forma associata le proprie funzioni fondamentali dovranno centrare entro il 2015. Per chi risulterà fuori linea scatterà l'obbligo di sciogliere la convezione e di aderire ad un'unione.
Lo prevede il decreto del ministero dell'interno 11.09.2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 251 del 25.10.2013.
Il provvedimento rappresenta l'ultimo tassello della complessa disciplina che impone ai mini-enti (tutti quelli che, in base all'ultimo censimento, risultano avere meno di 5 mila abitanti, ovvero di 3 mila se montani) di associarsi per erogare i servizi che rientrano nel proprio «core business».
L'accelerazione del Viminale va in direzione contraria rispetto alle richieste dei sindaci, che nel corso dell'Assemblea Anci svoltasi la settimana scorsa a Firenze avevano chiesto a gran voce al governo una proroga del termine per adempiere (attualmente fissato al 31.12.2013) o almeno una sua «diluizione» (in base alla disciplina vigente entro fine anno vanno associate tutte le nove funzioni fondamentali individuate dall'art, 19 del dl 95/2013).
Il fatto che il decreto, atteso da tempo, sia arrivato al capolinea sembra mostrare, invece, la volontà dell'esecutivo di non fare sconti.
I comuni interessati possono scegliere fra due modelli organizzativi: da un lato, l'unione (ordinaria o, per quelli con meno di 1.000 abitanti, speciale) e la convenzione.
Quest'ultima deve avere durata almeno triennale e garantire il conseguimento di significativi livelli di efficienza ed efficacia.
In base a quanto stabilito dal decreto, l'efficienza sarà misurata in base ai dati contabili di bilancio relativi alla spesa corrente: quest'ultima, alla fine del triennio (ovvero nel 2015) dovrà essersi ridotta di almeno il 5% rispetto ai livelli precedenti alla gestione associata. La lettera della norma parla di «risparmio complessivo» degli enti convenzionati, ma l'allegato B richiede una riduzione in capo a ogni singolo comune. Per evitare di penalizzare gli enti capofila, dal computo vengono escluse quote di spesa pari alle entrate per rimborsi provenienti da altri comuni convenzionati. Sono altresì da escludere le spese finanziate da contributi e quelle riferite a servizi in precedenza non attivati.
Quanto all'efficacia, occorrerà dimostrare di aver raggiunto un migliore livello di servizi in almeno tre aree funzionali fra quelle indicate (rifiuti, edilizia scolastica, polizia locale, tributi, servizi sociali, lavori pubblici, asili nido e mense): a tal fine, è stata predisposta un lista di indicatori che dovranno migliorare entro la fine del triennio (ad esempio, per i rifiuti rileva la percentuali di raccolta differenziata, per i nidi il rapporto fra domande soddisfatte e domande presentate ecc.).
Saranno i singoli enti a dover attestare il raggiungimento dei target previsti, mediante dichiarazione sottoscritta dal segretario e del responsabile dei servizi finanziari e vistata dal sindaco.
Le attestazioni dovranno perfezionarsi entro 30 giorni dalla scadenza del termine per l'approvazione del rendiconto 2015, ovvero entro il 31.05.2016 (articolo ItaliaOggi dell'01.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIANiente Sistri per il trasporto dei rifiuti in conto proprio. Ambiente. Diffuse le nuove istruzioni del ministero.
Confermata l'esclusione dall'applicazione del Sistri, dal 1° ottobre, per chi trasporta rifiuti in conto proprio.
Con la circolare 31.10.2013 n. 1, pubblicata ieri sera, il ministero dell'Ambiente ha fornito indicazioni in merito a obblighi, procedure ed esenzioni del sistema di tracciabilità dei rifiuti a seguito della conversione in legge del Dl 101/2013 avvenuta il 30 ottobre.
Il documento ministeriale precisa che la norma non contempla l'obbligo di adesione per i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi; per gli enti e le imprese che effettuano attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti non pericolosi; per i raccoglitori e i trasportatori di rifiuti urbani di regioni diverse dalla Campania, salvo la fase di sperimentazione per i rifiuti urbani pericolosi.
Inoltre viene ribadito, come già avvenuto nella nota esplicativa di fine settembre (che viene sostituita dalla circolare 1) che l'obbligo di utilizzo del Sistri dal 1° ottobre non riguarda chi effettua trasporto in conto proprio. Secondo il ministero, infatti, la locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale» contenuta nel comma 2 dell'articolo 11 del Dl 101/2013 riguarda chi raccoglie o trasporta rifiuti speciali pericolosi prodotti da terzi.
In relazione ai vettori stranieri, il ministero chiarisce che, se effettuano trasporti esclusivamente all'interno del territorio nazionale o se il trasporto parte dall'Italia verso un Paese estero, scatta l'obbligo di iscrizione al Sistri. Invece, in caso di trasporti transfrontalieri dall'estero verso l'Italia o semplicemente attraversando il territorio nazionale, valgono le disposizioni prevista dal regolamento comunitario 1013/2006.
La circolare contiene anche la definizione di nuovi produttori che trattano o producono rifiuti pericolosi. «Si tratta dei soggetti che sottopongono i rifiuti pericolosi ad attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti (eventualmente, anche non pericolosi) diversi da quelli trattati, per natura o composizione, ovvero che sottopongono i rifiuti non pericolosi ad attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti pericolosi; tali soggetti, nelle more delle modifiche delle procedure informatiche, sono tenuti ad iscriversi sia nella categoria gestori che in quella produttori».
Il paragrafo 4 della circolare precisa invece le modalità di coordinamento tra iscritti e non al sistema di tracciabilità fino al 03.03.2014. In particolare, viene sottolineato che il gestore dell'impianto di recupero o smaltimento è tenuto a stampare e trasmettere al produttore dei rifiuti stessi la copia della «scheda Sistri - area movimentazione» completa per attestare l'assolvimento dell'obbligo.
Infine sul fronte delle sanzioni, per dieci mesi non scatteranno quelle relative agli adempimenti del sistema di tracciabilità ma continueranno ad applicarsi adempimenti e sanzioni previsti dagli articoli 188, 189, 190, 193 del Dlgs 152/2006 nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dal Dlgs 205/2010
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODl p.a. a rischio boomerang. Le norme antiprecari potrebbero produrne altri. Gli enti potranno assumere a termine i vincitori di concorsi a tempo indeterminato.
Il decreto antiprecariato rischia di rivelarsi un boomerang. La legge di conversione del dl 101/2013, che ha visto la luce dopo un travagliato percorso nei giorni scorsi, ha introdotto una disposizione che, nell'ottica della lotta al precariato può considerarsi quanto meno imprudente.
Si tratta della lettera a-bis), introdotta, per effetto del testo definitivo dell'articolo 4, comma 1, che a sua volta novella l'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, con il seguente periodo: «Per prevenire fenomeni di precariato le amministrazioni pubbliche di cui al presente decreto, nel rispetto dell'articolo 36 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, ultimo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione in graduatoria dei vincitori e degli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato».
Lo scopo è di indurre le amministrazioni pubbliche a non attivare concorsi per assunzioni a tempo determinato, ma, invece, di sottoscrivere contratti a tempo determinato con coloro che abbiano vinto o siano risultati idonei in esito a concorsi per assunzioni a tempo indeterminato.
Questo, oltre all'irrigidimento delle condizioni e presupposti alla base dei contratti a termine previsto dal dl 101/2013, si ritiene possa contribuire ad evitare la creazione di nuovo precariato. Infatti, i contratti a termine dovrebbero essere prioritariamente sottoscritti con chi può legittimamente ambire ad un'assunzione a tempo determinato e, dunque, non potrebbe considerarsi «precario» nel senso deteriore di chi lavora con rapporti flessibili con la p.a., senza possibilità di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato, in assenza di norme speciali qual è, in effetti, l'articolo 4 del dl 101/2013.
Tuttavia, il legislatore spesso, come in questo caso, non fa bene i conti con la prassi o le astuzie delle amministrazioni pubbliche.
La norma, per come è formulata, è perfetta per eludere, almeno nel medio tempo, esattamente le restrizioni introdotte dal dl 101/2013 all'abuso di contratti a tempo determinato. Per acquisire prestazioni lavorative a termine occorre che vi siano, e siamo dimostrabili, esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale; in assenza di tali presupposti, i contratti sono nulli e scattano responsabilità erariali e dirigenziali per i dirigenti che abbiano violato le previsioni dell'articolo 36 del dlgs 165/2001.
Invece, per assumere a tempo indeterminato, non occorre alcuna motivazione, ma solo (si fa per dire) rispettare i limiti finanziari ed al turnover, posti dalle norme.
Stando così le cose, allora, potrebbe risultare semplice aggirare le norme ed acquisire prestazioni di lavoro a termine, non soggette a limiti del turnover, ma solo al contenimento della spesa entro il limite del 50% di quella sostenuta nel 2009, per altro non rigidamente operante per regioni ed enti locali, invece di contratti a tempo indeterminato, utilizzando senza limiti l'espediente di bandire concorsi per lavori a tempo indeterminato e stipulando, invece, contratti a termine.
Nessuno potrebbe eccepire alcuna violazione ai limiti e vincoli previsti dall'articolo 36 al ricorso al lavoro a termine. E, tuttavia, una simile prassi potrebbe sortire comunque l'effetto di costruire una nuova tipologia di precari nel pubblico impiego: lavoratori che hanno acquisito il diritto a un'assunzione a tempo indeterminato, ma che potrebbero vedersi per lungo tempo impiegati solo a termine.
Il tempo di impiego è la variabile che il legislatore non ha preso in considerazione. La nuova fattispecie introdotta potrebbe indurre a considerare applicabile per queste particolari assunzioni i principi previsti dalle norme del dlgs 368/2001 in tema di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, nel caso di superamento del limite massimo dei 36 mesi consentito dalla legge o dell'ulteriore termine previsto da accordi collettivi, qualora vi sia un rinnovo concordato tra datore e lavoratore.
Tali disposizioni, ai sensi dell'articolo 36, comma 5, del dlgs 165/2001, non posso operare nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico. Tuttavia, qualora un vincitore di un concorso a tempo indeterminato, assunto a termine, si vedesse reiterare l'assunzione a tempo determinato per periodi prolungati potrebbe pretendere l'applicazione della «tutela reale» prevista dal dlgs 368/2001, per evitare che la sua assunzione a tempo determinato risulti solo un espediente.
La legge di conversione del dl 101/2013 meriterebbe un'immediata integrazione e modifica, per disciplinare meglio il vuoto operativo che ha creato (articolo ItaliaOggi del 31.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPa, assunzioni con vincoli. Il ministro D'Alia: proroga solo per chi sarà coinvolto dai concorsi. Decreto precari. L'amministrazione deve tener conto dei limiti al turn-over e alla spesa di personale.
Con l'approvazione definitiva ottenuta martedì al Senato dal decreto sul pubblico impiego (Dl 101/2013), pubblicato ieri sulla «Gazzetta Ufficiale», si ampliano gli strumenti di gestione del personale precario e si aprono nuove possibilità di assunzione. Ogni amministrazione, però, per l'utilizzo delle nuove regole deve tener conto dei vincoli alle assunzioni e alla spesa di personale, che non vengono derogate dal decreto e anzi sono in via di rafforzamento con il disegno di legge di stabilità ora all'esame di Palazzo Madama.
Lo stesso ministro della Pubblica amministrazione Giampiero D'Alia, che oggi terrà a Palazzo Vidoni una conferenza stampa per illustrare effetti e funzionamento delle nuove regole, ha chiarito ieri che non tutti gli 80mila precari in scadenza (su 122mila che ne conta il pubblico impiego, scuola esclusa) potranno salire sulle scialuppe previste dal decreto appena convertito in legge: «Quelli interessati dalle nuove procedure saranno prorogati –ha precisato il ministro in una nota– mentre per gli altri i contratti scadranno secondo il singolo rapporto contrattuale, perché non ci possono essere ulteriori proroghe».
Lo strumento principe per gli "interessati" è la nuova stagione triennale di concorsi, dal 2014 al 2016, con una riserva al 50% per i precari che abbiano totalizzato almeno tre anni di contratti negli ultimi cinque; per accompagnare la struttura del personale verso la stabilizzazione, il provvedimento permette di prorogare i contratti a termine in corso e la validità delle graduatorie dei concorsi già effettuati. Nel tentativo di frenare il diffondersi di nuovo precariato, infine, viene rafforzato il principio in base al quale le assunzioni flessibili possono essere effettuate solo per soddisfare «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale» (con una modifica all'articolo 36, comma 2, del Dlgs 165/2001, che finora parlava di «esigenze temporanee ed eccezionali» e non ha funzionato troppo come argine).
La strategia, evidente, è quella di coordinare due esigenze contrapposte: la volontà di non lasciare per strada i lavoratori che hanno passato anni negli uffici pubblici senza posto fisso, e la tutela di chi ha vinto un concorso pubblico ma non ha mai ottenuto un posto di lavoro, e teme di vedersi passare davanti uno "stabilizzato". Nasce da qui la regola del 50%, che in pratica impone di bandire concorsi per un numero di posti doppio rispetto a quello dei precari che si intendono stabilizzare: un principio, però, che in ogni amministrazione deve fare i conti con i vincoli alle assunzioni e alla spesa di personale.
La maggioranza dei 122mila precari (scuola esclusa) oggi impiegati nella pubblica amministrazione si concentra negli enti territoriali: nel caso dei Comuni, la legge di stabilità conferma il tetto al turn-over, che permette di dedicare a nuove assunzioni il 40% dei risparmi ottenuti con le cessazioni dell'anno precedente. Non solo: negli enti (soprattutto del Sud) in cui la spesa di personale di Comune e società controllate supera il 50% delle uscite correnti, qualsiasi assunzione è bloccata, e anche chi si attesta in prossimità del limite non può superarlo in virtù dei nuovi bandi. Il blocco totale delle assunzioni riguarda anche gli enti che non rispettano il Patto di stabilità.
Per le Regioni la regola chiave resta l'obbligo di riduzione delle spese di personale rispetto all'anno precedente (articolo 1, comma 557, della legge 296/2006), ma vincoli decisamente più stringenti sono previsti nelle amministrazioni impegnate nei piani di rientro dai deficit sanitari. L'insieme di queste regole, come accennato, colpisce soprattutto al Sud. Giusto ieri la Uil Sicilia, per esempio, ha lanciato l'allarme su 18.500 precari che in Regione rischiano di uscire definitivamente dal comparto pubblico: a meno che intervenga l'ennesima proroga
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti urbani pericolosi nel Sistri da giugno 2014. Ambiente. Un provvedimento ministeriale fisserà le regole della sperimentazione.
Le sanzioni previste per il Sistri dal "Codice ambientale" scatteranno dal 01.08.2014 e non più dal prossimo 2 novembre e dal 04.03.2014 (rispettivamente per i gestori e per i produttori).
È questa la novità di più immediato impatto operativo per le imprese obbligate al Sistri ed è contenuta nell'articolo 11 del Dl 101/2013 convertito definitivamente ieri dal Senato. L'altra novità di rilievo risiede nella sperimentazione per i rifiuti urbani pericolosi che inizierà il 30.06.2014.
Per quanto modificata, però, la struttura dell'articolo 11 restituisce un quadro normativo che non tiene conto delle criticità incontrate dalle imprese in questo primo mese di operatività (dal blocco dei software di aggiornamento dei dispositivi, alla difficoltà di allineamento dei dati anagrafici).
Dal 01.10.2013 sono obbligati al Sistri enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale o che recuperano e smaltiscono, commercializzano e intermediano rifiuti speciali pericolosi, inclusi i nuovi produttori. Sono compresi i vettori esteri che operano in Italia e dall'Italia verso l'estero. Dal 03.03.2014 partiranno i produttori iniziali di rifiuti pericolosi nonché, per la regione Campania, i Comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani. Terminalisti ferroviari e marittimi e raccomandatari marittimi in caso di trasporto intermodale tornano fra gli obbligati. Un decreto disciplinerà le relative procedure. Nessuna semplificazione, dunque, anzi è previsto il rientro di categorie escluse.
Non alimenta la certezza per le imprese il fatto che il nuovo articolo 11 si pone in regime di discontinuità rispetto alla circolare del 30.09.2013 con la quale il ministero dell'Ambiente da un lato aveva escluso l'obbligo di iscrizione per il trasporto di rifiuti pericolosi da sé stessi prodotti (cosiddetto conto proprio) e dall'altro includeva le operazioni di deposito temporaneo e stoccaggio dei propri rifiuti effettuato all'interno del luogo di produzione. Entro due mesi, un decreto del ministro dell'Ambiente disciplinerà la sperimentazione per applicare il Sistri a enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti urbani pericolosi a titolo professionale (compresi i vettori esteri in Italia e dall'Italia) nonché per gli altri gestori dall'atto del conferimento in centri di raccolta o stoccaggio in poi. La sperimentazione decorrerà dal 30.06.2014.
Le sanzioni Sistri di cui agli articoli 260-bis e 260-ter del Dlgs 152/2006, a prescindere dalla data di partenza dell'operatività del sistema, si applicheranno per tutti dal 01.08.2014. Una lunga "moratoria" sulle sanzioni che dimostra come il sistema non stia funzionando a dovere. In questi dieci mesi gli obbligati al Sistri continueranno a compilare e conservare registro e formulario. Inoltre, entro il 30.04.2014 dovranno inviare il Mud. Sono state reintrodotte le sanzioni per i registri e i formulari.
Il regime del "doppio binario" (Sistri + registri e formulari) è molto oneroso per le imprese poiché dovranno gestire tre documenti cartacei (scheda Sistri area movimentazione, formulario e registro) oltre all'apparato informatico. La nuova norma ridisegna anche gli articoli 190 e 193 del Dlgs 152/2006 e prevede l'esclusione dall'obbligo di registro e formulario per enti e imprese obbligati o volontariamente aderenti al Sistri. Sfuggiranno al registro le attività di raccolta e trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi effettuate dagli enti e imprese produttori iniziali
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.10.2013).

CONDOMINIO: Il riscaldamento non si taglia. Nessun blocco dall'amministratore contro il condominio moroso. Giustizia. Per il tribunale di Milano l'interruzione del servizio lede il diritto costituzionale alla salute.
Il servizio di riscaldamento non si tocca anche se il condomino è moroso: lo ha stabilito il Tribunale di Milano nel procedimento (ruolo generale 72656/13, sezione XIII civile) promosso in via d'urgenza da un condominio che, sul presupposto dell'esistenza di una sua morosità nel pagamento delle quote dovute, si era visto sospendere l'erogazione del riscaldamento da parte di altro condominio tenuto per contratto a fornirgliela.
Tra le due parti era sorta contestazione circa l'ammontare del debito dell'una verso l'altra proprio in relazione al riscaldamento erogato e così all'amministratore del condominio erogante non era parso vero di dare esecuzione al nuovo disposto dell'articolo 63, terzo comma, delle disposizioni attuative del Codice civile che lo autorizza, pur in difetto di qualsivoglia autorizzazione contenuta nel regolamento (invece richiesta nel vecchio testo pre-riforma) a sospendere il condominio moroso dalla fruizione dei servizi suscettibili di godimento separato e di quello del riscaldamento. Detto e fatto e un elevato numero di famiglie si è trovata all'improvviso al freddo, senza alcun preavviso e/o avvertimento.
Il ricorso al giudice è stato fulmineo proprio per ottenere la ripresa del servizio e altrettanto rapida è stata la decisione del giudice.
«La privazione di una fornitura essenziale per la vita, quale il riscaldamento in periodo invernale, è suscettibile di ledere diritti fondamentali delle persone, di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute (articolo 32 Costituzione)», argomenta il giudice. Comunque, «il diritto che con la sospensione del servizio si intende tutelare è puramente economico e sempre riparabile». Di qui, ricorrendo i presupposti di pericolo di danno grave ed irreparabile alla salute dei condomini, l'ordine impartito all'amministratore di provvedere subito a garantire l'erogazione del servizio di riscaldamento ai presunti morosi.
È vero che la legge consente all'amministratore, nel caso di morosità del condomino che si protrae per un semestre, di sospendergli l'erogazione di quei servizi che possono essere da lui goduti separatamente, fermo comunque il diritto del condominio di procedere per il recupero della morosità maturata e che eventualmente andrà a maturare. Altrettanto vero è, però, che il terzo comma dell'articolo 63 delle disposizione attuative del Codice civile va applicato con estrema prudenza da parte dell'amministratore e in situazioni talmente gravi da non consentirgli diversa soluzione, proprio per il rispetto dovuto verso coloro che invece adempiono con regolarità i propri obblighi pecuniari verso il condominio.
Rimane dunque preferibile che il regolamento, o in ultima analisi l'assemblea, continui a indicare le modalità ed i casi in presenza dei quali l'amministratore può avvalersi del rimedio in esame, ad esempio individuando una soglia minima di mora in presenza della quale scatta la sospensione dal servizio. Nel silenzio, è chiaro però che il nuovo potere discrezionale conferito all'amministratore dal nuovo terzo comma dell'articolo 63 deve essere da lui dosato con la diligenza del buon padre di famiglia, rimanendo comunque salvo il sindacato dell'autorità giudiziaria sul suo operato e dunque sulla sua personale responsabilità.
Resta poi da stabilire, nel silenzio della legge, da quando decorre il semestre scaduto il quale si possa procedere alla sospensione della fruizione dei servizi comuni
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2013).

APPALTI: L'Antitrust alle appaltanti: segnalate le violazioni.
L'Antitrust lancia un vademecum sui fenomeni anticoncorrenziali negli appalti e chiede alle stazioni appaltanti di segnalarli; una volta accertata la violazione delle regole antitrust la stazione appaltante potrà ottenere il risarcimento dei danni arrecati dal concorrente; offerte di comodo, boicottaggi delle gare, associazioni temporanee «sovrabbondanti» fra i fenomeni di maggiore indice anticoncorrenziale.

È quanto si desume nel vademecum dell'Antitrust (deliberazione 18.09.2013) che segnala alle stazioni appaltanti alcune criticità.
L'Antitrust, lambendo le competenze dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, esemplifica -a uso delle amministrazioni- alcuni indici rivelatori di fenomeni discorsivi della concorrenza: pochi concorrenti o concorrenti caratterizzati da analoga efficienza e dimensione; prodotti omogenei; perdurante partecipazione alle gare delle stesse imprese; appalto ripartito in più lotti dal valore economico simile.
Nello specifico, si sottolinea come il boicottaggio della gara venga individuato come sistema per prolungare il contratto con il fornitore abituale o per far ripartire pro quota il lavoro o la fornitura tra tutte le imprese interessate al contratto e si sostanzia in:
1) nessuna offerta presentata;
2) presentazione di un'unica offerta o di un numero di offerte comunque insufficiente per procedere all'assegnazione dell'appalto (quando la stazione appaltante stabilisce un numero minimo per la regolarità della gara);
3) presentazione di offerte tutte caratterizzate dal medesimo importo (soprattutto quando le procedure di gara fissate dalla stazione appaltante prevedono in queste circostanze l'annullamento della gara o la ripartizione dell'appalto pro quota).
Vi è poi il fenomeno delle offerte di comodo (o «di cortesia» o «fasulle»), vera e propria fattispecie di turbativa d'asta. Anche i subappalti e le Associazioni temporanee di imprese (Ati) sono visti dall'Antitrust come strumenti che, in un uso distorto, favoriscono la spartizione del mercato, o addirittura della singola commessa. Un indizio di tali fenomeni viene individuato nel fatto che una impresa si astiene dal partecipare ad una gara in vista di un successivo subappalto, o opta per la costituzione di un'Ati (con requisiti spesso sovrabbondanti) invece di partecipare singolarmente.
Anche nella fase di aggiudicazione l'Antitrust rileva che l'Ati tra i maggiori operatori può essere anche il frutto di una strategia escludente, tesa a impedire a imprese minori di raggiungere il necessario punteggio qualitativo. Anche dal punto di vista della rotazione delle offerte e della ripartizione del mercato si possono individuare cartelli anticoncorrenziali dal punto di vista non solo del numero di aggiudicazioni ma anche della somma dei relativi importi affidati ad uno stesso soggetto.
Nella delibera si chiede quindi alle stazioni appaltanti di segnalare i fenomeni anomali come esemplificati nel vademecum; laddove poi si dovesse pervenire all'accertamento di un'infrazione, la stazione appaltante potrà procedere alla richiesta degli eventuali danni (conseguenti la pratica anticoncorrenziale) laddove l'appalto fosse già stato assegnato (articolo ItaliaOggi del 29.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAUrbanizzazione, benefici estesi. L'aliquota ridotta al 10% si estende alle opere assimilate. Gli effetti della risoluzione n. 69/E basata sulle indicazioni della Corte costituzionale.
Cadono i paletti per l'applicazione dell'Iva con l'aliquota ridotta 10% sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.

L'Agenzia delle entrate, sulla base di un parere del ministero delle infrastrutture e di una sentenza della Corte costituzionale, con la risoluzione 16.10.2013 n. 69/E ha riconosciuto che l'agevolazione non è circoscritta esclusivamente alle tipologie elencate dalla legge del 1964, ma si estende alle opere che le leggi successive dichiarano assimilate «a ogni effetto» a quelle di urbanizzazione.
A beneficiare del mutato orientamento dell'amministrazione, nell'occasione, i lavori per la realizzazione della banda larga, oggetto della risoluzione. Ma anche i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio delle reti di telecomunicazione, ai quali la precedente risoluzione n. 41 del 2006 aveva negato l'Iva ridotta. Al di là dei singoli casi, è comunque importante il nuovo indirizzo interpretativo, che sovverte il principio del «numero chiuso» ai fini fiscali della categoria in esame.
Le disposizioni e le interpretazioni. La voce n. 127-quinquies della tabella A, parte III, allegata al dpr 633/1972 assoggetta all'aliquota del 10%, tra l'altro, le «opere di urbanizzazione primaria e secondaria elencate nell'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, integrato dall'art. 44 della legge 22.10.1971, n. 865». L'aliquota del 10% è applicabile, oltre che alle cessioni di dette opere:
- alle forniture di beni finiti destinati alla loro realizzazione (voce n. 127-sexies)
- alle prestazioni di servizi, dipendenti da contratti d'appalto, relativi alla loro realizzazione (voce n. 127-septies)
- agli interventi di recupero, escluse le manutenzioni ordinarie e straordinarie (questa fattispecie, invero, non è esplicitamente inclusa nella corrispondente voce n. 127-quaterdecies, ma l'agevolazione è confermata dalla circolare ministeriale n. 1/E del 02.03.1994)
- alle forniture di beni finiti destinati ai suddetti interventi di recupero (voce n. 127-terdecies).
La questione trattata dalla risoluzione n. 69/2013 riguardava, ancora una volta, la portata dell'elencazione delle opere di urbanizzazione. All'Agenzia era stato chiesto di sapere se l'art. 2, comma 5, del dl n. 112/2008, secondo cui le infrastrutture destinate all'installazione di reti e impianti di comunicazione elettronica in fibra ottica sono assimilate a ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, del dpr n. 380/2001, consentisse di applicare l'aliquota Iva del 10% ai corrispettivi dell'appalto per la realizzazione delle suddette infrastrutture.
L'Agenzia ha ritenuto necessario chiedere lumi al ministero per le infrastrutture in ordine alla portata della locuzione «a ogni effetto», contenuta nella norma di assimilazione. Il ministero ha osservato che l'art. 16 dpr 380/2001 (T.u. edilizia) contiene l'elencazione degli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria, sostanzialmente riproduttiva degli interventi di cui alla legge n. 847/1964, cui aggiunge anche i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazione.
L'art. 86 comma 3, del dlgs n. 259/2003 stabilisce che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni, di cui agli artt. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, dpr 380/2001. Infine, l'art. 2, comma 5, dl n. 112/2008 reca analoga disposizione per le infrastrutture destinate all'installazione di reti e impianti di comunicazione elettronica in fibra ottica.
Venendo allo specifico punto, il ministero ha rilevato che la Corte costituzionale, nella sentenza 27.07.2005, n. 336, in relazione all'art. 86, comma 3, dlgs 259/2003, ha chiarito che «la scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, come tale di competenza dello stato, al pari dell'analoga scelta legislativa di carattere generale che ha portato il citato articolo 16, commi 7 e 7-bis, del dpr n. 380/2001, a classificare come opere di urbanizzazione primaria, tra le altre, le strade residenziali, gli spazi di sosta e di parcheggio, le fognature, nonché i cavedi multi servizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni. Non si tratta, pertanto, di una norma di dettaglio, ma di una norma che fissa un principio basilare nella materia del governo del territorio».
Ne segue, da un lato, che l'elenco delle opere di urbanizzazione, attualmente, è recato dal dpr 380/2001 (che ha quindi riunificato l'elencazione della categoria, incorporando le norme precedenti) e, dall'altro, che il legislatore, nell'ampliare la categoria delle opere di urbanizzazione, ha operato una scelta legislativa di carattere generale, e non di dettaglio, analoga a quella operata, a suo tempo, nel classificare come opere di urbanizzazione primaria le strade residenziali, gli spazi di sosta e di parcheggio ecc., menzionate dalla precedente normativa. Si deve pertanto ritenere che quando il legislatore richiami tale testo per introdurre dell'ordinamento giuridico altre opere da assimilare «ad ogni effetto» a quelle di urbanizzazione, tale rinvio riguarda anche le disposizioni in materia di Iva, ancorché le disposizioni del dpr 633/1972 continuino a fare riferimento testuale alla legge n. 847.
Per queste ragioni, la risoluzione n. 69/2013 ha dato il via libera all'aliquota ridotta sui lavori per la banda larga e, in base al nuovo principio, ha dichiarato superato l'orientamento restrittivo espresso con la risoluzione n. 41/2006 in relazione ai cavedi e cavidotti per telecomunicazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

APPALTI: Durc, la regolarità non limita le sanzioni previdenziali. I chiarimenti sul documento di verifica in una circolare del ministero del lavoro.
Regolarità non fa rima con responsabilità. Il Durc emesso all'impresa con scoperture contributive in presenza di crediti nei confronti delle p.a., infatti, certifica una regolarità che consente alle imprese di continuare a operare, ma non limita il potere sanzionatorio agli enti di previdenza e alle casse edili, i quali dunque conservano integra la possibilità di attivare la procedura di riscossione coattiva.

Lo afferma il ministero del lavoro nella circolare 21.10.2013 n. 40/2013.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva si intende la correttezza nei pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail e casse edili per le imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli obblighi previsti dalla normativa vigente riferiti all'intera situazione aziendale. Il Durc è un certificato che attesta tale regolarità di un'impresa.
Rispetto al passato, quando erano necessario tre richieste a cui corrispondevano altrettante certificazioni di regolarità (una per ciascuno degli enti coinvolti: Inps, Inail e casse edili), con il Durc le imprese (e i loro consulenti) effettuano un'unica richiesta e ottengono un unico certificato.
I requisiti di regolarità contributiva. L'Inps, l'Inail e la cassa edile sono ciascuno tenuti ad accertare la regolarità dell'impresa sulla base della rispettiva normativa di riferimento. Regolarità che deve sussistere alla data indicata nella richiesta di rilascio del Durc o alla data di conclusione dell'istruttoria (a seconda dei casi per i quali è richiesto).
I requisiti generali per la verifica della regolarità sono indicati nel decreto ministeriale 24.10.2007 rispetto ai quali, ogni ente ha provveduto con proprie circolari a fornire chiarimenti e informazioni di dettaglio in relazione alla propria normativa di riferimento. Se successivamente al rilascio del Durc emergono circostanze tali da modificare sostanzialmente la situazione di regolarità già attestata, l'ente deve darne immediata comunicazione al richiedente (con emissione di un Durc che annulla e sostituisce il precedente) e, nel caso di appalti pubblici sempre alla stazione appaltante, assumendo nel contempo le necessarie iniziative per il recupero di quanto dovuto.
Il Durc, per esempio, viene richiesto ai fini della verifica di una dichiarazione sostitutiva (in cui sia stata autocertificata la regolarità contributiva); in tal caso, la data che va indicata nella richiesta del Durc deve essere la medesima della presentazione dell'autocertificazione, in quanto la regolarità deve sussistere al «momento» in cui l'azienda ha dichiarato la propria situazione, essendo irrilevanti eventuali regolarizzazioni successive. Ad eccezione dell'ipotesi appena vista, in ogni altra richiesta di Durc qualora manchi la sussistenza dei requisiti di regolarità contributiva, l'istituto che ha rilevato tale mancanza (Inps, Inail o cassa edile), prima di attestare l'irregolarità, è tenuto a invitare l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine di massimo 15 giorni.
Pec obbligatoria nella richiesta del Durc. La richiesta del Durc avviene su internet all'indirizzo http://www.sportellounicoprevdenziale.it/ al quale si accede tramite autenticazione. Dal 2 settembre l'inoltro della richiesta di Durc è consentito soltanto se il sistema rileva l'avvenuta registrazione, nell'apposito campo del modulo di richiesta, di un indirizzo Pec (la Pec può essere della stazione appaltante/amministrazione procedente, delle Soa e dell'impresa). Dalla stessa data, sia per le pubbliche amministrazioni che per le imprese, i Durc saranno recapitati dall'Inail, dalle casse edili e dall'Inps, esclusivamente tramite Pec, agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta.
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I crediti certificati salvano l'impresa.
In regola l'impresa con scoperture contributive saldabili con crediti vantati nei confronti di p.a. In tal caso, infatti, se i crediti sono certi, liquidi, esigibili e certificati, l'impresa può ottenere il Durc. L'esistenza di crediti va dichiarata dall'impresa in ogni appalto o procedimento; in alternativa, però, l'adempimento può essere semplificato in un'unica dichiarazione che l'impresa può fare all'Inps, o all'Inail o alla cassa edile.
Un Durc per «sopravvivere». In base alle disposizioni del dm 13.03.2013, gli istituti previdenziali e le casse edili sono tenuti a rilasciare il Durc alle imprese che hanno ottenuto la certificazione di uno o più crediti nei confronti della pubblica amministrazione ossia nei confronti di amministrazioni statali, enti pubblici nazionali, regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale (si veda tabella).
Il meccanismo evidentemente vuole superare quelle problematiche che non consentivano alle imprese di ottenere il Durc attestante la regolarità (in quanto debitrici nei confronti degli istituti di previdenza e/o di casse edili) sebbene fossero a loro volta creditrici nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Con tale meccanismo, pertanto, si è voluto consentire a queste imprese di poter utilizzare il Durc per continuare a operare sul mercato, anche in presenza di debiti previdenziali e/o assicurativi. I crediti che consentono di ottenere il Durc devono essere certificati, secondo l'apposita procedura, e devono essere certi, liquidi, esigibili per un importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte del soggetto titolare dei crediti certificati.
La certificazione del credito. Punto di partenza per l'impresa che intende ottenere il Durc è dunque la «certificazione» del credito vantato nei confronti di una p.a. La certificazione avviene secondo una procedura telematica, su di un'apposita «piattaforma per la certificazione dei crediti».
L'istanza di certificazione può essere presentata da chiunque, società, impresa individuale o persona fisica, vanti un credito non prescritto, certo, liquido ed esigibile, scaturente da un contratto avente a oggetto somministrazioni, forniture e appalti nei confronti di una p.a. Al riguardo si precisa che:
a) il credito è da considerarsi certo quando è determinato nel suo contenuto dal relativo atto negoziale, perfezionatosi, nel caso di specie, secondo le forme e le procedure prescritte dalle vigenti disposizioni contabili. Ai fini della certificazione, è da ritenersi sussistente il requisito della certezza solo qualora il credito sia afferente a una obbligazione giuridicamente perfezionata per la quale sia stato assunto il relativo impegno di spesa, registrato sulle scritture contabili ovvero, per gli enti del Servizio sanitario nazionale, siano state effettuate le relative registrazioni contabili.
Pertanto, in assenza di contratto perfezionato o di impegno di spesa, regolarmente registrato sulle scritture contabili ovvero, per gli enti del Servizio sanitario nazionale, delle necessarie registrazioni contabili, gli enti non potranno certificare il credito, riferibile esclusivamente alla sfera giuridica del soggetto che ha ordinato la somministrazione, la fornitura o l'appalto al di fuori delle prescritte procedure giuscontabili;
b) il requisito della liquidità, soddisfatto dalla quantificazione dell'esatto ammontare del credito, è da ricondursi agli elementi del titolo giuridico;
c) l'esigibilità, da valutarsi al momento del riscontro da parte delle amministrazioni, sta a indicare l'assenza di fattori impeditivi del pagamento del credito, quali l'eccezione di inadempimento, l'esistenza di un termine o di una condizione sospensiva.
Fermo restando il vincolo di non prescrizione, non c'è alcun termine entro il quale è possibile presentare l'istanza di certificazione di un credito. Non sono in ogni caso certificabili le somme relative a debiti fuori bilancio delle amministrazioni.
Saldo zero o positivo tra crediti e debiti. Ai fini del rilascio del Durc, la scopertura contributiva deve risultare pienamente «saldabile» con i crediti pubblici i quali, come detto, devono essere certi, liquidi ed esigibili. In altre parole, l'importo di credito certificato deve risultare pari o superiore alle scoperture contributive; se risulta inferiore il Durc di regolarità non potrà dunque essere rilasciato.
In secondo luogo, per ottenere il rilascio del Durc, è necessario che il soggetto intestatario (vale a dire l'impresa che lo richiede) dichiari la presenza di crediti certificati nei confronti della p.a., cosa che andrà fatta evidentemente nei riguardi della p.a. e/o del soggetto titolare del procedimento amministrativo per il quale serve il Durc. In particolare, l'interessato deve dichiarare di vantare crediti nei confronti della p.a. che hanno ottenuto la certificazione, precisandone gli estremi (data rilascio, amministrazione, protocollo, codice piattaforma). Per evitare di ripetere la dichiarazione in ogni procedimento, l'interessato può rendere un'unica dichiarazione sui crediti alla cassa edile o ad un istituto previdenziale i quali ne terranno conto in ogni richiesta di emissione di Durc, anche se proveniente da terzi (per esempio da una stazione appaltante).
Un documento diverso dagli altri. Il Durc rilasciato in presenza di crediti nei confronti della p.a. conterrà i seguenti elementi:
• dicitura di emissione «ex art. 13-bis, comma 5, dl n. 52/2012»;
• importo dei debiti contributivi/assicurativi, con indicazione dell'istituto previdenziale e/o della cassa nei cui confronti sussistono i debiti stessi, nonché il loro ammontare complessivo disponibile;
• gli estremi della/delle certificazione/i comunicata/e al momento di richiesta del Durc, con indicazione di ciascun importo nonché dell'ammontare complessivo disponibile;
• eventuale data del pagamento dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Controllo incrociato. Gli enti previdenziali e le casse edili verificheranno per mezzo dell'apposita piattaforma telematica l'esistenza delle certificazioni di credito, anche perché l'emissione del Durc è possibile fintantoché il credito è esistente ed efficace a copertura dei debiti e delle scoperture contributive.
La piattaforma consente la verifica dell'effettiva disponibilità del credito al momento della richiesta e, quindi, dell'emissione del Durc, tuttavia non è ancora pienamente operativa. Nelle more dell'avvio del procedimento, la verifica andrà fatta sulla base delle certificazioni rilasciate dalla piattaforma e trasmesse per Pec o esibite sotto la responsabilità anche penale del soggetto titolare del credito certificato (cioè l'impresa richiedente il Durc), agli istituti e/o alle casse edili (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARecupero rifiuti Ue dal 2014. Al via il 1° gennaio le nuove norme sui rottami di rame. Le modalità di trattamento nel regolamento comunitario recepito dal ddl Ambiente.
Immediatamente applicabili dal 01.01.2014 sul territorio nazionale le nuove norme tecniche comunitarie per il corretto recupero dei rifiuti costituiti da rottami di rame.

Dopo l'operatività dei paralleli provvedimenti Ue sull'end of waste dei rifiuti metallici e di quelli in vetro (in vigore rispettivamente dal 09.10.2011 e dall'11.06.2013) è infatti in procinto di scattare quella del nuovo regolamento 715/2013/Ue recante le condizioni per trasformare i preziosi rifiuti rossicci in materie prime secondarie (e sancirne, quindi, la cessazione della qualifica di rifiuti).
Regole comunitarie che plausibilmente debutteranno a fianco delle prime e necessarie norme nazionali di raccordo tra le oramai sempre più fitte norme tecniche comunitarie in materia (quelle sull'end of waste della carta sono in corso di approvazione) e quelle interne sul regime autorizzatorio degli impianti.
Il recupero del rame. Il regolamento 715/2013/Ue (Guue 26.07.2013 n. L201) stabilisce le condizioni da soddisfare per ottenere materie prime secondarie dai rottami di rame, ossia: qualità dei rifiuti da processare; modalità di trattamento, standard dei materiali ottenuti; tipologie di riutilizzi cui indirizzarli. In particolare, a poter essere processati saranno dal 01.01.2014 (in base al provvedimento in parola) solo rifiuti contenenti rame o leghe di rame recuperabile. I rifiuti dovranno venire da raccolta differenziata, essere puliti e disinquinati.
Le Mps ottenute dal trattamento dovranno rispondere alle norme tecniche di settore (con precise limitazioni alla presenza di materiali estranei) ed essere utilizzate direttamente nella produzione di sostanze od oggetti in impianti di fusione, raffinazione o produzione di altri metalli. Ai responsabili del recupero sarà altresì imposta l'adozione di un sistema interno di controllo (certificato da un valutatore ambientale accreditato Ue) nonché la redazione di una dichiarazione che attesti il rispetto di tutte le citate condizioni. Dichiarazione che dovrà essere trasmessa ai destinatari al momento della cessione dei materiali (vero e proprio momento in cui, in base al regolamento, i rottami di rame processati usciranno ufficialmente dal regime dei rifiuti).
Le altre norme Ue, presenti e future. È la direttiva 2008/98/Ce dettare a monte le condizioni generali sul recupero dei rifiuti, delegando la Commissione Ue all'adozione di norme tecniche di dettaglio per singole categorie di rifiuti e riconoscendo al contempo la validità di quelle dei singoli Stati membri nei limiti della compatibilità con le prime. Proprio sulla base di tale delega la Commissione Ue ha già adottato le citate regole per l'end of waste dei rottami di vetro (regolamento Ue n. 1179/2012) e di quelli di ferro (regolamento 333/2011/Ue).
Sulla scia di tali regolamenti la Commissione Ue ha già predisposto pedissequo provvedimento per il recupero della carta, dal settembre 2013 all'esame del Parlamento europeo. In base allo schema in discussione potranno essere sottoposti a trattamento di recupero rifiuti (non pericolosi) di carta oggetto provenienti da raccolta separata, dai quali si dovrà ottenere un output rispondente agli standard europei EN 643 destinato al riutilizzo diretto nei maceri per la fabbricazione di prodotti in carta.
Il raccordo con le norme nazionali. È il ddl ambientale collegato alla nuova legge di Stabilità predisposto nei giorni scorsi dal governo (ed insieme a quest'ultimo sottoposto al varo del Parlamento) a prevedere l'accennato raccordo tra le nuove norme tecniche di recupero targate Ue (sia emanate che emanande) e le vigenti norme nazionali, autorizzatorie e tecniche. Sostanzialmente il disegno di legge in itinere prevede che il trattamento dei rifiuti disciplinati dai regolamenti Ue sull'end of waste può essere condotto alternativamente, in base a due diversi regimi: sotto il regime ordinario previsto dall'articolo 208 del dlgs 152/2006; oppure in base al regime semplificato ex articolo 214 e seguenti dello stesso Codice ambientale.
L'utilizzo di quest'ultimo regime (che permette l'avvio delle attività di recupero decorsi 90 giorni dalla semplice comunicazione all'Ente provinciale) sarà però condizionato alle seguenti prescrizioni: rispetto di tutte le norme dettate dai relativi regolamenti Ue (con particola riferimento a qualità e caratteristiche dei rifiuti da trattare, condizioni di attività, assenza di pericolo per uomo ed ambiente, destinazione ed utilizzi consentiti delle Mps ottenute); rispetto delle quantità massime di rifiuti recuperabili stabiliti dai diversi decreti ministeriali tecnici di riferimento (ossia il dm 05.02.1998 per il recupero semplificato rifiuti non pericolosi, il dm 161/2002 per i pericolosi, il Dm 269/2005 per i rifiuti da navi, il dl 172/2008 sulle materie prime secondarie).
Il ddl promette altresì di occuparsi delle imprese già autorizzate in via semplificata al recupero di materia da rifiuti contemplati dai nuovi regolamenti end of waste, imponendo loro di adeguarsi alle prescrizioni sopra citate entro un congruo periodo di tempo, ma nelle more del quale potranno comunque proseguire l'attività (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

APPALTILa banca dati sugli appalti debutterà solo a gennaio.
GLI STRUMENTI/ Certificato antimafia, Durc e casellario giudiziale saranno i documenti che l'Autorità dovrà acquisire
Ora che la banca dati delle opere incompiute ha preso il via, il prossimo appuntamento per imprese e amministrazioni del settore degli appalti pubblici è il primo gennaio. Data in cui, se non ci saranno sorprese dell'ultima ora, diventerà operativa la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, gestita dall'omonima Autorità.

