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AGGIORNAMENTO AL 28.10.2013 |
ã |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Testo
Unico sulla Sicurezza. Ecco l’edizione aggiornata ad ottobre
2013.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi
di lavoro, in vigore dal 15.05.2008 (D.Lgs. 81/2008), nel
corso del tempo ha subito diverse modifiche ed integrazioni.
In allegato a questo articolo proponiamo la
versione aggiornata ad ottobre 2013 pubblicata sul sito
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Il testo, corredato da allegati, note, commenti e da
un’ampia appendice normativa, è coordinato con le più
recenti disposizioni integrative e correttive.
Le novità nella versione di ottobre sono:
●
Legge 119/2013 di conversione al Decreto Legislativo 93/2008
con modifiche agli artt. 8, comma 4, 71, comma 13-bis e 73,
comma 5-bis;
●
Legge 98/2013 di conversione al Decreto 69/2013 con
modifiche agli artt. 3, 6, 26, 27, 29, 31, 32, 37, 67, 73,
71, 88, 104-bis, 225, 240, 250 e 277;
●
Legge 99/2013 di conversione al Decreto 76/2013 con
l’aggiornamento degli importi delle sanzioni;
●
Circolari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
n.: 18, 21, 28, 30, 31 e 35;
●
Circolari del Ministero della Salute del 10.05.2013 e del
10.06.2013;
●
Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e
del Ministero della Salute del 30.05.2013 riguardante
l’elenco delle aziende autorizzate ad effettuare lavori
sotto tensione su impianti elettrici alimentati a frequenza
industriale a tensione superiore a 1000V (ai sensi del punto
3.4 dell’allegato I al D.M. 04/02/2011);
●
Decreto Dirigenziale del 31.07.2013 riguardante il sesto
elenco dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle
verifiche periodiche di cui all’art. 71, comma 11
(24.10.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Detrazioni
fiscali del 65%, del 50% e bonus mobili. Cosa accade con la
Legge di Stabilità?
Da poco varato dal Governo il disegno di legge per la
stabilità 2014 (V. art. Arriva la legge di stabilità!
Tante novità per imprese, professionisti e cittadini…).
Tra i provvedimenti previsti dalla bozza vi è la proroga di
tutti i bonus fiscali previsti attualmente per interventi
sulla casa, per dare maggior respiro al settore
dell’edilizia.
In particolare, il testo prevede di prorogare le
agevolazioni fiscali nel seguente modo: ...
(24.10.2013 - link a www.acca.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Tutta la documentazione per la gestione delle terre e rocce
da scavo.
L’Ance mette a disposizione una prima documentazione, che
sarà via via aggiornata, relativa alla gestione delle terre
e rocce da scavo come sottoprodotti che è stata oggetto,
nell’ultimo anno, di una serie di importanti modifiche
iniziate nell’agosto del 2012 con la pubblicazione del D.M.
161 e che si sono al momento concluse con l’entrata in
vigore, il 21 agosto scorso, dell’art. 41-bis del decreto
legge n. 69 convertito nella legge n. 98 del 2013.
Nel frattempo sono in corso di emanazione, a livello
regionale, alcuni provvedimenti di natura applicativa
relativamente alle procedure indicate nell’articolo 41-bis.
Tralasciando la situazione di incertezza normativa ed
interpretativa verificatasi tra il mese di giugno e in parte
di agosto del 2013, la gestione delle terre e rocce da scavo
come sottoprodotti anziché come rifiuti è riconducibile a
due linee e cioè:
• Opere soggette a Valutazione di Impatto Ambientale – VIA e
attività soggette a Autorizzazione Integrata Ambientale –
AIA --> soggette al D.M.161/2012
• Altre opere/cantieri --> soggette all’art. 41-bis D.L.
69/2013 – L. 98/2013 (21.10.2013 - link a
www.ance.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI:
G.U. 25.10.2013 n. 251
"Determinazione dei contenuti e delle modalità delle
attestazioni dei Comuni comprovanti il conseguimento di
significativi livelli di efficacia ed efficienza nella
gestione associata delle funzioni" (Ministero
dell'Interno,
decreto 11.09.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
25.10.2013 n. 251 "Regolamento in materia di proroga del
blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali
per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi
1, 2 e 3, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito,
con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111"
(D.P.R.
04.09.2013 n. 122). |
APPALTI:
G.U. 22.10.2013 n. 196 "Testo
del decreto-legge 28.06.2013, n. 76, coordinato con la legge
di conversione 09.08.2013, n. 99, recante: «Primi
interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in
particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in
materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure
finanziarie urgenti»". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Mantegazza,
Modificazioni al Testo Unico in materia Edilizia (D.P.R.
380/2001) - D.L. 21.06.2013 n. 69 convertito in Legge
09.08.2013 n. 98 – Art. 30
(settembre 2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
W. Fumagalli,
LA DISCIPLINA URBANISTICA VALE ANCHE PER LE CASE MOBILI - LE
CASE MOBILI, I TITOLI ABILITATIVI EDILIZI E LE PREVISIONI
URBANISTICHE (AL n. 492/2012). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Disegno di legge di stabilità 2014 - Taglio dei
compensi all'avvocatura e l'interpretazione sulle festività
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL. - Festività infrasettimanali, lavoro in
turni, riduzione dell'orario di lavoro
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 09.10.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI
LOCALI - VARI:
Oggetto: Preavvisi di accertamento delle violazioni alle
norme sulla sosta dei veicoli. Pagamento in misura ridotta,
con ulteriore riduzione del 30 per cento (articolo 202,
comma 1, secondo periodo del C.d.S.) - Analisi sintetica
delle criticità. Quesito (Ministero dell'Interno,
Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
OGGETTO: Legge 07.08.1990, n. 241, art. 14 - Comuni di
ROVIGO, VILLANOVA DEL GHEBBO, LENDINARA e BADIA POLESINE -
Lavori urgenti di sostituzione delle alberature stradali
lungo la SR 88 "Rodigina" dal km 0+000 al km 30+452 in
tratti saltuari - Richiedente: Veneto Strade Spa -
Conferenza di servizi del 02.07.2013 - Quesito (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota 24.10.2013 n. 18384 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Verifica dell'interesse culturale di cui
all'art. 12, comma 1, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Cose
immobili e mobili, opere di autore non più vivente e la cui
esecuzione risalga a più di settanta anni, trasferite a
società di diritto privato con scopo di lucro a seguito di
processi di privatizzazione verificatesi prima dell'entrata
in vigore dell'art. 12 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 06.09.2011 n. 57/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Elaborato denominato "Fotovoltaico.
Prontuario per la valutazione del suo inserimento nel
paesaggio e nei contesti architettonici" (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 08.08.2011 n. 54/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Art. 146, comma 7
(MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 04.05.2011 n. 34/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: CASTELNUOVO DEL GARDA (Verona) - Autorizzazione
paesaggistica di cui all'art. 146 del D.Lgs. 22.01.2004, n.
42 - Taglio di alberi di alto fusto per installazione di
linea elettrica in area tutelata ai sensi dell'art. 142,
comma 1, lett. c), del medesimo decreto - Quesito (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota
14.03.2011 n. 4533 di prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: Competenze professionali - Consiglio di Stato,
Sez. VI, ordinanza 06.12.2010, n. 5540 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 10.01.2011 n. 1/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Autorizzazione
paesaggistica di cui all'art. 146 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 09.12.2010 n. 42/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.P.R. 09.07.2010, n. 139, "Regolamento recante
procedimento semplificato di autorizzazione per gli
interventi di lieve entità, a norma dell'art. 146, comma 9,
del decreto n. 42, e successive modificazioni" (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 09.11.2010 n. 38/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il Testo
unico delle disposizioni in materia edilizia - Conservazione
di manufatti abusivi realizzati in aree sottoposte alla
tutela paesaggistica di cui alla parte III del Codice dei
beni culturali e del paesaggio, approvato con d.lgs.
22.01.2004 n. 42
(MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 09.11.2010 n. 37/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146
del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Zone di interesse
archeologico di cui all'art. 142, comma 1, lettera m) (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 28.10.2010 n. 35/2010). |
PATRIMONIO:
Oggetto: PIANIGA (Venezia) - Villa Calzavara Pinton -
Contratto di leasing - QUESITO (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 13.10.2010 n. 32/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - art. 56 - Alienazione
di beni culturali effettuata in assenza di autorizzazione -
Ammissibilità dell'autorizzazione ex post (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 06.10.2010 n. 31/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Facoltà di richiedere chiarimenti e
l'integrazione della documentazione in sede di rilascio del
parere vincolante sulla compatibilità paesaggistica (MIBAC,
Ufficio Legislativo
nota 13.09.2010 n. 16725
di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il Testo
unico delle disposizioni in materia edilizia - Conservazione
di manufatti abusivi realizzati in aree sottoposte alla
tutela paesaggistica di cui alla parte III del Codice dei
beni culturali e del paesaggio, approvato con d.lgs.
22.01.2004 n. 42 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 30.06.2010 n. 21/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Atti di alienazione non denunciati
tempestivamente ai fini dell'esercizio del diritto di
prelazione - D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, articoli 60 e seguenti
- PADOVA - Complesso denominato "Immobile in Via San
Prosdocimo, 8" - D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 59 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 04.08.2009 n. 9/2009). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 - art. 21 (interventi
soggetti ad autorizzazione) e art. 45 (prescrizioni di
tutela indiretta (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 19.11.2008 n. 1/2008). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Verifica dell'interesse culturale - D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, art. 12 - Motivazione ai sensi dell'art.
10, comma 3, lett. d) (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
circolare 22.10.2008 n. 2/2008). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.P.R. 06.06.201 n. 380, articoli 33 e 37.
DIRETTIVA (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
direttiva
21.07.2008 n. 9089 di prot.). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Art. 110 d.lgs. 267/2000.
Il Ministero dell'Interno ha chiarito
che, nei confronti dei contratti stipulati ex art. 110 del
TUEL, non trovano applicazione le disposizioni di cui al
d.lgs. 368/2001, trattandosi di norma speciale che deroga
alla disciplina generale in materia di contratti di lavoro a
tempo determinato.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche relative a contratti di alta specializzazione
stipulati ai sensi dell'art. 110 del d.lgs. 267 del 2000. In
particolare, l'Ente si è posto la questione, relativamente
alla durata dei medesimi e ai vincoli di proroga, se sia da
ritenersi prevalente il disposto dell'art. 110 citato (norma
speciale) rispetto alle previsioni generali contenute nel
d.lgs. 368/2001 (artt. 4 e 5 [1]).
Si osserva che sull'argomento in esame ha già avuto modo di
esprimersi Il Ministero dell'Interno [2].
Al riguardo si è precisato che la disciplina sugli incarichi
a contratto stipulati ai sensi dell'art. 110, commi 1 e 2,
del d.lgs. 267/2000, è contenuta esclusivamente nel medesimo
articolo, che dispone puntualmente i presupposti per la sua
applicazione, ovvero: la sussistenza di una specifica
previsione statutaria o regolamentare[3], le modalità di
conferimento degli incarichi stessi, i requisiti necessari,
la loro durata e il relativo trattamento economico, nonché
le cause di risoluzione del rapporto medesimo.
Conseguentemente, il citato Ministero ha ribadito che la
disciplina di cui all'art. 110 del TUEL deve ritenersi quale
normativa speciale, che deroga a quella più generale
contenuta nel d.lgs. 368/2001, che regolamenta i rapporti di
lavoro a tempo determinato.
Si consideri, ad esempio, che il comma 3 del medesimo
articolo 110 stabilisce che la durata massima di detti
contratti sia collegata a quella del mandato elettivo del
sindaco, configurandoli quindi come incarichi di tipo
fiduciario, e il successivo comma 4 prevede, quale ulteriore
causa di risoluzione di diritto, la dichiarazione di
dissesto da parte dell'ente o il fatto che lo stesso si
trovi in situazione strutturalmente deficitaria.
In conclusione, si è evidenziato come, per le considerazioni
su esposte, non possano applicarsi, nei confronti dei
contratti di cui si discute, i termini di interruzione e i
limiti alle proroghe fissati dalla disciplina che
regolamenta in generale i contratti di lavoro a tempo
determinato, nello specifico dal d.lgs. 368/2001.
---------------
[1] Dette norme prevedono una durata massima di 36 mesi.
[2] Cfr. parere del 23.09.2009, consultabile sul sito:
http://incomune.interno.it/pareri.
[3] A seconda che si tratti di incarichi sottoscritti ai
sensi del comma 1, per la copertura di posti in dotazione
organica, o ai sensi del comma 2, extra dotazione (23.10.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
ACQUISTO FORNITURE:
Acquisto arredi urbani alla luce della normativa vigente.
La disposizione di cui all'art. 1, comma
141, L. n. 228/2012, sancente limiti di spesa, negli anni
2013 e 2014, per l'acquisto di mobili e arredi, non sembra
da ritenersi riferibile, secondo la Ragioneria Generale
dello Stato, al cosiddetto arredo urbano, nel presupposto
che tale arredo sia destinato esclusivamente a strade
pubbliche.
Ciò, ad avviso dell'Ufficio ministeriale, in quanto, in
ragione di un'interpretazione logica, il limite di spesa si
ritiene rivolto esclusivamente agli immobili intesi come
'unità immobiliari', giusta la definizione contenuta
nell'art. 2 del decreto del Ministero delle Finanze
02.01.1998, n. 28, 'Regolamento recante norme in tema di
costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di
produzione ed adeguamento della nuova cartografia
catastale', e cioè, sostanzialmente, porzioni di fabbricato,
fabbricati, un insieme di fabbricati o aree, che presentano
potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
Il Comune chiede di sapere se la disposizione di cui
all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012 [1]
(Legge di stabilità 2013) sancente limiti di spesa, negli
anni 2013 e 2014, per l'acquisto di mobili e arredi, si
applichi anche alle forniture del così detto 'arredo
urbano'. L'Ente specifica come, in genere, trattasi di
attrezzature (panchine, cestini, paletti dissuasori di
traffico, etc.).
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Il comma 141 dell'art. 1 della legge di stabilità 2013, come
da ultimo novellata dall'art. 18, comma 8-septies, D.L. n.
69/2013 [2],
convertito con modificazioni dalla L. n. 98/2013
[3],
stabilisce che 'ferme restando le misure di contenimento
della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli
anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, [ ... ] non
possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per
cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011
per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso
scolastico e dei servizi all'infanzia, salvo che l'acquisto
sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla
conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei
revisori di conti verifica preventivamente i risparmi
realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa
derivante dall'attuazione del presente comma. [...]".
Si osserva che il tenore letterale della norma, come da
ultimo novellata, esclude espressamente dalla limitazione di
acquisto i mobili e gli arredi destinati all'uso scolastico
e dei servizi all'infanzia; viene, inoltre, indicata come
eccezione alla misura di contenimento della spesa pubblica
ivi prevista l'ipotesi in cui gli acquisti siano funzionali
alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli
immobili.
Premesso che, trattandosi di una norma statale,
l'individuazione specifica del significato della locuzione 'mobili
e arredi' può provenire unicamente dai competenti organi
statali, in via collaborativa, al fine di definire quali
siano i beni interessati dalla misura finanziaria, si è
ritenuto di contattare, per le vie brevi, la Ragioneria
Generale dello Stato, Ispettorato Generale di Finanza.
Detto Ufficio, premesso che il comma 141 in argomento si
presenta di non semplice applicazione, ha affermato in primo
luogo che per la puntuale identificazione dei mobili e degli
arredi da sottoporre al limite di spesa di cui al comma 141,
si può fare utile riferimento al CPV (vocabolario comune per
gli acquisti) [4],
predisposto dalla Commissione europea con la finalità di
standardizzare, avvalendosi di un unico sistema di
classificazione per gli appalti pubblici, la descrizione
dell'oggetto dei contratti.
La Ragioneria Generale ha ritenuto, pur tuttavia, opportuno
evidenziare che non esiste un legame inscindibile tra l'art.
1, comma 141, L. n. 228/2012, e il CPV. Infatti, nell'ambito
del CPV, i beni sono identificati -attraverso un codice- con
un livello di dettaglio molto elevato, per cui si rende
necessaria, ogni volta che ricorra un acquisto, un'analisi
approfondita dei codici e quindi dei corrispondenti beni cui
applicare o meno il limite introdotto dalla legge.
Secondo l'Ufficio ministeriale, nel caso di specie, il
limite disposto dal comma 141 non sembra da ritenersi
riferibile al cosiddetto arredo urbano (panchine, cestini,
paletti dissuasori di traffico), nel presupposto che tale
arredo sia destinato esclusivamente a strade pubbliche, ciò
in quanto, in ragione di un'interpretazione logica, il
limite di spesa si ritiene rivolto esclusivamente agli
immobili intesi come 'unità immobiliari', giusta la
definizione contenuta nell'art. 2 del decreto del Ministero
delle Finanze 02.01.1998, n. 28, 'Regolamento recante
norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e
modalità di produzione ed adeguamento della nuova
cartografia catastale', e cioè, sostanzialmente,
porzioni di fabbricato, fabbricati, un insieme di fabbricati
o aree, che presentano potenzialità di autonomia funzionale
e reddituale.
---------------
[1] L. 24.12.2012, n. 228, recante: 'Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(Legge di stabilità 2013)'.
[2] D.L. 21.06.2013, n. 69, recante: 'Disposizioni urgenti
per il rilancio dell'economia'.
[3] L. 09.08.2013, n. 98, recante 'Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, recante
disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia (la legge
è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.).
[4] Trattasi del CPV, sistema di classificazione unico per
gli apparati pubblici volto a unificare i riferimenti
utilizzati dalle amministrazioni e dagli enti appaltanti per
la descrizione dell'oggetto degli appalti (16.10.2013
-
link a
www.regione.fvg.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Personale degli enti locali. Competenze degli organi
politici e burocratici.
L'art. 107, comma 4, del d.lgs.
267/2000, prevede che, in osservanza al principio di
separazione dei poteri, le attribuzioni dei dirigenti
possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di
specifiche disposizioni legislative.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al principio di
separazione dei poteri (competenza degli organi politici e
burocratici dell'Ente), in relazione all'attuale
formulazione di una norma statutaria che attribuisce al
Sindaco la competenza ad adottare le ordinanze ordinarie, al
rilascio delle autorizzazioni commerciali, nonché delle
autorizzazioni e delle concessioni edilizie. In particolare
l'Amministrazione, alla luce della legislazione vigente
(anche regionale), si è posta la questione relativa alla
necessità o meno di apportare le eventuali modifiche
statutarie affinché i predetti atti siano firmati dai
funzionari titolari di posizione organizzativa e non più dal
Sindaco.
Preliminarmente si evidenzia in linea generale che le norme
statutarie e regolamentari di organizzazione adottate dagli
enti locali per definire competenze e ruoli dei singoli
soggetti che operano all'interno delle medesime
amministrazioni devono risultare in armonia con i principi
dettati dall'ordinamento vigente, sia in materia di
organizzazione, che con riferimento ai profili delle
rispettive competenze.
Ai sensi dell'art. 107, commi 1-3, del d.lgs. 267/2000,
spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi
secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai
regolamenti.
In particolare, spettano ai dirigenti tutti i compiti,
compresa l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l'amministrazione verso
l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale. Ai dirigenti sono quindi attribuiti
tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei
programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dagli
organi politici.
Premesso un tanto, si osserva che la giurisprudenza
amministrativa [1]
ha rimarcato che l'art. 107, comma 4, del d.lgs. 267/2000,
ha previsto che le attribuzioni dei dirigenti possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative. Inoltre, il comma 5 del citato
articolo stabilisce che, a decorrere dalla data di entrata
in vigore del medesimo testo unico, le disposizioni che
conferiscono agli organi politici l'adozione di atti di
gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si
intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai
dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e
dall'art. 54 del TUEL.
Il richiamato principio, circa il riparto tra compiti di
governo, di indirizzo e di controllo, spettanti agli organi
politici elettivi, e compiti di gestione spettanti ai
dirigenti, costituisce 'struttura fondante dell'intera
riforma delle autonomie locali' [2],
di per sé immediatamente applicabile, senza la necessità
dell'interposizione di fonti secondarie (statuto o
regolamenti), cui spetta soltanto la determinazione delle
modalità di esercizio della competenza, comunque
indefettibile e tale da non tollerare impedimenti e
soluzioni di continuità [3].
Si rinvia inoltre a quanto disposto dall'art. 42, comma 3,
del CCRL del 07.12.2006, a mente del quale la titolarità di
posizione organizzativa comporta automaticamente il
conferimento delle responsabilità di cui all'art. 107 del
d.lgs. 267/2000, ovvero l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalle leggi e
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente, o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale.
Per quanto concerne la norma statutaria dell'Ente che
attribuisce al Sindaco la competenza ad emanare 'le
ordinanze ordinarie' in generale, si osserva che tale
tipologia di atti è adottata dai dirigenti/titolari di
posizione organizzativa, trattandosi di atti di gestione
dell'attività comunale, ai sensi dell'art. 107, comma 3
[4], del
TUEL.
Invece le ordinanze contingibili ed urgenti, ai sensi
dell'art. 54 del TUEL, sono attribuite al potere esclusivo
del Sindaco, quale ufficiale di governo, che deve adottare
con atto motivato, provvedimenti contingibili ed urgenti al
fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità dei cittadini [5].
Con riferimento poi alla problematica inerente al rilascio
di autorizzazioni e concessioni edilizie, si rappresenta che
l'art. 22, comma 1, della l.r. 19/2009 stabilisce che il
permesso di costruire è rilasciato dal Sindaco o dal
dirigente o responsabile del competente ufficio comunale, in
relazione alle competenze individuate dallo statuto
comunale. Per tale fattispecie, quindi, necessita, a
differenza di quanto avviene per le restanti competenze
attribuite ex lege ai titolari di posizione
organizzativa [6],
l'intervento di una espressa modifica statutaria che
definisca espressamente il soggetto competente, in
applicazione della richiamata disposizione regionale.
Si evidenzia, infatti, che, per quanto riguarda
l'attribuzione della competenza al rilascio dei permessi di
costruire, nella Regione Friuli Venezia Giulia il principio
di separazione delle funzioni risulta derogato dalla legge.
Il legislatore regionale, nell'esercizio della potestà
esclusiva riconosciuta alla Regione dall'art. 4 dello
Statuto di autonomia, sia in materia di urbanistica che di
ordinamento degli enti locali, ha approvato una norma che si
discosta dal principio di necessaria separazione fra
indirizzo politico ed amministrazione.
Tale principio non risulta invece derogato in relazione
all'adozione di altri provvedimenti in materia
urbanistico-edilizia.
Infatti l'art. 28, comma 3, della citata l.r. 19/2009,
prevede che il responsabile del procedimento
[7]
rilascia il certificato di agibilità, verificata la
documentazione da produrre.
L'art. 42 della medesima legge attribuisce poi espressamente
al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale (da intendersi quale titolare di posizione
organizzativa) la vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia e l'adozione di conseguenti misure
sanzionatorie.
Non sono previste deroghe al principio generale di
separazione delle funzioni nemmeno in relazione alle
autorizzazioni paesaggistiche, il cui rilascio compete
pertanto ai titolari di posizione organizzativa.
---------------
[1] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 4778 del
2013.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 5833 del 2001.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 7632 del 2003.
[4] Il comma 3 include una elencazione non tassativa, ma
meramente esemplificativa, delle competenze dirigenziali.
[5] Cfr. TAR Napoli, sez. V, sentenza n. 276 del 2007. Si
consideri inoltre che la Corte costituzionale, con sentenza
n. 115/2011, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 54, comma 4, del TUEL, nella parte in cui
comprende la locuzione 'anche', prima delle parole 'contingibili
e urgenti'.
[6] Per quanto concerne le autorizzazioni disciplinate da
leggi regionali nei settori del commercio e del turismo,
l'art. 104 della l.r. 13/1998 dispone l'applicazione
dell'art. 51, commi 3 e 3-bis, della l. 142/1990 (ora art.
107 del d.lgs. 267/2000, competenza dei dirigenti o figure
assimilate).
[7] Si precisa al riguardo che, trattandosi di atto con
contenuto espressivo di volontà con effetti esterni, può
essere firmato solo dal soggetto titolare di incarico che lo
abilita ad adottare atti con le caratteristiche evidenziate
(titolare di posizione organizzativa) (16.10.2013
-
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PATRIMONIO:
Divieto di transito per veicoli a motore su strade in aree
collinari e boschive.
Tra le strade non appartenenti al
demanio pubblico, rimangono estranee alla disciplina
pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato,
le c.d. vie agrarie (chiamate anche 'vicinali private').
Sono, di conseguenza, assai circoscritte le possibilità
offerte dalla legge alle amministrazioni locali per limitare
la circolazione su dette strade onde impedire danneggiamenti
all'ambiente circostante, mentre dovrebbe essere
nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati
intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto
privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto
di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo
diritto si riferisce.
Il Comune riferisce che, in un'area collinare e boschiva,
sita nell'ambito del proprio territorio, sussistono diverse
strade che attraversano proprietà private. Tra di esse vi è
una strada che pare essere stata realizzata diverso tempo fa
dall'Esercito. Quest'ultimo, interpellato riguardo alla
stessa, sembra abbia dichiarato informalmente il proprio
disinteresse senza però produrre un ufficiale atto di
dismissione.
Poiché tali strade, che non sono pubbliche o ad uso
pubblico, vengono spesso percorse da motoveicoli
fuoristrada, che si spingono anche al di fuori dei sentieri
tracciati, inoltrandosi nei boschi e scavando profondi
solchi nell'ambiente circostante, l'Ente chiede di sapere in
che modo possa legittimamente interdire la circolazione ai
veicoli a motore, con l'eccezione dei mezzi agricoli
appartenenti ai proprietari del fondo, anche se i terreni in
argomento non costituiscono aree soggette a vincolo
idrogeologico di cui alla legge regionale 23.04.2007, n. 9
(Norme in materia di risorse forestali) [1].
In via preliminare, il Comune dovrebbe verificare se la
strada menzionata appartenga tuttora all'Esercito ovvero se
vi sia stata una sdemanializzazione, anche tacita, della
stessa [2].
In caso di appartenenza della via al demanio militare,
spetterebbe, infatti, all'ente proprietario della stessa la
predisposizione di eventuali misure idonee a contrastare
abusi e fenomeni di degrado come quelli segnalati dal Comune
[3].
Le strade che non risultano essere militari e neppure
statali, provinciali o comunali e che, quindi, non
appartengono al demanio pubblico, sono, secondo una
normativa piuttosto risalente, ripresa dalla giurisprudenza
e dalla dottrina, le strade vicinali [4]
e le strade agrarie (quest'ultime chiamate anche vicinali
private) [5].
Le vie vicinali sono strade private o pubbliche, non
iscritte nei registri delle pubbliche vie, che sono idonee
al pubblico transito ed assoggettate al medesimo regime
giuridico delle strade pubbliche. Titolare del diritto d'uso
delle vie vicinali è il comune, ma chi lo esercita è la
collettività considerata come complesso di persone
[6].
Le vie agrarie sono strade private costituite dai passaggi
interpoderali che sono in comunione incidentale tra i
proprietari dei fondi latistanti i quali si servono, iure
domini, di quei percorsi per l'accesso e l'utilizzo dei
terreni. Su tali vie i proprietari partecipanti alla
comunione vantano un diritto d'uso riservato ed esclusivo
[7].
Si osserva, quindi, che mentre le vie vicinali sono di
interesse amministrativo, rimangono, invece, estranee alla
disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di
diritto privato (in particolare da quelle relative alla
comunione), le vie agrarie [8].
Sembrano, perciò, essere assai circoscritte le possibilità
offerte dalla legge al Comune instante per limitare la
circolazione sulle strade interpoderali de quibus le
quali, inoltre, non possono nemmeno godere della protezione
fornita con la L.R. 9/2007 non ricadendo all'interno di
territori sottoposti a vincolo idrogeologico per i quali
sono previste apposite disposizioni riguardanti la
circolazione fuori strada [9].
A dimostrazione di un tanto, si riscontra che unicamente
nelle vie vicinali si applicano le disposizioni del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) in quanto
solo esse rientrano nella definizione fornita dall'art. 2 di
questa normativa che definisce come "strada" l'area
ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei
veicoli e degli animali. In particolare, ai sensi dell'art.
3, comma 1, n. 52, del Nuovo codice della strada, è definita
strada vicinale la 'strada privata fuori dai centri
abitati ad uso pubblico'. Inoltre, ai sensi dell'art. 2,
comma 6, del decreto, le strade vicinali sono assimilate
alle strade comunali.
Per questa ragione, per le strade private non soggette ad
uso pubblico, è esclusa la possibilità per il sindaco del
comune competente, prevista in relazione alle strade
vicinali, di emettere le ordinanze, di cui agli artt. 5,
comma 3 e 6, comma 4, del Nuovo codice della strada, grazie
alle quali l'ente proprietario può stabilire anche obblighi,
divieti e limitazioni di carattere temporaneo o permanente,
anche per determinate categorie di veicoli, in relazione
alle esigenze della circolazione o alle caratteristiche
strutturali delle strade.
Diversa è anche la disciplina per i due tipi di strade che
deriva dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918,
n. 1446 (Facoltà agli utenti delle strade vicinali di
costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la
ricostruzione di esse) [10].
L'art. 15 di tale decreto ha affidato al sindaco compiti di
vigilanza e polizia su tutte le strade vicinali, ma tali
poteri, che sembrano comunque esulare dagli aspetti di
regolamentazione del traffico [11],
possono essere autonomamente esercitati solamente
nell'ipotesi in cui le vie vicinali siano gravate da
pubblico transito, mentre, nel caso di strade private non
soggette ad uso pubblico, il sindaco può attivarsi solamente
a seguito di un'istanza dei consorzi eventualmente
costituiti fra gli utenti [12].
Al contrario, poiché le strade in argomento risultano essere
di proprietà privata e non soggette ad uso pubblico,
dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi
interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti
dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del
proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai
quali questo diritto si riferisce [13].
Un intervento da parte di un comune su strade private, non
interessate dalla pubblica circolazione, potrebbe quindi
giustificarsi solamente qualora sorgessero importanti
esigenze di carattere pubblico.
Tale è evidentemente l'ipotesi in cui si integrino i
presupposti, nel caso de quo difficilmente
riscontrabili, per l'emissione delle ordinanze contingibili
ed urgenti di cui all'art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 che richiedono la sussistenza
di gravi ed imminenti pericoli per la pubblica incolumità e
la sicurezza urbana [14].
Tali provvedimenti rimangono comunque limitati nel tempo,
essendo per loro natura provvisori e sono soggetti a
particolare cautela nella loro applicazione nel caso
riguardino beni di proprietà privata [15].
In relazione, infine, alla possibilità, fatta propria da
alcune amministrazioni comunali, di prevedere, all'interno
dei propri regolamenti di polizia rurale
[16], disposizioni
che pongono il divieto di ingresso nei fondi altrui, si
rileva che risulta abrogato ormai da anni l'art. 110 del
Regio decreto 12.02.1911, n. 297 (Approvazione del
regolamento per la esecuzione della legge comunale e
provinciale) [17].
---------------
[1] Tale normativa ha abrogato la legge regionale
15.04.1991, n. 15 (Disciplina dell'accesso dei veicoli a
motore nelle zone soggette a vincolo idrogeologico o
ambientale. Modifica della legge regionale 22.01.1991, n.
3).
[2] La sdemanializzazione può avvenire grazie ad un
provvedimento di declassificazione, assunto ai sensi
dell'art. 3, comma 6, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495, oppure
in forma tacita, come precisato dalla Corte di cassazione:
'La sdemanializzazione di una strada può anche verificarsi
senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge in
materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci,
concludenti e positivi della Pubblica Amministrazione,
incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
del bene all'uso pubblico. Né il disuso da tempo
immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario possono
essere invocati come elementi indiziari dell'intenzione di
far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene
demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è
pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano
accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così
significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi
se non quella che la Pubblica Amministrazione abbia
definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica
funzione del bene medesimo' (Cassazione civile, Sez. II,
30.08.2004, n. 17387).
[3] Ai sensi dell'art. 5, comma 3, del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), 'I
provvedimenti per la regolamentazione della circolazione
sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi
competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze
motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti
segnali'.
[4] L'art. 3, comma 1, n. 52, del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) reca la
definizione della sola strada vicinale come 'strada privata
fuori dei centri abitati ad uso pubblico'.
[5] La distinzione tra i due tipi di strade vicinali deriva
dal diritto romano ed è stata ripresa dal decreto
legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446. V. 'Il
regime giuridico delle strade provinciali, comunali,
vicinali e private', Pietro La Rocca, 2006, Maggioli
Editore, pagg. 209-290.
[6] Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale,
affinché una strada possa rientrare nella categoria delle
strade vicinali pubbliche, devono sussistere: il requisito
del passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a
soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica,
esigenze di interesse generale; un titolo valido a
sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che
può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile (Cfr. Cass. civ., sez. II, 12.07.1991, n. 7718;
TAR Sardegna, 21.12.2000, n. 1246; Consiglio di Stato, sez.
V, 01.12.2003, n. 7831).
[7] 'Le vie vicinali agrarie formate "ex collazione
privatorum agrorum" traggono la loro origine da situazioni
oggettive di diversa natura, le quali possono essere
determinate dalla volontà coincidente, anche se non
concorde, di tutte le parti, manifestata attraverso il fatto
materiale del conferimento in relazione all'effettiva
esigenza dei fondi (Cass. 27.07.2006 n. 17111) [...]
l'insorgenza della comunione presuppone inevitabilmente che
tutti i partecipanti abbiano in vario modo o misura
contribuito a conferire il sedime della strada, non essendo
ipotizzabile che alla comunione partecipi un soggetto che
nulla abbia conferito, a meno che non ricorra un diverso
titolo negoziale (Cass. 11.02.2005 n. 2751)', Cassazione
civile, sez. II, 05.07.2013, n. 16864.
[8] Come osservato in dottrina, 'le strade private agrarie
sono proprietà comune pro indiviso dei proprietari dei fondi
latistanti [...] e le strade medesime sono completamente
assoggettate alla regolamentazione e alla disciplina
privatistica del condominio' ('Le strade nell'attuale
disciplina legislativa', A. Romano, in 'Amm. It', n. 4,
aprile 1963 e n. 5, maggio 1963, pagg. 309 e ss.)
[9] Tale normativa in particolare prevede, per i territori
soggetti a vincolo idrogeologico o appartenenti ad aree
protette di cui alla legge regionale 30.12.1996, n. 42, il
divieto di circolazione e sosta dei veicoli a motore sui
percorsi fuoristrada, fatte salve alcune eccezioni tra le
quali il passaggio di veicoli per la conduzione dei fondi e
per l'accesso ai beni immobili in proprietà o possesso
(artt. 71-73).
[10] Ai sensi dell'art. 3 del decreto, il comune è tenuto a
contribuire alle spese di manutenzione e
sistemazione/ricostruzione delle strade vicinali soggette a
pubblico traffico da 1/5 fino a metà delle stesse, mentre ha
solo la facoltà di farlo per quelle private e solo fino ad
un massimo di 1/5 della spesa..
[11] L'art. 15, comma 1, specifica che al sindaco spetta
'ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle
strade e all'esecuzione delle opere definitivamente
approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose
abusivamente alterate'.
[12] V. Tar Sardegna, 05.12.1979, n. 399 e Tar Piemonte,
sez, I, 16.03.1989, n. 203.
[13] V. gli artt. 633 (Invasione di terreni ed edifici), 635
(Danneggiamento), 637 (Ingresso abusivo su fondo altrui) del
Codice.
[14] Ai sensi dell'art. 1 del decreto del Ministero
dell'interno 05.08.2008, 'per incolumità pubblica si intende
l'integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana
un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a
difesa, nell'ambito delle comunità locali. del rispetto
delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le
condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza
civile e la coesione sociale'.
[15] 'Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo
gravante esclusivamente su beni privati sottratti a
qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di
legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza
ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo,
soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale
invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione
pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza
in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al
competente giudice civile)' (Tar Campania, Napoli, sez. V,
19.04.2007, n. 4992).
[16] 'I regolamenti di polizia urbana e rurale solitamente
disciplinano, in conformità ai principi generali
dell'ordinamento giuridico ed in armonia con le norme
speciali e con le finalità degli statuti, comportamenti ed
attività comunque influenti sulla vita della comunità
cittadina e rurale al fine di salvaguardare la convivenza
civile, la sicurezza dei cittadini, la decenza, il decoro,
la più ampia fruibilità dei beni comuni e di tutelare la
qualità della vita e dell'ambiente, con attività di
prevenzione, ma anche con attività diretta all'attuazione e
all'osservanza da parte dei singoli cittadini delle leggi e
dei regolamenti emessi dallo Stato e da altri enti' (v. 'La
disciplina della polizia locale nell'ambito dell'autonomia
regolamentare degli enti locali', Regione Piemonte,
Assessorato Polizia locale, promozione della sicurezza,
2013, pag. 10).
[17] Tale articolo stabiliva -prima dell'abrogazione
avvenuta con la legge 08.06.1990, n. 142- che i comuni, con
i regolamenti di polizia rurale, provvedessero, tra l'altro,
a 'evitare i passaggi abusivi nelle private proprietà'.
Nulla di simile è stato successivamente previsto dalla
stessa L. 142/1990, dal Tuel o da altre disposizioni di
legge (11.10.2013 -
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LAVORI PUBBLICI:
Crediti vantati da subappaltatore non autorizzato per
lavori/forniture effettuati nell'ambito dell'esecuzione dei
lavori.
L'art. 21, L. n. 646/1982, vieta
all'appaltatore di opere affidate dalla p.a. di concedere in
subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse
senza l'autorizzazione dell'amministrazione committente.
Il D.Lgs. n. 163/2006 reca la disciplina del subappalto
all'art. 118 che, al comma 8, prevede che la stazione
appaltante provvede al rilascio dell'autorizzazione
all'affidamento in subappalto entro 30 giorni dalla relativa
richiesta, la cui decorrenza senza che si sia provveduto fa
sì che l'autorizzazione si intenda concessa.
Secondo la giurisprudenza, il subappalto stipulato in
assenza di autorizzazione, è nullo, per violazione di norma
imperativa di legge (art. 21, L. n. 646/1982), ai sensi
dell'art. 1418, c.c., e non può costituire un valido titolo
sulla cui base fondare istanze creditorie nei confronti
della p.a. committente.
L'Ente, in relazione ad un contratto di appalto di lavori
pubblici in corso di conclusione, riferisce di aver
pubblicato l'avviso di cui all'art. 218, D.P.R. n. 207/2010,
per quanti vantassero crediti nei confronti dell'esecutore
per indebite occupazioni di aree o stabili o per danni
arrecati nell'esecuzione dei lavori. A seguito di detto
avviso una ditta esterna, non rientrante tra i subappalti
autorizzati, ha chiesto al Comune di provvedere al pagamento
del credito da essa vantato nei confronti della ditta
appaltatrice per lavori/forniture effettuati nell'ambito
dell'esecuzione dei lavori, ma non autorizzati né conosciuti
dall'amministrazione. Il Comune chiede, dunque, come sia
corretto procedere rispetto alla pretesa creditoria avanzata
dalla ditta esterna [1].
Il subappalto è disciplinato dall'art. 118 del D.Lgs. n.
163/2006: in particolare, il comma 8 prevede che la stazione
appaltante provvede al rilascio dell'autorizzazione
all'affidamento in subappalto entro 30 giorni
[2] dalla
relativa richiesta, la cui decorrenza senza che si sia
provveduto fa sì che l'autorizzazione si intenda concessa.
L'autorizzazione al subappalto di cui all'art. 118, comma 8,
è istituto manifestamente preordinato al perseguimento di
interessi pubblici: le condizioni per l'ammissibilità del
subappalto [3],
infatti, secondo la giurisprudenza, non appaiono intese
(unicamente) a tutelare l'interesse dell'amministrazione
committente all'immutabilità dell'affidatario, ma tendono ad
evitare che nella fase esecutiva del contratto si pervenga,
attraverso modifiche sostanziali dell'assetto di interessi
scaturito dalla gara pubblica, a vanificare quell'interesse
pubblico che ha imposto lo svolgimento di una procedura
selettiva e legittimato l'individuazione di una determinata
offerta come la più idonea a soddisfare le esigenze della
collettività cui l'appalto è finalizzato
[4].
La ratio della prescritta preventiva autorizzazione
è, altresì, sottolineata dall'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP)
[5], la
quale evidenzia il fine di preservare l'intuitus personae
che connota i contratti pubblici, nonché lo scopo di
prevenire il rischio che l'esecuzione delle prestazioni
contrattuali sia svolta da soggetti (i subappaltatori
appunto) privi dei requisiti di ordine generale e speciale
necessari per contrarre con la pubblica amministrazione.
E ancora, l'AVCP osserva che l'esigenza di scongiurare tale
rischio è sentita in modo talmente forte dall'ordinamento
che il subappalto non autorizzato è penalmente sanzionato
come reato contravvenzionale dall'art. 21, della legge
13.09.1982, n. 646 [6], che riconosce alla stazione
appaltante 'la facoltà di chiedere la risoluzione del
contratto'.
L'art. 21 richiamato vieta all'appaltatore di opere affidate
dalla p.a. di concedere in subappalto o a cottimo, in tutto
o in parte, le opere stesse senza l'autorizzazione
dell'Amministrazione committente; per cui, afferma la
giurisprudenza [7],
il subappalto stipulato in violazione di tale norma
imperativa è nullo ai sensi dell'art. 1418, c.c., perché in
contrasto con una norma imperativa, e costituisce nel
contempo grave inadempimento dell'appaltatore, che legittima
la stazione appaltante a chiedere la risoluzione del
contratto.
Per quanto concerne le pretese creditorie avanzate nei
confronti della p.a. committente da parte del subappaltatore
non autorizzato per crediti maturati verso l'appaltatore,
risulta utile richiamare una pronuncia della Corte di
Cassazione [8],
che, sia pure nel diverso caso della richiesta di pagamento
alla p.a. proveniente da un appaltatore per le prestazioni
fatte eseguire da un terzo non autorizzato, ha affermato il
principio secondo cui l'istanza non può essere fondata sulla
base di un subappalto non autorizzato.
Con riferimento alla fattispecie prospettata dal Comune, si
può, pertanto, ritenere che nemmeno la ditta subappaltatrice
non autorizzata possa vantare pretese creditorie verso la
p.a., per prestazioni eseguite per la ditta esecutrice,
sulla base di un contratto la cui stipulazione costituisce
un fatto illecito dell'appaltatore nei confronti
dell'amministrazione committente.
---------------
[1] È il caso di osservare che la ditta esterna ha
chiesto alla stazione appaltante di essere soddisfatta del
proprio credito nei confronti della ditta appaltatrice per
l'esecuzione di forniture/lavori, nell'ambito della
procedura di avviso ai creditori di cui all'art. 218, D.P.R.
n. 207/2010, norma, invero, relativa a crediti di altra
natura e di cui si ritiene utile riportare il testo: 'All'atto
della redazione del certificato di ultimazione dei lavori il
responsabile del procedimento dà avviso al Sindaco o ai
Sindaci del comune nel cui territorio si eseguono i lavori,
i quali curano la pubblicazione, nei comuni in cui
l'intervento è stato eseguito, di un avviso contenente
l'invito per coloro i quali vantino crediti verso
l'esecutore per indebite occupazioni di aree o stabili e
danni arrecati nell'esecuzione dei lavori, a presentare
entro un termine non superiore a sessanta giorni le ragioni
dei loro crediti e la relativa documentazione'.
[2] Tale termine può essere prorogato una sola volta ove
ricorrano giustificati motivi.
[3] Le condizioni per l'ammissibilità del subappalto sono
indicate dal comma 2 dell'art. 118 in argomento:
l'indicazione da parte del concorrente, all'atto della
presentazione dell'offerta, o da parte dell'aggiudicatario,
all'atto dell'affidamento, nel caso di varianti in corso di
esecuzione, dei lavori, o delle parti di opere, ovvero dei
servizi e delle forniture, o parti di servizi e forniture,
che intende subappaltare; il deposito del contratto di
subappalto nel termine previsto; il possesso da parte del
subappaltatore dei requisiti di qualificazione;
l'insussistenza nei confronti del subappaltatore di alcuno
dei divieti previsti dall'art. 10 della legge 31.05.1965, n.
575 ('Disposizioni contro le organizzazioni criminali di
tipo mafioso, anche straniere').
[4] Cfr. Cons. St., Sez. V, 23.01.2012, n. 262; Cons. St.,
Sez. IV, 24.03.2010, n. 1721.
[5] Cfr. Parere n. 16 del 27.09.2012.
[6] Recante: 'Disposizioni in materia di misure di
prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alla
L. 27.12.1956, n. 1423, alla L. 10.02.1962, n. 57 e alla L.
31.05.1965, n. 575. Istituzione di una commissione
parlamentare sul fenomeno della mafia'.
[7] C. Cass., sez. I, sentenza 16.07.2003, n. 11131; C.
Cass., sez. II, sentenza 18.11.1997, n. 11450.
[8] Cfr. C. Cass., n. 11131/2003, cit. (11.10.2013
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INCARICHI PROFESSIONALI:
Personale degli enti locali. Incarico. Riduzione spesa.