Pensata per snellire il carico di documenti che imprese e professionisti devono presentare a ogni gara, la Banca dati sarà obbligatoria non solo per gli appalti di lavori pubblici, ma anche per quelli di servizi e di forniture, a partire da una soglia unica di 40mila euro.
Questo strumento, ribattezzato «Avcpass», eliminerà l'onere di presentare negli appalti all'amministrazione i certificati che comprovano i requisiti: dal casellario giudiziale al Durc, dalla regolarità dei versamenti alle Casse professionali al certificato antimafia.
Tutto sarà gestito attraverso un dialogo diretto tra Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ed enti competenti per il singolo certificato.
In questo modo la Banca dati dei contratti -prevista dal primo decreto legge sulla spending review (il Dl 5/2012)- dovrebbe garantire, a regime, un risparmio per le imprese di circa 140 milioni di euro l'anno, tra dematerializzazione e minori oneri burocratici.
Ma la macchina da mettere in moto è molto complessa. Basti pensare che ogni anno, secondo i dati forniti dalla stessa Autorità, vanno in gara oltre 125mila contratti, tra opere pubbliche, servizi e forniture di beni, per un valore che nel 2012 ha superato i 95 miliardi di euro. E infatti la prima partenza avrebbe dovuto, per legge, essere a gennaio di quest'anno ma è stata fatta slittare per dare modo a imprese e Pa di abituarsi. Quindi, anche se il Dl sulla spending review fissa ancora il termine del primo gennaio 2013, in realtà l'Avcpass diventerà l'unica via di comprova dei requisiti di gara (sempre salvo proroghe) soltanto dal prossimo primo gennaio, non più a scaglioni ma in modo unico per tutte le gare sopra i 40mila euro.
Come funzionerà? Per le imprese e i professionisti cambia poco: continueranno a partecipare alle gare dimostrando i requisiti morali, tecnici ed economici con autocertificazioni. Al momento delle verifiche -obbligatorie sui vincitori e su un campione di concorrenti- sarà la stazione appaltante a collegarsi all'Avcpass per richiedere il documento di comprova. Al momento saranno acquisiti in via telematica il Durc e il certificato del casellario giudiziale. Mentre, in assenza della Banca dati antimafia del Viminale, sarà l'Authority a farsi carico di richiedere -in via cartacea- le verifiche sull'antimafia.
La vera scommessa quindi sarà nella tenuta e nei tempi di risposta di tutto il sistema, che fa dell'Authority l'unico punto di snodo. «Noi siamo pronti - dichiara il consigliere dell'Autorità che segue la banca dati, Luciano Berarducci - ora bisogna vedere quanto anche il mercato vorrà aderire» (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

CONDOMINIODelibere dal giudice solo con citazione. Le conseguenze della riforma.
Per impugnare una delibera assembleare occorre l'atto di citazione e non più il ricorso.

È uno degli effetti della riforma del condominio (legge 220/2012) e, in particolare, delle modifiche all'articolo 1137 del Codice civile.
Lo ha chiarito il Tribunale di Milano (giudice Giacomo Rota) che, con il provvedimento del 21.10.2013 nel procedimento 56369/2013, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione della delibera proposta da un condomino con ricorso anziché con atto di citazione.
Il ragionamento del giudice milanese si fonda sul presupposto che nel nuovo testo dell'articolo 1137 del Codice civile, secondo cui contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria chiedendo l'annullamento, è stato espunta la formula «fare ricorso», sostituita con la più generica frase «adire l'autorità giudiziaria». Il che significa che il condomino, per impugnare le delibere dell'assemblea, deve avvalersi solo dell'atto di citazione, essendo il ricorso un mezzo eccezionale per radicare un giudizio il cui uso, in quanto tale, deve essere espressamente indicato dalla legge.
Il nuovo articolo 1137 del Codice civile ha recepito il principio già dettato dalla Cassazione (sentenza 8491/2011), che aveva individuato nell'atto di citazione l'unico strumento di gravame. Va dunque abbandonata la teoria dell'equipollenza degli strumenti di impugnazione, sostenuta in precedenza (si veda la sentenza 8440/2011 della Cassazione), che permetteva l'indistinto utilizzo della citazione a udienza fissa oppure del ricorso.
Il ricorso non è di per sé idoneo a radicare il giudizio di impugnazione e nemmeno a determinare l'effettivo contraddittorio con il condominio convenuto, perché è sprovvisto sia dell'indicazione dell'udienza fissa alla quale quest'ultimo dovrà costituirsi, sia degli avvertimenti previsti dagli articoli 163 e 164 del Codice di procedura civile.
Né è possibile fare leva sul principio della conservazione degli atti e del raggiungimento dello scopo, essendo il ricorso privo della "chiamata in giudizio" perché appunto manca, al momento della presentazione, l'indicazione dell'udienza, elemento a cui deve poi provvedere il giudice investito della controversia.
Nel caso deciso dal tribunale di Milano, il ricorso era stato tempestivamente depositato presso la cancelleria del giudice nei termini previsti dalla legge, ma nulla era stato notificato al condominio entro 30 giorni, così che lo stesso, nella persona del suo amministratore, aveva già maturato un legittimo affidamento circa l'acquisita esecutività della delibera impugnata.
Il giudice milanese recepisce la necessità di rispettare le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di natura condominiale, che non consentono di allungare i termini di impugnazione e, anzi, impongono una rapida cristallizzazione delle decisioni assembleari.
Quindi, dopo l'entrata in vigore della legge 220/2012 (il 18 giugno scorso), per introdurre il giudizio di impugnazione di delibera assembleare occorre l'atto di citazione, che ha lo scopo di proporre una domanda giudiziale e, contestualmente, di chiamare in giudizio il convenuto affinché possa difendersi. Solo così l'amministratore, presso il cui domicilio va notificato l'atto di impugnazione, può sapere se la delibera dell'assemblea, decorsi 30 giorni dal voto o, per gli assenti, da quando hanno ricevuto il verbale, si può ritenere definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Beni vincolati: più tempo per i lavori. Si aggiunge un altro anno per completare gli interventi su immobili storici o nelle aree protette.
Autorizzazione paesaggistica. Il decreto legge 91/2013 ha portato a regime la proroga per tutti i nulla osta in caso di opere già iniziate.
L'autorizzazione paesaggistica per i lavori su aree o immobili vincolati allunga i tempi. A partire dal 9 ottobre -data di entrata in vigore della legge di conversione del Dl 91/2013- le autorizzazioni rilasciate beneficiano di un anno in più, oltre ai cinque già previsti per completare i lavori.
L'autorizzazione paesaggistica è disciplinata dall'articolo 146 del decreto legislativo 42/2004, il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Ed è necessaria quando si vogliono realizzare opere e progetti in aree sottoposte a tutela a tutela paesaggistica.
La competenza è delle Regioni, le quali, in genere, hanno delegato l'esercizio della funzione ai Comuni. Questi ultimi ricevono la domanda di autorizzazione e la rilasciano, ma solo se la sovrintendenza competente esprime un parere favorevole sul progetto.
Non sempre per intervenire su un bene tutelato serve l'autorizzazione paesaggistica. Non è richiesta, per esempio, per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria e di restauro conservativo (l'elenco è all'articolo 149 del Codice). Per il resto, in base alla rilevanza delle opere da eseguire, l'autorizzazione può essere ordinaria o semplificata. Un allegato al Dpr 139 del 09.07.2010, elenca gli interventi di lieve entità per i quali è sufficiente l'autorizzazione semplificata. La differenza tra i due tipi di autorizzazione è nel grado di complessità delle procedure di rilascio e della documentazione da produrre.
La durata
Il comma 4 dell'articolo 146 stabilisce che l'autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni; scaduto questo termine senza aver completato i lavori previsti dal progetto, per proseguirli occorre ottenere una nuova autorizzazione.
In un primo tempo il decreto legge "Del fare" (Dl 69/2013), aveva modificato la norma prevedendo che "qualora i lavori siano iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si considera efficace per tutta la durata degli stessi". In sostanza, il limite dei cinque anni di validità dell'autorizzazione veniva superato, nel caso di lavori avviati. Ma questa disposizione ha avuto vita breve ed è stata soppiantata dal comma 1 dell'articolo 3-quater del Dl 08.08.2013, n. 91 (il cosiddetto decreto cultura): resta fermo che i lavori devono essere iniziati entro il quinquennio di validità dell'autorizzazione, ma viene ora stabilito che la loro conclusione può avvenire fino a un anno oltre il quinquennio. In sostanza, una volta iniziati i lavori, la fine può essere prorogata di un anno. Se neanche questo supplemento di tempo è sufficiente, è necessario ripetere tutta la procedura per ottenere una nuova autorizzazione.
In via transitoria, sempre il decreto cultura, prevede che può essere allungata di tre anni oltre la data di scadenza quinquennale l'autorizzazione già in corso di validità. Questa norma viene aggiunta al decreto legge "del Fare", per cui le autorizzazioni che potranno beneficiare della proroga triennale dovrebbero essere quelle già rilasciate alla data dello scorso 21 agosto (giorno in cui è entrata in vigore la legge di conversione del Dl 69/2013) e non alla data del 9 ottobre scorso (quando è entrata in vigore la legge di conversione del decreto legge 91/2013). In ogni caso, a prescindere dalla data di riferimento, si creano, quanto a durata, due regimi autorizzatori, uno più favorevole dell'altro (si veda la scheda a fianco).
Un'accelerazione del procedimento di rilascio dell'autorizzazione è stata impressa dall'articolo 39 del Dl 63/2013. Esso ha ridotto da 90 a 45 i giorni, dal ricevimento della documentazione, entro i quali la Sovrintendenza deve, nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, dare il proprio parere, se vuole evitare che alla domanda provveda il Comune.
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Le caratteristiche della procedura di autorizzazione paesaggistica per opere su beni o aree vincolate
LAVORI ESENTI
Non necessitano di autorizzazione paesaggistica gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non cambiano l'aspetto esteriore degli edifici vincolati; gli interventi per l'attività agro-silvo-pastorale senza costruzioni edilizie che alterino il contesto; le opere di bonifica, antincendio e di conservazione
AUTORIZZAZIONE SEMPLIFICATA
La procedura semplificata è applicabile a 39 tipologie di interventi. Vi rientrano: realizzazione o modifica di cancelli, recinzioni, o muri di contenimento del terreno; allacci alle infrastrutture a rete; installazione di condizionatori e di climatizzazione con unità esterna, caldaie, parabole, antenne, piccoli pannelli solari, termici e fotovoltaici; posa di piccoli manufatti in legno per ricovero attrezzi
AUTORIZZAZIONE ORDINARIA
La procedura di autorizzazione paesaggistica segue l'iter ordinario per la realizzazione di tutti gli interventi e i lavori su immobili vincolati e in aree sottoposte a tutela che non sono esplicitamente elencati nella lista di quelli per i quali si può procedere con l'autorizzazione semplificata. I lavori edilizi non possono iniziare prima di avere ottenuto l'autorizzazione
PROCEDURE
L'autorizzazione semplificata prevede, in particolare, un alleggerimento della documentazione da presentare a corredo della domanda: l'istanza è accompagnata da una relazione paesaggistica semplificata, redatta secondo
un modello allegato al Dpr 139/2010, firmata da un tecnico abilitato.
Il procedimento deve concludersi con un provvedimento espresso entro sessanta giorni
TEMPI
I Comuni -che sono gli enti ai quali le Regioni hanno delegato la gestione di questa materia- per rilasciare l'autorizzazione paesaggistica devono ottenere il via libera preventivo della sovrintendenza competente. Il decreto del fare (Dl 69/2013) ha dimezzato da 90 a 45 i giorni entro cui essa deve esprimersi. Se non lo fa, il Comune può procedere nella autorizzazione
PROSSIME ESTENSIONI
La proposta di riforma del Dpr 139/2010 -sull'autorizzazione semplificata- prevede l'esenzione dall'autorizzazione per l'installazione di piccole tende da sole e di chioschi temporanei. Diventeranno realizzabili con autorizzazione semplificata le tettoie aperte sui capannoni per il 10% della loro superficie e le opere che sono piccole varianti ai progetti approvati
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Le modifiche. Ulteriori snellimenti nel regolamento all'esame del Parlamento.
Procedure abbreviate per porte e finestre.

È un cantiere aperto quello che dovrebbe portare alla riforma del Dpr 139 del 09.07.2010, il quale disciplina il procedimento per l'autorizzazione paesaggistica semplificata, per gli interventi di piccolo impatto.
Nel dicembre del 2012, il governo Monti approvò lo schema di un nuovo regolamento, come previsto dall'articolo 44 del decreto legge sulle semplificazioni (n. 5 del 09.02.2012), con lo scopo di «rideterminare ed ampliare le ipotesi di interventi di lieve entità e di operare ulteriori semplificazioni procedimentali».
La bozza del nuovo regolamento amplia le possibilità di ricorrere all'autorizzazione semplificata, con l'introduzione di qualche nuova tipologia di intervento, e prevede che quelli già ora realizzabili in regime di semplificazione possano esserlo anche in aree prima precluse. Escono dalla procedura dell'autorizzazione ordinaria l'installazione di tettoie al servizio di capannoni industriali, se non eccedono il 10% della superficie coperta e la realizzazione nei cortili interni degli immobili di manufatti per usi accessori di pertinenza degli edifici. Anche le varianti in corso d'opera di piccola portata a progetti già autorizzati sono assoggettati a procedura semplificata, pure nel caso prevedano piccoli spostamenti delle aree di sedime degli interventi.
Lo schema di regolamento lasciato dal governo Monti in eredità al nuovo elimina quelle limitazioni, contenute nel Dpr 109/2010, che impediscono ad alcuni interventi di avvalersi dell'autorizzazione paesaggistica semplificata quando la loro realizzazione riguarda particolari tipologie di beni che l'articolo 136 del Codice classifica di "notevole interesse pubblico". Nella definizione rientrano le cose immobili con forti caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica, le ville, i giardini e i parchi particolarmente belli e i complessi di cose immobili con valore estetico e tradizionale. Quando lo schema diventerà norma, con procedimento semplificato sarà possibile, tra le altre cose, aprire porte e finestre sui prospetti di questi immobili, intervenire sui tetti e lattonerie.
Per alcuni interventi in futuro ammessi alla procedura semplificata, è richiesta una relazione paesaggistica particolarmente dettagliata, corredata di documenti e fotografie relative all'area e al contesto paesaggistico interessati all'iniziativa.
Lo schema di regolamento ha incassato il via libera condizionato del Consiglio di stato. I rilievi mossi dal vertice della magistratura amministrativa toccano gli interventi che vengono "liberalizzati", resi cioè realizzabili senza autorizzazione paesaggistica. Le osservazioni riguardano la mancata definizione di quanto deve essere piccola una tenda da sole affinché possa essere liberamente montata su un edificio residenziale; la mancata specificazione della collocazione delle insegne per gli edifici commerciali in alternativa agli spazi delle vetrine; le modalità per conteggiare i trenta giorni massimi durante i quali è possibile, senza autorizzazione, occupare con chioschi e strutture mobili il suolo pubblico o privato.
Come richiesto dal Consiglio di stato lo schema di regolamento ha assunto la veste formale di un Dpr ed è stato trasmesso al Parlamento per i pareri. E lì giace dal marzo scorso.
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L'APPUNTO
Semplificazione in lista di attesa.

La modifica delle norme in materia di autorizzazione paesaggistica procede a due velocità.
Tra le date delle leggi conversione dei Dl 69/2013 e 91/2013, corrono due mesi. Sufficienti al Parlamento per bruciare le tappe per cambiare la durata dell'efficacia dell'autorizzazione: prima (dl 69/2013) la fuga in avanti per far coincidere la sua scadenza con quella della fine dei lavori, a condizione di averli avviati nel termine dei 5 anni dal suo rilascio; poi la retromarcia con il dl 91/2013. Operazione che ha disorientato chi quelle norme deve applicarle e sottostarvi.
Non sta procedendo con la stessa velocità l'esame dello schema di Dpr per modificare il regolamento di disciplina il procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica, che sette mesi fa il nuovo Governo sottopose al parere del Parlamento. Le commissioni competenti ne avviarono l'esame, ma non l'hanno proseguito. Sembra su richiesta dello stesso Governo Letta. Se il blocco è dovuto al fatto che lo schema fu elaborato dal precedente Esecutivo, questa non sarebbe una buona giustificazione. Se, invece e come auspicabile, vi è una buona motivazione, meglio renderla nota, indicando, al contempo, come si intende procedere sulla strada della semplificazione (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

ENTI LOCALI - TRIBUTIComuni, per Imu e Tares è corsa contro il tempo. Con la revisione delle aliquote va riadottato il bilancio. Finanza locale. Senza modifiche legislative non basta una delibera di variazione.
Insieme alla proroga al 30 novembre del termine per approvare il bilancio di previsione 2013, il Dl 102/2013 differisce anche il termine per approvare o variare i regolamenti tributari, le aliquote e le tariffe.

Questa situazione, per usare le parole scritte dalla Corte dei conti, sezione Autonomie, nella delibera 14.10.2013 n. 23, «si connota di particolari tratti al limite della irragionevolezza».
A questo si aggiunge anche un serio problema di tempistica, conseguente al dubbio se le aliquote e regolamenti possono essere variati dopo l'approvazione del bilancio comunale, ma comunque entro la data ultima fissata dalle norme statali.
Questo problema sembrava essere stato risolto dal Mef, che con la risoluzione n.1/DF del 02.05.2011 aveva ammesso, anche per gli enti con bilancio già approvato, la possibilità di variare le delibere apportando le conseguenti variazioni di bilancio.
Questa lettura è però stata successivamente stravolta dalla delibera n. 431 del 2012 della Corte dei Conti, sezione Lombardia, nella quale si sostiene che non è sufficiente una delibera di variazione del bilancio approvato essendo necessaria, invece, una completa riadozione del bilancio di previsione, secondo i termini scanditi nel regolamento di contabilità di ogni Comune, termini mediamente superiori al mese è quindi per il 2013 quasi esauriti.
Unica possibilità è che venga finalmente accolto un emendamento –tra l'altro già più volte proposto da Anci– che acclari con legge la sufficienza di una delibera di variazione.
I dati mancanti
La necessità di risolvere in fretta il problema è amplificata dal fatto che ad oggi i Comuni non hanno ancora tutte le informazioni necessarie a (ri)adottore il bilancio. Basti considerare che a fine ottobre ai Comuni non è stato ancora comunicato quanto devono versare e ricevere dal Fondo di solidarietà comunale, visto che manca l'emanazione di un Dpcm, sebbene nella Conferenza Stato-città e autonomie locali l'accordo sia stato raggiunto il 25 settembre e l'ammontare del Fondo sia stato fissato in 6,977 miliardi, di cui circa 4,7 sono dati dal gettito Imu di competenza comunale che dovrà essere riversato allo Stato. E qui c'è un altro nodo irrisolto, perché non si sa come i Comuni dovranno riversare tali somme allo Stato: se queste saranno direttamente trattenute dagli incassi da F24 Imu oppure se riceveranno una quota di Fondo al netto della loro quota di alimentazione.
Non va meglio per la Tares in quanto le modifiche apportate dalla Camera al disegno di legge di conversione del Dl 102/2013 fanno prefigurare uno scenario in cui ogni Comune può fare quello che vuole. Solo la conversione definitiva del decreto –avvenuta giovedì scorso– consente adesso agli enti di decidere che regime utilizzare per il 2013.
Infine il capitolo Imu: a oggi non si conoscono le sorti della seconda rata Imu delle abitazioni, o meglio si sa che sarà abolita come la prima, ma non si sa se il "contributo" compensativo ai Comuni sarà calcolato come per l'acconto e quindi sulla base del gettito 2012 o sulla base delle aliquote deliberate dal Comune nel 2013, o come molti auspicano, sulla leva fiscale teorica. E anche in questo caso diventerà difficile non mettere mano alle aliquote.
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Gli ostacoli
01|PROCEDURE
Secondo la Corte dei conti dopo una delibera che varia le aliquote o i regolamenti tributari non basta una variazione al bilancio preventivo , serve rimettere in moto il meccanismo di approvazione del bilancio di previsione fino alla riadozione
02|FONDO SOLIDARIETÀ
Nonostante l'intesa in Conferenza unificata sull'ammontare del Fondo solidarietà (6,7 miliardi), manca un decreto che indichi ai Comuni quanto versare e quanto ricevere dal Fondo e che stabilisca la procedura per riversare
03|IMU
Non è ancora stabilito come i Comuni saranno compensati anche per l'abolizione della seconda rata Imu sulle prime case. Le ipotesi sono due: o sulla base del gettito 2012 oppure con le aliquote deliberate dal Comune nel 2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOVoto amministrativo, straordinario limitato. I compensi. Per i titolari di posizione organizzativa.
In caso di elezioni amministrative i titolari di posizione organizzativa non possono percepire lo straordinario elettorale, salvo quello effettuato la domenica o durante il giorno di riposo settimanale, a differenza di quanto avviene per tutte le altre elezioni e per i referendum statali e regionali.

È questa l'indicazione fornita dal l'Aran (l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) nel parere 12527/2013.
A prima vista siamo in presenza di una lettura restrittiva, invece essa è pienamente coerente con il dettato contrattuale.
La norma di riferimento è contenuta nell'articolo 39 del contratto collettivo di lavoro firmato il 14.09.2000, per come integrato dal l'articolo 16 del contratto datato 15.10.2001. Essa prevede che «gli enti provvedono a calcolare e acquisire le risorse finanziarie collegate allo straordinario per consultazioni elettorali o referendarie anche per il personale incaricato delle funzioni dell'area delle posizioni organizzative».
Nel caso di elezioni esclusivamente amministrative gli oneri sono interamente a carico del Comune, il che impedisce la possibilità di erogare questo compenso.
Per cui, il diritto dei titolari di posizione organizzativa a percepire lo straordinario elettorale non è pieno, ma è sottoposto alla condizione che le relative risorse non provengano dal bilancio del Comune.
Questo principio per l'Aran «conosce una sola eccezione», peraltro espressamente prevista dal comma 3 dello stesso articolo 39 delle cosiddette "code contrattuali": i titolari di posizione organizzativa, che svolgono straordinario elettorale nel giorno di riposo settimanale. Questi ultimi hanno, infatti, diritto a sommare il riposo compensativo e il lavoro straordinario.
In questo caso vi è, secondo quanto si legge sempre nel parere dell'Agenzia, una «diversa formulazione della clausola contrattuale», per cui tali compensi vanno –è ancora il parere dell'Aran– «corrisposti, anche nei casi nei quali tutte o anche solo parte delle risorse debbano essere apprestate direttamente dall'ente».
Il parere ci ricorda anche che lo straordinario elettorale ai titolari di posizione organizzativa deve essere erogato «in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato», anche se, naturalmente, non è soggetto a valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

EDILIZIA PRIVATALa ristrutturazione fa riscrivere l'«Ape».
COSA CAMBIA/ Rispetto al passato sono più numerosi i casi in cui un intervento comporta la richiesta di un nuovo documento
Per l'attestato di prestazione energetica, in attesa dei regolamenti attuativi vale la disciplina già prevista per l'attestato di certificazione energetica, ma la sua validità può decadere a seguito di interventi di ristrutturazione.

Lo studio 28.10.2013 n. 657-2013/C del Consiglio nazionale del notariato  effettua un'analisi della normativa in tema di Ape alla luce delle novità intervenute a opera del decreto legge 63/2013 e delle modifiche introdotte dalla legge di conversione 90/2013, tra cui la nullità dei contratti cui l'Ape non sia allegato. Su questo punto, per altro, sembra interverrà il decreto del "Fare 2".
Lo studio conferma l'interpretazione data quest'estate, a prima lettura della normativa, circa il fatto che per l'entrata a regime dell'attestato occorre attendere l'emanazione dei regolamenti attuativi e in questa fase transitoria, l'Ape si confeziona sulla base della previgente disciplina dettata per l'Ace. Inoltre sono utilizzabili gli Ace, rilasciati prima del 06.06.2013 che siano in corso di validità.
A quest'ultimo riguardo, occorre ricordare che, in base alla previgente disciplina, l'attestato di certificazione energetica aveva validità massima di dieci anni dal suo rilascio, a condizione che fossero rispettate le prescrizioni normative vigenti per le operazioni di controllo di efficienza energetica e salva la necessità di un suo aggiornamento a ogni intervento di "ristrutturazione" che avesse modificato la prestazione energetica. Pertanto, per una vendita posta in essere dal 06.06.2013, il venditore potrà avvalersi ancora dell'eventuale attestato di certificazione energetica rilasciato in data anteriore al 06.06.2013 e ancora in corso di validità.
Quanto al concetto di "ristrutturazione", rilevanti sono le modifiche apportate dal Dl 63/2013 rispetto alla disciplina previgente. In base alle regole attuali, l'obbligo di dotazione sorge in presenza di una "ristrutturazione importante", che può consistere in qualsiasi intervento di recupero edilizio che comunque riguardi oltre il 25% della superficie dell'involucro dell'intero edificio, comprensivo di tutte le unità immobiliari che lo costituiscono, e quindi anche a fronte di interventi (quali la manutenzione o il risanamento) diversi dalla ristrutturazione edilizia, così come definita dal Testo unico dell'edilizia (il Dpr 380/2001).
Secondo la disciplina previgente, invece, l'obbligo di dotazione sorgeva esclusivamente con riguardo a edifici di superficie utile superiore a mille metri quadrati che fossero stati oggetto degli interventi di ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro e di demolizione e ricostruzione.
Con le modifiche apportate dal Dl 63/2013, quindi, si è ampliata la platea degli interventi rilevanti ai fini energetici. La figura della ristrutturazione rilevante ai fini energetici è quindi diversa da quella rilevante ai fini urbanistici ed edilizi.
Addirittura si può verificare che interventi edilizi (quali, ad esempio, gli interventi di ordinaria manutenzione, riguardanti oltre il 25% della superficie dell'involucro dell'intero edificio) totalmente liberi sotto il profilo edilizio, una volta eseguiti, facciano invece sorgere l'obbligo di dotare l'immobile di un nuovo attestato di prestazione energetica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego, contratti stop. Scatterà dal 9 novembre il blocco per tutto il 2014. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che dà attuazione alla legge 111/2011.
Il blocco della contrattazione collettiva del pubblico impiego, previsto dal disegno di legge di Stabilità, divide Pd e Pdl sull'opportunità di prevederlo, ma è già realtà.
Infatti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che entrerà in vigore il prossimo 9 novembre, e contiene il blocco della contrattazione fino al 31.12.2014.
È il decreto che il ministro della Funzione pubblica, Giampiero D'Alia, aveva preparato a pochi giorni dal suo insediamento, successivamente sparito dai radar della normazione.
Null'altro è se non l'attuazione di quanto prevede l'articolo 16, comma 1, lettera b), del dl 98/2011, convertito in legge 111/2011, una delle manovre della terribile estate di due anni fa, allo scopo di assicurare il contenimento della spesa per il personale pubblico, che ammonta a circa 163 miliardi e grava per il 20% sul totale della spesa pubblica complessiva, di circa 805 miliardi.
Dunque, vigeranno per un altro anno il divieto di incrementare il trattamento individuale fondamentale dei dipendenti; il divieto di incrementare i fondi contrattuali decentrati oltre il tetto del 2010, con connesso obbligo di ridurli in proporzione al costo del personale che cessa di anno in anno; il divieto di corrispondere ai dirigenti trattamenti economici superiori a quelli goduti dal precedente titolare dell'incarico o a quello già goduto, in caso di riconferma dell'incarico.
Si tratta delle disposizioni dell'articolo 9, commi 1, 2 e 2-bis, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010. Del comma 2, ovviamente, non si prorogano le disposizioni che prevedono la riduzione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat, ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nella misura del 5 per cento per la parte eccedente i 90 mila euro lordi annui e del 10 per cento per quella superiore a 150 mila euro lordi annui. Tale parte del comma 2, infatti, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012.
Il dpr 122/2913 proroga al 31.12.2013 il divieto di considerare l'anzianità, bloccata già per gli anni dal 2010 al 2012, nei confronti del personale docente, Amministrativo, tecnico e ausiliario (A.T.A.) della scuola.
Il decreto anticipa anche la decisione di intervenire sull'indennità di vacanza contrattuale, derogando espressamente all'articolo 47-bis, comma 2, del dlgs 165/2001 ed all'articolo 2, comma 35, della legge 303/2008. Sicché, per gli anni 2013 e 2014 non vi saranno incrementi stipendiali a titolo di indennità di vacanza contrattuale, che continua a essere corrisposta entro la soglia fissata a suo tempo dall'articolo 9, comma 17, secondo periodo, del dl 78/2012, senza possibilità di recupero.
Non solo: per il triennio contrattuale 2015-2017 l'indennità di vacanza contrattuale si calcolerà secondo modalità e parametri individuati dai protocolli e dalla normativa vigenti in materia e si aggiungerà a quella congelata al 2010. Ma, su questa previsione del dpr incombe appunto il disegno di legge di Stabilità, che potrebbe del tutto spazzare via l'indennità di vacanza contrattuale fino al 2016.
In conseguenza del congelamento della contrattazione nazionale collettiva (che si porta dietro anche quella decentrata e continua a impedire progressioni orizzontali –cioè aumenti di stipendio– per tutto il 2014), il dpr 122/2013 consente di attivare le procedure contrattuali e negoziali riguardanti i dipendenti pubblici per gli anni 2013-2014 per la sola parte normativa. Il dpr esclude che gli accordi possano prevedere successivi recuperi della parte economica. Per i dipendenti pubblici non si darà luogo, senza possibilità di recupero, al riconoscimento degli incrementi contrattuali eventualmente previsti a decorrere dall'anno 2011.
Le misure restrittive del dpr si applicheranno, in quanto compatibili, anche al personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale (articolo ItaliaOggi del 26.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIADECRETO P.A./Le novità del provvedimento che approda al senato per il via libera definitivo.
Così il Sistri torna nelle secche. Sanzioni congelate per 10 mesi. Ma andranno riscritte.

Sebbene il 1° ottobre sia entrato in vigore l'obbligo di tracciabilità telematica dei rifiuti speciali pericolosi (Sistri), le sanzioni per il mancato rispetto degli obblighi previsti dal dlgs 152/2006, non scatteranno per almeno altri dieci mesi. Di più: il sistema sanzionatorio dovrà addirittura essere riscritto, cioè adeguato. E questo perché entreranno a far parte del Sistri anche i padroncini del trasporto rifiuti. Cioè, quei soggetti a cui, nel caso di trasporto intermodale, vengono «affidati i rifiuti speciali in attesa della presa in carico degli stessi da parte dell'impresa navale o ferroviaria o dell'impresa che effettua il successivo trasporto».
Il tutto è previsto da un emendamento del governo, approvato nella nottata del 24 ottobre scorso alla camera dei deputati, in sede di conversione in legge del decreto legge 101/2013. Provvedimento noto anche come decreto p.a. Il testo, per come emendato, passa al senato per la definitiva conversione in legge, che dovrà avvenire entro il 30 ottobre. Il paradosso è che finora il legislatore non aveva preso in considerazione il carattere intermodale del trasporto rifiuti speciali. E per estendere la platea all'anello mancante, ora, l'esecutivo deve nuovamente congelare le sanzioni.
Ne consegue che, per i prossimi dieci mesi almeno si applicherà ancora il vecchio sistema di gestione dei rifiuti speciali. Che prevede:
- responsabilità pre Sistri per i produttori e i detentori di rifiuti;
- comunicazioni annuali di comuni e comunità montane alle camere di commercio sui rifiuti prodotti e conferiti, con tenuta dei relativi dati nel Catasto rifiuti, istituito presso le regionali Agenzie ambientali e di protezione del territorio;
- obbligo di tenuta di un registro di carico e scarico, per i produttori iniziali di rifiuti pericolosi e per gli enti o le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi. Ma anche facoltà di tenuta dei medesimi registri per i produttori di rifiuti non pericolosi;
- tenuta di un formulario di identificazione per enti e imprese che raccolgono e trasportano propri rifiuti non pericolosi.
In sostanza, spiega l'emendamento del governo, resteranno validi «gli adempimenti e gli obblighi di cui agli articoli 188,189, 190 e 193 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, nel testo previgente alle modifiche apportate dal decreto legislativo 03.12.2010, numero 205, nonché le relative sanzioni».
Di più; la camera dispone anche che «entro 60 giorni (dalla conversione in legge), con uno o più decreti del ministro dell'ambiente, sentiti il ministro dello sviluppo economico ed il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sono definite le modalità di applicazione a regime del Sistri al trasporto intermodale». In sostanza, servirà un provvedimento ad hoc per definire, per filo e per segno, come dovrà avvenire il processo di tracciabilità telematica dei rifiuti, quando questi passino di mano in mano, da un mezzo di trasporto all'altro, fino alla destinazione finale.
Non solo. In base al decreto p.a., il ministro dell'ambiente deve varare entro il tre marzo 2014 un decreto, con cui definisce «le ulteriori categorie di soggetti a cui è necessario estendere» il Sistri.
Bene, l'emendamento del governo dispone che, col medesimo decreto si provveda «alla modifica e integrazione della disciplina», per adeguarla ai nuovi adempimenti; ma anche alla modifica e integrazione «delle sanzioni relative al Sistri» per coordinarle con l'estensione del Sistri a tutti i soggetti coinvolti nel trasporto intermodale.
Non è finita. La camera ha recepito anche una riscrittura integrale degli obblighi di tenuta dei registri di carico e scarico»; riscrittura inclusa nell'emendamento presentato dall'esecutivo. In particolare, questi dovranno essere tenuti da: enti e imprese produttori di rifiuti speciali e non; altri detentori di rifiuti; intermediari e commercianti di rifiuti; imprenditori agricoli ex art. 2135 cc produttori iniziali di rifiuti pericolosi.
Sono esclusi dal vincolo enti e imprese che aderiscono volontariamente al Sistri. E attività di raccolta e trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi «effettuate dagli enti e imprese produttori iniziali».
Nel nuovo registro di carico e scarico dovranno essere annotate informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti prodotti.
Annotazioni che dovranno essere fatte:
- per i produttori iniziali entro 10 giorni lavorativi dalla produzione e dallo scarico;
- per chi effettua operazioni di preparazione per riutilizzo entro 10 giorni lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti;
- per gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento entro due giorni lavorativi dalla presa in carico e dalla conclusione dell'operazione di trattamento;
- per gli intermediari e i commercianti almeno due giorni prima dell'avvio dell'operazione e entro 10 giorni dalla conclusione (articolo ItaliaOggi del 26.10.2013).

APPALTIGli appalti dicono addio alla banca dati unica.
Abolita la norma di semplificazione della gestione dei contratti pubblici che consente di utilizzare una banca dati informatizzata unica, ai fini del controllo del possesso, da parte degli appaltatori, dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario.

Il colpo a un importante strumento di velocizzazione della gestione degli appalti pubblici è inferto dalla legge di conversione del decreto di riordino della pubblica amministrazione, il dl 101/2013 (noto come decreto sulle stabilizzazioni), frutto degli emendamenti in commissione alla camera.
Si tratta di un colpo duro inferto al «decreto del fare», propagandato come legge di semplificazione dell'azione amministrativa. Dietro il «fare» rimane sempre in agguato un «disfare», che lascia davvero perplessi.
La norma che la legge di conversione del dl 101 intende abolire è rubricata espressamente come «semplificazioni per i contratti pubblici». Ed è davvero curioso che una maggioranza intenta a mostrarsi come innovatrice e tesa verso la «sburocratizzazione» cancelli proprio una delle norme di semplificazione realmente efficaci e non di facciata del dl 69/2013.
L'istituzione della banca dati on-line per le verifiche sui requisiti è stata prevista ormai da molto tempo, precisamente dal dl 5/2012, convertito in legge 35/2012 e avrebbe dovuto vedere la luce già lo scorso 31.01.2013. Si tratta di una banca dati di estrema utilità, soprattutto per gli appalti di servizi e forniture, che mancano del sistema di certificazione Soa e, dunque, spesso scontano difficoltà nella verifica del possesso dei requisiti.
Inoltre, la banca dati potrebbe risolvere definitivamente il problema dell'acquisizione del Durc: infatti, il rispetto degli oneri previdenziali è parte integrante dei requisiti di ordine generale e la banca dati potrebbe consentire una facile ricognizione.
È evidente, comunque, che una banca dati integrata favorisce la semplificazione. Il «decreto del fare» l'aveva ripescata, spostando la sua messa a regime al 21.11.2013. Ma col decreto di «riordino» della pubblica amministrazione la norma di rispolvero della banca dati viene destinata nuovamente a un incerto oblio (articolo ItaliaOggi del 26.10.2013).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni, Ape d'obbligo. Bisogna dotarsi dell'attestato per avere l'agibilità del bene. Il Notariato sui vincoli di dotazione, consegna e allegazione dell'atto di prestazione energetica.
Attestato di prestazione energetica solo per le ristrutturazioni importanti (oltre che per i nuovi edifici). Ma attenzione basta una manutenzione ordinaria su oltre il 25% dell'edificio a rendere necessaria l'attestazione energetica.
Lo studio 28.10.2013 n. 657-2013/C della commissione studi civilistici del Consiglio nazionale del notariato spiega le formalità da osservare per dotarsi della certificazione e in occasione della forma del preliminare, della vendita o dell'affitto di un immobile.
Vediamo i principali chiarimenti.
OBBLIGO DI DOTAZIONE. Devono dotarsi di certificazione, a prescindere da un loro trasferimento, i nuovi edifici e lo si deve fare prima del rilascio del certificato di agibilità. L'obbligo di dotazione riguarda anche gli edifici ristrutturati. Deve trattarsi però di ristrutturazioni importanti. Attenzione a non usare le definizioni edilizie.
Rientrano nella categoria delle ristrutturazioni importanti tutti gli interventi edilizi, anche la manutenzione ordinaria o straordinaria, la ristrutturazione propriamente detta e il risanamento conservativo, purché interessino oltre il 25 per cento della superficie dell'involucro dell'intero edificio. Può trattarsi di rifacimento di pareti esterne, di intonaci esterni, del tetto o dell'impermeabilizzazione delle coperture. Può capitare, dunque, che interventi liberi sotto il profilo edilizio (vedasi l'articolo 6, comma 1, del Testo Unico per l'edilizia) una volta eseguiti, facciano, invece, sorgere l'obbligo di dotazione dell'attestato di prestazione energetica.
CONTRATTO PRELIMINARE. Dopo le ultime novità legislative, l'obbligo di dotazione e consegna (ma non anche quello di allegazione) dell'attestato di prestazione energetica sussiste anche in occasione della stipula di un preliminare di vendita.
Il proprietario deve, infatti, rendere disponibile l'attestato di prestazione energetica al potenziale acquirente fino dall'avvio delle trattative.
Se si ricorre ad annunci commerciali, si dovrà riportare negli annunci medesimi gli indici di prestazione energetica dell'involucro e globale dell'edificio o dell'unità immobiliare e la classe energetica corrispondente.
Il proprietario dovrà consegnare l'attestato di prestazione energetica alla fine delle trattative.
I notai, a questo proposito, consigliano di inserire nel preliminare una apposita clausola da cui risulti che l'edificio è già stato dotato di attestato di prestazione energetica e che l'attestato è stato messo a disposizione del possibile acquirente sin dall'inizio delle trattative.
Opportuno far risultare anche che sugli annunci commerciali, sono stati riportati l'indice di prestazione energetica dell'involucro edilizio e globale dell'edificio o dell'unità immobiliare e la classe energetica corrispondente. Ancora vanno riprodotte clausole attestanti la consegna dell'attestato di prestazione energetica all'acquirente e che questi ha, quindi, ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici. I notai raccomandano, quindi, di fare molte attenzione alla completezza del preliminare.
Potrà essere, anche, opportuno allegare l'attestato di prestazione energetica: ma la legge non lo prevede come un obbligo, con la conseguenza che la mancata allegazione non determina la nullità del contratto.
ALLEGAZIONE. L'attestato di prestazione energetica deve essere, a pena di nullità, allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito e ai nuovi contratti di locazione.
I notai chiariscono che nel caso di ritrasferimento di immobile già oggetto di precedente vendita, cui è stato allegato l'attestato energetico, non è possibile semplicemente richiamare il documento già allegato al titolo di provenienza. Bisogna allegare di nuovo l'attestato. Però si può, se siamo nei dieci anni di validità dell'attestato originario, allegare all'atto di ritrasferimento copia conforme per estratto autentico dell'attestato originario.
CONSEGNA. Lo studio dei notai precisa che c'è un obbligo di consegna all'acquirente, beneficiario e al nuovo conduttore dell'attestato di prestazione energetica. Si tratta di un obbligo autonomo e distinto rispetto all'obbligo di allegazione e da adempiere prima della stipula del contratto traslativo e di nuova locazione (articolo ItaliaOggi del 26.10.2013).

EDILIZIA PRIVATABonus 65% se si demolisce, l'importante è non ampliare.
Si alla detrazione fiscale del 65% in caso di ristrutturazione edilizia di un immobile per la riqualificazione dal punto di vista energico senza demolizione e con ampliamento ma unicamente per le spese riferibili alla parte esistente. In quanto l'ampliamento dell'immobile viene considerato «nuova costruzione». E dal 21.08.2013, la detrazione fiscale spetta anche alle ristrutturazione edilizie che consistono nella demolizione di un immobile e nella sua ricostruzione più efficiente dal punto di vista energetico, mantenendone la volumetria originaria senza rispettarne la sagoma.

Queste sono le due risposte fornite dalla Enea con la faq 68 e 68-bis.
L'Enea nella faq 68 ricorda che nel caso di ristrutturazione di un immobile senza demolizione e con ampliamento, anche in base alle circolari dell'agenzia delle entrate 39E/2010 e 4E/2011 che hanno fatto maggiore chiarezza in materia, la detrazione compete unicamente per le spese riferibili alla parte esistente, in quanto l'ampliamento viene considerato «nuova costruzione».
Inoltre, la circolare n. 39/E ha precisato che in questo caso il riferimento normativo non può essere costituito dal comma 344 della legge finanziaria 2007, che è inutilizzabile in quanto comporta necessariamente una valutazione del fabbisogno energetico riferito all'intero edificio (e che dovrebbe quindi necessariamente considerare anche la parte ampliata), ma dai singoli commi 345, 346 e 347. I tecnici dell'Enea sottolineano nella faq 68-bis che la legge 09.08.2013, n. 98, di conversione del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (il c.d. decreto del Fare), in vigore dal 21.08.2013, ha rivisto la definizione di «ristrutturazione edilizia» contenuta nel testo unico edilizia eliminando all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr 380/2001 il riferimento alla «sagoma».
Dal 21.08.2013, quindi, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la sagoma. Sono compresi nella ristrutturazione anche gli interventi «volti al ripristino degli edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Ciò premesso, dal 21.08.2013, qualora l'intervento abbia le caratteristiche per configurarsi come «ristrutturazione edilizia» (ossia l'immobile non sia soggetto a vincolo ai sensi del dlgs 42/2004 e non ricada nella zona A del dm 1444/1968), alla luce delle recenti disposizioni, riteniamo agevolabili ai sensi di queste detrazioni gli interventi che consistono nella demolizione di un immobile e nella sua ricostruzione mantenendone la volumetria originaria (articolo ItaliaOggi del 26.10.2013).

TRIBUTIL'assimilazione vale per la seconda rata. Abitazione principale. Obbligo di residenza e dimora.
LA FACOLTÀ/ Gli enti locali possono decidere un trattamento di favore per l'alloggio dato in comodato ai figli (compresa la pertinenza).

Con la conversione in legge del Dl 102/2013 il Parlamento ha introdotto, con l'articolo 2-bis, la possibilità per i Comuni di assimilare all'abitazione principale le abitazioni concesse in comodato a parenti, tuttavia con alcuni paletti.
Innanzitutto, per espressa previsione normativa l'assimilazione è limitata alla seconda rata; pertanto, quanto pagato in acconto non è rimborsabile.
Va anche precisato che, con l'assimilazione, l'abitazione in comodato riceve lo stesso trattamento delle altre abitazioni principali e quindi il saldo non sarà dovuto se sarà confermata l'esclusione anche della seconda rata Imu delle abitazioni principali.
L'abitazione in comodato deve essere utilizzata come abitazione principale, quindi con residenza anagrafica e dimora, da un parente in linea retta entro il primo grado, ovvero il comodato deve essere tra padre e figlio.
L'abitazione non deve essere classificata in quelle di lusso (A/1, A/8 e A/9) e nel caso in cui il contribuente abbia dato in comodato più abitazioni, l'assimilazione opera per una sola unità immobiliare. Naturalmente il trattamento di favore riservato all'abitazione si estende anche alle eventuali pertinenze, pur nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali C/6, C/2 e C/7.
L'agevolazione è subordinata a una delibera comunale, che dovrà essere adottata entro il 30.11.2013, ovvero entro il termine previsto per l'approvazione del bilancio di previsione 2013.
La delibera comunale dovrà essere pubblicata entro il 09.12.2013 sul sito istituzionale di ciascun comune; in caso di mancata pubblicazione entro tale data, si applicano le aliquote e i regolamenti dell'anno precedente.
I contribuenti potrebbero avere quindi una sola settimana di tempo per capire se devono o non devono pagare il saldo Imu in scadenza il 16 dicembre.
Occorrerà poi verificare le ulteriori condizioni disciplinate dai Comuni. La normativa prevede che ciascun Comune definisca i criteri e le modalità per l'applicazione dell'agevolazione «ivi compreso il limite dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee) al quale subordinare la fruizione del beneficio». Ciò vuol dire che occorrerà verificare con attenzione gli ulteriori paletti eventualmente presenti nelle delibere Comunali, come l'obbligo di presentare una comunicazione entro un determinato termine, normalmente a pena di decadenza.
Per quanto riguarda l'Isee si ritiene che non vi sia l'obbligo per i Comuni di subordinare il beneficio ad un determinato livello di situazione economica, anche se tale strumento, in regime di ristrettezze economiche permette di indirizzare le poche risorse disponibili verso chi ne ha bisogno.
Peraltro, occorre considerare che la possibilità di assimilare all'abitazione principale quella data in comodato a parenti è prevista anche dal disegno di legge di stabilità 2014, ma in modo diverso.
È infatti stabilito (per ora) che il Comune possa disporre l'assimilazione prevedendo che l'agevolazione operi o limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto non eccedente il valore di euro 500 oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga ad un nucleo familiare con Isee non superiore a 15mila euro annui.
Per la copertura del minor gettito Imu derivante dalle assimilazioni deliberate per il 2013 lo Stato ha assicurato un contributo massimo di 18,5 milioni di euro, che dovranno essere ripartiti tra i Comuni secondo modalità che saranno stabilite con decreto del ministero dell'Interno.
Per il 2014, invece, non è stato per ora previsto alcun contributo statale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013).

TRIBUTIFisco e contribuenti. Il decreto legge approvato giovedì consente ai Comuni di modificare regole e aliquote fino al 30 novembre.
Saldo Imu, tempi stretti per i conti. Delibere pubblicate sui siti istituzionali fino al 9 dicembre - Pagamento entro il 16.
SUL FILO DI LANA/ Cittadini, Caf e professionisti dovranno concentrare i calcoli e i versamenti in sette giorni.

Sette giorni di tempo. Dal 10 al 16 dicembre i contribuenti dovranno consultare i regolamenti, individuare l'aliquota Imu e quindi calcolare e versare, se dovuto, il saldo.
È questa una delle conseguenze prodotte dall'articolo 8, comma 2, del Dl 102/2013, approvato due giorni fa dal Senato in via definitiva e in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale». L'articolo 8 consente ai Comuni di adottare le delibere Imu fino al 30 novembre e di pubblicarle nei loro siti entro il 9 dicembre. Se la pubblicazione non avverrà entro tale data si applicheranno gli atti adottati per il 2012.
Ai contribuenti non sarà pertanto sufficiente reperire dai siti comunali l'aliquota applicabile agli immobili ancora tenuti al pagamento dell'Imu: i municipi, con proprio regolamento e fino al 30 novembre, potrebbero infatti intervenire sulle assimilazioni all'abitazione principale (introducendole oppure eliminandole).
Al riguardo la versione definitiva del Dl 102/2013, consente ai sindaci di assimilare all'abitazione principale anche il fabbricato concesso in comodato a parenti di primo grafo (cioè figli o genitori). Il beneficio, obbligatoriamente collegato all'Isee, comporterebbe, se deliberato dai Comuni entro il 30 novembre, lo stesso trattamento previsto per l'abitazione principale, ancorché con effetti limitati alla sola seconda rata 2013.
Dall'anno prossimo, infatti, si dovrebbero applicare le nuove regole in tema di assimilazione previste dalla legge di stabilità 2014 appena varata dal Governo.
Ma procediamo con ordine. L'articolo 13, comma 13-bis, Dl 201/2011 dispone che le delibere concernenti aliquote, detrazioni e regolamenti Imu debbano essere pubblicate sul sito del ministero dell'Economia entro il 28 ottobre di ciascun anno (con invio telematico da parte dei comuni almeno sette giorni prima) pena l'applicazione degli atti adottati per l'anno precedente.
Posto che il termine per l'approvazione di aliquote e regolamenti Imu coincide con quello previsto per l'approvazione del bilancio del comune, il differimento di quest'ultimo termine al 30 novembre, operato dall'articolo 8 del Dl 102/2013, ha di fatto reso inoperante la scadenza del 21 ottobre. Dato ciò, lo stesso articolo 8 ha stabilito che, per l'anno 2013, gli atti deliberativi Imu acquistano efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione nel sito web del comune; tale pubblicazione deve avvenire entro il 9 dicembre e qualora ciò non si verificasse trovano applicazione gli atti adottati per il 2012. Resta invece ferma la scadenza per il pagamento del saldo fissata al 16 dicembre.
Contribuenti, Caf, professionisti avranno così appena una settimana per predisporre con dati certi l'F24 a saldo. Peraltro il Dl 102/2013 approvato dal Senato contiene un'ulteriore novità che potrebbe impattare sul calcolo dell'Imu dovuta a dicembre. Viene infatti previsto (articolo 2-bis) che per l'anno 2013, e limitatamente alla seconda rata, i comuni possono equiparare all'abitazione principale una sola abitazione e relative pertinenze concesse in comodato a parenti in linea retta (entro il primo grado) che le utilizzano come abitazione principale. La novità, che esclude dalla possibile assimilazione i fabbricati di lusso (accatastati nelle categorie A/1, A/8 e A/9), demanda ai comuni la definizione dei criteri e delle modalità per l'applicazione dell'agevolazione, ivi compreso il limite dell'Isee al quale il beneficio deve essere subordinato.
Si tratta, quindi, di un'assimilazione che si aggiunge a quelle già consentite ai comuni riguardanti anziani, disabili e cittadini italiani residenti all'estero.
Anche per queste fattispecie i consigli comunali potrebbero intervenire fino al 30 novembre con evidenti ripercussioni sul pagamento di dicembre. A decorrere dal 2014, la legge di stabilità licenziata dal Governo prevede che le assimilazioni consentite ai comuni (anziani, disabili, cittadini Aire, comodati a parenti) operino o limitatamente ai fabbricati con rendita catastale non superiore a 500 euro oppure nel solo caso in cui il comodatario appartenga a un nucleo familiare con Isee non superiore a 15mila euro annui (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Penalità dal 01.08.2014. Niente sanzioni Sistri per 10 mesi.
Le sanzioni relative al Sistri scatteranno per tutti dal 01.08.2014 e non più dal prossimo 2 novembre (per i gestori) e dal 04.03.2014 (per i produttori). Inoltre, dal 30.06.2014 è prevista una sperimentazione per i rifiuti urbani pericolosi.

Sono queste alcune delle novità più significative apportate dalla Camera al testo dell'articolo 11 del Dl 101/2013 in materia di razionalizzazione della Pa che passa ora al Senato per il voto finale.
L'articolo 11, dunque, ora presenta una struttura che, pur modificata, riflette un quadro normativo che non tiene in debito conto le criticità incontrate dalle imprese in questo primo mese di operatività.
Dal 01.10.2013 sono obbligati al Sistri enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale o che recuperano e smaltiscono, commercializzano e intermediano rifiuti speciali pericolosi, inclusi i nuovi produttori. Sono compresi i vettori esteri che operano in Italia e dall'Italia verso l'estero.
Dal 03.03.2014 partiranno i produttori iniziali di rifiuti pericolosi nonché, per la Campania, i Comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani. Terminalisti ferroviari e marittimi e raccomandatari marittimi in caso di trasporto intermodale tornano fra gli obbligati. Un decreto disciplinerà le relative procedure. Nessuna semplificazione, dunque: anzi è previsto il rientro di categorie escluse.
La norma approvata dalla Camera, inoltre, non si pone in continuità con la circolare del 30.09.2013 con la quale il ministero dell'Ambiente aveva escluso l'obbligo di iscrizione per i trasportatori dei rifiuti pericolosi da sé stessi prodotti (i cosiddetti "conto proprio") e dall'altro aveva incluso le operazioni di deposito temporaneo e di stoccaggio dei propri rifiuti effettuato all'interno del luogo di produzione. Il che crea una situazione di ulteriore incertezza.
Entro due mesi, un decreto dell'Ambiente disciplinerà la sperimentazione per applicare il Sistri a enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti urbani pericolosi a titolo professionale (compresi i vettori esteri in Italia e dall'Italia) nonché per gli altri gestori dall'atto del conferimento in centri di raccolta o stoccaggio in poi. La sperimentazione decorrerà dal 30.06.2014.
Le sanzioni Sistri, a prescindere dalla data di partenza dell'operatività, si applicheranno dal 01.08.2014. Un periodo particolarmente lungo a riprova del fatto che il sistema non stia funzionando come dovrebbe. In questi dieci mesi, i soggetti obbligati continueranno a compilare e conservare registro e formulario. Inoltre, entro il 30.04.2014 dovranno inviare il Mud. Sono state reintrodotte le sanzioni per i registri e i formulari. Il regime del doppio binario (Sistri + registri e formulari) è decisamente oneroso per le imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2013).

TRIBUTIOgni comune censirà i servizi indivisibili
Dal prossimo anno, ogni comune dovrà censire i servizi indivisibili erogati ai cittadini indicando analiticamente per ciascuno di essi i relativi costi.

Lo prevede la disciplina dettata dal disegno di legge di stabilità 2014 in relazione alla Tasi, che insieme alla quasi omonima Tari dovrebbe costituire il nuovo tributo comunale Trise. Si tratterà di un'operazione tutt'altro che agevole, che richiederà una complessa riclassificazione dei dati di bilancio.
Come noto, il Trise si articolerà in due componenti: la prima, denominata Tari, andrà a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati. La seconda componente, il Tasi, sostituirà, invece, l'attuale maggiorazione Tares (quest'anno eccezionalmente incamerata dallo Stato) per far fronte della copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.
Il presupposto impositivo della Tasi sarà il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, di aree scoperte nonché di quelle edificabili, a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali imponibili non operative e delle aree comuni condominiali che non siano detenute o occupate in via esclusiva. Il tributo sarà dovuto, oltre che dai titolari di diritti reali, anche dagli eventuali occupanti (ad esempio locatori) in una misura stabilita dal comune fra il 10 e il 30% dell'ammontare complessivo, calcolato applicando l'aliquota fissata dallo stesso comune entro i limiti di legge.
Sempre i comuni, con proprio regolamento da approvare ai sensi dell'art. 52 del dlgs 446/1997, dovranno disciplinare le riduzioni, che tengano conto altresì della capacità contributiva della famiglia, anche attraverso l'applicazione dell'Isee, e procedere all'individuazione dei servizi indivisibili ed all'indicazione analitica, per ciascuno di tali servizi, dei relativi costi alla cui copertura la Tasi è diretta. Quest'ultimo adempimento, del tutto inedito, è destinato a rivelarsi di notevole complessità attuativa. La categoria «servizi indivisibili», infatti, include tutti quelli che non vengono offerti «a domanda individuale», come ad esempio l'illuminazione pubblica, la sicurezza, l'anagrafe o la manutenzione delle strade.
Si tratta di una gamma potenzialmente amplissima di attività, per le quali, per di più, manca una «mappatura» ufficiale. Per rispettare il dettato normativo, quindi, sarà necessaria una tutt'altro che agevole operazione di censimento delle diverse tipologie di servizi e di riclassificazione dei dati di bilancio analoga a quella che è stata compiuta per fornire alla Sose i dati necessari per il calcolo dei fabbisogni standard relativi alle funzioni fondamentali, ai sensi del dlgs 85/2010.
Se la previsione contenuta nel testo del disegno di legge di stabilità verrà confermata, quindi, i comuni dovranno attrezzarsi per tempo (articolo ItaliaOggi del 25.10.2013).

TRIBUTIDal Comune esenzione per la casa ai figli. Possibilità per i sindaci di estendere le agevolazioni e aiuti per la «morosità incolpevole».
BENI MERCE/ Rientrano nella categoria del premio anche gli immobili costruiti da imprese edili e rimasti invenduti e non affittati.
L'esenzione Imu per i fabbricati merce delle imprese di costruzione non copre l'imposta dovuta sino al 30 giugno. L'assimilazione all'abitazione principale degli immobili delle cooperative edilizia a proprietà indivisa come pure quella relativa ai fabbricati degli appartenenti alle forze armate opera dal 1° luglio scorso. Ai fini del pagamento della seconda rata, inoltre, i comuni possono assimilare all'abitazione principale il fabbricato concesso un uso gratuito a parenti entro il primo grado.

È ricco il menu delle novità in materia di Imu apportate in sede di conversione del Dl 102. Non manca, infine, l'ennesima disposizione interpretativa in materia di fabbricati rurali.
Nel decreto legge si era disposto che per i fabbricati merce delle imprese costruttrici la seconda rata non era dovuta. Ora si precisa che l'imposta resta dovuta fino al 30.06.2013. La conseguenza è che in sede di saldo si dovrebbero versare i conguagli tra quanto pagato a giugno, con l'aliquota dell'anno precedente, e quanto da liquidare con l'aliquota dell'anno in corso. Tanto, limitatamente al periodo di possesso fino al 30.06.2013.
Sempre con il decreto 102 si era disposta l'assimilazione all'abitazione principale degli immobili delle cooperative edilizie a proprietà indivisa. Viene ora stabilito che tale assimilazione opera dal 1° luglio scorso. Questo dovrebbe servire ad applicare in via automatica le agevolazioni per l'abitazione principale che sono in via di approvazione con riferimento alla seconda rata di dicembre. Lo stesso ragionamento vale per le modifiche apportate a proposito del fabbricato degli appartenenti alle forze armate, che si considera abitazione principale anche se non vi è né residenza anagrafica né dimora abituale. Si precisa, in proposito, che l'equiparazione all'abitazione principale non vale per gli immobili di lusso, cioè di categoria A/1, A/8 e A/9.
Un'altra novità consiste nella previsione dell'obbligo di presentare una denuncia con la richiesta di applicazione delle nuove agevolazioni disposte nel Dl 102, a pena di decadenza, entro il 30 giugno 2014, termine ordinario di presentazione della dichiarazione Imu.
Ritorna inoltre l'assimilazione all'abitazione principale delle case concesse in comodato a parenti in linea retta, entro il primo grado (genitori e figli), purché non "di lusso". L'assimilazione dipende da una delibera comunale e vale solo per la seconda rata. I comuni possono condizionare il beneficio al possesso di determinati requisiti reddituali, legati anche all'Isee. L'assimilazione può riguardare una sola unità immobiliare.
Compare un'ulteriore disposizione interpretativa (la terza) in materia di fabbricati rurali. Questa volta si tratta dell'efficacia delle domande di variazione catastale presentate ai sensi dell'articolo 13, comma 14-bis, Dl 201/2011. In via interpretativa, le Finanze avevano sostenuto che queste producevano effetti dal quinto anno precedente. I comuni hanno contestato questa interpretazione, rilevando che, in mancanza di una norma espressa, le variazioni catastali operano solo per il futuro. Oggi si recepisce l'orientamento delle Finanze e si dispone per l'appunto che gli effetti delle variazioni decorrano dal quinto anno precedente.
Si conferma infine che il termine per l'approvazione dei bilanci di previsione 2013 è il 30 novembre prossimo ma si stabilisce, altresì, che le delibere Imu devono essere pubblicate sul sito del comune entro il 09.12.2013. In mancanza di pubblicazione, si applicano le aliquote dell'anno precedente.
In materia di sfratti, invece, viene disposta l'emanazione di un decreto delle finanze che dovrà fissare i criteri per l'accesso ai fondi da parte degli inquilini morosi incolpevoli. Nelle more della adozione di tali criteri, le prefetture prenderanno misure per graduare gli interventi della forza pubblica nelle procedure di sfratto (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013).

TRIBUTITorna la Tarsu con maggiorazione. Rifiuti. Cancellata l'abrogazione.
Orologi indietro sul prelievo sui rifiuti: dopo nove mesi di abrogazione, torna in vita la Tarsu e probabilmente anche la Tia1 e la Tia2.

È il risultato dell'ennesimo colpo di scena messo in atto con la legge di conversione del Dl 102/2013.
La disciplina della Tares aveva provato a mettere ordine nelle varie entrate esistenti, abrogando Tarsu e Tia, con decorrenza dal 01.01.2013. Le modifiche in corso di pubblicazione abrogano la norma abrogatrice e consentono di ripristinare le tariffe relative al regime di prelievo esistente nel 2012, quale esso fosse. A questo punto, è evidente che perde totalmente di interesse la comprensione del nuovo sistema tariffario alternativo al metodo normalizzato, previsto nella versione iniziale del Dl 102.
In linea teorica, si segnala che dall'anno prossimo, con la Tari, si dovrebbero comunque innovare tutti i sistemi tariffari. Si prevede, inoltre, che se si mantiene in vita la Tarsu resta possibile provvedere alla copertura integrale dei costi del servizio anche con altre risorse del bilancio. Resta, in ogni caso, dovuta la maggiorazione di 0,30 euro al metro quadrato in favore dello Stato.
Le altre novità in materia riguardano il finanziamento delle agevolazioni. Si dispone che il mancato gettito possa essere alternativamente recuperato dagli stessi contribuenti Tares/Tarsu/Tia ovvero con altre risorse del bilancio, purché nei limiti del 7% del costo del servizio. Sembra pertanto che se le agevolazioni si spalmano sugli utenti del servizio non esiste nessun limite quantitativo, in chiara violazione dei principi comunitari. Sempre in tema di agevolazioni, si prevede la possibilità di introdurre nel regolamento comunale riduzioni e esenzioni legate all'Isee nonché al compostaggio dei rifiuti.
Viene altresì stabilito che in caso di insufficiente pagamento del tributo, i contribuenti non sono sanzionabili se il comune non ha inviato loro i bollettini di versamento. Si tratta di una novità che impatta, formalmente, solo nei limitati casi in cui il comune ha previsto il versamento in auto liquidazione. Nella generalità dei casi, è invece vigente il pagamento su liquidazione d'ufficio, che presuppone sempre l'invio di una comunicazione, in assenza della quale il pagamento non può avvenire e dunque l'omissione non è sanzionabile (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALILa «Pa» non concilia? Rischio danni erariali. Contenzioso civile. Ordinanza Tribunale di Roma.
IL PRINCIPIO/ La mancata adesione di una Asl alla proposta del giudice potrebbe portare alla responsabilità dell'ufficio
La mancata adesione da parte di una Pa alla proposta conciliativa/transattiva del giudice formulata ai sensi dell'articolo 185-bis del codice di procedura civile rischia di creare un danno erariale.

I molteplici risvolti della norma citata, introdotta nel codice di rito con il decreto "del fare" e poi modificata dalla sua legge di conversione, continuano ad emergere nella intensa attività del Tribunale di Roma. Ed infatti con l'ordinanza 24.10.2013, un giudice della XIII Sezione civile ha formulato ad una Asl una proposta conciliativa/transattiva per la definizione di una controversia in materia di responsabilità sanitaria nella quale la stessa viene chiamata a risarcire i danni in favore degli eredi della vittima.
L'ordinanza assume un particolare rilievo ed interesse in quanto non soltanto viene formulata la proposta, ma viene previsto –in via ad essa subordinata– che qualora non si dovesse pervenire all'accordo, le parti dovranno procedere con la mediazione in sede stragiudiziale (e ciò in attuazione dell'articolo 5, comma 2, del Dlgs 28/10). Quindi un duplice percorso volto alla definizione conciliativa della controversia che parte da una proposta del giudicante quantitativamente determinata.
E la qualità di pubblica amministrazione di una delle parti (nel caso di specie convenuta e sostanzialmente "soccombente" nella proposta giudiziale) induce il tribunale –ed è questo l'aspetto di maggior interesse– ad inserire in motivazione talune precisazioni utili a responsabilizzare l'Asl rispetto alla fase conciliativa/transattiva che viene aperta dal giudice nel corso del processo.
In primo luogo, trattandosi di azienda sanitaria, il giudice ricorda che, là dove ciò dovesse essere utile per pervenire ad un accordo conciliativo, «non vi sono ostacoli a che il funzionario delegato possa gestire la procedura e, nell'ambito dei poteri attribuitigli, concludere un accordo».
Ed ancora che, ricorrendone i presupposti, l'Asl potrà osservare le indicazioni contenute nelle linee guida in materia di mediazione di cui alla circolare Dfp 9/2012 per le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001 (la circolare contiene princìpi che possono essere considerati utili criteri applicativi anche per le pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali).
Infine, nell'ordinanza si sottolinea con forza che «l'eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell'amministrazione pubblica la potrebbe esporre a danno erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato accordo su una proposta del giudice o mediatoria comparativamente valutata rispetto al contenuto della sentenza».
Questa raccomandazione assume evidentemente una notevole valenza soprattutto se si considera che in un caso simile (ove la conciliazione era stata conclusa in mediazione e l'Asl aveva aderito alla stessa mentre il primario del reparto l'aveva contestata) la Corte dei conti siciliana, con una recente sentenza (2719/2013), ha affermato la responsabilità del primario per danno erariale per non aver aderito alla conciliazione cui si era pervenuti tra tutte le altre parti (inclusa la Asl) (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013).

APPALTILEGGE DI STABILITA'/ Imprese e p.a., appalti verdi. Criteri ambientali minimi. Cauzioni scontate del 20%. In preconsiglio il collegato che si occupa anche di rifiuti.
Forniture verdi alla p.a., recupero semplificato dei rifiuti, sconti Tares per favorire il compostaggio, semplificazioni per le imprese che accedono alle procedure di valutazione e autorizzazione ambientale, maggiore libertà agli enti parco (anche per velocizzare i rapporti con le imprese), responsabilità allargate che per chi affida carichi da trasportare in nave, sanzioni rafforzate per i comuni che non attueranno gli obiettivi di raccolta differenziata imposti dall'Ue e obbligo per la p.a. di rifornirsi con beni e servizi ambientalmente sostenibili.

Misure per l'ambiente, ma anche per la semplificazione degli oneri delle imprese, a 360 gradi nel ddl ambientale collegato alla «Legge di Stabilità» esaminato ieri in preconsiglio dei ministri. Un ddl che sembra voler dare una volta per tutte piena attuazione al principio comunitario «dalla culla alla tomba», riferito al ciclo di vita dei beni.
Forniture verdi alla p.a. La spinta sugli appalti pubblici verdi (cd. «green public procurement») avviene in una duplice direzione. Da un lato trasformando in vero e proprio obbligo per le p.a. quello di fondare gli appalti per il soddisfacimento del proprio fabbisogno di beni e servizi sui criteri ambientali. Dall'altro attirando verso le gare pubbliche imprese ambientalmente già certificate.
Superando l'originaria impostazione della legge istituiva del «Gpp» (Legge 296/2006) che chiedeva alla p.a. di tenere conto degli eco-criteri solo «ogniqualvolta sia possibile», lo schema di ddl in discussione prevede ora il secco obbligo di inserire nei bandi di gara i «criteri ambientali minimi» elaborati (ed elaborandi) dal Minambiente per specifiche categorie di prodotti in attuazione del dm 11.04.2008 (Ndr: come recentemente aggiornato dm 25.07.2011), prodotti tra cui attualmente figurano: servizi energetici per edifici; attrezzature elettriche ed elettroniche d'ufficio; carta per copia; ristorazione collettiva; servizi di igiene e pulizia; prodotti tessili e arredi d'ufficio.
Ad attirare verso le gare pubbliche verdi i fornitori eco-certificati sarà invece lo sconto fino al 20% sulle cauzioni da fornire a corredo delle relative previsto a favore delle imprese griffate Emas (il marchio comunitario che garantisce la qualità ambientale dell'azienda) ed Ecolabel (il marchio che garantisce i prodotti offerti).
Recupero semplificato rifiuti. La spinta sul recupero passerà innanzitutto dal coordinamento tra le norme tecniche Ue di ultima generazione sul trattamento dei rifiuti e quelle burocratiche nazionali sul regime autorizzatorio dei relativi impianti. In base al ddl il trattamento dei rifiuti individuati dai regolamenti Ue su cd. «end of waste» (attualmente: rame, vetro, ferro, acciaio ed alluminio) potrà infatti avvenire secondo le procedure semplificate previste dal dlgs 152/2006 (avvio tramite mera comunicazione in luogo di vera e propria autorizzazione).
Più compostaggio. Arriva lo sconto fino al 50% dell'attuale «Tares» (proprio dalla legge di Stabilità destinata a confluire nella «Trise») a favore di coloro che procederanno (nei termini previsti dal «Codice Ambientale») all'autocompostaggio dei propri rifiuti organici, e ciò sia a titolo individuale che collettivo (tramite la nuova figura del cd. «compostaggio di comunità»).
Stop incenerimento rifiuti. Ancora, a dirottare le condotte verso il recupero sarà il previsto blocco di tutte le istanze di autorizzazione per l'avvio di nuovi impianti di incenerimento e coincenerimento di rifiuti, tranne che nelle Regioni in emergenza ambientale. E questo fino all'adozione del futuro dm con il quale il Minambiente individuerà l'effettivo fabbisogno nazionale di ulteriori strutture a ciò deputate.
Discariche in controtendenza. In controtendenza rispetto alle descritte azioni appare invece essere la cancellazione, prevista dallo stesso ddl, del divieto di conferire in discarica rifiuti con «Pci» superiore a 13 mila kJ/kg. Divieto che secondo lo storico dlgs 36/2003 dovrebbe scattare dal prossimo 31.12.2013 in base all'ultima delle proroghe che si protraggono dal 2010.
Mari e parchi. Estesa la responsabilità solidale in caso di incidenti che coinvolgono navi: oltre all'armatore e al proprietario della nave, risponderà anche il proprietario del carico trasportato. Due le ragioni dell'ampliamento delle norme di cui alla legge 979/1982: spingere i proprietari di carichi inquinanti a scegliere vettori più sicuri e avvalersi di idonei equipaggi; favorire la possibilità dell'Erario di recuperare le spese antinquinamento sostenute (il recupero spese è infatti attualmente particolarmente oneroso, vista l'appartenenza dei mezzi utilizzati ai paesi più disparati, il che significa per il minambiente grossa difficoltà nel rintracciare i soggetti responsabili e riscuotere coattivamente il credito).
Valutazioni e autorizzazioni ambientali. Semplificate le procedure autorizzative in materia di scarichi in mare di acque derivanti da attività di ricerca, prospezione, coltivazione di idrocarburi in mare movimentazione di fondali marini. In particolare viene eliminata la specifica autorizzazione ministeriale alla posa di cavi e condotte facenti parte di reti energetiche di interesse nazionale: la valutazione d'impatto viene assorbita nella «Via» nazionale e, in casi residuali, viene mantenuta la competenza regionale. Istituita infine una Commissione tecnica unificata per Via (valutazione d'impatto ambientale), Vas (valutazione ambientale strategica) e Aia (autorizzazione d'impatto ambientale) (articolo ItaliaOggi del 23.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIADifferenziata, sanzioni per i comuni
Differimento dei termini per il raggiungimento degli obbiettivi di raccolta differenziata dei rifiuti stabiliti dalle norme del codice ambientale e sanzioni a carico dei comuni che non conseguono risultati minimi di raccolta differenziata nei tempi previsti dalla legge. In quest'ultimo caso, infatti, è dovuta dall'amministrazione inadempiente un'addizionale al tributo di conferimento in discarica.

Lo prevede il collegato ambientale al ddl Stabilità che premia invece i comuni virtuosi.
La norma, quindi, differisce i termini per il raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata stabiliti dall'art. 205 del dlgs 152/2006, nel rispetto delle regole comunitarie che impongono specifici obiettivi di recupero. La finalità è di raggiungere un tasso di raccolta differenziata pari al 65% alla fine dell'anno 2016.
La ratio del differimento dei termini al 2014, 2015 e 2016, come si evince dalla relazione illustrativa, è di «adeguare il dato normativo al dato reale» e tende a evitare che le amministrazioni locali possano essere sanzionate per il mancato raggiungimento dei risultati nei tempi dettati dalle norme di legge. Del resto, attualmente la percentuale media nazionale di raccolta differenziata si attesta sul valore del 39,9%.
Le cause sono da ricercare, in parte, nelle continue modifiche normative che hanno cambiato le competenze nella gestione dei rifiuti. La finalità della nuova disposizione, dunque, è quella di incrementare la raccolta differenziata. Non a caso sono stabilite misure premiali per i comuni virtuosi e sanzioni per quelli che non rispettano la tabella di marcia indicata nella norma. Per i comuni che conseguono gli obiettivi minimi di raccolta differenziata, in anticipo rispetto ai tempi fissati, il tributo di conferimento dei rifiuti in discarica, disciplinato dall'art. 3, c. 24, legge 549/95, sarà dovuto nella misura del 20% del suo ammontare.
Invece per gli enti inadempienti, vale a dire per quelli che non raggiungono le soglie minime imposte dalla stessa norma, è applicata un'addizionale al tributo, che si configura di fatto come una sanzione, rapportata alla percentuale di raccolta differenziata. Per esempio, è dovuta nella misura del 10% se gli obiettivi non sono conseguiti per una quantità non superiore al 5% alla scadenza del primo termine annuale di adempimento (articolo ItaliaOggi del 23.10.2013).

CONDOMINIO: In condominio telecamere decise a maggioranza.
Il condominio è un luogo di stretta convivenza e quindi bisogna saper dosare la trasparenza nella gestione della cosa comune e il diritto alla riservatezza di ciascuno, tutelato dal Codice della privacy. Così l'amministratore dovrà saper conciliare di volta in volta queste due necessità –che la legge considera ugualmente importanti– senza che l'una prevalga sulla seconda o possa danneggiarla.

Il nuovo articolo 1122-ter del Codice civile, introdotto dalla riforma del condominio (legge 220/2012), si occupa per la prima volta della videosorveglianza. E stabilisce che l'assemblea condominiale, con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno metà dei millesimi, può deliberare l'installazione di videocamere sulle parti comuni dell'edificio.
Il Garante della privacy ha giustamente distinto tra le riprese svolte dai singoli condomini a scopi personali e quelle che invece vengono effettuate dal condominio per controllare le sue parti comuni.
Il primo caso si riferisce a quando il condomino intende sorvegliare la propria porta di casa oppure il posto auto. Dato che le immagini non verranno diffuse né comunicate a terzi, non si applica il Codice della privacy. Quindi, per esempio, non c'è l'obbligo di segnalare con un cartello la presenza della videocamera. L'importante è che il sistema di videosorveglianza sia installato in modo tale che l'obiettivo della telecamera riprenda unicamente la porta d'ingresso e non il pianerottolo, così come la videocamera posta nel box dovrà riprendere unicamente il proprio posto auto e non l'intero garage.
Invece, nel caso di telecamere poste dal condominio per sorvegliare le parti comuni, dovranno essere adottate tutte le misure e le precauzioni previste dal Garante, cioè:
- le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate dovranno essere informate con appositi cartelli delle presenza delle telecamere;
- nel caso di impianti collegati alle forze dell'ordine, sarà necessario apporre uno specifico cartello che lo evidenzi;
- le immagini registrate potranno essere conservate per un periodo limitato, cioè sino a un massimo di 24-48 ore, fatte salve specifiche esigenze, come la chiusura di esercizi oppure di uffici che hanno sede nel condominio, o di ulteriore conservazione in relazione ad indagini della polizia o comunque di natura giudiziaria;
- le telecamere condominiali dovranno riprendere solo le aree comuni da controllare, evitando la ripresa di luoghi circostanti quali strade, altri edifici, edifici commerciali eccetera;
- i dati raccolti dovranno essere protetti con idonee e preventive misure di sicurezza, in modo da consentirne l'accesso solo alle persone autorizzate oppure al titolare o al responsabile del trattamento dei dati (che ben potrà essere anche lo stesso amministratore del condominio).
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, comporterà:
- l'inutilizzabilità dei dati personali trattati (lo prevede l'articolo 11, comma 2, del Codice della privacy);
- l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante (articolo 143, comma 1, lettera c, del Codice);
- l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali ed esse collegate (articoli 161 e seguenti del Codice), oltre ovviamente ad eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati.
Lo stesso si può dire in relazione ai videocitofoni che rilevano immagini, talvolta anche tramite registrazione.
Se il sistema è installato esclusivamente a fini personali e le immagini non sono destinate alla comunicazione sistematica o alla diffusione, il Garante non interviene (articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013).

APPALTII debiti della p.a. salvano il Durc. Con la certificazione dei crediti garantita la regolarità. Le istruzioni del ministero del lavoro sulle procedure per il rilascio del documento.
Durc regolare alle imprese con debiti contributivi se vantano crediti nei confronti di p.a. A tal fine i crediti devono essere certi, liquidi ed esigibili e d'importo non inferiore ai debiti contributivi in base alla certificazione rilasciata dalla p.a. debitrice. La «regolarità» così raggiunta consentirà alle imprese di poter continuare ad operare, ma non limita in alcuna misura il potere sanzionatorio agli istituti di previdenza e alle casse edili, né tantomeno quello di attivare la procedura di riscossione coattiva.

Lo precisa, tra l'altro, il Ministero del lavoro nella circolare 21.10.2013 n. 40/2013 emessa ieri.
Crediti e debiti. Le istruzioni concernono la possibilità di ottenere un Durc regolare da parte delle imprese che, in opposizione a scoperture contributive, vantano crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni (enti pubblici, regioni, enti locali, Ssn). Una possibilità prevista dal dl n. 52/2012 e disciplinata dal dm 13 marzo 2013 ai fini della certificazione dei crediti pubblici. Il ministero spiega che, ai fini del rilascio del Durc, la scopertura contributiva deve risultare «saldabile» in pieno con i crediti pubblici i quali, peraltro, devono essere certi, liquidi ed esigibili. Se, dunque, i crediti risultano inferiori al debito contributivo il Durc sarà comunque rilasciato «di non regolarità».
La dichiarazione dei crediti. Al fine del rilascio del Durc (in tabella gli elementi caratteristici) è necessario che il soggetto intestatario dichiari la presenza di crediti certificati nei confronti della pa, cosa che andrà fatta evidentemente nei riguardi della p.a. e/o del soggetto titolare del procedimento amministrativo per il quale occorre il Durc stesso.
In particolare, l'interessato deve dichiarare di vantare crediti nei confronti della pa che hanno avuto la certificazione tramite l'apposita piattaforma informatica, precisandone gli estremi (amministrazione, data rilascio, protocollo, codice piattaforma). Per evitare di ripetere la dichiarazione in ogni procedimento, l'interessato può rendere la dichiarazione sui crediti alla cassa edile o a un istituto previdenziale che ne terranno conto in ogni richiesta di emissione di Durc anche se proveniente da altri (per esempio da una stazione appaltante).
Controllo incrociato. Come da indicazioni del ministero dell'economia, spiega ancora la circolare, gli enti previdenziali e le casse edili dovranno verificare per mezzo della predetta piattaforma e attraverso l'apposito codice l'esistenza delle certificazioni di credito, anche perché l'emissione del Durc resta possibile fintantoché il credito resta esistente a copertura dei debiti.
La piattaforma consente tale verifiche, nonché la sua effettiva disponibilità al momento della richiesta e dell'emissione del Durc. Nelle more dell'avvio del descritto procedimento (non ancora attivo), il ministero stabilisce che la verifica vada fatta sulla base delle certificazioni rilasciate dalla piattaforma e trasmesse per Pec o esibite sotto la responsabilità anche penale del soggetto titolare del credito certificato (cioè l'impresa richiedente il Durc), agli istituti e/o alle casse edili.
Durata di 120 giorni. Il ministero, infine, chiarisce che questa disciplina non riveste un carattere di specialità rispetto alle disposizioni ordinarie per cui rimane che anche il Durc emesso ai sensi della dl n. 52/2012 ha una durata di 120 giorni dalla data del rilascio (articolo ItaliaOggi del 22.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODl pubblico impiego. Da gennaio 2014 concorsi unici per dirigenti p.a..
Dal 01.01.2014 i «dirigenti e le figure professionali comuni» per le Pubbliche amministrazioni verranno scelti mediante «concorsi pubblici unici», quindi non più concorsi per ogni amministrazione.

Lo stabilisce un emendamento approvato dalle commissioni Affari costituzionali e Lavoro della camera, presentato dai deputati del Pd al decreto p.a. (101/2013). I nuovi concorsi unici saranno organizzati dal dipartimento della Funzione pubblica e dalla commissione per l'attuazione del progetto Ripam.
Le amministrazioni pubbliche potranno assumere nuovo personale solo «attingendo alle nuove graduatorie di concorso, fino al loro esaurimento» e s'impegnano «a programmare le quote annuali di assunzioni». Con l'emendamento, spetterà invece alle singole p.a. l'avvio di nuovi concorsi per il reclutamento «di specifiche professionalità». Soppresso poi l'articolo 49-ter del decreto Fare in tema di «semplificazioni per i contratti pubblici), licenziato ad agosto dal Parlamento.
L'articolo -ora soppresso- prevedeva che la «documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario» per i contratti pubblici sottoscritti dalle p.a., fosse «acquisita esclusivamente attraverso la banca dati» dei contratti pubblici, prevista dal dl 163/2006.
Un'altra modifica approvata prevede che «Nel caso in cui le pubbliche amministrazioni non siano dotate di un numero di autovetture sufficienti per garantire la corretta erogazione dei servizi», il dipendente potrà utilizzare l'auto privata, sempre «che risulti economicamente più conveniente». L'autorizzazione avrà «il limitato effetto di ottenere la copertura assicurativa» e «un indennizzo» (articolo ItaliaOggi del 22.10.2013).

EDILIZIA PRIVATABonus 65%, esclusi stufe e caminetti. Le faq di Enea.
La detrazione del 65% non è valida per l'installazione di una caldaia a condensazione in sostituzione di un caminetto e una stufa a legna. Inoltre, un edificio anche rurale, per fruire del bonus, deve essere esistente e avere un impianto di riscaldamento funzionante. Se questa condizione fosse soddisfatta, occorre ricordare che il prerequisito per accedere alle detrazioni è sempre il conseguimento di un risparmio energetico e che questo è difficile da raggiungere nella dismissione di impianti a biomassa in quanto questa è considerata fonte fossile solo al 30%.

Questa è la risposta fornita dall'Enea alla Faq. n. 37, con la quale si ricorda che per edificio vale la definizione di cui all'art. 2 del dlgs n. 192/2005.
Ed è «esistente», se risulta accatastato o se almeno è stata presentata domanda di accatastamento e se viene pagata l'Imu (ex Ici), se dovuta. Inoltre, si ritiene che un impianto termico è un impianto tecnologico destinato ai servizi di climatizzazione invernale o estiva degli ambienti, con o senza produzione di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico utilizzato, comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi di regolarizzazione e controllo.
Sono compresi negli impianti termici gli impianti individuali di riscaldamento. Non sono considerati impianti termici apparecchi quali: stufe, caminetti, apparecchi per il riscaldamento localizzato a energia radiante. Tali apparecchi, se fissi, sono tuttavia assimilati agli impianti termici quando la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 5 kW.
Non sono considerati impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di singole unità immobiliari a uso residenziale ed assimilate. Infine, anche qualora le precedenti condizioni fossero soddisfatte, occorre ricordare che il prerequisito per accedere alle detrazioni è sempre il conseguimento di un risparmio energetico (articolo ItaliaOggi del 22.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti senza vincoli. Non serve l'interesse legittimo per conoscere dati personali. Il Garante sul caso di un docente che ha chiesto l'applicazione del codice sulla privacy.
Accesso agli atti senza vincoli, se i documenti amministrativi ai quali l'interessato chiede l'accesso contengono i dati personali del richiedente.