La Corte dei conti ha chiarito che gli
incarichi di studio si caratterizzano per lo svolgimento di
un'attività di studio, nell'interesse dell'amministrazione,
che si traduce nella consegna di una relazione scritta
finale, nella quale sono illustrati i risultati e le
soluzioni proposte.
Gli incarichi di consulenza riguardano invece le richieste
di pareri ad esperti.
Il Comune ha chiesto di conoscere se un incarico di
co.co.co., da affidare per la realizzazione del progetto 'Sportello
di Friulano', rientri o meno tra gli studi e incarichi
di consulenza la cui spesa è oggetto di riduzione ai sensi
dell'art. 1 del d.l. 101/2013.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
La citata norma, al comma 5, prevede che la spesa annua per
studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a
studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici
dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'ISTAT (tra le quali
figurano i comuni), non possa superare il 90 per cento del
limite di spesa per l'anno 2013, così come determinato
dall'applicazione della disposizione di cui al comma 7
dell'art. 6 del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010.
Preliminarmente si ritiene opportuno evidenziare l'aspetto
rilevante ai fini di un corretto inquadramento della
questione prospettata, con specifico riferimento alla
locuzione 'incarichi di studio e consulenza'.
Si rammenta, infatti, a tal proposito che la Corte dei conti
[1], nel
fornire a suo tempo linee di indirizzo e criteri
interpretativi sulle disposizioni della legge 30.12.2004, n.
311 (finanziaria 2005) in materia di affidamento di
incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza, ha
puntualizzato le definizioni di seguito riportate.
In particolare, si è chiarito in tale sede che 'gli
incarichi di studio possono essere individuati con
riferimento ai parametri indicati dal D.P.R. n. 338/1994
che, all'articolo 5, determina il contenuto dell'incarico
nello svolgimento di un'attività di studio, nell'interesse
dell'amministrazione. Requisito essenziale, per il corretto
svolgimento di questo tipo d'incarichi, è la consegna di una
relazione scritta finale, nella quale saranno illustrati i
risultati dello studio e le soluzioni proposte'.
Le consulenze invece si è inoltre precisato-
riguardano le richieste di pareri ad esperti.
Per quanto riguarda poi gli incarichi di collaborazione
coordinata e continuativa (co.co.co.) la Corte dei conti ha
osservato che i medesimi, per la loro stessa natura che
prevede la continuità della prestazione e un potere di
direzione dell'amministrazione, appaiono distinti dalla
categoria degli incarichi esterni. Si è precisato comunque
che: 'resta fermo....che, qualora un atto rechi il nome
di collaborazione coordinata e continuativa, ma, per il suo
contenuto, rientri nella categoria degli incarichi di studio
o di ricerca o di consulenza, il medesimo sarà soggetto al
limite di spesa.....'.
Pertanto, in relazione all'attività richiesta per l'incarico
in argomento ed alle sue peculiari caratteristiche, si
ritiene che l'Ente debba valutare in concreto se il medesimo
esuli dalle fattispecie prospettate, come pare risultare
dagli elementi forniti, trattandosi di incarico per la
gestione di un progetto particolare.
Da ultimo si osserva che ai sensi dell'art. 13, comma 16,
lett. b), punto 3-bis, della l.r. 24/2009, i rapporti di
co.co.co. coperti da finanziamenti concessi ai sensi della
l. 482/1999 (Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche), e della l. n. 38/2001 (Norme a
tutela della minoranza linguistica slovena della regione
Friuli Venezia Giulia) sono stipulati in deroga al limite di
spesa imposto dal comma 16 del medesimo articolo.
---------------
[1] Cfr. Sez. Riunite in sede di controllo, delibera
15.02.2005, n. 6/CONTR/O (09.10.2013 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso ai sensi della legge 241/1990. Accesso ai
dati di persona deceduta.
L'art. 9, comma 3, del D.Lgs. 196/2003,
consente l'esercizio del diritto di accesso ai dati
personali concernenti persone decedute, da parte di chi ha
un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato o
per ragioni familiari meritevoli di protezione.
In relazione a tale norma, la giurisprudenza ha affermato
che sopravvive una forma di tutela dei dati sensibili -come
altre forme di tutela- anche dopo la morte e che per
l'individuazione dell'interesse sottostante alla richiesta
di accesso deve farsi riferimento alla L. 241/1990 e in
particolare alla precisa qualificazione fornita dall'art.
22, comma 1, lett. b).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'ammissibilità
di una richiesta di estrazione copia di dati sensibili di un
ospite della casa di riposo deceduto, formulata da una degli
eredi al fine di conoscere la valutazione della capacità di
intendere e di volere del medesimo.
L'articolo 9, comma 3, del decreto legislativo 30.06.2003,
n. 196, consente l'esercizio del diritto di accesso ai dati
personali di cui all'articolo 7 del medesimo, concernenti
persone decedute, da parte di «chi ha un interesse
proprio, o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni
familiari meritevoli di protezione».
Su questione analoga, il Consiglio di Stato
[1] ha
ritenuto ammissibile la richiesta di accedere alle cartelle
cliniche del de cuius, formulata da coeredi
individuati dal medesimo nel testamento, alla quale si erano
opposti gli eredi legittimi, affermando in primo luogo che
il citato articolo 9, comma 3, regola compiutamente ed
esaustivamente la questione del trattamento dei dati
personali delle persone decedute, incluse le cartelle
cliniche, in quanto indica chi può esercitare l'insieme dei
diritti previsti dall'articolo 7 del medesimo codice
[2].
Secondo il Consiglio di Stato, anche sulla scorta della
giurisprudenza precedente [3],
si può affermare che sopravvive una forma di tutela dei dati
sensibili -come altre forme di tutela- anche dopo la morte,
ma nelle forme specifiche e diverse previste dall'articolo
9. Ne deriva che per l'individuazione dell'interesse
sottostante alla richiesta di accesso deve farsi riferimento
alla disciplina generale del diritto di accesso, e in
particolare alla precisa qualificazione fornita
dall'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge
07.08.1990, n. 241, secondo il quale l'interesse deve essere
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale si chiede l'accesso.
Ancora più esplicitamente, il TAR Sardegna
[4], a fronte del
diniego ad ottenere la cartella clinica opposto da una
struttura ospedaliera all'erede del paziente, sostenendo che
il diritto di accesso spetta a tutti gli eredi
congiuntamente e non solo ad uno di essi, ha affermato che
il diritto a conoscere i dati relativi alle condizioni di
salute del defunto non è disciplinato dalla normativa
ereditaria, ma, inerendo alla semplice qualità di congiunto,
spetta autonomamente a chiunque si trovi in relazione di
parentela con la persona deceduta.
In tal senso anche il Garante per la protezione dei dati
personali che, da ultimo con il provvedimento 12.01.2012, ha
riconosciuto al coniuge separato la legittimazione ad
accedere ai dati personali concernenti il de cuius,
ai sensi dell'articolo 9, comma 3, del Codice.
---------------
[1] Consiglio di Stato, sezione III, sentenza
23.03-12.06.2012, n. 3459.
[2] Il Codice, nel disciplinare il trattamento dei dati
medesimi, considera non solo le posizioni soggettive di chi
può esercitare il diritto di accesso, ma anche quelle di chi
può opporsi ad esso.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.06.2008,
n. 2866, che però delinea un diverso quadro normativo di
riferimento, affermando che «il problema di una comparazione
di interessi configgenti non si pone in radice perché il
diritto alla riservatezza, che appartiene alla categoria dei
diritti della personalità, tradizionalmente configurati come
inalienabili, intrasmissibili e imprescrittibili, si
estingue con la morte del titolare».
[4] TAR Sardegna, sentenza 27.01.2012, n. 67 (27.09.2013
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 33/2013. Individuazione degli
organi con poteri sostitutivi nel caso di violazione delle
disposizioni sul conferimento di incarichi.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 33/2013 sancisce
la nullità degli atti di conferimento di incarichi adottati
in violazione delle disposizioni del decreto medesimo e dei
relativi contratti.
Il successivo art. 18 prevede l'interdizione temporanea dal
potere di conferimento degli organi che abbiano conferito
incarichi dichiarati nulli e stabilisce che gli enti
territoriali adeguino i propri ordinamenti alle disposizioni
del decreto (nel termine previsto) ed individuino gli organi
che in via sostitutiva procedono al conferimento degli
incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari.
Dalla lettura della norma, non sembra da escludersi, a tale
fine, la possibilità di prevedere la nomina di un
commissario ad acta, anche se, per l'individuazione
dell'organo sostituto, la scelta di una soluzione che
consenta all'Ente di evitare l'assunzione di nuovi oneri a
carico del proprio bilancio sembrerebbe maggiormente
coerente con l'attuale contesto normativo, fortemente
improntato al contenimento della spesa pubblica.
Il Comune pone un quesito in merito al D.Lgs. n. 33/2013
[1], in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati di diritto pubblico, con particolare riferimento
alla previsione di cui all'art. 18, comma 3, statuente
l'obbligo per gli enti territoriali di adeguare i propri
ordinamenti alle disposizioni del decreto individuando le
procedure interne e gli organi che in via sostitutiva
possono procedere al conferimento degli incarichi nel
periodo di interdizione degli organi titolari, conseguente
alla violazione delle norme sulla inconferibilità di
incarichi.
Specificamente, il Comune chiede se possa prevedere nel
proprio Statuto la nomina di un commissario ad acta,
a pagamento dell'organo sospeso, in relazione alla
sostituzione di Giunta e Consiglio.
Premesso che la questione posta dal Comune riguarda una
norma statale di recente emanazione, la cui interpretazione
spetta unicamente ai competenti uffici ministeriali, si
espongono, in via meramente collaborativa, le seguenti
considerazioni.
L'art. 17 del citato D.Lgs. n. 33/2013 dispone che 'Gli
atti di conferimento di incarichi adottati in violazione
delle disposizioni del presente decreto e i relativi
contratti sono nulli'.
Il successivo art. 18 dispone che '1. I componenti degli
organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli sono
responsabili per le conseguenze economiche degli atti
adottati. Sono esenti da responsabilità i componenti che
erano assenti al momento della votazione, nonché i
dissenzienti e gli astenuti. 2. I componenti degli organi
che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli non possono
per tre mesi conferire gli incarichi di loro competenza. Il
relativo potere è esercitato, per i Ministeri dal Presidente
del Consiglio dei Ministri e per gli enti pubblici
dall'amministrazione vigilante. 3. Le regioni, le province e
i comuni provvedono entro tre mesi dall'entrata in vigore
del presente decreto ad adeguare i propri ordinamenti
individuando le procedure interne e gli organi che in via
sostitutiva possono procedere al conferimento degli
incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari
[...]'.
Dalla lettura della norma non sembra da escludersi la
possibilità di prevedere la nomina di un commissario ad
acta che provveda al conferimento in luogo degli organi
politici (nel caso di specie, Giunta e Consiglio)
temporaneamente interdetti, anche se, per l'individuazione
dell'organo sostituto, la scelta di una soluzione che
consenta all'Ente di evitare l'assunzione di nuovi oneri a
carico del proprio bilancio sembrerebbe maggiormente
coerente con l'attuale contesto normativo, fortemente
improntato al contenimento della spesa pubblica.
In relazione alla possibilità, ipotizzata dal Comune, di
imputare i costi della figura del commissario ad acta,
anziché al proprio bilancio, ai componenti dell'organo
interdetto che abbiano contribuito, con il loro voto, a
conferire gli incarichi dichiarati nulli, si osserva infatti
che l'art. 18, comma 1, D.Lgs. n. 33/2013 si limita a
statuire la responsabilità degli stessi 'per le
conseguenze economiche degli atti adottati', mentre non
si rinvengono norme che espressamente disciplinino le spese
correlate alla figura del soggetto che interviene in via
sostitutiva.
Premesso che, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione,
sussiste una riserva di legge in relazione all'imposizione
di prestazioni patrimoniali [2],
compete esclusivamente agli organi statali chiarire se con
l'espressione 'conseguenze economiche degli atti adottati'
il legislatore abbia voluto riferirsi a quelle
immediatamente derivanti dal conferimento degli incarichi
nulli o anche agli oneri connesse all'individuazione di un
organo con poteri sostitutivi.
---------------
[1] D.Lgs. 08.04.2013, n. 33, recante: 'Disposizioni in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1,
commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190'.
[2] L'art. 23 Cost. stabilisce infatti che 'Nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se
non in base alla legge' (27.09.2013 -
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PATRIMONIO:
Vendita di bene sdemanializzato.
Il bene avente natura demaniale non è,
per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la
sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche
tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un
formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci
e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne
la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così
significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da
quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene
medesimo.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta da un privato
cittadino di poter acquistare una strada di proprietà
dell'Ente (bene demaniale) 'inglobata' da oltre 50
anni nella proprietà del privato stesso.
Riferisce l'Ente che l'area oggetto della richiesta ha ormai
perso i requisiti di strada, essendone stata realizzata
un'altra al limite della proprietà del richiedente, atta a
servire tutti i fondi limitrofi, in conseguenza di una 'sorta
di riordino fondiario'.
Il Comune chiede, quindi, di conoscere se, una volta
sdemanializzata la strada in argomento con apposito atto,
possa procedere alla vendita della stessa al privato,
chiedendogli eventualmente di corrispondere una indennità
per il periodo di utilizzo antecedente alla vendita.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Circa la possibilità di procedere alla vendita del bene
pubblico, successivamente alla sdemanializzazione dello
stesso da parte dell'Amministrazione instante, si richiama
l'attenzione sulla necessità che la vendita venga effettuata
nel rispetto delle regole dell'evidenza pubblica.
Quanto, invece, alla possibilità di richiedere al privato la
corresponsione di un'indennità per il periodo di utilizzo
del bene antecedente alla vendita, si precisa che la stessa
potrebbe essere vantata dall'Ente solo in relazione
all'ultimo quinquennio, risultando prescritta per i periodi
antecedenti [1].
Ad ogni buon conto, in relazione alla fattispecie
prospettata, corre l'obbligo di rappresentare quanto segue,
in modo che l'Ente possa effettuare le valutazioni ritenute
opportune.
Nel possesso indisturbato e protratto da tempo immemore (nel
caso in oggetto, oltre 50 anni) da parte del proprietario
del fondo in cui la strada risulta 'inglobata' potrebbero
ravvisarsi i requisiti per la richiesta di accertamento
dell'avvenuta usucapione [2]
della strada in argomento. Il bene avente natura demaniale
non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la
sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche
tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un
formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci
e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne
la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così
significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da
quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene
medesimo.
La giurisprudenza [3]
ha al riguardo osservato che '[...] il disuso prolungato
di una strada vicinale da parte della collettività e
l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o
nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di
privati incompatibili con la destinazione pubblica, non
bastano a comprovare inequivocabilmente la cessata
destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso
pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che
detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da
circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi,
salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato
al ripristino dell'uso stradale pubblico.'.
Atteso che, nell'ambito di un giudizio intentato per
l'accertamento dell'avvenuta usucapione del bene, la
sdemanializzazione tacita può essere accertata autonomamente
dal Giudice, che deve valutare i comportamenti
dell'amministrazione in rapporto al bene che si sostenga
passato al regime patrimoniale, si considera opportuno che
l'Ente instante verifichi preventivamente se la
sdemanializzazione tacita possa aver operato in relazione al
caso concreto e se il privato intenda conseguentemente far
valere l'usucapione [4],
eventualità che renderebbero di fatto impossibili tanto la
vendita del bene, quanto la richiesta di indennizzo.
---------------
[1] Con riferimento al termine di prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento per l'occupazione
sine titulo del sedime stradale, cfr., tra le altre, Trib.
Napoli Sez. fall., 11.04.2011 e Trib. Bologna Sez. III,
20.09.2007.
[2] L'usucapione potrebbe operare anche a vantaggio
dell'acquirente (attuale proprietario) del terreno in cui è
'inglobata' l'area, atteso che il possesso dello stesso si
può sommare a quello del suo dante causa, ai sensi dell'art.
1146, secondo comma, del codice civile.
[3] Cfr., fra le altre, TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent.,
11.07.2011, n. 198; Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209;
TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450.
[4] Nel caso in esame, tale ultima evenienza sembrerebbe
peraltro scongiurata dal fatto che è stato il privato stesso
a richiedere, seppur informalmente, la vendita (25.09.2013
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Obblighi di pubblicazione ex D.Lgs. 33/2013.
L'elencazione dei provvedimenti oggetto
di pubblicazione sul web da parte delle pubbliche
amministrazioni, prevista dall'art. 23 del d.lgs. 33/2013,
non sembrerebbe, secondo la dottrina, avere carattere
esaustivo, in quanto la norma avrebbe come obiettivo finale
la pubblicazione di tutti i provvedimenti.
In attesa di circolari o di pronunce giurisprudenziali che
ne chiariscano la portata, viste le finalità di 'controllo
diffuso' connesse al principio di trasparenza e
l'importanza, in tale ambito, della conoscibilità di atti
che dispongono il pagamento di somme di denaro da parte
della pubblica amministrazione, si ravvisa, perciò,
l'opportunità per le amministrazioni di pubblicare, nelle
forme previste dalla legge, anche le determinazioni di
impegno ed i provvedimenti di liquidazione delle somme di
denaro riconosciute dall'amministrazione concedente al
concessionario per l'esecuzione di interventi manutentivi
straordinari.
L'Ente instante pone una serie di quesiti riguardanti
l'applicazione del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33
(Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni). In particolare,
l'Ente chiede di sapere se rientrano tra gli obblighi di
pubblicazione ivi previsti:
- i provvedimenti afferenti l'approvazione di contratti
relativi all'affidamento in concessione di servizi pubblici
che prevedano un corrispettivo a favore
dell'amministrazione;
- gli atti finalizzati al riconoscimento, da parte
dell'amministrazione, dei costi sostenuti dal concessionario
per l'esecuzione di interventi manutentivi straordinari;
- i contratti stipulati prima dell'entrata in vigore del
menzionato decreto legislativo e tutt'ora in vigore.
Il D.Lgs. 33/2013 ha riordinato in un unico corpo normativo
le numerose disposizioni vigenti in materia di obblighi di
trasparenza a carico delle pubbliche amministrazioni. Come
ribadito dal suo art. 1, la 'trasparenza' è il
principio fondamentale alla base della normativa e va inteso
come 'accessibilità totale delle informazioni concernenti
l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche'.
In merito ai provvedimenti di interesse per l'Ente instante,
si osserva che l'art. 23 del decreto richiede alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare ed aggiornare ogni sei mesi,
in distinte partizioni della sezione 'Amministrazione
trasparente' del proprio sito web, gli elenchi dei
provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e
dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti
finali dei procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori,
forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di
selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti
pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163;
c) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale
e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del
decreto legislativo n. 150 del 2009;
d) accordi stipulati dall'amministrazione con soggetti
privati o con altre amministrazioni pubbliche.
La disposizione precisa, al comma 2, che ciascuno dei
provvedimenti pubblicati, nella forma di una scheda
sintetica [1],
deve riportare: il contenuto, l'oggetto, l'eventuale spesa
prevista e gli estremi relativi ai principali documenti
contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
In considerazione di un tanto, si ritiene che rientrano tra
gli obblighi di pubblicazione anche i provvedimenti relativi
alle concessioni in cui sia previsto un corrispettivo a
favore dell'amministrazione.
Si osserva, più nel dettaglio, che la menzionata
elencazione, nel riferirsi in particolare 'ai
provvedimenti finali di [...] concessione', non
sembrerebbe avere carattere esaustivo. Trattandosi di una
formulazione che, in effetti, solleva dubbi interpretativi,
in attesa di circolari o di pronunce giurisprudenziali che
ne chiariscano la portata, viste le finalità di 'controllo
diffuso' connesse al citato principio di trasparenza e
l'importanza, in tale ambito, della conoscibilità di atti
che dispongono il pagamento di somme di denaro da parte
della pubblica amministrazione, si ravvisa l'opportunità per
l'Ente di pubblicare, nelle forme previste dalla legge,
anche le determinazioni di impegno ed i provvedimenti di
liquidazione delle somme di denaro riconosciute
dall'amministrazione concedente al concessionario per
l'esecuzione di interventi manutentivi straordinari
[2].
Infine, in merito al dies a quo dei provvedimenti
oggetto di pubblicazione, si osserva che gli obblighi di
pubblicazione previsti dal D.lgs. 33/2013 decorrono dalla
data della sua entrata in vigore (ossia il 20.04.2013) e,
non essendo diversamente previsto, non dovrebbero perciò
applicarsi ai provvedimenti adottati precedentemente dalle
amministrazioni.
Parimenti, però, va tenuto in considerazione che l'art. 18
del decreto legge 22.06.2012, n. 83 [3],
abrogato dall'art. 53 del D.Lgs. 33/2013, già prevedeva la
pubblicazione su internet, da parte delle pubbliche
amministrazioni, delle concessioni di sovvenzioni, sussidi
ed ausili finanziari, così come dei compensi a persone,
professionisti, imprese ed enti privati, nonché dei vantaggi
economici di cui all'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
---------------
[1] Maggiori informazioni sui modelli e gli schemi
standard da seguire da parte delle pubbliche amministrazioni
saranno forniti dai decreti del Presidente del Consiglio dei
ministri previsti dall'art. 48 del decreto.
[2] In dottrina, è stato fatto notare che l'obiettivo finale
della norma risulta essere la pubblicazione di tutti i
provvedimenti, nonostante il riferimento ai soli
provvedimenti finali dei procedimenti individuati alle
lettere a), b), c) e d) del comma 1 dell'art. 23 (v. 'Testo
corredato da note esplicative del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33', a cura del prof. Massimo Calvino per
Consorzio degli enti locali della Valle d'Aosta).
[3] Come modificato in sede di conversione dalla legge
07.08.2012, n. 134 (18.09.2013 -
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CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
redazione di un piano di caratterizzazione ambientale non
può dare luogo al riconoscimento degli incentivi alla
progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006
(codice dei contratti).
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 12264/1.13.9 del 10.07.2013, una
richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di
Carrara in materia di incentivi alla progettazione di cui
all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti).
In particolare, si chiede:
a) se possa essere erogato l’incentivo alla progettazione
in riferimento all’attività progettuale, svolta dal
personale interno all’amministrazione, consistente nella
redazione di un “piano di caratterizzazione ambientale”
nell’ambito dell’attività di progettazione di bonifiche
ambientali secondo quanto stabilito dal d.lgs. n. 152/2006
(codice dell’ambiente);
b) se, per l’eventuale quantificazione dell’incentivo,
sia applicabile quanto previsto dal comma 6 del citato art.
92 del codice dei contratti, stante l’impossibilità di
correlare l’impegno professionale all’importo del lavoro di
bonifica.
...
Nel merito, l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006
(codice degli appalti) recita: “Una somma non superiore
al due per cento dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro, (…) è ripartita, per ogni singola
opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita
dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare (…)”. L’art. 92, comma 6, del
d.lgs. n.163/2006, prevede: “Il trenta per cento della
tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto”.
Questa Sezione si è già pronunciata sull’argomento in
diverse occasioni (parere
18.10.2011 n. 213
e ancor più di recente con il
parere 27.11.2012 n. 389
e
parere 12.12.2012 n. 459)
e, da ultimo, con
parere 29.07.2013 n. 252, ove ha chiarito che “l’art.
90 del d.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa
riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92,
c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie
fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma
6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione
venga ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto> e, dunque, è di
palmare evidenza come il riferimento normativo e la
conseguente voluntas legis siano ascrivibili solo alla
materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura
ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di
un’opera di pubblico interesse”;
ciò in sintonia, peraltro, con un parere di altra Sezione
della Corte dei conti (Sez. reg. contr. Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290),
che, in riferimento alla disciplina normativa di cui
trattasi, ha affermato che: “La norma
àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere
il compenso incentivante alla circostanza che la redazione
dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e
non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente”, essendo, dunque, necessario che
l’attività di progettazione sia il presupposto di una
procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla
realizzazione di un’opera pubblica.
Questa circostanza non appare ravvisabile con riferimento al
piano di caratterizzazione ambientale, redatto a cura del
responsabile dell’inquinamento, e disciplinato dall’art. 242
del d.lgs. n. 152/2006 (codice dell’ambiente), rubricato “Procedure
operative ed amministrative”, in quanto, in presenza di
un superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione
(CSC), tale piano, consistente in un’attività d’indagine, è
volto, in particolare, a definire le risultanze inerenti la
determinazione dell’entità ed estensione della
contaminazione, sulla base di parametri stabiliti, essendo
assunto nel rispetto dei requisiti di cui all’allegato 2
alla parte quarta del citato codice. Si è in presenza,
pertanto, di plurime attività d’indagine (quali sondaggi,
campionamento dei terreni e delle acque sotterranee, analisi
chimiche ecc...), finalizzate a ricostruire i fenomeni di
contaminazione, onde acquisire le informazioni di base
essenziali per il successivo processo decisionale da
intraprendersi nell’ambito di un quadro realistico della
situazione di contaminazione.
Inoltre, la successiva procedura di analisi del rischio,
qualora presenti un esito negativo in riferimento al livello
di concentrazione delle sostanze contaminanti, comporta la
conclusione positiva del procedimento (art. 242, c. 5, del
d.lgs. n. 152/2006), sussistendo l’obbligo di avviare la
procedura di bonifica, ai sensi del comma 7 del citato art.
242, solo in caso di superamento della soglia di rischio di
concentrazione dei contaminanti, con la conseguente
redazione, da parte del soggetto responsabile, di un
progetto operativo concernente gli interventi di bonifica o
di messa in sicurezza ed eventuale ripristino ambientale, da
sottoporre alla regione per l’approvazione, previ i
prescritti pareri, con provvedimento autorizzativo che
definisce anche le prescrizioni ed i tempi di esecuzione dei
lavori pubblici previsti nel progetto di bonifica che sarà
poi posto a base di gara dall’amministrazione competente, e
solo riguardo al quale appare legittimo il riconoscimento
degli incentivi previsti, per il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto e
loro collaboratori, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n.
163/2006 (codice degli appalti).
Ad ulteriore sostegno del riconoscimento dell’incentivo agli
incaricati della redazione di un atto di progettazione o
pianificazione solo qualora questo abbia ad oggetto la
realizzazione di un’opera pubblica, il
decreto 22.04.2013 n. 66
del Ministero dell’interno, recante norme per la
ripartizione dell’incentivo economico al personale del
Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e
della difesa civile, detta disposizioni pregnanti anche ai
fini della risoluzione del caso di specie, laddove prevede,
all’art. 2, comma 2, che gli incentivi di cui all’art. 92,
c. 5, del codice dei contratti “sono riconosciuti per le
attività del responsabile del procedimento e degli
incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché dei
loro collaboratori” e, al comma 3, che “sono riconosciuti
soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente
approvati e posti a base di gara e riguardino lavori
pubblici di competenza dell'amministrazione, quali attività
di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione,
restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese
le eventuali progettazioni di connesse campagne diagnostiche
e le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive
nei casi previsti dall'art. 132, comma 1 del codice, ad
eccezione della lettera e)”.
In conclusione, il Collegio ritiene che la
redazione di un piano di caratterizzazione ambientale non
possa dare luogo al riconoscimento degli incentivi alla
progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006
(codice dei contratti)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 23.10.2013 n. 276). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Gli enti che corrispondono compensi incentivanti
per la progettazione ovvero compensi professionali alle
avvocature interne sono tenuti, sul piano contabile, a
prevedere e accantonare nei rispettivi fondi gli importi
necessari a fronteggiare il pagamento dell’IRAP (che sul
piano dell’obbligazione giuridica grava esclusivamente
sull’ente), rendendoli indisponibili.
Sicché, l’onere per il pagamento
dell’Irap afferente ai compensi incentivanti dovuti ai
tecnici dipendenti grava sul datore di lavoro e non sul
lavoratore ma, tenuto conto delle modalità di copertura di
“tutti gli oneri”, va finanziato con i fondi lordi
appositamente stanziati, non potendo costituire un onere
finanziario “aggiuntivo” per l’ente.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura
degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflettono, in
sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione
ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da
calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura
dell’onere Irap gravante sull’amministrazione.
---------------
Con richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della legge
05.06.2003, n. 131, il Sindaco del Comune di Venosa (PZ) ha
chiesto un parere in ordine alla corretta determinazione
dei compensi dovuti ai dipendenti del profilo tecnico per
l’attività di progettazione e direzione dei lavori ai sensi
dell’art. 92, comma 5, D.Lgs. 163/2006.
In particolare l’Ente ha chiesto «… come si
debba correttamente applicare il dettato normativo, ai fini
della determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti di
profilo tecnico, ossia se:
a) la quota non superiore al 2 per cento della somma
posta a base d'asta di un'opera o di un lavoro debba essere
comprensiva anche dell'IRAP, oltre che degli oneri
previdenziali ed assistenziali a carico
dell'Amministrazione, riducendo così l'importo netto
percepito dai dipendenti tecnici;
b) l'importo corrispondente all'IRAP debba essere
quantificato "al di fuori ed in aggiunta" alla quota non
superiore al 2 per cento di cui sopra, senza incidere
sull'importo dell'incentivo percepito dagli interessati».
...
L’art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, dispone che “Una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione … è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in
un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori”.
Su tale norma e su quella di cui all’art. 1, comma 208,
della legge 23.12.2005, n. 266, sono sorti, in passato,
alcuni dubbi interpretativi legati all’esigenza di chiarire
se i compensi dovuti dall’amministrazione ai propri
dipendenti (personale tecnico e personale dell’avvocatura
interna) debbano essere corrisposti al netto o al lordo
dell’Irap e, cioè, se l’Irap debba rimanere a carico del
lavoratore ovvero dell’amministrazione.
Nel senso della determinazione del compenso professionale
senza la trattenuta, nei confronti del dipendente, della
quota Irap (dovendo detta imposta rimanere a carico
dell’amministrazione), si sono pronunciate le Sezioni
regionali di controllo dell’Emilia-Romagna (deliberazione n.
34 del 27.06.2007 concernente specificamente gli avvocati),
dell’Umbria (deliberazione n. 11 del 22.10.2007, anch’essa
relativa specificamente agli avvocati, e deliberazione n. 1
del 28.02.2008, concernente l’incentivo per i tecnici), del
Veneto (deliberazioni n. 22 del 21.05.2008 e n. 49 del 3
luglio 2008, concernenti entrambe le fattispecie), della
Puglia (deliberazione n. 31 del 30.10.2008, concernente
specificamente i tecnici), della Basilicata (deliberazione
n. 185 del 26.11.2008) e del Molise (deliberazione n. 6 del
24.02.2009, relativa all’incentivo per i tecnici).
Di segno diverso sono state le considerazioni
espresse sul punto dalla Sezione regionale della Lombardia
(deliberazioni n. 4 dell’11.02.2008 e n. 101 del
04.12.2008), la quale, rilevando che i fondi relativi alle
diverse competenze aggiuntive spettanti al personale già
ricomprendono quanto l’amministrazione pubblica dovrà
versare all’erario sia per i contributi assistenziali e
previdenziali sia a titolo di Irap, ha ritenuto che il
compenso professionale deve essere corrisposto al dipendente
al netto degli “oneri riflessi”, intendendo con tale
locuzione “tutti gli oneri”, ivi inclusa la quota
Irap.
La questione è stata tuttavia risolta dalle Sezioni Riunite
della Corte dei conti
con la
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010,
adottata in funzione nomofilattica ai sensi dell’art. 17,
comma 31, del decreto legge 01.07.2009, n. 78.
Con tale deliberazione le Sezioni Riunite delle Corte,
richiamando anche la sentenza della Corte Costituzionale n.
33 del 26.01.2009, hanno chiarito che nell’espressione “oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione”
di cui all’art. 92, comma 5, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 (così come in quella di “oneri
riflessi” di cui all’art. 1, comma 208, della legge
23.12.2005, n. 266) non debba essere ricompresa l’Irap, che
costituisce, invece, un onere fiscale a carico esclusivo
dell’amministrazione.
Afferma la citata deliberazione che “….anche
l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è
confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità
dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte
dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di
Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che
i compensi professionali da corrispondere a titolo di
onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura
interna, oltre che del personale tecnico, costituiscono
parte della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si
realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato
che tali soggetti sono privi di autonoma organizzazione …
Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP si realizza in
capo all’ente che eroga il compenso di lavoro dipendente, il
quale rappresenta il soggetto passivo dell’imposta, cioè
colui che, nella valutazione del legislatore, in quanto
titolare di detta organizzazione è tenuto a concorrere alle
spese pubbliche, ai fini di detto tributo; conseguentemente
l’onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in
relazione a compensi di natura retributiva (Agenzia delle
Entrate, Risoluzione n. 123/E del 02.04.2008) bensì
unicamente sul datore di lavoro”.
Resta fermo, naturalmente, che gli enti che
corrispondono compensi incentivanti per la progettazione
ovvero compensi professionali alle avvocature interne sono
tenuti, sul piano contabile, a prevedere e accantonare nei
rispettivi fondi gli importi necessari a fronteggiare il
pagamento dell’IRAP (che sul piano dell’obbligazione
giuridica grava esclusivamente sull’ente), rendendoli
indisponibili.
Alla luce delle argomentazioni che precedono,
l’onere per il pagamento dell’Irap afferente ai
compensi incentivanti dovuti ai tecnici dipendenti grava sul
datore di lavoro e non sul lavoratore ma, tenuto conto delle
modalità di copertura di “tutti gli oneri”, va
finanziato con i fondi lordi appositamente stanziati, non
potendo costituire un onere finanziario “aggiuntivo”
per l’ente.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e
la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si
riflettono, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per
la progettazione ripartibili nei confronti dei dipendenti
aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 09.10.2013 n. 115). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
La Sezione evidenzia che “l’abrogazione delle
tariffe professionali non ha eliminato la necessità di una
normativa che disciplini sia la liquidazione del compenso di
un professionista da parte di un organo giurisdizionale, sia
la determinazione degli importi da porre a base di gara,
nell’affidamento dei servizi di progettazione” e che tale
questione si correla a quella del compenso nel caso di
progettazione interna.
Orbene è a dirsi che se, da un lato,
“la liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi
giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal
Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto
dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n. 140
(c.d. “decreto parametri”), dall’altro, per quanto concerne,
invece, gli importi da porre a base di gara nell’affidamento
dei contratti pubblici di servizi attinenti all’architettura
e all’ingegneria, alla quale è connessa la questione del
compenso conseguente all’attività di progettazione interna,
l’atteso regolamento (“decreto parametri-bis”) non è stato
ancora approvato”.
Di qui l’impossibilità di applicare direttamente le tariffe
professionali per determinare l’ammontare degli incentivi di
cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 –che pur non può
ritenersi abrogato per effetto del sopravvenuto art. 9 comma
6 D.L. 1/2012– essendo le stesse utilizzabili, nelle more,
ai soli fini della liquidazione delle spese giudiziali.
Nondimeno “gli enti locali,
nell’esercizio della propria discrezionalità,
individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori
da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento,
da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla
progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere
riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe
professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri
già elaborati dal Ministero della Giustizia”.
---------------
Il Comune di San Costanzo con nota a firma del suo Sindaco
ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L.
131/2003, una articolata richiesta di parere in relazione
alla corretta interpretazione della disciplina recata
dall’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici in
tema di incentivi per la pianificazione, alla enucleazione
dei presupposti oggettivi in costanza dei quali possa
legittimamente procedersi alla corresponsione dei predetti
compensi nonché alla modalità per la determinazione degli
stessi.
Richiamato, in particolare, l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza contabile circa il nesso di necessaria
strumentalità, ai fini del riconoscimento degli emolumenti
di cui al menzionato art. 92, comma 6, tra la attività di
pianificazione e la realizzazione di opere pubbliche nonché
le indicazioni rese dalla Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici il Comune istante chiede di conoscere
il motivato parere della Sezione in ordine:
a)
alla possibilità di riconoscere l’incentivo di cui
trattasi per un atto di pianificazione generale
evidenziandosi, a sostegno, come la pianificazione
urbanistica, anche se in forma mediata, inerisca a opere ed
impianti pubblici in ragione della c.d. zonizzazione e degli
effetti che alla stessa devono annettersi anche a fini
espropriativi;
b)
alla possibilità di corrispondere l’emolumento in parola
per la pianificazione interna di varianti urbanistiche e per
i progetti di iniziativa pubblica allorché riguardino
esclusivamente aree assoggettate a pianificazione attuativa
collegata alla realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria da realizzarsi da privati
richiamandosi –a favore di una interpretazione estensiva– la
circostanza che detta facoltà sia specificamente prevista
dall’art. 16, comma 2-bis, D.P.R. 380/2001;
c)
alla necessità che l’Ente provveda a specifica modifica
del regolamento per il riconoscimento degli incentivi
enucleando i singoli interventi suscettivi di essere
ricompresi nell’ambito di applicabilità dell’art. 92, comma
6, d.lgs. 163/2006 ricostruito alla stregua degli indirizzi
interpretativi resi in materia;
d)
alla modalità con cui procedere alla quantificazione del
compenso ed alla correttezza del riferimento al parametro
del 30% della tariffa atteso il disposto di cui all’art. 9,
comma 5, D.L. 1/2012;
...
La richiesta di parere formulata dal Comune di San Costanzo
evoca plurimi profili interpretativi ed applicativi della
disciplina recata dall’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 su
cui è maturato un orientamento, sostanzialmente, univoco
della giurisprudenza contabile che il Collegio ritiene di
non disattendere.
A tal riguardo giova, in primo luogo, evidenziare come
preliminare rispetto alla delibazione delle diverse
questioni prospettate dal Comune istante si appalesi
l’individuazione della ratio sottesa alla disciplina
di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 in tema di c.d.
incentivi alla progettazione/pianificazione interna.
Come noto la stessa disciplina
–che non rappresenta, peraltro, un’assoluta novità del
Codice dei contratti rinvenendo un precedente in omologhe
disposizioni della legge Merloni (artt. 17 e 18 L. 109/1994
s.m.i.)– mira, al pari di quella
previgente, a ricondurre la progettazione e la redazione
degli atti di pianificazione nell’ambito delle attività
delle stazioni appaltanti in vista, da un lato, di una
valorizzazione delle professionalità esistenti all’interno
dell’Ente e, dall’altro, del conseguimento di risparmi
connessi al limitato ricorso a soggetti esterni alla
Amministrazione.
Ciò conformemente al “principio –che informa
l’affidamento degli incarichi tecnico-professionali in
materia di contratti pubblici (cfr. artt. 10, 84, 90, 112,
120 e 130 d.lgs. 163/2006) e più, in generale, il
conferimento di incarichi nel Testo unico sul pubblico
impiego (cfr. art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001)– per cui
i predetti incarichi possono essere conferiti a
soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si
disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e
tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti
flessibili di gestione delle risorse umane”
(Sezione di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n.
72).
Nondimeno la disposizione di cui trattasi –in ragione della
prevista corresponsione del c.d. compenso incentivante–
importa una deroga al principio di determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e di
omnicomprensività del trattamento economico e, pertanto, si
atteggia come norma di stretta interpretazione rispetto alla
quale è precluso il ricorso all’analogia giusta il disposto
di cui all’art. 12 delle preleggi (cfr. Sezione controllo
per la Regione Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione controllo per
la Regione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
In questa prospettiva, in vista di una corretta
perimetrazione dell’ambito oggettivo di applicabilità della
norma in esame e della individuazione dell’atto di
pianificazione comunque denominato, per la cui redazione il
dipendente matura il diritto al relativo incentivo,
la giurisprudenza contabile è pacifica
nell’evidenziare come, le fattispecie riconducibili alla
previsione di cui al comma 6, postulino un nesso di
necessaria strumentalità tra l’atto medesimo e la
realizzazione di opere pubbliche che la Amministrazione
debba affidare quale stazione appaltante.
Di qui l’esclusione della mera attività di
pianificazione del territorio quale la redazione del Piano
regolatore o di una variante generale
(cfr. ex pluribus Sezione di controllo per la Regione
Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119;
Sezione di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n.
72;
Sezione di controllo per la Regione Emilia Romagna,
parere 25.06.2013 n. 243, Sezione di controllo
per la Regione Toscana,
parere 12.12.2012 n. 459
e 293/PAR/2012; Sezione di controllo per il Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290).
Depone, in tal senso, una interpretazione
letterale della disposizione in parola nonché una lettura
sistematica della stessa atteso che “la previsione di cui
al comma 6 va coordinata sia con i precedenti commi del
medesimo art. 92 –il cui impianto ruota intorno alla
attività di progettazione di un’opera o di un lavoro che
l’amministrazione pubblica, in veste di stazione appaltante,
deve aggiudicare (cfr. comma 1 laddove si richiamano
compensi relativi allo svolgimento della progettazione e
delle attività tecnico amministrative ad essa connesse)– sia
con il precedente art. 90”
(cfr. pronunce citate).
Dirimente ai fini della riconoscibilità del
diritto al compenso incentivante si appalesa, pertanto, ”non
il nomen iuris attribuito all’atto di pianificazione quanto
il suo contenuto specifico intimamente connesso alla
realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid
pluris di progettualità interna rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
della attività istituzionale dell’Ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante”
(Sezione Regionale di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n.
72).
Tale ricostruzione trova, peraltro,
puntuale riscontro nel percorso argomentativo delle Sezioni
Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva che in
un recente parere,
pur valorizzato da taluni Commentatori per accreditare un
preteso revirement della giurisprudenza contabile,
dopo aver precisato che “per atto di pianificazione
comunque denominato debba intendersi qualunque elaborato
complesso previsto dalla legislazione statale o regionale
composto da parte grafica/cartografica, da testi
illustrativi e da testi normativi finalizzato a programmare,
definire e regolare in tutto o in parte il corretto assetto
del territorio comunale, coerentemente con le altre
prescrizioni normative e con la pianificazione territoriali
degli altri livelli di governo”, hanno,
in perfetta coerenza interpretativa con le coordinate
interpretative dianzi richiamate, ribadito che “l’attività
di pianificazione debba prevedere una localizzazione di
interventi pubblici e di opere di pubblico interesse in
relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione
appaltante nei termini previsti dal Codice dei contratti e
dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE”
(Sezioni Riunite in sede consultiva per la Regione Siciliana
parere 03.01.2013 n. 2).
Le stesse Sezioni Riunite evidenziano,
altresì, come “in ogni caso competerà alla fonte
regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, d.lgs.
163/2006 chiarire l’esatta portata ermeneutica del concetto
di atto di pianificazione comunque denominato magari
attraverso idonea elencazione delle fattispecie di
riferimento che, in assenza di chiari riferimenti testuali o
ermeneutici alla sua natura meramente esemplificativa, si
ritiene debba ritenersi tassativa”
(cfr. Sezioni Riunite in sede consultiva per la Regione
Siciliana, cit.).
Evidentemente, pur nel rispetto degli ambiti di
discrezionalità dell’Ente, siffatta enucleazione potrà
essere orientata dagli indirizzi interpretativi invalsi
nella giurisprudenza contabile (cfr. Sezione di controllo
per la Regione Campania,
parere 10.04.2013 n. 141) che, in questa ottica,
assolve ad una valida funzione di ausilio e di
collaborazione rispetto all’esercizio della potestà
regolamentare che, nella specifica materia, il Codice dei
contratti intesta agli Enti locali.
La fonte regolamentare rileva, peraltro, anche ai fini della
individuazione dei criteri e delle modalità con cui
procedere alla quantificazione del compenso incentivante: a
tal riguardo l’Ente istante formula specifica questione
volta a verificare se, ed in che misura, l’avvenuta
abrogazione delle tariffe professionali ed il disposto di
cui all’art. 9, comma 5, D.L. 1/2012 –a mente del quale “sono
abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione
del compenso del professionista rinviano alle tariffe di cui
al comma 1”- abbia inciso la disciplina di cui al più
volte citato art. 92, comma 6, che testualmente recita: “Il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
Condivisibili appaiono, sul punto, le conclusioni cui è
pervenuta la Sezione di controllo per la Regione Emilia
Romagna alla stregua di una puntuale ricostruzione del più
ampio quadro normativo di riferimento entro cui la
problematica va a collocarsi (cfr.
parere 25.06.2013 n. 243).
Così richiamato l’art. 9, comma 1 del decreto legge
24.01.2012, n. 1, rubricato “Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività” (c.d. “decreto sviluppo 2012”),
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n.
27, in forza del quale “Sono abrogate le tariffe delle
professioni regolamentate nel sistema ordinistico” si
evidenzia come il successivo comma 2 abbia, tuttavia, ha
previsto che, ”ferma restando l’abrogazione di cui al
comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo
giurisdizionale, il compenso del professionista è
determinato con riferimento a parametri stabiliti con
decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di
120 giorni successivi alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto (…) Ai fini della
determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara
nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei
servizi relativi all’architettura e all’ingegneria di cui
alla parte II, titolo I, capo IV del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, si applicano i parametri individuati con
il decreto di cui al primo periodo, da emanarsi, per gli
aspetti relativi alle disposizioni di cui al presente
periodo, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti; con il medesimo decreto sono altresì definite
le classificazioni delle prestazioni professionali relative
ai predetti servizi. I parametri individuati non possono
condurre alla determinazione di un importo a base di gara
superiore a quello derivante dall’applicazione delle tariffe
professionali vigenti prima dell’entrata in vigore del
presente decreto” e come il comma 3 stabilisca che “Le
tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente
decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla
liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di
entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma
2…” mentre ai sensi del comma 5 “sono abrogate le
disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso
del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1”.