É quanto si evince da un provvedimento emesso il 18 ottobre scorso dal Garante della privacy in accoglimento di un ricorso presentato da una docente (n. 365 reperibile su: http://www.garanteprivacy.it).
L'insegnante aveva avuto notizia di alcuni colloqui che si erano verificati tra il dirigente e alcuni genitori nei quali si sarebbe parlato di alcune situazioni personali che la riguardavano. Di tali colloqui era stato redatto un verbale. Ma il documento non era stato inserito nel fascicolo della docente perché, a seguito di tali colloqui, non era stato avviato a suo carico alcun procedimento collegato ai fatti narrati nel verbale. E anche per questo motivo la docente si era risolta a chiedere l'accesso invocando le disposizioni contenute nel codice della privacy e non le disposizioni contenute nella legge sulla trasparenza amministrativa.
Per accedere agli atti depositati presso l'amministrazione scolastica la legge 241/1990 prevede, infatti, che il richiedente l'accesso debba necessariamente vantare un interesse giuridico qualificato (articoli 22 e seguenti). Ma se l'interessato vuole semplicemente conoscere quali dei propri dati personali siano stati oggetto di discussione tra i genitori degli alunni e il dirigente scolastico, l'interesse qualificato non è necessario. E quindi basta presentare una mera istanza. Tale facoltà è prevista dal codice della privacy (decreto legislativo 196/2003).
In particolare, all'articolo 7, il codice dispone che l'interessato ha diritto di ottenere la conferma dell'esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile. Ma quando l'estrazione dei dati risulta particolarmente difficoltosa, il comma 4 dell'articolo 10 prevede che il riscontro alla richiesta dell'interessato può avvenire anche attraverso l'esibizione o la consegna in copia di atti e documenti contenenti i dati personali richiesti. E per questi motivi il garante, Antonello Soro, ha accolto il ricorso ed ha disposto la consegna della documentazione contenente i dati personali della richiedente.
Lo stesso articolo 10, però, dispone al comma 5 che il diritto di ottenere la comunicazione in forma intelligibile dei dati non riguarda dati personali relativi a terzi, salvo che la scomposizione dei dati trattati o la privazione di alcuni elementi renda incomprensibili i dati personali relativi all'interessato. E quindi il Garante ha ordinato all'istituzione scolastica convenuta di comunicare alla ricorrente i dati personali che riguardano la docente, contenuti nel verbale oggetto della richiesta d'accesso e nelle altre dichiarazioni rese dai genitori al dirigente scolastico, previo oscuramento dei dati riferiti a terzi, entro sessanta giorni dalla ricezione del provvedimento.
L'autorità per la protezione dei dati personali ha ricordato alla scuola la necessità di dare conferma all'autorità stessa dell'avvenuto adempimento del provvedimento (o dell'avvenuta proposizione dell'opposizione) entro sessanta giorni dalla ricezione del medesimo. Adempimento, questo, che è espressamente previsto dall'articolo 157 del codice e il relativo inadempimento è punito con una sanzione amministrativa. Ed ha avvertito l'amministrazione scolastica che l'inosservanza dei provvedimenti del Garante adottati in sede di decisione dei ricorsi è punita ai sensi dell'articolo 170 del codice in materia di protezione dei dati personali.
Infine, il Garante ha fatto presente che avverso il provvedimento può essere proposta opposizione all'autorità giudiziaria ordinaria, con ricorso depositato al tribunale ordinario del luogo dove ha la residenza il titolare del trattamento dei dati, entro il termine di trenta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento stesso, ovvero di sessanta giorni se il ricorrente risiede all'estero (articolo ItaliaOggi del 22.10.2013).

APPALTIDebiti sui contributi e crediti verso la Pa: Durc rilasciabile.
Le aziende che hanno dei debiti nei confronti degli Istituti previdenziali e assicurativi nonché verso le Casse edili ma, contemporaneamente, vantano crediti nei riguardi delle pubbliche amministrazioni, possono ottenere il Durc.

Lo chiarisce il ministero del Lavoro con la
circolare 21.10.2013 n. 40/2013 diffusa ieri. Nel documento vengono forniti i primi chiarimenti in merito alla disciplina contenuta nel decreto ministeriale del 13 marzo scorso. Si tratta delle disposizioni attuative delle previsioni contenute nel comma 5 dell'articolo 13-bis del Dl 52/2012 (convertito dalla legge 94/2012).
La norma regolamenta il rilascio del Durc (Documento unico di regolarità contributiva) in presenza di crediti certificati certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte di una stessa impresa.
La chiave
Dunque la certificazione dell'esistenza del credito verso la pubblica amministrazione è la chiave che apre la porta al Durc. Quella regolamentata dal Dm del 13.03.2013 (oggetto della circolare in commento) è una procedura speciale secondo cui le aziende possono ottenere la regolarità contributiva anche se, in realtà, presentano una posizione debitoria aperta, non avendo provveduto regolarmente al versamento dei contributi e/o dei premi assicurativi.
Va da sé che il particolare "salvacondotto" può operare solo qualora i crediti dell'impresa certificati verso la pubblica amministrazione siano di importo almeno pari alle somme non versate dalla stessa impresa agli Istituti e/o alle Casse.
Le due procedure
Il meccanismo è semplice se a chiedere il Durc è lo stesso soggetto che, poi, potrà avvalersene. Quando –al contrario– la regolarità contributiva viene richiesta d'ufficio, l'azienda dovrà dichiarare l'esistenza del credito, indicando la data di rilascio della certificazione, il numero di protocollo, l'importo del credito stesso e l'amministrazione che ha rilasciato la relativa certificazione. Dovrà, inoltre, fornire un codice che permetta, a tutti coloro che ne hanno interesse, di verificare l'esistenza della certificazione, attraverso la cosiddetta piattaforma informatica.
Quest'ultima è un archivio a cui accedono gli Istituti previdenziali e le Casse edili per verificare l'esistenza del credito. Dalla piattaforma si può stampare un documento con gli estremi del credito certificato con possibilità di verificare la sua effettiva disponibilità al momento della richiesta e dell'emissione del Durc.
Il regime transitorio
In attesa che tutto il procedimento vada a regime, il ministero ricorda che la verifica verrà effettuata sulla base delle certificazioni rilasciate dalla piattaforma informatica trasmesse via Pec o direttamente esibite; in tal caso, il tutto soggiace alla responsabilità anche penale del soggetto titolare del credito certificato.
Pur trattandosi di una procedura speciale di rilascio del Durc, il ministero afferma che il suo termine di validità resta fissato in 120 giorni dalla data del rilascio. Il documento di regolarità che verrà emesso riporterà la dicitura «ex art. 13-bis, comma 5, D.L. n. 52/2012», unitamente alle altre informazioni identificative del credito.
Nel documento, i tecnici ministeriali ricordano –tra l'altro– che il credito certificato può essere ceduto o se ne può richiedere un'anticipazione ma solo se è stato estinto il debito indicato sul Durc. In tal caso, dovrà essere prodotto un ulteriore documento di regolarità contributiva aggiornato, alla banca o all'intermediario finanziario
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2013).

TRIBUTI:  LEGGE DI STABILITA' 2014/ La Trise la paga anche l'inquilino. Per la Tasi l'importo dovuto dall'affittuario va dal 10 al 30%. Vita breve per la Tari.
Dal prossimo anno i contribuenti saranno tenuti a pagare il tributo sui servizi comunali (Trise). Il nuovo balzello contiene al suo interno due tributi diversi: il primo, denominato Tari, serve a coprire i costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa comunale; mentre il secondo, denominato Tasi, è diretto a recuperare i costi che l'amministrazione comunale sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto, illuminazione pubblica e così via).

Sono queste le previsioni contenute nella bozza della legge di stabilità approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri.
Tari. Dunque la Tares va in soffitta e lascia il posto al nuovo regime di prelievo, che dovrà coprire integralmente i costi del servizio. Questa tassa dovrebbe avere vita breve, per lasciare poi il posto alla Tarip, basata su sistemi puntuali di misurazione dei rifiuti prodotti. Dovrebbe infatti prossimamente essere emanato un regolamento attuativo del ministro dell'ambiente che dovrà prevedere dei criteri di misurazione puntuale dei rifiuti prodotti, nel rispetto del principio comunitario «chi inquina paga», per collegare il pagamento al servizio reso all'utente.
La tassa è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a prescindere dall'uso a cui sono adibiti. Non sono soggette al prelievo le aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni o di locali tassabili, nonché le aree comuni condominiali a meno che non siano occupate in via esclusiva. Quindi, viene confermata l'esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di locali tassabili, cioè delle cosiddette aree non operative. Sono obbligati in solido al pagamento anche i componenti del nucleo familiare e coloro che usano in comune locali e aree. Come per la Tares viene confermato il criterio della prevalenza, vale a dire il tributo va pagato al comune nel cui territorio insiste, interamente o prevalentemente, la superficie degli immobili.
I soggetti tenuti al pagamento della tassa devono denunciare la superficie calpestabile e non la superficie catastale. Considerato che per la maggior parte degli immobili non esiste ancora la superficie catastale, viene consentito ai comuni di fare ricorso alle superfici già denunciate per Tarsu e Tia, calcolando la tassa sulla superficie calpestabile anche per gli immobili a destinazione ordinaria (classificati nelle categorie A, B e C). Si passerà alla commisurazione del tributo sulla superficie catastale solo quando verranno allineati i dati degli immobili a destinazione ordinaria e quelli riguardanti la toponomastica e la numerazione civica, interna e esterna, di ciascun comune.
Per le occupazioni temporanee il tributo è a carico dei titolari degli immobili. Si considerano temporanee le occupazioni di durata non superiore a sei mesi nel corso dello stesso anno solare. Come per la Tares, l'obbiettivo è far pagare il proprietario o il titolare di altro diritto reale sull'immobile anche quando viene utilizzato da inquilini o comodatari. Mentre, le regole contenute nella disciplina Tarsu e Tia non imponevano questo trattamento per gli usi temporanei.
Tasi. La Tasi serve a coprire i costi per i servizi indivisibili sostenuti dai comuni. Anche i titolari di immobili adibiti ad abitazione principale, esonerati dall'Imu, dovranno versare l'imposta con un'aliquota massima del 2,5 per mille, calcolata sullo stesso valore dell'immobile derivante dalla rendita catastale rivalutata. Il tributo è infatti dovuto da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati, aree scoperte e edificabili. Qualora vi siano più possessori o detentori, tutti sono tenuti in solido all'adempimento dell'obbligazione tributaria.
In caso di detenzione temporanea di durata non superiore a sei mesi nel corso dello stesso anno solare, il balzello è dovuto dal titolare dell'immobile. A differenza dell'Imu, però, la tassa sui servizi la paga anche l'inquilino nella misura che varia dal 10 al 30%. La scelta della percentuale di tassazione è demandata ai comuni e deve essere stabilita con regolamento. Il tributo dovrà essere calcolato sul valore dell'immobile preso a base per la determinazione dell'Imu. Pertanto, occorre fare riferimento alla rendita catastale rivalutata per i fabbricati e al valore di mercato per le aree edificabili.
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Limiti rigidi per la tassa sui servizi comunali.
I titolari di immobili adibiti ad abitazione principale il prossimo anno dovranno versare la tassa sui servizi comunali (Tasi) con un'aliquota massima del 2,5 per mille. Le amministrazioni locali, infatti, possono variare l'aliquota dall'1 al 2,5 per mille, fermo restando che hanno anche il potere di azzerarla. Anche per le prime case di pregio, classificate nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli), non esonerate dal pagamento dell'Imu, il legislatore si è premurato di fissare un tetto massimo all'aliquota.
I titolari di questi immobili non dovranno pagare complessivamente per i due tributi (Imu e Tasi) più di quanto dovuto per l'imposta municipale con l'aliquota massima del 6 per mille. La stessa regola vale per le altre tipologie di immobili e seconde case, per le quali viene imposto come limite l'attuale aliquota massima del 10,6 per mille.
Abitazioni principali. Spetterà ai sindaci decidere se gli immobili adibiti a abitazione principale dovranno essere tassati e in che misura. I fabbricati che per il 2013 hanno fruito dell'abolizione del pagamento dell'acconto Imu saranno tenuti a pagare la Tasi nella misura deliberata dall'ente che va dall'1 al 2,5 per mille.
Immobili di lusso e secondo case. Viene confermata l'imposizione sugli immobili di lusso anche se destinati ad abitazione principale. Viene imposta l'aliquota massima del 6 per mille, vale a dire quella attualmente prevista per l'imposta municipale. Pertanto, la somma dovuta per i due tributi non può superare quanto dovuto oggi dal contribuente calcolando l'imposta con l'aliquota massima (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARILEGGE DI STABILITA' 2014/ Bonus edilizi prorogati fino al 2016.
Arriva anche la proroga delle detrazioni fiscali per recuperi edilizi e mobili. Intervenendo sugli artt. 14-16 del dl 63/2013, il ddl Stabilità per il 2014 allunga i termini fino al 2015 per fruire delle detrazioni relative agli interventi di ristrutturazione edilizia, di riqualificazione energetica e agli interventi effettuati dai condomini, anche se da un anno all'altro le detrazioni subiscono una riduzione. Anche per il bonus mobili il testo del disegno di legge prevede una proroga, che è stata stabilita fino al 2014.
Ristrutturazioni. Il ddl prevede che per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio (art. 16), fino a un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96 mila euro per unità immobiliare, la detrazione Irpef è del: 50% per le spese sostenute dal 26/06/2012 al 31/12/2014; 40% per le spese sostenute dall'01/01/2015 al 31/12/2015.
Relativamente alla riqualificazione energetica (art. 14, c. 1 e 2), il legislatore ha previsto la detrazione Irpef/Ires del: 65% delle spese sostenute dal 06/06/2013 al 31/12/2014; 50% delle spese sostenute dall'01/01/2015 al 31/12/2015. Ciò consente a chi ha avviato i lavori nel 2013 ma non riesce a finire di pagare entro l'anno di poter concludere i pagamenti nel 2014 senza perdere l'opportunità della detrazione.
Per quanto riguarda gli interventi relativi a parti comuni di edifici condominiali di cui agli artt. 1117 e 1117-bis c.c. o che interessano tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio (art. 14, c. 1), la detrazione è prevista nella misura del: 65% delle spese sostenute dal 06.06.2013 al 30.06.2015; 50% delle spese sostenute dal 01.07.2015 al 30.06.2016.
Misure antisismiche. Confermate fino al 2015 anche le agevolazioni per le misure antisismiche previste dall'art. 16, comma 1-bis, del dl 63/2013. Con il ddl Stabilità la misura della detrazione, che può essere fruita sia dai soggetti passivi Irpef che dai soggetti passivi Ires, è pari a: 65% delle spese sostenute fino al 31.12.2014; 50% delle spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015.
Sono agevolabili gli interventi eseguiti su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), di cui all'Opcm 20.03.2003 n. 3274 e che si riferiscono a costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive. L'agevolazione compete anche rispetto alla redazione della documentazione obbligatoria atta a comprovare la sicurezza statica dei fabbricati, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al rilascio di tale documentazione.
Bonus mobili. Novità anche per il bonus mobili, introdotto dall'art. 16, comma 2, del dl n. 63/2013, che viene prorogato per tutto il 2014. In seguito alla modifica disposta dal ddl Stabilità, la detrazione Irpef del 50% può essere fruita per le spese sostenute dal 06/06/2013 fino al 31/12/2014 per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A per i forni, per le apparecchiature per le quali sia prevista l'etichetta energetica, finalizzata all'arredo dell'immobile oggetto di ristrutturazione (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

ENTI LOCALI - VARIPreavvisi stradali con lo sconto. Riduzione del 30% finché non viene notificato il verbale. Le indicazioni sul pagamento delle sanzioni nella nota del ministero dell'interno.
Anche il semplice preavviso di divieto di sosta lasciato sul veicolo può essere pagato con lo sconto del 30% e senza ulteriori spese finché non viene notificato il verbale di contestazione.

Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot..
Il parere si è reso necessario per dare un indirizzo univoco e autorevole a tutti gli organi di polizia stradale, dopo che alcuni Comandi di polizia locale avevano espresso dubbi sull'applicabilità della riduzione del 30% ai preavvisi di accertamento. La legge n. 98 del 09.08.2013, che ha convertito il decreto legge del fare n. 69 del 21.06.2013, ha modificato l'art. 202 del codice della strada disponendo che la somma da pagare per le violazioni stradali è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione.
Il beneficio della riduzione non si applica però alle infrazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura ridotta, alle violazioni per cui è prevista la sanzione accessoria della confisca del veicolo o della sospensione della patente di guida e alle violazioni stradali non incluse nel codice della strada, ma previste dalla legislazione complementare.
Preavvisi. Una linea dottrinaria, benché minoritaria, ha sostenuto che il testo del nuovo art. 202 Cds, facendo letteralmente riferimento alla contestazione o notificazione, contempla il beneficio dello sconto con esclusivo riferimento ai verbali, ad esclusione dunque dei preavvisi.
Con la conseguenza che chi intende pagare subito il preavviso dovrebbe pagare l'intero importo della sanzione oppure attendere la notificazione postale della multa per poter pagare con la riduzione. Questa tesi però contrasta con i principi di semplificazione contenuti nel decreto legge del fare. Come ha chiarito il Ministero dell'interno con il parere del 07.10.2013, appare più coerente con lo spirito della nuova disposizione applicare il beneficio della riduzione del 30% anche nella fase intermedia fra il momento dell'accertamento risultante dal preavviso e il momento della contestazione o notificazione del verbale.
Ricorsi. In caso di ricorso contro una multa stradale non è ammesso il pagamento con lo sconto del 30%. Infatti, il pagamento in misura ridotta di cui all'art. 202, comma 1, sulla quale va calcolata l'ulteriore riduzione, è incompatibile sia con la presentazione del ricorso al prefetto, secondo l'espressa previsione di cui all'art. 203, comma 1, sia con il deposito dell'opposizione al giudice di pace secondo quanto disposto dall'art. 204-bis, comma 1, del codice della strada.
Oltre a ciò, in caso di rigetto dei ricorsi, viene definita dall'autorità competente la somma da pagare: infatti, il prefetto ingiunge il pagamento di una somma non inferiore al doppio del minimo edittale, mentre il giudice di pace ridetermina l'importo con una sentenza che va eseguita.
Rateizzazione. Come precisato dalla circolare del Ministero dell'interno n. 300/A/7065/13/101/20/21/1 del 16.09.2013 il pagamento con lo sconto del 30% non è applicabile in caso di rateizzazione della sanzione amministrativa di cui all'art. 202-bis del Codice della strada. Infatti, in tali casi, la stessa richiesta esclude la volontà di provvedere al pagamento immediato entro il termine di cinque giorni, che costituisce il presupposto per l'applicazione del beneficio.
Pagamento: casi particolari. Cosa succede se entro cinque giorni dalla contestazione o notificazione il trasgressore o l'obbligato in solido paga l'importo non scontato pur avendo diritto al beneficio? Se l'interessato presenta apposita istanza, è legittima la a restituzione dell'indebito nella parte eccedente rispetto a quanto dovuto. E come comportarsi se la possibilità di pagare la sanzione con lo sconto del 30% non è indicata nel verbale? La mancanza dell'indicazione non inficia la validità dell'atto, ma l'interessato può chiedere di essere ammesso a pagare l'importo ulteriormente ridotto.
E se, dopo la contestazione diretta al trasgressore, che non paga la sanzione, il verbale viene notificato per posta al responsabile in solido entro novanta giorni, il trasgressore può essere ammesso a pagare con lo sconto presentandosi in comando? Sì, il trasgressore può pagare entro i cinque giorni dalla successiva notificazione postale all'obbligato solidale, in quanto non è previsto che il trasgressore dichiari a quale titolo effettui il versamento.
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Ammessa anche l'assicurazione.
Oltre alle importanti indicazioni relative all'applicabilità dello sconto del 30% ai preavvisi, il ministero dell'interno è dovuto intervenire più volte per fornire chiarimenti per le violazioni attinenti alla copertura assicurativa dei veicoli. Con al prima circolare 12.08.2013 n. 300/A/6333/13/101/20/21/1 il ministero aveva subito evidenziato che la riduzione del 30% è ammessa in caso di pagamento previsto dall'art. 193, comma 3, del Codice della strada, applicandolo sull'importo ottenuto dopo la riduzione a un quarto.
Con la circolare 16.09.2013 n. 300/A/7065/13/101/20/21/1 il ministero ha fornito indicazioni più dettagliate. Il pagamento della sanzione amministrativa in forma ulteriormente ridotta del 30% è ammesso anche nei casi indicati dall'art. 193, comma 3, Cds, di scadenza della copertura assicurativa da meno di 30 giorni o di rottamazione del veicolo entro i 30 giorni successivi all'accertamento. In tali casi, lo sconto previsto dall'art. 202, comma 1, si applica sulla somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa già ridotta ad un quarto per effetto del concretizzarsi delle predette condizioni.
Per quanto riguarda la copertura assicurativa scaduta da meno di 30 giorni, il pagamento dell'importo predetto, scontato del 30%, ha effetto estintivo dell'obbligazione solo qualora il pagamento avvenga nei cinque giorni successivi alla contestazione o notificazione della violazione e la riattivazione della copertura assicurativa avvenga entro il termine di trenta giorni dalla scadenza. Invece, per quanto riguarda il caso di rottamazione del veicolo entro trenta giorni dall'accertamento della violazione, il trasgressore deve versare la cauzione per intero al momento della richiesta di rottamazione che, per accedere al beneficio dello sconto ulteriore del 30%, va versata entro i cinque giorni successivi alla contestazione o notificazione della violazione.
Conseguentemente, dopo che la rottamazione è avvenuta con i modi richiesti dalla norma, al trasgressore viene restituita la cauzione trattenendo una somma pari a 1/4 della sanzione ulteriormente scontato del 30% (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, obiettivo prevenzione. Spinta su ecocompatibili, appalti verdi, certificazione. Le opportunità per le imprese dal decreto Minambiente che traccia il programma 2020.
Ecoprogettazione, riparazione e riutilizzo, appalti pubblici verdi, filiera corta, certificazione ambientale.

Queste le parole chiave del nuovo «Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti» presentato lo scorso 10.10.2013 dal ministero dell'ambiente. Formalizzato con un decreto attuativo del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale») e della direttiva madre in materia (la 2008/98/Ce), il nuovo Programma fissa gli obiettivi di riduzione dei rifiuti da raggiungere entro il 2020 indicando (anche alle regioni, che tale documento devono declinare nei propri piani entro il 12.12.2013) le misure da realizzare.
Obiettivi di prevenzione. Al fine di dissociare crescita economica e impatti ambientali da produzione di rifiuti, gli obiettivi di riduzione da raggiungere per il 2020 sono dal provvedimento in parola (rubricato come «decreto direttoriale 07.10.2013») tutti agganciati al fluttuare del pil, imponendo un abbattimento della loro produzione tra il 5 e il 10% (rispettivamente per urbani/speciali non pericolosi da un lato e per speciali pericolosi dall'altro) in relazione a ogni unità di prodotto interno lordo.
Misure generali. Ricco il panorama delle misure previste dal dicastero per raggiungere tali target, misure che possono tradursi in nuove opportunità commerciali per le imprese interessate. A livello generale, il nuovo Piano indica innanzitutto nell'ecoprogettazione dei beni e nel riutilizzo di quelli già sul mercato la strada maestra per la prevenzione della produzione dei rifiuti, annunciando proprio in relazione a quest'ultima misura l'arrivo di decreti ministeriali che agevoleranno la nascita di centri per la riparazione dei beni a fine vita.
Altra misura sulla quale appare spingere il dicastero è l'acquisto di prodotti ecocompatibili da parte degli uffici pubblici, laddove sottolinea nel Programma come la nuova e vigente normativa sugli «appalti pubblici verdi» (dall'inglese Gpp: green public procurement) recata dal dm 10.04.2013 chieda alla p.a. di soddisfare entro il 2014 almeno il 50% del proprio fabbisogno di beni e servizi con prodotti «eco» (che nella logica di tale ultimo decreto, lo ricordiamo, sono i prodotti dal «minor costo ambientale» possibile, e non dal semplice «minor prezzo»).
Misure speciali. Mutuandole dall'ultimo «Waste prevention programme» pubblicato dall'Ue lo scorso ottobre 2012, il Piano nazionale appresta alcune misure prioritarie da indirizzare a tipologie critiche di rifiuti, come i biodegradabili, i cartacei e quelli da imballaggi, da prodotti elettronici, da demolizioni edilizie. In relazione ai biodegradabili il Minambiente promette una lubrificazione dell'attuale normativa per permettere una più agevole gestione degli scarti alimentari come sottoprodotti (in luogo di rifiuti), strizzando altresì l'occhio sia alla filiera corta e ai marchi di qualità ambientale.
Sui rifiuti cartacei le misure da realizzare saranno invece quelle che vanno verso la dematerializzazione dei documenti (sia da parte delle p.a. che da parte dei gestori di servizi pubblici). La prevenzione dei rifiuti da imballaggio ruoterà invece su tre cardini: bando degli shopper non biodegradabili (con l'operatività dell'apposito dm già predisposto e attualmente all'esame dell'Ue); spinta sulla vendita di prodotti «alla spina»; promozione dell'uso di acqua da rubinetto (in luogo di quella in bottiglia). La prevenzione dei rifiuti elettronici ed elettronici («Raee») dovrà essere modellata sulle citate misure generali di prevenzione: ecoprogettazione dei nuovi prodotti e riparazione di quelli usati.
Azioni. A permettere la realizzazione delle misure annunciate saranno nella logica del Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti, e secondo quanto espressamente annuncia il Minambiente nello stesso, tre tipologie di azioni: adozione di nuovi provvedimenti normativi ad hoc (come i citati decreti sui centri di riparazione); rimozione di ostacoli normativi al raggiungimento degli obiettivi di riduzione (tra cui quelli relativi alla disciplina sui sottoprodotti); utilizzo di strumenti economici (come l'allargamento della responsabilità economica del produttore dei beni per la gestione dei relativi rifiuti); la diffusione degli accordi volontari di settore (come quelli relativi ai rifiuti edilizi già siglati tra istituti di formazione e associazioni di operatori del settore) (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

CONDOMINIOSito internet a prova di privacy. Accesso alla pagina web condominiale da proteggere. I chiarimenti contenuti nel vademecum del Garante sulla gestione delle informazioni.
Internet e condominio a prova di privacy. Sul sito web condominiale gli amministratori possono caricare esclusivamente informazioni relative alla gestione dei beni e dei servizi comuni, alle quali possono avere accesso solo i condomini tramite la predisposizione e l'utilizzo di apposite credenziali di autenticazione (vale a dire una username e una password).

Questo uno dei chiarimenti contenuti nel nuovo vademecum redatto dal Garante sull'applicazione in ambito condominiale della normativa sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs n. 196/2003 (consultabile sul sito internet dell'Authority, all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
La privacy, quindi, si aggiorna alla riforma del condominio o, meglio, l'Autorità garante prende atto con piacere del fatto che la legge n. 220/2012, direttamente o indirettamente, abbia confermato punto per punto le indicazioni a suo tempo fornite con il provvedimento generale del 18 maggio 2006 (giungendo anche a colmare, con il nuovo art. 1122-ter c.c., la lacuna a suo tempo denunciata relativamente alle maggioranze necessarie per approvare l'installazione di impianti di videosorveglianza delle parti comuni; si veda il relativo approfondimento).
Quanto sopra è particolarmente evidente, ad esempio, in tema di accesso alla documentazione detenuta dall'amministratore per la gestione dei beni e dei servizi comuni e al conto corrente condominiale. In questi anni, infatti, è capitato più volte che alcuni amministratori alla ricerca di uno stratagemma per impedire ai condomini di fare copia dei documenti relativi alla gestione condominiale si trincerassero dietro a non meglio specificate esigenze di privacy, di fatto operando un'applicazione del tutto distorta dei principi di cui al dlgs n. 196/2003.
Il legislatore della riforma ha però finalmente dissipato qualsiasi dubbio in proposito, chiarendo sia il fatto che i condomini abbiano un vero e proprio diritto di visionare e fare copia della documentazione condominiale detenuta dall'amministratore (nei giorni e negli orari che questi ha l'obbligo di comunicare preventivamente: art. 1129, comma 2, c.c.) sia il fatto che tale diritto si estenda anche alla consultazione del conto corrente condominiale, sempre per il tramite di quest'ultimo (art. 1129, comma 7, c.c.).
Occorre quindi evidenziare come la possibilità recentemente ammessa dalla legge n. 220/2012 l'amministratore può attivare un sito internet condominiale (art. 71-ter disp. att. c.c.) si muove proprio nella medesima direzione, essendo finalizzata a rendere più facile e immediato l'accesso alla medesima documentazione in formato elettronico, rendendo quindi più trasparente ed economica la gestione dei beni e dei servizi comuni.
Da questo punto di vista il Garante privacy ha quindi opportunamente prescritto che sul sito internet tenuto dall'amministratore debbano essere pubblicate soltanto le informazioni relative alla gestione del condominio e che l'accesso dei condomini sia protetto mediante l'implementazione di specifiche username e password personali, in modo da evitare che soggetti estranei possano accedere a informazioni che, come detto, sono riservate alla sola compagine condominiale.
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Via libera alla videosorveglianza. Riservatezza da rispettare.
Via libera alla videosorveglianza in condominio, ma nel rispetto della riservatezza dei condomini e dei terzi. La crescente esigenza di sicurezza delle collettività condominiali o dei singoli partecipanti al condominio ha determinato l'installazione massiccia di sistemi videosorveglianza, ritenuti strumenti particolarmente utili per la protezione da ingressi di terzi malintenzionati.
È necessario però che tali installazioni avvengano nel rispetto dell'esigenza dei condomini o di terzi di muoversi, non controllati, nel proprio domicilio e/o all'interno delle aree comuni.
L'impianto di videosorveglianza del singolo condomino. Nel caso di installazione di un sistema di videosorveglianza effettuata dal singolo condomino per fini esclusivamente personali la disciplina del dlgs n. 196/2003 non trova applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque necessaria l'adozione di cautele.
In tale ipotesi possono rientrare, a titolo esemplificativo, strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni, ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati e all'interno di caseggiati e loro pertinenze (quali posti auto e box). Benché non trovi applicazione la disciplina del c.d. Codice privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza.
In altre parole il sistema di videosorveglianza deve essere installato in maniera tale che l'obiettivo della telecamera posta di fronte alla porta di casa riprenda esclusivamente lo spazio antistante l'accesso alla propria abitazione e non tutto il pianerottolo o l'atrio, oppure il proprio posto auto e non tutto il garage.
La videosorveglianza condominiale. La legge n. 220/2012 di riforma del condominio, eliminando dubbi e incertezze, ha introdotto nel sistema della disciplina condominiale la videosorveglianza. La nuova normativa prescrive infatti che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni di impianti volti a consentire la videosorveglianza debbano essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
È di tutta evidenza che la delibera di installazione dell'impianto di videosorveglianza adottata a maggioranza debba rispettare tutte le misure e le precauzioni previste dal codice privacy e dal provvedimento generale del Garante in tema di videosorveglianza. Di conseguenza l'approvazione di un sistema di videosorveglianza condominiale è consentita, in presenza di concrete situazioni di pericolo, quando altri mezzi di difesa meno invasivi siano risultati inutili e riducendo al minimo l'utilizzazione di dati personali.
In particolare, gli adempimenti da porre in essere sono i seguenti: apposizione di un cartello informativo, tempi di conservazione delle immagini per un periodo limitato tendenzialmente non superiore alle 24-48 ore, anche in relazione a specifiche esigenze come la chiusura di esercizi e uffici che abbiano sede nel condominio o a periodi di festività (e per tempi di conservazione superiori ai sette giorni è comunque necessario richiedere una verifica preliminare al Garante), individuazione del personale che possa visionare le immagini con atto di nomina del responsabile e incaricato del trattamento, limitazione rigorosa dell'angolo visuale delle riprese ai soli spazi di esclusiva pertinenza del condominio, senza possibilità di invasione visiva o di registrazione di aree e di unità immobiliari estranee al condominio stesso.
Il mancato rispetto di queste prescrizioni, a seconda dei casi, può comportare l'inutilizzabilità dei dati personali trattati, l'adozione di provvedimenti di blocco o divieto del trattamento disposti dal Garante e l'applicazione delle sanzioni amministrative o penali collegate alle singole violazioni di legge, oltre ovviamente a eventuali richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

CONDOMINIO - VARITelecamere fuori da spazi altrui. Privacy. Le condizioni per ammettere la videosorveglianza.
Le riprese effettuate a salvaguardia della proprietà privata sono ammesse alla duplice condizione che non invadano ambiti di pertinenza esclusiva di terzi e, al contempo, rispettino le disposizioni sulla sicurezza dei dati acquisiti.
Lo afferma il Tribunale di Reggio Calabria (giudice Genovese) in un'ordinanza del 25.09.2013.
La controversia ha avuto inizio a seguito della richiesta di tutela avanzata in via d'urgenza, in base all'articolo 700 del Codice di procedura civile, da una signora residente al piano terra di un fabbricato a più elevazioni, perché gli abitanti dei livelli superiori avevano collocato un impianto di videosorveglianza che riprendeva sia gli spazi comuni sia quelli usati solo da lei.
Il giudice chiarisce, innanzitutto, che la difesa della riservatezza trova il proprio presupposto nell'articolo 2 della Costituzione, che, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell'uomo, contiene una sorta di clausola aperta che consente di adeguare la tutela dei diritti primari «all'evoluzione del comune sentire sociale». Il tribunale osserva inoltre che l'inviolabilità del domicilio, prevista dall'articolo 14 della Costituzione, si esplica non solo nella facoltà di escludere qualcuno da determinati luoghi, ma anche nel diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi spazi. L'ordinanza richiama poi la sentenza 14346/2012 della Cassazione, per la quale il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza quando l'azione, pur svolgendosi nell'ambito di una dimora privata, è liberamente visibile dagli estranei senza ricorrere a particolari accorgimenti.
Nei fatti, il consulente tecnico d'ufficio aveva verificato che le registrazioni sull'hard-disk si cancellavano automaticamente dopo 24 ore e il sistema di videosorveglianza era dotato di password non gestibile dall'utente né, a maggior ragione, da eventuali terzi che si fossero introdotti nello stabile. Sotto questo profilo era dunque rispettato l'articolo 31 del Codice della privacy (Dlgs 196 del 2003), per il quale i dati personali oggetto di trattamento devono essere custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo da ridurre al minimo i rischi non solo di una loro distruzione o perdita, ma pure di un accesso non autorizzato o comunque di un trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
Non tutte le telecamere, però, inquadravano spazi destinati all'uso comune, dal momento che una di esse riprendeva la porta di ingresso a un vano utilizzato solo dalla ricorrente. E poiché a causa di quello stato di fatto i diritti alla riservatezza e all'inviolabilità del domicilio erano lesi in modo permanente e non suscettibile di tutela per equivalente, il giudice condanna i resistenti a rimuovere o a schermare quella telecamera
 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013).

ENTI LOCALI - VARISconto multe anche per il divieto di sosta. Codice della strada. Nota dell'Interno.
Lo sconto del 30% sulle multe pagate "subito" vale anche in caso di divieto di sosta. Il beneficio, introdotto dal 21 agosto con la conversione in legge del decreto del fare (Dl 69/2013), finora era stato riconosciuto da molti Comuni anche in questo caso, ma mancava una copertura interpretativa che adesso è arrivata.

È la nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot., emanata dal dipartimento Pubblica sicurezza del ministero dell'Interno.
Non è una vera e propria circolare come quelle che il dipartimento ha già diramato proprio in agosto per chiarire molti altri aspetti dello sconto sulle multe. Volutamente era stato tralasciato quello del divieto di sosta, perché in tutti gli uffici ministeriali che si occupano di Codice della strada si valuta che la questione sia delicata: la formulazione della norma riconosce il beneficio solo in caso di pagamento entro cinque giorni dalla «contestazione» (quando si viene fermati subito) o dalla «notifica» (quando si riceve il verbale a casa).
Sono tutte situazioni in cui al trasgressore o al proprietario del veicolo viene consegnato un verbale, mentre nel caso del divieto di sosta generalmente si trova sul parabrezza un preavviso, che non è previsto dal Codice della strada. Secondo questa prassi, chi non paga entro un termine di pochi giorni fissato dal corpo di polizia riceverà poi il verbale, gravato dalle spese di spedizione e di individuazione del proprietario al Pra.
Il fatto che il preavviso non fosse previsto dal Codice aveva indotto gli uffici ministeriali a non considerarlo tra le ipotesi di sconto. Ma sono state molte le pressioni politiche per un'interpretazione più elastica: il divieto di sosta è un'infrazione diffusissima, non di rado necessitata dalla situazione urbanistica e dei trasporti pubblici delle città italiane e difficilmente crea pericoli.
Quindi si è giunti a un compromesso: il chiarimento è arrivato non come circolare, ma solo sotto la meno impegnativa forma di una risposta ai quesiti giunti da tanti corpi di polizia locale, tra cui quelli di Firenze e Torino. Il dipartimento non entra nel merito giuridico della questione e si limita a constatare che, anche per motivi di semplificazione, è opportuno riconoscere lo sconto anche a chi paga avendo in mano solo un preavviso.
Ora però arrivano complicazioni per quei Comuni (pochi, per la verità) che avevano adottato la linea più formalista, negando il beneficio nel caso del preavviso. Tra questi Comuni il più importante è proprio Firenze. Il fatto che il ministero abbia in qualche modo "sdoganato" il beneficio apre la porta alle richieste di chi nei primi due mesi di applicazione della norma non si era visto riconoscere il diritto allo sconto (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2013).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: LEGGE DI STABILITÀ/ Debiti p.a., pagherà il dirigente. L'inosservanza nell'invio di fatture costa 25 al giorno. Lo prevede la bozza di decreto collegato, che è atteso in Cdm.
Per le p.a. lumaca sui debiti commerciali scaduti paga il dirigente: entro il 30.04.2014 le amministrazioni dovranno comunicare telematicamente le fatture per forniture, servizi o appalti non ancora saldate che danno luogo a interessi moratori. Responsabile dell'adempimento sarà la figura apicale dell'ente (o un suo delegato). E in caso di inosservanza questo pagherà alle casse pubbliche una sanzione di 25 euro per ogni giorno di ritardo, ferma restando la responsabilità disciplinare.

Il rafforzamento del monitoraggio dei debiti delle p.a. è previsto dalla bozza di decreto legge collegato alla manovra di stabilità 2014, che sarà esaminato nei prossimi giorni dal consiglio dei ministri.
Il dl dispone alcuni stanziamenti per fare fronte a esigenze immediate. A cominciare dal rifinanziamento della cassa integrazione in deroga (330 milioni di euro fino a fine anno) e della social card (35 milioni di euro). Ma in via sperimentale arriva anche un meccanismo di indennizzo per le imprese impegnate nella realizzazione dell'alta velocità sulla Torino-Lione che subiscono manomissioni e vandalismi a macchinari e materiali: per la quota di danni non coperta dalle polizze assicurative sarà possibile rivolgersi allo stato. Il Fondo di solidarietà civile istituito dal dl n. 187/2010 mette a disposizione fino a 5 milioni di euro. Le modalità attuative saranno stabilite con dpcm entro 30 giorni dall'entrata in vigore del dl.
Nel collegato alla legge di stabilità trovano spazio pure alcuni interventi fiscali. Uno va in soccorso del comune di Roma, alle prese con una difficile situazione di bilancio. La norma attribuisce al municipio capitolino la facoltà di incrementare l'addizionale Irpef di ulteriori 0,3 punti percentuali, rispetto all'attuale misura dello 0,9%. L'intervento legislativo si rende necessario in quanto il dlgs n. 360/1998 fissa l'aliquota massima del prelievo allo 0,8%. E il dl n. 78/2010, sul quale il collegato interviene, autorizza già una deroga a favore del Campidoglio che ha consentito di arrivare allo 0,9%.
Il dl reca poi un'altra mini-stangata tributaria sul mattone. Viene stabilita l'applicazione di un'imposta di registro minima di 1.000 euro per tutti gli atti, provvedimenti e trasferimenti in materia immobiliare. Inclusi, quindi, quelli soggetti a tassazione proporzionale che darebbero una somma inferiore a tale soglia. La novità avrà effetto a far data dall'entrata in vigore del provvedimento. La misura farà incassare all'erario 140 milioni di euro in più ogni anno (29 milioni nel 2013).
Non dovrebbe comportare aggravi, invece, la possibile manutenzione di aliquote che il governo si appresta a compiere sui prodotti da fumo. Sia le accise sui tabacchi sia l'imposta di consumo sulle sigarette elettroniche potranno essere rimodulate dal Mef, entro un range dello 0,7%, con l'obiettivo di «incidere in modo positivo sulle dinamiche dei prezzi, comunque nell'ottica di frenarne la possibile crescita e, specularmente, di evitare contrazione ulteriori sul lato della domanda». In questo caso, quindi, l'obiettivo di palazzo Chigi è mantenere il gettito del comparto e non incrementarlo. Il recente aumento dell'Iva ha fatto schizzare in alto i prezzi in maniera più che proporzionale. Con il risultato, specie in un periodo di crisi, di un'ulteriore frenata dei consumi in un mercato già in calo dall'inizio del 2013.
Il dl accelera anche sulle dismissioni pubbliche, sia in materia di partecipazioni sia di immobili. Con riguardo al primo tema, è messo a regime il comitato di esperti che deve supportare il Mef nell'elaborare la strategia di cessione delle quote statali. Con riferimento al secondo, viene snellito ulteriormente il procedimento di alienazione in blocco di fabbricati pubblici al fine di consentirne la conclusione in tempi brevi. L'elenco degli esoneri documentali già previsti viene integrato con l'attestato di prestazione energetica (la cui assenza minaccerebbe di nullità i contratti eventualmente stipulati). Peraltro, nella relazione tecnica è lo stesso governo a definire l'Ape un adempimento oneroso «sia in relazione ai costi che avrebbero dovuto essere sostenuti per l'ottenimento della certificazione energetica sia per quelli indiretti costituiti dalle risorse da impiegare per gli allineamenti catastali» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Incentivi, Ape detraibile. Sgravio sulle spese tecniche per il 55-65%. Risposta fornita dall'Enea sull'Attestato di prestazione energetica.
Sì alla detraibilità delle spese tecniche per la redazione dell'attestato di prestazione energetica. In quanto l'Ape rappresenta la misura obbligatoria per l'accesso alle detrazioni fiscali del 55%-65%.