Ciò posto la Sezione evidenzia che “l’abrogazione
delle tariffe professionali non ha eliminato la necessità di
una normativa che disciplini sia la liquidazione del
compenso di un professionista da parte di un organo
giurisdizionale, sia la determinazione degli importi da
porre a base di gara, nell’affidamento dei servizi di
progettazione” e che tale questione si correla a quella
del compenso nel caso di progettazione interna.
Orbene è a dirsi che se, da un lato, “la
liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi
giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal
Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto
dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n. 140
(c.d. “decreto parametri”), dall’altro, per quanto concerne,
invece, gli importi da porre a base di gara nell’affidamento
dei contratti pubblici di servizi attinenti all’architettura
e all’ingegneria, alla quale è connessa la questione del
compenso conseguente all’attività di progettazione interna,
l’atteso regolamento (“decreto parametri-bis”) non è stato
ancora approvato”.
Di qui l’impossibilità di applicare direttamente le tariffe
professionali per determinare l’ammontare degli incentivi di
cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 –che pur non può
ritenersi abrogato per effetto del sopravvenuto art. 9 comma
6 D.L. 1/2012– essendo le stesse utilizzabili, nelle more,
ai soli fini della liquidazione delle spese giudiziali.
Nondimeno “gli enti locali,
nell’esercizio della propria discrezionalità,
individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori
da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento,
da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla
progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere
riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe
professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri
già elaborati dal Ministero della Giustizia”
(così Sezione controllo per la Regione Emilia Romagna, cit.)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 04.10.2013 n. 67). |
APPALTI SERVIZI: L’art.
113 del d.lgs 267/2000 prevede che i servizi pubblici locali
di rilevanza economica possano essere gestiti solamente da:
a) soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di
capitali con la partecipazione totalitaria di capitale
pubblico cui può essere affidata direttamente tale attività,
a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale
sociale esercitino sulla società un controllo analogo a
quello esercitato sui propri servizi e che la società
realizzi la parte più importante della propria attività con
l'ente o gli enti pubblici che la controllano;
b) imprese idonee, da individuare mediante procedure ad
evidenza pubblica, ai sensi del comma 7.
In altre parole, il modello dell’azienda speciale non
risulta più utilmente esperibile al fine di gestire
direttamente i servizi connessi alla gestione dei rifiuti a
vantaggio della collettività, residuando la più limitata
possibilità che tali aziende speciali si limitino a svolgere
le funzioni di centrali di committenza dell’affidamento dei
servizi, funzione consentita e, anzi, incentivata dall’art.
33 del d.lgs. 133/2006; fermo restando, lo si ribadisce,
che, nelle more dell’istituzione
degli a.t.o, da parte della Regione o in via surrogatoria da
parte del Governo, l’effettiva gestione del ciclo dei
rifiuti dovrebbe essere perseguita affidando poi il
servizio:
i) o direttamente a soggetto in house (nella forma della
società di capitali);
ii) ovvero esternalizzando il servizio a un terzo
concessionario.
La modalità di gestione descritta sub i), tuttavia,
contrasta con un’ulteriore previsione del vigente assetto
normativo, e in particolare con l’art. 9, comma 6, del d.l.
06.07.2012, n. 95.
Tale disposizione prevede che “E'
fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie, e
organismi comunque denominati e di qualsiasi natura
giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e
funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell'art.
118, della Costituzione” (sulla
portata del divieto cfr. la Sezione con del. 21.01.2013, n.
25).
In conclusione, e sempre nelle more dell’individuazione
degli a.t.o. da parte della Regione o, in via surrogatoria
da parte del Consiglio dei Ministri, ritiene la Sezione che
l’unico assetto gestorio idoneo a conciliare il quadro
normativo vigente con l’attuale modalità organizzativa del
servizio sia quello di esternalizzare, tramite affidamento
concorrenziale l’effettivo espletamento del servizio,
mantenendo in capo all’azienda speciale operante le sole
funzioni, in veste di centrale di committenza, di
coordinamento degli affidamenti.
---------------
Il comune espone in punto di fatto di essere ente
consorziato dell’azienda speciale Consorzio dei Comuni dei
Navigli (di seguito CCN); che detto consorzio è stato
costituito ex artt. 114 e 31 DLgs 267/2000, in data
23.05.2000; e che ad esso partecipano, quali detentori di
quote del capitale di dotazione e soggetti affidanti il
ciclo dei rifiuti (raccolta, trasporto, spazzamento e
smaltimento), ventidue Comuni di cui alcuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti, e altri con popolazione
superiore a 5.000 abitanti (per un bacino complessivo
superiore ai 30.000 abitanti richiamati dall'art. 14, c. 32,
del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito l. 30.07.2010, n.
122, in relazione al divieto di costituzione di società per
ogni comune).
Tra ogni Comune e il CCN risulta sottoscritto un contratto
di servizio con cui sono stati, tra l'altro, regolamentati i
rapporti relativi alla gestione del ciclo dei rifiuti svolto
dal CCN medesimo sul territorio comunale.
Il regime giuridico risulta quindi così ricostruibile:
a) gli enti locali sono, ad oggi, i soggetti che hanno
conferito, tramite affidamento diretto, il servizio;
b) il CCN è il soggetto erogatore del servizio, in forma di
azienda speciale consortile;
c) il CCN, per il materiale svolgimento del servizio, si
avvale di appaltatori per la gestione caratteristica, e di
propri dipendenti e collaboratori per la gestione
amministrativa;
d) il CCN realizza la parte più importante della propria
attività con gli enti pubblici che lo controllano e a
livello statutario presenta le caratteristiche strutturali
(tra cui il controllo analogo a quello esercitato sui propri
uffici) richiesto per l’affidamento in house (a partire
dalla pronunzia CGE 18.11.1999, C-107/98, Teckal).
Tanto premesso, e rappresentata l’incertezza sulla
possibilità che, ai sensi della normativa vigente, singoli
Comuni possano oggi procedere autonomamente con affidamenti
afferenti al ciclo dei rifiuti, il comune richiede se
possa proseguire la gestione del servizio con il delineato
assetto, anche in attesa delle determinazioni della Regione
in materia di ambiti territoriali ottimali, vale a dire con:
i) l'affidamento del servizio in house providing
all'azienda speciale consortile CCN da parte dei Comuni con
popolazione superiore a 5000 abitanti;
ii) l'approvazione di una convenzione in tema di funzioni
associate per i Comuni con popolazione inferiore a 5000
abitanti, e conseguente affidamento del servizio in house
al CCN;
iii) l'utilizzo della medesima convenzione di cui sopra,
ma con meccanismi decisionali dedicati, anche ai fini
dell'esercizio del c.d. controllo analogo.
...
Al fine di un corretto inquadramento giuridico della
questione occorre scindere le varie problematiche toccate
dai quesiti posti dal comune, e contenute in un autentico
ginepraio legislativo.
Deve essere premesso che la gestione del ciclo dei rifiuti
(raccolta, trasporto, spazzamento e smaltimento) deve
considerarsi un servizio pubblico locale, coerentemente con
i principi desumibili dalla normativa vigente (tra gli
altri, possono essere citati l’art. 23-bis del decreto legge
25.06.2008, n. 112, come convertito dalla legge 06.08.2008,
n. 133 e l’art. 25, comma 4, del decreto legge 24.01.2012,
n. 1, convertito dalla l. 24.03.2012, n. 27).
Peraltro, come ha già avuto modo di ricordare questa Sezione
(Lombardia/531/2012/PAR del 17.12.2012), la giurisprudenza
ritiene che “la natura del servizio di raccolta e
smaltimento dei rifiuti è quella di servizio pubblico locale
di rilevanza economica in quanto reso direttamente al
singolo cittadino, con pagamento da parte dell’utente di una
tariffa, obbligatoria per legge, di importo tale da coprire
interamente il costo del servizio (cfr. art. 238 d.lgs. n.
152/2006 e, prima, art. 49 d.lgs. n. 22/1997)”.
La natura di tale servizio è stata confermata in tali
termini anche dalla giurisprudenza amministrativa (tra altre
sentenze, si veda Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1447),
nonché da quella, consolidata, dell'Autorità Garante per la
concorrenza ed il mercato.
Questa conclusione non muta anche quando l'Amministrazione,
invece della concessione, stipuli un contratto di appalto
(rapporto bilaterale, con versamento diretto da parte del
committente), sempre che l'attività sia rivolta direttamente
all'utenza e quest’ultima sia chiamata a pagare un compenso,
o tariffa, per la fruizione del servizio (Consiglio di
Stato, Sez. V, 03/05/2012 n. 2537): infatti, secondo tale
orientamento “il servizio pubblico locale di rilevanza
economica è configurabile anche quando l'amministrazione,
invece della concessione, pone in essere un contratto di
appalto".
In sintesi, quindi, i modelli astrattamente
esperibili per l’affidamento del servizio di raccolta e
gestione del ciclo dei rifiuti risultano a tutt’oggi quelli
vigenti per i servizi di rilievo economico, e quindi:
- affidamento del servizio con gara ex art. 30 d.lgs.
12.04.2006, n. 163, nel rispetto dei principi del Trattato
di funzionamento dell'Unione Europea;
- affidamento del servizio a società mista con socio
operativo, secondo le indicazioni promananti a livello
comunitario in materia di partnership tra pubblico e privato
(si vedano, al riguardo, le pronunzie della Corte di
Giustizia UE 15.10.2009 C-196/08) e recepite dalla
giurisprudenza nazionale
(Cons. Stato, Ad. Plen., parere 18.04.2007, n. 456, e
decisione del 03.03.2008, n. 456);
- affidamento del servizio a soggetto
interamente pubblico in house, senza più alcun
termine finale o limite di valore contrattuale:
tanto alla luce della sentenza della Corte Costituzionale
17.07.2012, n. 199, che ha dichiarato illegittimo l’art. 4
del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito nella l. 14.09.2011,
n. 148 e in particolare, per quello che in questa sede
risulta conferente, del comma 13, che limitava il valore
stesso entro i 200.000 euro annui; e del comma 32, lettera
a) che individuava il 31.12.2012 quale termine di cessazione
degli affidamenti assegnati in assenza di evidenza pubblica.
Il tutto, evidentemente, sempre nel rispetto dei
requisiti soggettivi (capitale totalmente pubblico,
esercizio del controllo analogo sulla società da parte degli
enti soci come avviene su un proprio ufficio, più parte
dell'attività svolta in relazione al territorio dei comuni
soci) individuati
dalla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e
già richiamati dall'abrogato art. 113, c. 5, lettera c),
DLgs 267/2000.
Per quanto concerne gli ambiti territoriali ottimali nella
gestione del ciclo dei rifiuti, occorre rilevare che
a partire dall’entrata in vigore dell’art. 200 del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, con specifico riferimento alla
materia in epigrafe, è stato peraltro previsto che la
gestione dei rifiuti urbani sia organizzata sulla base di
ambiti territoriali ottimali (a.t.o.).
Tuttavia, all’interno della Regione
Lombardia tali a.t.o. non risultano essere stati istituiti,
essendosi la Regione avvalsa ab origine della
facoltà, prevista dal comma 7 dello stesso art. 200 del
d.lgs. 152/2006 di non individuare gli ambiti, purché il
modello adottato rispettasse i principi ispiratori (di
concorrenza e liberalizzazione), permanendo quindi in capo
al singolo Comune il ruolo di ente concedente, salva la
facoltà di associarsi volontariamente ai fini di svolgimento
del servizio su base territoriale più ampia.
Il d.l. 1/2012, novellando con un art. 3-bis il d.l.
13.08.2011, n.138, convertito nella legge 14.09.2011, n.
148, ha peraltro disposto che “A tutela
della concorrenza e dell'ambiente, le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano organizzano lo svolgimento dei
servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali
ottimali e omogenei individuati in riferimento a dimensioni
comunque non inferiori alla dimensione del territorio
provinciale e tali da consentire economie di scala e di
differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del
servizio, entro il termine del 30.06.2012. Decorso
inutilmente il termine indicato, il Consiglio dei Ministri,
a tutela dell'unità giuridica ed economica, esercita i
poteri sostitutivi di cui all'art. 8 della legge 05.06.2003,
n. 131, per organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici
locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei,
in riferimento a dimensioni comunque non inferiori alla
dimensione del territorio provinciale e tali da consentire
economie di scala e di differenziazione idonee a
massimizzare l'efficienza del servizio”.
Tuttavia, a tutt’oggi la Regione non ha
ancora assunto determinazioni sul punto, né il Consiglio dei
Ministri, a tutela dell'unità giuridica ed economica, ha
provveduto in forza dei poteri sostitutivi di cui
all'articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131.
Ulteriore profilo che deve essere scrutinato dalla Sezione è
l’influenza sul quadro normativo sopra descritto del d.l.
06.07.2012, n. 95, convertito nella legge 07.08.2012, n.
135.
L'art. 19, comma 1, della legge in commento, infatti,
novellando l’articolo 14 del d.l. 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n.
122, e successive modificazioni, individua,
tra le funzioni fondamentali dei comuni, alla lettera f),
proprio l'organizzazione e la gestione dei servizi di
raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani.
Sotto altro aspetto, la successiva novellazione del comma 28
della norma cennata ormai prevede
l’obbligo, per i comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti, di esercitare obbligatoriamente in forma
associata, mediante unione di comuni o convenzione, le
funzioni fondamentali come sopra elencate.
Ai sensi del delineato quadro normativo, il
livello intercomunale della gestione del servizio di
raccolta e gestione dei rifiuti come descritte in epigrafe
risultano affatto conformi con l’assetto legislativo
vigente, sia pure, ovviamente, in un periodo transitorio.
Resta ferma, infatti, la possibilità che in sede di
definizione degli a.t.o. sia configurata una struttura
territoriale parzialmente difforme, con il conseguente
obbligo di adeguamento anche da parte dei comuni associati.
Se, per quanto riguarda il livello di gestione dei servizi
si ha già avuto modo di apprezzare la sostanziale
legittimità dell’assetto descritto, per quanto concerne il
modulo organizzativo prescelto (azienda speciale) occorre
pur tuttavia prendere atto del dato che
l’art. 113 del d.lgs 267/2000,
più volte novellato, prevede che i servizi
pubblici locali di rilevanza economica, come sopra
descritti, possano essere gestiti solamente da:
a) soggetti allo scopo costituiti, nella
forma di società di capitali con la partecipazione
totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata
direttamente tale attività, a condizione che gli enti
pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla
società un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi e che la società realizzi la parte più importante
della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la
controllano;
b) imprese idonee, da individuare mediante procedure ad
evidenza pubblica, ai sensi del comma 7.
In altre parole, il modello dell’azienda
speciale non risulta più utilmente esperibile al fine di
gestire direttamente i servizi connessi alla gestione dei
rifiuti a vantaggio della collettività, residuando la più
limitata possibilità che tali aziende speciali si limitino a
svolgere le funzioni di centrali di committenza
dell’affidamento dei servizi, funzione consentita e, anzi,
incentivata dall’art. 33 del d.lgs. 133/2006;
fermo restando, lo si ribadisce, che, nelle
more dell’istituzione degli a.t.o, da parte della Regione o
in via surrogatoria da parte del Governo, l’effettiva
gestione del ciclo dei rifiuti dovrebbe essere perseguita
affidando poi il servizio:
i) o direttamente a soggetto in house (nella forma
della società di capitali);
ii) ovvero esternalizzando il servizio a un terzo
concessionario.
La modalità di gestione descritta sub i), tuttavia,
contrasta con un’ulteriore previsione del vigente assetto
normativo, e in particolare con l’art. 9, comma 6, del d.l.
06.07.2012, n. 95.
Tale disposizione prevede che “E' fatto
divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie, e
organismi comunque denominati e di qualsiasi natura
giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e
funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell'art.
118, della Costituzione”
(sulla portata del divieto cfr. la Sezione con del.
21.01.2013, n. 25).
In conclusione, e sempre nelle more
dell’individuazione degli a.t.o. da parte della Regione o,
in via surrogatoria da parte del Consiglio dei Ministri,
ritiene la Sezione che l’unico assetto gestorio idoneo a
conciliare il quadro normativo vigente con l’attuale
modalità organizzativa del servizio sia quello di
esternalizzare, tramite affidamento concorrenziale
l’effettivo espletamento del servizio, mantenendo in capo
all’azienda speciale operante le sole funzioni, in veste di
centrale di committenza, di coordinamento degli affidamenti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 02.09.2013 n. 362). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ciò
che rileva ai fini dell’applicazione della nuova disciplina,
piuttosto che della previgente, è il tempo in cui sorge
l’obbligazione con la quale nasce l’obbligo di corrispondere
l’incentivo in capo all’ente, ed il conseguente diritto di
riceverlo per il dipendente.
Tale circostanza viene identificata con il momento in cui
“siano state compiute le varie attività che legittimano la
corresponsione dell’incentivo, (attività procedimentali
amministrative, progettazione, collaudo, collaborazioni etc..)
con le quali rimangano fissate, in maniera in-tangibile, da
un lato, la somma da ripartire e, dall’altro, la misura del
beneficio, così come le stesse sono state determinate in
base ai meccanismi previsti dalla norma stessa (modalità e
criteri della ripartizione previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento).
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al
compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non
hanno alcuna efficacia retroattiva.… Ciò perché, ai fini
della nascita del diritto, quello che rileva è il compimento
effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per
questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata,
cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività,
ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà
considerarsi la frazione temporale di attività compiuta.
---------------
Il Sindaco del Comune di Toritto chiede a questa Sezione un
parere in ordine alla successione nel tempo di disposizioni
legislative concernenti la misura degli incentivi alla
progettazione.
Espone, infatti, l’Ente che tale misura, inizialmente
prevista al “2% dell’importo posto a base di gara di
un’opera o di un lavoro” dall’art. 92 d.lgs. n.
163/2006, era stata dapprima ridotta allo 0.5%, con
decorrenza 01.01.2009, dall’art. 61, comma 8, del d.l.
n. 112/2208 (convertito in legge n. 133/2208) e poi riportato
al 2%, con decorrenza 24.11.2010, dalla legge n. 183/2010,
che ha abrogato il citato art. 61.
Il Sindaco riferisce che, al momento, presso il Comune –in
assenza di chiarimenti in merito– si sta seguendo il
criterio secondo cui per le prestazioni (progettazione,
direzione lavori, collaborazione amministrativa,
responsabilità del procedimento) eseguite in parte prima del
24.11.2010 (facendo riferimento all’importo dei lavori
contabilizzato entro quella data) ed in parte dopo, viene
riconosciuto lo 0,5% per la quota parte antecedente, ed il
2% per la parte successiva a tale data.
Tale criterio, tuttavia, risulta contestato da un dipendente
del Comune istante, destinatario dell’incentivo.
...
In detta ottica giova ricordare che dubbi ermeneutici
analoghi a quelli oggi posti dall’ente istante sono stati
affrontati e risolti -in occasione dell’introduzione del
citato art. 61 d.l. n. 112/2208 (convertito in legge n.
133/2208), che portò la percentuale dal 2 allo 0,5%- dalla
Sezione Autonomie di questa Corte.
Essa, con
deliberazione 08.05.2009 n. 7/AUT/2009/QMIG,
discostandosi dall’interpretazione della Sezione regionale
Lombardia n. 40 citata nella richiesta di parere, ha in tale
occasione richiamato un principio di diritto che può essere
adoperato anche ai fini della risoluzione del quesito di cui
trattasi, nei termini di seguito esposti:
ciò che rileva ai fini dell’applicazione della nuova
disciplina, piuttosto che della previgente, è il tempo in
cui sorge l’obbligazione con la quale nasce l’obbligo di
corrispondere l’incentivo in capo all’ente, ed il
conseguente diritto di riceverlo per il dipendente; tale
circostanza viene identificata con il momento in cui “siano
state compiute le varie attività che legittimano la
corresponsione dell’incentivo, (attività procedimentali
amministrative, progettazione, collaudo, collaborazioni etc..)
con le quali rimangano fissate, in maniera in-tangibile, da
un lato, la somma da ripartire e, dall’altro, la misura del
beneficio, così come le stesse sono state determinate in
base ai meccanismi previsti dalla norma stessa (modalità e
criteri della ripartizione previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento)… In
sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al
compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non
hanno alcuna efficacia retroattiva.… Ciò perché, ai fini
della nascita del diritto, quello che rileva è il compimento
effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per
questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata,
cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività,
ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà
considerarsi la frazione temporale di attività compiuta”.
Tale principio, consolidato nell’interpretazione di numerose
deliberazioni delle Sezioni regionali (ex pluribus
cfr. Sezione Campania, Parere n. 44 del 22.12.2009),
compresa la Scrivente Sezione regionale Puglia (Parere n. 49
del 20.05.2009), è stato da ultimo ribadito proprio in
occasione dell’ulteriore, descritta, successione di leggi
nel tempo che ha, nel recente 2010, riportato il valore di
riferimento al 2% (Sezione regionale Toscana,
parere 13.03.2012 n. 35).
La scrivente Sezione, con
parere 01.07.2009 n. 60,
ha peraltro ulteriormente argomentato nel senso che segue: “La
necessità di coniugare le imprescindibili esigenze di
contenimento della spesa pubblica con l’indubbia rilevanza
del momento in cui l’attività da remunerare è effettivamente
svolta impone l’utilizzo di una tesi, per così dire,
sincretista. Occorrerà cioè considerare attività
effettivamente realizzata prima dell'01.01.2009 ogni singola
fase del complesso procedimento relativo alla realizzazione
di un’opera pubblica (lavoro o fornitura) avente una propria
individualità ed autonomia. In altre parole, se prima
dell’inizio del 2009 risulterà conclusa la fase della
progettazione, ma non ancora iniziata, ad esempio, quella
del collaudo, nulla vieterà di sottoporre il computo della
misura incentivante alla disciplina previgente, per quanto
attiene la remunerazione della pro-gettazione, ed a quella
nuova la fase attinente il collaudo, interamente svolta, in
quanto tale, sotto la vigenza della nuova norma. Occorre,
infatti, considerare che, se è vero che ai fini della
nascita di quello che è un vero e proprio diritto soggettivo
di natura retributiva (il diritto all’incentivo), come
chiarito dalla Suprema Corte (Cass. Sez. lav. n. 13384
19.07.2004), ciò che rileva è il compimento effettivo
dell’attività, è anche vero che, per le prestazioni di
durata dovrà considerarsi la singola frazione temporale di
attività compiuta”
(nel medesimo senso, cfr. Sezione Veneto,
parere
21.05.2009 n. 79)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 09.11.2012 n. 107). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso
pubblico di passaggio quando l’utilizzo avvenga ad opera di
una collettività indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse, e non
uti singuli.
Del pari, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come
l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile
quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma
una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al
transito di un numero indifferenziato di persone, oppure
quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam,
l’asservimento del bene da parte del proprietario all’uso
pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad
assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale.
Ebbene, ritiene il Collegio che la
tesi dell’amministrazione sia condivisibile, atteso che, in
particolare, non risulta dimostrato che la strada in
questione (vicolo della Valle) sia privata, e sussistendo,
invece, precisi indici rivelatori circa l’esistenza di una
servitù di passaggio iure pubblico su detta via.
Un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico
di passaggio quando l’utilizzo avvenga ad opera di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives,
ossia quali titolari di un pubblico interesse, e non uti
singuli (Cons. Stato sez. V 14.02.2012 n. 728).
Del pari, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come
l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile
quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma
una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al
transito di un numero indifferenziato di persone (Cons.
Stato Sez. V 07.12.2010 n. 8624), oppure quando vi sia
stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l’asservimento
del bene da parte del proprietario all’uso pubblico di una
comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le
caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale
(Cass. Civile Sez. II 21.05.2001 n. 6924)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2013 n. 5116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può avere legittimato, né l’interessato può
dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in
data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi
vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento
contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che
confida nell’omissione dei controlli o comunque nella
persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del
potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non
agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità
dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di
un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative
pregresse».
La giurisprudenza di questo Consiglio, cui
la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che «l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che
l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi» (Cons. Stato, sez. VI, 31.05.2013, n. 3010; 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, si
è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di
vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui
in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione
amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa
conforme alle statuizioni amministrative pregresse» (Cons.
Stato, sez. VI, n. 3010 del 2013; sez. IV, 04.05.2012, n.
2592).
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione ha descritto
le opere realizzate indicando le ragioni della loro
abusività. La motivazione posta a base del provvedimento
sanzionatorio è, pertanto, esente dai vizi denunciati, non
dovendo essere esternate le ragioni di pubblico interesse
che giustificherebbero l’applicazione della sanzione in
esame.
Né si dovrebbe pervenire ad un risultato diverso in
ragione della particolare “provenienza” della
denunzia dell’illecito, in quanto rientra negli ordinari
meccanismi procedimentali e processuali di identificazione
delle posizioni legittimanti che il terzo denunciante sia
portatore di un proprio interesse senza che ciò imponga
l’adozione di motivazioni più pregnanti da parte
dell’amministrazione. La circostanza, poi, che il Tar abbia
disposto un’istruttoria, in ragione del suo generico
contenuto, non ha alcuna rilevanza ai fini della presente
decisione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.10.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 34 del dPR 06.06.2001, n. 380 prevede che,
in caso di opere eseguite in parziale difformità dal
permesso di costruire, l’ordine di demolizione non può
essere adottato nel caso in cui il ripristino dello stato
dei luoghi non possa avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità.
La norma non contempla, quale requisito di legittimità del
provvedimento, anche l’incidenza di sopravvenienze di fatto
o di diritto sulla esecuzione concreta dell’ordine di
demolizione. Qualora, infatti, l’amministrazione accerti in
concreto che non sia possibile detta esecuzione, per tali
sopravvenienze, adotterà i provvedimenti consequenziali che
tengano conto della situazione attuale.
L’art. 34 del
decreto del Presidente della Repubblica, 06.06.2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) prevede che, in caso di
opere eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, l’ordine di demolizione non può essere adottato
nel caso in cui il ripristino dello stato dei luoghi non
possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità. La norma non contempla, quale requisito di
legittimità del provvedimento, anche l’incidenza di
sopravvenienze di fatto o di diritto sulla esecuzione
concreta dell’ordine di demolizione. Qualora, infatti,
l’amministrazione accerti in concreto che non sia possibile
detta esecuzione, per tali sopravvenienze, adotterà i
provvedimenti consequenziali che tengano conto della
situazione attuale (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.10.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'autorità statale preposta alla tutela del
vincolo paesaggistico ben può tenere conto del significativo
mutamento del quadro normativo, in ordine ai suoi poteri da
esercitare nel corso del procedimento di valutazione di una
domanda volta ad ottenere un titolo abilitativo
paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria
prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita non
più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio
vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base
adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il
correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del
vincolo, ma una valutazione di “merito amministrativo”,
espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Tale mutato quadro normativo comporta che la Soprintendenza
possa esprimere tale valutazione, anche se per un precedente
e corrispondente progetto essa abbia ritenuto insussistenti
i presupposti per annullare (sulla base del diverso quadro
normativo) l’autorizzazione già rilasciata.
In definitiva, il decorso del termine di efficacia
dell’originaria autorizzazione paesaggistica –non dovuto,
tra l’altro, a ritardi amministrativi ma a una libera scelta
della parte appellata– ha determinato il mutamento del
contesto normativo, con il conseguente legittimo mutamento
anche del contenuto delle determinazioni amministrative
adottate.
Sotto tale profilo, va richiamato
l’orientamento di questo Consiglio (Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129), per il quale l’autorità statale preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico ben può tenere conto
del significativo mutamento del quadro normativo, in ordine
ai suoi poteri da esercitare nel corso del procedimento di
valutazione di una domanda volta ad ottenere un titolo
abilitativo paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria
prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita
non più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente
fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base
adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il
correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del
vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n.
9), ma una valutazione di “merito amministrativo”,
espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Tale mutato quadro normativo comporta che la Soprintendenza
possa esprimere tale valutazione, anche se per un precedente
e corrispondente progetto essa abbia ritenuto insussistenti
i presupposti per annullare (sulla base del diverso quadro
normativo) l’autorizzazione già rilasciata.
In definitiva, il decorso del termine di efficacia
dell’originaria autorizzazione paesaggistica –non dovuto,
tra l’altro, a ritardi amministrativi ma a una libera scelta
della parte appellata– ha determinato il mutamento del
contesto normativo, con il conseguente legittimo mutamento
anche del contenuto delle determinazioni amministrative
adottate.
Non esiste, pertanto, alcuna incoerenza o contraddittorietà
tra atti posti essere dalla stessa amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.10.2013 n. 5082 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Atti di trasferimento immobiliare - Vendita di
immobile urbanisticamente irregolare - Nullità di un
contratto preliminare.
Deve essere affermata la nullità di un contratto preliminare
che abbia ad oggetto la vendita di un immobile irregolare
dal punto di vista urbanistico.
Il fatto che l'art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del
1985 e s.m., faccia riferimento agli atti di trasferimento,
cioè agli atti che hanno una efficacia reale immediata,
mentre il contratto preliminare di cui si discute abbia
efficacia semplicemente obbligatoria non elimina dal punto
di vista logico che non può essere valido il contratto
preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un
contratto nullo per contrarietà alla legge (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.10.2013 n. 23591 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza sindacale che
vieta ai proprietari ed accompagnatori di cani
l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini pubblici
del territorio comunale.
Ed invero, l’atto adottato dal sindaco, nella parte oggetto
di gravame, risulta eccessivamente limitativo della libertà
di circolazione delle persone ed è comunque posto in
violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità,
atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere
il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente
soddisfatto dal punto 3 della medesima ordinanza, con cui si
impone agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le
eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di
plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte
all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti
indifferenziati.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 65 del 26.09.2012
emessa dal Sindaco del Comune di Oppido Lucano,
relativamente al punto n. 1 nella sola parte in cui vieta
l'ingresso dei cani nei giardini pubblici comunali.
...
L’associazione ricorrente Earth -la cui finalità
è quella di “tutelare con ogni mezzo legittimo, ivi
compreso il ricorso allo strumento giudiziario, la
salvaguardia del patrimonio faunistico e ambientale con
particolare riguardo alla biodiversità” perseguendo tali
finalità, tra l’altro, attraverso “la tutela e la
valorizzazione dell’ambiente, del patrimonio storico,
artistico e naturale” e “la promozione del riconoscimento
dei diritti soggettivi di tutti gli animali” (cfr. art. 2
dello Statuto)- ha impugnato l’ordinanza del sindaco del
Comune di Oppido Lucano indicata in epigrafe nella sola
parte in cui vieta ai proprietari ed accompagnatori di cani
l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini pubblici
del territorio comunale, adottata al fine di evitare che le
deiezioni canine insudicino detti spazi provocando disagio e
rischio per la cittadinanza (in particolare per bambini, non
vedenti e anziani), sotto il profilo igienico-sanitario.
Il ricorso è fondato e va accolto nei sensi e limiti che
seguono.
Il provvedimento impugnato, nella parte in cui impone il
divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi,
nelle aree destinate a giardini pubblici, è illegittimo per
le ragioni già evidenziate in sede cautelare.
Ed invero, l’atto adottato dal sindaco del Comune di Oppido
Lucano, nella parte oggetto di gravame, risulta
eccessivamente limitativo della libertà di circolazione
delle persone ed è comunque posto in violazione dei principi
di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo
perseguito dall’Ente locale di mantenere il decoro e
l’igiene pubblica è già adeguatamente soddisfatto dal punto
3 della medesima ordinanza, con cui si impone agli
accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali
deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o
qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all’uso e di
provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati
(cfr., in termini, TAR Puglia, Lecce, 28/03/13 n. 732).
Per tali motivi va annullata l’ordinanza impugnata nella
sola parte in cui vieta ai proprietari ed accompagnatori di
cani l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini
pubblici del territorio comunale
(TAR Basilicata,
sentenza 17.10.2013 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di edilizia, il
potere inibitorio previsto dall'art. 23, comma 6, T.U.
06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio
di trenta giorni, potendo successivamente essere emanati
soltanto provvedimenti d'autotutela e sanzionatori, in
quanto alla scadenza del detto termine matura
l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati e
indicati nella denuncia di inizio attività, restando fermo
al contempo il potere dell'Amministrazione comunale di
provvedere non più con provvedimento inibitorio ma con
provvedimento sanzionatorio di tipo ripristinatorio o
pecuniario, in base alla normativa che disciplina la
repressione degli abusi edilizi.
Come di recente ripetuto (cfr. TAR Molise,
19.04.2013, n. 282), in tema di edilizia, il potere
inibitorio previsto dall'art. 23, comma 6, T.U. 06.06.2001
n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio di trenta
giorni, potendo successivamente essere emanati soltanto
provvedimenti d'autotutela e sanzionatori, in quanto alla
scadenza del detto termine matura l'autorizzazione implicita
ad eseguire i lavori progettati e indicati nella denuncia di
inizio attività, restando fermo al contempo il potere
dell'Amministrazione comunale di provvedere non più con
provvedimento inibitorio ma con provvedimento sanzionatorio
di tipo ripristinatorio o pecuniario, in base alla normativa
che disciplina la repressione degli abusi edilizi (cfr.
Cons. Stato, II Sezione, 17.10.2007 n. 1698, IV
Sezione, 22.07.2005 n. 3916 e TAR Napoli, Sez. II, 27.06.2005 n. 8707)
(TAR Basilicata,
sentenza 17.10.2013 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Spetta al tecnico laureato, e non diplomato, l'incarico
comunale inteso a rimodulare una significativa area
comunale, sia sotto il profilo viario, che con riferimento
ad insediamenti artigianali, nonché determinare le fasce di
rispetto che si sostanziano nella individuazione delle
distanze minime a protezione del nastro stradale
dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne
al confine stradale finalizzate alla eliminazione o
riduzione dell’impatto ambientale.
La competenza professionale dei geometri, a mente dell’art.
16 del RD 274/1929 non comprende, invero, la progettazione
urbanistica, ma, di contro, neppure gli art. 51 e 52 del RD
23.10.1925 n. 2537 (regolamento delle professioni di
ingegnere e architetto) prevedono esplicitamente tale
esclusiva competenza in capo ai professionisti laureati.
Ciò perché il problema della progettazione urbanistica si è
posto solo con l'introduzione del piano regolatore generale
(art. 7 della legge 1150/1942), che al proprio interno
prevede, sia la zonizzazione del territorio, sia la
localizzazione di opere pubbliche.
La giurisprudenza che ha affrontato la questione ha ritenuto
di dover distinguere le evenienze affidate legittimamente al
professionista diplomato secondo il grado obiettivo di
difficoltà della concreta progettazione urbanistica.
Mentre infatti la redazione di uno strumento di
programmazione generale è un'attività complessa che richiede
sicuramente adeguate ed approfondite conoscenze tecniche
collegate certamente al grado di preparazione di ingegneri e
architetti (e urbanisti), come confermato dall'art. 5, comma
1, lett. c), della legge 02.03.1949 n. 143 (tariffa
professionale di ingegneri e architetti), nella ipotesi di
varianti semplificate è però necessario distinguere a
seconda del contenuto e della complessità dell’intervento
professionale.
Invero, è stato affermato che “… se la variante semplificata
ha finalità solo localizzative (ossia riguarda l'inserimento
o lo spostamento di un'opera pubblica all'interno di un
quadro urbanistico già definito) la complessità delle
valutazioni tecniche è molto minore e non giustifica la
riserva a favore dei professionisti laureati …”.
---------------
Nel caso in questione, la disamina degli
atti prodotti evidenzia che l’incarico professionale
affidato al geometra è consistito nella individuazione di
tratti di strada per il collegamento viario di una zona
produttiva e nella ridistribuzione della stessa area
artigianale al fine di razionalizzarne l’uso, nonché della
nuova individuazione della fascia di massima tutela.
In altre parole il comune ha inteso rimodulare una
significativa area comunale, sia sotto il profilo viario,
che con riferimento ad insediamenti artigianali, nonché
determinare le fasce di rispetto che si sostanziano nella
individuazione delle distanze minime a protezione del nastro
stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree
esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o
riduzione dell’impatto ambientale.
In buona sostanza, quindi, l’incarico riguarda un’attività
professionale che richiede e necessita per il suo esatto
adempimento adeguate e complesse cognizioni tecniche che non
possono certo limitarsi a quelle proprie del tecnico
diplomato.
Si è trattato, quindi, di incarico complesso ed articolato
che ha richiesto sinanche i pareri del Genio civile e della
ULSS.
Tale articolata e complessa attività professionale avrebbe
dovuto, quindi, essere necessariamente affidata ad un
tecnico laureato né, di contro, è sufficiente una non
corretta, ovvero elusiva rappresentazione definitoria per
alterare la sostanza dell’intervento così da utilizzare
professionalità normativamente non adeguate.
Ritiene il Collegio, per ragioni di economia
processuale, opportuno esaminare per primo il ricorso
rubricato al n. 500/1999 con il quale il Consiglio
dell’Ordine degli architetti della Provincia di Treviso ha
censurato la delibera di giunta del comune di Crocetta del
Montello - (Tv) n. 238 del 1998, pubblicata nell’Albo
Pretorio il 17.12.1998, con la quale è stata adottata la
variante cartografica al PRG per la sistemazione della zona
artigianale D.1.1., ed affidato, all’attuale
controinteressato, l’incarico per la redazione tecnica del
progetto.
Il ricorrente, ente pubblico associativo a partecipazione
necessaria, esponenziali della particolare categoria
professionale, è legittimato ed ha interesse al ricorso.
Sostiene il ricorrente che l’originario affidamento per la
realizzazione degli elaborati tecnici relativi alla variante
parziale al PRG per la sistemazione della zona artigianale
D.1.1. ad un geometra contrasterebbe con l’art. 16 del r.d.
11.02.1929, n. 274, che puntualmente precisa le competenze
per tale categoria professionale.
In buona sostanza il ricorrente rileva che i geometri sono,
ai sensi della legge professionale, competenti per la
progettazione di manufatti e nelle connesse attività di
vigilanza e direzione, soltanto se di modesta valenza, ossia
attività che non implicano soluzioni di problemi tecnici di
significativa rilevanza, come quello affidato ed in questa
sede censurato.
Osserva il Collegio.
La competenza professionale dei geometri, a mente dell’art.
16 del RD 274/1929 non comprende, invero, la progettazione
urbanistica, ma, di contro, neppure gli art. 51 e 52 del RD
23.10.1925 n. 2537 (regolamento delle professioni di
ingegnere e architetto) prevedono esplicitamente tale
esclusiva competenza in capo ai professionisti laureati.
Ciò perché il problema della progettazione urbanistica si è
posto solo con l'introduzione del piano regolatore generale
(art. 7 della legge 1150/1942), che al proprio interno
prevede, sia la zonizzazione del territorio, sia la
localizzazione di opere pubbliche.
La giurisprudenza che ha affrontato la questione ha ritenuto
di dover distinguere le evenienze affidate legittimamente al
professionista diplomato secondo il grado obiettivo di
difficoltà della concreta progettazione urbanistica.
Mentre infatti la redazione di uno strumento di
programmazione generale è un'attività complessa che richiede
sicuramente adeguate ed approfondite conoscenze tecniche
collegate certamente al grado di preparazione di ingegneri e
architetti (e urbanisti), come confermato dall'art. 5, comma
1, lett. c), della legge 02.03.1949 n. 143 (tariffa
professionale di ingegneri e architetti), nella ipotesi di
varianti semplificate è però necessario distinguere a
seconda del contenuto e della complessità dell’intervento
professionale.
“… se la variante semplificata ha finalità solo
localizzative (ossia riguarda l'inserimento o lo spostamento
di un'opera pubblica all'interno di un quadro urbanistico
già definito) la complessità delle valutazioni tecniche è
molto minore e non giustifica la riserva a favore dei
professionisti laureati …” (TAR Lombardia Brescia Sez.
I, Sent., 22.02.2010, n. 864).
Nel caso di specie l’incarico è stato definito dall’organo
comunale come mera variante cartografica, le cui modifiche
costituiscono prestazioni tecniche elementari che non
alterano lo strumento urbanistico.
In realtà, più che limitarsi alla mera definizione formale
relativa all’incarico, così come rappresentata dalla
resistente, è necessario, invece, valutare quello che
concretamente risulta essere stato affidato in sede di
incarico professionale.
Nel caso in questione, la disamina degli atti prodotti
evidenzia che l’incarico professionale affidato al geometra
è consistito nella individuazione di tratti di strada per il
collegamento viario di una zona produttiva e nella
ridistribuzione della stessa area artigianale al fine di
razionalizzarne l’uso, nonché della nuova individuazione
della fascia di massima tutela.
In altre parole il comune ha inteso rimodulare una
significativa area comunale, sia sotto il profilo viario,
che con riferimento ad insediamenti artigianali, nonché
determinare le fasce di rispetto che si sostanziano nella
individuazione delle distanze minime a protezione del nastro
stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree
esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o
riduzione dell’impatto ambientale.
In buona sostanza, quindi, l’incarico riguarda un’attività
professionale che richiede e necessita per il suo esatto
adempimento adeguate e complesse cognizioni tecniche che non
possono certo limitarsi a quelle proprie del tecnico
diplomato.
Si è trattato, quindi, di incarico complesso ed articolato
che ha richiesto sinanche i pareri del Genio civile e della
ULSS.
Tale articolata e complessa attività professionale avrebbe
dovuto, quindi, essere necessariamente affidata ad un
tecnico laureato né, di contro, è sufficiente una non
corretta, ovvero elusiva rappresentazione definitoria per
alterare la sostanza dell’intervento così da utilizzare
professionalità normativamente non adeguate.
Per tali motivi il provvedimento impugnato deve essere
annullato.
Successivamente il ricorrente ha anche impugnato, sia la
delibera del Consiglio comunale n. 14 del 15.02.1999 di
approvazione (rectius adozione) variante cartografica
al PRG per la sistemazione della zona artigianale D 1.1, nei
termini formulati dalla delibera di giunta già cassata, che
la determina dirigenziale, n. 305 del 31.12.1998, con
allegata convenzione, con la quale è stato affidato al
geometra Gianpaolo Bressan l’incarico per la redazione della
variante.
Tali ulteriori provvedimenti, costituiscono, all’evidenza,
la necessaria e diretta conseguenza dell’atto di giunta,
come detto, già annullato dal Collegio.
Nel caso in questione emerge, dall’obiettivo dato fattuale,
un chiaro, palese, stretto ed inscindibile legame
logico-giuridico che cementa tra loro gli atti censurati e
consente di rilevare che la cassazione dell’atto presupposto
assume significativa valenza anche e, soprattutto, nei
confronti di tali atti che dal primo ricavano la loro
ragione esistenziale.
Si può dire che il rapporto tra tutti gli atti in sequenza,
in questa sede censurati, evidenzia una loro relazione
diretta e necessaria, nel senso che i secondi costituiscono
il naturale sviluppo e completamento del primo, anche perché
la loro adozione non ha comportato alcuna valutazione di
nuovi ed ulteriori interessi rispetto a quelli
originariamente scrutinati con il provvedimento presupposto.
Quindi, nel caso di specie, la proposizione di una autonomo
ricorso, consente solo di ravvisare, senz’altro e senza
ulteriori disamine, la chiare ed univoca manifestazione di
interesse alla caducazione dei diversi e successivi atti,
atteso che il riferito legale teleologico-funzione comporta,
necessariamente, che all’annullamento dell’atto presupposto
conseguano affetti imprescindibili ed automatici anche per
gli atti conseguenti e connessi al primo.
In altri termini il riconosciuto vizio dell’atto presupposto
si ripercuote, per i motivi sopra indicati, sull’atto/i
presupponente/i proprio in virtù del vincolo che lega gli
stessi, per cui il venir meno dell’atto originario ha un
effetto travolgente, proprio dell’invalidità derivata, di
quelli a valle nei termini propri dell’invalidità ad effetto
caducante, considerato che gli atti in esame hanno la loro
unica ragione nel genetico collegamento con quello annullato
(Con. St., sez. V, 07.02.2000, 672).
Ne consegue che l’eliminazione automatica di tali atti dal
mondo giuridico rende il ricorso conseguentemente proposto
improcedibile in conseguenza della sopravvenuta carenza di
interesse, atteso che l’annullamento dell’originario
provvedimento travolge automaticamente quelli conseguenti
che ripetono dal primo, come nel caso di specie,
l’imprescindibile presupposto della loro esistenza,
costituendo gli stessi una evenienza meramente confermativa
della originaria determinazione ormai cassata (TAR Veneto,
Sez. I,
sentenza 15.10.2013 n. 1171 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario
dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la
sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è
possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini,
il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere
di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere
idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova
costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico
(inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e
di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente
che il presente sono limiti per i quali è prevista
l’opposizione facoltativa dei singoli condomini
controinteressati.
---------------
Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle
condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127,
comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la
sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture
dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel
senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le
strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica,
non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento
quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano
particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle
caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli
edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art.
1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una
presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può
essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente
sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia
idonea a fronteggiare il rischio sismico.
---------------
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la
natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta
alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini
(mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per
l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella
sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in
questione.
... per l’annullamento:
- a) del diniego di cui alla nota, prot. n. 2800 del
30.01.2012, successivamente comunicato, a firma congiunta
del Responsabile del Servizio Sportello Unico Edilizia
Privata e del Responsabile del Settore 4° del Comune di
Pontecagnano Faiano, con il quale è stata respinta l’istanza
di permesso di costruire per l’ampliamento, ai sensi
dell’art. 4 della l. r., n. 19/09 e ss. mm. ii., di un
fabbricato sito alla via Veneto;
...
La ricorrente, quale proprietaria esclusiva, in virtù di
atto di donazione, rep. n. 19595, racc. 6376 dell’01.02.1979,
di un sottotetto, sito alla via Veneto n. 12 del Comune di Pontecagnano Faiano, distinto in catasto al foglio 7, p.lla
n. 771, rappresentava che, in data 20.07.2010, in
considerazione del regime di favore, introdotto dalla l.r.
Campania n. 19/2009, aveva depositato apposita istanza (prot.
n. 20509), ai fini dell’ampliamento e del cambio di
destinazione d’uso del predetto sottotetto in abitazione;
che, in esito al prescritto iter, il Comune di Pontecagnano
Faiano, con nota del 19.09.2011, le aveva comunicato i
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza; in
particolare, era stata evidenziata la necessità di
acquisire:
a) “l’autorizzazione esplicita, espressa nelle forme di
legge, della parte rimanente dell’assetto proprietario
dell’intero fabbricato (...)”;
b) “l’autorizzazione esplicita (...) della proprietà
dell’intero fabbricato in aderenza”;
che, nei termini di cui all’art. 10 bis, aveva depositato
un’articolata memoria, con la quale aveva evidenziato che:
a) ai sensi dell’art. 1127 c. c., il parere degli altri
condomini alla sopraelevazione non sarebbe stato necessario,
essendo la stessa espressamente consentita dalla predetta
disposizione normativa;
b) aveva comprovato il pieno diritto ad effettuare
costruzioni in sopraelevazione, come da titolo di proprietà;
c) aveva fornito elaborati grafici, dai quali s’evinceva che
l’intervento proposto non alterava l’aspetto architettonico
dell’immobile;
d) aveva evidenziato che il fabbricato era stato realizzato,
in aderenza a quello limitrofo; pertanto, non sarebbe stato
necessario alcun ulteriore atto di assenso dei proprietari
dell’immobile in aderenza; lamentava che la P. A., senza
tener conto dell’esatta portata di detta memoria, aveva
comunque respinto l’istanza; avverso detto provvedimento
articolava, pertanto, le seguenti censure: ...
...
Va poi precisato che ai sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto
del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione
incontra tre limiti:
-
le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la
sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è
possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini,
il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere
di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere
idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova
costruzione;
-
non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico
(inteso come stile architettonico dell’edificio);
-
non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di
luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che
il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione
facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
Né opera il richiamato principio della prevenzione in quanto
secondo il consolidato orientamento della Corte di
cassazione “in tema di rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente,
determinando un incremento della volumetria del fabbricato,
è qualificabile come nuova costruzione; ne consegue
l’applicazione della normativa vigente al momento della
modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se
riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito
dal principio della priorità temporale correlata, al momento
della sopraelevazione” (Cass. 11.06.2008 n. 15572;
03/01/2011 n. 74).
In conformità a tali considerazioni, e tenute altresì
presenti la argomentazioni esposte nella memoria difensiva
del controinteressato S.A., diffusamente riportate
in narrativa, osserva il Tribunale come, diversamente da
quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso, il diritto
alla sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo
piano dell’edificio non è assoluto, ma incontra “tre limiti,
dei quali il primo (le condizioni statiche) introduce un
divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con
il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia
autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di
consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a
sopportare il peso della nuova costruzione, mentre gli altri
due limiti (il pregiudizio delle linee architettoniche e la
diminuzione di aria e di luce) presuppongono l’opposizione
facoltativa dei singoli condomini interessati”.
Prescindendo per il momento da tali ultimi due limiti, è
indubbio che nella specie manca il consenso della parte
rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato,
necessario in vista del conseguimento dell’autorizzazione
all’esecuzione delle opere di rafforzamento e consolidamento
necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il
peso dell’intera costruzione, e tanto per l’opposizione del
condomino Scalea Antonio, comproprietario del secondo piano
del’edificio de quo.
Si tenga altresì presente che, come opportunamente rilevato
da S.A. nello scritto difensivo in atti: “Il
divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni
statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c.
c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è
vietata soltanto se le strutture dell’edificio non
consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il
divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali
che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di
sopportare l’urto di forze in movimento quali le
sollecitazioni di origine sismica. Pertanto, qualora le
leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche
da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del
territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono
da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c.,
e la loro inosservanza determina una presunzione di
pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta
esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore
della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma
anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il
rischio sismico” (Cassazione civile – Sez. II, 30.05.2012, n. 8643).
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la
natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta
alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini
(mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per
l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella
sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
principio codificato dall’art. 11, commi 2 e 3, t.u.
06.06.2001 n. 380, secondo cui i permessi di costruire
devono intendersi rilasciati con salvezza dei diritti di
terzi , al fine di non pregiudicare eventuali posizioni
soggettive di terzi confliggenti con quanto assentito, non
esclude che il loro rilascio richieda una valutazione della
sussistenza dei presupposti urbanistico–edilizi, e in
generale pubblicistici, della trasformazione del territorio
richiesta.
---------------
In base ad un principio generale in materia, le
autorizzazioni amministrative sono sempre rilasciate
dall’Amministrazione con l’apposizione della clausola della
salvezza dei diritti dei terzi, ne consegue che la stessa
Amministrazione non è tenuta ad effettuare una puntuale
verifica in ordine al contenuto specifico del titolo
giuridico sulla base del quale la richiesta di rilascio
dell’autorizzazione è stata effettuata, essendo rimesse alla
competenza del giudice ordinario le eventuali questioni
interpretative eventualmente sorte al riguardo tra le parti
private.
Da ciò non consegue altresì che nel caso in cui il
proprietario del locale nel quale l’attività da autorizzare
debba svolgersi, intervenga nel relativo procedimento,
manifestando motivatamente la propria opposizione al
rilascio del titolo autorizzatorio richiesto
l’Amministrazione debba ignorare la detta circostanza,
procedendo comunque al rilascio dello stesso.
---------------
Non è rispettata la condizione prevista dal rilascio delle
concessione edilizia della salvezza dei diritti dei terzi,
nel caso in cui si sia proceduto all’intervento invasivo
della proprietà altrui e pregiudizievole per la statica ed
il libero godimento da parte del proprietario.
Non può quindi sottoscriversi la convinzione espressa da
parte ricorrente, secondo cui: “In ogni caso, l’eventuale
autorizzazione, da parte di terzi, sarebbe stata una
circostanza estranea ai poteri istruttori della P.A.,
attenendo all’aspetto privatistico, ed essendo il titolo
edilizio rilasciato, con piena salvezza dei diritti dei
terzi”.
Si consideri, in contrario, che: “Il principio codificato
dall’art. 11, commi 2 e 3, t.u. 06.06.2001 n. 380, secondo
cui i permessi di costruire devono intendersi rilasciati con
salvezza dei diritti di terzi , al fine di non pregiudicare
eventuali posizioni soggettive di terzi confliggenti con
quanto assentito, non esclude che il loro rilascio richieda
una valutazione della sussistenza dei presupposti
urbanistico–edilizi, e in generale pubblicistici, della
trasformazione del territorio richiesta” (TAR Umbria –
Sez. I, 05.09.2011, n. 290); che: “In base ad un
principio generale in materia, le autorizzazioni
amministrative sono sempre rilasciate dall’Amministrazione
con l’apposizione della clausola della salvezza dei diritti
dei terzi, ne consegue che la stessa Amministrazione non è
tenuta ad effettuare una puntuale verifica in ordine al
contenuto specifico del titolo giuridico sulla base del
quale la richiesta di rilascio dell’autorizzazione è stata
effettuata, essendo rimesse alla competenza del giudice
ordinario le eventuali questioni interpretative
eventualmente sorte al riguardo tra le parti private. Da ciò
non consegue altresì che nel caso in cui il proprietario del
locale nel quale l’attività da autorizzare debba svolgersi,
intervenga nel relativo procedimento, manifestando
motivatamente la propria opposizione al rilascio del titolo
autorizzatorio richiesto l’Amministrazione debba ignorare la
detta circostanza, procedendo comunque al rilascio dello
stesso” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 09.05.2011, n. 3987);
e che: “Non è rispettata la condizione prevista dal
rilascio delle concessione edilizia della salvezza dei
diritti dei terzi, nel caso in cui si sia proceduto
all’intervento invasivo della proprietà altrui e
pregiudizievole per la statica ed il libero godimento da
parte del proprietario” (Consiglio Stato – Sez. V,
10.04.2002, n. 1970).
Si consideri, del resto, che, come osservato dalla difesa
del Comune, “al fine di raggiungere il requisito del 70%
dell’utilizzo dell’intero edificio va calcolata anche la
volumetria della proprietà dell’altro condomino, del quale
quindi va acquisito il consenso, mancante nel caso di specie”.
Ma non basta, perché, sempre come rilevato dalla difesa
dell’ente, il fabbricato oggetto di intervento risulta in
aderenza ad altro di proprietà aliena e che, con
l’ampliamento previsto, si modifica la “sagoma di aderenza”
in ampliamento.
Pertanto in ossequio all’art. 3, punto 16), del vigente
Regolamento Edilizio Comunale (REC) “In caso di proprietà
diverse sono ammesse costruzioni in aderenza sul confine di
proprietà, nel caso di richiesta presentata congiuntamente”,
di richiesta congiunta ovvero di autorizzazione esplicita,
espressa nelle forme di legge, della proprietà del detto
fabbricato verso il quale viene modificata l’anzidetta
aderenza; ma nella specie, con nota prot. 19525/2011, era
stata trasmessa all’Ente un’autorizzazione solo di quota
parte della proprietà del fabbricato in aderenza (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile
come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto,
l’applicazione della normativa urbanistica vigente al
momento della modifica e l’inoperatività del criterio della
prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in
quanto sostituito dal principio della priorità temporale
correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione
del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la
parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo
a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine
con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque
rispettare la distanza prescritta dallo strumento
urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era
contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo
l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui
agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di
fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano
intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il
soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se
edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il
proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può
scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la
distanza legale minima prescritta: detta figura non può,
quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi,
esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame
del Collegio.
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non
è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in
tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative,
da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in
quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso
in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la
necessità di rispettare determinate distanze dal confine non
può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in
appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come
alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze.
Ne risulta confermata la legittimità anche del secondo
motivo di diniego, cui non osta l’invocato, da parte
ricorrente, criterio della prevenzione.
Si consideri, al riguardo, quanto risulta dalla parte motiva
della sentenza del TAR Veneto – Sez. II, dell’11.11.2011, n. 1683:
“Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
condivisa dal Collegio, in tema di rispetto delle distanze
legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio
preesistente, determinando un incremento della volumetria
del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione.
Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della
normativa urbanistica vigente al momento della modifica e
l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito
alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal
principio della priorità temporale correlata al momento
della sopraelevazione (In applicazione del riferito
principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel
trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello
posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il
fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare
la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente,
anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro
orizzontale del piano inferiore) (cfr. Cassazione civile,
sez. II, 03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo
l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui
agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di
fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano
intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il
soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se
edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il
proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può
scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la
distanza legale minima prescritta: detta figura non può,
quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi,
esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame
del Collegio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.12.2001, n.
6374).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non
è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in
tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative,
da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in
quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso
in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la
necessità di rispettare determinate distanze dal confine –come nell'ipotesi dell’art. 18, comma 3, delle N.T.A.
vigenti nel Comune di Baone– non può ritenersi consentita la
costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale
facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di
rispettare le suddette distanze (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 13.01.2004, n. 46)” (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Complesso
monumentale lasciato in stato di abbandono.
DIRITTO URBANISTICO - Degrado di monumenti per mancanza di
manutenzione ordinaria - Responsabilità degli enti pubblici
- Configurabilità.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Omissione d'atti d'ufficio -
Responsabilità del sindaco e dei dirigente - Fattispecie:
violazioni in area sottoposta a specifici vincoli e
Ordinanza di rigetto di istanza di archiviazione - Artt.
328, 677 e 733 c.p..
Rispondono ai sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei
danneggiamenti strutturali e dei pericoli di crollo che
siano stati immediatamente e direttamente causati dalla
mancanza di manutenzione ordinaria, l'ente pubblico
proprietario del complesso monumentale lasciato in stato di
abbandono, al degrado e alla vandalizzazione altrui e
altresì tutti coloro che erano tenuti alla conservazione ed
alla vigilanza del medesimo bene culturale.
Inoltre, si configura sul sindaco o sul dirigente in suo
luogo delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere
omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati
pericoli di crollo anche attraverso l'esercizio dei poteri
di ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Nella specie sul sito oggetto di contestazione gravavano
specifici vincoli storico monumentale, paesaggistico,
idrogeologico, di inedificabilità assoluta, e di altra
natura, per cui gli enti preposti sono tenuti alla
manutenzione e conservazione e tutela del bene, nelle
persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da
individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondendo
delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate
direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva
del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte
arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal
mancato esercizio della doverosa vigilanza.
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Sito
vincolato - Abusi edilizi - Conferimento di rifiuti - Totale
omissione di vigilanza - Inerzia degli Enti preposti in
concorso - Caratteri dell'acquiescenza - Art. 169 e 181, c.1
e 1-bis, D.lgs. n. 42/2004 - Artt. 838 c.c., Artt. 328, 677
e 733 c.p. - Art. 9 Cost. - Art. 44 dpr n. 380/2001.
Le condotte di violazione dei vincoli monumentale e
paesaggistico i danneggiamenti strutturali, gli abusi
edilizi compiuti all'interno del sito vincolato, ai sensi
dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del Decreto
legislativo n. 42/2004, sono in concreto riconducibili alla
responsabilità immediata e diretta degli enti pubblici
proprietari o tenuti alla conservazione e alla tutela.
Pertanto i medesimi enti, relativamente ai danni da mancanza
di manutenzione o a violazioni di vincoli anche se compiute
da terzi attraverso abusi edilizi, conferimenti
incontrollati di rifiuti ecc., risponderanno a titolo di
concorso laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi-
abbia assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
In conclusione, l'abbandono impietoso di un monumento,
costituisce un aperto dispregio dell'obbligo giuridico (art.
9 Cost.) di natura generale di gestione del bene di
interesse pubblico secondo i criteri del buon padre di
famiglia (TRIBUNALE
di Palermo, Sez. G.I.P.,
ordinanza
08.10.2013 - tratto da
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni?
Il Sindaco può ordinare la chiusura di
un'industria insalubre per impedire il pericolo per la
salute pubblica? Il Consiglio di Stato ha precisato che
l'autorizzazione per l'esercizio di un'industria
classificata insalubre è concessa, e può essere mantenuta, a
condizione che l'esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure
atte a prevenire emissioni moleste: se il Sindaco constata
che l'impresa non ha adottato le misure richieste per
prevenire e impedire il danno da esalazioni, può disporre la
revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione
dell'attività.
Gli interrogativi
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri?
Può ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la
salute pubblica?
Sono i due interrogativi alla base della sentenza del
Consiglio di Stato (n. 4687/13), che nel confermare quanto
stabilito dal TAR, ha precisato che l’autorizzazione per
l’esercizio di un’industria insalubre è concessa, e può
essere mantenuta, a condizione che l’esercizio non superi i
limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate
tutte le misure atte a prevenire emissioni moleste: se il
Sindaco constata che l’impresa non ha adottato le misure
richieste per prevenire e impedire il danno da esalazioni,
può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la
cessazione dell’attività.
Il caso
La vicenda trae origine da una serie di atti che il Sindaco
di un Comune ha adottato nei confronti di un’azienda
suinicola (industria insalubre di prima classe).
Sono tre sostanzialmente i motivi d’appello sottoposti
dall’azienda all’esame del Consiglio di Stato:
1. i provvedimenti impugnati sono stati adottati sulla base
di accertamenti tecnici effettuati dall’ASL ai fini
dell’adozione della precedente ordinanza, poi annullata dal
TAR; 2. l’ubicazione in zona agricola dell’azienda è idonea
ad evitare problemi di coesistenza con altri insediamenti;
3. gli interventi tecnici non sono congrui né idonei a far
fronte agli inconvenienti ambientali rilevati.
La validità degli accertamenti tecnici
In estrema sintesi, secondo l’appellante l’annullamento
avrebbe travolto anche gli atti istruttori.
Ad avviso del Consiglio di Stato, invece, la sorte del
precedente provvedimento, in quanto annullato dal TAR per
mancanza del presupposto costituito dall’esistenza di una
situazione di necessità ed urgenza, vale a dire in ragione
della errata qualificazione giuridica della situazione
oggettivamente riscontrata, non inficia il valore degli
accertamenti tecnici in sé considerati, che ben potevano
essere utilizzati ai fini dell’adozione di altro e diverso
(quanto ai presupposti giuridici) provvedimento.
L’ubicazione in
zona agricola
In relazione alla seconda contestazione, il Collegio ha
evidenziato che l’originaria localizzazione dell’allevamento
in zona agricola non esentava il ricorrente dal tenere
l’azienda “isolata nella campagna” e comunque “lontana
dalle abitazioni”; tanto più che l’area dell’allevamento
era stata riclassificata, dalla variante generale del PRG in
fase di adozione, quale zona D1 a destinazione
agricola-artigianale, proprio in accoglimento di
un’osservazione del ricorrente, il quale si era impegnato a
riconvertire in edifici artigianali le costruzioni
esistenti, dacché nell’area insistevano ormai altri
insediamenti produttivi (oltre che case sparse).
Le valutazioni
peritali di parte
In relazione al terzo motivo d’appello –che si è fondato su
una relazione peritale di parte– i giudici di Palazzo Spada
hanno osservato che alle valutazioni tecnico-discrezionali
espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela
igienico-sanitaria ed ambientale non possono essere
sovrapposte le valutazioni peritali di parte di segno
contrario.
A meno che –si specifica– a carico delle prime non vengano
evidenziati vizi di logicità, contraddittorietà o
incompletezza per quanto concerne l’individuazione degli
elementi di fatto rilevanti e la scelta della regola tecnica
di riferimento o la sua applicazione: si tratta di un
principio valevole tanto più in un settore, come quello
delle emissioni olfattive, che è connotato da un’estesa
discrezionalità tecnica, che il giudice amministrativo può
sindacare solo in caso di manifesta irragionevolezza od
incoerenza sotto il profilo scientifico.
La discrezionalità tecnica Poteri del Sindaco
In base agli artt. 216 e 217 del TULLSS spetta al Sindaco,
all’uopo ausiliato dall’USL, la valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie classificate insalubri Tempistiche. L’esercizio di
tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo: quindi anche
in epoca successiva all’attivazione dell’impianto
industriale
Modalità
Adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l’evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità Limiti
dell’autorizzazione. Non devono essere superati limiti della
più stretta tollerabilità Devono essere adottate tutte le
misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per
evitare esalazioni moleste
Diffida
È legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare
(sulla base del parametro della “normale tollerabilità”
delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle
funzioni attribuite dal DLgs 267/2000) l’elaborazione di
misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni
maleodoranti provenienti da attività produttiva, anche a
prescindere da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione
a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano
dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli
inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di
eliminarli
Revoca
A seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di
interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni,
il Sindaco può disporre la revoca del nulla osta e,
pertanto, la cessazione dell’attività
Discrezionalità
È inevitabilmente ampia: il cit. art. 216 riferisce la
valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”,
spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla
tipologia di industria di cui concretamente si tratta
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sussiste l’interesse del consigliere comunale per
lesione dello ius offici laddove si tratta, in sostanza, di
vizi che rivelino l'immediata interferenza con le
prerogative del componente il consesso, il quale ne veda
obiettivamente compromesso il corretto esercizio del suo
mandato, come potrebbe verificarsi, tra le altre, per le
erronee modalità di convocazione dell'organo, la violazione
dell'ordine del giorno, l'inosservanza del termine di
deposito della documentazione ed, in generale, per tutte le
violazioni procedurali che si risolvono in un concreto
impedimento al regolare esercizio delle attribuzioni
inerenti al munus, nonché le determinazioni che comportino
la preclusione, in tutto o in parte, all'ulteriore
svolgimento delle funzioni relative all'incarico rivestito,
oltre naturalmente ai casi in cui gli atti collegiali
riguardino direttamente e personalmente il consigliere
stesso.
Con un primo motivo di appello si reitera la censura di mancato rispetto
del termine di cinque giorni tra la convocazione e la seduta
consiliare, in asserita violazione dell’art. 22 dello
statuto comunale, dell’art. 5 del Regolamento del Consiglio
comunale di Schilpario, nonché dell’art. 31 della L.
08.06.1990, n. 142.
Il motivo è infondato, avendo condivisibilmente il primo
giudice dichiarato l’inammissibilità della censura,
considerando la regola a sola prerogativa dei consiglieri
comunali (si veda Consiglio Stato sez. V, 12.06.2009, n.
3744, che ha statuito l’interesse del consigliere comunale
per lesione dello ius offici laddove si tratta, in sostanza,
di vizi che rivelino l'immediata interferenza con le
prerogative del componente il consesso, il quale ne veda
obiettivamente compromesso il corretto esercizio del suo
mandato, come potrebbe verificarsi, tra le altre, per le
erronee modalità di convocazione dell'organo, la violazione
dell'ordine del giorno, l'inosservanza del termine di
deposito della documentazione ed, in generale, per tutte le
violazioni procedurali che si risolvono in un concreto
impedimento al regolare esercizio delle attribuzioni
inerenti al munus, nonché le determinazioni che
comportino la preclusione, in tutto o in parte,
all'ulteriore svolgimento delle funzioni relative
all'incarico rivestito, oltre naturalmente ai casi in cui
gli atti collegiali riguardino direttamente e personalmente
il consigliere stesso) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Costituisce principio
generale del diritto, di cui le previsioni dell'art. 2, l.
n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di
normazione primaria, quello secondo cui i termini del
procedimento amministrativo devono essere considerati
ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente
perentori dalla legge.
È pur vero che l'intenzione del legislatore non si ricava
sempre e necessariamente dall'esplicita disposizione in tal
senso, potendo la natura perentoria essere desunta anche
implicitamente dalla «ratio legis» e dalle specifiche
esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un
adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a
soddisfare, ma tale non è, in generale, il caso del termine
fissato per l'adozione del provvedimento finale ai sensi
dell'art. 2 summenzionato.
---------------
Ad eccezione dell’ipotesi delineata sub a) sulla
localizzazione delle opere pubbliche comunali, in tutti gli
altri casi la variante in forma semplificata (L.R. 23/1997)
non è idonea a mutare il quadro urbanistico generale del
vigente P.R.G., mirando la normativa regionale, alla stregua
dell’art. 25, comma 1, lett. a), della L. 28.02.1985, n. 47,
a rendere più agile e flessibile il rapporto tra i diversi
livelli di pianificazione, preservando peraltro il nesso di
derivazione di quello secondario rispetto a quello primario,
che non può essere unilateralmente modificato da parte
dell’amministrazione comunale senza il concorso di quella
regionale.
Invero, la previsione di riduzione della volumetria rientra
nell’ipotesi di cui alla lettera e) della richiamata
previsione, che prevede varianti di completamento
interessanti ambiti territoriali di zone omogenee già
classificate come zone B, C e D, che comportino, con o senza
incremento della superficie azzonata, un aumento della
relativa capacità edificatoria non superiore al 10% di
quella consentita nell’ambito oggetto della variante.
Sarebbe irragionevole il contrario e cioè ammettere varianti
semplificate per aumenti della capacità edificatoria,
escludendone per converso le potenziali, possibili
riduzioni, involgendo queste ultime un minor consumo del
territorio, che è il vero bene da salvaguardare (tale
lettura è avallata anche dalla circolare interpretativa
dell’Assessorato alla Urbanistica e al Territorio n. 37 del
10.07.1997).
A sua volta, la modificazione della destinazione dei
parcheggi da privati a pubblici è compresa nell’ipotesi
dell’art. 2, 2° comma, lett. a), che consente il
procedimento semplificato per le varianti dirette a
localizzare opere pubbliche di competenza comunale.
La tesi
dell’appello consiste nel sostenere l’illegittimità
dell’approvazione della variante ben oltre i novanta giorni
previsti dalla legge regionale.
L’art. 3, 3° comma, della L.r. 23.06.1997, n. 23 che entro i
novanta giorni successivi alla scadenza del termine di cui
al comma 2 (per la presentazione delle osservazioni), le
varianti sono sottoposte all'approvazione del Consiglio
comunale.
In disparte la considerazione di ben noti rimedi per
rimuovere la eventuale inerzia dell’amministrazione rispetto
all’obbligo di provvedere nei termini, costituisce principio
generale del diritto, di cui le previsioni dell'art. 2, l.
n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria, quello secondo cui i termini del
procedimento amministrativo devono essere considerati
ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente
perentori dalla legge. È pur vero che l'intenzione del
legislatore non si ricava sempre e necessariamente
dall'esplicita disposizione in tal senso, potendo la natura
perentoria essere desunta anche implicitamente dalla «ratio
legis» e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che
lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo
prefissato è indirizzato a soddisfare, ma tale non è, in
generale, il caso del termine fissato per l'adozione del
provvedimento finale ai sensi dell'art. 2 summenzionato
(Consiglio Stato sez. VI, 14.01.2009, n. 140).
Né può valere in senso contrario il richiamo alle
amministrazioni comunali al rispetto dei termini da parte
della Regione Lombardia operato con la circolare n. 37 del 10.07.1997, rilevando la violazione dei termini
probabilmente ad altri fini, ma non al fine della validità
degli atti comunque adottati.
Sotto altro profilo, la parte appellante lamenta la
violazione del termine di 12 mesi previsto dall’art. 21
della legge n. 136 del 1999.
Anche tale rilievo è infondato.
L'art. 21 l. 30.04.1999 n. 136 prevede che
“l'approvazione degli strumenti urbanistici generali e delle
relative varianti da parte delle regioni, delle province o
di altro ente locale, ove prevista, interviene entro il
termine perentorio di dodici mesi dalla data del loro
deposito, col corredo della documentazione prescritta, da
parte dell'ente che li ha adottati. L'Amministrazione
ricevente ha l'obbligo di asseverare, all'atto del deposito,
la regolarità formale degli atti in base ai requisiti
prescritti dalle norme vigenti”.
Nel disporre che l'approvazione degli strumenti urbanistici
debba intervenire entro 12 mesi dalla data di deposito del
piano, fissa un termine che rileva eventualmente ai soli
fini della formazione della fattispecie del silenzio-inadempimento e non del silenzio-assenso; con la conseguenza
che la scadenza del termine in questione non priva
l'amministrazione competente del potere di provvedere in
merito.
---------------
Con altro
motivo l’appello ripropone la censura con cui si sostiene
l’illegittimo ricorso alla procedura della variante
semplificata fuori dei casi consentiti (soppressione di
preesistente volumetria, eliminazione della strada, nonché
sostituzione dei parcheggi).
La legge regionale della Regione Lombardia autorizza
l’adozione ed approvazione di varianti in sede locale,
quando esse siano:
a) dirette a localizzare opere di
competenza comunale;
b) volte ad adeguare le originarie
previsioni di localizzazione dello strumento urbanistico
alla progettazione esecutiva;
c) atte ad apportare agli
strumenti urbanistici generali le modificazioni necessarie a
realizzare vigenti previsioni urbanistiche;
d) dirette a
modificare le modalità di intervento sul patrimonio edilizio
esistente;
e) si propongano fini di completamento;
f)
comportino modificazioni dei perimetri territoriali
esistenti subordinati ai piani attuativi, finalizzate ad
assicurare un migliore assetto urbanistico nell’ambito
dell’intervento opportunamente motivato e tecnicamente
documentato, ovvero a modificare la tipologia dello
strumento urbanistico attuativo;
g) siano finalizzate
all’individuazione delle zone di recupero del patrimonio
edilizio esistente;
h) siano relative a comparti soggetti a
piani attuativi;
i) concernano modificazioni della normativa
dello strumento urbanistico generale.
Ad eccezione dell’ipotesi delineata sub a) sulla
localizzazione delle opere pubbliche comunali, in tutti gli
altri casi la variante in forma semplificata non è idonea a
mutare il quadro urbanistico generale del vigente P.R.G.,
mirando la normativa regionale, alla stregua dell’art. 25,
comma 1, lett. a), della L. 28.02.1985, n. 47, a
rendere più agile e flessibile il rapporto tra i diversi
livelli di pianificazione, preservando peraltro il nesso di
derivazione di quello secondario rispetto a quello primario,
che non può essere unilateralmente modificato da parte
dell’amministrazione comunale senza il concorso di quella
regionale.
Come ha osservato il primo giudice, la previsione di
riduzione della volumetria rientra nell’ipotesi di cui alla
lettera e) della richiamata previsione, che prevede varianti
di completamento interessanti ambiti territoriali di zone
omogenee già classificate come zone B, C e D, che
comportino, con o senza incremento della superficie azzonata,
un aumento della relativa capacità edificatoria non
superiore al 10% di quella consentita nell’ambito oggetto
della variante.
Sarebbe irragionevole il contrario e cioè ammettere varianti
semplificate per aumenti della capacità edificatoria,
escludendone per converso le potenziali, possibili
riduzioni, involgendo queste ultime un minor consumo del
territorio, che è il vero bene da salvaguardare (tale
lettura è avallata anche dalla circolare interpretativa
dell’Assessorato alla Urbanistica e al Territorio n. 37 del
10.07.1997).
A sua volta, la modificazione della destinazione dei
parcheggi da privati a pubblici è compresa nell’ipotesi
dell’art. 2, 2° comma, lett. a), che consente il
procedimento semplificato per le varianti dirette a
localizzare opere pubbliche di competenza comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In materia di varianti
allo strumento urbanistico generale, la giurisprudenza
reputa necessaria la puntuale motivazione in tutti casi in
cui l’amministrazione abbia adottato (…) varianti specifiche
e settoriali al P.R.G., che incidono su interessi e
aspettative basate su una particolare tutela od affidamento
(…) .
Come eccezione alla regola (della non necessità della
motivazione), è altresì vero che in sede di adozione di una
variante allo strumento urbanistico, uno specifico obbligo
di motivazione sussiste solo quando la nuova destinazione
urbanistica incida su aspettative qualificate degli
interessati, aspettative determinate dall'esistenza di un
piano di lottizzazione approvato o convenzionato.
---------------
La variante di uno strumento urbanistico primario, che
imprime una nuova destinazione ad aree già urbanisticamente
classificate per effetto della strumentazione urbanistica
previgente, necessita di apposita motivazione soltanto se le
classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche
aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultino
fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve
trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni
di affidamento, come quelle derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto.
---------------
Le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione
degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di
merito sottratto al sindacato di legittimità, sicché anche
la destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai
criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti
nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
In sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali, sono date dal superamento degli standards minimi
di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree; dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
---------------
In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la
valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con
riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi
urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere
discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è
neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili adiacenti.
In diritto, in
materia di varianti allo strumento urbanistico generale, la
giurisprudenza (Cons. Stato Sez. V, 23.05.2000, n. 2982; Sez. IV, 20.03.2001, n. 1679) reputa necessaria la puntuale
motivazione in tutti casi in cui l’amministrazione abbia
adottato (…) varianti specifiche e settoriali al P.R.G., che
incidono su interessi e aspettative basate su una
particolare tutela od affidamento (…) .
E’ noto ampiamente l’indirizzo della giurisprudenza
amministrativa (cfr. per tutte Consiglio Stato, Sez. IV, 22.06.2004, n. 4431) secondo cui (…) come eccezione alla
regola (della non necessità della motivazione), è altresì
vero che in sede di adozione di una variante allo strumento
urbanistico, uno specifico obbligo di motivazione sussiste
solo quando la nuova destinazione urbanistica incida su
aspettative qualificate degli interessati, aspettative
determinate dall'esistenza di un piano di lottizzazione
approvato o convenzionato.
---------------
Per costante
giurisprudenza di questo Consesso (da ultimo, tra tante,
Consiglio di Stato sez. IV, 26.10.2012, n. 5492), la
variante di uno strumento urbanistico primario, che imprime
una nuova destinazione ad aree già urbanisticamente
classificate per effetto della strumentazione urbanistica
previgente, necessita di apposita motivazione soltanto se le
classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche
aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultino
fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve
trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni
di affidamento, come quelle derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto.
---------------
Le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, sicché anche la
destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai
criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti
nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni; in sostanza le uniche evenienze,
che richiedono una più incisiva e singolare motivazione
degli strumenti urbanistici generali, sono date dal
superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato,
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione
in zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Consiglio
Stato sez. IV, 09.12.2010, n. 8682).
---------------
In disparte la
generica prospettazione delle censure (si pensi al
riferimento a consiglieri comunali e parenti, senza alcuna
specificazione di nomi o altro), va ricordato il principio
per cui in sede di previsioni di zona di piano regolatore,
la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con
riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi
urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere
discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano
riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è
neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili adiacenti (tra tante,
Consiglio Stato sez. IV, 21.04.2010, n. 2264) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza formatasi in materia (e riferita sia all’art.
15, comma 2, DPR 380/2001, sia al previgente art. 4 L.
10/1977) ha chiarito che all'istituto giuridico della
decadenza della concessione edilizia fanno eccezione i casi
di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza
maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla
legge, non riferibili alla condotta del titolare della
concessione e assolutamente ostative ai lavori.
L’intento legislativo sotteso a tale disposizione normativa
e valorizzato dalla costante interpretazione
giurisprudenziale è quello di circoscrivere le ipotesi di
proroga ai casi in cui insorgano fatti ostativi di rilevanza
oggettiva, slegati da responsabilità del titolare del titolo
concessorio o comunque non riconducibili a evenienze allo
stesso imputabili.
Va ulteriormente rilevato che le norme sulla proroga dei
termini previsti per la realizzazione di interventi soggetti
a permesso di costruire, di cui all'art. 15 del D.P.R. n.
380/2001, sono ritenute di stretta interpretazione,
rappresentando le stesse una deroga alla disciplina generale
dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata
nel vigore di un determinato regime urbanistico venga
realizzata quando il mutato regime non lo consente più.
Indicativa di tale ratio legis è anche la previsione
normativa, di cui al comma 4 dell’art. 15, D.P.R. n.
380/2001, secondo la quale il permesso di costruire decade
con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e
vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio dei lavori.
Ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001,
“il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i
termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso”.
La giurisprudenza formatasi in materia (e riferita sia
all’art. 15, comma 2, DPR 380/2001, sia al previgente art. 4
L. 10/1977) ha chiarito che all'istituto giuridico della
decadenza della concessione edilizia fanno eccezione i casi
di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza
maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla
legge, non riferibili alla condotta del titolare della
concessione e assolutamente ostative ai lavori (cfr., fra le
tante, TAR Napoli sez. II, 07.05.2007, n. 4788 e sez. IV, 29.04.2004; TAR Lazio sez. II, 15.04.2004, n.
3297; Cons. St. sez. V, 03.02.2000 n. 597).
L’intento legislativo sotteso a tale disposizione normativa
e valorizzato dalla costante interpretazione
giurisprudenziale è quello di circoscrivere le ipotesi di
proroga ai casi in cui insorgano fatti ostativi di rilevanza
oggettiva, slegati da responsabilità del titolare del titolo
concessorio o comunque non riconducibili a evenienze allo
stesso imputabili.
Va ulteriormente rilevato che le norme sulla proroga dei
termini previsti per la realizzazione di interventi soggetti
a permesso di costruire, di cui all'art. 15 del D.P.R. n.
380/2001, sono ritenute di stretta interpretazione,
rappresentando le stesse una deroga alla disciplina generale
dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata
nel vigore di un determinato regime urbanistico venga
realizzata quando il mutato regime non lo consente più (cfr.
TAR Marche sez. I, 20.04.2010, n. 193).
Indicativa di tale ratio legis è anche la previsione
normativa, di cui al comma 4 dell’art. 15, D.P.R. n.
380/2001, secondo la quale il permesso di costruire decade
con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e
vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio dei lavori (TAR Veneto sez. II, 22.04.2011,
n. 671; TAR Napoli sez. II, 12.01.2011, n. 74).
Nel caso in esame, il giudizio civile radicato innanzi al
Tribunale di Torino non può configurarsi come fatto impeditivo rilevante ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R.
n. 380/2001, e ciò sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, la controversia è stata avviata dal titolare
del permesso e quindi, in termini puramente formali,
costituisce evenienza interamente riferibile alla sua
condotta e priva di rilievo oggettivo.
Andando poi a indagare le ragioni del contenzioso, si
osserva che lo stesso è sorto come impugnazione di una
delibera condominiale intervenuta in data 07.06.2006
(quindi in epoca successiva al rilascio del permesso di
costruire) con la quale alcuni condomini avevano negato il
nulla osta all'esecuzione dei lavori di rifacimento del
sottotetto.
Secondo quanto accertato dalla sentenza del giudice civile
n. 209/2009, la tipologia dei lavori in progetto avrebbe reso
necessaria l’approvazione preventiva degli stessi da parte
di tutti i condomini, in applicazione dell’art. 5 del
regolamento condominiale (il quale dispone che “per ogni
lavoro esterno ed interno che possa interessare l’estetica e
la struttura organica, od anche la solidità del fabbricato,
si dovrà ottenere l’approvazione preventiva dei
comproprietari”).
La clausola regolamentare è stata cioè intesa come dotata di
natura contrattuale, in quanto implicante limitazioni al
diritto del condomino anche relativamente al contenuto delle
facoltà dominicali sulle parti di sua esclusiva proprietà
(per una fattispecie analoga si veda Cass. Civ. sez. II, 21.05.1997, n. 4509).
È sulla base di tale previsione regolamentare che i
condomini riuniti nell’assemblea del 07.06.2006 hanno
ritenuto di negare il loro consenso all’esecuzione dei
lavori, ritenendo che gli stessi incidessero sulle parti
comuni del fabbricato.
Come detto, che tale autorizzazione preventiva fosse
necessaria è circostanza confermata dalla sentenza emessa
dal Giudice Civile, la quale ha fatto applicazione del
richiamato art. 5 del regolamento condominiale, correlando
tale disposizione alla natura e alla consistenza degli
interventi edilizi.
Alla luce di queste necessarie premesse, va ulteriormente
chiarito che un consenso unanime ai lavori da parte della
totalità dei condomini non è mai venuto in essere in epoca
antecedente alla richiesta del permesso di costruire.
Ne consegue che l’assenza della previa autorizzazione
condominiale ha costituito circostanza ostativa ai lavori,
integratasi in un momento antecedente al rilascio del
premesso di costruire.
In questo senso appare corretta la valutazione da parte del
Comune secondo cui le circostanze addotte dal ricorrente non
integrano “fatti sopravvenuti”, in quanto il fatto
ostativo (l’assenza della necessaria preventiva
autorizzazione condominiale) risale ad epoca antecedente al
rilascio del titolo edilizio
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.07.2013 n. 892 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.10.2013 |
ã |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Guida alle semplificazioni del decreto legge del Fare
(Dipartimento Funzione Pubblica, 15.10.2013). |
CONDOMINIO:
IL CONDOMINIO E LA PRIVACY (Garante per la protezione
dei dati personali,
vademecum 10.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
DICHIARAZIONE IN MERITO AL RISPETTO DEI CRITERI PREVISTI
IN TEMA DI RIUTILIZZO DI TERRE E ROCCE DA SCAVO DAL COMMA 1
DELL’ART. 41-bis DEL DECRETO LEGGE 21.06.2013, N. 69,
RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER IL RILANCIO DELL’ECONOMIA,
CONVERTITO CON MODIFICHE NELLA LEGGE N. 98 DEL 09.08.2013
(Regione Marche,
Nuova modulistica su terre e rocce da
scavo. Tale
modulistica debitamente compilata deve essere spedita prima
dell'operazione di movimentazione - 04.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Terre e rocce da scavo: le principali novità, la modulistica
e le FAQ di ARPA Toscana (27.09.2013 - link a
www.arpat.toscana.it):
●
il modulo
●
le FAQ
---------------
Ulteriori precisazioni a seguito richieste di chiarimento
sull'ambito di applicazione della disciplina semplificata di
cui all’art. 41-bis del D.L. 69/2013, introdotto dalla legge
di conversione n. 98/2013
(03.10.2013 - link a www.arpat.toscana.it). |
APPALTI: Acquisizioni
di lavori, servizi e forniture in economia (Regione
Piemonte, settembre 2013).
---------------
Il suddetto volume, realizzato dalla Regione Piemonte e
aggiornato al settembre 2013, contribuisce a risolvere i
dubbi interpretativi ed applicativi dovuti alla continua
evoluzione della normativa in materia. |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Disegno di legge di Stabilità 2014 - Previsto il
blocco del trattamento economico nel pubblico impiego
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 21.10.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
IL REGIME DI SOLIDARIETA’ NEGLI APPALTI (Fondazione
Studi Consulenti del Lavoro,
circolare 16.10.2013 n. 13). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
IL DECRETO DEL FARE PUNTO PER PUNTO (Fondazione
Studi Consulenti del Lavoro,
circolare
10.09.2013 n. 11). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
A. Muratori,
Terre e rocce di scavo: quando le semplificazioni... possono
complicare (Ambiente & Sviluppo n. 10/2013). |
APPALTI:
R. Cippitani,
Formalismi e verifica
delle offerte anomale (Urbanistica e appalti n.
8-9/2013 -
tratto da www.ipsoa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.M. 13.03.2013 – certificazione di crediti e
rilascio del DURC – primi chiarimenti (Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 21.10.2013 n. 40/2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 22.10.2013, "Norme
per la prevenzione e il trattamento del gioco d’azzardo
patologico" (L.R.
21.10.2013 n. 8). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2013, "Individuazione
degli interventi di irrilevante impatto sulla stabilità
idrogeologica dei suoli, ai sensi dell’articolo 44, comma 6,
lettera b), della l.r. 31/2008 e delle relative procedure.
Contestuali precisazioni sulla definizione di
“Trasformazione del Bosco” (art. 43 l.r. 31/2008) e sulla
definizione di “Mutamento di destinazione d’uso del suolo”
ai sensi dell’art. 4-quater, comma 5-bis della l.r. 31/2008"
(deliberazione
G.R. 11.10.2013 n. 773). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 17.10.2013 n. 244 "Specifiche tecniche delle
operazioni di scavo e ripristino per la posa di
infrastrutture digitali nelle infrastrutture stradali"
(Ministero dello Sviluppo Economico di concerto col
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 01.10.2013). |
ENTI
LOCALI:
G.U. 15.10.2013 n. 242 "Testo
del decreto-legge 14.08.2013, n. 93, coordinato con la legge
di conversione 15.10.2013, n. 119, recante:
«Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il
contrasto della violenza di genere, nonché in tema di
protezione civile e di commissariamento delle province»".
---------------
Per quanto di interesse per gli enti locali si legga:
●
Art. 12-bis - Disposizioni finanziarie per gli enti locali |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROGETTUALI: Nel
nostro ordinamento trova accoglimento il principio giuridico
secondo cui l’esternalizzazione delle attività sarebbe
consentito solo nel caso di constatata impossibilità o
inidoneità della struttura pubblica a svolgere una
determinata attività e che il ricorso alle prestazioni
intellettuali di soggetti estranei all’amministrazione può
essere ritenuto legittimo nei casi in cui si debbano
risolvere problemi specifici aventi carattere contingente e
speciale e difettando nell’apparato burocratico strutture
organizzative idonee e professionalità adeguate.
Tuttavia devesi condividere la corretta impostazione della
Procura attrice, che sottende all’odierno atto di citazione,
secondo cui tali ipotesi non devono porsi in contrasto con
il precetto normativo che impone di limitare il ricorso a
professionalità esterne solo a casi eccezionali e per
attività professionali che non possono essere effettuate dal
personale interno, limiti che nella prospettazione attorea
sono stati, invece, sostanzialmente elusi in tutti i casi
contrattuali contestati.
---------------
Risponde a principi di economicità e ragionevolezza la
vigenza, in via generale, dell'obbligo delle pubbliche
amministrazioni di far fronte alle ordinarie competenze
istituzionali con il migliore e il più produttivo impiego
delle risorse umane e professionali di cui esse dispongono,
rendendosi ammissibile il ricorso ad incarichi e consulenze
professionali esterne soltanto in presenza di specifiche
condizioni quali la straordinarietà e l'eccezionalità delle
esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di
personale idoneo, il carattere limitato nel tempo e
l'oggetto circoscritto dell'incarico e/o della consulenza.