Questa è la risposta fornita dall'Enea con la Faq 10.10.2013 n. 67.
L'Enea ricorda che con il decreto legge 04.06.2013, n. 63, coordinato con la legge di conversione 03.08.2013, n 90 (che recepisce la direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia), l'attestato di certificazione energetica è stato soppresso e sostituito dall'attestato di prestazione energetica. Pertanto, dal 04.08.2013, entrata in vigore della legge n. 90 /2013, nei casi ove esso è previsto, per accedere a questi incentivi, occorre ora redigere l'attestato di prestazione energetica.
Per ciò che attiene la metodologia di calcolo da seguire, come riporta la circolare del MiSE del 07.08.2013, «fino all'emanazione dei decreti previsti dall'art.4 del decreto legge n. 63 del 2013, si adempie alle prescrizioni di cui al decreto legge stesso redigendo l'Ape secondo le modalità di calcolo di cui al dpr 02.04.2009 n. 59, fatto salvo nelle Regioni che hanno provveduto a emanare proprie disposizioni normative in attuazione della direttiva 2002/91/Ce».
Ai soli fini dell'accesso alle detrazioni in oggetto, nei casi ove esso è previsto, si continua ad utilizzare lo stesso modulo dell'attestato di qualificazione energetica, che può essere compilato e sottoscritto anche da un tecnico abilitato coinvolto nei lavori di cui alla richiesta di detrazione, mentre il tecnico compilatore dell'attestato di prestazione energetica non deve essere coinvolto nei lavori. Il comma 1-ter dell'art. 6 del dlgs. n 192 del 2005 modificato dal dlgs. 311/2006, sottolinea l'Enea, ha stabilito che dal 01.01.2007 l'Ace di un edificio o di un'unità immobiliare è necessario per accedere agli incentivi e alle agevolazioni di qualsiasi natura finalizzati al miglioramento delle prestazioni energetiche dell'unità immobiliare, dell'edificio o degli impianti.
Inoltre, come previsto dal comma 1-bis dell'art. 11 del decreto citato, fino all'entrata in vigore (25.07.2009) delle linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici, l'attestato di qualificazione energetica ha potuto sostituire a tutti gli effetti (e quindi anche relativamente alle detrazioni fiscali del 55%, là dove richiesto), l'attestato di certificazione energetica.
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Pressing per l'eliminazione.
Il secondo tempo della battaglia per l'Ape è iniziato. Se il governo presterà fede agli impegni presi prima della pausa estiva l'Ape si appresta a essere solo un ricordo. Persa la prima occasione utile (con il decreto del fare) per eliminare la disposizione che prevede l'obbligatorietà dell'Ape a pena di nullità dei contratti di locazione e compravendita, ecco che, con l'inizio dei lavori al dl Imu in commissione finanze al senato, la partita riprende.
«Ci aspettiamo che il governo mantenga gli impegni presi durante l'estate», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente della VI commissione di palazzo Madama, Mauro Maria Marino (Pd), «i lavori al dl Imu sono l'occasione attesa per rimediare a un grosso errore commesso e ci aspettiamo che questa occasione venga sfruttata al massimo nonostante il poco tempo a disposizione del senato» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Multe, sconti ad ampio raggio. Agevolazioni anche per i preavvisi di divieto di sosta. I chiarimenti in una nota del ministero dell'interno sui pagamenti ridotti del 30%.
Chi trova la tradizionale contravvenzione rosa per divieto di sosta posizionata sotto al tergicristallo del proprio veicolo può pagare subito la multa con lo sconto del 30%. Risparmiando quindi anche le spese di notifica e di accertamento dell'infrazione collegate al seguito del procedimento sanzionatorio.

Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.).
La legge 98/2013 di conversione del dl 69 ha innestato nel codice stradale il principio del pagamento agevolato delle multe per chi decide di conciliare entro 5 giorni, ma solo nel caso di infrazioni non particolarmente gravi. Letteralmente però la disposizione fa riferimento alla contestazione o notificazione del verbale e per questo alcuni comandi dei vigili hanno deciso di non aderire allo spirito della riforma, negando agli utenti lo sconto sui preavvisi di divieto di sosta (non ancora notificati) in attesa di indicazioni centrali.
Il ministero dell'interno con la nota in commento indirizzata al comune di Torino contraddice questa interpretazione rigorosa e allarga la portata della novella anche ai tradizionali preavvisi di divieto di sosta, confermando la scelta del comando di Via Bologna. Questi atti non sono disciplinati dal codice stradale, specifica innanzitutto l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale, ma sono regolati da ciascun comando di polizia in modo autonomo e funzionale alle proprie esigenze di semplificazione in rapporto all'utenza e alla propria organizzazione.
In buona sostanza, i preavvisi di divieto di sosta sono atti bonari che esulano dalle competenze istituzionali del Viminale che «ha il compito di coordinare l'attività degli organi di polizia stradale con riferimento all'applicazione del codice della strada». Spetta quindi all'apprezzamento degli uffici o comandi di polizia gestire queste vicende precedenti all'attività di contestazione o notificazione delle multe. Ciò nonostante a parere del ministero è comunque opportuno ammettere il trasgressore al pagamento scontato anche degli avvisi bonari di divieto di sosta. Sono, infatti, evidenti le esigenze di semplificazione e di equità sostanziale.
Del resto, la maggior parte delle amministrazioni locali ha preferito applicare il beneficio anche al tradizionale preavviso di divieto di sosta. Tale scelta, conclude il parere centrale, «appare probabilmente più coerente con lo spirito della nuova disposizione che, certamente, consente di accedere al beneficio dopo la notificazione del verbale di contestazione e allo scopo di agevolare l'attività di immediata riscossione delle sanzioni amministrative, scopo che appare ugualmente evidente anche nella fase antecedente alla notificazione del verbale stesso» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITA'/ Dietrofront sul taglio del 10% dei fondi per gli straordinari.
Sugli statali stretta da 1,5 mld. Blocco dei contratti, vincoli al turnover, scompare l'Ivc.

La manovra sul personale pubblico, che vale circa un miliardo e mezzo, rappresenta uno dei punti principali del disegno di legge di stabilità.
Il testo consolidato del disegno di legge modifica non poco l'impianto delle bozze «in entrata» esaminate dal consiglio dei ministri.
Blocco della contrattazione. Si conferma indirettamente il congelamento dei contratti collettivi nazionali di lavoro, fino al 31.12.2014.
Il ddl, infatti, modifica l'articolo 9, comma 17, del dl 78/2010 convertito in legge 122/2010, senza vietare espressamente i rinnovi contrattuali per il 2014, ma affermando che per gli anni 2013 e 2014 si dà luogo alle procedure contrattuali e negoziali solo per la parte normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica. Un invito, dunque, ad attivare la nuova contrattazione collettiva, ma senza effetti sugli stipendi.
Il blocco della contrattazione economica di fatto prorogato al 31.12.2014, fin qui riservato ai soli dipendenti degli enti pubblici definiti dal dlgs 165/2001, viene esteso anche ai dipendenti degli enti identificati dall'articolo 1, comma 2, della legge 196/2009. In altre parole, il blocco varrebbe anche per la galassia di enti come società partecipate e di altra natura censiti dall'Istat, ai fini della qualificazione come amministrazioni pubbliche sul piano delle rilevazioni finanziarie.
L'intento è chiaro: estendere anche al «para-pubblico» il blocco della crescita della spesa di personale. Lo strumento, però, appare sbagliato. Infatti, le società e gli altri enti applicano contratti collettivi del settore privato, che evidentemente non possono subire alcun blocco della parte economica. Occorrerebbe modificare la norma e prevedere un divieto espresso di applicare agli enti del para-pubblico incrementi stipendiali derivanti da contratti collettivi nazionali o anche aziendali.
Indennità di vacanza contrattuale. Il blocco degli incrementi economici sarà particolarmente rigoroso, perché viene di fatto depotenziato il sistema di salvaguardia contro i ritardi nel rinnovo dei contratti.
L'indennità di vacanza contrattuale per il periodo 2010-2014 viene eliminata, senza alcuna possibilità di recupero in future sessioni negoziali.
Tagli ai fondi contrattuali. Si prolunga fino al 2014 (nella bozza iniziale era stata prevista invece la configurazione a regime) degli effetti dell'articolo 9, comma 2-bis, del dl 78/2010, che impone di tagliare i fondi della contrattazione decentrata in proporzione al costo delle cessazioni dal servizio che annualmente avvengono. Dal 2015, prevede la bozza, «le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo».
Però, tutte le risorse dei fondi contrattuali decentrati sono destinate al trattamento accessorio. Occorrerà un intervento in parlamento per specificare cosa esattamente intenda il legislatore.
Vincoli al turnover. Nelle amministrazioni statali si inaspriscono i vincoli alle assunzioni in sostituzione del personale cessato. Il turnover potrà essere coperto del 50% negli anni 2014-2015, del 60% nel 2016, dell'80% nel 2017 e solo nel 2018 del 100%.
Ovviamente, la riduzione delle possibilità assunzionali diminuisce la possibilità di stabilizzare i precari. Che, comunque, sono maggiormente presenti negli enti locali, non interessati all'inasprimento del turnover.
Straordinari. Sparita la riduzione del 10% dei fondi destinati a questo scopo nelle amministrazioni statali, resta l'interpretazione autentica a mente della quale chi lavora in turno festivo anche infrasettimanale non può ricevere compensi di straordinario. A meno che la prestazione lavorativa non superi l'ordinaria durata del turno.
Tetti agli stipendi. Divieto di superare il trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al primo presidente della Corte di cassazione, pari nell'anno 2011 a euro 293.658,95, per chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati, derivanti da rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti e con le pubbliche amministrazioni, nonché per componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle amministrazioni pubbliche. Il tetto si calcola cumulando gli incarichi che eventualmente si conducano a vario titolo con le amministrazioni interessate.
Per garantire la graduale riconduzione degli stipendi al tetto fissato, si rinvia ad un dpcm da adottare entro 90 giorni dalla vigenza della legge (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

TRIBUTI: Tassa rifiuti, resuscita la Tarsu. Decisione entro il 30/11. Resta la maggiorazione Tares. Il colpo di scena inserito nel decreto Imu pone però più di un problema applicativo.
I comuni potranno decidere di abbandonare la Tares e di continuare ad applicare anche per quest'anno il medesimo tributo o la medesima tariffa relativi alla gestione dei rifiuti urbani utilizzati nel 2012.

L'ennesimo colpo di scena nella grottesca vicenda del tributo su rifiuti e servizi introdotto dal governo Monti arriva con un emendamento alla legge di conversione del decreto Imu (dl 102/2013), approvato alla camera. In pratica, i sindaci potranno decidere di pensionare anticipatamente la Tares. Dal prossimo anno, infatti, entrerà in vigore un nuovo prelievo (il Trise), la cui disciplina sarà definita dalla legge di stabilità in discussione in questi giorni.
L'emendamento approvato a Montecitorio consente di mantenere il regime (tributario o tariffario) già applicato nel 2012. A tal fine, occorre un «provvedimento» da adottarsi entro il termine fissato per l'approvazione del bilancio di previsione, ovvero entro il 30 novembre. Tale scadenza sembra riguardare anche gli enti che hanno già licenziato il preventivo, mentre la competenza sembra essere pacificamente da attribuire ai consigli comunali. Gli unici paletti validi per tutti i comuni riguardano la maggiorazione per i servizi indivisibili, che non potrà in nessun caso essere toccata, e la predisposizione e l'invio ai contribuenti del relativo modello di pagamento (su cui, peraltro, regna l'incertezza più assoluta dopo il dissidio interpretativo fra Mef e Ifel).
Solo per chi intenda continuare ad applicare la Tarsu, è previsto un ulteriore vincolo: in tal caso, si legge nell'emendamento, «la copertura della percentuale dei costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo deve assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del comune». Tale novella si inserisce in modo assai problematico nel già caotico quadro normativo della Tares, frutto di continue modifiche e stratificazioni successive.
Accanto alla disciplina generale contenuta nel dl 201/2011, infatti, il testo vigente del dl 102 ha già introdotto una modalità alternativa che dovrebbe consentire ai comuni di staccarsi da quanto previsto dal dpr 158/1999 e rispolverare i criteri delle tariffe Tarsu, ovvero prevedere un regime misto, come già sperimentato da molti comuni che in regime di Tarsu applicavano in parte i criteri della Tia. Anche nella Tares «semplificata», peraltro, vige l'obbligo di copertura integrale dei costi (art. 5, comma 3, del dl 102).
Ora, l'emendamento introduce una terza strada, ovvero la «continuità di regime» fra l'anno in corso e il 2012: in tal caso, quindi, l'obbligo di copertura integrale dei costi dovrebbe saltare. Per questi ultimi, peraltro, si pone una questione in più: è possibile modificare la tariffe applicate lo scorso anno? La formulazione dell'emendamento sembrerebbe escluderlo, imponendo di ricorrere al gettito di altri tributi/tariffe. In senso contrario, depone, però, l'avverbio «eventualmente» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARIBonus mobili solo con spesa edile. Detrazioni. La proroga per gli arredi lega gli acquisti ai lavori di ristrutturazione.
Chi desidera beneficiare nel 2013 della detrazione Irpef del 50% per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, pagandone il relativo costo quest'anno, deve effettuare il bonifico "parlante" per la ristrutturazione del fabbricato entro il 31.12.2013, nonostante la legge di stabilità 2014 preveda la proroga fino alla fine del prossimo anno della maxi-detrazione del 50% sui lavori di ristrutturazione edilizia.
Per gli interventi di manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento conservativo, l'aumento della detrazione Irpef dal 36% al 50% (con limite di spesa passato da 48.000 euro a 96.000 euro, per singola unità immobiliare) è stato prorogato fino al 31.12.2014. Nel 2015, invece, si applicherà la percentuale del 40%, sempre con un limite di spesa di 96.000 euro, e dal 2016 si ritornerà alla percentuale a regime del 36%, con un limite di spesa di 48.000 euro. La modifica della percentuale del bonus non varia la spesa agevolata (96.000 euro, fino al 31.12.2015, e 48.000 euro successivamente), ma modifica l'importo detraibile, il quale sarà di 48.000 euro fino a fine 2014, di 38.400 euro nel 2015 e di 17.280 euro dal 2016.
Le proroghe della legge di stabilità 2014 non riguardano invece la detrazione Irpef per l'acquisto di abitazioni in fabbricati interamente interessati ad interventi di restauro e risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia, previsto dal comma 3 dell'articolo 16-bis del Tuir. Dal 2014, quindi, l'importo massimo su cui calcolare la suddetta percentuale (pari al 25% del prezzo di acquisto), ora di 96.000 euro (dal 26.06.2012), ritornerà a 48.000 euro e la detrazione si ridurrà dal 50% al 36 per cento.
Nonostante sia prevista la proroga fino al 31.12.2014 della detrazione del 50% sulle ristrutturazioni edilizie, la norma, che oggi agevola il bonus del 50% sui mobili e gli elettrodomestici, prevede che sia necessario sostenere delle spese di ristrutturazione agevolate al 50% entro la fine del 2013 (dal 26.06.2012 al 31.12.2013). Quindi, non è possibile pagare i mobili quest'anno e i lavori di ristrutturazione il prossimo anno, seppur iniziati prima dell'acquisto dell'arredo.
Nel 2013, la detrazione Irpef del 50% sui mobili e sugli elettrodomestici è possibile solo se questi vengono pagati quest'anno e se dal 26.06.2012 al 31.12.2013 (non fino al 2015) viene pagata una spesa per uno qualsiasi dei lavori dell'articolo 16-bis, Tuir, detraibili al 50 per cento. Nel 2014, invece, il pagamento degli arredi ed elettrodomestici è detraibile, solo se spetta la detrazione del 50% o del 40% per uno dei lavori dell'articolo 16-bis, comma 1, Tuir, pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2013).

ENTI LOCALI - VARICodice della strada. Nota dell'Interno. Sconto multe anche per il divieto di sosta.
Lo sconto del 30% sulle multe pagate "subito" vale anche in caso di divieto di sosta. Il beneficio, introdotto dal 21 agosto con la conversione in legge del decreto del fare (Dl 69/2013), finora era stato riconosciuto da molti Comuni anche in questo caso, ma mancava una copertura interpretativa che adesso è arrivata.

È la
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot. emanata dal dipartimento Pubblica sicurezza del ministero dell'Interno.
Non è una vera e propria circolare come quelle che il dipartimento ha già diramato proprio in agosto per chiarire molti altri aspetti dello sconto sulle multe. Volutamente era stato tralasciato quello del divieto di sosta, perché in tutti gli uffici ministeriali che si occupano di Codice della strada si valuta che la questione sia delicata: la formulazione della norma riconosce il beneficio solo in caso di pagamento entro cinque giorni dalla «contestazione» (quando si viene fermati subito) o dalla «notifica» (quando si riceve il verbale a casa).
Sono tutte situazioni in cui al trasgressore o al proprietario del veicolo viene consegnato un verbale, mentre nel caso del divieto di sosta generalmente si trova sul parabrezza un preavviso, che non è previsto dal Codice della strada. Secondo questa prassi, chi non paga entro un termine di pochi giorni fissato dal corpo di polizia riceverà poi il verbale, gravato dalle spese di spedizione e di individuazione del proprietario al Pra.
Il fatto che il preavviso non fosse previsto dal Codice aveva indotto gli uffici ministeriali a non considerarlo tra le ipotesi di sconto. Ma sono state molte le pressioni politiche per un'interpretazione più elastica: il divieto di sosta è un'infrazione diffusissima, non di rado necessitata dalla situazione urbanistica e dei trasporti pubblici delle città italiane e difficilmente crea pericoli.
Quindi si è giunti a un compromesso: il chiarimento è arrivato non come circolare, ma solo sotto la meno impegnativa forma di una risposta ai quesiti giunti da tanti corpi di polizia locale, tra cui quelli di Firenze e Torino. Il dipartimento non entra nel merito giuridico della questione e si limita a constatare che, anche per motivi di semplificazione, è opportuno riconoscere lo sconto anche a chi paga avendo in mano solo un preavviso.
Ora però arrivano complicazioni per quei Comuni (pochi, per la verità) che avevano adottato la linea più formalista, negando il beneficio nel caso del preavviso. Tra questi Comuni il più importante è proprio Firenze. Il fatto che il ministero abbia in qualche modo "sdoganato" il beneficio apre la porta alle richieste di chi nei primi due mesi di applicazione della norma non si era visto riconoscere il diritto allo sconto
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2013).

EDILIZIA PRIVATALegge di stabilità 2014: tutte le novità (articolo ItaliaOggi del 17.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: LEGGE DI STABILITÀ/Riduzione graduale dell'agevolazione sulle ristrutturazioni edilizie. Bonus, convenienza prolungata. Detrazioni del 65 e 50% applicabili anche nel 2014.
I bonus del 65 e del 50%, rispettivamente per la riqualificazione energetica e per le ristrutturazioni edilizie, troveranno applicazione fino al 31/12/2014. Prevista la successiva riduzione al 50% e al 40% a partire dall'01/01/2015.

Con alcune modifiche agli articoli 14, 15 e 16 del dl 04/06/2013 n. 63/2013 (convertito nella legge n. 90/2013), apportate dalla bozza della legge di stabilità 2014, sono state previste le proroghe per l'ecobonus e per quello sulle ristrutturazioni edilizie, con riduzione graduale fino alla messa a regime a partire dal 01.01.2016.
Le detrazioni indicate al comma 1, del novellato art. 14, dl 63/2013 si rendono applicabili anche agli interventi riguardanti le parti comuni degli edifici, di cui agli articoli 1117 e 1117-bis c.c. o che riguardino «tutte» le unità immobiliari che compongono ogni singolo condominio con la conseguenza che, anche per tali spese, spetterà la detrazione nella misura del 65%, per quelle sostenute dal 06/06/2013 fino al 30/06/2015, e del 50%, per quelle sostenute a partire dall'01/07/2015 fino al 30/6/2016. In effetti, agli interventi riguardanti le parti in comune dei condomini o per l'integralità delle unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio, l'attuale comma 2, del citato art. 14 prevede che la detrazione del 65% sia fruibile per le spese sostenute dal 06/06/2013 sino al 30/06/2014.
La detrazione sul risparmio energetico è determinata con riferimento all'entità rimasta a carico del contribuente, utilizzando il «principio di cassa» per i contribuenti non titolari di reddito d'impresa e il «principio della competenza» per quelli titolari di reddito d'impresa, ricordando che tra le varie tipologie, per ognuna delle quali si deve tenere conto di un tetto massimo, figura anche l'installazione degli impianti fotovoltaici, se destinati a fronteggiare le esigenze energetiche dell'abitazione (risoluzione n. 22/E/2013).
Tutti i bonus indicati devono essere spalmati in dieci anni per quote costanti, a prescindere dall'età posseduta dal soggetto che le sostiene, e, limitatamente alle spese destinate alla ristrutturazione edilizia, l'ammontare massimo è confermato in euro 96 mila per unità immobiliare. Restano impregiudicati i contenuti dell'articolo 16-bis, dpr 917/1986 (Tuir) e le precisazioni già fornite in passato, con particolare riferimento ai chiarimenti inseriti nella circolare dell'Agenzia delle entrate (la n. 29/E/2013).
Confermata, inoltre, la detrazione per i mobili e gli arredi, per le spese sostenute dal 06/06/2013 sino al 31/12/2014, nella percentuale conosciuta del 50%, determinata su un ammontare complessivo massimo di 10 mila euro. La detrazione è fruibile da chi esegue sugli immobili le opere di ristrutturazione a prescindere che detti acquisti (mobili e arredi) siano destinati ai locali in cui sono eseguiti i lavori. Per ottenere l'agevolazione è solo necessario che i mobili acquistati siano finalizzati all'arredamento dell'immobile oggetto di ristrutturazione, anche se detti beni sono destinati alle parti in comune (guardiole, lavatoi, sala riunione, portineria e quant'altro) se la ristrutturazione riguarda l'esecuzione di interventi edilizi su parti comuni di edifici residenziali.
In tal caso, non è possibile beneficiare di un'ulteriore detrazione per l'acquisto degli arredi se il condomino ha fruito pro-quota della detrazione per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici (classe A+ o superiore e, per i forni, classe A o superiore): l'acquisto resta sempre agevolato se l'elettrodomestico è privo di etichetta, a condizione che per questi beni non sia ancora intervenuto l'obbligo di apposizione.
Per usufruire della detrazione, fatto salvo l'acquisto dei mobili e degli arredi per i quali è stata prevista anche la possibilità di effettuare l'acquisto con carte di credito o di debito è necessario applicare la regola ormai consolidata che obbliga l'utilizzo dei cosiddetti «bonifici parlanti» (bancari e/o postali), che devono contenere la causale del versamento, il codice fiscale del soggetto che paga e il codice fiscale e/o il numero di partita Iva del beneficiario del pagamento (articolo ItaliaOggi del 17.10.2013).

VARIIl referto medico viaggia online.
Al via la consegna e il pagamento online dei referti medici. Nel rispetto della privacy, l'esito della visita o della prestazione sanitaria potrà essere ricevuto sul web o sulla casella e-mail, oppure su una chiavetta Usb o sul fascicolo sanitario elettronico. Magari preceduto da un avviso via sms e/o inoltrato al proprio medico. Il tutto in un quadro di sicurezza tecnica (obbligatorio l'uso della cifratura e di password per accedere ai file) e, soprattutto, solo se l'interessato presta un consenso ad hoc, come previsto dal codice della privacy.

È quanto prevede il Dpcm 08.08.2013, sui referti on-line, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di ieri 16.10.2013, il quale recepisce tutte le precauzioni imposte dal garante della privacy.
Il decreto definisce due aspetti: 1) le modalità con cui le Asl possono ricevere online il pagamento delle prestazioni; 2) il procedimento per la consegna dei referti medici tramite web, posta elettronica certificata e altre modalità digitali.
- REFERTI. Il referto potrà, dunque, essere consegnato tramite Fascicolo sanitario elettronico (Fse), web, posta elettronica, certificata oppure tramite supporto elettronico. Il passaggio sarà graduale: si parte con le prestazioni di laboratorio, di microbiologia e di radiologia. Sono escluse le analisi genetiche.
Ci vuole, però, l'espresso consenso informato dell'interessato. Attenzione, però, rimane sempre il diritto di ottenere copia cartacea del referto.
Il consenso deve rispettare il codice della privacy: deve essere autonomo e specifico e deve esplicitare l'adesione alle modalità digitali di consegna. Il consenso sarà revocabile in ogni momento.
L'interessato può anche indicare una farmacia presso cui ritirare il referto.
Considerata la delicatezza del trattamento e la natura dei dati sensibili le Asl devono rispettare stringenti misure di sicurezza. In particolare si devono osservare le precauzioni previste dal Garante per la privacy nel provvedimento del 19.11.2009, di «Linee guida in tema di referti online», in particolare per quanto riguarda i servizi aggiuntivi di notifica via sms e di designazione del medico al ritiro del referto.
Se si opta per la consegna via web il servizio offrirà all'interessato la possibilità di collegarsi al sito internet della azienda sanitaria per visualizzare online il referto digitale ed effettuare la copia locale (download).
Se si opta per la spedizione via e-mail il referto arriverà alla casella di posta elettronica indicata dall'interessato: sempre come allegato a un messaggio e non come testo compreso nel corpo del messaggio; inoltre si devono usare tecniche di cifratura e accessibili tramite una password per l'apertura del file consegnata separatamente all'interessato.
Altra alternativa è di ricevere il referto su memoria usb, dvd, cd, o altro, sempre con la protezione di credenziali di sicurezza (come username e password) consegnate separatamente all'interessato o in busta chiusa a un suo delegato.
Possibili anche l'avviso della consegna del referto tramite sms o messaggio di e-mail. Sarà anche possibile (come servizio aggiuntivo) l'inoltro dei referti digitali a un medico designato dall'interessato.
- PAGAMENTI ONLINE. Le Asl devono adottare le procedure telematiche per il pagamento online di esami, visite e prestazioni. Le procedure devono essere in grado di controllare le esenzioni per patologia o per reddito (articolo ItaliaOggi del 17.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOAssistenza dei disabili, congedo a maglie larghe.
Una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 203 del 18.07.2013) ha ampliato la categoria dei soggetti aventi diritto al congedo straordinario, estendendo al parente o all'affine di terzo grado, purché convivente, la possibilità di prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave, in caso di mancanza o decesso degli altri soggetti individuati dalla disposizione normativa, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti.

Lo sottolinea l'Inps nel messaggio 16570/2013.
Il giudice delle leggi ha infatti dichiarato illegittimo il comma 5 dell'art. 42 del dlgs n. 151/2001 (T.u. delle norme a tutela della maternità e paternità), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il parente o affine entro il terzo grado.
La Suprema corte, si legge nella nota, ha sostanzialmente uniformato la platea dei lavoratori che possono fruire del congedo in argomento con quelli titolari dei permessi previsti dalla legge n. 104/1992, mantenendo peraltro invariato sia l'ordine tassativo di priorità di tali soggetti (coniuge, genitore, figlio, fratello o sorella del soggetto disabile) che la necessità della convivenza col familiare in situazione di disabilità grave, requisiti non richiesti al referente unico che fruisce dei permessi previsti nella stessa legge n. 104/1992.
Il messaggio, che annuncia l'implementazione di una nuova procedura con la creazione di uno specifico archivio, fornisce tra l'altro alcune precisazioni relative all'attività part-time. Nel caso di rapporto di lavoro part-time verticale o misto, il numero delle giornate di congedo fruibile nell'arco della vita lavorativa, fissate in n. 730 (due anni), è riproporzionato in ragione della percentuale di prestazione lavorativa, come indicato dal Dipartimento della funzione pubblica con nota del 12.09.2012.
La nota conclude precisando che nel caso di part-time verticale o misto con articolazione della prestazione su alcuni giorni della settimana, verranno conteggiate a titolo di congedo straordinario soltanto le giornate in cui è prevista da contratto la prestazione lavorativa; nel caso di fruizione in modalità continuativa, saranno conteggiate a titolo di congedo anche tutti i sabati e tutte le domeniche ricadenti nel periodo nonché le eventuali festività infrasettimanali, se coincidenti con giornate in cui è dovuta la prestazione (articolo ItaliaOggi del 17.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: LEGGE DI STABILITÀ/ Risparmio energetico e recupero edilizio, bonus anche nel 2014. Prorogata anche la detrazione per i mobili.
Non verrà prorogata al 2014 la maxi-detrazione Irpef del 50% per gli acquisti delle abitazioni facenti parte di fabbricati interamente ristrutturati, per i quali quindi dal prossimo anno si ritornerà al bonus del 36% sul 25% del prezzo di acquisto. Inoltre questa spesa, oggi sufficiente per poter acquistare i mobili e gli elettrodomestici detraibili al 50%, il prossimo anno non potrà più essere utilizzata a questo fine.

Sono queste alcune delle novità previste dalla legge di stabilità 2014, approvata martedì scorso dal Consiglio dei ministri, con la quale sono state prorogate molte delle agevolazioni fiscali sui lavori in casa.
Risparmio energetico
La detrazione Irpef ed Ires del 55% (ora del 65% per le spese sostenute del 06.06.2013 al 31.12.2013) sugli interventi per il risparmio energetico degli edifici scadrebbe il 31.12.2013, ma il disegno di legge di stabilità 2014 prevede la sua proroga fino al 31.12.2014 con la percentuale del 65% e per tutto il 2015 con la percentuale ridotta del 50 per cento. Per individuare la misura del bonus da utilizzare (55-65-50%) vale la data in cui la spesa viene sostenuta, cioè, pagate per i privati o di competenza per le imprese.
Per gli interventi sul risparmio energetico le variazioni delle percentuali di detrazione dal 55% al 65% (dal 06.06.2013) e successivamente al 50% (per il 2015) non incidono sull'importo massimo della detrazione spettante, ma variano la spesa massima agevolabile (si veda la tabella a lato).
Recupero edilizio
Per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio (manutenzioni, ristrutturazioni e restauro e risanamento conservativo), l'aumento della detrazione Irpef dal 36% al 50% (con limite di spesa passato da 48.000 euro a 96.000 euro, per singola unità immobiliare), in vigore per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012, scadrebbe il prossimo 31.12.2013, ma la legge di stabilità 2014, prevede ora la sua proroga fino al 31.12.2014 (tranne che per l'acquisto di abitazioni in fabbricati interamente ristrutturati). Successivamente non si ritornerà subito alla percentuale a regime del 36%, ma si applicherà il 40% per tutto il 2015.
Mobili ed elettrodomestici
La detrazione del 50% del costo di acquisto dei mobili e dei grandi elettrodomestici, destinati ad arredare il fabbricato ristrutturato, è stata prorogata fino alla fine del 2014 dalla legge di stabilità 2014, risolvendo così il problema della mancata indicazione nella norma originaria della data di scadenza dell'incentivo.
Va prestata attenzione al fatto che quest'anno la detrazione Irpef del 50% sugli arredi e gli elettrodomestici è possibile solo se spetta la detrazione del 50% per uno qualsiasi dei lavori dell'articolo 16-bis, Tuir, pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2013 (non fino al 2015), mentre per l'acquisto (pagamento) degli arredi nel 2014 si beneficerà dell'incentivo Irpef del 50% sui mobili e gli elettrodomestici ma solo se in abbinata spetta la detrazione del 50% o del 40% per uno dei lavori dell'articolo 16-bis, comma 1, Tuir (escluso quindi il comma 3, relativo all'acquisto di abitazioni in fabbricati interamente ristrutturati), pagati dal 26.06.2012 al 31.12.2015 (articolo Il Sole 24 Ore 17.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LEGGE DI STABILITA'/ Blocco contratti anche nel 2014. Congelata l'indennità di vacanza contrattuale nella p.a.. Le disposizioni anche su straordinari e tasse per i concorsi.
Torna la proroga al 31.12.2014 del blocco dei contratti collettivi nazionali di lavoro dei dipendenti pubblici.
È il disegno di legge di stabilità per il 2014 a far tornare sui radar della normativa una disposizione che viene annunciata da circa un anno e che la scorsa estate [...] (articolo ItaliaOggi del 16.10.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n. 1775, art. 143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque.
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito della giurisdizione del giudice specializzato, circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di opere relative alle acque pubbliche.

La giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione ha precisato che sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi del R.D. 11.12.1933, n. 1775, art. 143, comma 1, lett. a), i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, pure riguardino l'utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque (cfr., Cassazione civile sez. un., 19.04.2013, n. 9534).
L'art. 143 del T.U. sulle acque ha inteso definire l'ambito della giurisdizione del giudice specializzato, circoscrivendola ai provvedimenti dell'amministrazione caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a stabilire o modificare la localizzazione di esse, o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (cfr., Cass., sez. un., 337/2003).
La giurisdizione del TSAP è contrapposta, per un verso, a quella del Tribunale Regionale delle Acque che è organo (in primo grado) della giurisdizione ordinaria, cui il precedente art. 140, lett. c) attribuisce le controversie in cui si discuta in via diretta di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a cominciare da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati alla gestione di opere idrauliche, nonché i criteri di ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla giurisdizione del complesso TAR-Consiglio di Stato ricorrente per tutte le controversie che abbiano ad oggetto atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, quali esemplificativamente quelli compresi nei procedimenti ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di opere relative alle acque pubbliche (Cass. sez. un. 14195/2005; 337/2003; 9424/1987), alle relative aggiudicazioni (Cass. 10826/1993).
La Corte di Cassazione ha poi ribadito che, in tema di diritti esclusivi di pesca, la giurisdizione riservata al tribunale superiore delle acque pubbliche dall'art. 143 r.d. n. 1175 del 1933, è limitata in base al collegamento a fattispecie tipiche qualificate dal contenuto e dalla forma dei provvedimenti impugnati, dalla procedura richiesta per la loro emanazione e dalla autorità pubblica da cui promanano, ossia alla cognizione dei ricorsi proposti contro provvedimenti di revoca o di decadenza dei diritti su acque del demanio marittimo, fluviale, lagunare e, in genere, su ogni acqua pubblica, adottati dai ministeri competenti (cfr., Cassazione civile sez. un., 05.10.2004, n. 19857) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.10.2013 n. 2418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sono vincoli preordinati all'espropriazione quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Tali quindi non sono le previsioni di un piano regolatore che destinano un'area a verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono.

Sul punto è stato chiarito che sono vincoli preordinati all'espropriazione quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio; tali quindi non sono le previsioni di un piano regolatore che destinano un'area a verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono (cfr., Consiglio di Stato sez. IV, 06.05.2013, n. 2432).
Nel caso di specie, non può dubitarsi che i provvedimenti impugnati riguardano una generalità di beni in funzione della destinazione della zona a Riserva Naturale e non svuotano di certo il diritto di proprietà, né ne diminuiscono in modo significativo il valore di scambio, ma semplicemente alterano, in maniera peraltro non incisiva, il diritto di godimento sui beni medesimi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.10.2013 n. 2417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sono correttamente da qualificarsi quali opere di ristrutturazione edilizia, e non di manutenzione straordinaria, le opere edilizie che consistono nella creazione di due mini alloggi -dotati di servizi igienici, soggiorno con zona cottura e camera da letto– e di un archivio, ricavati dalla suddivisione, mediante la costruzione di muri interni, di un’unica sala polivalente e nella realizzazione, sempre in assenza di titolo edilizio, di un nuovo ingresso al locale portineria, mediante trasformazione di una finestra in portafinestra.
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Ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, sono interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, a condizione che –oltre a non alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari- non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nel caso di specie, la trasformazione del terzo livello dell’edificio, da sala polivalente in alloggi destinati agli ospiti della struttura, configura una modifica della destinazione d'uso rilevante, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico: le opere realizzate determinano, invero, un incremento della capacità ricettiva della struttura assistenziale di due unità abitative e producono, di conseguenza, un impatto maggiore sulle opere collettive al servizio dell’immobile.
Il mutamento di destinazione d'uso della porzione dell'immobile, portando, ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, è stato, quindi, correttamente ricondotto nell'ambito della categoria della ristrutturazione edilizia, di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
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La trasformazione di una finestra in portafinestra costituisce, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, modifica del prospetto e non opera di manutenzione.
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Non può ritenersi incongruo il termine di trenta giorni concesso dall’amministrazione per provvedere al ripristino dello stato dei luoghi, trattandosi di opere di consistenza non particolarmente rilevante.

Le opere, oggetto del provvedimento impugnato, consistono nella creazione, in assenza di titolo abilitativo, di due mini alloggi -dotati di servizi igienici, soggiorno con zona cottura e camera da letto– e di un archivio, ricavati dalla suddivisione, mediante la costruzione di muri interni, di un’unica sala polivalente e nella realizzazione, sempre in assenza di titolo edilizio, di un nuovo ingresso al locale portineria, mediante trasformazione di una finestra in portafinestra.
Tali abusivi interventi edilizi sono stati correttamente qualificati quali opere di ristrutturazione edilizia e non di manutenzione straordinaria.
Ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, sono interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, a condizione che –oltre a non alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari- non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nel caso di specie, la trasformazione del terzo livello dell’edificio, da sala polivalente in alloggi destinati agli ospiti della struttura, configura una modifica della destinazione d'uso rilevante, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico: le opere realizzate determinano, invero, un incremento della capacità ricettiva della struttura assistenziale di due unità abitative e producono, di conseguenza, un impatto maggiore sulle opere collettive al servizio dell’immobile.
Il mutamento di destinazione d'uso della porzione dell'immobile, portando, ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, è stato, quindi, correttamente ricondotto nell'ambito della categoria della ristrutturazione edilizia, di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Parimenti, la trasformazione di una finestra in portafinestra costituisce, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, modifica del prospetto e non opera di manutenzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 04.10.2011, n. 5431; 30.05.2011, n. 3223; TAR Napoli Campania, sez. IV, 20.03.2012, n. 1374; Cassazione penale, sez. III, 04.12.2008, n. 834).
Legittimamente pertanto l’amministrazione ha ritenuto che le opere realizzate -in quanto intervento di ristrutturazione edilizia non consentito dallo strumento urbanistico nella zona “centro storico ed insediamenti storici del territorio” in cui ricade l’immobile- non fossero sanabili.
Il provvedimento è adeguatamente motivato, specie considerando quanto diffusamente argomentato nel parere legale del 02.04.2012, richiamato per relationem: tali atti indicano chiaramente la ragione posta a fondamento del diniego, legata alla qualificazione delle opere quale ristrutturazione edilizia ed al loro contrasto con l’art. 8 delle n.t.a.
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del provvedimento impugnato, la censura con cui viene lamentata la violazione dell’art. 10-bis, della l. n. 241/1990, anche ove fondata, non porterebbe comunque all’annullamento del provvedimento, così come previsto dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990.
Non può, poi, ritenersi incongruo il termine di trenta giorni concesso dall’amministrazione per provvedere al ripristino dello stato dei luoghi, trattandosi di opere di consistenza non particolarmente rilevante (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.10.2013 n. 2391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: All'annullamento del parere negativo della Soprintendenza espresso sulla richiesta di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per un intervento edilizio consegue il riesercizio del potere da parte della Soprintendenza medesima, non potendo lo stesso, che si estrinseca in un parere di carattere vincolante -da assimilarsi pertanto ad un potere di amministrazione attiva, di cogestione dei valori paesistici- considerarsi esauribile, al contrario del preesistente sindacato di annullamento.
Dunque, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del precedente parere negativo, il progetto avrebbe dovuto essere nuovamente sottoposto all’esame della Soprintendenza per l’espressione del parere obbligatorio e vincolante, da rendersi nel termine di legge (quarantacinque giorni) decorrente dalla conoscenza del giudicato di annullamento, salva la sollecitazione dei rimedi surrogatori e sostitutivi di cui all’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 per il caso di inutile decorso del termine.

Ai sensi dell’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004, l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire, e su di essa si pronuncia la regione, o l’ente da questa delegato, “dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”.
Nel caso di specie, con il provvedimento impugnato il comune ha ritenuto che, con l’annullamento in sede giurisdizionale del parere negativo della Soprintendenza emesso in data 16.02.2012 (cfr. la sentenza del TAR Liguria, I, 03.05.2012, n. 622 - doc. 4 delle produzioni comunali 20.08.2012), si fosse consumato per scadenza dei termini il relativo potere consultivo.
Al contrario, all'annullamento del parere negativo espresso sulla richiesta di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per un intervento edilizio consegue il riesercizio del potere da parte della Soprintendenza, non potendo lo stesso, che si estrinseca in un parere di carattere vincolante -da assimilarsi pertanto ad un potere di amministrazione attiva, di cogestione dei valori paesistici- considerarsi esauribile, al contrario del preesistente sindacato di annullamento (così TAR Campania-Napoli, VII, 11.10.2012, n. 4073; id. 06.09.2012, n. 3768).
Dunque, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del precedente parere negativo, il progetto avrebbe dovuto essere nuovamente sottoposto all’esame della Soprintendenza per l’espressione del parere obbligatorio e vincolante, da rendersi nel termine di legge (quarantacinque giorni) decorrente dalla conoscenza del giudicato di annullamento (Cons. di St., VI, 04.09.2007, n. 4632, resa con riferimento al termine perentorio di sessanta giorni di cui all'art. 159, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, allora previsto per l'esercizio del diverso potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica), salva la sollecitazione dei rimedi surrogatori e sostitutivi di cui all’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 per il caso di inutile decorso del termine.
Resta soltanto da dire che, diversamente da quanto ritenuto dal comune, la sentenza TAR Liguria, I, 03.05.2012, n. 622 non si è affatto pronunciata sulla positiva rispondenza dell’intervento di ricostruzione ai valori paesistici preesistenti, avendo annullato il parere negativo della Soprintendenza per difetto di adeguata motivazione.
Stante la mancanza della presupposta autorizzazione paesaggistica e -ancor prima– del necessario parere vincolante della Soprintendenza, il permesso di costruire in sanatoria 08.05.2012 prot. 3685 dev’essere dunque annullato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I proprietari di immobili posti in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, né è necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia.
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Il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento avviato per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.