Sostanzialmente, in materia di consulenze esterne o di
affidamento di incarichi all’esterno dell’amministrazione, è
stato ripetutamente affermato dal giudice contabile che la
P.A., in conformità del dettato costituzionale, deve
uniformare i propri comportamenti a criteri di legalità,
economicità, efficienza e imparzialità, dei quali è
corollario, per ius receptum, il principio per cui essa,
nell'assolvimento dei compiti istituzionali, deve avvalersi
prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del
personale che vi è preposto.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte si è più
volte pronunciata indicando i parametri entro i quali tali
rapporti e le correlative spese sono da ritenersi lecite e
ha ritenuto per lo più antigiuridico e produttivo di danno
erariale -giova ribadire- certamente il conferimento di
incarichi per attività alle quali si può far fronte con
personale interno dell'ente e, a maggior ragione, per
attività estranee ai suoi fini istituzionali, ovvero troppo
onerose in rapporto alle disponibilità di bilancio.
Di converso, in casi particolari e contingenti, è stata
ammessa la legittimazione della P.A. ad affidare il
perseguimento di determinate finalità all'opera di estranei,
purché dotati di provata capacità professionale e specifica
conoscenza tecnica della materia di cui vengono chiamati ad
occuparsi, ogni volta che si verifichino:
a) la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da
soddisfare;
b) la mancanza di strutture e di apparati preordinati al
loro soddisfacimento, ovvero, pur in presenza di detta
organizzazione, la carenza, in relazione all'eccezionalità
delle finalità, del personale addetto, sia sotto l'aspetto
qualitativo che quantitativo.
Tali parametri, se da un lato attestano che nell'ordinamento
non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere ad
esternalizzazioni per l'assolvimento di determinati compiti,
dall'altro, tuttavia, confermano che la utilizzazione del
modulo negoziale non può concretizzarsi se non nel rispetto
delle condizioni e dei limiti sopra specificati.
---------------
Gli illegittimi affidamenti di c.d. “supporto” (all'attività
interna istituzionale), se non effettivamente necessitati da
specifiche e contingenti esigenze, realizzano degli
squilibri di competenze interne all’apparato amministrativo,
dirigenziali e non, e una inevitabile diseconomicità, atteso
che l’attività e le competenze proprie della dirigenza
interna, per realizzare una “buona amministrazione”, devono
vertere in maniera significativa sulla capacità
organizzativa e gestionale delle strutture amministrative e
della forza lavoro assegnate alle relative strutture.
La vicenda all’esame attiene, come esposto in narrativa, ad
una ipotesi di responsabilità amministrativa per il danno
erariale conseguito all’ANAS a seguito di pagamenti relativi
a contratti di acquisizioni di servizi e conferimento di
incarichi e consulenze con soggetti esterni per attività
rientranti nelle funzioni ricoperte in seno al medesimo
Ente.
...
Al riguardo si rileva che la fattispecie di danno erariale
portata all'esame della Sezione involge in via generale,
come desumibile da quanto esposto in narrativa, la
problematica sottesa al conferimento di incarichi a
personale esterno e, in particolare, le modalità di pratica
attuazione di tali scelte operative, non improntate, in
sostanza, al perseguimento degli obiettivi di economicità ed
efficienza, e anzi rivelatesi produttive di un danno
concreto a carico dell'Amministrazione, oltre che in
violazione della disciplina anche comunitaria vigente in
materia.
Dalla contestazione mossa ai convenuti emerge innanzitutto
la violazione del principio costituzionale di buon andamento
dell'attività della P.A. e nello specifico, l’aver stipulato
l’ANAS, nelle persone in alcuni casi del suo vertice e, in
altri, di alti dirigenti, una serie di contratti, con
soggetti estranei all’amministrazione, per l’espletamento di
attività, che, peraltro, potevano e dovevano essere svolte
da personale dipendente dell’azienda medesima.
Vero è che nel nostro ordinamento trova accoglimento il
principio giuridico secondo cui l’esternalizzazione delle
attività sarebbe consentito solo nel caso di constatata
impossibilità o inidoneità della struttura pubblica a
svolgere una determinata attività e che il ricorso alle
prestazioni intellettuali di soggetti estranei
all’amministrazione può essere ritenuto legittimo nei casi
in cui si debbano risolvere problemi specifici aventi
carattere contingente e speciale e difettando nell’apparato
burocratico strutture organizzative idonee e professionalità
adeguate. Tuttavia devesi condividere la corretta
impostazione della Procura attrice, che sottende all’odierno
atto di citazione, secondo cui tali ipotesi non devono porsi
in contrasto con il precetto normativo che impone di
limitare il ricorso a professionalità esterne solo a casi
eccezionali e per attività professionali che non possono
essere effettuate dal personale interno, limiti che nella
prospettazione attorea sono stati, invece, sostanzialmente
elusi in tutti i casi contrattuali contestati.
Pertanto, ai fini della definizione della domanda di
responsabilità per le vicende contrattuali dedotte in
giudizio e delle diverse posizioni delle parti, il Collegio,
in primo luogo, ribadisce la piena adesione alla
giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, di questa
Sezione, che già in precedenti giudizi (ricordati anche da
parte attrice) si è pronunciata in maniera del tutto analoga
alla ormai costante giurisprudenza, che si richiama
interamente in motivazione anche nel caso all’esame (cfr.,
tra tutte, Sez. giur. Lazio 14.12.2009, n. 1922 e 03.08.2010, n. 1598).
Risponde a principi di economicità e ragionevolezza la
vigenza, in via generale, dell'obbligo delle pubbliche
amministrazioni di far fronte alle ordinarie competenze
istituzionali con il migliore e il più produttivo impiego
delle risorse umane e professionali di cui esse dispongono,
rendendosi ammissibile il ricorso ad incarichi e consulenze
professionali esterne soltanto in presenza di specifiche
condizioni quali la straordinarietà e l'eccezionalità delle
esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di
personale idoneo, il carattere limitato nel tempo e
l'oggetto circoscritto dell'incarico e/o della consulenza.
Sostanzialmente, in materia di consulenze esterne o di
affidamento di incarichi all’esterno dell’amministrazione, è
stato ripetutamente affermato dal giudice contabile che la
P.A., in conformità del dettato costituzionale, deve
uniformare i propri comportamenti a criteri di legalità,
economicità, efficienza e imparzialità, dei quali è
corollario, per ius receptum, il principio per cui essa,
nell'assolvimento dei compiti istituzionali, deve avvalersi
prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del
personale che vi è preposto.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte si è più
volte pronunciata indicando i parametri entro i quali tali
rapporti e le correlative spese sono da ritenersi lecite e
ha ritenuto per lo più antigiuridico e produttivo di danno
erariale -giova ribadire- certamente il conferimento di
incarichi per attività alle quali si può far fronte con
personale interno dell'ente e, a maggior ragione, per
attività estranee ai suoi fini istituzionali, ovvero troppo
onerose in rapporto alle disponibilità di bilancio.
Di
converso, in casi particolari e contingenti, è stata ammessa
la legittimazione della P.A. ad affidare il perseguimento di
determinate finalità all'opera di estranei, purché dotati di
provata capacità professionale e specifica conoscenza
tecnica della materia di cui vengono chiamati ad occuparsi,
ogni volta che si verifichino:
a) la straordinarietà e
l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare;
b) la mancanza
di strutture e di apparati preordinati al loro
soddisfacimento, ovvero, pur in presenza di detta
organizzazione, la carenza, in relazione all'eccezionalità
delle finalità, del personale addetto, sia sotto l'aspetto
qualitativo che quantitativo.
Tali parametri, se da un lato
attestano che nell'ordinamento non sussiste un generale
divieto per la P.A. di ricorrere ad esternalizzazioni per
l'assolvimento di determinati compiti, dall'altro, tuttavia,
confermano che la utilizzazione del modulo negoziale non può
concretizzarsi se non nel rispetto delle condizioni e dei
limiti sopra specificati.
---------------
Anche per
tutti i suddetti incarichi descritti al sopracitato punto 3
la domanda attorea si appalesa fondata in quanto risulta per tabulas che trattasi di fattispecie contrattuali poste in
essere senza procedure comparative con altri potenziali
contraenti e in assenza di qualsiasi indicazione circa la
necessità di specifiche competenze professionali e,
comunque, di verifica sulla presenza di figure professionali
interne e in servizio idonee allo svolgimento degli
incarichi esternalizzati; in disparte la considerazione che,
stando all’oggetto degli incarichi, hanno riguardato
attività riservate all’apparato amministrativo e sono
consistite in un generico c.d. “supporto
tecnico-specialistico”, che, in diversi casi e per gran
parte, non si è tradotto nella produzione di lavori e/o
documentazione a corredo dell’attività svolta, precludendo,
peraltro, il ragionevole riscontro sul relativo adempimento
contrattuale.
In realtà, in qualche caso (come per la fattispecie
contrattuale di cui alla sopracitata lett. a) del punto 3,
alla luce dei reports prodotti, si è trattato di
elaborazione di meri dati statistici e di competenze proprie
del personale dirigente ANAS (quale appunto l’organizzazione
e ottimizzazione delle risorse, umane e materiali) e,
comunque, di attività riservate all’apparato amministrativo.
Al riguardo il Collegio condivide la richiamata
giurisprudenza (Sez. giur. Trentino Alto Adige n. 8/2010) in
base alla quale devesi ritenere che gli illegittimi
affidamenti di c.d. “supporto”, quali quelli di specie, se
non effettivamente necessitati da specifiche e contingenti
esigenze, realizzino, viceversa, degli squilibri di
competenze interne all’apparato amministrativo, dirigenziali
e non, e una inevitabile diseconomicità, atteso che
l’attività e le competenze proprie della dirigenza interna,
per realizzare una “buona amministrazione”, devono vertere
in maniera significativa sulla capacità organizzativa e
gestionale delle strutture amministrative e della forza
lavoro assegnate alle relative strutture.
Analoghe
argomentazioni valgono del resto anche per tutti gli altri
incarichi e, segnatamente, per quelli di cui alle lett. e)
ed f) del punto 3, atteso che rientrano appieno nella sfera
dirigenziale l’organizzazione e l’ottimizzazione delle
risorse, umane e materiali in cui in sostanza consistono.
Valgono per tutte le relative fattispecie, anche le
considerazioni generali e le rilevate violazioni circa
l’attività di fatto scarsamente tecnica commissionata, circa
l’assenza di proporzionalità economica dei compensi e la
liquidazione forfettaria sindacata dalla giurisprudenza già
citata intervenuta in casi del tutto analoghi (Sez. giur.
Lazio n. 1598/2010 e Sez. I Centrale d’Appello n. 145/2009).
Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, i contratti
indicati alle lett. c) e d) del punto 3, aventi ad oggetto
attività connesse ai compiti ex d.lgs. n. 231/2001, in
condivisione con l’assunto attoreo, si appalesa altresì
inidonea a supportare la scelta la motivazione dei
conferimenti basata sulla generica affermazione dell’ANAS di
“non disporre di risorse interne atte a garantire in tempi
rapidi l’identificazione dei processi/aree aziendali a
rischio” o, comunque, di ricorrere agli Organismi già
istituiti. Infatti, a riprova della ritenuta responsabilità
dei convenuti, occorre evidenziare, oltre alle contestazioni
già formulate, anche il fatto che in tali casi esisteva un
Organismo interno e, cioè, un apposito Auditing che era
stato già costituito, dopo la istituzione di un apposito
Gruppo di lavoro, nonché l’Organismo di Vigilanza composto
da professionisti esterni e supportato da apposito staff,
formato da diversi avvocati e dall’Auditing interno
aziendale (tutte attività adeguatamente remunerate, come si
evince dalle note nn. 317, 318, 319 e 320 del 06.10.2003
del Presidente ANAS).
A conferma del suddetto convincimento giova anche richiamare
le premesse dell’Ordine di Servizio n. 01 del 02.02.2004 (adottato, prima del conferimento degli incarichi in
questione dal Direttore Generale Sabato per la istituzione
un apposito Gruppo di lavoro che “…provveda a completare il
sistema di procedure in attuazione del d.lgs. 231/2001”), nel
quale si legge testualmente che “….l’Auditing Interno, con
la istituzione dell’Organismo di Vigilanza, ne è divenuto
operativamente Ufficio strumentale e che deve quindi
svolgere le conseguenti complesse funzioni di verifica sul
corretto rispetto delle procedure attualmente vigenti”.
Si rileva, infine, che le attività affidate rientrano
appieno tra i compiti che l’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001
affidati direttamente all’Organo dirigente dell’Ente e
all’Organismo di Vigilanza e Controllo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 14.10.2013
n. 683). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Non c'e' danno erariale se l'Ente acquista un dono con
finalità di rappresentanza.
Secondo la Corte dei Conti del Lazio,
che affronta la delicata questione delle spese di
rappresentanza sostenute in ambito pubblico, gli acquisti
volte ad accrescere il prestigio dell'ente pubblico,
dandogli lustro nel contesto sociale in cui opera, sono
legittimi.
Le spese finalizzate a soddisfare la funzione
rappresentativa esterna dell'ente pubblico, allo scopo di
accrescere il prestigio dell'immagine dello stesso e darvi
lustro nel contesto sociale in cui opera, sono legittime, in
quanto rientrano in quelle di rappresentanza. In caso
contrario si configura responsabilità erariale del Dirigente
che ha disposto la spesa e del collegio sindacale che non vi
si oppone.
La vicenda
In occasione della partecipazione di rappresentanti di un
Ospedale ad un’udienza generale del Papa tenutasi in
Vaticano, venivano donate al Pontefice tre vetrate
artistiche con telaio in legno, del costo di circa € 26.000.
Il P.M. contabile evocava in giudizio:
- il Direttore sanitario, il Direttore amministrativo ed il
Direttore generale dell’Azienda Sanitaria, i quali avevano
emesso la delibera con la quale era stato autorizzato
l’ufficio competente a pagare ad un artigiano la somma per
la realizzazione delle vetrate;
- i membri del collegio sindacale, in quanto pur avendo
visionato la delibera non avevano sollevato alcuna obiezione
al riguardo.
In particolare la Procura sosteneva che detta delibera era
illegittima poiché non era stata effettuata alcuna procedura
per la scelta dell’esecutore dell’opera, con la quale,
inoltre, non era stato stipulato alcun contratto formale e
si era ottenuto solo un preventivo orale.
Allo stesso tempo la struttura ospedaliera, precedentemente
all’emanazione dell’atto relativo al pagamento, non aveva
emesso alcun provvedimento concernente sia l’utilità di
donare al Papa l’opera, sia l’opportunità di procedere alla
sua costruzione.
Dunque i primi tre soggetti sarebbero responsabili a titolo
di dolo, mentre i sindaci a titolo di colpa grave.
Si chiedeva pertanto la condanna degli stessi alla
restituzione della somma spesa per le opere suindicate.
I convenuti si costituivano eccependo innanzitutto che la
trattativa privata nella scelta dell’artigiano era
consentita dall’art. 57 D.Lgs. 163/2006.
Inoltre le tre vetrate artistiche, essendo copie di quelle
già esistenti nella cappella dell’Ospedale, erano state
commissionate allo stesso soggetto che aveva realizzato
quelle originali.
Per quanto concerne l’inutilità della spesa contestata dalla
Procura, i convenuti rilevavano come la stessa fosse stata
imputata al capitolo di bilancio relativo alle spese di
rappresentanza in occasione della visita al Vaticano per
partecipare all’udienza del Pontefice; pertanto il dono a
quest’ultimo trovava ragion d’essere nel collegamento ai
rapporti tra sanità pubblica ed organismi religiosi, segno
tangibile di riconoscenza verso enti religiosi,
congregazioni di suore e sacerdoti che forniscono assistenza
volontaria e gratuita alle aziende sanitarie. Inoltre i
membri del collegio sindacale eccepivano di non aver mai
preso visione della delibera e pertanto non ci sarebbe stato
un omesso controllo.
La decisione
La Corte dei Conti ha rigettato la richiesta di condanna dei
convenuti, assolvendoli.
In particolare i Giudici, confermando quanto dedotto dalle
difese, hanno ritenuto che si trattasse di spesa di
rappresentanza, caratterizzata all’esigenza dell’Ospedale,
in rapporto ai propri fini istituzionali, di intrattenere
pubbliche relazioni con soggetti estranei, allo scopo di
mantenere o di accrescere il proprio prestigio all’esterno.
Tali spese sono legittime altresì nel caso in cui siano
destinate a “soddisfare la funzione rappresentativa
esterna dell’ente pubblico allo scopo di accrescere il
prestigio dell’immagine dello stesso e darvi lustro nel
contesto sociale in cui opera”.
Conclusioni
La questione delle spese di rappresentanza è stata oggetto
di molte pronunce della Corte dei Conti.
Dette spese sono finalizzate, per natura, a rapporti con
soggetti esterni all'ente che le dispone; quindi devono
avere una qualche proiezione esterna atta a migliorare le
pubbliche relazioni concernenti l'ente stesso, come nel caso
della sentenza sopra riportata.
Si ricorda ad esempio che non rientrano in tale categoria:
- le spese disposte dal presidente del Consiglio regionale
per donativi natalizi ai membri del Consiglio e al personale
(sentenza n. 417/11);
- gli omaggi d'inizio anno effettuati da un ente in favore
di propri amministratori e componenti di organi di controllo
(sentenza n. 106/02);
- spese per l’invio in missione della squadra di calcio del
corpo dei vigili urbani per la partecipazione ad un torneo
(sentenza n. 118/98) (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 03.10.2013 n. 661). |
ENTI LOCALI: Pre-dissesto, procedura rigida.
No alla revoca, spirati i termini del piano di riequilibrio.
Deliberazione della Corte dei conti
chiarisce dubbi sollevati dalle sezioni regionali.
Gli enti locali non possono revocare la deliberazione di
ricorso alla procedura di «pre-dissesto» una volta scaduto
il termine perentorio di 60 giorni per la presentazione del
piano di riequilibrio finanziario pluriennale.
L'approvazione di quest'ultimo deve obbligatoriamente essere
preceduta dal varo del bilancio annuale di previsione e del
rendiconto nei termini di legge.
Sono questi i due principali chiarimenti forniti dalla
sezione delle autonomie della Corte dei conti nella
deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, pubblicata ieri e adottata per
sciogliere i dubbi sollevati da alcune sezioni regionali di
controllo sulla corretta interpretazione dei nuovi artt.
243-bis, 243-ter e 243-quater del Tuel.
Come noto, tali disposizioni sono state introdotte dal dl
174/2012 per fornire un'ultima ancora di salvezza agli enti
locali che presentano gravi squilibri strutturali di
bilancio, prima dell'apertura del dissesto.
Per accedere alla procedura (che può contare anche su un
fondo statale in grado di erogare anticipazioni di liquidità
per tamponare i buchi di cassa), le province e i comuni
interessati devono adottare un'apposita deliberazione
consiliare, che, entro cinque giorni dalla data di
esecutività, va trasmessa alla competente sezione regionale
di controllo della Corte dei conti e al ministero
dell'interno.
Tale iniziativa ha un duplice effetto sospensivo: da un
lato, essa preclude l'avvio del procedimento per la
dichiarazione esterna di dissesto ai sensi dell'art. 6,
comma 2, del dlgs 149/2011, congelando la possibilità per la
magistratura contabile di fissare il termine per l'adozione
delle misure correttive; dall'altro, sospende le procedure
esecutive già intraprese nei confronti degli enti
richiedenti.
Nel termine perentorio di 60 giorni dall'esecutività della
precedente deliberazione di adesione alla procedura, il
consiglio degli enti che ambiscono al pre-dissesto deve
adottare formalmente un piano di riequilibrio finanziario
pluriennale contenente le misure di risanamento.
La giurisprudenza contabile aveva già precisato che entro lo
stesso termine può essere esercitata anche la facoltà di
revocare l'istanza di ricorso alla procedura. Ciò che non è
consentito, chiarisce ora la sezione autonomie, è procedere
alla revoca dopo la scadenza dei 60 giorni: in tal caso,
infatti, scatta automaticamente il cosiddetto «dissesto
guidato», con l'assegnazione al consiglio dell'ente, da
parte del prefetto, di un termine non superiore a 20 giorni
per deliberare il default.
L'altro chiarimento riguarda, invece, la fase precedente di
presentazione dell'istanza: essa non solo non sospende i
termini di legge per l'approvazione dei documenti contabili
(come accade, invece, per il dissesto vero e proprio), ma
deve essere preceduta dall'approvazione del bilancio di
previsione per l'anno corrente e dell'ultimo rendiconto.
Tali adempimenti, precisa la pronuncia in commento, pur non
costituendo condizioni legali di ammissibilità del piano,
rappresentano «essenziali e imprescindibili elementi
istruttori» destinati alla commissione ministeriale che deve
esaminarlo in prima battuta. La loro mancanza, quindi,
«costituisce oggettivo elemento di perplessità» in grado di
condizionare la decisione della sezione regionale di
controllo, cui spetta l'ultima parola sull'approvazione o
sul diniego del pre-dissesto
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2013). |
ENTI
LOCALI: Il ritardo nel riequilibrio porta l'ente al dissesto.
Corte dei conti. La procedura
«anti-default».
La mancata presentazione del piano di riequilibrio entro 60
giorni dalla pubblicazione della delibera con cui il Comune
o la Provincia decidono di aderire alla procedura
«anti-dissesto» blocca tutto l'iter, e impone alle sezioni
regionali di controllo di aprire la strada che porta al
dissesto guidato. L'approvazione del rendiconto e del
bilancio di previsione, poi, sono condizioni essenziali per
aderire alla procedura, perché senza gli ultimi documenti
contabili è impossibile valutare l'entità degli squilibri da
sanare e, di conseguenza, le misure da mettere in campo per
riportare i conti dell'ente in una condizione di equilibrio
strutturale.
Con la
deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, la sezione Autonomie
della Corte dei conti risponde a una serie di dubbi
interpretativi sollevati da diverse sezioni regionali sulle
tappe della procedura introdotta dal decreto «salva-enti»
(Dl 174/2012) per venire in soccorso delle amministrazioni
locali a rischio "fallimento".
Nelle loro risposte, i
giudici della sezione Autonomie ribadiscono come regola
generale il rispetto rigoroso di tempi e requisiti, per
sottrarre la sorte degli enti locali interessati alle
differenze interpretative sorte sul territorio. Un «diverso
apprezzamento» su casi particolari è sempre possibile, ma
non può aprire le maglie di un iter che il legislatore ha
definito nei dettagli: quando i requisiti non sono
rispettati, l'alternativa consiste solo nell'applicazione
del decreto legislativo su «premi e sanzioni» (Dlgs
149/2011, articolo 7), che impone lo scioglimento di Giunta
e Consiglio
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
ENTI LOCALI: Il tirocinio formativo è spesa di personale.
Corte conti Emilia Romagna. Il
limite del 50% del 2009.
I tirocini formativi sono spesa di personale e devono
rientrare tra le tipologie lavorative da contenere nel
limite del 50% dell'anno 2009.
La conclusione giunge dalla
Corte dei conti dell'Emilia Romagna che, con il
parere
02.10.2013 n. 268, risponde ad un sindaco che intende
attivare tirocini formativi, mediante convenzioni con
l'amministrazione provinciale.
Due sono le questioni principali. Innanzitutto, i giudici
contabili sono chiamati a esprimersi sulla nozione di "spesa
di personale" specificando, tra l'altro, se in tale
aggregato vanno ricomprese le spese per praticantati e/o
apprendistati.
A tale proposito è inevitabile il riferimento
all'articolo 36 del Dlgs 165/2001, che prevede, al secondo
comma, che le amministrazioni pubbliche possono avvalersi,
per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale, delle forme di lavoro flessibile. Tra queste
sono esplicitamente richiamati gli "altri rapporti
formativi". A parere della Corte dei conti, tale locuzione
porta a una interpretazione che non può che essere ampia,
ricomprendendo al suo interno qualunque forma di rapporto
con intento formativo. Se la fattispecie è rapportata
all'articolo 36, difficilmente si può sostenere che tale
spesa non ricada tra i costi del personale; di conseguenza
va conteggiata sia per la riduzione in valore assoluto
(rispetto all'anno precedente per gli enti soggetti a patto)
sia per determinare il rapporto tra spese di personale e
spese correnti.
Il secondo aspetto preso in esame riguarda, invece, il
contenimento delle forme di lavoro flessibile nel limite del
50% di quanto speso nell'anno 2009, come previsto
dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010. Tale norma
utilizza, ancora una volta, il termine "rapporti formativi"
e, pertanto, la conclusione dei giudici contabili è
inevitabile. Il tirocinio formativo, pur non costituendo un
rapporto di lavoro in senso proprio, instaura un rapporto
tra amministrazione e soggetto dal quale derivano specifici
obblighi e diritti. In questo modo si instaura una relazione
che può considerarsi rientrante nel concetto di rapporto
formativo in senso ampio.
Va però ricordato che la Corte Costituzionale, con la
sentenza 173/2012, ha precisato che ciascun ente locale può
determinare se e quanto ridurre la spesa relativa a ogni
singola tipologia contrattuale, ferma restando la necessità
di osservare il limite della riduzione del 50 per cento
della spesa complessiva rispetto a quella che è stata
sostenuta nel 2009
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.10.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Consiglieri e basta. Politici fuori dai controlli interni.
È quanto afferma la Corte dei conti
della Liguria.
È inammissibile la partecipazione dei consiglieri comunali
al sistema dei controlli interni disciplinato dall'articolo
147 del Tuel. E ciò per due motivi. Innanzitutto,
l'elencazione dei soggetti coinvolti in tale sistema, che
include le figure organizzative di maggior livello di
responsabilità presenti negli enti locali, è da intendersi
rigorosamente tassativa. Inoltre, essendo i controlli
interni l'esplicazione di un'attività amministrativa, il
loro esercizio è precluso agli organi di natura politica,
quali sono i consiglieri comunali.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Regione Liguria nel
testo del
parere
10.05.2013 n. 35, con cui ha fatto chiarezza su
un particolare aspetto in merito alla disciplina dei
controlli interni novellata dal recente intervento
legislativo operato con il «Salva Enti» (art. 3 del dl n.
174/2012).
Nel parere in esame, il sindaco del comune di Cervo (Im),
chiedeva l'intervento della Corte in funzione consultiva per
sapere se fosse legittima la modifica del regolamento
comunale, nel prevedere che al sistema dei controlli
interni, al segretario dell'ente, ai responsabili dei
servizi e alle unità organizzative, potessero affiancarsi
anche i componenti del consiglio comunale. Nel merito, la
Corte ligure ha osservato che la lettura dell'art. 147 Tuel,
nel testo della sua nuova formulazione, individua
distintamente i soggetti coinvolti e che i successivi
articoli definiscono chiaramente il ruolo di ciascuno di
tali soggetti «non lasciando spazio all'inserimento di
ulteriori figure con specifiche competenze».
Ne consegue che
l'elencazione normativa dei soggetti che partecipano al
sistema dei controlli interni è da considerarsi tassativa,
ferma restando l'autonomia normativa e organizzativa di
ciascun ente. Inoltre, depone a favore dell'inammissibilità
della partecipazione dei consiglieri comunali a tale sistema
un'ulteriore considerazione. In pratica, i controlli interni
ex art. 147 Tuel appartengono alla categoria dei controlli
amministrativi delle pubbliche amministrazioni. In tale
categoria sono ricomprese tutte le varie forme di controllo
che hanno a oggetto atti o attività poste in essere da
organi o uffici amministrativi di un ente.
Pertanto, ammette
la Corte, posto che si tratta di attività amministrativa,
anche se strumentale rispetto a quella «attiva», il suo
esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali
sono i componenti del consiglio comunale. Questi ultimi,
piuttosto, figurano tra i soggetti referenti e beneficiari
delle risultanze dell'attività di controllo espletate
all'interno dell'apparato amministrativo e, qualora lo
ritengano opportuno, possono utilizzare altri strumenti
giuridici (su tutti, il deposito di interrogazioni e il
diritto di accesso garantito dall'art. 43 Tuel) per
garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze
informative connesse all'adempimento del loro ufficio
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013). |
QUESITI & PARERI |
URBANISTICA:
In che termini decadono le previsioni relative alla
necessità di espropriare determinate aree?
Le aree necessarie alla realizzazione di opere per la
viabilità sono destinate ad essere acquisite mediante
espropriazione.
Il vincolo preordinato all'esproprio per pubblica utilità
può derivare dall'approvazione di variante agli strumenti
urbanistici comunali.
Le relative previsioni di P.R.G.C. rientrano fra quei
vincoli destinati a decadere ai sensi dell'art. 2 della L.
19.11.1968, n. 1187 (ora art. 9 D.P.R. 08.06.2001, n. 327 -
T.U. Espropriazione per pubblica utilità), qualora non siano
stati attuati entro cinque anni dalla data di approvazione
del piano regolatore generale gli strumenti urbanistici
esecutivi e qualora non siano vincoli di natura conformativa.
Hanno natura conformativa, ad esempio le destinazioni a
"parco urbano", "verde pubblico", "verde urbano" o "verde
attrezzato", posto che, usualmente, tale destinazione non
impedisce ogni possibilità di utilizzazione dei terreni da
parte dei proprietari (Cons. Stato Sez. IV, 29.11.2012, n.
6094).
La reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti non è di
per sé illegittima e può considerarsi correttamente disposta
qualora sia corredata da una congrua e specifica motivazione
circa l'attualità della previsione vincolistica, sia
preceduta da una rinnovata ed adeguata comparazione fra i
diversi interessi pubblici e privati coinvolti e presenti
una esaustiva giustificazione circa le scelte urbanistiche
di piano.
Sono vincoli espropriativi e, come tali, soggetti a
decadenza i vincoli incidenti su beni determinati, in
funzione non già di una generale destinazione di zona, ma
della localizzazione di un'opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata
(TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.07.2011, n. 1456).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 08.06.2001, n. 327
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Toscana Firenze Sez. I, 22.01.2013, n. 85 -
Cons. Stato Sez. IV, 29.11.2012, n. 6094 -
TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 16.06.2012, n. 421 -
TAR Piemonte Torino Sez. II, 09.05.2012, n. 512 -
TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.07.2011, n. 1456 (18.10.2013 - tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica.
Domanda
L'Amministrazione statale ha l'obbligo di comunicare al
privato interessato l'avvio del procedimento ministeriale di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione sesta, con la sentenza del 14.08.2012, numero 4562, aveva sentenziato che sussiste
l'obbligo in capo all'Amministrazione statale della
comunicazione al privato interessato dell'avvio del
procedimento ministeriale di annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica. I giudici amministrativi,
per la fattispecie al loro esame, hanno applicato la
normativa di cui al decreto ministeriale 13.06.1994,
numero 495, cioè il Regolamento concernente disposizioni di
attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 07.08.1990,
numero 24, riguardanti i termini e i responsabili dei
procedimenti.
Con successivo decreto ministeriale 19.06.2002, numero
165 (Regolamento di modifica del decreto ministeriale 13.06.1994, numero 495), il legislatore ha previsto che «la
comunicazione prevista dal comma 1 non è dovuta per i
procedimenti avviati ad istanza di parte, ed in particolare,
per quelli disciplinati dagli articoli 21, 22, 23, 24, 25,
26, 34, 41, 43, 50, 51, 53, 55, 56, 59, 66, 68, 69, 72, 86,
102, 107, 108, 109, 113, 114, 151, 154, 157 del decreto
legislativo 29.10.1999, n .490, anche quando l'istanza
è stata previamente valutata da una diversa Amministrazione,
in applicazione di norme di legge o di regolamento. È
comunque fatta salva la possibilità per l'istante di
presentare memorie o documenti».
Il Consiglio di Stato, però, con altre sentenza aveva
sottolineato come la conoscenza da parte dell'interessato
dell'avvio del procedimento statale, avvenuta in altri modi,
potesse legittimare una limitazione all'obbligo rigoroso di
comunicazione dell'avvio del procedimento statale (sentenza
numero 685, del 13.02.2001; 29.01.2003, numero 2983, numero
408, del 2008)
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Telefonia
mobile.
Domanda
Il contributo per i diritti di installazione di strutture su
proprietà pubbliche o private deve esse corrisposto dagli
operatori non proprietari di tali strutture che utilizzino
le stesse per prestare servizi di telefonia mobile?
Risposta
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione
quarta, con la sentenza del 12.07.2012 (cause riunite
C-55/11, C57/11; C58/11) – Vodafone España SA, ha
interpretato l'articolo 13 della direttiva 2002/20/Ce nel
senso che non si applica il contributo per i diritti di
installazione di strutture su proprietà pubbliche o private,
al di sopra o sotto di esse, agli operatori non proprietari
di tali strutture che utilizzino le stesse per prestare
servizi di telefonia mobile.
Detta normativa, per i giudici europei, ha un'efficacia
diretta atteso che essa attribuisce ai singoli il diritto di
avvalersene dinnanzi al giudice nazionale, anche per
chiedere la disapplicazione dei provvedimenti nazionali che
vengono ad assoggettare a contributo diritti non ricompresi
in detta normativa. Pertanto, ai legislatori nazionali o
locali viene vietata la facoltà di imporre oneri fiscali
contributivi agli operatori che non siano proprietari delle
strutture per il solo fatto che le utilizzano per prestare
servizi di comunicazione elettronica, quali quelli di
telefonia mobile.
Infatti, le frequenze, alla luce di tale principio, sono un
bene di proprietà pubblica, per cui, alla luce di detta
configurazione giuridica, deve esser meglio garantita
l'utilizzazione ottimale dello spettro radio. Ciò comporta
che deve essere garantita al meglio l'utilizzazione e
distribuzione di servizi sulle stesse frequenze, nel
rispetto dei limiti degli standard di compatibilità con il
divieto delle interferenze dannose.
Nel caso, è da sottolineare che, pure a distanza di tempo, i
principi internazionali relativi alle frequenze radio sono
ancora oggi attuali e devono essere rispettati in tutto il
mondo per una corretta ripartizione delle frequenze e delle
loro allocazioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistema
fognario e depurazione.
Domanda
Le piogge eccezionali hanno mandato in tilt il depuratore
del Comune nel cui settore lavoro. Detta situazione
eccezionale può essere sanzionata a livello di Unione
europea?
Risposta
La direttiva 91/271/Cee all'articolo 10, prevede, che gli
«Stati membri provvedono affinché la progettazione, la
costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di
trattamento delle acque reflue urbane realizzati per
ottemperare ai requisiti fissati agli articoli da 4 a 7
siano condotte in modo ad garantire prestazioni sufficienti
nelle normali condizioni climatiche locali. La progettazione
degli impianti deve tenere conto delle variazioni stagionali
di carico».
La nota 1 a piè di pagina dell'Allegato 1 di detta direttiva
91/271/Cee, riferita al titolo «Reti fognarie», aggiunge: «Poiché non è possibile costruire reti fognarie e impianti di
trattamento in modo che tutte le acque reflue possano venire
trattate in situazioni come quelle determinate da piogge
singolarmente abbondanti, gli Stati membri decidono le
misure per contenere l'inquinamento da tracimazioni dovute a
piogge violente. Tali provvedimenti possono essere basati
sui tassi di diluizione o sulla capacità rispetto alla
portata di tempo asciutto o possono specificare un numero
accettabile di tracimazioni all'anno».
Con detta direttiva l'Unione europea non solo vuole
raggiungere l'obiettivo di proteggere gli ecosistemi
acquatici, ma vuole anche la preservazione dell'uomo, della
fauna, della flora, del suolo, delle risorse idriche,
dell'aria e del paesaggio da qualsiasi incidenza negativa
connessa alla proliferazione delle alghe e di forme
superiori di vita vegetale cagionata dagli scarichi di acque
reflue urbane.
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. I, con la
sentenza del 19.10.2012 (causa C-301/10), benché la predetta
direttiva prenda in considerazione ipotesi di incapacità di
trattamento di tutte le acque reflue in situazione come
quelle determinate da piogge abbondanti, rimettendo agli
Stati membri le misure per contenere l'inquinamento da
tracimazioni dovute a piogge violente, ha affermato che i
casi di incapacità di trattamento delle acque reflue, in
situazioni come quelle determinate da piogge abbondanti,
devono essere interpretati quali ipotesi eccezionali.
Infatti gli Stati membri, alla luce di detta direttiva
devono, per i giudici, assicurare «prestazioni
sufficienti» per trattare le piogge eccezionalmente
abbondanti in base alle «tecniche migliori che non
comportino costi eccessivi»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
AMBIENTE-ECoLOGIA: Piano
di tutela delle acque.
Domanda
Gradirei avere notizie sul piano di tutela delle acque.
Risposta
L'articolo 121 del decreto legislativo
03.04.2006, n.
121, dispone che il «Piano di tutela acque costituisce uno
specifico piano di settore ed è articolato secondo i
contenuti elencati nel presente articolo, nonché secondo le
specifiche indicate nella parte B dell'Allegato 4 alla parte
terza del presente decreto. Entro il 31.12.2006 le
Autorità di bacino, nel contesto dell'attività di
pianificazione o mediante atti di indirizzo e coordinamento,
sentite le Province e le Autorità d'ambito, definiscono gli
obiettivi su scala di distretto cui devono attenersi i piani
di tutela delle acque, nonché le priorità degli interventi.
Entro il 31.12.2007, le Regioni, sentite le Province e
previa adozione delle eventuali misure di salvaguardia,
adottano il Piano di tutela delle acque e lo trasmettono al
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio,
nonché alle competenti autorità di bacino, per le verifiche
di competenza».
L'articolo 27, del decreto legislativo n. 152, del 1999
prevede che gli «agglomerati devono essere provvisti di
erte fognarie per le acque reflue urbane: a) entro il 31.12.2000 per quelli con numero di abitanti equivalenti
o superiori a 15.000». Inoltre, il successivo articolo 31,
al comma terzo, prevede che le «acque reflue urbane devono
essere sottoposte prima della scarico, ad un trattamento
secondario o a un trattamento equivalente in conformità con
le indicazioni dell'allegato 5, e secondo le seguenti
cadenze temporali; a) entro il 31.12.2000 per li
scarichi provenienti da agglomerati con oltre 15.000
abitanti equivalenti».
La direttiva 91/271/Cee all'articolo 3, prevede, che gli
«Stati membri provvedono affinché tutti gli agglomerati
siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue - entro
il 31.12.2000 per quelli con numero di abitanti
equivalenti o superiore a 15.000. Laddove la realizzazione
di una rete fognaria non sia giustificata o perché non
presenterebbe vantaggi dal punto di vista ambientale o
perché comporterebbe costi eccessivi, occorrerà avvalersi di
sistemi individuali o di altri sistemi adeguati che
raggiungano lo stesso livello di protezione ambientale».
Per abitante equivalente si intende, ai sensi dell'articolo
1 della direttiva 91/271/Cee, «il carico organico
biodegradabile, avente una richiesta biochimica di ossigeno
a 5 giorni (BOD5) di 60 g di ossigeno al giorno».
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VII, con
la sentenza del 19.07.2012 (causa C-565/10) ha accertato
che l'Italia è venuta meno agli obblighi derivanti dalla
citata direttiva 91/271/Cee.
Detta sentenza è l'epilogo di un procedimento di infrazione
avviato dalla Commissione europea contro l'Italia con
procedimento pre-contenzioso e concluso dinnanzi la
summenzionata Corte di giustizia, adita ai sensi
dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea (Tfue), versione consolidata in G.U. 30.03.2010,
serie C, 83
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Uso
del telefonino.
Domanda
Nel rapporto di pubblico impiego cosa comporta l'uso per
fini personali del telefono assegnato dall'amministrazione?
Risposta
L'utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente,
del telefono assegnatogli per le esigenze d'ufficio, è
punibile come peculato d'uso. Con tale condotta, infatti, il
soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito
dall'apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni
d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicista, piegandolo a
fini personali, per il tempo del relativo uso, per
restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione
originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la
circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente
dalla sfera di disponibilità della p.a.
Ciò chiarito, non
può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell'analisi
generale del peculato (ma la sottolineatura è qui
particolarmente doverosa), che il raggiungimento della
soglia della rilevanza penale presuppone comunque l'offensività
del fatto, che, nel caso del peculato d'uso, si realizza con
la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della
p.a. o di terzi ovvero con una concreta lesione della
funzionalità dell'ufficio: eventualità quest'ultima che
potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo
nelle situazioni regolate da contratto c.d. «tutto
incluso».
L'uso del telefono d'ufficio per fini personali,
economicamente e funzionalmente non significativo, deve
considerarsi, quindi, penalmente irrilevante
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Procedimento
disciplinare.
Domanda
In base a quali norme è sanzionato il mobbing?
Risposta
Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose
disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona
del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di
tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è
contrattualmente obbligato a prestare una particolare
protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e
psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087
cod. civ.), ma deve altresì rispettare il principio generale
di neminem laedere e non deve tenere comportamenti
che possano cagionare danni di natura non patrimoniale,
configurabili ogni qual volta la condotta illecita del
datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti
diritti.
Tali comportamenti, anche ove non siano determinati da norme
di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa
individuazione, caso per caso, da parte del giudice del
merito, in quale, senza duplicare le voci del risarcimento
(con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici),
è chiamato a discriminare i meri pregiudizi -concretizzatisi
in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi
consistenza e gravità, come tali non risarcibili- dai danni
che vanno invece risarciti
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Quorum, decide lo Statuto. Soglie differenti per l'adunanza
e per il voto.
Le diverse maggioranze sono funzionali all'elezione del
presidente.
Può ritenersi validamente costituito, ai fini dell'elezione
del presidente, un consiglio comunale con un numero di
consiglieri inferiore a quello prescritto dalle disposizioni
statutarie e regolamentari per l'elezione in questione?
In merito alla disciplina del numero legale per la validità
delle adunanze, «quorum strutturale», e delle votazioni,
«quorum funzionale o deliberativo», l'art. 38 del dlgs n.
267/2000 si limita a disporre che «il regolamento indica il
numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Nel caso di specie, per quanto riguarda il quorum
strutturale, lo statuto comunale prevede che «le sedute del
consiglio comunale sono valide con la presenza di 16
consiglieri, o in seconda convocazione, con almeno 11 di
essi, computando a tal fine anche il sindaco», facendo salvi
i casi in cui la legge o lo stesso Statuto «richiedano una
maggioranza qualificata o dispongano particolari modalità di
votazione».
Per lo specifico quorum funzionale, invece, lo Statuto
prevede che «il presidente è eletto tra i consiglieri (_)
con il voto favorevole dei 2/3 dei componenti il consiglio
comunale.
Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, si procederà
ad una nuova votazione con le stesse modalità della prima.
In caso di ulteriore esito negativo, si procederà a una
terza votazione, nella quale sarà sufficiente raggiungere il
voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti il
consiglio».
Il regolamento consiliare, peraltro, ribadisce
sostanzialmente il contenuto delle norme statutarie senza
apportare ulteriori integrazioni alle modalità di elezione
del presidente.
Pertanto, in base alle citate disposizioni, per la validità
della seduta sarà necessario il raggiungimento del quorum
strutturale indicato, ovvero la presenza di 16 consiglieri.
Ne consegue che, accertata la validità della seduta con la
presenza del numero dei consiglieri prescritto dallo
Statuto, qualora le prime due votazioni, che necessitano del
voto favorevole di 2/3 dei componenti, dovessero risultare
infruttuose, si potrà procedere alla terza votazione per la
quale è richiesta la maggioranza assoluta.
Diversamente, qualora si accogliesse la tesi secondo cui il
quorum funzionale iniziale dei 2/3 dei componenti del
consiglio rende necessitato il raggiungimento del medesimo
quorum ai fini della validità della seduta, ne deriverebbe
l'oggettiva impossibilità, in carenza del suddetto quorum,
di procedere alla terza votazione. Tale conclusione è
incongruente con il meccanismo contemplato dalla norma
statutaria in argomento, mirante a pervenire necessariamente
all'elezione del presidente.
Il presidente, infatti, è un organo obbligatorio previsto
dal nostro ordinamento che svolge funzioni fondamentali per
l'attività del consiglio comunale e ne garantisce l'ordinato
svolgimento dei lavori a tutela e garanzia della vita
democratica dell'ente stesso
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
PATRIMONIO: Federalismo
demaniale.
Domanda
A seguito del trasferimento a un Ente locale di immobili
dello Stato tramite le procedure previste dall'art. 56-bis
dl n. 69/2013 (Federalismo demaniale), l'Ente può procedere
all'alienazione di detti immobili o sussistono particolari
vincoli di inalienabilità?
Risposta
L'art. 56-bis,
introdotto in sede di conversione al decreto legge n.
69/2013 («Decreto del Fare»), ha sbloccato e data concreta
attuazione al processo di trasferimento dei beni
patrimoniali dallo Stato agli Enti locali. Dal 01.09.2013
fino al 30.11.2013 gli Enti, in base al principio di
sussidiarietà, potranno avanzare apposita richiesta
all'Agenzia del demanio territorialmente competente per
richiedere il trasferimento in proprietà dei beni.
I beni trasferiti, con tutte le pertinenze, accessori, oneri
e pesi, entrano a far parte del patrimonio disponibile delle
regioni e degli enti locali. Come patrimonio disponibile il
bene può pertanto essere alienato, previo esperimento delle
procedure previste dalla normativa, dall'Ente che ne ha
acquisito la proprietà. La normativa in esame non prevede
nessun particolare vincolo di inalienabilità.