Per ciò che concerne la contestata vicinitas e l’assenza di pregiudizio per i ricorrenti, l’eccezione appare all’evidenza pretestuosa: se in linea di fatto è incontestato come gli immobili siano distanti solo 15 metri e collocati nel medesimo contesto urbanistico territoriale, in linea di diritto costituisce jus receptum, ribadito dalla sezione e dalla prevalente giurisprudenza, che i proprietari di immobili posti in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, né è necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 3055/2013 e 2488/2013, Tar Liguria n. 34/2013).
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La sezione in materia si è già espressa ribadendo il principio a mente del quale il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento avviato per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 della l. 07.08.1990, n. 241, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante (cfr. Tar Liguria n. 1736/2009) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla legittimità che l’autorizzazione paesaggistica sia stata rilasciata dal medesimo soggetto che ha sottoscritto il permesso di costruire.
Viene dedotta la violazione dell’art. 146, comma 6, d.lgs. 42/2004, in quanto l’autorizzazione paesaggistica risulta rilasciata dal medesimo soggetto che ha sottoscritto il permesso di costruire, con conseguente commistione di valutazioni palesemente differenti da cui discende l’incompatibilità del funzionario.
Invero, in linea generale, in assenza di una specifica tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter procedimentale nonché dai diversi presupposti oggetto di esame.
Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile inferire automaticamente che la stessa persona non possa partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti valutazioni.
E’ pur vero che proprio la diversità di valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa formulazione della norma invocata, che parla di garantire la differenziazione di attività.
Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col vincolo paesaggistico.
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E’ in tale contesto che va quindi interpretata la norma invocata, la quale, in termini di indicazione programmatoria a monte, prevede che “gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”. In assenza della necessaria formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato livello tecnico-scientifico nonché la differenziazione oggettiva di valutazione e della relativa attività.
E’ evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di verificare la sussistenza nella specie delle adeguate cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica esplicazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per l’accoglimento del progetto che per il diniego.
Invero, in linea ordinaria l’esercizio del potere valutativo comunale è vincolato dal parere del Soprintendente, cosicché la questione in esame perde di particolare rilievo nel caso normale disciplinato dal comma 6 dell’art. 146. Nel caso di specie, invece, è stato esercitato il potere–dovere di cui al comma 9, in assenza del parere dell’organo statale.
In tale contesto, la disposizione invocata col motivo in esame è nata all’evidenza come norma di carattere programmatorio, il cui destinatario primario è la Regione la quale, nel valutare la tipologia di organo cui eventualmente delegare la funzione in parola, deve valutare gli elementi indicati dal legislatore; al riguardo, è possibile, come fatto in altre in altre Regioni, individuare elenchi di comuni aventi le necessarie caratteristiche, ovvero incentivare forme di associazione e cooperazione fra comuni per l’esercizio di tale funzione.
Nel caso in esame, in assenza di tali adempimenti regionali, valgono le considerazioni predette, non potendo farsi cadere a carico dei singoli comuni, in termini di illegittimità di singoli atti per mera incompatibilità soggettiva, un previsione programmatoria quale quella invocata.
Con il secondo ordine di censure, viene dedotta la violazione dell’art. 146, comma 6, d.lgs. 42/2004, in quanto l’autorizzazione paesaggistica risulta rilasciata dal medesimo soggetto che ha sottoscritto il permesso di costruire, con conseguente commistione di valutazioni palesemente differenti da cui discende l’incompatibilità del funzionario.
Invero, in linea generale, in assenza di una specifica tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter procedimentale nonché dai diversi presupposti oggetto di esame.
Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile inferire automaticamente che la stessa persona non possa partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti valutazioni.
E’ pur vero che proprio la diversità di valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa formulazione della norma invocata, che parla di garantire la differenziazione di attività. Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col vincolo paesaggistico.
E’ in tale contesto che va quindi interpretata la norma invocata, la quale, in termini di indicazione programmatoria a monte, prevede che “gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”. In assenza della necessaria formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato livello tecnico-scientifico nonché la differenziazione oggettiva di valutazione e della relativa attività.
E’ evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di verificare la sussistenza nella specie delle adeguate cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica esplicazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per l’accoglimento del progetto che per il diniego.
Invero, in linea ordinaria l’esercizio del potere valutativo comunale è vincolato dal parere del Soprintendente, cosicché la questione in esame perde di particolare rilievo nel caso normale disciplinato dal comma 6 dell’art. 146. Nel caso di specie, invece, è stato esercitato il potere–dovere di cui al comma 9, in assenza del parere dell’organo statale.
In tale contesto, la disposizione invocata col motivo in esame –come emerge dalla sua stessa formulazione- è nata all’evidenza come norma di carattere programmatorio, il cui destinatario primario è la Regione la quale, nel valutare la tipologia di organo cui eventualmente delegare la funzione in parola, deve valutare gli elementi indicati dal legislatore; al riguardo, è possibile, come fatto in altre in altre Regioni, individuare elenchi di comuni aventi le necessarie caratteristiche, ovvero incentivare forme di associazione e cooperazione fra comuni per l’esercizio di tale funzione.
Nel caso in esame, in assenza di tali adempimenti regionali, valgono le considerazioni predette, non potendo farsi cadere a carico dei singoli comuni, in termini di illegittimità di singoli atti per mera incompatibilità soggettiva, un previsione programmatoria quale quella invocata
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie (e che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del cimitero), costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità , tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di PRG, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Ciò premesso, questo Tribunale ha più volte confermato la natura assoluta del vincolo cimiteriale (Tar Liguria, I n. 815/2011; n. 704/2012) in linea peraltro con la giurisprudenza amministrativa più recente CdS IV, n. 4403/2011; sez. V n. 6671/2010).
In particolare con riferimento ad un caso analogo a quello oggi in considerazione è stato di recente affermato che: "la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie (e che deve essere misurata a partire dal muro di cinta del cimitero), costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità , tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di PRG, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienicosanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2011 n. 1645 e 27.10.2009 n. 6547; sez. V, 14.09.2010 n. 6671)" (cfr. C.d.S., sez. sez. IV, 20.07.2011, n. 4403 cit.; Tar Campania II n. 2447/2013)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sia il diniego di condono rispetto ad opere per legge non suscettibili di sanatoria, sia gli interventi repressivi degli abusi edilizi, sono espressione di un potere dell'amministrazione di natura vincolata e non discrezionale, che in quanto tale non è soggetto ad eccesso di potere, ma soltanto ad eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza.
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Per le opere abusive realizzate in area soggetta a vincolo d’inedificabilità assoluta non si può realizzare il silenzio-assenso che contrasterebbe con la previsione del legislatore che ha posto con l’art. 33 della l.n. 47/1985 un vincolo assoluto d’inedificabilità.

Infatti sia il diniego di condono rispetto ad opere per legge non suscettibili di sanatoria, sia gli interventi repressivi degli abusi edilizi, sono espressione di un potere dell'amministrazione di natura vincolata e non discrezionale, che in quanto tale non è soggetto ad eccesso di potere, ma soltanto ad eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza (in materia di ordini di demolizione, cfr. TAR Campania Salerno, sez. I, 06.12.2011, n. 1926; TAR Sicilia Catania, sez. I, 20.09.2010, n. 3763).
L’ultimo motivo, nel quale si afferma la violazione dell’art. 35, XII c., L. n. 47/1985 è infondato secondo una costante giurisprudenza che è pacifica nel ritenere che per le opere abusive realizzate in area soggetta a vincolo d’inedificabilità assoluta non si può realizzare il silenzio-assenso che contrasterebbe con la previsione del legislatore che ha posto con l’art. 33 della l.n. 47/1985 un vincolo assoluto d’inedificabilità (da ultimo Tar Umbria Pg. N. 463/2013)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALottizzazione prescritta, confisca illegittima. La corte dei diritti dell'uomo condanna l'Italia a risarcire i danni morali.
Confiscare un bene quando il reato di lottizzazione abusiva (nel caso si frazioni una o più parti di un terreno, in assenza di norme o in difformità rispetto a quelle vigenti) è prescritto è illegittimo.

A stabilirlo la Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 29.10.2013 ricorso n. 17475/2009) che ha condannato l'Italia a risarcire i danni morali per 10 mila euro, nonché patrimoniali (da concordare con lo stato) ad un imprenditore pugliese sottoposto a ben sei gradi di giudizio in un decennio.
La vicenda giudiziaria, cominciata nel 1985, riguarda la presunta lottizzazione abusiva a Cassano delle Murge (in provincia di Bari), in un'area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Ventotto anni fa l'uomo, oggi settantenne, inizia la realizzazione di un complesso residenziale di 17 edifici, composto da 4 appartamenti ciascuno, dopo avere stipulato un piano di lottizzazione approvato dal comune: però, qualche mese dopo l'apertura dei cantieri viene promulgato il decreto ministeriale che dispone per quelle zone la tutela del paesaggio, e ne conferisce la giurisdizione esclusiva all'amministrazione regionale della Puglia, che le dichiara inedificabili, in assenza di una convenzione di lottizzazione col comune approvata prima del 1990.
Tre anni dopo, ci si accorge, tuttavia, che nell'autorizzazione del 1985 era compresa anche un'area attraversata da un acquedotto, perciò se ne richiede una revisione: la variante viene ritenuta un nuovo progetto, e ne deriva, perciò, un processo per lottizzazione abusiva, mentre il complesso viene sottoposto a sequestro. Nel 1998, l'imprenditore viene condannato a 9 mesi di reclusione, ma nel 2001 la Corte di appello di Bari lo assolve «perché il fatto non sussiste», poi la Cassazione annulla con rinvio la sentenza e il processo torna in secondo grado, dove si emette una sentenza di condanna; nuovamente interpellata la Suprema corte annulla con rinvio anche tale pronunciamento.
Nel 2006, la Corte d'appello di Bari dichiara prescritto il reato di lottizzazione abusiva, ma non revoca la confisca. E, infine, adesso l'organismo Ue accoglie le richieste dell'imprenditore, perché la confisca in presenza di prescrizione «viola i principi di legalità e di tutela della proprietà privata». La difesa ha chiesto 500 mila euro di danni patrimoniali (articolo ItaliaOggi del 02.11.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell’art. 12 delle cd. preleggi, l’interpretazione logica, in base alla quale il giudice deve stabilire quale sia la reale intenzione del Legislatore alla stregua di un canone ermeneutico oggettivo, enucleando la voluntas legis (e cioè la funzione a cui la norma risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita, e non lo scopo perseguito da chi ebbe a redigerla), incontra un limite invalicabile, rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione: non a caso, infatti, il criterio teleologico viene in rilievo solo quando non sia possibile applicare con certezza il criterio letterale.
Ne discende che, ove la lettera della legge sia chiara, essa è insuperabile e preclude il ricorso a criteri ermeneutici suppletivi.

Si ricorda, sul punto, che, ai sensi dell’art. 12 delle cd. preleggi, l’interpretazione logica, in base alla quale il giudice deve stabilire quale sia la reale intenzione del Legislatore alla stregua di un canone ermeneutico oggettivo, enucleando la voluntas legis (e cioè la funzione a cui la norma risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita, e non lo scopo perseguito da chi ebbe a redigerla), incontra un limite invalicabile, rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione: non a caso, infatti, il criterio teleologico viene in rilievo solo quando non sia possibile applicare con certezza il criterio letterale (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 11.01.2012, n. 41).
Ne discende che, ove la lettera della legge sia chiara, essa è insuperabile e preclude il ricorso a criteri ermeneutici suppletivi (C.d.S., Sez. IV, 27.04.2005, n. 1948)
(TAR Lazio-Latina, sentenza 28.10.2013 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I vincoli conformativi (ad es. i vincoli di rispetto delle strade esistenti, e, in generale, i vincoli a verde di zona) si differenziano dai vincoli preordinati all’espropriazione, in quanto non svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, o diminuendone significativamente il valore di scambio: costituendo espressione della volontà conformativa del pianificatore, i vincoli di questo tipo non sono soggetti a decadenza ed hanno validità a tempo indeterminato.
A differenza del vincolo conformativo, rispondente al potere pianificatorio di razionale sistemazione del territorio in zone omogenee, il vincolo –sia esso sostanziale, o solo strumentale– preordinato all’esproprio, ovvero che comporti l’inedificabilità del suolo o, comunque, che incida in maniera significativa e per un tempo irragionevole sulla proprietà dell’interessato, è soggetto a decadenza, con conseguente assoggettamento dell’area al regime delle cd. zone bianche ex art. 4, ult. comma, della l. n. 10/1977 ed ora art. 9 del d.P.R. n. 380/2001.

Occorre rammentare, sul punto, che i vincoli conformativi (ad es. i vincoli di rispetto delle strade esistenti, e, in generale, i vincoli a verde di zona) si differenziano dai vincoli preordinati all’espropriazione, in quanto non svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, o diminuendone significativamente il valore di scambio: costituendo espressione della volontà conformativa del pianificatore, i vincoli di questo tipo non sono soggetti a decadenza ed hanno validità a tempo indeterminato (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 05.07.2011, n. 5889).
A differenza del vincolo conformativo, rispondente al potere pianificatorio di razionale sistemazione del territorio in zone omogenee, il vincolo –sia esso sostanziale, o solo strumentale– preordinato all’esproprio, ovvero che comporti l’inedificabilità del suolo o, comunque, che incida in maniera significativa e per un tempo irragionevole sulla proprietà dell’interessato, è soggetto a decadenza, con conseguente assoggettamento dell’area al regime delle cd. zone bianche ex art. 4, ult. comma, della l. n. 10/1977 ed ora art. 9 del d.P.R. n. 380/2001 (cfr. C.d.S., Sez. V, 28.12.2007, n. 6741)
(TAR Lazio-Latina, sentenza 28.10.2013 n. 810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di rilascio del permesso di costruire non ha consentito alla ricorrente di offrire alla P.A. quegli elementi, poi allegati in sede giudiziale, che avrebbero dovuto, invece, essere presi in esame dalla P.A. stessa ai fini della completezza dell’istruttoria svolta e dell’assunzione delle determinazioni più congrue.
Invero, sul punto, l’art. 10-bis della l. n. 241/1990, nel disciplinare l’istituto del cd. preavviso di rigetto, ha lo scopo di far conoscere alle Amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da queste assunte in base agli esiti dell’istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e giuridiche) dell’interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo.
Conseguentemente, è illegittimo il notificato diniego comunale sulla presentata istanza di permesso di costruire.

... per l’annullamento del provvedimento del Comune di S. Felice Circeo prot. n. 21992 del 07.09.2010, notificato in data 11.09.2010 (determinazione d’esame n. 101/10), con cui è stata rigettata la domanda di permesso di costruire inoltrata dalla ricorrente in data 15.12.2008 per la costruzione di un fabbricato, da adibire a civile abitazione, su un terreno sito in via Del Colle;
...
- Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., in virtù della manifesta fondatezza del ricorso ed in specie per la manifesta fondatezza della censura avente ad oggetto la violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990;
- Considerato, sul punto, che il diniego gravato attestava l’invio alla sig.ra Sperduti della nota prot. n. 1185 del 16.01.2009, recante comunicazione di avvio del procedimento “ai sensi degli artt. 7 e 10-bis della L. 241/1990” e che però detta nota, acquisita in esito all’istruttoria disposta dal Collegio con ordinanza n. 267/2013 (v. all. 6 alla nota del Comune di S. Felice Circeo prot. n. 12849 del 21.06.2013), integra comunicazione di avvio del procedimento, ma non certo preavviso di rigetto ex art. 10-bis cit.;
- Osservato, perciò, che l’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di rilascio del permesso di costruire non ha consentito alla ricorrente di offrire alla P.A. quegli elementi, poi allegati in sede giudiziale (in particolare, lo stato di urbanizzazione della zona e la sussistenza di altri insediamenti edilizi), che avrebbero dovuto, invece, essere presi in esame dalla P.A. stessa ai fini della completezza dell’istruttoria svolta e dell’assunzione delle determinazioni più congrue;
- Considerato, infatti, sul punto, che l’art. 10-bis della l. n. 241/1990, nel disciplinare l’istituto del cd. preavviso di rigetto, ha lo scopo di far conoscere alle Amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da queste assunte in base agli esiti dell’istruttoria espletata, quelle ragioni (fattuali e giuridiche) dell’interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo (C.d.S., Sez. VI, 06.08.2013, n. 4111);
- Considerate, inoltre, insussistenti le condizioni per applicare alla vicenda in esame l’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, anche alla luce delle osservazioni contenute nella perizia di parte (e che avrebbero potuto essere prodotte in sede procedimentale, se fosse stato adempiuto l’obbligo ex art. 10-bis della l. n. 241 cit.) circa la saturazione dei lotti liberi limitrofi e la realizzazione di nuove edificazioni nel 2012;
- Ritenuto, infine, che in contrario non possa invocarsi –come pretende il Comune– la pronuncia di segno opposto contenuta nell’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 145/2013 del 18.04.2013, sia per la diversità delle censure dedotte, sia perché viene asserita, ma non dimostrata la coincidenza delle aree interessate, sia, soprattutto, per essere stata la suddetta ordinanza emessa a seguito di una delibazione (necessariamente) solo sommaria;
- Ritenuto, alla luce di quanto si è detto, di dover pronunciare sentenza di accoglimento del ricorso, in virtù della fondatezza della dedotta censura di violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 e con assorbimento di tutte le ulteriori censure, e di dovere, per conseguenza, disporre l’annullamento del diniego con esso impugnato (TAR Lazio-Latina, sentenza 28.10.2013 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nell’ambito del sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica, nonché ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, il termine per l’impugnazione degli strumenti urbanistici decorre non già dalla notifica ai singoli proprietari interessati dalla disciplina del territorio, bensì dall’ultimo giorno della pubblicazione all’Albo pretorio dell’avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato.
Ed invero, la pubblicazione ex art. 124 cit. comporta, per i soggetti non contemplati negli atti o a cui gli atti stessi siano in ogni caso riferibili, presunzione di conoscenza, con il corollario che è dall’ultimo giorno di pubblicazione che decorre per i terzi interessati il termine decadenziale di n. 60 giorni per proporre impugnazione avverso gli atti in questione.
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In via generale gli atti di pianificazione, stante il loro carattere di atti generali, non si debbono considerare soggetti a comunicazione individuale.
Tuttavia, in materia urbanistica, la giurisprudenza prima richiamata ha osservato come la regola circa il decorso del termine decadenziale di impugnazione dall’ultimo giorno della pubblicazione dell’atto all’Albo pretorio del Comune, ex art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, non trovi applicazione qualora lo strumento urbanistico incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su singoli, determinati beni: in tal caso, infatti, il menzionato termine decorre dalla notifica individuale al singolo proprietario interessato.

Da quanto osservato si desume l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’insegnamento della giurisprudenza, per cui nell’ambito del sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica, nonché ai sensi dell’art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, il termine per l’impugnazione degli strumenti urbanistici decorre non già dalla notifica ai singoli proprietari interessati dalla disciplina del territorio, bensì dall’ultimo giorno della pubblicazione all’Albo pretorio dell’avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 13.07.2010, n. 4045; id., 12.06.2009, n. 3730).
Ed invero, la pubblicazione ex art. 124 cit. comporta, per i soggetti non contemplati negli atti o a cui gli atti stessi siano in ogni caso riferibili, presunzione di conoscenza, con il corollario che è dall’ultimo giorno di pubblicazione che decorre per i terzi interessati il termine decadenziale di n. 60 giorni per proporre impugnazione avverso gli atti in questione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 07.05.2004, n. 2825; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 31.12.2009, n. 1488).
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In via generale gli atti di pianificazione, stante il loro carattere di atti generali, non si debbono considerare soggetti a comunicazione individuale (cfr. C.d.S., Sez. V, 21.06.007, n. 3389). Tuttavia, in materia urbanistica, la giurisprudenza prima richiamata ha osservato come la regola circa il decorso del termine decadenziale di impugnazione dall’ultimo giorno della pubblicazione dell’atto all’Albo pretorio del Comune, ex art. 124 del d.lgs. n. 267/2000, non trovi applicazione qualora lo strumento urbanistico incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su singoli, determinati beni: in tal caso, infatti, il menzionato termine decorre dalla notifica individuale al singolo proprietario interessato (C.d.S., Sez. IV, n. 4045/2010, cit. e n. 3730/2009, cit.) (TAR Lazio-Latina, sentenza 28.10.2013 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Shopping center sempre con la «Via». Corte costituzionale. Per il Veneto niente valutazione per i centri inferiori a 8mila metri quadrati.
La valutazione di impatto ambientale va fatta anche sui centri commerciali di medie dimensioni. E la regione non può dribblare l'obbligo con una legge che rende la Via obbligatoria solo per le grandi strutture.
La Corte costituzionale, con la sentenza 28.10.2013 n. 251 redatta dal giudice Marta Cartabia e depositata ieri, ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'articolo 22 della legge regionale 50/2012. Una norma con cui il Veneto si è allontanato dai criteri fissati dallo Stato, nel prevedere la Via per le strutture che hanno una superficie di vendita superiore a 8mila metri quadrati e la procedura di verifica o lo screenig per quelle che vanno dai 2.501 agli 8mila.
Il legislatore regionale impone dunque esplicitamente la Valutazione di impatto ambientale o la verifica all'assoggettabilità alla Via, solo per le costruzioni che superano i 2.500 metri quadrati, "disobbedendo" così al legislatore statale (Dlgs 152/2006) che impone le stesse procedure per qualunque centro commerciale. Lo scollamento con il decreto legislativo c'è anche riguardo alle definizioni.
La norma statale considera centri commerciali «le strutture di vendita di medie e grandi dimensioni, nelle quali più esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente».
La regione Veneto ha considerato invece solo la grandezza dei grandi impianti destinati alla vendita senza dare rilevo alla caratteristica della pluralità di esercizi presenti in un medesimo spazio.
Secondo la Consulta la disposizione impugnata, sotto questo aspetto, è più ampia perché comprende anche i grandi locali che sfuggono alla definizione di centro commerciale, è però più restrittiva per la parte in cui lascia sfuggire alle verifiche di compatibilità ambientale gli shopping center di medie dimensioni.
I giudici costituzionali ricordano che con le sentenze 221 del 2010 e 234 del 2009 è stato sgombrato il campo da ogni dubbio sulla competenza esclusiva dello Stato nella tutela dell'ambiente in cui rientra la disciplina della Via.
Per questo, facendo a modo suo, la regione Veneto ha violato l'articolo 117 della Carta che assegna allo Stato il compito di legiferare in tema di ambiente e di ecosistema
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: La Via vale per i centri commerciali, non per le grandi strutture di vendita. La corte costituzionale su una legge del veneto.
Se è assoggettata a Via la realizzazione di un centro commerciale, non per questo analoga procedura deve essere rispettata per le grandi strutture commerciali che centri commerciali non sono. Insomma, la regione Veneto avrebbe voluto rimediare ad un errore del legislatore nazionale ma la Corte costituzionale non glielo consente. Ciò in quanto la materia relativa alla tutela dell'ambiente è di esclusiva competenza dello stato.

È questo, in sostanza, il nocciolo della questione contenuto nella
sentenza 28.10.2013 n. 251 della Corte Costituzionale e che ha fatto seguito all'impugnativa del Governo della legge regionale veneta 50/2012.
Ciò in quanto altre due questioni che trattavano, invece, i procedimenti di competenza del Suap e la procedura di variante mediante conferenza di servizi sono state dichiarate infondate. In pratica, la Regione Veneto aveva ritenuto un paradosso il fatto che l'allegato IV alla Parte II, punto 7, lettera b), del dlgs n. 152 del 2006, assoggetti a screening la costruzione di centri commerciali previsti dal dlgs 114/1998 a prescindere dalla loro dimensione.
Perché ciò condurrebbe a ritenere che qualsiasi struttura qualificabile come centro commerciale sia da sottoporre necessariamente alla valutazione a prescindere dalla dimensione dell'insediamento, con l'esito di obbligare alla procedura di screening anche accostamenti di esercizi commerciali di dimensioni molto contenute, laddove grandi strutture di vendita, anche molto grandi ma non qualificabili come centri commerciali ai sensi della disciplina statale, non sarebbero soggette ad analoga procedura.
Da ciò la scelta del legislatore regionale di prevedere esplicitamente la Via o la verifica di assoggettabilità a Via per le «grandi strutture di vendita», che comprendono quindi anche i centri commerciali, aventi superficie superiore ai 2.500 metri quadrati, ed escludere quindi la verifica per le opere che «grandi strutture di vendita» non sono anche se strutturate con la modalità di centro commerciale.
Ma, secondo il giudice delle leggi, riferirsi a categoria diversa da quella utilizzata dal legislatore statale, anche se per alcuni aspetti essa è più ampia, perché al suo interno annovera anche le strutture che non possono essere definite centri commerciali, non è consentito, perché in tal modo sarebbero esclusi i centri commerciali minori per i quali, invece, il legislatore nazionale ha imposto la verifica (articolo ItaliaOggi del 29.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’amministrazione, ove non si ritenga competente ad evadere la pratica oggetto d’istanza di un cittadino, è tenuta ad inviarla all’ufficio competente, tenendo informato di ciò il richiedente e, laddove previsto, anche a fornire all’amministrazione competente il proprio contributo istruttorio.
Tale principio è normativamente sancito dall’art. 2 comma 3 D.P.R. n. 1199 del 1971 in materia di ricorsi gerarchici, ma è applicabile ad ogni istanza presentata alla P.A..
Peraltro, in ossequio a canoni di buona amministrazione e di leale collaborazione con il cittadino, l’amministrazione, prima di affermare la propria incompetenza, è tenuta a procedere ad una riqualificazione ex officio della domanda, nel caso in cui sia palese che l’interesse sostanziale e il bene della vita perseguiti dal cittadino siano tutelabili proprio attraverso provvedimenti di competenza dell’amministrazione effettivamente evocata, al di là di eventuali imprecisioni formali dell’istanza presentata dell’interessato che potrebbero indurre a ritenere –ma solo in apparenza e solo in conseguenza di dette imprecisioni formali– la competenza di una diversa Amministrazione o, come nel caso di specie, di un diverso organo della stessa Amministrazione.

Costituisce principio generale del vigente procedimento amministrativo che l’amministrazione, ove non si ritenga competente ad evadere la pratica oggetto d’istanza di un cittadino, è tenuta ad inviarla all’ufficio competente, tenendo informato di ciò il richiedente e, laddove previsto, anche a fornire all’amministrazione competente il proprio contributo istruttorio (TAR Marche, sez. I, 04.04.2013, n. 269; Cass. Civ. sez. trib. 27.02.2009, n. 4773).
Tale principio è normativamente sancito dall’art. 2 comma 3 D.P.R. n. 1199 del 1971 in materia di ricorsi gerarchici, ma è applicabile ad ogni istanza presentata alla P.A. (TAR Catania, sez. I, 22.09.2009, n. 1554).
Peraltro, in ossequio a canoni di buona amministrazione e di leale collaborazione con il cittadino, l’amministrazione, prima di affermare la propria incompetenza, è tenuta a procedere ad una riqualificazione ex officio della domanda, nel caso in cui sia palese che l’interesse sostanziale e il bene della vita perseguiti dal cittadino siano tutelabili proprio attraverso provvedimenti di competenza dell’amministrazione effettivamente evocata, al di là di eventuali imprecisioni formali dell’istanza presentata dell’interessato che potrebbero indurre a ritenere –ma solo in apparenza e solo in conseguenza di dette imprecisioni formali– la competenza di una diversa Amministrazione o, come nel caso di specie, di un diverso organo della stessa Amministrazione (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 1136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La struttura che si intende realizzare, una volta ricoperta con i pannelli fotovoltaici, crea una superficie coperta di oltre 84 mq. che, avendo una altezza minima non inferiore a circa 2,30 mt., (quanto alla struttura più bassa: 2,44 mt. è invece l’altezza minima della struttura più elevata) risulta assolutamente fruibile, ad esempio quale spazio per il ricovero di arredi da giardino, di automezzi o per altri utilizzi.
Pertanto, oltre che fungere da struttura portante dei pannelli fotovoltaici, la struttura in questione possiede oggettivamente anche le funzionalità tipiche delle tettoie, che per costante giurisprudenza vanno annoverate tra le nuove costruzioni soggette a preventivo rilascio di permesso di costruire, ad eccezione dei casi in cui, inserendosi nella sagoma di un edificio preesistente, esse svolgano una funzione di mero riparo ed abbiano limitatissime dimensioni: le strutture che qui vengono in considerazione non si inseriscono nella sagoma del fabbricato preesistente, vengono realizzate ex novo e posseggono dimensioni del tutto significative, e pertanto, integrano a tutti gli effetti una nuova costruzione soggetta a permesso di costruire.
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Le opere necessarie per la posa di pannelli fotovoltaici non possono sempre ed automaticamente considerarsi alla stregua di un impianto tecnologico: non quando la struttura dia luogo, complessivamente considerata, ad un manufatto che in potenza sia suscettibile di un utilizzo diverso da quello connesso alla produzione di energia.
Un pannello fotovoltaico ancorato alla falda di un tetto, ad un muro o al suolo all’evidenza non può avere alcun diverso utilizzo, e quindi tutte le opere necessarie per la relativa posa e funzionamento possono qualificarsi come impianti; ma quando il pannello -come nel caso di specie– di fatto svolge, esso stesso, un ruolo di copertura, andrà considerato anche come tale, allo stesso modo in cui un locale caldaia di dimensioni sovrabbondanti, rispetto a quelle strettamente necessarie per il ricovero della caldaia, non può considerarsi un mero locale tecnico.
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La soluzione proposta tende dunque a by-passare l’impossibilità di realizzare nuove costruzioni, ma di fatto vede i pannelli fotovoltaici svolgere anche una funzione di copertura in vista di salvaguardare la fruibilità dello spazio sottostante, e da tale constatazione discende che la struttura in argomento deve essere assimilata, nel complesso, ad una nuova tipologia di tettoia.

... per l'annullamento del provvedimento del Responsabile dello Sportello Unico, prot. n. 6970/2477 del 01.10.2007, con cui si ordina di non effettuare l'intervento di cui alla D.I.A. presentata dalla ricorrente per la realizzazione di impianto fotovoltaico;
...
Invero la struttura che parte ricorrente intende realizzare, una volta ricoperta con i pannelli fotovoltaici, crea una superficie coperta di oltre 84 mq. che, avendo una altezza minima non inferiore a circa 2,30 mt., (quanto alla struttura più bassa: 2,44 mt. è invece l’altezza minima della struttura più elevata) risulta assolutamente fruibile, ad esempio quale spazio per il ricovero di arredi da giardino, di automezzi o per altri utilizzi.
Pertanto, oltre che fungere da struttura portante dei pannelli fotovoltaici, la struttura in questione possiede oggettivamente anche le funzionalità tipiche delle tettoie, che per costante giurisprudenza vanno annoverate tra le nuove costruzioni soggette a preventivo rilascio di permesso di costruire, ad eccezione dei casi in cui, inserendosi nella sagoma di un edificio preesistente, esse svolgano una funzione di mero riparo ed abbiano limitatissime dimensioni (ex multis: C.d.S. sez. V n. 3952 del 23/07/2013; TAR Campania-Napoli sez II. N. 3647 del 12.07.2013): le strutture che qui vengono in considerazione non si inseriscono nella sagoma del fabbricato preesistente, vengono realizzate ex novo e posseggono dimensioni del tutto significative, e pertanto, integrano a tutti gli effetti una nuova costruzione soggetta a permesso di costruire.
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Va conclusivamente sottolineato che le opere necessarie per la posa di pannelli fotovoltaici non possono sempre ed automaticamente considerarsi alla stregua di un impianto tecnologico: non quando la struttura dia luogo, complessivamente considerata, ad un manufatto che in potenza sia suscettibile di un utilizzo diverso da quello connesso alla produzione di energia.
Un pannello fotovoltaico ancorato alla falda di un tetto, ad un muro o al suolo all’evidenza non può avere alcun diverso utilizzo, e quindi tutte le opere necessarie per la relativa posa e funzionamento possono qualificarsi come impianti; ma quando il pannello -come nel caso di specie– di fatto svolge, esso stesso, un ruolo di copertura, andrà considerato anche come tale, allo stesso modo in cui un locale caldaia di dimensioni sovrabbondanti, rispetto a quelle strettamente necessarie per il ricovero della caldaia, non può considerarsi un mero locale tecnico.
Se parte ricorrente avesse previsto di ancorare i pannelli direttamente al piano di calpestio del cortile la valutazione sarebbe stata differente, ma è agevole osservare che una tale soluzione avrebbe diminuito la superficie utile del cortile di circa 84 mq., risultato che evidentemente parte ricorrente intendeva evitare: da qui la necessità di posarli “in sospensione” al fine di non perdere la fruibilità dello spazio sottostante. La soluzione normale sarebbe stata quella di realizzare una normale tettoia dotata di propria copertura, sulla quale posare i pannelli, che probabilmente avrebbe anche avuto costi molto più contenuti di una sofisticata struttura in metallo, ma è evidente che tale soluzione passava attraverso l’assenso alla realizzazione della tettoia di supporto, che si sapeva non essere ammessa dalle Norme Tecniche di Attuazione.
La soluzione proposta tende dunque a by-passare l’impossibilità di realizzare nuove costruzioni, ma di fatto vede i pannelli fotovoltaici svolgere anche una funzione di copertura in vista di salvaguardare la fruibilità dello spazio sottostante, e da tale constatazione discende che la struttura in argomento deve essere assimilata, nel complesso, ad una nuova tipologia di tettoia
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per l'esercizio del potere inibitorio di cui all’art. 23 del T.U. sull’Edilizia (ndr: 30 gg.) è perentorio, ma anche dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un potere residuale di autotutela.
Tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio.

Come ha chiarito di recente l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 29.07.2011, n. 15) il termine per l'esercizio del potere inibitorio di cui all’art. 23 del T.U. sull’Edilizia è perentorio, ma anche dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un potere residuale di autotutela.
Tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio (Cons. St., ad. plen., 29.07.2011 n. 15
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I lavori edilizi consistenti nella demolizione e ricostruzione di tutti i tramezzi interni e nella sostituzione di tutti gli impianti con una distribuzione dei locali diversa da quella preesistente rientrano nell'ambito della "ristrutturazione edilizia".
Nel caso di specie, i lavori denunciati e poi eseguiti dalla ricorrente sono consistiti nella demolizione e ricostruzione di tutti i tramezzi interni e nella sostituzione di tutti gli impianti con una distribuzione dei locali diversa da quella preesistente (come si legge nella motivazione del secondo dei due provvedimenti impugnati).
Escluso, per evidenti motivi, che i predetti lavori configurino interventi di manutenzione ordinaria, ritiene il collegio gli stessi non possano essere configurati neppure come recupero, risanamento o manutenzione straordinaria: infatti, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il solo profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia (TAR Piemonte, sez. I, 12.07.2013, n. 889)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gli accordi di programma, in quanto integrativi ovvero sostitutivi di provvedimenti, in ispecie di piani urbanistici, rappresentano una sottocategoria degli accordi di cui all’art. 11 della l. 241/1990, e quindi sono soggetti ai principi di cui al codice civile.
In applicazione di tali principi, la logica porta allora a dire che gli atti con i quali i vari soggetti, pubblici o privati, manifestano la loro volontà in ordine ad un auspicato accordo di programma sono atti non autoritativi, e quindi non provvedi mentali, in tutto e per tutto assimilabili agli atti di una trattativa contrattuale.
In tal senso conducono due argomenti. In primo luogo, costante giurisprudenza afferma la natura non provvedimentale –e quindi ne esclude l’autonoma impugnabilità- degli atti di sottoscrizione dell’accordo stesso da parte dei legali rappresentanti delle amministrazioni paciscenti, sul rilievo per cui sino a ratifica dell’organo consiliare l’accordo non si perfeziona. In base al rilievo logico, prima che giuridico, per cui il più comprende il meno, va riconosciuta identica natura non provvedimentale ad atti in cui non si accetta ancora il contenuto del futuro accordo, ma si discute ancora se e come confezionarlo.
Inoltre, non si potrebbe obiettare che la natura di provvedimento autonomamente impugnabile è propria dell’accordo stesso, poiché esso è intrinsecamente diverso dagli atti che portano a concluderlo: negli stessi termini, non si dubita che non siano provvedimenti, e quindi non siano impugnabili, gli atti del procedimento che il provvedimento produce.
Pertanto, la nota del Sindaco e la deliberazione consiliare qui impugnate, che esprimono sostanzialmente un sopravvenuto disinteresse a perfezionare l’accordo, vanno qualificati come atti di natura privatistica e non provvedimentale, di recesso da una trattativa, e le relative domande di annullamento vanno dichiarate inammissibili.

... per l’annullamento ... della nota 15.07.2010 prot. n. 9970, ricevuta il 19.07.2010, con la quale il Sindaco del Comune di Sorisole ha comunicato alla Val San Martino S.r.l. che l’amministrazione comunale ritiene di non condividere quanto oggetto della proposta di accordo di programma di cui alla deliberazione della Giunta comunale 18.12.2008 n. 138 e di non voler proseguire il relativo iter, chiedendo di essere esclusa dalla relativa proposta;
...
Va condiviso quanto affermato anche di recente in giurisprudenza, per tutte da C.d.S. sez. IV 25.06.2013 n. 3458, ovvero che gli accordi di programma, in quanto integrativi ovvero sostitutivi di provvedimenti, in ispecie di piani urbanistici, rappresentano una sottocategoria degli accordi di cui all’art. 11 della l. 241/1990, e quindi sono soggetti ai principi di cui al codice civile. In applicazione di tali principi, la logica porta allora a dire che gli atti con i quali i vari soggetti, pubblici o privati, manifestano la loro volontà in ordine ad un auspicato accordo di programma sono atti non autoritativi, e quindi non provvedi mentali, in tutto e per tutto assimilabili agli atti di una trattativa contrattuale.
In tal senso conducono due argomenti. In primo luogo, costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 21.11.2005 n. 6467, afferma la natura non provvedimentale –e quindi ne esclude l’autonoma impugnabilità- degli atti di sottoscrizione dell’accordo stesso da parte dei legali rappresentanti delle amministrazioni paciscenti, sul rilievo per cui sino a ratifica dell’organo consiliare l’accordo non si perfeziona. In base al rilievo logico, prima che giuridico, per cui il più comprende il meno, va riconosciuta identica natura non provvedimentale ad atti in cui non si accetta ancora il contenuto del futuro accordo, ma si discute ancora se e come confezionarlo.
Inoltre, non si potrebbe obiettare che la natura di provvedimento autonomamente impugnabile è propria dell’accordo stesso, poiché esso è intrinsecamente diverso dagli atti che portano a concluderlo: negli stessi termini, non si dubita che non siano provvedimenti, e quindi non siano impugnabili, gli atti del procedimento che il provvedimento produce.
Pertanto, la nota del Sindaco e la deliberazione consiliare qui impugnate, che esprimono sostanzialmente un sopravvenuto disinteresse a perfezionare l’accordo, vanno qualificati come atti di natura privatistica e non provvedimentale, di recesso da una trattativa, e le relative domande di annullamento vanno dichiarate inammissibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza amministrativa accorda la legittimazione all’immediata impugnativa di un regolamento –per definizione atto generale ad astratto- solo a particolari categorie di soggetti, segnatamente a coloro i quali siano autorizzati a svolgere una certa attività, in concreto avente alcune caratteristiche, e la vedano dal regolamento in parola diversamente disciplinata.
In termini non dissimili, accorda poi la legittimazione anche a coloro i quali facciano parte di una data categoria di giuridico rilievo, nella specie i partecipanti ad un concorso, sulla cui situazione il regolamento incide.
In proposito, va anche ricordato l’altro principio generale proprio con riguardo ad un regolamento, per cui l’interesse a impugnare sussiste solo a fronte di una diretta ed attuale lesione della propria sfera giuridica.

... che il ricorso principale, rivolto avverso un atto regolamentare, va dichiarato inammissibile.
Come è noto, il nostro ordinamento accorda la tutela giurisdizionale amministrativa solo a quei soggetti i quali, in relazione all’atto impugnato, siano titolari di un interesse differenziato e qualificato, diverso quindi da quello di cui è titolare il comune cittadino.
Pertanto, la giurisprudenza amministrativa accorda la legittimazione all’immediata impugnativa di un regolamento –per definizione atto generale ad astratto- solo a particolari categorie di soggetti, segnatamente a coloro i quali siano autorizzati a svolgere una certa attività, in concreto avente alcune caratteristiche, e la vedano dal regolamento in parola diversamente disciplinata: così C.d.S. sez. VI 16.02.2002 n. 961, nella giurisprudenza della Sezione Sez. II 04.10.2010 n. 3730 e di recente sez. I 17.06.2013 n. 584; in termini non dissimili, accorda poi la legittimazione anche a coloro i quali facciano parte di una data categoria di giuridico rilievo, nella specie i partecipanti ad un concorso, sulla cui situazione il regolamento incide: così C.d.S. sez. VI 18.12.2007 n. 6535.
Nessuna di tali fattispecie qui ricorre, dato che i ricorrenti sono privati cittadini i quali non risultano svolgere alcuna attività autorizzata o comunque differenziata dall’ordinamento che rilevi in rapporto alle norme regolamentari denunziate, tale non essendo l’attività di cultori dell’ornitologia, che rientra nell’ampio novero delle lecite e commendevoli attività di interesse scientifico e culturale cui ciascuno può dedicare il proprio tempo, senza ovviamente necessità di assensi o autorizzazioni di sorta da parte dei pubblici poteri.
In proposito, va anche ricordato l’altro principio generale, espresso per tutte da C.d.S. sez. VI 08.04.2011 n. 2184 proprio con riguardo ad un regolamento, per cui l’interesse a impugnare sussiste solo a fronte di una diretta ed attuale lesione della propria sfera giuridica. Solo apparentemente contrari sono i precedenti citati dai ricorrenti nell’articolata loro memoria 31.07.2013. Essi riguardano o casi in cui il ricorso era stato in realtà dichiarato inammissibile proprio per carenza di interesse (TAR Toscana sez. II 07.11.2003 n. 5706, confermata in appello da C.d.S. sez. IV 22.06.2006 n. 3947), o casi in cui, secondo la motivazione, non sarebbe stato in realtà spazio alcuno per provvedimenti applicativi (C.d.S. sez. IV 17.04.2002 n. 2032), o casi in cui la questione viene solo delibata (ord. di rimessione alla Corte costituzionale TAR Lazio Roma sez. I 12.04.2011 n. 3202), ovvero infine casi in cui il ricorrente agiva a difesa di una propria attività in senso ampio previamente assentita dall’amministrazione, quella di concessionario di pubblico servizio, nella specie di distribuzione dell’elettricità, per ciò tenuto a collocare condutture nel suolo pubblico (TAR Lombardia Brescia sez. I 15.01.2010 n. 29, Milano sez. I 24.04.2012 n. 1203 e sez. II 17.06.2009 n. 4064), ovvero quella di concessionario di area pubblica, su cui si voleva imporre un tributo con effetto anche sui rapporti in essere (TAR Puglia Bari sez. I 21.10.2010 n. 3736), ovvero ancora di soggetto autorizzato a far atterrare un elicottero in area protetta (C.d.S. sez. VI 18.03.2003 n. 1414).
E’ solo per completezza che si ricorda come i principi appena esposti non comportino alcun vuoto di tutela, atteso che le norme regolamentari qui impugnate potranno essere oggetto di pieno sindacato giurisdizionale là dove rilevino quale presupposto di un atto applicativo di carattere sanzionatorio, impugnabile nella sede competente, di norma avanti il G.O. cui spetta in tal caso il potere di disapplicazione, atto che peraltro nel periodo di pendenza del processo non risulta nemmeno adombrato (v. lettera Segretario comunale Offanengo 18.03.2013 dep. il giorno successivo) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.10.2013 n. 906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Con riferimento al procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla stazione appaltante solo sotto lo stretto profilo della logicità e della congruità dell'istruttoria, senza poter operare autonomamente alcuna verifica della congruità dell'offerta presentata e delle singole voci atteso che, così facendo, invaderebbe una sfera propria della Pubblica amministrazione, connotata dall'esercizio di discrezionalità tecnica.
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In casi come quello in esame, ci si trova di fronte a due diverse prospettazioni della “realtà” dell’offerta, ove la Stazione Appaltante dipinge un quadro che presenta un’offerta lacunosa e inattendibile e dove, al contrario, la concorrente, attraverso le controdeduzioni e il presente ricorso dipinge un’offerta perfettamente congrua e attendibile, che sarebbe semplicemente oggetto di una sorta di “caccia all’errore” da parte della Stazione appaltante.
In casi come questi, va ricordato qual è il compito del giudice amministrativo. Infatti, va verificato se sono presenti profili sintomatici di eccesso di potere per illogicità o travisamento delle risultanze istruttorie del procedimento, o se si rimanga sulla soglia di una contrapposta versione dell'interessata, opinabile al pari del giudizio tecnico-discrezionale formulato dalla Commissione, tale dunque da non consentire il sindacato del giudice amministrativo, secondo il costante insegnamento espresso al riguardo.
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In materia di giudizio dell'anomalia dell'offerta si ritiene necessaria una motivazione approfondita quando la stazione appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile.
L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa, in quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità dell'offerta.
Ancora, sul tema, non si può non richiamare l’intervento del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, che richiama il consolidato indirizzo che circoscrive il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento, nonché, l'altrettanto pacifico indirizzo giurisprudenziale secondo cui la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, e non concentrarsi esclusivamente e in modo "parcellizzato" sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è accertare l'affidabilità dell'offerta nel suo complesso, e non delle sue singole componenti.
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L’obbligo dell'Amministrazione di assicurare il contraddittorio nel sub-procedimento di verifica dell'anomalia non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dagli interessati, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzioni difensive del privato.
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Le ulteriori censure di disparità di trattamento dedotte da parte ricorrente con riguardo a materiali, mancata considerazione della pulizia delle strade, e altri profili minori si possono ricondurre ad una sorta di “richiesta alla Stazione Appaltante di verificare un’offerta non anomala ai sensi dell’art. 86 d.lgs 163/2006. Come è noto, il sospetto di anomalia concerne le «offerte in relazione alle quali sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, sono entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara” (art. 86, c. 2, d.lgs 163/2006). Tale criterio impone la verifica delle offerte che presentano una notevole qualità tecnica a fronte di un prezzo particolarmente vantaggioso.
E’ del tutto evidente che il potere residuale per cui per cui la Stazione Appaltante può sempre sottoporre a verifica le offerte che risultino sospette in base ad “elementi specifici” è altamente discrezionale e sottoposto a precisi limiti, essendo sufficiente che non sia manifestamente irragionevole la determinazione dell’Amministrazione di non sottoporre a verifica “facoltativa” di anomalia, l’offerta risultata vincitrice della gara.
E’ la scelta di effettuare la verifica facoltativa di anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione ( in ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla verifica di anomalia ai sensi del comma 3 dell’art. 86), mentre una motivazione non è (normalmente) necessaria quando l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale facoltà, il cui mancato esercizio non è pertanto censurabile.

Innanzitutto va detto che, come è noto, con riferimento al procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla stazione appaltante solo sotto lo stretto profilo della logicità e della congruità dell'istruttoria, senza poter operare autonomamente alcuna verifica della congruità dell'offerta presentata e delle singole voci atteso che, così facendo, invaderebbe una sfera propria della Pubblica amministrazione, connotata dall'esercizio di discrezionalità tecnica (CdS sez. V 18.02.2013 n. 974).
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Essenzialmente, in casi come quello in esame, ci si trova di fronte a due diverse prospettazioni della “realtà” dell’offerta, ove la Stazione Appaltante dipinge un quadro che presenta un’offerta lacunosa e inattendibile e dove, al contrario, la concorrente, attraverso le controdeduzioni e il presente ricorso dipinge un’offerta perfettamente congrua e attendibile, che sarebbe semplicemente oggetto di una sorta di “caccia all’errore” da parte della Stazione appaltante.
In casi come questi, va ricordato qual è il compito del giudice amministrativo. Infatti, va verificato se sono presenti profili sintomatici di eccesso di potere per illogicità o travisamento delle risultanze istruttorie del procedimento, o se si rimanga sulla soglia di una contrapposta versione dell'interessata, opinabile al pari del giudizio tecnico-discrezionale formulato dalla Commissione, tale dunque da non consentire il sindacato del giudice amministrativo, secondo il costante insegnamento espresso al riguardo (CdS sez. III 14.02.2012, n. 710, CdS sez. V 02.2012 n. 3850).
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Alla luce dei principi sopra ricordati, ritiene il Collegio che, a fronte de citati rilievi effettuati dalla Stazione Appaltante, i quali sono contestati ma non smentiti dalla ricorrente, il giudizio di anomalia sia immune dai vizi dedotti.
Come è noto, in materia si ritiene necessaria una motivazione approfondita (CdS V, 23.10.2006, n. 4949) quando la stazione appaltante considera l’offerta nel complesso inaffidabile. L’onere motivazionale nel provvedimento negativo è stato tuttavia inteso con una certa flessibilità permettendo all’amministrazione di effettuare una valutazione di tutti gli elementi dell’offerta ritenendola nel complesso inaffidabile oppure di soffermarsi anche solo su singole, ma essenziali, componenti dell’offerta; se tali elementi essenziali non risultano congrui, in ossequio ad una concezione ‘sostanziale’ dell’agire amministrativo, non si reputa necessario esaminare le giustificazioni riguardanti le altre componenti, meno rilevanti, dell’offerta stessa, in quanto è da presumere che quelle voci incidano sulla serietà ed affidabilità dell'intera offerta, di modo che, accertata l'incongruità degli elementi giustificativi presentati e di conseguenza delle sottostanti voci di prezzo, non occorre che quel giudizio di incongruità sia anche suffragato da un ulteriore, separato, giudizio di incongruità della globalità dell'offerta (CdS. Sez. III, V, 18.09.2008, n. 4493, CdS Sez. III 16.03.2012 n.1467).

Ancora, sul tema, non si può non richiamare l’intervento del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria (sentenza 29.12.2012, n. 39), che richiama il consolidato indirizzo che circoscrive il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento, nonché, l'altrettanto pacifico indirizzo giurisprudenziale secondo cui la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, e non concentrarsi esclusivamente e in modo "parcellizzato" sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è accertare l'affidabilità dell'offerta nel suo complesso, e non delle sue singole componenti (sul punto Tar Cagliari 08.05.2013 n. 355).
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Con riguardo all’affermato difetto di contradditorio (secondo motivo di ricorso) è noto che l’obbligo dell'Amministrazione di assicurare il contraddittorio nel sub-procedimento di verifica dell'anomalia non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dagli interessati, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzioni difensive del privato (Cds sez. V 02.07.2012 n. 3850).
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Ancora, in tutta evidenza, le ulteriori censure di disparità di trattamento dedotte da parte ricorrente con riguardo a materiali, mancata considerazione della pulizia delle strade, e altri profili minori si possono ricondurre ad una sorta di “richiesta alla Stazione Appaltante di verificare un’offerta non anomala ai sensi dell’art. 86 d.lgs 163/2006. Come è noto, il sospetto di anomalia concerne le «offerte in relazione alle quali sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, sono entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara” (art. 86, c. 2, d.lgs 163/2006). Tale criterio impone la verifica delle offerte che presentano una notevole qualità tecnica a fronte di un prezzo particolarmente vantaggioso (CdS sez. VI 26.11.2009, n. 7441).
E’ del tutto evidente che il potere residuale per cui per cui la Stazione Appaltante può sempre sottoporre a verifica le offerte che risultino sospette in base ad “elementi specifici” è altamente discrezionale e sottoposto a precisi limiti, essendo sufficiente che non sia manifestamente irragionevole la determinazione dell’Amministrazione di non sottoporre a verifica “facoltativa” di anomalia, l’offerta risultata vincitrice della gara (tra la tante decisioni Cds sez. IV, 27.06.2011, n. 3862).
E’ la scelta di effettuare la verifica facoltativa di anomalia che esige una espressa ed adeguata motivazione ( in ordine alle ragioni ed agli elementi di fatto sulla base dei quali essa si sia risolta nel senso di attendere alla verifica di anomalia ai sensi del comma 3 dell’art. 86), mentre una motivazione non è (normalmente) necessaria quando l’amministrazione ritiene di non dover far uso di tale facoltà (CdS sez. VI, 27.07.2011, n. 4489), il cui mancato esercizio non è pertanto censurabile (Cds Sez. III 10.05.2013 n. 2533).
Nel caso in esame, di fronte a due offerte caratterizzate da notevoli differenze nella formulazione tecnica ed economica, in tutta evidenza non sono configurabili i vizi dedotti da parte ricorrente, in considerazione della differenza di mezzi e risorse previsti nelle offerte, che hanno visto, per la controinteressata un’offerta economica ben al di sotto della soglia di anomalia.
Ciò in quanto la disparità di trattamento e l’eccesso di potere denunciato dalla ricorrente riguarda, in buona parte, vizi emersi durante la verifica di anomalia, non prevista per l’offerta della controinteressata
(TAR Marche, sentenza 25.10.2013 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOIl regolamento blocca la mansarda. Il patto contrattuale può vietare le modifiche alle destinazioni d'uso «non conformi». Cassazione. La Corte si pronuncia sulla libertà del singolo di intervenire sulla sua unità immobiliare nell'ambito del condominio.
Il sottotetto non può diventare una mansarda se il regolamento condominiale contrattuale lo vieta: e a nulla vale l'uso comune di trasformare quei locali in abitazioni se non c'è il via libera dell'assemblea che consente di cambiare la destinazione d'uso.

La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.10.2013 n. 24125, accoglie il ricorso di alcuni condomini che non volevano concedere agli acquirenti di un sottotetto adibito a stenditoio-magazzino la possibilità di farne un'abitazione bohèmienne.
Un desiderio che era stato avallato nei primo grado di giudizio dai giudici di merito che avevano consentito agli acquirenti di proseguire i lavori di adeguamento alla nuova destinazione, basandosi sulla «intrinseca destinazione abitativa delle mansarde», come previsto anche dalla legge regionale 15/1996 che poneva il solo vincolo di non alterare la volumetria. La Cassazione però prende le distanze dalla lettura del tribunale e della Corte d'appello e invita al rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà esclusiva. Nel contratto di compravendita, infatti, l'ambìto spazio era descritto come un locale rustico appartenente alla categoria catastale C/2 che notoriamente destina l'immobile ad essere utilizzato come magazzino. La stessa cosa era prevista nel regolamento condominiale.
La Suprema corte ricorda quindi che «le norme contenute nei regolamenti condominiali posti in essere per contratto possono imporre limitazioni al godimento e alla destinazione d'uso degli immobili di proprietà esclusiva dei condomini».
Più in dettaglio, la Cassazione ha osservato che, secondo il costante orientamento della stessa, il canone ermeneutico da usare nell'esame di un contratto (quale il regolamento condominiale contrattuale) è quello del senso letterale delle parole e delle espressioni usate nel testo; tuttavia, il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale e non in una parte soltanto. Proprio per questo, prosegue la Cassazione, la decisione della Corte di merito (La Corte d'appello di Milano) è sbagliata: per non aver tenuto conto dell'intero contenuto della clausola contrattuale «il cui spirito è volto a imporre a ciascun condomino il rispetto della destinazione naturale dei locali di proprietà esclusiva».
Nel rogito, infatti, l'unità era descritta locale rustico, di categoria catastale C/2 (magazzini e locali di deposito), mentre la Corte di merito si è basata sulla «circostanza astratta che i locali venduti avessero come loro destinazione naturale quella abitativa», senza accertare quale fosse l'effettiva destinazione dell'immobile ma considerando solo la «potenziale vocazione delle mansarde a essere abitate». La Cassazione ha quindi introdotto un importante richiamo alla destinazione catastale quale elemento scriminante nell'individuazione della destinazione, soprattutto quando le variazioni fossero state espressamente vietate dal regolamento condominiale contrattuale.
Inoltre, la Corte d'appello è stata censurata anche per aver attribuito l'efficacia di ius superveniens alla legge della Regione Lombardia 15/1996, che aveva facilitato la trasformazione di mansarde in sottotetti: questa norma avrebbe caducato le conseguenze della violazione del regolamento contrattuale, regolarizzando la situazione a priori.
La Suprema Corte, però, ha distinto tra i due piani di rapporti: uno pubblicistico, tra il privato e l'amministrazione, e l'altro privatistico, tra il soggetto che ha operato la violazione e gli altri titolari di diritti soggettivi (tutelati dal regolamento condominiale contrattuale): la previsione di regolarizzazione delle opere (in questo caso il cambio di destinazione d'uso) dal punto di vista urbanistico «attiene al punto di vista amministrativo, penale e fiscale ma non pure ai fini privatistici, cosicché nelle controversie tra privati detta regolarizzazione non può incidere negativamente sui diritti dei terzi» (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Non necessitano, come è noto, gli atti vincolati di motivazione particolarmente estesa, essendo invece sufficiente che l’Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, eventualmente con un mero richiamo alle disposizioni di legge applicate.
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Il concetto di disponibilità di cui all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 non comporta che l’atto amministrativo richiamato per relationem sia unito a pena di illegittimità al provvedimento che lo evoca, bensì è sufficiente che l’atto sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi, con la conseguenza che detto obbligo determina che la motivazione dell’atto richiamato sia portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario mentre nella motivazione per relationem è sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi di quell’atto, non essendo necessario che lo stesso sia allegato quanto piuttosto che sia messo a disposizione e mostrato su istanza di parte.

Quanto, poi, alla motivazione del diniego, si è detto come l’Amministrazione comunale abbia dato corretta interpretazione alla normativa di piano, e ciò a mezzo di conclusioni che, seppur in modo sintetico, rendono evidente l’iter logico seguito (in questo contesto l’uso dell’espressione “piani effettivi” non altera il risultato), anche per non necessitare, come è noto, gli atti vincolati di motivazione particolarmente estesa e per essere invece sufficiente che l’Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, eventualmente con un mero richiamo alle disposizioni di legge applicate (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008 n. 2977).
Né vizia l’atto impugnato la circostanza che il parere negativo del “Servizio procedure edilizie e controllo” sia stato solo richiamato, avendo la giurisprudenza precisato che il concetto di disponibilità di cui all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 non comporta che l’atto amministrativo richiamato per relationem sia unito a pena di illegittimità al provvedimento che lo evoca, bensì è sufficiente che l’atto sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi, con la conseguenza che detto obbligo determina che la motivazione dell’atto richiamato sia portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario mentre nella motivazione per relationem è sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi di quell’atto, non essendo necessario che lo stesso sia allegato quanto piuttosto che sia messo a disposizione e mostrato su istanza di parte (v., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 05.06.2013 n. 2916); la circostanza, quindi, che nel caso di specie gli estremi del parere negativo fossero stati indicati nell’atto finale e che il parere stesso risultasse perciò disponibile mediante semplice accesso agli atti soddisfaceva i requisiti formali di cui all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 23.10.2013 n. 650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualificazione di un intervento edilizio assentito non dipende dal nomen juris impiegato dall’Autorità comunale, ma deve essere compiuta in base a criteri essenziali.
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A proposito della “ristrutturazione” e del “restauro e risanamento conservativo”, la giurisprudenza individua il tratto differenziale tra le due tipologie di interventi nella presenza o meno di modifiche strutturali incidenti sulla sagoma e sul volume dell’edificio, ovvero nella presenza o meno di un incremento del complessivo carico urbanistico derivante dall’edificio, sicché l’elemento decisivo, ai fini della qualificazione di un intervento come ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello sostanziale del conseguimento di un maggiore “peso” urbanistico sul territorio, a causa di aumenti di volume, di modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico urbanistico rispetto al preesistente.
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In relazione agli interventi che danno titolo al rilascio della concessione edilizia a titolo gratuito, l’elemento di discriminazione tra la concessione onerosa e la concessione gratuita, o tra interventi assoggettati al regime di concessione e opere soggette a mera autorizzazione, deve essere individuato nella modifica o meno del carico urbanistico, che costituisce il limite della differenza di regime giuridico.

Quanto, innanzi tutto, al carattere oneroso o gratuito dell’intervento edilizio in questione, il Collegio ritiene che non si possa prescindere dal preliminare accertamento della reale portata dell’intervento medesimo, alla luce dell’orientamento che vuole che la qualificazione di un intervento edilizio assentito non dipende dal nomen juris impiegato dall’Autorità comunale, ma deve essere compiuta in base a criteri essenziali (v. Cons. Stato, Sez. V, 05.06.1991 n. 883).
Orbene, a proposito della “ristrutturazione” e del “restauro e risanamento conservativo”, la giurisprudenza individua il tratto differenziale tra le due tipologie di interventi nella presenza o meno di modifiche strutturali incidenti sulla sagoma e sul volume dell’edificio, ovvero nella presenza o meno di un incremento del complessivo carico urbanistico derivante dall’edificio, sicché l’elemento decisivo, ai fini della qualificazione di un intervento come ristrutturazione edilizia, è costituito non tanto dal dato formale del coinvolgimento delle strutture portanti o delle pareti perimetrali dell’immobile, quanto da quello sostanziale del conseguimento di un maggiore “peso” urbanistico sul territorio, a causa di aumenti di volume, di modifiche di sagoma o di incrementi del complessivo carico urbanistico rispetto al preesistente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2012 n. 5818).
Nella fattispecie, in particolare, l’aggravio di carico urbanistico viene fatto discendere dall’Amministrazione comunale dall’incremento di alloggi che l’intervento determina, aggravio la cui sussistenza la ricorrente invero non contesta, senza tener conto però della circostanza che, in relazione agli interventi che danno titolo al rilascio della concessione edilizia a titolo gratuito, l’elemento di discriminazione tra la concessione onerosa e la concessione gratuita, o tra interventi assoggettati al regime di concessione e opere soggette a mera autorizzazione, deve essere individuato nella modifica o meno del carico urbanistico, che costituisce il limite della differenza di regime giuridico (v., tra le altre, TAR Marche 12.02.1998 n. 250).
Ne consegue che, dovendosi ascrivere l’intervento edilizio in questione alla categoria della “ristrutturazione” –nonostante il diverso nomen iuris utilizzato–, correttamente l’Amministrazione ha preteso la corresponsione del contributo ex art. 3 della legge n. 10 del 1977 (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 23.10.2013 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza, mentre hanno natura regolamentare i provvedimenti previsti dagli artt. 5 e 6 della legge n. 10 del 1977, con i quali le regioni e i consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, hanno invece natura di atti paritetici tutti i restanti atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’ente locale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare della concessione, con la conseguenza che, ove si eccettuino le impugnative degli atti regolamentari recanti i criteri generali suindicati, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum del contributo riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’Amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati, e allora, vertendosi in tema di diritti soggettivi e non di interessi legittimi, la censura della concreta quantificazione degli oneri soggiace solo e soltanto al vizio di violazione di legge, non certamente ad un vizio sintomatico dell’eccesso di potere quale quello del difetto di motivazione.
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La giurisprudenza ha chiarito che il contributo diviene certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile fin dal momento della formazione del titolo edilizio, con la conseguenza che è da allora che inizia a maturare il credito accessorio per interessi ai sensi dell’art. 1282 cod.civ.; non trattandosi, dunque, di interessi moratori, quanto piuttosto di interessi corrispettivi, legittimamente l’Amministrazione resistente ha a suo tempo preteso il pagamento di simili accessori secondo le modalità contestate dalla ricorrente.
Si tratta, del resto, di conclusione coerente con quell’indirizzo giurisprudenziale che dalla disciplina della legge n. 10 del 1977 fa scaturire che il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia di versare il dovuto é rappresentato dal rilascio della concessione stessa, sicché è a quel momento che occorre avere riguardo non solo per la determinazione del contributo, ma anche per l’individuazione della decorrenza del termine di prescrizione, divenendo il relativo credito –a tale data– certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile, e ciò anche perché, pur in presenza del potere del Comune di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, l’atto di imposizione non ha carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale, per cui la mancata tempestiva adozione dello stesso non implica alcuna facoltà dell’Amministrazione di differire la riscossione del suo diritto di credito, configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il termine di prescrizione.

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Il ricorrente lamenta che l’ingiunzione di pagamento ex art. 2 del r.d. n. 639 del 1910 non è stata vidimata e resa esecutiva dal pretore –ora giudice unico–, così come prescriverebbe detta disposizione.
La censura, però, non tiene conto della previsione dell’art. 229 del d.lgs. n. 51 del 1998 (“Il potere del pretore di rendere esecutivi atti emanati da autorità amministrative è soppresso e gli atti sono esecutivi di diritto”) e, quindi, del sopraggiunto venir meno di una simile formalità.

E’ infondata anche la questione incentrata, sotto più profili, sulla carente motivazione degli atti censurati.
Occorre ricordare infatti che, per costante giurisprudenza (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 29.07.2000 n. 4217), mentre hanno natura regolamentare i provvedimenti previsti dagli artt. 5 e 6 della legge n. 10 del 1977, con i quali le regioni e i consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, hanno invece natura di atti paritetici tutti i restanti atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’ente locale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare della concessione, con la conseguenza che, ove si eccettuino le impugnative degli atti regolamentari recanti i criteri generali suindicati, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum del contributo riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’Amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati, e allora, vertendosi in tema di diritti soggettivi e non di interessi legittimi, la censura della concreta quantificazione degli oneri soggiace solo e soltanto al vizio di violazione di legge, non certamente ad un vizio sintomatico dell’eccesso di potere quale quello del difetto di motivazione.
Quanto, poi, agli interessi legali pretesi dall’Amministrazione comunale, la ricorrente lamenta che li si sia fatti decorrere dal 26.05.1997, benché la comunicazione della debenza del contributo fosse avvenuta solo nell’ottobre 1999 e la prima quantificazione del relativo importo fosse stata operata solo nel marzo 2000, sicché difetterebbero i presupposti legali per l’applicazione di interessi di mora ad una somma il cui ritardato versamento si assume imputabile esclusivamente al creditore.
In realtà –osserva il Collegio– la giurisprudenza ha chiarito (v. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 18.07.2011 n. 3889) che il contributo diviene certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile fin dal momento della formazione del titolo edilizio, con la conseguenza che è da allora che inizia a maturare il credito accessorio per interessi ai sensi dell’art. 1282 cod.civ.; non trattandosi, dunque, di interessi moratori, quanto piuttosto di interessi corrispettivi, legittimamente l’Amministrazione resistente ha a suo tempo preteso il pagamento di simili accessori secondo le modalità contestate dalla ricorrente.
Si tratta, del resto, di conclusione coerente con quell’indirizzo giurisprudenziale che dalla disciplina della legge n. 10 del 1977 fa scaturire che il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia di versare il dovuto é rappresentato dal rilascio della concessione stessa, sicché è a quel momento che occorre avere riguardo non solo per la determinazione del contributo, ma anche per l’individuazione della decorrenza del termine di prescrizione, divenendo il relativo credito –a tale data– certo, liquido (o agevolmente liquidabile) ed esigibile, e ciò anche perché, pur in presenza del potere del Comune di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, l’atto di imposizione non ha carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale, per cui la mancata tempestiva adozione dello stesso non implica alcuna facoltà dell’Amministrazione di differire la riscossione del suo diritto di credito, configurandosi piuttosto come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il termine di prescrizione (v., in questi termini, Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2011 n. 5413).
Un’ultima ragione di doglianza è legata alla circostanza che l’ingiunzione di pagamento ex art. 2 del r.d. n. 639 del 1910 non è stata vidimata e resa esecutiva dal pretore –ora giudice unico–, così come prescriverebbe detta disposizione. La censura, però, non tiene conto della previsione dell’art. 229 del d.lgs. n. 51 del 1998 (“Il potere del pretore di rendere esecutivi atti emanati da autorità amministrative è soppresso e gli atti sono esecutivi di diritto”) e, quindi, del sopraggiunto venir meno di una simile formalità (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 23.10.2013 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ogni titolo edilizio ha carattere unitario e, pertanto, autorizza la realizzazione di quanto in esso previsto nella sua interezza.
Una volta intervenuta la demolizione dell’intero fabbricato, in contrasto con quanto prescritto dal titolo edilizio quest’ultimo perde efficacia per l’intero.
Una volta venuta meno la costruzione preesistente, non importa se per effetto di un crollo accidentale o programmato in corso di esecuzione lavori, il titolo in precedenza ottenuto perde automaticamente effetto in toto, venendone meno il presupposto fattuale, anche per quanto concerne l’ampliamento oggetto di autorizzazione.

Il verbale di vigilanza edilizia, redatto a seguito del sopralluogo del 22.03.2012 e del 17.05.2012, posto alla base dei provvedimenti impugnati, ha evidenziato la demolizione dell’intero fabbricato esistente non prevista dal titolo edilizio (D.I.A. del 22.04.2011, prot. 8795) e la ricostruzione del fabbricato con la contestuale esecuzione dell’intervento in ampiamente sopraelevazione, oggetto della D.I.A. stessa.
Il verbale, corredato di ampia documentazione fotografica, evidenza che le opere realizzate nel complesso risultano eseguite in difformità dal titolo edilizio, ai sensi dell’articolo 13 della legge regionale numero 23 del 2004, qualificandole, conseguentemente, come “nuova costruzione” ai sensi dell’articolo 3, comma primo, lettera e1), del d.p.r. numero 380 del 2001.
Ciò premesso il ricorso è infondato.
Va, infatti, rilevato che ogni titolo edilizio ha carattere unitario e, pertanto, autorizza la realizzazione di quanto in esso previsto nella sua interezza.
Una volta intervenuta la demolizione dell’intero fabbricato, in contrasto con quanto prescritto dal titolo edilizio (D.I.A. del 22.04.2011, prot. 8795) quest’ultimo perde efficacia per l’intero.
Nel caso concreto, l’articolo 16 del regolamento comunale consente un ampliamento ma solo se collegato ad interventi di manutenzione o ristrutturazione della costruzione preesistente.
Una volta venuta meno la costruzione preesistente, non importa se per effetto di un crollo accidentale o programmato in corso di esecuzione lavori, il titolo in precedenza ottenuto perde automaticamente effetto in toto, venendone meno il presupposto fattuale, anche per quanto concerne l’ampliamento.
Conseguentemente la nuova situazione creatasi a seguito dell’integrale demolizione e ricostruzione risulta disciplinata dall’articolo 16, comma secondo, del regolamento edilizio il quale precisa che qualora si preveda un ampliamento con la totale demolizione e ricostruzione “l’insieme costituisce un intervento NC di cui all’articolo 15 precedente”. Del resto l’articolo 17 del regolamento edilizio precisa che “gli interventi di demolizione fedele ricostruzione prevedono che la ricostruzione dell’immobile avvenga con lo stesso sedime e con la stessa sagoma dell’immobile preesistente” e tale disciplina locale è legittima e perfettamente conforme alla disciplina nazionale di cui all’articolo 3, comma primo, del Testo Unico n. 380 del 2001 secondo l’interpretazione di questo Tar il quale ha già in precedenza evidenziato che la circostanza che i lavori, di demolizione e ricostruzione, oggetto della controversia, comportino la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica determina che l’intervento edilizio sia in realtà ascrivibile alla categoria delle “nuove costruzioni” (Tar Bologna,sez. I, n. 463 del 2012) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 23.10.2013 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPer l'avvocato niente rimborso a «spese forfetarie».
Nuovi principi in tema di liquidazione degli onorari spettanti agli avvocati, all'indomani dei parametri (Dm 20 140/2012) e della legge professionale n. 247 dello stesso anno.

Con sentenza 22.10.2013 n. 43143 la Corte di Cassazione, Sez. II penale, applica i parametri (invece delle tariffe, che vigevano prima) ogni qualvolta la liquidazione da parte del giudice intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto 140. In altri termini, ricadono nella disciplina dei "parametri" le prestazioni professionali che alla data del 23.08.2012 non risultino ancora completate.
È quindi irrilevante che una prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, in quanto il termine generico di "compenso" (che si legge nella legge professionale, articolo 13, comma 10) richiama la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata. Un secondo principio affermato nella sentenza 43143 riguarda il "rimborso delle spese forfetarie" (previsto sempre dall'articolo 13). Nella vicenda decisa dalla Cassazione, il difensore non ha ottenuto la liquidazione di tale voce, a causa dell'assenza (ancor oggi perdurante) di un Dm sulla misura massima del rimborso spese forfetarie.
È la legge professionale (articolo 13, comma 6) che esige tale decreto, sicché non basta la generica previsione di una voce denominata "spese forfetarie": manca infatti l'unità di misura in base alla quale quantificare gli importi relativi. La situazione attuale vede quindi non liquidabili dal giudice le "spese forfetarie", sottraendo alla liquidazione del compenso degli avvocati quelle che, prima della legge 247/2012, erano denominate "spese generali" (12,5%).
Meno frequente, ma rilevante ai fini della professione, è il caso deciso dalla Cassazione con la sentenza 2389 sempre depositata ieri, relativa a un avvocato il quale aveva ricevuto l'incarico di iniziare una lite con specifica procura dalla parte, ma aveva iniziato il contenzioso dopo la morte del suo cliente. Per legge (articolo 1387 del Codice civile) la procura viene meno con la persona che affida l'incarico, e le liti non dovrebbero essere iniziate (se non ancora attive) o vanno continuate dagli eredi (se già pendenti). La Cassazione chiede alle Sezioni unite di rivedere un orientamento del 2006 (sentenza 10706), che poneva le spese per la gestione della lite a carico, comunque, degli eredi inconsapevoli.
Si trattava in particolare delle spese che il giudice liquida a favore della parte vittoriosa, cioè, in caso di mancanza di procura, a favore di chi è stato coinvolto in una lite iniziata da un avvocato privo di adeguata procura. Nel 2013 la Cassazione ha il dubbio che il professionista possa essere in proprio responsabile anche delle spese legali da pagare all'avversario, tutte le volte che agisca senza procura
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi in cui il parere negativo al rilascio della sanatoria sia stato adottato in seguito allo svolgimento di un accertamento in concreto, per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella motivazione dell'atto siano state puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia da ritenersi incompatibile con i valori tutelati, non è, infatti, consentito al giudice amministrativo di sostituirsi all’autorità preposta alla tutela del vincolo nella potestà discrezionale di giudizio sulla compatibilità paesaggistica degli interventi edilizi medesimi, come statuito dalla costante giurisprudenza.
Nell’ipotesi in cui (come nel caso di specie) il parere negativo al rilascio della sanatoria sia stato adottato in seguito allo svolgimento di un accertamento in concreto, per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo, e nella motivazione dell'atto siano state puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia da ritenersi incompatibile con i valori tutelati, non è, infatti, consentito al giudice amministrativo di sostituirsi all’autorità preposta alla tutela del vincolo nella potestà discrezionale di giudizio sulla compatibilità paesaggistica degli interventi edilizi medesimi, come statuito dalla costante giurisprudenza (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 07.10.2008, n. 4823) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.10.2013 n. 2340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990 non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non procedere all’annullamento dell’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
L'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto nel caso in cui, come nella fattispecie all’esame del collegio, il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Alla luce del contenuto dei pareri succitati consegue, altresì, l’infondatezza del motivo concernente la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, atteso che, per giurisprudenza granitica, la violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990 non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non procedere all’annullamento dell’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo; l'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto nel caso in cui, come nella fattispecie all’esame del collegio, il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5235) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.10.2013 n. 2340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010” (ex art. 26, comma 3-ter, l.r. 12/2005) ritenendo sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di approvazione del piano, senza richiedere che sia intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere successivamente approvato.
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da un’interpretazione sistematica della richiamata normativa regionale, appare coerente con i principi generali sul procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990, principi certamente applicabili alle procedure comunali di variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990).

L’art. 26 della legge regionale n. 12/2005, al co. 3-ter (introdotto dall’art. 21, comma 1, lett. b), della legge regionale 7/2010), prevede che: “Fatta comunque salva la conclusione, anche agli effetti di variante urbanistica, delle procedure in corso alla data del 31.03.2010, per i comuni che alla medesima data non hanno adottato il PGT non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 25, comma 1,...” (norma che, come noto, permette a determinate condizioni l’approvazione di piani attuativi in variante al PRG).
La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010” ritenendo sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di approvazione del piano, senza richiedere che sia intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere successivamente approvato (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 26.07.2011 n. 1992, che valorizza la previsione di cui all’art. 14 della l.r. n. 12/2005 -il quale prevede, per i piani attuativi di iniziativa privata, che l’istruttoria sia condotta dai competenti uffici comunali, i quali, in caso di esito positivo, propongono l’adozione del piano all’organo politico competente– onde inferirne che, la deliberazione di adozione da parte del Consiglio comunale non può che intervenire al termine della positiva istruttoria condotta dagli uffici, giacché, in caso contrario, la proposta di piano di iniziativa privata non sarebbe posta all’attenzione dell’organo consiliare).
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da un’interpretazione sistematica della richiamata normativa regionale, appare coerente con i principi generali sul procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990, principi certamente applicabili alle procedure comunali di variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 2336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio temporale l’opera non viene demolita dal responsabile dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa, rappresenta requisito di validità del successivo provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario, al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire l’ordine.

L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede, tra l’altro, che:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso di costruire, «ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso» la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3 (comma 2);
- se il «responsabile dell'abuso» non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi «nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione», il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune; si specifica che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita (comma 3);
- l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, «previa notifica all’interessato», costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
Da quanto esposto risulta che l’ordinanza di demolizione, con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio temporale l’opera non viene demolita dal responsabile dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa, rappresenta requisito di validità del successivo provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario, al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire l’ordine (cfr. sulla rilevanza del termine in questione, da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza 04.10.2013 n. 4913) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 2335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se da una parte non va escluso l’onere per il proprietario di provare la realizzazione delle opere prima del 01.09.1967, dall’altra va posta però in capo al Comune -che adotta l’ordine di demolizione- un minimo onere probatorio della propria pretesa, soprattutto quando è decorso ormai molto tempo dall’edificazione, al punto che neppure l’Amministrazione è in grado di datare la stessa con sufficiente approssimazione.
In altri termini, il Comune non può limitarsi ad affermare in maniera apodittica e senza idoneo supporto probatorio, che l’attività costruttiva è stata svolta dopo il 1967.

La Sezione richiama sul punto la diffusa giurisprudenza che, se da una parte non esclude l’onere per il proprietario di provare la realizzazione delle opere prima del 01.09.1967, dall’altra pone però in capo al Comune che adotta l’ordine di demolizione un minimo onere probatorio della propria pretesa, soprattutto quando è decorso ormai molto tempo dall’edificazione, al punto che neppure l’Amministrazione è in grado di datare la stessa con sufficiente approssimazione.
In altri termini, il Comune non può limitarsi ad affermare in maniera apodittica e senza idoneo supporto probatorio, che l’attività costruttiva è stata svolta dopo il 1967 (cfr. sul punto, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.02.2013, n. 373; TAR Campania, Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 290 e TAR Umbria, 10.05.2013, n. 281) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 2332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è pur vero che l’impianto in questione è stato oggetto di autorizzazione unica provinciale ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 (decreto attuativo di una direttiva comunitaria sulla promozione delle fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica) e che tale autorizzazione riguarda anche gli aspetti urbanistici ed edilizi, per cui “assorbe” altresì l’eventuale permesso di costruire (cfr. l’art. 12 citato, commi 3° e 4° ed il doc. 4 della ricorrente, copia dell’autorizzazione unica), deve escludersi che il Comune ove insiste l’impianto abbia per ciò solo perduto il proprio potere generale di vigilanza e controllo sull’attività urbanistica ed edilizia, di cui all’art. 27 del DPR 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia).
Il potere di vigilanza di cui al citato art. 27, comma 1°, deve intendersi come potere di carattere generale, riguardante l’intera attività edilizia sul territorio, anche se –come nel caso di specie– il titolo abilitativo è stato rilasciato, in forza di una speciale disposizione di legge, da altra Pubblica Amministrazione.
Naturalmente –e si perdoni l’ovvietà– l’attività di vigilanza del Comune sui titoli rilasciati da un soggetto terzo implica il rigoroso rispetto dei criteri di logicità, proporzionalità, completezza ed adeguatezza dell’istruttoria, che devono in ogni caso caratterizzare l’azione amministrativa ai sensi dell’art. 1 della legge 241/1990.

Nel primo motivo di ricorso si denuncia l’incompetenza del Comune ad adottare un’ordinanza come quella di cui è causa, in quanto l’opera in questione (centrale idroelettrica), è stata oggetto di autorizzazione unica provinciale, ai sensi del D.Lgs. 387/2003, sicché soltanto la Provincia e non il Comune potrebbe effettuare verifiche sulla eventuale difformità dell’impianto rispetto al progetto assentito ed adottare di conseguenza i necessari provvedimenti sanzionatori.
Il mezzo, per quanto possa apparire suggestivo, è però infondato.
Infatti, se è pur vero che l’impianto in questione è stato oggetto di autorizzazione unica provinciale ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 (decreto attuativo di una direttiva comunitaria sulla promozione delle fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica) e che tale autorizzazione riguarda anche gli aspetti urbanistici ed edilizi, per cui “assorbe” altresì l’eventuale permesso di costruire (cfr. l’art. 12 citato, commi 3° e 4° ed il doc. 4 della ricorrente, copia dell’autorizzazione unica), deve escludersi che il Comune ove insiste l’impianto abbia per ciò solo perduto il proprio potere generale di vigilanza e controllo sull’attività urbanistica ed edilizia, di cui all’art. 27 del DPR 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia).
Il potere di vigilanza di cui al citato art. 27, comma 1°, deve intendersi come potere di carattere generale, riguardante l’intera attività edilizia sul territorio, anche se –come nel caso di specie– il titolo abilitativo è stato rilasciato, in forza di una speciale disposizione di legge, da altra Pubblica Amministrazione.
Naturalmente –e si perdoni l’ovvietà– l’attività di vigilanza del Comune sui titoli rilasciati da un soggetto terzo implica il rigoroso rispetto dei criteri di logicità, proporzionalità, completezza ed adeguatezza dell’istruttoria, che devono in ogni caso caratterizzare l’azione amministrativa ai sensi dell’art. 1 della legge 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 2331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Una scelta di PRG può essere considerata illogica “… solo quando attribuisce ex novo una destinazione di zona in aperta incoerenza con la situazione di fatto e con quella precedentemente attribuita, e che tale non può essere considerata la destinazione a verde agricolo di area situata fra insediamenti esistenti, atteso che tale scelta, oltre ad essere finalizzata alla salvaguardia di esigenze di ordine meramente agricolo, può altresì essere ispirata all’esigenza della conservazione di un’equa proporzione fra aree edificabili ed aree inedificabili, così da consentire le più convenienti ed utili condizioni di abitabilità del territorio. La zona agricola, infatti, possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano e assumendo per tale via la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano medesimo, convincimento questo espresso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato ormai da tempo. Anche nel caso di specie, quindi, che vede reiterata la destinazione agricola dell’area, non può ritenersi che fosse necessaria alcuna particolare motivazione”.
In generale, è utile sottolineare come la giurisprudenza abbia ripetutamente chiarito che non é neppure configurabile una pretesa alla non reformatio in pejus della precedente disciplina urbanistica, “… in quanto la titolarità di una posizione giuridica qualificata va esclusa quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una precedente previsione urbanistica, che consentiva l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che, in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del privato …”, avente ad oggetto la conservazione della destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla natura discrezionale del potere di pianificazione urbanistica.

In diritto si può richiamare il precedente di questa Sezione (08/06/2011 n. 836, che richiamava una precedente sentenza del TAR Brescia – 15/05/2006 n. 514) secondo il quale una scelta di PRG può essere considerata illogica “… solo quando attribuisce ex novo una destinazione di zona in aperta incoerenza con la situazione di fatto e con quella precedentemente attribuita, e che tale non può essere considerata la destinazione a verde agricolo di area situata fra insediamenti esistenti, atteso che tale scelta, oltre ad essere finalizzata alla salvaguardia di esigenze di ordine meramente agricolo, può altresì essere ispirata all’esigenza della conservazione di un’equa proporzione fra aree edificabili ed aree inedificabili, così da consentire le più convenienti ed utili condizioni di abitabilità del territorio (cfr. Cons. Stato Sez. IV n. 259 del 2005 cit., idem 08.02.1980 n. 90; id., 11.06.1990 n. 464; id., n. 8146 del 2003 cit.). La zona agricola, infatti, possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell’insediamento urbano e assumendo per tale via la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano medesimo, convincimento questo espresso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato ormai da tempo. Anche nel caso di specie, quindi, che vede reiterata la destinazione agricola dell’area, non può ritenersi che fosse necessaria alcuna particolare motivazione”.
In generale, è utile sottolineare come la giurisprudenza abbia ripetutamente chiarito che non é neppure configurabile una pretesa alla non reformatio in pejus della precedente disciplina urbanistica, “… in quanto la titolarità di una posizione giuridica qualificata va esclusa quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una precedente previsione urbanistica, che consentiva l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che, in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del privato …”, avente ad oggetto la conservazione della destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla natura discrezionale del potere di pianificazione urbanistica (cfr. ex plurimis TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/09/2013 n. 2173) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl dipendente onesto va tutelato. Il datore di lavoro è responsabile del disagio provocato all'impiegato emarginato. Cassazione. Condannata un'agenzia di Equitalia Polis per non aver protetto un messo estraneo alla prassi delle false notifiche.
Il dipendente onesto che si oppone ai comportamenti illegittimi dei colleghi deve essere difeso e tutelato dal datore, pena la responsabilità civilistica per i danni riportati dal lavoratore emarginato.
Con la sentenza 21.10.2013 n. 23772 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha reso definitiva l'affermazione di responsabilità dell'agenzia Equitalia Polis di Teramo per la prassi delle false notifiche di irreperibilità a ignari contribuenti, costata a un impiegato –estraneo all'accordo– un lungo periodo di isolamento e di pressioni psicologiche, all'origine di un asserito danno biologico e morale.
La vicenda del messo notificatore onesto era emersa dopo la citazione a giudizio dell'ufficio di Teramo di Equitalia Polis per la mancata tutela della «integrità fisica e personalità morale» del dipendente (articolo 2087 del Codice civile), divenuto bersaglio dell'ostilità dei colleghi. Colleghi che avevano escogitato, stando alle risultanze del processo, un sistema piuttosto efficace per sbrigare le notifiche e incassare le relative indennità: si limitavano ad attestare falsamente di essersi recati al domicilio del debitore e di non averlo trovato.
I problemi per il messo onesto erano sorti immediatamente al suo rifiuto di liquidare in modo altrettanto "celere" le pratiche, problemi culminati addirittura in sanzioni disciplinari. Nonostante ciò il tribunale di Teramo aveva respinto la domanda di risarcimento, accolta solo in appello dalla Corte dell'Aquila. Equitalia Polis nel ricorso affermava una «sostanziale impossibilità di mutare la procedura di riscossione instaurata in azienda», che secondo questo punto di vista addirittura non era forse neppure illegittima.
Ma per i giudici l'agenzia non aveva fatto nulla per evitare che all'interno dei luoghi di lavoro si realizzassero comportamenti censurabili, e inoltre in quel contesto la reazione del dipendente estraneo ai maneggi era da considerare semmai assolutamente «doverosa». In aggiunta alla falsità che si pretendeva dai messi, oltremodo «grave» era il comportamento del datore di lavoro, che così facendo avallava l'incasso, da parte dei dipendenti, di un lucro illegittimo perché relativo ad attività mai svolta.
L'aver lasciato il messo onesto in balìa dei colleghi "ostili", secondo la Cassazione, è un classico esempio di come la società (Equitalia Polis) abbia «omesso di adottare precauzioni al fine di evitare o ridurre lo stato di disagio, le manifestazioni di ostilità e l'isolamento del lavoratore determinato dal fatto che aveva manifestato il suo dissenso alla prassi aziendale, del tutto illegittima».
L'azienda avrebbe potuto trarsi d'impaccio solo dimostrando, in primo luogo, di «aver fatto tutto il possibile per impedire diffusi e ripetuti comportamenti illegittimi da parte dei suoi dipendenti» e, inoltre, di aver adeguatamente tutelato chi a tali condotte intendeva opporsi. Perché la responsabilità del datore –chiosa la Cassazione– si estende anche alla salvaguardia della salute psichica del dipendente e non è limitata solo alla sfera della integrità fisica.
La sentenza dell'Aquila dovrà essere rivista però sotto l'aspetto della liquidazione del danno: «L'accertata illegittimità del comportamento del datore non necessariamente è fonte del danno alla salute lamentato dal lavoratore»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2013).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari locali come i dirigenti. Tribunale di Roma. Sentenza sull'inquadramento.
I segretari comunali e provinciali sono «equiparati» ai dirigenti.
Lo dice a chiare lettere la sentenza 17.10.2013 della I Sez. Lavoro del Tribunale di Roma, con una decisione che è nata per dirimere una controversia fra l'agenzia negoziale delle pubbliche amministrazioni e il sindacato di settore (l'Unione nazionale segretari) ma che per farlo affronta la natura stessa del ruolo della categoria; e afferma, appunto, che le leggi in vigore mostrano «l'intenzione evidente di equiparare e assimilare la figura professionale dei segretari a quella dei dipendenti con inquadramento dirigenziale, pur mantenendo la distinzione dei due profili».
Quasi scontato il ricorso in appello dell'amministrazione centrale, che ha finora sempre contrastato l'idea di attribuire ai segretari uno "status" che farebbe entrare nella dirigenza pubblica almeno altre 6mila persone: con conseguenze da verificare.
Il dibattito nasce su un terreno squisitamente sindacale, legato al fatto che l'Unione dei segretari era stata esclusa dai tavoli per i contratti 2006-2009 in quanto ritenuta «non rappresentativa», dal momento che i calcoli sui parametri da superare per poter negoziare (raccogliere almeno il 5% di iscritti a sindacati) erano stati condotti sull'intero comparto «Regioni-enti locali»: una platea da oltre 500mila persone, in cui i 6mila segretari pesano ovviamente troppo poco per ottenere i requisiti di rappresentatività.
L'Unione, anche sulla base delle prassi seguite prima dell'arrivo di Renato Brunetta al ministero della Pa, ha contestato questa lettura, rivendicando di essere la sigla ampiamente maggioritaria nella categoria. La battaglia è scoppiata nel 2009 (e riguardava i bienni fin dal 2006 per il ritardo cronico con cui si rinnovavano i contratti pubblici prima del blocco), ed è sfociata prima in un'ordinanza (febbraio 2011) e poi nella sentenza del Tribunale di Roma.
Tutto qui? Per Alfredo Ricciardi, segretario nazionale dell'Unione, la sentenza «riconosce che i segretari sono una categoria autonoma di rango dirigenziale», ma non ha conseguenze sull'ordinamento perché «le regole di fatto già riconoscono questo ruolo ai segretari, che infatti per esempio non hanno l'orario di lavoro a 36 ore e lo straordinario».
Diversi, però, i timori dell'amministrazione, dove si teme per esempio che la pronuncia possa alimentare richieste di adeguamenti da parte dei segretari dei piccoli Comuni, dove non esistono dirigenti e quindi non si applica il «galleggiamento» che equipara la retribuzione del segretario a quella del dirigente di vetta; oppure che, sentenza alla mano, i segretari che migrano in mobilità verso altre Pubbliche amministrazioni possano pretendere in automatico l'inquadramento dirigenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2013).