In caso però gli enti decideranno di alienare i beni loro
trasferiti potranno tenere per sé il 75% del ricavato e
destinarlo prioritariamente alla riduzione
dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte
eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno
essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25%
sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato. (cfr. art. 56-bis, comma 10, decreto legge n.
69/2013)
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
PATRIMONIO: Ordine
di sgombero
Domanda
Nel caso in cui un terzo occupi abusivamente un'area
demaniale e presenta un'istanza di regolarizzazione la
Pubblica amministrazione può ordinare ugualmente lo sgombero
dell'area ?
Risposta
La Pubblica amministrazione può ordinare la rimozione delle
strutture abusivamente installate su area demaniale anche in
presenza di un'istanza di regolarizzazione, dal momento in
cui non esiste un principio generale secondo cui la Pubblica
amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi in
pendenza di procedimenti di regolarizzazione dell'attività
svolta (cfr. tra gli altri Tar Lazio, Sezione I-ter Roma n.
5551 del 04/06/2013).
Tale divieto deve trovare fondamento in un'esplicita
previsione normativa (ex. art. 38 legge 47/1985), essendo
un'eccezione al principio secondo cui la Pubblica
amministrazione deve intervenire in presenza di ogni
comportamento di privati che realizzi una violazione delle
regole che disciplinano il territorio e l'utilizzo delle
differenti aree
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
NEWS |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Triplicato il contributo per le cause.
La marca da 8 diventa da 25.
Arriva un salasso per gli avvocati. La cosiddetta «marca da
otto», ossia l'importo forfettario di 8 euro che si versa,
oltre al contributo unificato, all'atto dell'iscrizione a
ruolo della causa, triplica e arriva a 25 euro per garantire
l'assunzione dei nuovi magistrati vincitori di concorso. Per
i quali lo stato spenderà 18,6 milioni nel 2014, 25,3 nel
2015 e 31,2 nel 2016, tutti finanziati attraverso l'aumento
dei diritti di notifica e la riduzione di un terzo degli
importi spettanti al difensore, all'ausiliario del
magistrato, al consulente tecnico di parte e
all'investigatore privato. E arriva anche l'obolo per
partecipare agli esami di avvocato e ai concorsi di notaio e
magistrato. Per partecipare l'esame di abilitazione
all'esercizio della professione forense si dovranno versare
50 euro, mentre gli aspiranti cassazionisti dovranno pagarne
75. Sempre 50 euro sarà il contributo obbligatorio a carico
dei futuri notai e magistrati.
Con la bozza di legge di
stabilità 2014 il ministero della giustizia ha chiarito una
volte per tutte che, di questi tempi, i concorsi costano
troppo. Troppi i candidati per l'esame di avvocato, ad
esempio, che costano a via Arenula, tra allestimento delle
aule, cancelleria e rimborso spese per i commissari, circa 3
milioni di euro a sessione. Soldi che le tasse attualmente
pagate dai candidati (12,91 euro più 14,62 euro per bollo)
non bastano a coprire.
In questo modo, stima la relazione illustrativa della bozza
di manovra, considerando che in media partecipano all'esame
37.000 candidati a sessione, il ministero guidato da Anna
Maria Cancellieri incamererà 1.850.000 euro, coprendo così
parte delle spese. Anche il concorso da notaio in quanto a
costi non scherza. Il ministero spende circa 470.000 euro e
per questo chiede ai 5.500 candidati che in media si
presentano al concorso di pagare 50 euro.
Per quanto riguarda invece le future toghe, la necessità di
imporre un contributo di 50 euro si impone in considerazione
del fatto, si giustifica il ministero, che per ogni concorso
si spendono in media 2 milioni di euro
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2013). |
PATRIMONIO - VARI:
Una polizza contro il terremoto. Lo stato non paga i danni.
Spetta alle famiglie tutelarsi.
Guida alle offerte delle compagnie: i costi variano in base
al valore dell'immobile.
La polizza anti-sisma potrebbe presto diventare
obbligatoria, con la necessità per famiglie e imprese di
provvedere autonomamente alla loro protezione in caso di
disastro naturale.
Le compagnie stanno dunque adeguando la
propria offerta con nuovi prodotti che puntano a tutelare
dai danni da terremoto. Prima di sottoscrivere qualsiasi
contratto occhio, però, a limitazioni ed esclusioni,
franchigie e massimali.
Il governo pensa all'assicurazione obbligatoria. La riforma
della Protezione civile varata lo scorso anno dal governo
Monti prevede che lo stato non si farà più carico dei danni
da alluvioni, terremoti e altre calamità naturali, lasciando
a imprese e famiglie la libertà di decidere se tutelarsi
oppure no. Il nuovo esecutivo Letta sta però pensando di
rendere obbligatoria la copertura contro i danni da
catastrofi naturali. Due le strade che il governo sta
prendendo in considerazione per alleggerire l'assicurazione:
defiscalizzare i premi per le assicurazioni anti terremoto,
visto che attualmente circa il 20% del premio pagato finisce
in tasse, o prevedere un'integrazione della spesa per i
premi da parte delle imprese costruttrici al momento della
consegna degli immobili per la vendita. Le associazioni dei
consumatori ritengono però che l'obbligo di copertura
assicurativa contro le calamità naturali rappresenterebbe
un'ulteriore spesa a carico delle famiglie. Federconsumatori
e Adusbef hanno ad esempio calcolato che il costo medio di
una copertura obbligatoria sui fabbricati si aggira sui 100
euro circa a famiglia; aggiungendo anche la copertura del
rischio legato a disastri naturali il costo salirebbe a 200
euro per ogni famiglia che vive in condominio.
Come funzionano e aspetti da tenere d'occhio. Le polizze
anti-sisma sono spesso legate alla sottoscrizione di
un'assicurazione sulla casa e hanno carattere modulare. I
costi variano in base al valore e alle caratteristiche
dell'immobile, nonché alla sua ubicazione. I prodotti sono
inoltre apparentemente simili, ma in realtà è bene fare
grande attenzione ai dettagli che possono fare la
differenza. Da considerare, ad esempio, che non sempre la
stessa clausola copre sia i danni all'edificio sia al suo
contenuto; quasi tutte le polizze poi assicurano il box e la
cantina, ma non un eventuale giardino o terreno. Prima di
sottoscrivere qualsiasi contratto è dunque bene controllare
limitazioni ed esclusioni della copertura assicurativa,
nonché franchigie e massimali.
Le proposte degli operatori. Tra le offerte delle varie
compagnie, Allianz propone Casa tua Eventi Sismici, polizza
che mette a disposizione fino al 50% della somma assicurata
per affrontare la ricostruzione della casa e i disagi
causati dal terremoto. In particolare, il prodotto
indennizza i danni alla struttura e agli impianti
dell'abitazione, agli arredi, agli elettrodomestici, agli
oggetti personali anche contenuti nelle pertinenze come
cantina e box. Sono inoltre comprese le spese per
demolizione e sgombero, il trasporto e deposito dei beni
presso terzi durante la ristrutturazione e il rifacimento
dei documenti dell'intero nucleo familiare. Nel caso in cui
l'abitazione risultasse inagibile la polizza rimborsa fino a
tre mesi le spese di pernottamento in albergo.
Axa offre invece Protezione Familiare per il terremoto,
polizza che rimborsa per i danni materiali causati dal sisma
alla casa (inclusi incendio, esplosioni e scoppio). Possono
essere assicurate, oltre che le case tradizionali, anche
quelle in bioedilizia o gli chalet. La copertura contro il
terremoto è acquistabile in abbinamento a Protezione
familiare e a Protezione familiare per la mia casa.
Genertel propone invece Quality home, assicurazione online
che, oltre a proteggere l'abitazione, i suoi abitanti e il
suo contenuto, copre anche i danni più gravi al fabbricato
che derivano da alluvioni, inondazioni o terremoti. La
formula può essere modulata a seconda delle esigenze: è
infatti possibile scegliere tra vari livelli di protezione
grazie a diversi set di garanzie a partire da 2,20 euro al
mq. La polizza è inoltre personalizzabile in base al tipo di
abitazione da assicurare (villa, villetta a schiera,
condominio), alla situazione abitativa (casa di proprietà o
affitto) e alla metratura. L'assicurazione prevede inoltre
una speciale garanzia di assistenza all'abitazione (in
collaborazione con Europ Assistance), con massimale
triplicato in caso di intervento di emergenza, 24 ore su 24,
con fabbro, idraulico ed elettricista per i piccoli
imprevisti quotidiani oltre all'assistenza legale gratuita.
Toro Assicurazioni propone invece Garanzia Terremoto Casa,
polizza complementare all'assicurazione per la casa e la
famiglia Master Casa che consente di tutelarsi dai danni
causati dal terremoto. È possibile scegliere tra due
formule: quella base garantisce l'immobile contro i danni
provocati dal sisma; la formula full offre invece, oltre a
quanto coperto dalla forma base, anche un'indennità
aggiuntiva, il rimborso delle spese alberghiere o di affitto
in caso di inagibilità e di crollo dell'abitazione e il
rimborso delle spese per la riparazione di autoveicoli di
proprietà della famiglia che siano stati danneggiati dal
sisma
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: I
nuovi «parametri» premiano gli avvocati.
Compensi medi più alti - Torna il rimborso spese forfettario.
DOPO LE TARIFFE/
I valori sono utilizzabili come riferimento quando non c'è
accordo tra le parti sulla somma dovuta.
Compensi più elevati per (quasi) tutti i gradi e le fasi di
giudizio. Un taglio meno deciso per il gratuito patrocinio.
E il ritorno del rimborso delle spese forfettarie, che si
aggiunge al "prezzo" della prestazione e alla restituzione
dei costi sostenuti.
È con questi interventi che lo schema di regolamento sui
nuovi parametri –messo a punto dal ministero della
Giustizia per dare attuazione alla riforma dell'avvocatura e
ora inviato al Consiglio di Stato e al Consiglio nazionale
forense per i pareri– supera i valori previsti dal Dm
140/2012 e premia le parcelle dei legali.
Attenzione, però: si tratta di importi che possono essere
utilizzati come guida per definire i compensi –in primo
luogo dal giudice, se manca l'accordo delle parti– ma che
non sono vincolanti. Resta ferma, infatti, l'abrogazione
delle tariffe, cancellate dal decreto legge 1 del 2012.
Importi rivisti
Alla prova di alcuni casi concreti (si vedano gli schemi
pubblicati a fianco), i nuovi parametri si rivelano quasi
sempre più generosi rispetto ai vecchi importi: ad esempio,
cresce di oltre il doppio (da 495 a 1.197 euro) il compenso
minimo che può spettare al legale che difende un imputato
ammesso al gratuito patrocinio di fronte al tribunale
monocratico; mentre aumenta di più del 20% (da 6.336 a 7.767
euro) la parcella massima che può essere liquidata per un
giudizio tributario in secondo grado, se include anche il
rimborso delle spese di trasferta.
Si tratta di risultati a cui contribuiscono più fattori.
Intanto, il nuovo schema di regolamento eleva, rispetto al
Dm 140, quasi tutti i compensi medi per le singole fasi.
Peraltro, gli importi individuati dal ministero –come
chiarisce la relazione illustrativa dello schema di
provvedimento– sono inferiori rispetto a quelli che erano
stati proposti dal Cnf.
Inoltre, il nuovo regolamento rimodula la forbice delle
riduzioni e delle maggiorazioni sul compenso medio del
giudizio: per ogni fase, si prevedono aumenti fino all'80% e
sconti fino al 50%, tranne che per la fase istruttoria dei
riti civili, tributari e amministrativi, per cui sono
fissati incrementi fino al doppio e riduzioni fino al 70 per
cento.
I nuovi parametri riducono poi la sforbiciata ai compensi
per gli avvocati che difendono i clienti ammessi al
patrocinio a spese dello Stato: mentre il Dm 140 prevedeva
un taglio del 50%, lo schema di regolamento mantiene la
riduzione per esigenze di bilancio, ma la ferma al 30 per
cento.
Ma i nuovi parametri non portano in dote solo aumenti. Ad
esempio, nei giudizi di fronte al giudice di pace i compensi
medi vengono ridotti in modo significativo rispetto a quelli
previsti dal Dm 140. Così, il compenso medio per il legale
che difende un cittadino che impugna una multa può scendere
di oltre il 70% (da 850 a 265 euro).
Le spese forfettarie
La bozza di regolamento i reintroduce una voce di rimborso
autonoma rispetto ai compensi per l'attività svolta e alle
spese documentate. Si tratta delle «spese generali» già
previste dalle tariffe, vale a dire un rimborso spese
forfettario, che mira a coprire i costi effettivi ma non
documentabili (come quelli per la gestione dello studio).
Il rimborso forfettario, cancellato dal Dm 140, viene ora
reintrodotto «di regola nella misura tra il 10 e il 20% del
compenso per la prestazione». Così, lo schema di regolamento
dà attuazione alla norma della riforma forense per cui le
spese forfettarie sono dovute al legale «oltre al compenso
per la prestazione professionale» e «al rimborso delle spese
effettivamente sostenute».
I giudizi tributari
Il nuovo schema di regolamento introduce parametri ad hoc
per i giudizi tributari, con tabelle autonome (per i
procedimenti in commissione tributaria provinciale e
regionale) rispetto a quelle previste per la difesa civile
in tribunale.
Ma i compensi più alti sono stati stabiliti per la fase
istruttoria e/o di trattazione, che nel rito tributario è
pressoché inesistente, dato che non è prevista la
possibilità di sentire testimoni o di espletare
l'interrogatorio formale. Piuttosto, sarebbe opportuno che i
valori indicati nella fase istruttoria fossero riconosciuti
nella fase decisionale, sicuramente più delicata nel
processo tributario (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni. Pagamento richiesto in base al carico
urbanistico.
Oneri e contributo, gratuiti soltanto i lavori edilizi
minori.
Sempre esonerata la manutenzione.
Gli interventi edilizi minori sono gratuiti. Per la
manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili non
viene richiesto il contributo di costruzione. Mentre la
nuova costruzione produce, sempre, un incremento del carico
urbanistico sull'area di intervento ed è quindi un
intervento oneroso.
Ma non è il solo titolo edilizio a distinguere i lavori
soggetti al contributo da quelli esenti. Di recente,
infatti, sono stati considerati onerosi anche gli interventi
che comportano un aumento delle superfici utili di calpestio
(Corte di giustizia amministrativa sentenza 05.09.2013, n. 741) pur in assenza di aumento di cubatura
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 999/1999).
L'articolo 16 del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001)
precisa che per il rilascio del permesso di costruire
l'interessato è tenuto a versare all'amministrazione
comunale un contributo di costruzione che si compone di due
voci, l'incidenza degli oneri di urbanizzazione e il costo
di costruzione. Attraverso la quota degli oneri di
urbanizzazione del contributo di costruzione, il titolare
del permesso di costruire è chiamato a partecipare ai costi
sociali delle opere di urbanizzazione, le quali, quindi, si
ridistribuiscono e gravano su coloro che beneficeranno delle
utilità del nuovo intervento. La quota per costo di
costruzione si giustifica per l'aumentata capacità
contributiva del titolare.
Gli interventi a pagamento
L'onerosità del titolo abilitativo va ravvisata
ogniqualvolta un nuovo intervento edilizio produca un
aggravio del carico urbanistico sul territorio. È quindi il
caso delle ristrutturazioni mediante demolizione e
ricostruzione: questi interventi, portando alla definizione
di un bene nella sostanza nuovo, producono di regola un
incremento del carico urbanistico pari a quello delle nuove
costruzioni (Tar Lombardia, Sezione II, n. 4455/2009). Il
tipo di permesso necessario per l'esecuzione degli
interventi di ristrutturazione non incide
sull'obbligatorietà del contributo: esso dovrà, quindi,
essere corrisposto anche se la ristrutturazione è soggetta a
semplice Scia.
I lavori gratuiti
Sono gratuiti gli interventi minori, quali le opere di
manutenzione ordinaria, straordinaria e di risanamento
conservativo. Le modifiche interne ad unità abitative, come
apertura di porte interne o spostamento di pareti, sono in
particolare gratuite sempre che non comportino la modifica
dei parametri urbanistici quali la superficie utile.
Inoltre, secondo il Testo unico il contributo di costruzione
non è dovuto per gli interventi da realizzare in zona
agricola, funzionali alla conduzione del fondo e alle
esigenze dell'imprenditore agricolo.
Tra le fattispecie gratuite, poi, l'articolo 17 annovera gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento di edifici
unifamiliari, in misura non superiore al 20%. Sul punto
l'interpretazione giurisprudenziale è fortemente
restrittiva: sono stati considerati onerosi, infatti, gli
interventi su immobili familiari destinati allo svolgimento
di attività produttive o con destinazione mista abitativa e
produttiva, come i bed & breakfast: in questi casi, la
giurisprudenza vi ha scorto un fine di lucro incompatibile
con lo scopo della norma che tende -tramite la gratuità- a
favorire il miglioramento delle esigenze abitative dei
nuclei familiari (Tar Marche, sezione I, sentenza 10.05.2012, n. 310; Tar Campania sezione I, sentenza
08.01.2013, n. 25).
Sono gratuite, poi, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici. Nell'ambito
delle opere di urbanizzazione, la Legge Tognoli (legge
122/1989) fa rientrare i parcheggi che, pertanto, non sono
soggetti a contributo concessorio (Tar Campania, Sezione II,
sentenza 24.05.2013, n. 2745).
Sono gratuiti anche gli interventi da realizzare in
attuazione di norme speciali a seguito di pubbliche calamità
nonché gli impianti di produzione di energia da fonti
rinnovabili o comunque volti alla conservazione, al
risparmio e all'uso razionale dell'energia.
Sempre l'articolo 17 del Dpr 380 prevede, poi, due ipotesi
di riduzione del contributo di costruzione:
- edilizia abitativa convenzionata;
- realizzazione della prima abitazione.
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La mappa
LE ECCEZIONI - I casi di esenzione o riduzione parziale dal
contributo di costruzione
CONTRIBUTO RIDOTTO
01 | EDILIZIA CONVENZIONATA
Contributo limitato alla sola quota degli oneri di
urbanizzazione per affitti calmierati
02 | PRIMA CASA
Contributo equivalente a quanto previsto per l'edilizia
residenziale pubblica
ESENTI DA CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
01 | INTERVENTI IN ZONA AGRICOLA
Il contributo non è dovuto solo se gli interventi sono
funzionali:
- alla conduzione del fondo, e
- alle esigenze dell'imprenditore agricolo
02 | RISTRUTTURAZIONE E AMPLIAMENTO DI EDIFICI UNIFAMILIARI
Il contributo non è dovuto per gli ampliamenti in misura
inferiore al 20% dell'edificio
03 | OPERE PUBBLICHE
Realizzate da enti istituzionalmente competenti
04 | OPERE DI URBANIZZAZIONE
Niente contributo per le opere eseguite, anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici
05 | FONTI RINNOVABILI
«Gratuita» anche l'installazione di strumenti volti alla
produzione di energia o all'uso razionale dell'energia
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La determinazione. Per Dia e Scia autoliquidazione del
privato.
Dieci anni di tempo per opporsi ai conteggi.
LA RINUNCIA/ Si ha diritto alla restituzione delle somme
versate quando si cambia idea e il progetto autorizzato
resta sulla carta.
Il contributo di costruzione viene calcolato dal Comune
prima di rilasciare il permesso di costruire. Sono i Comuni
a determinare l'ammontare della quota di oneri di
urbanizzazione (sulla base delle tabelle parametriche
definite dalla Regione) mentre la quota di costo di
costruzione è fissata dalle Regioni.
Per gli interventi edilizi autorizzabili tramite titoli
autocertificati (Scia e Dia) il contributo è calcolato dal
soggetto che richiede il titolo, il quale tramite modelli di
calcolo predisposti dal Comune, si autoliquida gli oneri
dovuti. Resta fermo, poi, il potere del Comune di valutare
la congruità dell'autoliquidazione effettuata dal privato e,
eventualmente, richiedere integrazioni.
La determinazione degli oneri dovuti per il singolo
intervento può essere contestata da parte del privato. Il
soggetto si può opporre ai calcoli aritmetici eseguiti
dall'amministrazione: il ricorso, in tal caso, riguarda il
diritto soggettivo alla corretta quantificazione degli oneri
dovuti e può essere proposto nel termine di prescrizione
decennale (Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 24.09.2012, n. 5080).
Viceversa, se si contesta la ragione del credito il termine
di decadenza torna ad essere quello ordinario di 60 giorni.
Se ad esempio è in discussione la legittimità di una tabella
parametrica di un Comune che assoggetta al pagamento degli
oneri gli spostamenti interni di pareti, il rapporto tra le
parti non può essere considerato paritetico (ci si oppone,
infatti, l'esercizio di un potere) con la conseguenza che il
ricorso contro la determinazione dell'onere dovrà essere
proposto nell'ordinario termine decadenziale di 60 giorni.
Cosa succede se, dopo aver versato il contributo, il privato
non realizzi più (o realizzi solo parzialmente) l'opera
assentita? Ciò può accadere sia per mutamento di decisione
da parte del titolare del permesso sia per intervenuto
decorso dei termini di inizio o fine lavori, sia infine per
il sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con
le opere autorizzate e non ancora realizzate. In tal caso,
sorge in capo all'interessato il diritto alla restituzione
di quanto versato all'amministrazione. Il contributo,
infatti, è connesso all'incremento del carico urbanistico
nell'area: se l'intervento non viene realizzato non si
realizza il presupposto del contributo, con la conseguenza
che quanto versato è stato indebitamente percepito
dall'amministrazione comunale e di tale somma il privato può
richiederne la restituzione (Tar Lombardia - Brescia,
Sezione I, 30.01.2011, n. 188).
L'obbligo giuridico di corrispondere il contributo sorge,
infatti, con il rilascio della concessione edilizia, non
venendo in rilievo né la già intervenuta realizzazione di
opere di urbanizzazione (Consiglio di Stato, sezione V,
sentenza 22.02.2011, n. 1108), né la mancata
realizzazione delle opere assentite(Consiglio di Stato,
sezione IV, sentenza 30.07.2012 n. 4320).
Il termine di prescrizione del diritto alla restituzione
inizia a decorrere dal momento in cui il privato comunica la
propria intenzione di non procedere con l'edificazione (Tar
Lombardia, Sezione II, 24.03.2010, n. 728) o a partire
dalla data in cui sia intervenuta la decadenza della
concessione per la mancata realizzazione delle opere (Tar Campania-Salerno, Sezione II, sentenza
05.05.2013, n.
513).
Parimenti, anche il diritto dell'amministrazione a
sollecitare il pagamento non versato o a richiedere
eventuali maggiorazioni degli importi dovuti, soggiace allo
stesso termine decennale di impugnazione, decorso il quale
scatta la prescrizione (Tar Campania, Sezione IV, sentenza
22.05.2013, n. 2634).
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Senza opere. A decidere sono i piani comunali.
Il cambio d'uso può far scattare il pagamento.
Il mutamento di destinazione d'uso di un immobile può
risultare oneroso. La quantificazione dipende da una serie
di fattori di natura urbanistica.
La disciplina del mutamento d'uso, a livello nazionale, è
principalmente contenuta nell'articolo 10 del Dpr 380/2001
(Testo unico edilizia), che tuttavia affida alle Regioni il
compito di stabilire quali mutamenti d'uso, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche dei fabbricati, sono
subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio
attività. Le Regioni, a loro volta, normalmente demandano
l'identificazione delle specifiche ricadute delle singole
tipologie di mutamento d'uso agli strumenti urbanistici
comunali.
In materia, interviene, anche, l'articolo 19 dello stesso
Dpr che, con riguardo alle opere non destinate alla
residenza, specifica che, qualora la loro destinazione d'uso
venga modificata nei dieci anni successivi alla fine dei
lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura
massima corrispondente alla nuova destinazione, calcolata al
momento della variazione.
La materia non ha, dunque, una disciplina unitaria
sull'intero territorio nazionale. Comunque,l'evoluzione
giurisprudenziale consente di individuare alcuni principi
consolidati.
Innanzitutto, il mutamento d'uso di un fabbricato in favore
di una determinata destinazione è ammesso solo se questa
rientra in quelle consentite per l'area dallo strumento
urbanistico generale: prima di procedere ad un cambio d'uso
occorre, quindi, verificare la compatibilità della funzione
rispetto alla regolamentazione comunale.
Per quanto attiene al profilo economico, il mutamento sarà
oneroso se c'è passaggio tra categorie urbanistiche
funzionalmente autonome, sia che si tratti di mutamenti
d'uso con opere, sia che si tratti di mutamenti senza opere.
Come recentemente ribadito dalla giurisprudenza, infatti, il
fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel
titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i
costi sociali delle opere di urbanizzazione su quanti ne
beneficiano, con la conseguenza che, nel caso di
modificazione della destinazione d'uso cui si correli un
maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto per
il pagamento della differenza tra gli oneri dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per
la nuova destinazione (Consiglio di Stato, sentenza 30.08.2013, n. 4326).
Alla luce di questo principio, un cambio d'uso, ancorché
senza opere, che determina un maggior carico urbanistico,
può configurare il presupposto per il pagamento del
contributo con conseguente necessità di pagare la differenza
tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti e quelli, se
più elevati, dovuti per la nuova destinazione.
Il mutamento d'uso può, inoltre, implicare l'adeguamento
della dotazione di aree a standard. La giurisprudenza ha
ritenuto legittima la disposizione di uno strumento
urbanistico che condiziona i cambi d'uso con opere alla
cessione o alla monetizzazione delle aree a standard
aggiuntive (Tar Lombardia, sentenza 22.07.2010, n. 3256) (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Opere pubbliche, il programma arriva al rush finale.
Lavori. Approvazione entro domani.
IL DEBUTTO/ Dall'esercizio 2013 la pianificazione
facoltativa si estende anche ai servizi e alle forniture su
base annuale.
Entro domani, 15 ottobre le amministrazioni aggiudicatrici
devono adottare lo schema di programma triennale degli
aggiornamenti e dell'elenco annuale delle opere pubbliche.
La scadenza è stabilita dal decreto del ministero delle
Infrastrutture 09.06.2005, con cui sono stati approvati
anche gli schemi tipo che dovranno essere affissi per almeno
sessanta giorni consecutivi nella sede dell'amministrazione.
Il successivo Dm 11.11.2011, che si applica a partire
dall'esercizio 2013, ha dettato nuove regole sulla
programmazione, estesa anche all'acquisto di beni e servizi.
Per questi ultimi, però, il programma è facoltativo e ha
cadenza soltanto annuale.
Nel programma triennale dei lavori, che costituisce momento
attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e
quantificazione dei bisogni della collettività, devono
trovare distinta indicazione anche eventuali immobili
pubblici da cedere a titolo di corrispettivo del contratto
di appalto (articolo 53, comma 6, Dlgs 163/2006).
L'elenco annuale deve poi essere approvato unitamente al
bilancio di previsione, di cui costituisce parte integrante,
e deve contenere l'indicazione dei mezzi finanziari
stanziati, ovvero disponibili in base a contributi o risorse
di soggetti pubblici o privati.
Le esigenze di coerenza del sistema programmatorio degli
enti locali impongono la verifica della corrispondenza fra
le previsioni di bilancio e quelle di realizzazione delle
opere pubbliche.
Il bilancio annuale e pluriennale, nonché la relazione
previsionale e programmatica, devono trovare piena
corrispondenza nelle previsioni del programma triennale dei
lavori pubblici e negli altri documenti di pianificazione
strategica che l'ente è tenuto ad approvare, tra i quali il
piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari.
Per gli enti sperimentatori che adottano un bilancio
armonizzato ai sensi del Dlgs 118/2011 la programmazione delle
opere pubbliche deve andare oltre. È necessaria anche la
formulazione del cronoprogramma (previsione degli importi
degli stati avanzamento lavori) per ogni intervento
programmato.
Ai fini della programmazione nel bilancio armonizzato,
infatti, il principio della competenza finanziaria
potenziato richiede che le spese di investimento siano
impegnate negli esercizi in cui scadono le singole
obbligazioni passive sulla base del relativo cronoprogramma.
Sempre sulla base del piano di realizzazione dei lavori
l'ente sperimentatore prevede il fondo pluriennale
vincolato, definito come il saldo finanziario costituito da
risorse già accertate destinate al finanziamento di
obbligazioni passive dell'ente già impegnate, ma esigibili
in esercizi successivi a quello in cui è accertata
l'entrata.
Con il fondo pluriennale vincolato in sostanza sono
rappresentati in bilancio i tempi di impiego (ultrannuale)
delle risorse già acquisite.
La stessa fotografia dovrà essere recepita anche dal
programma delle opere pubbliche, che dovrà essere
"armonizzato" con i nuovi principi e le nuove regole
contabili.
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In sintesi
01|LA SCADENZA
Il 15 ottobre è il termine ultimo per tutti gli enti
pubblici per approvare il programma triennale delle opere
pubbliche, l'aggiornamento e l'elenco annuale delle opere
pubbliche
02|IL PROGRAMMA
Il programma triennale valuta i fabbisogni infrastrutturali
della collettività e individua i finanziamenti
03|I SERVIZI
Da quest'anno l'ente potrà adottare un modello di
programmazione, solo annuale, anche per servizi e forniture
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013). |
CONDOMINIO: La trasparenza batte la privacy. È obbligatoria l'affissione
dei dati dell'amministratore.
Le linee guida del garante sugli
adempimenti a seguito della riforma del condominio.
La privacy non stoppa la trasparenza condominiale. I dati
sul sito web dello stabile devono, però, essere appannaggio
dei soli condomini. Attenzione, inoltre, ai videocitofoni:
se sono come le telecamere della videosorveglianza, sono
necessari cartelli e le immagini devono essere eliminate in
tempi brevi.
Sono queste alcune delle indicazioni del
manuale
"Il condominio e la privacy", predisposto dal garante
della privacy e aggiornato alla riforma del condominio
(legge 220/2012).
Dati dell'amministratore.
La reperibilità dell'amministratore non contrasta con la
privacy. Il vademecum del garante richiama la riforma del
condominio, nella parte in cui prevede che l'amministratore
sia tenuto a comunicare ai condomini anche i propri dati
anagrafici e professionali, il codice fiscale o, se si
tratta di società, la denominazione e la sede legale. Le
generalità, il domicilio e i recapiti, inclusi quelli
telefonici, dell'amministratore (o della persona che svolge
funzioni analoghe a quelle dell'amministratore) devono
essere anche affissi all'ingresso del condominio o nei
luoghi di maggior transito. Si tratta di informazioni
funzionali all'adempimento degli obblighi contrattuali
dell'amministratore, il quale non può invocare il velo della
privacy per non farsi rintracciare dai condomini.
Rendicontazione trasparente.
La legge di riforma ha rafforzato la trasparenza
condominiale. Il garante prende atto che l'amministratore è
obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque
titolo dai condomini o da terzi e anche quelle a qualsiasi
titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico
conto corrente postale o bancario, intestato al condominio
stesso. Nessun ostacolo dal fronte privacy all'accesso alla
rendicontazione: ogni condomino ha diritto di chiedere, per
il tramite dell'amministratore, di prendere visione ed
estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione
periodica.
Videocitofoni.
Di regola l'installazione del videocitofono non pone
problemi di privacy. Diverso è, però, il discorso per i
videocitofoni di ultima generazione e, anche, per altre
apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite
registrazione. Questi strumenti possono talvolta essere
equiparati ai sistemi di videosorveglianza. E allora
scattano le stesse regole previste dal Codice della privacy
e dal provvedimento generale del garante in tema di
videosorveglianza. A meno che non si tratti di sistemi
installati da persone fisiche per fini esclusivamente
personali e le immagini non siano destinate alla
comunicazione sistematica o alla diffusione (per esempio su
Internet). Se il videocitofono, quindi, è installato da un
singolo o da una famiglia per finalità esclusivamente
personali, non occorre mettere il cartello per segnalare la
presenza dell'apparecchio di ripresa.
Maggiorazione per la videosorveglianza.
La riforma del condominio ha precisato il quorum richiesto
per poter installare un sistema di videosorveglianza
condominiale. L'assemblea può deliberare l'installazione di
un sistema di videosorveglianza sulle parti comuni solo con
un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Sito web del condominio.
La riforma della normativa condominiale ha sancito che il
condominio può avere il suo sito internet: può essere una
piattaforma per rendere disponibili i documenti relativi
alla gestione dell'edificio. Lo stesso garante sottolinea
che, attraverso il sito web, le persone che ne hanno diritto
possono consultare ed estrarre copia dei documenti
condominiali. La prerogativa non riguarda tutti coloro che
accedono al sito internet dello stabile: devono quindi
essere previste delle procedure, per esempio
l'autenticazione tramite password individuale, che
consentano l'accesso sicuro a tali documenti digitali. Le
cautele devono essere maggiori nel caso in cui siano
trattati dati sensibili, come quelli che si riferiscono alle
condizioni di salute di una persona o quelli giudiziari.
Affittuario.
L'affittuario non può accedere ai dati sulla gestione del
condominio. Beninteso può esercitare il diritto di accesso
ai propri dati personali e gli altri diritti garantiti dal
codice della privacy. In riferimento alla normativa sulla
privacy, non può però chiedere l'accesso ai dati sulla
gestione del condominio
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Zone di pregio, addio ai tavolini.
Lo ha stabilito il decreto legge Cultura.
Stop a tavolini, sedie e ombrelloni, nelle zone di pregio;
ma soltanto dove decidono regione e soprintendenza. Maggiori
vincoli, in pratica, per le attività commerciali, in senso
lato, che si svolgono nei centri storici e comunque nelle
aree pubbliche aventi particolare valore archeologico,
storico, artistico e paesaggistico.
Lo ha stabilito il decreto legge Cultura 91/2013 nel testo
modificato dalla legge di conversione 07.10.2013, n.
112, pubblicata nella G.U. di martedì scorso, 8 ottobre.
La
scelta del legislatore è stata quella di aggiungere un comma
all'articolo 52 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio (dlgs 42/2004) di cui tra l'altro viene anche
modificata la rubrica, che già imponeva ai comuni di
richiedere alla sopraintendenza il parere in merito alla
individuazione delle aree da sottoporre a particolari
vincoli per lo svolgimento dell'attività di commercio.
Evidentemente il sistema non ha funzionato se oggi la
competenza a intervenire viene assegnata direttamente alle
direzioni regionali e alle soprintendenze che, sentiti gli
enti locali, provvederanno in merito adottando apposite
determinazioni.
Lo scopo è quello di vietare l'uso del
territorio non compatibile con le specifiche esigenze di
tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale. I
settori interessati, oltre alle aree mercatali, sono quelli
del commercio itinerante ma anche le concessioni di
occupazione di suolo pubblico. Quelle, per intenderci, che
interessano l'area esterna a bar e ristoranti per la
collocazione di tavolini e ombrelloni e che non beneficiano
del posteggio pluriennale come avviene per il tradizionale
commercio ambulante.
Insomma, il problema non è più soltanto
quello sollevato nelle varie direttive decoro che si sono
succedute nel tempo (Rutelli e Ornaghi) del contrasto al
commercio abusivo, bensì quello di impedire l'esercizio sia
di attività commerciali che artigianali sia qualsiasi altra
attività non compatibile con le esigenze di tutela del
patrimonio culturale.
Il messaggio è chiaro: va assicurato decoro ai complessi
monumentali e gli altri immobili del demanio culturale
interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti,
comprese le aree adiacenti
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Una speranza per i precari p.a..
Prorogata al 2016 la corsia preferenziale nei concorsi.
Il senato ha dato l'ok al decreto sul pubblico
impiego. Salta la mobilità nelle partecipate.
Assunzioni più vicine per i precari del pubblico impiego:
fino al 2016 a chi ha avuto un contratto a tempo determinato
per tre anni (nell'ultimo quinquennio) viene riservata la
metà dei posti messi a concorso. Nessun salvataggio
(finora), invece, per dipendenti di aziende pubbliche in
crisi che non potranno essere assorbiti in società della
stessa natura, tema su cui si esprimerà, però, palazzo Chigi
nell'imminente manovra finanziaria.
L'aula del senato ha
dato il via libera, con 137 voti favorevoli, 57 contrari e
un astenuto, al decreto 101/2013 sulla stabilizzazione del
personale che opera nelle amministrazioni pubbliche, che
passa adesso al vaglio dei deputati, che dovranno
convertirlo in legge entro il 31 ottobre.
Un provvedimento
che da un lato si pone come obiettivo la stabilizzazione
degli occupati a termine nella p.a. e, dall'altro, la lotta
agli sprechi, tagliando i costi della politica e imponendo
una sforbiciata alle auto blu (nel 2014 si scende dall'80 al
60% della spesa effettuata quest'anno) e alle consulenze
(dal 90 all'80% sempre con riferimento a quanto investito
nel 2013); oltre, poi, alla citata «corsia preferenziale»
destinata a chi ha già lavorato per tre anni negli enti, la
validità delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici con
assunzioni a tempo indeterminato viene prorogata di un anno,
ossia fino al 2016 (quando, cioè, terminerà il blocco del
turnover).
E, nell'ambito del processo di riforma delle
province, si «recuperano» fino al 31.12.2014 gli
incarichi dirigenziali che avevano esse stesse conferito.
Semaforo verde a due proposte (una del governo, l'altra di
Scelta civica) che sopprimono quasi tutto l'articolo 3:
cadono le misure sulla mobilità degli addetti fra società
partecipate direttamente, o indirettamente, dalle
amministrazioni (Stato, Regioni, Enti locali e Asl) in
«default» o in dismissione, ritenute troppo onerose dalla
commissione Bilancio, ma il tema non finisce nel
dimenticatoio, perché passa l'ordine del giorno della
maggioranza che impegna l'esecutivo ad «affrontare il tema a
partire dalla prossima legge di stabilità». Restano in piedi
le norme sugli uffici giudiziari «caratterizzati da una
grave carenza di» dipendenti, dunque si permette «un più
rapido assorbimento di personale soprannumerario, attraverso
procedure di mobilità».
A seguire, palazzo Madama licenzia
il passaggio degli oneri delle visite mediche dalle aziende
sanitarie all'Inps: le liste speciali (costituite con legge
463/1983) dei «camici bianchi» fiscali vengono trasformate
in elenchi «ad esaurimento», in cui si confermano i
professionisti «inseriti nelle suddette liste alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, e che vi risultavano già iscritti alla data del 31.12.2007». Nasce l'Agenzia per la coesione territoriale
per aiutare le amministrazioni nella gestione e
programmazione dei fondi strutturali europei, tuttavia non
sarà dotata (come previsto inizialmente) di «120 unità
altamente qualificate».
Agli ex collaboratori di giustizia
si aprono le porte della p.a. e nella Dia (Direzione
investigativa antimafia) opereranno i forestali. Confermate
le misure per tutelare l'attività dell'Ilva varate in
commissione (si veda ItaliaOggi del 2/10/2013), nonché la
partenza «soft» del Sistri
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Stretta sui manager condannati.
Non possono ricevere incarichi e poteri gestionali.
È l'effetto del decreto sulle incompatibilità (dlgs 39/2013)
e della legge anticorruzione.
I dirigenti pubblici e i titolari di posizione organizzativa
condannati, anche solo in primo grado, per reati contro la
pubblica amministrazione non possono ricevere dallo scorso
mese di aprile nuovi incarichi e, dal novembre del 2012, non
possono svolgere le più rilevanti attività gestionali.
Sono questi gli effetti derivanti dalle rigide disposizioni,
sulle quali pende un sospetto di illegittimità
costituzionale per violazione della presunzione d'innocenza,
dettate, rispettivamente, dal dlgs n. 39/2013 (il decreto
sulle inconferibilità, sulle incompatibilità e sugli
incarichi nelle p.a.) e dalla legge n. 190/2012 (c.d.
anticorruzione).
Queste norme stanno determinando in molti
comuni numerosi problemi applicativi e meritano alcuni
chiarimenti applicativi. Si deve evidenziare in premessa
che, per la Civit, la prescrizione del reato dopo la
condanna di primo grado, non costituisce una esimente
dall'applicazione di queste limitazioni.
L'articolo 3 del decreto n. 39/2013 vieta il conferimento
dei seguenti incarichi a coloro che hanno avuto una condanna
di primo grado per reati contro la p.a.: amministrativi di
vertice (negli enti locali possono essere considerati tali
quelli di segretario generale e di direttore generale); di
amministratore di ente pubblico o di ente privato
controllato da una pubblica amministrazione (il riferimento
va agli incarichi di presidente con delega e di
amministratore delegato); di direttore generale, sanitario o
amministrativo di Asl e agli incarichi dirigenziali interni
ed esterni. Ricordiamo che gli incarichi dirigenziali
interni sono definiti dal legislatore come quelli che
comportano in via esclusiva l'attribuzione di competenze di
gestione e amministrazione, nonché quelli negli uffici di
diretta collaborazione, mentre sono esterni quelli comunque
denominati che comportano in via esclusiva l'attribuzione di
competenze di gestione e amministrazione conferiti a
soggetti non muniti della qualifica di dirigente pubblico o
comunque non dipendenti di p.a..
Occorre aggiungere che,
sulla base delle disposizioni dettate dall'articolo 2, comma
2, le norme dettate dal decreto sugli incarichi dirigenziali
si estendono espressamente ai titolari di posizioni
organizzative e a coloro che hanno avuto assegnato incarichi
ex articolo 110 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali. Ai fini dell'applicazione della
disposizione le sentenze di applicazione della pena sono
equiparate a quelle di condanna. Vietando la disposizione il
conferimento di tali incarichi, la conseguenza è che essa si
applica solamente a quelli conferiti a partire dalla data di
entrata in vigore del decreto, cioè dallo scorso mese di
aprile.
La legge n. 190/2012, al comma 46, introduce l'articolo
35-bis del dlgs n. 165/2001. Esso stabilisce che coloro che
sono stati condannati per reati commessi da pubblici
ufficiali contro una p.a., anche solamente in primo grado,
non possono svolgere i seguenti compiti:
1) far parte, anche solo come segretari, di commissioni di
concorso;
2) non possono essere assegnati, anche con funzioni
direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse
finanziarie, alle acquisizioni di beni, forniture e servizi,
alla concessione o all'erogazione di sovvenzioni,
contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di
vantaggi economici a soggetti pubblici e privati;
3) non possono fare parte di commissioni per la scelta di
contraenti per l'affidamento di lavori, forniture e servizi,
per la concessione o l'erogazione di sovvenzioni,
contributi, sussidi, ausili finanziari, attribuzioni di
vantaggi economici di qualunque genere,
È evidente che, soprattutto la seconda sanzione, priva
questi soggetti della parte più rilevante delle competenze
dirigenziali, quali la gestione delle risorse finanziarie,
la stipula di contratti e l'erogazione di benefici. Per cui
di fatto a questi dirigenti possono essere conferiti
incarichi dimezzati sul terreno gestionale e/o di studio. La
disposizione, essendo dettata nella forma del divieto di
svolgimento di queste attività, opera dalla data di sua
entrata in vigore, quindi produce gli effetti anche sugli
incarichi già attribuiti
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Fondi ai mini-enti, si parte.
I 100 milioni stanziati saranno disponibili dal 24/10.
Pubblicati in G.U. la convenzione tra ministero e Anci e il
successivo atto aggiuntivo.
I 100 milioni di euro del Programma «6000 campanili» saranno
ufficialmente in gioco a partire dal 24.10.2013, giorno
di apertura dello sportello per presentare domanda. Sono
stati infatti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 9
ottobre scorso la Convenzione sottoscritta il 29.08.2013
tra il ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Anci
e il successivo Atto Aggiuntivo del 25.09.2013.
La pubblicazione fa quindi scattare i 15 giorni previsti per
l'avvio dello sportello di presentazione. Sui siti internet
del ministero di riferimento www.mit.gov.it e di Anci
www.anci.it sono state inoltre pubblicate le prime Faq
relative al programma.
Beneficiari i comuni fino a 5 mila abitanti. Possono
presentare domanda di contributo finanziario i comuni che,
sulla base dei dati anagrafici risultanti dal censimento
della popolazione 2011, avevano una popolazione inferiore ai
5 mila abitanti, anche in associazione tra di loro.
Finanziati interventi infrastrutturali e messa in sicurezza.
Sono finanziabili interventi infrastrutturali di
adeguamento, ristrutturazione e nuova costruzione di edifici
pubblici ivi compresi gli interventi relativi all'adozione
di misure antisismiche. Inoltre, sono finanziabili
interventi per la realizzazione e manutenzione di reti
viarie e infrastrutture accessorie e funzionali alle stesse
o reti telematiche di Ngn e Wi-fi, nonché interventi sulle
reti viarie di competenza comunale ivi compresi gli
eventuali lavori connessi a sottostanti sottoservizi.
Infine, rientrano interventi per la salvaguardia e messa in
sicurezza del territorio.
Finanziamento fino a un milione di euro. Ogni comune
interessato potrà presentare un solo progetto anche
comprendente più opere connesse funzionalmente. L'importo
del finanziamento richiesto non potrà essere inferiore a 500
mila e superiore a 1 milione di euro.