APPALTIAppalti, serve la moralità. Verifica obbligatoria anche per i procuratori. Il Consiglio di stato sui requisiti necessari per accedere ai bandi di gara.
Negli appalti pubblici sono necessari i controlli sulla moralità professionale anche per i procuratori e non soltanto per il direttore tecnico e gli amministratori con poteri di rappresentanza. È possibile l'esclusione dalla gara solo quando si dimostri che manca in concreto il requisito morale o professionale. E' illegittimo, se non è previsto nel bando di gara, escludere per la mera assenza della dichiarazione di insussistenza della causa di esclusione (auto certificazione) da parte del procuratore.
È quanto afferma il Consiglio di Stato con la sentenza 16.10.2013 n. 23 dell'Adunanza plenaria rispetto ad una controversia relativa alla fase di verifica dei requisiti che i partecipanti alle gare di appalto pubblico sono tenuti ad auto dichiarare ai fini della partecipazione.
Nel caso specifico era stata esclusa una impresa di costruzioni che non aveva prodotto la dichiarazione del procuratore, nonostante negli atti di gara non fosse stato richiesto anche al procuratore la dichiarazione sui requisiti morali e professionali di norma prodotta dal direttore tecnico e dagli amministratori. Il tema delle dichiarazioni da rendere in sede di gara e, in particolare, dei requisiti morali e professionali è disciplinato dall'art. 38, lettere b) e c), del dlgs 163/2006 (Codice dei contratti pubblici).
La norma prevede l'obbligo dichiarativo per gli «amministratori muniti del potere di rappresentanza» o per i direttori tecnici, se si tratta di società o di consorzi organizzati nelle forme diverse dall'impresa individuale, in accomandita, o in nome collettivo (o del socio unico persona fisica, o del socio di maggioranza per le società con meno di quattro soci). Si tratta di un profilo particolarmente delicato che si collega alla possibilità di escludere il partecipante alla gara in relazione al fatto che abbia riportato condanne per reati nominativamente individuati e che si incardina all'interno di una fase (verifica dei requisiti) molto complessa e fonte principale del contenzioso che si registra in sede di amministrativa.
La sentenza arriva a dirimere una spaccatura nell'orientamento della giurisprudenza dello stesso Consiglio di stato che, da una parte, ha in alcuni casi affermato la valenza limitativa della norma del Codice dei contratti pubblici (che richiede la compresenza della qualità di amministratore e dell'esistenza di un potere di rappresentanza) e, dall'altra, ha, invece, esteso l'obbligo anche per quei procuratori che, per avere consistenti poteri di rappresentanza dell'impresa, «siano in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della propria condotta al soggetto rappresentato».
L'Adunanza plenaria aderisce al secondo orientamento, di maggiore garanzia per le stazioni appaltanti, verificata «l'emersione di figure di procuratori muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli amministratori».
In sostanza accade che il procuratore spesso sia come un amministratore di fatto e, in forza della procura rilasciatagli, racchiuda in se anche il ruolo di rappresentante della società, sia pure per alcuni atti. La pronuncia apre, quindi, all'obbligo di verifica anche per i procuratori, ma stabilisce che se negli atti di gara non è prevista la pena dell'esclusione per il procuratore che non ha reso la dichiarazione, si potrà procedere all'esclusione dell'impresa non già per la semplice omessa dichiarazione ex art. 38 del Codice, ma soltanto dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione. La stazione appaltante, quindi, avrebbe dovuto, nel caso specifico, chiedere la prova del requisito al procuratore e soltanto in caso di verificata assenza del requisito, procedere all'esclusione.
Uno degli effetti della sentenza sarà quindi quello di aggravare gli oneri burocratici per le imprese, anche se l'auspicio è che con l'avvio, da gennaio 2014, dell' Avcp tutto ciò possa essere reso meno complicato da un sistema automatico di verifica dei requisiti gestiti dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 22.10.2013).

CONDOMINIOLa delibera vincolante salva l'amministratore. Condominio. Quando la ditta inadeguata la sceglie l'assemblea.
L'amministratore del condominio non può essere condannato per aver puntato sulla ditta sbagliata se l'appalto è stato deciso con una delibera che era costretto ad attuare.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 15.10.2013 n. 42347, accoglie il ricorso di un amministratore condannato dal tribunale a pagare un'ammenda, perché per far tagliare un albero di grandi dimensioni aveva scelto una ditta senza verificarne le credenziali e non aveva messo in guardia gli operai sugli eventuali rischi dell'ambiente in cui operavano. Mentre, secondo i giudici di merito, l'amministratore rivestiva il ruolo di datore di lavoro con i relativi oneri. L'amministratore aveva portato i suoi argomenti in Cassazione e si era difeso, senza però puntare sull'argomento vincente. Ad avviso del ricorrente la decisione di rivolgersi a una ditta senza inserirsi in alcun modo nell'organizzazione, nella direzione e nell'esecuzione dei lavori lo metteva al riparo dalle responsabilità tipiche del datore di lavoro.
La Suprema corte dà atto al ricorrente che l'amministratore assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro solo quando procede direttamente all'organizzazione dei lavori nell'interesse del condominio, ma respinge la tesi che la decisione di appaltarli non comporti alcuna responsabilità.
Come committente l'amministratore ha comunque il dovere di accertare in primo luogo l'idoneità tecnico-professionale della ditta individuata, nel caso specifico risultata tanto inconsistente da imporre un subappalto.
La condanna viene però annullata. I giudici di merito non avevano sciolto un nodo fondamentale per affermare la responsabilità penale.
L'appalto era stato deciso e assegnato con una delibera che l'imputato, in virtù del suo ruolo, era tenuto ad attuare. La pena non è giustificata se manca la prova che l'amministratore godeva dell'autonomia e dei poteri decisionali per disattendere la scelta dei condomini. Un argomento che era sfuggito anche al diretto interessato che aveva scelto un'altra linea di difesa (articolo Il Sole 24 Ore del 16.10.2013).

APPALTI: Nelle gare d’appalto, l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza della massima partecipazione consentendo ai concorrenti, che siano privi dei requisiti richiesti dal bando, di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti.
Il Collegio condivide l’orientamento secondo cui tutti i requisiti di capacità tecnica, economica e professionale devono essere sussunti nella categoria dei requisiti che possono essere oggetto di avvalimento e, quand’anche la certificazione di qualità riguardasse una qualità soggettiva dell’impresa, ugualmente potrebbe essere oggetto di avvalimento, rientrando tra i requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale strumento, attesa la sua portata generale.
Una volta ammessa l’astratta operatività dell’avvalimento per le attestazioni e le certificazioni, effettivamente non può essere trascurata l’evidente difficoltà “pratica” di dimostrare, in concreto, l’effettiva disponibilità di un requisito che, per le sue caratteristiche, è collegato all’intera organizzazione dell'impresa, alle sue procedure interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello svolgimento delle attività.

In primo luogo, nelle gare d’appalto, l’istituto dell’avvalimento risponde all’esigenza della massima partecipazione consentendo ai concorrenti, che siano privi dei requisiti richiesti dal bando, di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti. Il Collegio condivide l’orientamento secondo cui tutti i requisiti di capacità tecnica, economica e professionale devono essere sussunti nella categoria dei requisiti che possono essere oggetto di avvalimento e, quand’anche la certificazione di qualità riguardasse una qualità soggettiva dell’impresa, ugualmente potrebbe essere oggetto di avvalimento, rientrando tra i requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale strumento, attesa la sua portata generale (Consiglio di Stato, sez. V, 23.10.2012, n. 5408).
Una volta ammessa l’astratta operatività dell’avvalimento per le attestazioni e le certificazioni, effettivamente non può essere trascurata l’evidente difficoltà “pratica” di dimostrare, in concreto, l’effettiva disponibilità di un requisito che, per le sue caratteristiche, è collegato all’intera organizzazione dell'impresa, alle sue procedure interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello svolgimento delle attività (cfr. Cons. Stato 18.04.2011, n. 23446) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 2306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi.
Esso è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l’art. 41-quater della legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso, d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre (quantomeno a partire dal 1984), reputa che l’atto terminale del procedimento è costituito dal permesso di costruire in deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si configura come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo congiuntamente all’atto finale, una volta emanato.
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il rilascio della concessione in deroga; per contro, sono demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto che l’istante presenta al momento della richiesta del titolo edilizio.

In punto di diritto, il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali (deroga che, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi) è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio comunale (cfr. art. 14, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380; in precedenza, l’art. 41-quater della legge urbanistica).
Se la deliberazione preliminare del Consiglio comunale costituisce un elemento necessario del procedimento amministrativo destinato a sfociare nel rilascio o diniego della concessione in deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il procedimento stesso, d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa, da sempre (quantomeno a partire da Consiglio Stato, sez. V, 06.06.1984, n. 433), reputa che l’atto terminale del procedimento è costituito dal permesso di costruire in deroga, mentre la previa deliberazione del Consiglio comunale (salvo il caso di determinazione negativa) si configura come atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo, impugnabile assieme agli atti di uguale natura confluiti nel procedimento stesso, solo congiuntamente all’atto finale, una volta emanato (così TAR Milano, Sez. II, 09.04.1998, n. 728; più recentemente, TAR Sardegna sez. II, 04.06.2012, n. 556).
Ciò premesso, quello che conta maggiormente sottolineare è che la delibera consiliare è deputata soltanto a dettare gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato il rilascio della concessione in deroga; per contro, sono demandate agli uffici competenti, le verifiche e gli accertamenti volti a verificare la fattibilità del progetto che l’istante presenta al momento della richiesta del titolo edilizio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all'aumentato carico urbanistico.

Secondo la giurisprudenza di questo Tribunale, la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta e interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) e anche dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51, comma 1, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (“...salvo quelle eventualmente escluse dal PGT…”).
L’art. 52, comma 2, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano “...conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria …”. Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale”, sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino, il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all'aumentato carico urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E' stato recentemente chiarito in quali termini le recenti innovazioni normative (nella specie, l’art. 11, comma 1, lett. e del D.lgs. n. 59 del 2010, nonché l’art. 34, comma 3, lett. a, del D.lgs. 201/2011) subordinano, oramai, la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica, che dispongono limiti o restrizioni all’insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, ad uno scrutinio molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato.
E ciò per verificare, attraverso un’analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche; dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime.

Il Collegio ritiene, a questo punto, utile la seguente precisazione.
Al di là dei motivi che hanno portato alla reiezione del presente ricorso (incentrato, per lo più, sulla interpretazione del permesso di costruire in deroga che era stato in fatto rilasciato), preme avvertire che il principio di legalità impone, in ogni caso, al Comune resistente di verificare la pretesa del ricorrente alla luce dei sopravvenuti sviluppi legislativi.
Questo stesso Tribunale, con una recentissima sentenza (Sez. I, 10.10.2013, n. 2271), ha chiarito in quali termini le recenti innovazioni normative (nella specie, l’art. 11, comma 1, lett. e del D.lgs. n. 59 del 2010, nonché l’art. 34, comma 3, lett. a, del D.lgs. 201/2011) subordinano, oramai, la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica, che dispongono limiti o restrizioni all’insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, ad uno scrutinio molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un’analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche; dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime (sul punto si veda la sentenza 15/03/2013 n. 38 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 31 del D.L. 201 del 2011 dell’art. 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell'art. 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16.03.2012, n. 7, perché con essi veniva precluso l’esercizio del commercio al dettaglio in aree a destinazione artigianale e industriale, in assenza di plausibili esigenze di tutela ambientale che potessero giustificare il divieto)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del carico urbanistico (cioè la richiesta di una maggiore dotazione di servizi, quali, ad es. rete viaria, parcheggi, verde, fognature, ecc.), giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che, indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione deve ritenersi legittima ogni qual volta si verifichi una variazione, in aumento, del carico urbanistico (cioè la richiesta di una maggiore dotazione di servizi, quali, ad es. rete viaria, parcheggi, verde, fognature, ecc.), giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica la corresponsione, quanto meno, della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004 n. 2611; id. Sez. V, 15.09.1997 n. 959; TAR Roma, Sez. II-ter, 17.03.2012 n. 2604; TAR Bari, Sez. III, 22.02.2006, n. 571; TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003 n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001 n. 157 e 07.05.1999, n. 259) (TAR Marche, sentenza 15.10.2013 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce un presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, atteso che "ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata".
Ai sensi dell’art. 24 del d.P.R. n. 380/2001: “1. Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”.
Il successivo art. 25 disciplina il procedimento di rilascio del certificato di agibilità, ponendo precise scansioni temporali e individuando con altrettanta precisione gli adempimenti posti a carico del richiedente e quelli gravanti sul responsabile del procedimento.
Infine, per qual che qui rileva, l’art. 36 dello stesso decreto, occupandosi dei presupposti per il rilascio del cd. permesso in sanatoria o “accertamento di conformità”, prevede al comma secondo che: “Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16.”.
Da quanto suesposto si ricava agevolmente come, la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisca un presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, atteso che "ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata" (cfr. C.d.S., sez. V, 30.04.2009, n. 2760; TAR Campania, Napoli, Sez. II, Sent. 21.02.2013, n. 969).
Nel caso in esame, tale conformità urbanistico–edilizia del manufatto rispetto al quale il Comune ha denegato il rilascio del certificato di agibilità risulta per tabulas, avendo lo stesso Comune adottato il provvedimento prot. n. 4420 del 18.06.2012 avente ad oggetto “accoglimento dell’accertamento di conformità edilizia pratica n. 5/2011”.
La circostanza che tale provvedimento subordini il rilascio del titolo al pagamento delle sanzioni pecuniarie ivi determinate e che la ricorrente abbia impugnato tale condizione sul presupposto, poi rivelatosi infondato (cfr. la decisione assunta all’odierna camera di consiglio in relazione al ricorso n. 2496/2012) dell’illegittimità delle sanzioni applicate, non fa venire meno l’esistenza dell’accertamento di conformità urbanistico-edilizia ivi contenuto.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi anche tenendo conto della sospensiva accordata alla ricorrente in sede cautelare, sempre in relazione al ricorso n. 1789/2012, dapprima da questo Tribunale, limitatamente al 50% dell’importo delle sanzioni irrogate col provvedimento di accertamento di conformità, indi dal Consiglio di Stato, in relazione all’intero importo delle sanzioni irrogate.
La sospensione in parola non può che concernere soltanto le sanzioni (effettivo thema decidendum del ricorso n. 1789/2012) lasciando inalterato l’accertamento di conformità urbanistico–edilizio contenuto nel provvedimento ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 cit., che di per sé è sufficiente ad integrare il presupposto poc’anzi tratteggiato del certificato di agibilità, ai sensi della su riportata normativa.
Dalle suesposte considerazioni consegue, al di là dell’infondatezza del primo motivo di ricorso, la fondatezza del secondo motivo, poiché il Comune ha illegittimamente negato il rilascio del certificato sull’erroneo presupposto della sospensione dell’accertamento di conformità, atteso che la sospensione in parola ha riguardato soltanto l’importo delle sanzioni –sub iudice nella causa n. 1789/2012 r.g., chiamata anch’essa all’odierna udienza– e non anche l’accertamento di conformità (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2013 n. 2279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICATar Lombardia. La libertà economica. Il piano regolatore non può ostacolare i supermercati.
DALL'EUROPA/ La direttiva Bolkestein ha eliminato i contingenti numerici e i limiti territoriali all'apertura di nuovi esercizi
La libertà di iniziativa economica e l'uniformità di accesso dei consumatori a beni e servizi prevalgono sulle destinazioni dei piani urbanistici.

È il principio posto dal TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2271, che accoglie la tesi una catena discount che voleva ampliare da 600 ad 800 metri quadri la propria struttura di San Giuliano Milanese. La sentenza è rilevante perché ritiene validi per l'intero territorio nazionale alcuni princìpi desunti dalla direttiva Bolkestein (123/2006) che abroga le disposizioni di atti di pianificazione e programmazione territoriale che pongano divieti e restrizioni all'apertura di attività commerciali.
Il legislatore italiano ha recepito la direttiva eliminando contingenti numerici e limiti territoriali all'apertura di nuovi esercizi, salvaguardando solo le esigenze di ambiente e salute e i vincoli culturali (articolo 31 del Dl 201/2011). Ma i piani urbanistici hanno continuato a imporre limiti alle aperture di medie e grandi strutture di vendita. La sentenza interrompe questa prassi, aggirando il limite posto dal piano urbanistico e ritenendo che il Comune non possa inserirvi limitazioni commerciali.
Secondo i giudici, i piani urbanistici non possono eccedere dalla programmazione territoriale, invadendo quella economica: non possono porre divieti sproporzionati rispetto alla tutela dell'ambiente urbano, all'assetto del territorio, alla viabilità e agli standard (verde, parcheggi). Altrimenti devono intendersi abrogati dalla direttiva e dalla legge nazionale di attuazione (Dl 1/2012). Con questo ragionamento, il ricorso del discount è stato accolto perché il Comune si era limitato a eccepire il contrasto con lo strumento urbanistico, senza richiamare problemi di viabilità o infrastrutture.
Secondo il Tar, la direttiva Bolkestein dal marzo 2012 (per effetto della conversione in legge del Dl 1/2012) supera i divieti urbanistici comunali su nuovi insediamenti o ampliamenti commerciali. Devono infatti prevalere libertà di iniziativa economica e di concorrenza, non vi possono essere limiti numerici, autorizzazioni, licenze o preventivi atti di assenso non giustificati da interesse generale (articolo 11 del Dl 1/2012).
Questi princìpi hanno già passato il vaglio della Corte costituzionale (sentenza 38/2013): la Provincia autonoma di Bolzano aveva tentato di limitare l'insediamento in zone produttive, consentendovi solo vendita di auto, materiali edili e prodotti agricoli. Questi limiti sono stati eliminati dalla Consulta per contrasto coi princìpi di libertà di iniziativa economica e di stabilimento.
Allo stesso modo, applicando la sentenza del Tar di Milano, i piani urbanistici vedono ampliarsi le loro maglie, che invece erano state via via ristrette dalle prassi comunali.
Gli effetti della sentenza del Tar di Milano sono in parte mitigati dall'articolo 31, comma 2, del Dl 201/2011 (modificato nell'agosto scorso dal Dl 69/2013), che consente agli enti locali di prevedere aree interdette agli esercizi commerciali o limitazioni agli insediamenti di attività produttive e commerciali.
Poiché tuttavia la normativa comunitaria prevale, l'innovazione contenuta nel Dl 69/2013 non può convalidare tutte le previsioni in dettaglio dei piani urbanistici, ma può operare solo per generiche zone ed in presenza di specifiche esigenze di tutela della salute, dei beni culturali e dell'ambiente urbano (articolo Il Sole 24 Ore 17.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno della Pa risarcibile se c'è «cattivo esercizio».
Il risarcimento del danno da cattivo esercizio dell'attività amministrativa è legato alla violazione di principi che il Consiglio di Stato (quinta sezione, sentenza 4968), identifica sotto il profilo oggettivo e soggettivo. La compromissione deve riguardare: i criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza; l'aggravamento del procedimento non dovuta a straordinarie e motivate esigenze imposte dalla doverosa attività istruttoria; la mancata doverosa conclusione del procedimento amministrativo con un provvedimento espresso; la mancata motivazione dei provvedimenti autorizzatori che devono essere motivati - i principi di legalità, imparzialità e buon andamento (art. 97 Costituzione); l'ingiustificato arresto procedimentale, rinviando sine die il doveroso esercizio della funzione amministrativa.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 09.10.2013 n. 4968 ha affrontato una situazione di ritardo nel rilascio di un permesso a costruire, ritardo ritenuto ingiustificato. Tale evenienza è, in genere, destinata a riguardare ogni tipo di attività diretta al rilascio di un provvedimento amministrativo, in ipotesi in cui l'Amministrazione richiede, ovvero dispone incombenti istruttori non oggettivamente necessari, i quali, proprio per tale motivo, diventano ingiustificati e causativi di responsabilità. La sentenza merita di essere segnalata non tanto perché riprende l'affermata risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo, riconosciuta fin dalla sentenza 500 del 1999 delle Sezioni unite della Cassazione, quanto per l'individuato decalogo che con chiarezza viene a indicare le condizioni per ottenere il risarcimento del danno verso la Pa.
Spiegano i giudici che l'immotivata e irragionevole inerzia a provvedere, e a non provvedere tempestivamente, genera il diritto al risarcimento allorché si tenga presente che: non si è mai in presenza di un mero ritardo nell'esercizio dell'attività amministrativa, qualora il provvedimento venga successivamente rilasciato. Dal momento che in tal caso si dimostra la sussistenza in capo al richiedente del diritto al «bene della vita», rappresentato dall'interesse perseguito e meritevole di tutela con l'ottenimento del richiesto provvedimento; di fronte all'inerzia della situazione è irrilevante la circostanza che il richiedente abbia omesso di impugnare il silenzio rifiuto che si era eventualmente formato. A tal proposito il Consiglio di Stato afferma che «il decorso del termine per provvedere -per il rilascio del provvedimento- non esaurisce il potere/dovere dell'amministrazione di provvedere sulla domanda del privato (si veda pure Consiglio di Stato, Quinta sezione, sentenza 6623/2005). Tale evenienza costituisce silenzio/rifiuto del richiesto provvedimento».
Si vuole con ciò attribuire al richiedente «la facoltà di liberarsi dell'inerzia dell'amministrazione e dell'onere della diffida e messa in mora di quest'ultima, indispensabile per adire il giudice amministrativo (C.d.S., sez. V, 25.09.1998, n. 1326; sez. IV, 01.10.1993, n. 818)». Il che fa sì che la mancata impugnazione dell'inerzia, cioè del silenzio serbato dalla Pa, rileva sotto il diverso profilo della richiesta risarcitoria come causa del danno e della concreta sua determinazione (art. 1227 del Codice civile e 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo). La sola illegittimità dell'atto è, tuttavia, di per sé insufficiente per dar luogo alla responsabilità e al conseguente risarcimento del danno per lesione dell'interesse legittimo.
È, quindi, necessario anche il concorso dell'elemento soggettivo, cioè del requisito della "colpa", come negligenza tenuta nell'esercizio dell'attività della Pa. Spiega il Consiglio di Stato che la colpa ricorre allorché vengano violati i principi di imparzialità, collegato al dovere della parità di trattamento per l'Amministrazione. A ciò si aggiunga, ora, anche la compromissione del dovere di astensione in capo al responsabile del procedimento, in caso di conflitti di interesse (articolo 6-bis della Legge 241 del 1990, introdotto con la Legge 190 del 2012 di buon andamento, di difetto assoluto di motivazione, di ingiustificato illogico aggravamento o arresto del procedimento.
Tutti tali aspetti sono in grado, se ricorrenti, di determinare la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa, necessario agli effetti risarcitori. L'errore scusabile elimina l'elemento psicologico per la responsabilità, se sussistono: peculiari complessità dei fatti; contrasti giurisprudenziali; incertezza normativa; determinazione presa in conformità a un precedente atto amministrativo.
Infine sono irrilevanti prassi o comportamenti reiterati degli Uffici amministrativi
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2013).

PATRIMONIOStazioni, locazione pubblica.
Illegittima la trattativa privata per la locazione di vani commerciali all'interno della stazione. Ciò quando i contenuti specifici del contratto vanno ben oltre la cessione della mera detenzione dell'immobile. Ovvero nel caso in cui prevedono un'ingerenza delle Ferrovie non giustificata da un mero rapporto di locazione ed evidenziano, invece, che il contratto è caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.

Se non vi è in sostanza, ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza 04.10.2013 n. 4902, una mera connessione logistica dovuta alla collocazione dell'attività in locali destinati al servizio pubblico ma una chiara connessione funzionale con i viaggiatori, va applicato il codice degli appalti.
Tanto gli appalti «sotto soglia», che fruiscono di una temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di servizi «esclusi», che fruiscono di un regime di parziale esenzione, precisa infatti la sentenza, rientrano negli scopi del diritto comunitario. Con la conseguenza che va applicato l'art. 27 del dlgs 163/2006, il quale estende l'applicazione dei principi del trattato Ue anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto. E ciò in quanto è posto un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti.
Nel caso specifico, il contratto stipulato dalle Ferrovie prevedeva che la struttura e la destinazione dei locali, i tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi dovevano essere predisposti e organizzati sotto la direttiva delle Ferrovie allo scopo del migliore soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori. Il contratto prevedeva, inoltre, che «la ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il pavimento dell'intero atrio biglietteria, sala d'attesa e quant'altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno ed esterno della stazione» (articolo ItaliaOgggi del 18.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAEdificabilità dei terreni, no all'azione obbligata. Cassazione sulla negazione della concessione comunale.
Il proprietario di un terreno non può essere obbligato ad agire in sede giurisdizionale per affermare l'edificabilità del terreno e, inoltre, qualora il comune dovesse negare la concessione edilizia, chi ha alienato il terreno non può azionare il ricorso poiché la richiesta di concessione presuppone un interesse di tipo pretensivo, del quale il dante causa non può ritenersi titolare.

Ad affermarlo è stata la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 30.09.2013 n. 4827.
Secondo i giudici di Palazzo Spada non giova richiamare la giurisprudenza amministrativa che riconosce la legittimazione a impugnare strumenti urbanistici non solo ai titolari di aree in essi comprese, ma anche quelli di aree vicine, ogniqualvolta costoro lamentino una diminuzione di valore a causa del nuovo assetto pianificatorio.
Gli obblighi discendenti in capo all'alienante del terreno non sono idonei a fondare invece alcuna relazione qualificata con il medesimo.
L'esposizione dello stesso alle possibili impugnative contrattuali dell'acquirente non gli consentono certamente di chiedere in luogo di questi i necessari titoli edilizi, trattandosi di un'ingerenza nella proprietà altrui non consentita da alcuna norma di legge, e tanto meno di reagire davanti all'autorità giurisdizionale contro i relativi dinieghi, pena altrimenti la violazione del divieto di sostituzione processuale sancito con carattere di generalità dall'art. 81 cod. proc. civ.
I giudici amministrativi hanno poi sottolineato che, in base alla disciplina normativa applicabile «ratione temporis» e cioè la legge n. 10/1977, «la concessione a edificare poteva essere rilasciata al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla» (art. 4, comma 1, sostanzialmente corrispondente all'art. 11, del Testo unico dell'edilizia di cui al dpr n. 380/2001 attualmente in vigore). Il riferimento operato dalla citata disposizione al «titolo» era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base a un diritto personale (come per esempio il promissario acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il proprietario; Consiglio di stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
In conclusione: è solo un legame qualificato con l'area da sfruttare a fini edificatori che fonda l'interesse legittimo a ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo, in assenza, si è, rispetto a quest'ultimo, nella posizione di «quisque de populo» (articolo ItaliaOggi Sette del 28.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIRito tributario, atti pubblici. A processo finito sempre possibile conoscere i documenti. La sentenza del Consiglio di stato sul diritto di accesso a conclusione dei procedimenti.
Deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Lo ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 26.09.2013 n. 4821.
I giudici amministrativi hanno osservato che sebbene l'art. 24, della legge 241/1990 vada a escludere il diritto d'accesso nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano, «è da ritenere che la norma debba essere intesa, secondo una lettura della disposizione costituzionalmente orientata, nel senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo. In ragione di ciò deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l'amministrazione abbia concluso il procedimento, con l'emanazione del provvedimento finale».
È stato poi osservato che si profilano precisi obblighi in capo al concessionario alla riscossione, infatti ai sensi dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, recante disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, «il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso del ricevimento e ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione».
Pertanto i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come la cartella esattoriale costituisca presupposto di procedure esecutive e, quindi, risulta strumentale alla tutela dei diritti del contribuente la richiesta di accesso alla cartella, in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico considerate più rispondenti ed opportune e quindi essa deve essere rilasciata, in copia, dalla società concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia proporre ricorso, avverso atti esecutivi iniziati nei suoi confronti.
Una tesi diversa andrebbe a determinare una vera e propria limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del contribuente, o, comunque, rendere estremamente difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe impegnarsi in una defatigante ricerca delle copie delle cartelle. E una tale limitazione finirebbe col collidere con i principi costituzionali posti a garanzia della tutela giurisdizionale, oltre che con il principio, di rango costituzionale, di razionalità (articolo ItaliaOggi del 02.11.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIALa bonifica ricade sulla Pa se l'inquinatore non è noto. Ambiente. Nessun obbligo per il proprietario del sito.
Grava sulla pubblica amministrazione l'obbligo di bonificare i siti contaminati, nel caso in cui il responsabile non sia individuabile o non sia in grado di intervenire.
Così il Consiglio di Stato in adunanza plenaria, con l'ordinanza 25.09.2013 n. 21, ha interpretato le disposizioni in materia di bonifica di siti contaminati introdotte dal Dlgs 152/2006 e, in particolare, gli obblighi e le responsabilità dei diversi soggetti coinvolti. Allo stesso tempo, però, l'adunanza plenaria ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di valutare se la normativa nazionale sia in linea con i principi comunitari: se non lo fosse, sarebbe necessario riscrivere la parte quarta, titolo quinto, del Dlgs 152/2006.
L'ordinanza dell'adunanza plenaria arriva dopo un primo filone giurisprudenziale che escludeva qualsiasi obbligo di bonificare in capo al proprietario incolpevole di un sito contaminato (gli unici soggetti obbligati sarebbero il responsabile dell'inquinamento e, in subordine, la Pa), da cui però hanno preso le distanze alcune pronunce più recenti (ad esempio, la sentenza 2263/2011 del Tar Lazio). Infatti, in considerazione dei principi comunitari di precauzione e prevenzione e della responsabilità per il danno causato da cose in custodia (prevista dall'articolo 2051 del Codice civile), alcuni giudici amministrativi hanno riconosciuto in capo al proprietario incolpevole una responsabilità da posizione di tipo oggettivo che impone di intervenire nella bonifica, pur non avendo contribuito alla contaminazione.
L'ordinanza 21 dell'adunanza plenaria, invece, ha confermato che il proprietario incolpevole non è obbligato a bonificare, né deve attuare le misure di messa in sicurezza d'emergenza, a meno che non decida di intervenire volontariamente. L'unico obbligo da "posizione" previsto dall'articolo 245 del Dlgs 152/2006 per il proprietario incolpevole è quello di attuare le misure di prevenzione al momento della scoperta di una contaminazione storica: vale a dire, porre in essere le iniziative immediate volte a contrastare un evento che possa creare una minaccia per l'ambiente.
Il Consiglio di Stato ha spiegato che una responsabilità da posizione non può ricondursi all'articolo 253 del Dlgs 152/2006, che introduce un onere reale sulle aree bonificate dalla Pa d'ufficio, perché questo onere reale rappresenta solo una garanzia patrimoniale limitata al valore dell'area per il rimborso dei costi di ripristino ambientale. Né si applica la responsabilità per i beni tenuti in custodia, perché far riferimento all'articolo 2051 del Codice civile, di fatto, snaturerebbe l'impianto normativo del Dlgs 152/2006.
Quindi, se il responsabile della contaminazione non è più individuabile o non è in grado di intervenire, l'obbligo di bonificare grava unicamente sulle spalle della Pa. Come detto, però, l'adunanza plenaria ha comunque chiesto alla Corte di giustizia europea di valutare, in via pregiudiziale, se l'impianto normativo nazionale in materia di bonifiche così interpretato sia effettivamente in linea con i principi comunitari «chi inquina, paga», di precauzione e di prevenzione.
In attesa che si pronunci la Corte Ue, i Comuni e le Regioni rischiano di dover mettere a bilancio le risorse economiche necessarie per bonificare i siti contaminati per i quali non provveda il responsabile. A fronte di tale rischio, potrebbe, quindi, essere opportuno programmare interventi di recupero ambientale di siti contaminati concordati tra pubblico e privato, anche in un'ottica di sostenibilità economica degli interventi di bonifica, supportati da una valorizzazione urbanistica delle aree
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2013).

SICUREZZA LAVOROIl datore risponde per rischi specifici. La responsabilità del datore per l'infortunio del lavoratore scatta solo se il rischio è specifico. Infortuni sul lavoro. Il pericolo occulto non rientra nell'attività di controllo quotidiano.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 24.09.2013 n. 39491.
La vicenda riguarda una ditta, aggiudicataria dell'appalto della nettezza urbana dell'area mercatale comunale, che aveva consentito a un proprio dipendente di lavorare vicino a un cancello in ferro, senza il perno di fermo di fine corsa. Così, il lavoratore, mentre spostava una delle ante scorrevoli per effettuare le pulizie, ha fatto fuoriuscire l'anta dal binario, che lo ha travolto e gli ha provocato gravi lesioni, con compromissione della colonna vertebrale.
Sia in primo grado sia in appello, l'imprenditore è stato condannato per il delitto di lesioni colpose, poiché non ha garantito la piena sicurezza del luogo dove l'operaio svolgeva le sue mansioni, informandolo dei rischi specifici della sua attività. Infatti, precisa il giudice del merito, gli obblighi di sicurezza gravano non solo sul committente, titolare dell'area dove si svolgono i lavori, ma anche sul l'appaltatore.
La vicenda arriva in Cassazione. La Corte, ribaltando la decisione, afferma che il datore di lavoro non è responsabile per l'infortunio del dipendente, se il rischio non è specifico e proprio dell'attività imprenditoriale svolta. In sostanza, sono rischi specifici soltanto quelli rispetto ai quali sono richieste precauzioni e regole che comportano una determinata competenza tecnica, mentre il pericolo occulto non rientra nel quotidiano controllo di cui deve farsi carico il datore.
Inoltre la Cassazione, con la sentenza 14468 del 7 giugno, ha affermato che l'obbligo di tutela dell'integrità fisica del lavoratore imposto dall'articolo 2087 del Codice civile è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge per il tipo specifico di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi legati all'impiego di attrezzi e macchinari e anche al l'ambiente di lavoro.
Con la sentenza 23670 del 31 maggio, la Corte di legittimità ha sostenuto che, in caso di affidamento dei lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno dell'azienda, tra gli altri obblighi che gravano sul datore, c'è quello di fornire a questi soggetti informazioni dettagliate sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati a operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate per la propria attività.
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I principi
01 | ONERI DEL DATORE
In base alla sentenza della Cassazione 39491 del 24 settembre, il datore di lavoro non è responsabile per l'infortunio del dipendente, se il rischio non è specifico e proprio dell'attività imprenditoriale svolta. Sono rischi specifici quelli per i quali è richiesta una competenza tecnica
02 | APPALTO DI LAVORI
In base alla sentenza della Cassazione 23670 del 31 maggio, in caso di affidamento dei lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno dell'azienda, il datore deve fornire agli stessi soggetti informazioni dettagliate sui rischi specifici dell'ambiente in cui lavoreranno (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio: quando il vincolo paesaggistico e' ''insuperabile''.
Non è possibile il rilascio del condono edilizio ex legge n. 326/2003, su zone sottoposte a vincolo paesaggistico, qualora sussistano congiuntamente queste due condizioni ostative: a) il vincolo di in edificabilità sia preesistente all'esecuzione delle opere abusive; b) le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. In tal caso l'incondonabilita' non e' superabile nemmeno con il parere positivo dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
La questione posta all’attenzione del Consiglio di Stato riguarda la legittimità del rigetto dell’istanza di condono edilizio, presentata ai sensi dell’art. 32, del d.l. n.269/2003 convertito in legge n. 326/2003, per abusi insistenti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico preesistente e non conformi alle norme ed alle prescrizioni urbanistiche.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con una serie di sentenze di pari data (17.09.2013) aventi analoga motivazione (sent. n. 4587, 4592, 4593, 4594, 4595, 4597, 4598, 4599, 4601), ha ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui non è possibile il rilascio del condono edilizio ex legge n. 326/2003, su zone sottoposte a determinati vincoli di inedificabilità relativa, tra cui i vincoli paesaggistici, qualora sussistano congiuntamente queste due condizioni ostative:
- a) il vincolo di in edificabilità sia preesistente all’esecuzione delle opere abusive;
- b) le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
In tal caso l’incondonabilità non è superabile nemmeno con il parere positivo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (che nel caso in questione era stato reso).
In presenza di queste condizioni non si può nemmeno fare riferimento, al fine di conseguire la sanatoria, alla disciplina del primo condono edilizio di cui alla legge n. 47/1985, in gran parte richiamata nei condoni edilizi successivi di cui alle leggi n. 724/1994 e n. 326/2003
Nel regime previsto dalla legge n. 47/1985, difatti, la sanatoria delle opere abusive realizzate su aree sottoposte vincoli di edificabilità relativa, quali quelli di carattere paesaggistico, è preclusa solo nel caso di parere negativo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso.
La legge n. 326/2003 che ha introdotto il c.d. terzo condono, però, pur collocandosi sull’impianto generale della legge n. 47/1985, disciplina in maniera più restrittiva le ipotesi in cui sussistano determinati vincoli di inedificabilità relativa (tra cui quelli a protezione dei beni paesistici), precludendo la sanatoria delle opere abusive sulla base della anteriorità del vincolo e della difformità dalla normativa o dagli strumenti urbanistici, senza la previsione procedimentale di alcun parere dell’autorità ad esso preposta, con ciò collocando gli abusi nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria.
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Esito
Conferma TAR Puglia Lecce, Sez. III n. 736/2009
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato Sez. VI, 29.04.2013, n. 2343; TAR Campania Napoli Sez. IV, 03.01.2013, n. 90; Cons. Stato Sez. IV, 19.05.2010, n. 3174; Cons. Stato Sez. IV, 18.06.2009, n. 4020; Cons. di Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4396
Riferimenti normativi
Art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n.269/2003 convertito in legge n. 326/2003; art. 33 della legge n. 47/1985 (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2013 n. 4587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl box autonomo non si può rialzare. Condominio. Niente «Tognoli»
La sopraelevazione della copertura di un'autorimessa pertinenziale ma strutturalmente autonoma non rientra nella legge 122 del 1989 (legge Tognoli), che si applica solo nei casi di parcheggio realizzati nel sottosuolo o al piano terreno degli edifici.

Lo ha ricordato la Corte di Cassazione che, con la sentenza 11.09.2013 n. 20850, ha dato torto al proprietario di un fondo che aveva sopraelevato la propria autorimessa, appellandosi alla legge Tognoli.
Questa legge, anche se intende favorire la realizzazione di autorimesse, punta anche a salvare l'aspetto visibile del territorio: consente di realizzare parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno di un fabbricato preesistente, proprio perché queste strutture non comportano alterazioni visibili del territorio. Dopo il ricorso di un vicino, il proprietario è stato condannato, sia in primo, sia in secondo grado, a ripristinare lo stato dei luoghi. L'uomo ha quindi fatto ricorso in Cassazione.
Secondo i giudici di legittimità, l'articolo 9 della legge 122 del 1989 stabilisce che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo dei residenti, nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici».
Nel caso analizzato, però, l'autorimessa non era stata realizzata nel sottosuolo dell'edificio, né nei suoi locali al piano terreno, bensì in un'area pertinenziale all'immobile. Non è quindi ammessa la deroga agli obblighi di distanza, dato il carattere eccezionale della norma derogatoria rispetto all'ordinaria disciplina delle distanze che non legittima alcuna interpretazione estensiva.
Gli stessi giudici, infatti, hanno richiamato la più recente giurisprudenza amministrativa secondo la quale «la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra».
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Il percorso
01 | IL CASO
Il proprietario di un'autorimessa realizzata in un'area pertinenziale a un edificio, che ne aveva sopraelevato la copertura, è stato condannato in primo e in secondo grado, a ripristinare lo stato dei luoghi
02 | LA SOLUZIONE
Per la Cassazione, che si è espressa nella sentenza 20850 dell'11 settembre scorso, la sopraelevazione della copertura di un'autorimessa pertinenziale ma strutturalmente autonoma non rientra nella legge 122 del 1989 (legge Tognoli), che si applica solo nei casi di parcheggio realizzati nel sottosuolo o al piano terreno degli edifici. Non è quindi ammessa la deroga agli obblighi di distanza (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2013).

TRIBUTIDenuncia Tarsu, sanzione unica.
La sanzione per l'omessa denuncia Tarsu deve essere applicata una sola volta. Di più. Se l'obbligo di dichiarazione era scattato oltre cinque anni prima della contestazione, non è dovuto alcunché.

Questi i principi che si leggono nella sentenza 26.07.2013 n. 123/02/13 della Ctp di Lecco.
Un contribuente agiva contro il comune di Calco (Lc) per degli avvisi di accertamento relativi ad un locale per il quale non mai stata presentata la denuncia ai fini della Tarsu.
Interessante la parte della decisione che riguarda la sanzione: «La sanzione per l'omessa denuncia deve essere applicata una sola volta in relazione all'anno rispetto al quale non è stata presentata la dichiarazione agli effetti Tarsu, atteso che tale dichiarazione non deve essere ripetuta tutti gli anni, trattandosi di una violazione tributaria omissiva di carattere istantaneo e non già permanente».
Dunque, poiché l'omissione che si va a sanzionare è punibile una sola volta, nel momento in cui è consumata, ne deriva che, qualora l'obbligo di dichiarazione sia insorto più di cinque anni prima della constatazione, la sanzione non può più essere irrogata. «Infatti», afferma la Ctp, «ai sensi dell'articolo 20 del dlgs 472 del 1997, l'atto di contestazione della violazione deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione».
Ciò che rileva, dunque, è valutare quando il contribuente sia entrato in possesso del bene: da tale momento scatta l'obbligo di denuncia e, di conseguenza, il termine quinquennale per irrogare la sanzione relativa all'eventuale omissione (articolo ItaliaOggi Sette del 21.10.2013).

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