Istanza via Pec. L'istanza di finanziamento, firmata
digitalmente, dovrà essere inoltrata esclusivamente per
Posta elettronica certificata (Pec), all'indirizzo
pec@6000campanili.anci.it a partire dalle ore 9,00 del
giorno 24.10.2013. Lo sportello rimarrà aperto per 60
giorni. È prevista una riserva di progetti finalizzata a
finanziare almeno un progetto per regione/provincia autonoma
tenendo sempre conto dell'ordine cronologico di ricezione
delle richieste.
Necessaria una delibera di giunta successiva al 9 ottobre.
All'istanza dovrà essere allegata una delibera di giunta di
approvazione della richiesta di contributo finanziario,
nomina del responsabile del procedimento, approvazione della
relazione illustrativa dell'intervento e del approvazione
del disciplinare. Oltre alla delibera di giunta, dovrà
essere inviata una relazione illustrativa del Rup, apposita
per la richiesta di finanziamento, nella quale saranno
indicati la natura e le caratteristiche principali
dell'intervento, lo stato di avanzamento delle attività
procedurali, l'elenco dei pareri e permessi, la delibera, il
cronoprogramma dei lavori e il Quadro economico
dell'intervento.
Il richiedente dovrà inoltre produrre gli
elaborati grafici idonei a consentire l'inquadramento
generale dell' intervento. Infine, dovranno essere allegati
una dichiarazione con indicazione del codice Iban e lo
«Schema di disciplinare» compilato
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
TRIBUTI: Per i rifiuti rispunta la Tarsu.
Possibile applicare anche nel 2013 tasse e tariffe dell'anno
scorso. Ambiente. Via libera da un emendamento al decreto «Imu-2» -
Resta in campo la maggiorazione statale.
PER LA TARES/
Confermato l'obbligo di inviare il modello precompilato ai
contribuenti e di utilizzare per i pagamenti il bollettino
postale o l'F24.
Indietro tutta sulla Tares, che dopo mesi di contorcimenti
normativi rischia di sparire ancora prima di essere
applicata. Con l'emendamento al decreto «Imu-2» (Dl
102/2013) approvato alle commissioni Bilancio e Finanze
della Camera (primo firmatario Luca Pastorino) che riesuma
le vecchie Tarsu e Tia si apre un'autostrada per i Comuni
che intendono buttare a mare tutti i problemi del nuovo
tributo e tornare al prelievo utilizzato fino all'anno
scorso, nell'attesa che esca dalle nebbie la service tax
prevista nel 2014.
Nei 6.700 enti che applicavano la Tarsu,
questo significa rinunciare anche alla copertura integrale
dei costi del servizio, imposti dalla Tares, per tornare
alle vecchie forme di finanziamento. Con un unico vincolo:
la Tarsu o la Tia riesumate dall'emendamento dovranno essere
accompagnate dalla maggiorazione da 30 centesimi al metro
quadrato, perché vale un miliardo, va allo Stato e da questo
punto di vista la condizione del bilancio centrale non
ammette ripensamenti.
Per artigiani, ristoratori e in genere per le attività
commerciali più colpite dagli aumenti imposti dal nuovo
tributo è un'ottima notizia, naturalmente. Per le
amministrazioni locali si tratta invece di rifare per
l'ennesima volta i calcoli, su un tributo che sta
contendendo con successo all'Imu il record delle modifiche
in corso d'opera. «Siamo esterrefatti e ammutoliti, ci
arrendiamo», spiegano le aziende pubbliche del settore
riunite in Federambiente in una nota che la butta
sull'ironia (amara).
Proprio la confusione costante che circonda il tributo
spingerà moltissimi Comuni a tornare sulla vecchia strada di
Tarsu o Tia. Un altro emendamento al decreto «Imu-2», che
nella sua versione originaria impone agli enti di spedire ai
contribuenti modelli (F24 o bollettino postale) precompilati
con l'importo da pagare, ha appena stabilito che in caso di
mancato invio del modello non si applicano le sanzioni per
«insufficiente versamento». Una regola di favore per venire
incontro ai contribuenti disorientati, che però rischia di
"sanare" ex ante tutti i versamenti insufficienti e aprire
buchi nei conti di Comuni e aziende.
Le amministrazioni
infatti hanno parecchi problemi già con la prima rata, assai
meno complicata rispetto al saldo, come mostrano i casi di
città che non sono ancora riuscite ad avvertire tutti i
contribuenti sull'importo da pagare: è accaduto per esempio
a Milano, dove il Comune ha avvertito che in questi casi non
ci saranno sanzioni per i versamenti in ritardo (la scadenza
era al 30 settembre), senza ovviamente parlare di quelli
insufficienti.
I tanti correttivi piovuti sulla Tares, inoltre, non si sono
occupati di altri problemi ancora aperti sul tributo. È il
caso, per esempio, delle forme di pagamento: l'ultima rata
rimane ancora vincolata a F24 e bollettino postale, e quindi
non permette di utilizzare Mav, Rid e le altre modalità
automatiche impiegate finora. Restano tutti da chiarire
anche i criteri di calcolo "alternativi" al metodo
normalizzato introdotti dallo stesso decreto «Imu-2». Tra
nodi applicativi irrisolti e rischi di aumenti a grappolo,
saranno quindi moltissimi i Comuni che torneranno alla Tarsu,
anche se la sua mancata armonizzazione con i principi Ue
(prima di tutto quello del «chi inquina paga») ne richiedono
l'abolizione dal lontano 1997 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri senza sanzioni per due mesi in più.
ESTENSIONE/
Il ministero potrà ampliare l'elenco dei soggetti che
effettuano il trattamento e obbligati al nuovo sistema.
Slitta di due mesi l'applicazione delle sanzioni del Sistri.
Questo uno degli effetti del via libera del Senato, ieri
sera, alla conversione del decreto legge 101/2013.
L'aula ha confermato quasi tutti gli emendamenti già votati
in commissione Affari costituzionali il 2 ottobre. Di
conseguenza viene sostituito il comma 1 dell'articolo 11 del
Dl che ora prevede l'obbligo di adesione al Sistri per enti
e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi
e per quelli che raccolgono o trasportano rifiuti speciali
pericolosi a titolo professionale o, ancora, per quelli che
effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento,
commercio e intermediazione di rifiuti urbani e speciali
pericolosi, inclusi i nuovi produttori che trattano o
producono rifiuti pericolosi.
Rispetto al testo del Dl viene specificato che i rifiuti
pericolosi sono "speciali". Viene ribadita la possibilità di
iscrizione volontaria per i produttori, i gestori ma ora
anche gli intermediari e i commercianti di rifiuti non
inclusi nel comma 1.
L'emendamento 11.22 estende l'obbligo di iscrizione ai
vettori esteri che operano sul territorio nazionale o di
tipo transfrontaliero a titolo professionale.
Quale effetto del nuovo comma 3-bis, le sanzioni relative al
Sistri si applicano a decorrere dalla scadenza dei novanta
giorni successivi alla data di operatività del sistema. Ciò
significa che, per chi è tenuto ad applicare il sistema di
tracciabilità dal 1° ottobre, le sanzioni slittano al 31.12.2014, mentre per quelli obbligati al Sistri dal
03.03.2014 l'applicazione delle sanzioni avverrà dal 2
giugno.
In questo modo vengono concessi due mesi in più agli
operatori per familiarizzare con il nuovo sistema dato che,
come precisato anche nella circolare ministeriale diffusa il
30 settembre, in base a quanto previsto dal Dl, le sanzioni
dovrebbero scattare il 1° novembre e il 03.04.2014. Nel
frattempo, comunque, imprese ed enti dovranno continuare a
tenere registri e formulari previsti dagli articoli 190 e
193 del Dlgs 152/2006 con l'applicazione delle relative
sanzioni.
In base al comunicato di fine seduta non è stato invece
approvato l'emendamento 11.501 che aveva avuto il via libera
della commissione Affari costituzionali e che esentava
dall'iscrizione all'Albo gestori ambientali gli agricoltori
soggetti all'articolo 2135 del Codice civile, produttori
iniziali di rifiuti, per il trasporto di tali rifiuti
all'interno del territorio provinciale o regionale in cui
hanno sede. Venivano anche fornite indicazioni sulle
modalità di tenuta del registro di carico e scarico.
È stato invece votato l'emendamento 11.1000 presentato dal
relatore Giorgio Pagliari del Pd, in base al quale il
versamento alla società concessionaria del Sistri di un
contributo per i costi di produzione a consuntivo al 30.06.2013 non deve determinare nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica.
Il provvedimento passa ora all'esame della Camera (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
CONDOMINIO: Privacy in casa.
Sul web accesso limitato ai condòmini.
LE REGOLE DEL GARANTE/
L'Authority ha rinnovato le disposizioni da seguire per
rispettare i limiti alla diffusione dei dati personali.
Il garante della Privacy detta le nuove regole dopo la
riforma del condominio. Con il
vademecum pubblicato ieri sul
sito (www.garanteprivacy.it) si sono aggiunte parecchie
precisazioni sul corretto comportamento da tenere
(specialmente da parte dell'amministratore).
Anzitutto i numeri telefonici: l'amministratore può usarli
solo se pubblici (cioè negli elenchi pubblici) o con il
consenso espresso e non possono essere comunicati a terzi.
Peggio ancora per i dati sanitari, il cui uso è permesso
solo in caso di delibere o lavori su barriere
architettoniche o per danni subiti negli spazi comuni.
Mentre al contrario deve comunicare ai condomini i suoi
recapiti (anche telefonici), che vanno anche affissi
sull'edificio.
In assemblea, invece, non può partecipare un esterno tranne
i delegati o i tecnici chiamati a illustrare un problema (ma
solo per il tempo necessario). E anche la videoregistrazione
è lecita solo con il consenso di tutti gli interessati.
Viene confermato che in bacheca non si possono affiggere
comunicazioni personali né riguardanti le morosità (sui
morosi, però, i condomini possono avere notizie direttamente
dall'amministratore). I dati sui morosi vanno invece
comunicati ai creditori, come previsto dalla riforma del
condominio (legge 220/2012). Il rendiconto del c/c bancario,
come prescrive la riforma, è accessibile a ogni condomino.
Sulla videosorveglianza non ci sono grandi novità: lecita
quella per fini personali effettuata da persone fisiche
(sulla porta dell'appartamento) e anche sulle aree comuni,
segnalandola e conservando le registrazioni per non oltre 48
ore.
Nuove, invece, le regole sul condominio digitale, dato che è
la riforma a prevedere la possibilità dei siti web
condominiali: potranno essere messi online solo i documenti
adottati con delibera e l'accesso è riservato ai condomini,
tramite password individuale.
Ogni condomino ha poi il "diritto di accesso" per conoscere
i suoi dati custoditi dall'amministratore ma non quelli
riferiti all'intero condominio (per esempio i dati relativi
al contratto di locazione di un'unità immobiliare di
proprietà condominiale) a meno che non sia stato incaricato
espressamente dall'assemblea. Gli inquilini non possono
accedere ai dati sulla gestione condominiale, ma solo ai
propri.
In ogni caso anche il singolo condomino che ne venga a
conoscenza non può comunicare a terzi i dati personali degli
altri condomini senza il loro consenso. Escluse dalla
disciplina della privacy sono invece le normali
comunicazioni tra vicini, tranne che vengano diffuse sul web
o su cartelli affissi nell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: L'ispezione comincia in ufficio. Prima di accedere in
azienda la raccolta dei dati utili.
Nel nuovo codice di comportamento del ministero del lavoro
entra la fase di preparazione.
L'ispezione comincia con le indagini d'ufficio. Infatti
prima dell'accesso vero e proprio gli ispettori devono
raccogliere tutte le informazioni e documentazioni sul
soggetto da sottoporre a controllo, ricorrendo alle banche
dati. Obbligatoriamente devono acquisire le informazioni
sull'organigramma aziendale, sulla forza lavoro denunciata e
sulla situazione contributiva e assicurativa.
A stabilirlo è lo schema di codice di comportamento a uso
degli ispettori del lavoro, messo a punto dal ministero
guidato da Enrico Giovannini, e pubblicato ieri sul sito
internet al fine di una consultazione pubblica sui
contenuti.
Codice comportamento. Il nuovo codice, che andrà a
sostituire quello attualmente vigente del 2006, scaturisce
dalla nuova disciplina dettata dal dpr n. 62/2013, il
regolamento di comportamento per i dipendenti pubblici. A
differenza di quello vigente, il nuovo codice si presenta
arricchito tra l'altro dell'art. 5 che reca la cosiddetta
fase di «preparazione dell'ispezione».
La fase di preparazione. In pratica, tale fase prevede che,
in base al tipo di intervento da effettuare, l'ispezione sia
preceduta da un'attività di preparazione a cura degli stessi
ispettori e del personale amministrativo, al fine di
raccogliere le informazioni e la documentazione relative al
soggetto da controllare, con ricorso alle banche dati. Tale
attività di preparazione costituisce addirittura un obbligo
per l'ispettore che, prima del primo accesso ispettivo, deve
acquisire ogni informazione relativa all'organigramma
aziendale, alla forza lavoro denunciata e alla situazione
contributiva e assicurativa.
In particolare, a eccezione dei
casi di vigilanza a vista (si tratta delle ispezioni
programmate per settori di attività o per ambiti
territoriali) e degli accessi brevi, il codice stabilisce
che gli elementi necessari per dare avvio alle indagini
riguardano:
a) la tipologia e le motivazioni dell'intervento, con
allegata l'eventuale richiesta di intervento;
b) l'attività svolta dal soggetto ispezionato, con
indicazione di eventuali appalti pubblici affidati e del
contratto collettivo applicabile;
c) il «comportamento contributivo», incluse le informazioni
sulla regolarità contributiva e assicurativa e alle
eventuali procedure di riscossione coattiva in corso;
d) le denunce obbligatorie effettuate, le autorizzazioni
rilasciate e gli eventuali contratti certificati;
e) ogni ulteriore informazione messa a disposizione
dall'amministrazione funzionale all'ispezione.
In campo i consulenti del lavoro. Il codice ancora ribadisce
la centralità del ruolo dei consulenti del lavoro, cui il
soggetto ispezionato può rivolgersi per farsi assistere. A
tal fine, l'ispettore è tenuto a verificare che il
professionista sia abilitato, annotando gli estremi
dell'iscrizione al relativo Albo. In presenza di esercizio
abusivo della professione, l'ispettore deve procedere
all'immediata comunicazione alle autorità competenti
vietando, inoltre, al soggetto non abilitato di assistere
all'ispezione in corso.
Consultazione pubblica. Come accennato, sullo schema di
codice di comportamento il ministero del lavoro ha aperto
una consultazione pubblica. Chi intenda fornire indicazioni
e suggerimenti può farlo entro e non oltre il 28 ottobre,
scrivendo all'indirizzo di posta elettronica divIsegrgen@lavoro.gov.it (articolo ItaliaOggi del 10.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione al 65% se c'è risparmio energetico.
Immobili. La detrazione sale anche se si tratta di lavori
edili.
Quando una ristrutturazione mette in gioco più interventi, è
necessario prevedere preventivi e consuntivi separati, da
parte dell'impresa, per una stessa riqualificazione e
decidere poi a posteriori su cosa chiedere la detrazione del
50% e su cosa quella del 65%? Questa suddivisione, qualora
possibile, può essere operata anche sulle spese che
riguardano la "direzione lavori"?
È questo uno dei tanti quesiti che sono arrivati, in questi
ultimi giorni, al Forum online dedicato al «Bonus lavori in
casa» (www.ilsole24ore.com/bonuslavori).
Se in uno stesso stabile (già
esistente) vengono effettuati più interventi di recupero e
tutti concorrono al raggiungimento di un indice di
prestazione energetica per la climatizzazione invernale,
inferiore rispetto ai valori definiti nel Dm dello Sviluppo
economico dell'11.03.2008, allegato A, allora è superfluo
distinguere fra lavori edili e per la riqualificazione
energetica. L'intero complesso dei lavori può infatti
rientrare nella tipologia prevista dal ecobonus al 65% per
la riqualificazione energetica globale di edifici esistenti.
Con un valore massimo di detrazione di 100mila euro e un
importo limite nel valore delle opere che dal 06.06.2013
è di 153.846,15 euro. In questa categoria, infatti, lo Stato
non ha definito nel dettaglio quali siano le opere o
impianti che occorre realizzare per raggiungere le
prestazioni energetiche richieste. Ne risulta che tutte
possono concorrere, purché riescano a determinare come
conseguenza l'abbattimento del fabbisogno annuo di energia
primaria.
Laddove comunque il titolare del recupero decida di
utilizzare entrambe le detrazioni per porzioni diverse di
lavori, è bene sottolineare che una medesima spesa non può
godere di entrambe le agevolazioni. Ma è necessario
scegliere.
Ci sono, infine, una serie di casi in cui –pur essendo l'ecobonus
la misura che “concede” di più sul recupero delle tasse– è
meglio utilizzare il 50%. Ad esempio quando, oltre alla
ristrutturazione, il cittadino intenda fruire anche del
bonus mobili ed elettrodomestici al 50%. Quest'ultima
possibilità non è associata al 65%. Pertanto, esistono
situazioni in cui il beneficio che si otterrebbe con la
riqualificazione energetica è inferiore a quello ottenuto
sommando il 50% per opere al 50% per arredamento.
Inoltre, la pratica per l'utilizzo dell'ecobonus richiede –oltre all'attenzione nell'effettuare i bonifici con le
modalità corrette– anche l'asseverazione di un tecnico sul
rispetto dei requisiti stabiliti dalla normativa e l'invio
telematico di una serie di documenti all'Enea. Disbrigo
burocratico che, nel caso degli infissi, è gestibile anche
in fai-da-te, ma per interventi più corposi può costringere
il cittadino a rivolgersi a un professionista, sborsando un
compenso aggiuntivo.
Per quanto riguarda, infine, la questione della direzione
lavori è necessario tenere presente che, in caso di utilizzo
di bonus differenti per diverse parti di edificio, questa
però non è "scomputabile" e va imputata all'intervento più
significativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Avvalimento plurimo, divieto a rischio.
Sul tavolo della Corte di giustizia europea la previsione
del Codice dei contratti. Il
tribunale amministrativo regionale delle marche solleva la
questione.
È a rischio di illegittimità comunitaria il divieto di
avvalimento plurimo previsto dall'art. 49 del Codice dei
contratti pubblici. Sarà infatti la Corte di giustizia
europea, alla quale il Tar Marche ha posto la questione, a
dovere verificare se il limite imposto dal decreto
legislativo 163/2006 all'articolo 49, comma 6, sia conforme
al diritto comunitario.
Nel nostro ordinamento, infatti, la possibilità, per il
concorrente, di dimostrare il possesso dei requisiti
richiesti dalla lex specialis di gara facendo riferimento a
quelli posseduti da altre imprese, dette ausiliarie, viene
limitato nel settore dei lavori all'«utilizzo» di «una sola
impresa ausiliaria per ciascuna categoria di
qualificazione». Nel caso posto all'attenzione dei giudici
marchigiani invece una impresa aveva utilizzato lo strumento
dell'avvalimento rispetto a più imprese, risultando prima
ammessa e successivamente esclusa dalla gara. Da ciò il
ricorso al Tar e la trasmissione della questione
pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla compatibilità
della norma nazionale con le direttive europee.
Nella
direttiva 2004/18 e nella 2004/17 per i settori speciali,
infatti, si prevede che «un operatore economico può, se del
caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle
capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura
giuridica dei suoi legami con questi ultimi». Nessun limite
viene quindi previsto nella normativa comunitaria
all'istituto dell'avvalimento, considerato dal legislatore
europeo, anche nelle proposte di nuove direttive che
dovrebbero essere approvate definitivamente all'inizio del
prossimo anno, come strumento essenziale a tutela delle
piccole e medie imprese.
La giurisprudenza italiana non
aveva ancora approfondito l'argomento specifico, essendosi
limitato il Consiglio di stato a escludere l'utilizzo di più
imprese ausiliarie per ciascuna categoria di qualificazione,
ma non già il cumulo tra avvalimento e associazione di una
mandante per la medesima categoria, situazione che non
genera cumulo tra requisiti ma si configura quale modalità
partecipativa alla gara (sezione V, 15.11.2010, n. 8043). La
Corte europea si dovrà pronunciare nei prossimi mesi
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
a ore inattuato.
Nel settore del lavoro pubblico, fino a quando i contratti
collettivi di comparto o la contrattazione quadro non
recepiranno la possibilità di fruire del congedo parentale
in modalità oraria anziché esclusivamente giornaliera,
questa particolare modalità di fruizione resterà solo un
miraggio.
È quanto ha dovuto riconoscere il dipartimento
della funzione pubblica, nella
nota
07.10.2013 n. 45298 di prot.,
in risposta a un quesito dell'università dell'Insubria in
merito alla possibilità, prevista dalla legge di stabilità
2013, di usufruire del congedo parentale ex articolo 32 del
Testo unico sulla maternità e paternità (il dlgs n.
151/2001) in forma oraria anziché esclusivamente
giornaliera.
La norma sopra evidenziata prevede che per ogni
bambino nei primi suoi otto anni di vita, i genitori hanno
diritto di astenersi dal lavoro per un periodo che non
ecceda, complessivamente, il limite di dieci mesi. In
dettaglio, alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di
congedo di maternità, la norma concede che possa assentarsi
facoltativamente per un ulteriore periodo continuativo o
frazionato non superiore a sei mesi.
Stessa previsione per
il padre lavoratore, che può assentarsi per il predetto
periodo, decorrente dalla nascita del figlio. Il
legislatore, con l'articolo 1, comma 339, della legge di
stabilità 2013, ha operato un'aggiunta (inserendo il comma
1-bis del citato articolo 32 del dlgs n. 151 del 2001),
stabilendo che la contrattazione collettiva di settore dovrà
mettere nero su bianco le modalità di fruizione del congedo
su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base
oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla
singola giornata lavorativa.
Tuttavia, rileva la funzione pubblica, per quanto riguarda
il settore del lavoro pubblico, i contratti ad oggi non
hanno ancora provveduto al recepimento di quanto previsto
dal legislatore. Pertanto, secondo Palazzo Vidoni, il
decollo della particolare fruizione del congedo parentale
dovrà attendere il via libera ufficiale attraverso la
contrattazione collettiva di comparto o quella «quadro»
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Agevolazioni. La detrazione Irpef e Ires del 65% è
condizionata al «bonifico parlante»: il presupposto si
applica anche alle Srl e alle Spa.
Spese antisismiche con criterio di cassa.
Per le Entrate il tetto di 96mila euro agli interventi
«premiati» comprende le pertinenze.
La nuova detrazione Irpef e Ires del 65% sulle misure
antisismiche dell'abitazione principale o delle costruzioni
adibite ad attività produttive va ripartita in 10 anni,
anche se la norma non lo prevede, in quanto è questa
l'interpretazione delle Entrate nella circolare 29/E/2013.
Seguendo ancora le indicazioni dell'Agenzia per casi simili,
poi, il limite massimo di spesa per l'intervento, pari a
«96mila euro per unità immobiliare», dovrebbe essere
riferito non solo all'immobile principale, ma anche alla
relativa pertinenza. La circolare 29/E/2013, poi, ha fatto
rientrare anche i soggetti Ires tra quelli agevolati, senza
approfondire quando questi debbano considerare "sostenuta"
la spesa (con bonifico "parlante" o in base al principio di
competenza?). Il documento di prassi, infine, non tratta il
caso delle spese sostenute dopo il 04.08.2013, ma prima
dell'attivazione della procedura autorizzativa, le quali
dovrebbero essere comunque agevolate, almeno in base al
dettato normativo. Sono queste alcune delle tematiche
richieste dai lettori al Forum sui lavori in casa.
In base alla norma, le spese "sostenute" dal 04.08.2013
al 31.12.2013 per l'adozione di misure antisismiche,
sono detraibili dall'Irpef o dall'Ires al 65%, a patto che
le «procedure autorizzatorie» siano "attivate" dal
04.08.2013 e che gli interventi siano eseguiti su «edifici
ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità» e siano
riferiti «a costruzioni adibite ad abitazione principale o
ad attività produttive». La normativa, quindi, non lega il periodo in cui fare i pagamenti (che parte dal 4 agosto) al
fatto che la procedura autorizzativa comunale sia attivata
dal 4 agosto. Quest'ultima è solo una condizione per
accedere al bonus; quindi, si ritiene che l'attivazione
possa avvenire anche a dicembre 2013 ed il bonifico
detraibile (per esempio, l'acconto al professionista) possa
essere effettuato anche il 04.08.2013.
Per individuare la disciplina applicabile al nuovo bonus
(modalità di pagamento o fruizione della detrazione), «in
assenza di indicazioni» nella norma, le Entrate hanno
chiarito che «si debba fare riferimento alle disposizioni
applicabili per gli interventi» detraibili al 36-50%
dell'articolo 16-bis, comma 1, lettera i, Tuir, quindi, è
obbligatorio il pagamento con bonifico "parlante". Il
momento di "sostenimento" della spesa coincide con la data
del pagamento, non solo per le persone fisiche e i
professionisti, ma anche per le ditte, le Snc e le Sas. Ciò
non è mai stato chiarito dalle Entrate, ma nella prassi, per
prudenza, è sempre prevalso il bonifico "parlante" rispetto
al principio di competenza (concetto mai usato nelle
circolari e nelle Guide delle Entrate sul 36-50%).
Per
coerenza, ora il principio di cassa (con relativo bonifico
"parlante") dovrebbe rilevare anche per i soggetti Ires che
vogliono agevolare gli interventi antisismici. Le Entrate
dovranno chiarire se è realmente così, considerando che, se
sarà questa la soluzione, l'intervento potrebbe terminare
anche dopo il 31.12.2013 e sarebbe comunque agevolato
al 65% con il semplice pagamento entro l'anno.
In base alla norma, la spesa massima agevolabile è di
«96mila euro per unità immobiliare», quindi, la detrazione
massima è di 62.400 euro. Anche se non previsto dalla norma,
per l'agenzia delle Entrate «la detrazione deve essere
ripartita in dieci quote annuali costanti e di pari importo
nell'anno di sostenimento delle spese e in quelli
successivi» (circolare 29/E/2013).
Anche se la circolare 29/E/2013 non lo dice, si ritiene che
per l'Agenzia il limite di spesa dei 96mila euro debba
essere riferito non solo all'immobile principale, ma anche
alla relativa pertinenza. Si arriva a questa conclusione,
basandosi sulle risoluzioni 124/E/2007, 167/E/2007 e
181/E/2008, relative alla detrazione del 36-50% sulle
ristrutturazioni edilizie, dove l'agenzia delle Entrate ha
sempre sostenuto una tesi difforme dalla norma, in quanto ha
ritenuto che il massimo della spesa detraibile (48mila o
96mila euro «per unità immobiliare») vada riferito
all'abitazione e alle sue pertinenze unitariamente
considerate, anche se autonomamente accatastate
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi ai tecnici a metà.
Rilievi avcp.
Sugli incentivi ai tecnici delle amministrazioni per la
redazione degli atti di programmazione è necessario un
intervento del governo e del parlamento che chiarisca se
siano incentivabili anche gli atti di pianificazione
generale.
È quanto chiede L'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici con la
segnalazione 25.09.2013 n. 4 relativa all'applicazione
dell'articolo 92, comma 6, del decreto 163/2006 che
incentiva i tecnici delle pubbliche amministrazioni nella
loro attività di pianificazione e programmazione.
La norma in particolare stabilisce che «il trenta per
cento della tariffa professionale relativa alla redazione di
un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito,
con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui
al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto». Su questa
disposizione l'Autorità e la Corte dei conti negli ultimi
anni hanno reso pronunce assolutamente divergenti in ordine
alla tipologia di atti di pianificazione per i quali
l'amministrazione può riconoscere i compensi incentivanti,
ivi previsti, al personale interno che li ha redatti.
Secondo l'Autorità infatti, l'ambito di applicazione della
norma è particolarmente ampio al punto che si possano
ritenere assoggettati alla categoria di «atti di
pianificazione comunque denominati» i piani di
lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani
di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i
piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi
contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i
regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per
essere approvati dagli organi competenti. Tale
interpretazione viene motivata dal fatto che «tali atti
afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di
opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali
definiscono l'ubicazione nel tessuto urbano».
Viceversa la Corte dei conti, negli anni, ha seguito una
linea più restrittiva tesa in particolare a negare
l'applicazione dell'incentivo alla redazione di atti di
pianificazione generale, quali possono essere il piano
regolatore o una variante generale. Da qui la richiesta di
un urgente intervento normativo
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013). |
APPALTI: Il Durc negativo taglia i fondi.
Debito Inail trattenuto dalla p.a. che eroga i contributi.
Una circolare dell'Istituto
assicuratore illustra le novità introdotte dal decreto Fare.
Contributi pubblici ridotti alle imprese con Durc negativo
per debiti nei confronti dell'Inail. In tal caso infatti, la
pubblica amministrazione è tenuta a trattenere dal
contributo l'importo dei debiti e a versarlo alla sede Inail
competente.
Lo spiega lo stesso istituto di assicurazione
nella nota prot. n. 5992/2013, illustrando le novità del
decreto Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n.
98/2013) relative all'estensione della disciplina
dell'«intervento sostitutivo».
L'intervento sostitutivo.
L'art. 4 del dpr n. 207/2010 (regolamento del dlgs n.
163/2006) prevede che in presenza di un Durc negativo, ossia
con irregolarità nei versamenti dovuti all'Inail, all'Inps o
alle casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano
all'impresa debitrice (appaltatrice o subappaltatrice
avente) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito
contributivo all'Inps, all'Inail o alle casse edili
trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto in
forza dell'appalto. Il dl n. 69/2013, tra le innovazioni
introdotte al Durc, ha rimodulato ed esteso questa
disciplina (che va sotto il nome di «intervento
sostitutivo»). Infatti, spiega l'Inail, ha previsto che la
procedura:
-
sia attivata direttamente da tutti i soggetti di cui
all'art. 3, comma 1, lett. b, del dpr n. 207/2010 (vale a
dire amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto
pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori,
soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti);
-
si applica «in quanto compatibile» anche alle
amministrazioni pubbliche che erogano contributi,
sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici
di qualunque genere per i quali sia prevista l'acquisizione
d'ufficio del Durc.
Le istruzioni operative. Relativamente ai debiti per premi
assicurativi, l'Inail spiega che la p.a., una volta ricevuto
un Durc attestante l'irregolarità nei confronti dell'Inail
del soggetto beneficiario dell'erogazione (sussidio o
altro), deve segnalare la situazione alla sede dell'Inail
competente indicata sul Durc.
La sede Inail verifica
l'attualità dell'inadempienza contributiva e trasmette via
Pec alla p.a. i dati necessari per il pagamento, con
indicazione dell'importo e delle modalità di compilazione
dei modelli F24 o F24 EP. Nel caso in cui la p.a. non possa
utilizzare i predetti modelli, la sede Inail indica l'Iban
sul quale effettuare il bonifico di pagamento e la relativa
causale.
Durc anche per i cofinanziamenti europei. Sempre il dl Fare,
inoltre, all'art. 31, comma 8-quater, ha previsto specifiche
norme in relazione alle imprese beneficiarie di agevolazioni
oggetto di cofinanziamento Ue finalizzate alla realizzazione
di investimenti produttivi. Tali norme stabiliscono che le
p.a. procedenti, in sede di concessione delle agevolazioni,
sono tenute a verificare «anche per il tramite di eventuali
gestori pubblici o privati dell'intervento interessato» la
regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo
d'ufficio il Durc.
Pertanto, spiega l'Inail, le p.a. e gli
altri gestori pubblici e privati tenuti ad acquisire
d'ufficio il Durc, qualora non già in possesso dell'utenza
per accedere al servizio di richiesta dei certificati in
www.sportellounicoprevidenziale.it, devono richiedere
l'abilitazione tramite Pec a una sede Inail, Inps o cassa
edile, allegando copia della convenzione o contratto con
l'amministrazione pubblica procedente nel caso di gestori.
In tal caso, il Durc ha validità di 120 giorni dalla data di
rilascio
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013). |
VARI: LA RIFORMA FORENSE/
Dalle società all'assicurazione. Per gli avvocati tutto
congelato. Dopo otto mesi la legge n. 247/2012 è ancora inattuata. E la
professione è in declino.
La riforma forense ha fermato le lancette dell'orologio per
gli avvocati. Dalle società tra professionisti fino
all'assicurazione obbligatoria, infatti, le nuove regole che
hanno riformato tutte le professioni, non hanno scalfito
quella legale, protetta dalla legge n. 247/2012. Risultato:
l'attuazione della riforma, a otto mesi dalla sua entrata in
vigore, è ancora ferma al palo.
Dei quasi 40 regolamenti
attuativi, infatti, ne sono stati approvati cinque, tutti
dal Consiglio nazionale forense: lo sportello del cittadino,
l'elenco delle associazioni specialistiche e, da ultimo,
l'osservatorio permanente sull'esercizio della giurisdizione
e i consigli distrettuali di disciplina. Insomma, tutti
interventi che di certo non risolvono i problemi di una
professione in costante crescita esponenziale e con redditi
ancorati al 1990 (si veda inchiesta di ItaliaOggi Sette del
23 settembre scorso).
In stand-by ci sono materie come
tirocinio, esame di stato, assicurazione obbligatoria,
società professionali, specializzazioni. Tutte di competenza
del ministero della giustizia, è vero, ma che almeno in
parte sarebbero potute entrare in vigore un anno fa e ad
agosto scorso, attraverso il dpr n. 137/2012. Insomma,
l'unico effetto pratico della riforma forense, fino adesso,
è stato di fatto quello di bloccare lo sviluppo della
professione.
Emblematico il caso del decreto parametri, che
è stato appena inviato dal ministero della giustizia al
Consiglio di stato e al Cnf per i relativi pareri e che, con
tutta probabilità, entrerà in vigore con un anno di ritardo
rispetto ai correttivi approvati per tutte le altre
professioni. Con ulteriori perdite per gli avvocati ai quali
da un anno a questa parte vengono liquidate le parcelle del
dm 140/2012, che lo stesso ministero della giustizia ha
riconosciuto essere troppo basse.
L'attuazione della riforma forense. I regolamenti di
attuazione della legge n. 247/2012, entrata in vigore il 02.02.2012, sono in tutto 39: 16 di potestà normativa del Cnf, 5 dei Coa, 15 demandati a decreti ministeriali e 3
deleghe al governo. Il Cnf, come detto, ne ha approvati
cinque, mentre il decreto parametri è a metà del guado. Per
il resto, è tutto fermo. A partire dalla delega legislativa
per la disciplina dell'esercizio in forma societaria della
professione forense, scaduta ad agosto. A oggi, quindi gli
avvocati, a differenza di tutte le altre professioni, non
hanno una disciplina aggiornata per lo sviluppo della forma
associativa, che, in tempi di crisi, è l'unica molla per
sopravvivere sul mercato.
Altro punto nodale, per lo
sviluppo della professione, è quello delle specializzazioni.
Il Cnf ha emanato il regolamento per l'elenco delle
associazioni specialistiche. Ma manca quello sulle
specializzazioni, demandato al governo. Al palo anche il
nuovo tirocinio, i corsi di formazione per l'accesso alla
professione, l'esame di stato. E quello sulla contribuzione
dei 56 mila avvocati confluiti in Cassa forense dopo
l'approvazione della riforma forense. Al Cnf, invece, è
demandata l'approvazione del codice deontologico entro
febbraio 2014, il regolamento sulla formazione continua,
l'istituzione e l'organizzazione delle scuole forensi.
Il parere dei giovani. Secondo Dario Greco, presidente dei
giovani avvocati dell'Aiga, l'unica vera novità portata
dalla riforma forense è «la vessazione dei giovani avvocati,
che sono gli unici sottoposti a formazione permanente
obbligatoria mentre i colleghi più anziani sono esonerati.
Per il resto, è cambiato poco, siamo in attesa dei nuovi
parametri e speriamo vengano rapidamente approvati. Certo, a
novembre 2012 avevamo ottenuto un impegno da parte del
ministro Severino, che poi non si è tradotto in decreto
ministeriale per volere del Cnf».
«Da sottolineare poi che è
stato approvato il regolamento sulle associazioni
specialistiche ma non quello sulle specializzazioni da parte
del ministero. A suo tempo, però, eravamo già convinti che
questa legge non avrebbe risolto i problemi della categoria.
Per rilanciarsi, gli avvocati hanno bisogno delle nuove
norme sulle specializzazioni, purché non vengano intese come
rendite di posizione per gli avvocati anziani. Non parlo dei
titoli di specialista, amministrativista e via dicendo, ma
della necessità, per i giovani di specializzarsi in qualcosa
di nuovo, come può essere il diritto europeo o le materie
interdisciplinari».
I regolamenti approvati. Da ultimo, il Cnf
ha approvato le bozze di due regolamenti: quello che
istituisce l'Osservatorio permanente sull'esercizio della
giurisdizione e quello che disciplina il nuovo procedimento
disciplinare. L'Osservatorio è uno strumento a disposizione
dell'avvocatura per la raccolta di dati e informazioni,
attinenti il sistema giustizia. Alla raccolta dei dati
seguirà la predisposizione di indagini, analisi ed
elaborazioni dei risultati, obiettivi e completi,
trasparenti e affidabili.
La bozza di regolamento sul procedimento disciplinare si
aggiunge invece a quella attinente alle norme per la
elezione dei componenti dei consigli distrettuali di
disciplina, approvata a fine luglio e inviata agli ordini
che dovranno esprimersi entro il 15 novembre
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, ecco la platea del Sistri.
Doppi oneri per chi tratta gli scarti generandone di nuovi.
Con circolare del ministero
dell'ambiente chiariti diversi aspetti del dl 101/2013.
Fuori dal Sistri i produttori iniziali di rifiuti pericolosi
non organizzati in enti o imprese. Ma doppio obbligo di
iscrizione (e di pagamento dei relativi contributi) per i
nuovi produttori, ossia le imprese di gestione dei beni a
fine vita che trattando rifiuti pericolosi ne creano di
nuovi e diversi.
Con
circolare 01.10.2013, diramata
nella sua versione definitiva solo il giorno della partenza
operativa del nuovo sistema di tracciamento telematico dei
rifiuti, il minambiente ha offerto i primi chiarimenti sulla
platea dei soggetti interessati dai nuovi adempimenti alla
luce delle ultime novità in materia recate dal dl 101/2013 (in
corso di conversione in legge) mediante la riformulazione
del dlgs 152/2006 (Codice ambientale).
L'atto interpretativo
cerca di fare luce sia sul primo scaglione dei soggetti
coinvolti dal Sistri (sostanzialmente trasportatori e
gestori di impianti, obbligati dal 01.10.2013) sia su
quello che dovrà attivarsi nella seconda fase (produttori di
rifiuti e operatori della regione Campania, in pista dal 03.03.2014).
Produttori iniziali di rifiuti pericolosi. In base al dlgs
152/2006 (come riformulato dal dl 101/2013) sono obbligati ad
aderire al Sistri i «produttori iniziali di rifiuti
pericolosi». Per il ministero sono tali i soggetti che
producono esclusivamente rifiuti speciali (dunque, non
urbani) pericolosi come conseguenza della loro «primaria
attività professionale», comprese le imprese che trasportano
quelli da loro stesse prodotti ex articolo 212, comma 8, del dlgs 152/2006 (ossia, in piccole quantità) iscritte all'Albo
gestori ambientali. Per tali soggetti, l'obbligo di adesione
scatta solo il 03.03.2014, anche in relazione alle
operazioni di deposito temporaneo e stoccaggio nel luogo di
produzione così come per il citato trasporto dei propri
rifiuti.
A parere del ministero, sono invece da considerarsi
esclusi dall'obbligo Sistri i produttori di rifiuti che non
sono organizzati in enti o imprese. Ciò in quanto in base
all'articolo 190, comma 8, del dlgs 152/2006 (nella versione
modificata dal 205/2010, in vigore solo dal 02.11.2013,
ndr) «i produttori di rifiuti pericolosi che non sono
inquadrati in un'organizzazione di ente o impresa sono
soggetti all'obbligo della tenuta del registro di carico e
scarico e vi adempiono attraverso la conservazione in ordine
cronologico delle copie delle schede del sistema di
controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri)».
Dunque,
basterà loro conservare le copie loro rilasciate dal
trasportatore cui conferiscono i rifiuti. Ancora per il minambiente, salve le eccezioni stabilite per la regione
Campania, sono altresì fuori dall'obbligo Sistri i
produttori di rifiuti urbani, ancorché pericolosi. Ciò in
quanto, avverte l'ufficio, l'articolo 11, comma 3, del dl
101/2013 in relazione ai rifiuti urbani limita l'obbligo
Sistri ai comuni e imprese di trasporto del territorio della
regione Campania.
Raccoglitori e trasportatori. Sempre in base al Codice
ambientale sono tenuti al Sistri (dallo scorso 01.10.2013) gli enti o imprese che raccolgono o trasportano
rifiuti pericolosi a titolo professionale. Per il dicastero
sono tali i soggetti che, salve le eccezioni previste per la
regione Campania, raccolgono o trasportano soli rifiuti
speciali (quindi, ancora una volta, non urbani).
In
relazione al trasporto, sottolinea l'Ambiente, sono tenuti
al Sistri i soli soggetti che movimentano rifiuti pericolosi
prodotti da terzi; e ciò indifferentemente se vettori
nazionali e stranieri: l'obbligo scatta comunque per chi
effettua, a titolo professionale, trasporti all'interno del
territorio nazionale o in partenza da questo verso stati
esteri (trasporto transfrontaliero).
Gestori di rifiuti. Ancora in base al dlgs 152/2006 (come
riformulato dal dl 101/2013) sono obbligati al Sistri gli enti
o le imprese che effettuano operazioni di trattamento,
recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di
rifiuti pericolosi. Il dicastero sottolinea che l'attività
di commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi è qui
riferita sia ai rifiuti speciali che agli urbani.
Nuovi produttori di rifiuti pericolosi. Per il ministero
sono tali i soggetti che sottopongono i rifiuti pericolosi
ad attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti
diversi da quelli trattati, per natura o composizione. Tali
soggetti (e qui si comprende la logica di tale lettura) sono
di conseguenza tenuti ad iscriversi al Sistri sia nella
categoria «gestori» che in quella dei «produttori» ed a
versare il contributo per ciascuna categoria di appartenenza
in virtù di quanto disposto dal dm 52/2011 (T.u. Sistri
emanato in attuazione del dlgs 152/2006).
Regione Campania. Sono obbligati al Sistri comuni e imprese
di trasporto dei rifiuti urbani del territorio della regione
Campania. Per il minambiente il tenore della disposizione
(articolo 11, comma 3, del dl 101/2013) è tale da
circoscrivere l'obbligo ai soli soggetti così
territorialmente individuati.
Coordinamento tra soggetti Sistri e soggetti non Sistri.
Fino al 03.03.2014, data di partenza del Sistri anche per
i produttori iniziali di rifiuti pericolosi, si verificherà
inevitabilmente un disallineamento di gestione del flusso di
informazioni tra questi e gli altri soggetti della filiera
che già utilizzano il Sistri (dal 01.10.2013). Perciò,
chiarisce il ministero con la circolare in parola, nei
rapporti tra produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi che non aderiscono preventivamente (su base
volontaria) al Sistri e i trasportatori e gestori di rifiuti
«già Sistri» si devono applicare le regole di coordinamento
generali ex articolo 14, dm 52/2011.
Ciò comporta che: i
citati produttori di rifiuti (non Sistri) devono comunicare
ai trasportatori (Sistri) i dati necessari per la
compilazione della scheda di movimentazione (la versione
Sistri dello storico formulario di trasporto), firmarne le
copie stampate e conservarne una controfirmata per cinque
anni; i trasportatori di rifiuti non Sistri (evidentemente
quelli che movimentano propri rifiuti) devono comunque
utilizzare il tradizionale formulario di trasporto ex dlgs
152/2006; i gestori (Sistri) degli impianti che ricevono i
rifiuti devono stampare e trasmettere ai produttori di cui
sopra la scheda di movimentazione completa (al fine di
attestare l'assolvimento degli obblighi di corretta gestione
dei rifiuti), e se ricevono i rifiuti da trasportatori con
formulario devono riportarne il codice nel campo
«Annotazioni» della propria registrazione cronologica.
L'adesione volontaria. Il ministero ricorda che nella logica
del dlgs 152/2006 (come riscritto dal citato dl 101/13) non
sono obbligati ad aderire al Sistri: i produttori iniziali
di rifiuti non pericolosi; gli enti e le imprese che
effettuano attività di gestione dei rifiuti non pericolosi;
i trasportatori di rifiuti urbani del territorio di regioni
diverse dalla Campania. Tali soggetti, avverte l'ufficio,
possono aderire su base volontaria in qualsiasi momento,
così come poi tornare in qualsiasi momento al sistema
cartaceo.
Le novità in arrivo. A pronunciare le prossime parole sul
Sistri sarà la legge di conversione del dl 101/2013, attesa
entro la fine del mese di ottobre. Legge con la quale,
annuncia il minambiente nella circolare 01.10.2013,
potrà arrivare un ampliamento del periodo «doppio binario»
(attualmente della durata di un mese dallo scattare dei
termini di operatività del Sistri), periodo nel corso del
quale si deve adempiere anche agli obblighi di tracciamento
tradizionale dei rifiuti (con registri e formulario) e non
trovano applicazione le sanzioni per la violazione dei nuovi
obblighi (periodo in scadenza, in relazione alle diverse
platee dei soggetti obbligati, rispettivamente il 01.11.2013 ed il
03.04.2014).
A tutela degli operatori impegnati nell'uso di chiavette usb
e black box (per comunicare i dati dei rifiuti gestiti al
server dello Stato e tracciarne con il satellite il
trasporto), lo ricordiamo, vige comunque l'istituto del
ravvedimento operoso previsto dall'articolo 260-bis del Dlgs
152/2006, istituto in base al quale «non risponde delle
violazioni amministrative (ndr: relative al Sistri) chi,
entro 30 giorni dalla commissione del fatto, adempie agli
obblighi previsti dalla normativa relativa al sistema
informatico di controllo (_)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
CONDOMINIO: Impianti termici, rischio caos.
L'adeguamento può essere bloccato dall'assemblea.
Gli effetti del dpr n. 74/2013: il soggetto
responsabile è comunque l'amministratore.
Adeguamento degli impianti termici: rischio paralisi per il
condominio con responsabilità a carico dell'amministratore.
Secondo le nuove regole introdotte dal dpr n. 74/2013, in
vigore dal 12 luglio scorso, ove l'assemblea condominiale
non deliberi di stanziare i fondi per gli interventi
necessari all'efficienza dell'impianto di riscaldamento, non
potrà essere fornita alcuna delega all'esterno e l'eventuale
soggetto terzo responsabile già nominato decadrà
automaticamente dall'incarico, essendo altresì tenuto a
darne pronta comunicazione alla regione, provocando l'avvio
della relativa attività di controllo.
In casi del genere
l'amministratore condominiale rischia quindi di rimanere con
il cerino in mano, in quanto soggetto per legge responsabile
della gestione dell'impianto comune. La situazione appena
descritta potrebbe poi risultare ulteriormente aggravata ove
si dovesse interpretare in maniera restrittiva la nuova
disposizione in tema di opere di manutenzione straordinaria
introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del
condominio, essendo a quel punto necessario addirittura
precostituire un fondo speciale prima di avviare i lavori.
Chi è onerato della responsabilità. In ambito condominiale
il responsabile dell'impianto termico è per legge
l'amministratore, trattandosi di uno dei beni comuni dei
quali si compone il condominio. All'amministratore spetta
quindi ordinariamente l'esercizio, la conduzione, il
controllo, la manutenzione e il rispetto delle disposizioni
di legge. Ciò significa che quest'ultimo deve adoperarsi
affinché l'impianto termico centralizzato sia sempre ben
funzionante, garantendone il corretto esercizio e la
doverosa manutenzione. Tuttavia, sul piano pratico, si deve
rilevare come la complessità tecnica delle operazioni
necessarie per intervenire sull'impianto comune costringa
l'assemblea a delegarne l'esercizio e la manutenzione a un
soggetto terzo responsabile dotato delle necessarie
competenze tecniche.
Il dpr n. 74/2013 prevede che in caso di impianti non
conformi alle disposizioni di legge la delega non possa
essere rilasciata, salvo che sia contestualmente conferito
al terzo responsabile l'incarico di procedere alla messa a
norma dell'impianto. Il delegante deve inoltre porre in
essere ogni atto, fatto o comportamento necessario a che il
terzo responsabile possa adempiere agli obblighi previsti
dalla legge e garantire la copertura finanziaria per
l'esecuzione dei necessari interventi nei tempi concordati.
Negli edifici in condominio il decreto prevede che detta
garanzia debba essere fornita con apposita delibera
dell'assemblea dei condomini. In tale ipotesi, sempre
secondo quanto disposto dal dpr, la responsabilità degli
impianti resta in carico all'amministratore, fino alla
comunicazione dell'avvenuto completamento degli interventi
necessari, da inviarsi per iscritto da parte del delegato
entro e non oltre cinque giorni dal termine dei lavori.
Nel caso in cui la necessità di intervenire sull'impianto
sorga soltanto una volta rilasciata la delega, il terzo
responsabile è tenuto a farne tempestivamente comunicazione
in forma scritta al delegante e, in ambito condominiale,
l'amministratore deve espressamente autorizzare il terzo
responsabile, previa apposita delibera condominiale, a
effettuare i predetti interventi entro il termine davvero
brevissimo di dieci giorni dalla comunicazione di cui sopra,
facendosi carico dei relativi costi. In assenza della
delibera condominiale, la delega del terzo responsabile
decade automaticamente e quest'ultimo è tenuto a farne
pronta segnalazione alla regione o alla provincia autonoma
competente per territorio.
La situazione potrebbe poi diventare letteralmente esplosiva
ove si ritenesse di interpretare la disposizione di cui
all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. come obbligo di
precostituire un fondo speciale di importo pari
all'ammontare dei lavori.
Chi è il soggetto terzo responsabile dell'impianto. Il terzo
responsabile è il soggetto che, in possesso dei requisiti
previsti dalle normative vigenti e comunque di capacità
tecnica, economica e organizzativa adeguata al numero, alla
potenza e alla complessità degli impianti gestiti, può
essere delegato dal soggetto che per legge è responsabile
dell'impianto termico (nel caso del condominio, come detto,
l'amministratore) ad assumere la responsabilità
dell'esercizio, della conduzione, del controllo, della
manutenzione e dell'adozione delle misure necessarie al
contenimento dei consumi energetici.
Bisogna precisare che, come previsto dalla nuova normativa,
per l'atto di assunzione di responsabilità da parte del
terzo è richiesto un contratto scritto che gli impone per
legge di non delegare ad altri le responsabilità assunte,
potendo ricorrere solo occasionalmente al subappalto o
all'affidamento di alcune attività di sua competenza. Quanto
sopra dovrebbe porre un freno a situazioni di subappalto
diffuso da parte di grandi imprese di servizi di
manutenzione che delegavano a terzi le attività di
manutenzione ordinaria e, talvolta, anche il ruolo di terzo
responsabile, con conseguente elusione dell'obbligo vigente
per il manutentore di possedere le certificazioni di qualità
previste dalla legge. In ogni caso non può essere conferito
tale incarico a colui che sia anche venditore di energia per
il medesimo impianto o a società a qualsiasi titolo legate
alla vendita
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Spese di lite compensate, niente incentivi al legale.
Ragioneria generale. Se l'avvocato
interno vince la causa.
La Ragioneria generale dello Stato (par. 04.09.2013)
fornisce importanti chiarimenti sul rapporto tra limiti di
finanza pubblica e compensi professionali per i legali
interni, prevedendo l'erogazione di questi ultimi solo in
caso di cause vinte con spese a carico della controparte.
Il quesito rivolto alla Ragioneria (Rgs) concerne
l'assoggettamento o meno degli incentivi professionali ex
articolo 27 del Ccnl 14.09.2000 al tetto di spesa di
personale e di contenimento degli oneri derivanti dalla
contrattazione integrativa ex articolo 1, comma 557, della
legge 296/2006 (e successive modifiche e integrazioni),
anche riguardo alla parte finanziata direttamente con
risorse di bilancio dell'ente, tenuto conto che questi
compensi risultano esclusi dal blocco ex articolo 9, comma
2-bis, del 78/2010.
Il dubbio posto all'attenzione della Rgs riguarda la
possibilità di erogare, in deroga ai limiti di finanza
pubblica in materia di spesa di personale, gli incentivi ai
legali interni anche in caso di sentenze favorevoli con
compensazione di spese. In caso di vittoria con condanna
alle spese, difatti, il problema non si pone, poiché il
finanziamento degli incentivi è a carico della controparte
soccombente.
Regolamento necessario
Si ricorda che l'articolo 27 del Ccnl 14.09.2000
prevede, per gli enti locali, l'adozione di discipline
specifiche sia per i compensi professionali per l'avvocatura
(con regolamento e secondo i principi di cui al Rd
1578/1933) sia per la correlazione tra questi e la
retribuzione di risultato (materia di contrattazione
decentrata). La regolamentazione da parte dell'ente è
condizione necessaria per il riconoscimento degli incentivi,
in analogia con quanto accade per l'Avvocatura dello Stato,
riguardo alla quale l'articolo 21, comma 2, del Rd 1611/1933
dispone che «nei casi di pronunciata compensazione di spese
in cause nelle quali le Amministrazioni stesse non siano
rimaste soccombenti, sarà corrisposta dall'Erario
all'Avvocatura dello Stato, con le modalità stabilite dal
regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di
procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del
soccombente».
Richiamando la circolare Rgs 9/2006 e alcune pronunce della
Corte dei conti (sezione Umbria 2/2012 e sezioni riunite 56/contr/2011),
e rimarcando che l'articolo 1, comma 208 della legge
266/2005 prevede che le somme destinate alla corresponsione
di questi compensi sono da considerare comprensive degli
oneri riflessi a carico del datore di lavoro, la Ragioneria
generale dello Stato chiarisce che solo gli emolumenti
derivanti da cause con vittoria e spese a carico della
controparte risultano esclusi dai tetti, poiché si tratta di
spese di personale totalmente a carico di finanziamenti
esterni, senza alcun aggravio per il bilancio dell'ente e
per i relativi equilibri.
Viceversa, i compensi dovuti a seguito di sentenze
favorevoli con spese compensate, trovando copertura nelle
risorse proprie dell'ente e costituendo, perciò, un
effettivo aggravio di spesa, non rispettano la condizione
essenziale per l'esclusione, vale a dire il cosiddetto
etero-finanziamento, rientrando dunque fra le componenti
rilevanti ai fini dei limiti ex comma 557 e articolo 9,
comma 2-bis. In questo caso, difatti, la fonte di
finanziamento non può che incidere direttamente sugli
equilibri di bilancio dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.10.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Non v’è dubbio come la pensilina per cui è causa,
per le sue caratteristiche e la sua notevole consistenza (50
mq. di superficie - 0,70 mt. di spessore - 4,50 mt. di
altezza – posizionata a mt. 1,20 dal fabbricato
retrostante), determini oggettivamente una significativa
alterazione del territorio, tale da escluderne la natura
pertinenziale in senso edilizio.
Ne consegue che la pensilina per cui è causa deve essere
considerata una “nuova opera”, come tale certamente
sottoposta al regime delle distanze tra fabbricati, di cui
alla richiamata disciplina urbanistico-edilizia comunale.
---------------
Perché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze
in senso edilizio deve assumere un rilievo oggettivamente
marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante
alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale,
invero, non sono necessariamente tali ai fini
dell'applicazione delle regole proprie dell'attività
edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito
edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non
solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo
valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni
dello stesso, tali da non alterare in modo significativo
l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato.
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la
Sezione a ribadire, anche di recente, che laddove una
tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi
tale ex se da alterare in modo significativo l'assetto del
territorio, essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro
bene (c.d. principale) e sia in potenza facilmente
smontabile, si sottrae per ciò solo ad una definizione in
termini di pertinenza, restando di conseguenza soggetta al
regime concessorio proprio delle nuove costruzioni.
Deduce il Comune appellante l’erroneità della gravata
sentenza in quanto:
- la classificazione della pensilina quale “pertinenza”
sarebbe del tutto irrilevante, posto che la riconduzione
della fattispecie al regime autorizzatorio, piuttosto che a
quello concessorio, avrebbe conseguenze solo sul regime
sanzionatorio dell’abuso edilizio e non sul provvedimento di
diniego di sanatoria del manufatto, emesso a causa della sua
difformità dal regime delle distanze fissato dalla
disciplina urbanistica di zona;
- in ogni caso, per le sue rilevanti dimensioni (50 mq di
superficie - 4,50 mt. di altezza - 0,70 mt. di spessore), la
pensilina non avrebbe potuto considerarsi pertinenza, bensì
una nuova costruzione a tutti gli effetti soggetta, come
tale, al regime giuridico proprio di tali interventi
edilizi;
- erroneamente, quindi, il Tar avrebbe accolto il primo
ricorso non ritenendo nella specie applicabile il regime
delle distanze, ed accolto il secondo relativo all’ordine di
demolizione in ragione dei vizi dedotti in via derivata.
I rilievi sono fondati.
Osserva, preliminarmente, il Collegio come la riconduzione
dell’opera nell’ambito del regime concessorio o
autorizzatorio (quale nuova costruzione o pertinenza) non
sia essenziale ai fini della decisione, quantomeno con
riferimento al primo dei ricorsi (diniego di sanatoria).
Infatti, come correttamente dedotto dal Comune appellante,
la declaratoria di rigetto dell’istanza di sanatoria si
fonda sul mancato rispetto della disciplina urbanistica
della zona 14 H in tema di distanze tra manufatti che, in
linea di principio, deve essere osservata indipendentemente
dalla natura pertinenziale o meno dell’intervento edilizio.
Ciò premesso, va comunque rilevato come nella specie la
pensilina per cui è causa rientri oggettivamente, in ragione
delle sue caratteristiche e dimensioni, nel novero delle “nuove
costruzioni” e non in quello delle “pertinenze”,
con conseguente necessaria applicazione ad essa della
disciplina in materia di distanze.
Infatti, come costantemente affermato dalla giurisprudenza
anche della Sezione, perché un’opera possa rientrare nel
regime delle pertinenze in senso edilizio deve assumere un
rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una
pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale,
invero, non sono necessariamente tali ai fini
dell'applicazione delle regole proprie dell'attività
edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito
edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non
solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo
valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni
dello stesso, tali da non alterare in modo significativo
l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 11.06.2013 n. 3221).
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la
Sezione a ribadire, anche di recente, che laddove una
tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi
tale ex se da alterare in modo significativo
l'assetto del territorio, essa, quand’anche si trovi in
rapporto con altro bene (c.d. principale) e sia in potenza
facilmente smontabile, si sottrae per ciò solo ad una
definizione in termini di pertinenza, restando di
conseguenza soggetta al regime concessorio proprio delle
nuove costruzioni (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19.07.2013 n.
3939).
Ciò posto, non v’è dubbio come la pensilina per cui è causa,
per le sue caratteristiche e la sua notevole consistenza (50
mq. di superficie - 0,70 mt. di spessore - 4,50 mt. di
altezza – posizionata a mt. 1,20 dal fabbricato
retrostante), determini oggettivamente una significativa
alterazione del territorio, tale da escluderne la natura
pertinenziale in senso edilizio.
E ciò ancor più, se la si rapporta con il bene c.d.
principale (il distributore di carburanti cui accede),
rispetto al quale assume una consistenza tutt’altro che
marginale, se non pressoché paritaria.
Ne consegue, in definitiva, che la pensilina per cui è
causa, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice,
deve essere considerata una “nuova opera”, come tale
certamente sottoposta al regime delle distanze tra
fabbricati, di cui alla richiamata disciplina
urbanistico-edilizia comunale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2013 n. 4997 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha
significato più circoscritto.
I giudici del Consiglio di Stato confermano nella sentenza
in commento che, perché un’opera possa rientrare nel regime
delle pertinenze in senso edilizio deve assumere un rilievo
oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché
irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale,
invero, non sono necessariamente tali ai fini
dell'applicazione delle regole proprie dell'attività
edilizia. In altri termini, la nozione di pertinenza in
ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si
fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di
autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte
dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo
significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico
urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve
essere peraltro dimostrata dall'interessato.
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la
quinta Sezione del Consiglio di Stato a ribadire, anche di
recente, che laddove una tettoia sia di consistenza
oggettivamente notevole e quindi tale ex se da
alterare in modo significativo l'assetto del territorio,
essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro bene (c.d.
principale) e sia in potenza facilmente smontabile, si
sottrae per ciò solo ad una definizione in termini di
pertinenza, restando di conseguenza soggetta al regime
concessorio proprio delle nuove costruzioni (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 19.07.2013 n. 3939).
Ciò premesso, in questa occasione i giudici di Palazzo Spada
hanno stabilito che la pensilina di cui si discuteva rientri
oggettivamente, in ragione delle sue caratteristiche e
dimensioni, nel novero delle “nuove costruzioni” e non in
quello delle “pertinenze”, con conseguente necessaria
applicazione ad essa della disciplina in materia di distanze
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2013 n. 4997 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La consegna del certificato di abitabilità dell’immobile
oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da
adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé
condizione di validità della compravendita, integra
un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art.
1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa
venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire
legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto.
1. La consegna del certificato di abitabilità
dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un
appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo
di per sé condizione di validità della compravendita,
integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi
dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale
della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di
adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente
previsto
2. Nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la
licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il
bene in relazione alla sua capacità di assolvere la
determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi,
di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il
compratore ad effettuare l’acquisto.
Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità
implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare
necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può
comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile
anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta
problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante
la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei
precedenti proprietari
2.1. – Il motivo è fondato.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che la consegna del
certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del
contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad
abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di
validità della compravendita, integra un’obbligazione
incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c.,
attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in
quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente
la stessa all’uso contrattualmente previsto (così, Cass. n.
16216/2008, la quale, applicando detto principio, ha
confermato la sentenza dei giudici di merito che, tenuto
conto che non era stato stipulato l’atto definitivo di
compravendita, non essendo stato ancora ottenuto dal
costruttore il certificato di abitabilità, avevano ritenuto
giustificata la sospensione da parte del promittente
acquirente del pagamento dei ratei di mutuo, quale legittimo
esercizio della facoltà di autotutela di cui all’art. 1460
c.c.).
Ne deriva che nella vendita di immobili destinati ad
abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che
caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di
assolvere la determinata funzione economico-sociale
negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che
hanno indotto il compratore ad effettuare l’acquisto.
Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità
implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare
necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può
comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile
anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta
problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante
la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei
precedenti proprietari (cfr. Cass. n. 9253/2006).
2.1.1. – La Corte territoriale ha disatteso tale indirizzo,
e nell’escludere il danno emergente per la conformità del
costruito al consentito, non ha tenuto conto che sul
venditore-costruttore incombe l’obbligo non solo di
trasferire all’acquirente un fabbricato conforme all’atto
amministrativo d’assenso della costruzione e, dunque, idoneo
ad ottenere l’agibilità prevista, ma anche di consegnargli
il relativo certificato. I giudici d’appello, in altri
termini, non hanno considerato che il venditore-costruttore
deve curare la richiesta e sostenere le spese necessarie a
conseguire il certificato di agibilità, e che il non averlo
fatto costituisce un inadempimento ex se foriero di danno
emergente, perché costringe l’acquirente a provvedere in
proprio ovvero a ritenere l’immobile tal quale, cioè con un
valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente
avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia
alienato o comunque destinato all’alienazione a terzi.
3. – Per quanto sopra, la sentenza impugnata va cassata in
relazione al motivo accolto con rinvio ad altra sezione
della Corte d’appello di Catania, che nel decidere il merito
si atterrà al seguente principio di diritto: “il
venditore-costruttore di un bene immobile ha l’obbligo non
solo di trasferire all’acquirente un fabbricato conforme
all’atto amministrativo d’assenso della costruzione e,
dunque, idoneo ad ottenere l’agibilità prevista, ma anche di
consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta
e sostenendo le spese necessarie al rilascio.
L’inadempimento di quest’ultima obbligazione è ex se foriero
di danno emergente, perché costringe l’acquirente a
provvedere in proprio ovvero a ritenere l’immobile tal
quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che
esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza
che il bene sia alienato o comunque destinato
all’alienazione a terzi” (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.10.2013 n. 23157 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Venditore-costruttore di un immobile - Assenza
del certificato di agibilità - Inadempimento - Risarcimento
del danno emergente.
Il venditore-costruttore di un bene immobile ha l'obbligo
non solo di trasferire all'acquirente un fabbricato conforme
all'atto amministrativo d'assenso della costruzione e,
dunque, idoneo ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di
consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta
e sostenendo le spese necessarie al rilascio.
L'inadempimento di quest'ultima obbligazione è ex se
foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a
provvedere in proprio ovvero a ritenere l'immobile tal
quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che
esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza
che il bene sia alienato o comunque destinato
all'alienazione a terzi".
Vendita di immobile destinato ad
abitazione - Mancanza del certificato di agibilità -
Risarcimento del danno.
Nel caso di vendita di immobile destinato ad abitazione, la
mancanza del certificato di agibilità configura un'ipotesi
di vendita aliud pro alio, che incide sull'attitudine
del bene ad assolvere la sua funzione economico-sociale e
sulla relativa commerciabilità, di guisa che anche nel caso
in cui il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune, il
venditore è tenuto al risarcimento del danno.
Certificato di abitabilità - Assenza -
Inadempimento - Sospensione da parte del promittente
acquirente del pagamento - Artt. 1460 e 1477 c.c..
La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile
oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da
adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé
condizione di validità della compravendita, integra
un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art.
1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa
venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire
legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto
(Cass. n. 16216/2008, la quale, applicando detto principio,
ha confermato la sentenza dei giudici di merito che, tenuto
conto che non era stato stipulato l'atto definitivo di
compravendita, non essendo stato ancora ottenuto dal
costruttore il certificato di abitabilità, avevano ritenuto
giustificata la sospensione da parte del promittente
acquirente del pagamento dei ratei di mutuo, quale legittimo
esercizio della facoltà di autotutela di cui all'art. 1460
c.c.).
Ne deriva che nella vendita di immobili destinati ad
abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che
caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di
assolvere la determinata funzione economico-sociale
negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che
hanno indotto il compratore ad effettuare l'acquisto.
Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità
implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare
necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può
comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile
anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta
problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante
la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei
precedenti proprietari (Cass. n. 9253/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.10.2013 n. 23157 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Transazioni.
Quando manca il documento di agibilità possibile sospendere
i pagamenti.
Indennizzo se non c'è il certificato.
Venditori e acquirenti si fronteggiano quando manca il
certificato di agibilità, ma prevalgono questi ultimi.
È la conclusione cui giunge la Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza
11.10.2013 n.
23157, che ha esaminato il caso di un'abitazione
carente del certificato di agibilità. La consegna del
certificato, pur non costituendo una condizione di validità
della compravendita, è un obbligo del venditore, perché
dimostra un requisito essenziale della cosa venduta. Per
questo motivo, se il contratto non è stato ancora concluso,
chi ha promesso di comprare può sospendere il pagamento.
Se
invece la vendita è avvenuta, il certificato di agibilità è
un elemento che dimostra la capacità del bene di soddisfare
l'esigenza abitativa. Da ciò deriva che la mancata consegna
del certificato genera un inadempimento che può essere fonte
di un danno risarcibile. Se infatti l'unità immobiliare può
ottenere l'agibilità ma, per vari motivi (inerzia del
Comune, lieve difformità) il certificato manca, non
necessariamente vi è risoluzione del contratto perché il
venditore può dimostrare l'agevole ottenimento del
certificato stesso.
Tuttavia, anche se il contratto di
compravendita non si risolve, c'è comunque un danno
risarcibile perché sussistono problemi di commerciabilità e
si costringe l'acquirente a provvedere in proprio a tutte le
spese necessarie a conseguire il certificato predetto. In
ogni caso, l'unità priva di certificato di agibilità ha un
valore di scambio inferiore a quello che avrebbe se fosse
corredato dal documento specifico. Sul venditore grava
quindi l'onere non solo di trasferire un fabbricato conforme
all'atto amministrativo e quindi idoneo a ottenere
l'agibilità, ma anche di consegnare il relativo documento.
Questo principio mantiene validità anche all'indomani delle
norme del decreto del fare, che snelliscono il rilascio del
certificato: l'articolo 30 del decreto legge 69/2013 prevede
che l'agibilità possa essere ottenuta per singoli edifici
purché vi sia l'urbanizzazione primaria e i collaudi degli
impianti relativi alle parti comuni; anche singole unità
possono ottenere l'agibilità se hanno opere strutturali
completate e collaudate, impianti certificati e
urbanizzazione primaria funzionale all'edificio già
completata.
Il principio espresso dalla Cassazione resta comunque valido
in quanto riguarda l'agibilità finale, cioè quella
successiva e globale rispetto all'agibilità parziale, che è
agevolata dal decreto legge 69/2013 ma non sostituisce
l'agibilità complessiva finale
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Immobili abusivi, sì all'asta.
Ma la regolarizzazione può avvenire solo con doppia
conformità. Cassazione. La vendita
può avvenire e chi acquista avrà l'onere di procedere a
sanatoria entro 120 giorni
IL PROBLEMA/ Necessario avvisare i possibili acquirenti In
caso contrario c'è spazio per chiedere l'annullamento
Anche un immobile abusivo può essere trasferito, qualora vi
sia una procedura di vendita forzata per debiti
(espropriazione immobiliare).
Lo sottolinea la Corte di Cassazione con la sentenza
11.10.2013 n. 23140, precisando che chi compra all'asta avrà
l'onere di provvedere alla sanatoria entro 120 giorni dal
decreto di aggiudicazione.
Il caso esaminato riguardava un appartamento posto all'asta
per soddisfare i creditori, bene che, per una migliore
liquidazione, era stato suddiviso in più unità. Secondo i
debitori, la vendita all'asta era nulla, perché le norme
urbanistiche non consentivano tale frazionamento, ma la
Cassazione ha escluso che il frazionamento incidesse sulla
possibilità di trasferire il bene.
La norma applicabile è
l'articolo 46 del Testo unico edilizia (Dpr 380/2001), che
definisce “nulli” tutti i trasferimenti aventi a oggetto
immobili abusivi costruiti dopo il 17.03.1985. Questo
limite alla commercializzazione si somma alle sanzioni
amministrative (demolizione) e penali (multa, reclusione),
ma presuppone un trasferimento di tipo commerciale. Per tale
motivo la nullità del trasferimento non opera quando vi è
una vendita attraverso un'asta giudiziaria, cioè quando si
trasferisce il bene nell'ambito di una procedura esecutiva.
Poiché occorre soddisfare le esigenze dei creditori, il bene
diventa commercializzabile e spetterà poi all'acquirente
chiedere, entro 120 giorni dal decreto di assegnazione, la
sanatoria (comma 5, articolo 46). Sanatoria che sarà
rilasciata secondo le norme vigenti all'epoca dell'asta (non
secondo le norme dei vari condoni) e quindi solo se vi è una
doppia conformità (articolo 38 del Dpr 380/2001).
Chi ha perso l'immobile a causa dei debiti, non può quindi
eccepire nulla, perché l'immobile sarà dichiarato abusivo
nel bando di vendita giudiziaria, e come tale valutato in
perizia.
Se nel bando non vi è questa precisazione circa l'abusività
dell'immobile, l'alienazione tramite asta giudiziaria può
generare un errore essenziale sulla qualità del bene (aliud
pro alio: una cosa per l'altra), con possibilità, per
l'ignaro acquirente all'asta, di chiedere l'annullamento
della vendita. Tutto ciò, peraltro, non interessa il
debitore che ha perso il bene, il quale può avere voce in
capitolo solo in tema di formazione dei lotti da vendere
(qualora una vendita sia illogica e per tale motivo possa
essere meno vantaggiosa). Ma se il giudice dell'esecuzione
ritiene di vendere in modo frazionato un bene che
urbanisticamente non può essere diviso in più unità (ad
esempio, un albergo venduto in più parti), il venditore non
può intervenire.
In sintesi, in caso di vendita all'asta disposta per
soddisfare i creditori, il bene immobile e' stimato e
offerto secondo le sue caratteristiche, cui si aggiunge
quella di una sanabilità relativa. Se nel bando e nella
perizia che lo precede viene specificata l'irregolarità
urbanistica, l'acquirente non può eccepire nulla e nemmeno
il debitore può interloquire
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati.
Parcella contestata, sospesi gli interessi.
Non scattano gli interessi moratori sulla parcella che
l'avvocato invia al cliente, se quest'ultimo la contesta.
Lo
afferma la Corte di Cassazione (sentenza n. 22982/2013) decidendo su una lite tra
professionista e un Comune sulla congruità del compenso la
cui contestazione è iniziata nel 2005.
La Suprema Corte afferma che quando il compenso
professionale viene contestato dal cliente, proponendo
opposizione al decreto ingiuntivo, non decorrono gli
interessi moratori di cui all'articolo 1224 del Codice
civile. Ciò in quanto in queste ipotesi è il giudice a
liquidare con ordinanza l'onorario per la prestazione
professionale (legge 794/1942). Liquidazione che avviene in
base alla natura e al valore della controversia, alla
complessità delle questione trattate, all'attività prestata
e all'esito del giudizio.
Ne consegue che prima della
quantificazione giudiziale del compenso per il
professionista non scattano gli interessi moratori poiché il
credito non è «certo nel suo ammontare». Ciò è coerente
all'allegato 2 del decreto ministeriale 22.06.1982 che
fa decorrere gli interessi di mora e la svalutazione
monetaria sugli onorari dell'avvocato dopo tre mesi
dall'invio della parcella al cliente, sempre se l'importo
non venga contestato. Ciò va coordinato con l'articolo 4 del Dlgs 231/2002, modificato dal Dlgs 192/2012, che fa scattare
gli interessi di mora dal giorno successivo alla scadenza
del termine per il pagamento del debito in tutte le
transazioni commerciali in cui una parte non è un privato.
Se il cliente è un imprenditore o altro professionista, per
l'avvocato gli interessi moratori lievitano in modo
automatico dopo la scadenza del termine per provvedere,
senza che sia necessaria la "costituzione in mora" (cioè la
raccomandata). Se invece il cliente è un privato, il
professionista deve attendere che il giudice liquidi il suo
onorario e solo da quel momento e nei limiti di
quell'importo può chiedere anche gli interessi al cliente
moroso (oggi l'8,75%).
Per le controversie sorte dal febbraio 2012 occorre
considerare le disposizioni della legge 247/2012 sul
compenso e sui meccanismi di conciliazione per avvocati.
L'articolo 13 prevede che il compenso dell'avvocato va
pattuito per iscritto al conferimento dell'incarico. In
mancanza di accordo sia il professionista che il cliente
possono rivolgersi al Consiglio dell'ordine al fine di
raggiungere un'intesa.
Se il contrasto non si compone il
professionista può comunque chiedere all'Ordine di
appartenenza di rilasciare un parere di congruità della
parcella richiesta e contestata dal cliente. Le novità
legislative prevedono anche un rito accelerato (articolo 702-bis del Codice di procedura civile) per la liquidazione
giudiziale del compenso (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
APPALTI:
Ai sensi dell’art. 120,
comma 5, cod. proc. amm., il termine decadenziale di
impugnazione, pari a 30 giorni, decorre “dalla ricezione
della comunicazione di cui all’art. 79” del d.lgs. n.
163/2006 (ndr: Art. 79 - Informazioni circa i mancati
inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni), “ovvero, in ogni
altro caso, dalla conoscenza dell’atto”.
Invero, come osservato da Cons. Stato, sez. VI, n.
6531/2011:
-- l’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 è stato novellato dal
d.lgs. n. 53/2010, al fine di garantire, attraverso forme
puntuali di comunicazione, piena conoscenza e certezza della
data di conoscenza in relazione agli atti di gara
(segnatamente, esclusioni e aggiudicazioni);
-- la norma, tuttavia, da un lato, non prevede le elencate
forme di comunicazione come ‘esclusive’ e ‘tassative’ e,
d’altro lato, non incide sulle regole generali del processo
amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di
impugnazione dalla data di notificazione, comunicazione o
comunque piena conoscenza dell’atto; sicché lascia in vita
la possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine
del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con
altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di
chi la eccepisce;
-- essa neppure ha inteso incidere sulla consolidata
giurisprudenza in tema di decorrenza del termine di
impugnazione dalla data della seduta pubblica in cui vengono
adottati i provvedimenti di esclusione, se alla seduta è
presente il rappresentante del concorrente e purché la
conoscenza abbia i requisiti di ‘pienezza’;
-- a sua volta, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. si
riferisce all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure
di affidamento, e fissa plurime decorrenze dei termini, o
dalla ricezione della comunicazione ex art. 79, o, per i
bandi, dalla pubblicazione ex art. 66, comma 8, del d.lgs.
n. 163/2006, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza
dell’atto;
-- l’espressione “in ogni altro caso”, non va riferita ad
‘atti diversi’ da quelli delle procedure di affidamento, e
specificamente da quelli di cui all’art. 79 del d.lgs. n.
163/2006, ma va riferita a ‘diverse forme’ di conoscenza
dell’atto, diverse, cioè, da quelle dell’art. 79 e dell’art.
66, comma 8;
-- così interpretato, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. è
coerente con la regola generale dettata dal precedente art.
41, comma 2, secondo cui il termine di impugnazione del
provvedimento amministrativo decorre dalla notificazione,
comunicazione o piena conoscenza dell’atto;
-- pertanto, esso non ha inteso fissare forme tassative di
comunicazione degli atti di gara al fine della decorrenza
del termine di impugnazione, ma ha inteso ribadire la regola
generale secondo cui il termine decadenziale di impugnazione
decorre o dalla comunicazione nelle forme di legge, o
comunque dalla piena conoscenza dell’atto;
-- così, a prescindere dalla comunicazione nelle forme
dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, detto termine decorre,
comunque, dalla piena conoscenza altrimenti acquisita.
---------------
Se l’impresa assiste, tramite proprio rappresentante, alla
seduta in cui vengono adottate le determinazioni sulle
offerte anomale, è in detta seduta che essa acquisisce la
piena conoscenza del provvedimento, ed è dalla data di detta
seduta che decorre il termine per impugnare il provvedimento
medesimo: la presenza di un rappresentante della ditta
concorrente nella riunione nella quale la commissione
giudicatrice ha escluso la ditta stessa dalla competizione
non comporta, infatti, ex se, piena conoscenza dell’atto di
esclusione ai fini della decorrenza del termine per
l’impugnazione, solo qualora non risulti che il
rappresentante stesso era all’uopo incaricato oppure
rivestiva una specifica carica sociale, onde potersi
riferire la conoscenza avuta dal medesimo all’impresa
concorrente.
Considerato, in rito, che:
- il ricorso introduttivo del presente giudizio risulta
notificato (in data 22.08.2013) oltre il termine
perentorio di 30 giorni ex art. 120, comma 5, cod. proc. amm.,
decorrente dalla piena conoscenza –perfezionatasi non oltre
la seduta pubblica del 29.06.2013– dell’atto impugnato
nei suoi contenuti essenziali e nella sua portata lesiva;
- in questo senso, giova rammentare che, già nella seduta
pubblica del 28.06.2013, alla quale aveva assistito
assistito il soggetto (Votino Giuseppe) all’uopo delegato
dalla Irpinia Global Service, il presidente del seggio di
gara aveva comunicato la motivata esclusione della
ricorrente (“il presidente dà lettura delle motivazioni per
le quali la ditta Irpinia Global Service va esclusa
(allegato A)”: “la società Irpinia Global Service –recita
l’allegato A al verbale di gara n. 2 del 28.06.2013– si
è avvalsa di una ditta ausiliaria per il requisito di ordine
economico-finanziario del fatturato globale, cumulando a
quello proprio parte di quello posseduto dall’impresa
ausiliaria (avvalimento parziale) … tale possibilità è
esclusa dall’art. 49, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006”; “il
contratto di avvalimento non rispetta le prescrizioni del
disciplinare di gara di cui al paragrafo 16, punto 9, ove
prevede che il contratto deve riportare in modo compiuto,
esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in
modo determinato e specifico nonché la durata del
contratto”);
- inoltre, nella successiva seduta pubblica del 29.06.2013, alla quale pure aveva assistito il soggetto (Iazzetta
Ferdinando) all’uopo delegato dalla Irpinia Global Service,
il presidente del seggio di gara aveva comunicato che,
“anche in presenza delle osservazioni formulate nella seduta
del 28.06.2013, si conferma l’esclusione dalla gara
della ditta Irpinia Global Service per le motivazioni di cui
all’allegato A al verbale del 28.06.2013”;
- ciò posto, occorre, a questo punto, rimarcare che, ai
sensi dell’art. 120, comma 5, cod. proc. amm., il termine
decadenziale di impugnazione, pari a 30 giorni, decorre
“dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 79” del
d.lgs. n. 163/2006, “ovvero, in ogni altro caso, dalla
conoscenza dell’atto”;
- ora, non è ipotizzabile che tale disposizione ancori la
decorrenza del termine decadenziale di impugnazione degli
atti contemplati dal comma 5 dell’art. 79 del d.lgs. n.
163/2006 (tra cui l’esclusione, sub lett. b) alle sole forme
di comunicazione scritta previste dal successivo comma 5-bis
(raccomandata con avviso di ricevimento, fax, posta
elettronica certificata, notificazione) –come quella
impiegata con la nota del 02.07.2013, prot. n. 3059– e
non anche a modalità diverse di conoscenza –quale, appunto,
quella attuata nella seduta pubblica del 29.06.2013–;
- ed invero, come osservato da Cons. Stato, sez. VI, n.
6531/2011:
-- l’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 è stato
novellato dal d.lgs. n. 53/2010, al fine di garantire,
attraverso forme puntuali di comunicazione, piena conoscenza
e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti
di gara (segnatamente, esclusioni e aggiudicazioni);
-- la
norma, tuttavia, da un lato, non prevede le elencate forme
di comunicazione come ‘esclusive’ e ‘tassative’ e, d’altro
lato, non incide sulle regole generali del processo
amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di
impugnazione dalla data di notificazione, comunicazione o
comunque piena conoscenza dell’atto; sicché lascia in vita
la possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine
del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con
altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di
chi la eccepisce;
-- essa neppure ha inteso incidere sulla
consolidata giurisprudenza in tema di decorrenza del termine
di impugnazione dalla data della seduta pubblica in cui
vengono adottati i provvedimenti di esclusione, se alla
seduta è presente il rappresentante del concorrente e purché
la conoscenza abbia i requisiti di ‘pienezza’;
-- a sua
volta, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. si riferisce
all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure di
affidamento, e fissa plurime decorrenze dei termini, o dalla
ricezione della comunicazione ex art. 79, o, per i bandi,
dalla pubblicazione ex art. 66, comma 8, del d.lgs. n.
163/2006, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza
dell’atto;
-- l’espressione “in ogni altro caso”, non va
riferita ad ‘atti diversi’ da quelli delle procedure di
affidamento, e specificamente da quelli di cui all’art. 79
del d.lgs. n. 163/2006, ma va riferita a ‘diverse forme’ di
conoscenza dell’atto, diverse, cioè, da quelle dell’art. 79
e dell’art. 66, comma 8;
-- così interpretato, l’art. 120,
comma 5, cod. proc. amm. è coerente con la regola generale
dettata dal precedente art. 41, comma 2, secondo cui il
termine di impugnazione del provvedimento amministrativo
decorre dalla notificazione, comunicazione o piena
conoscenza dell’atto;
-- pertanto, esso non ha inteso
fissare forme tassative di comunicazione degli atti di gara
al fine della decorrenza del termine di impugnazione, ma ha
inteso ribadire la regola generale secondo cui il termine
decadenziale di impugnazione decorre o dalla comunicazione
nelle forme di legge, o comunque dalla piena conoscenza
dell’atto;
-- così, a prescindere dalla comunicazione nelle
forme dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, detto termine
decorre, comunque, dalla piena conoscenza altrimenti
acquisita;
- nella specie, sussistono –come accennato– gli estremi
della piena conoscenza dell’atto da impugnare sia nei suoi
contenuti essenziali sia nella sua portata lesiva;
- in particolare, già nelle sedute pubbliche del 28.06.2013 e del 29.06.2013, sono stati comunicati e
confermati sia il provvedimento di esclusione sia i motivi a
suo fondamento ed era presente il soggetto all’uopo delegato
dall’impresa esclusa, identificato nominativamente nel
verbale di gara;
- a tale ultimo riguardo, la giurisprudenza afferma che, se
l’impresa assiste, tramite proprio rappresentante, alla
seduta in cui vengono adottate le determinazioni sulle
offerte anomale, è in detta seduta che essa acquisisce la
piena conoscenza del provvedimento, ed è dalla data di detta
seduta che decorre il termine per impugnare il provvedimento
medesimo: la presenza di un rappresentante della ditta
concorrente nella riunione nella quale la commissione
giudicatrice ha escluso la ditta stessa dalla competizione
non comporta, infatti, ex se, piena conoscenza dell’atto di
esclusione ai fini della decorrenza del termine per
l’impugnazione, solo qualora non risulti che il
rappresentante stesso era all’uopo incaricato oppure
rivestiva una specifica carica sociale, onde potersi
riferire la conoscenza avuta dal medesimo all’impresa
concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1217/1999; sez.
V, n. 6319/2004; n. 5728/2006; n. 2883/2008) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.10.2013 n. 4556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una
domanda di sanatoria determina per l’amministrazione l'onere
di un provvedimento di reiezione o di accoglimento
dell'istanza stessa cui deve far seguito l'eventuale
adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori, che il
Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato
una volta che si sia verificato che non sussistono le
condizioni per la sanatoria delle opere abusive.
Ciò comporta che, dopo la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380,
le procedure per l'esecuzione di una sanzione amministrativa
(a maggior ragione la potestà di emanare la sanzione stessa)
devono ritenersi sospese in attesa della determinazione
dell'Amministrazione sulla domanda di sanatoria.
Deve quindi ritenersi violato il principio generale secondo
cui “la presentazione di una domanda di sanatoria determina
per l’amministrazione l'onere di un provvedimento di
reiezione o di accoglimento dell'istanza stessa cui deve far
seguito l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti
sanzionatori, che il Comune è tenuto ad emanare con atti a
contenuto vincolato una volta che si sia verificato che non
sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere
abusive; ciò comporta che, dopo la presentazione della
domanda di sanatoria ai sensi dell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, le procedure per l'esecuzione di una sanzione
amministrativa (a maggior ragione la potestà di emanare la
sanzione stessa) devono ritenersi sospese in attesa della
determinazione dell'Amministrazione sulla domanda di
sanatoria" (Consiglio di Stato IV Sezione 15.06.2012 n.
3534; Consiglio di Stato, Sezione IV, 26.01.2009 n.
437, TAR Lazio, Roma, sez. I, 01.04.2005 n. 2381,
TAR Lazio, Roma, sez. I, 02.12.2010 n. 35024)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.10.2013 n. 4542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività istruttoria da
svolgersi ad opera dell’Amministrazione comunale deve essere
rivolta non già a risolvere i conflitti tra le parti private
in ordine all'assetto dominicale dell'area stessa, bensì ad
accertare il requisito della legittimazione soggettiva del
richiedente, sia per la notevole incidenza della concessione
edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti, sia
per evitare il grave contenzioso che deriverebbe
dall'incauto rilascio di quest'ultima a soggetti non
idoneamente legittimati.
... l’attività istruttoria da svolgersi ad opera
dell’Amministrazione deve essere rivolta non già a risolvere
i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto
dominicale dell'area stessa, bensì ad accertare il requisito
della legittimazione soggettiva del richiedente, sia per la
notevole incidenza della concessione edilizia sugli
interessi pubblici e privati coinvolti, sia per evitare il
grave contenzioso che deriverebbe dall'incauto rilascio di
quest'ultima a soggetti non idoneamente legittimati (cfr.,
ex multis, TAR Campania Napoli, sez. III, 23.01.2009, n. 315) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 10.10.2013 n. 4538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione,
in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato,
presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
---------------
L’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è
l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e
l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza
alcuna necessità di ulteriore motivazione.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale.
Infondati sono i motivi primo e terzo con cui si deduce
violazione dell’art. 7, della L. n. 241/1990 per omessa
comunicazione di avvio del procedimento repressivo
dell’abuso, nonché dell’art. 3, stessa legge per motivazione
generica erronea e fuorviante.
Rammenta al riguardo il Collegio, quanto alla prima
censura che per giurisprudenza costante l’ordine di
demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR
Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria,
05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi,
escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del
procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di
demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento
e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302) più di
recente ribadendo tale posizione (TAR Campania Napoli,
Sez. III, sentenza 03.04.2013, n. 1729; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069)
---------------
Infondata è anche la seconda censura concernente le
dedotte suindicate carenze motivazionali.
In disparte il
rilievo che l’ordinanza impugnata motiva adeguatamente
l’abusività delle opere de quibus in quanto “prive di
permesso di costruire”, la doglianza è, comunque infondata
in diritto poiché contraddetta da pacifica giurisprudenza
che predica che l’unico presupposto dell’ordinanza di
demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro
descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere
abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente
motivata con la descrizione delle opere abusive e delle
ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo
motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Anche la Sezione ha sposato siffatta opzione interpretativa
(TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302)
ribadendola più di recente (TAR Campania–Napoli, III Sez.
15.01.2013. n. 301; TAR Campania Napoli, III Sez. 28.01.2013,
n. 651) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.10.2013 n. 4533 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Allorché sia controversa
la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità
di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento
dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni.
Si è infatti
in presenza di provvedimento c.d. plurimotivato,
discendendone che “allorché sia controversa la legittimità
di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di
diritto tra loro indipendenti, l’accertamento
dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005, n. 2767; in termini
anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006, n. 252; TAR
Basilicata, Sez. I, 28.06.2010, n. 456) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.10.2013 n. 4533 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' la valutazione di
incongruità, ovvero di anomalia dell’offerta a soggiacere ad
un serrato e stingente onere di motivazione, che deve
possedere i caratteri della analiticità e completezza,
laddove il giudizio positivo di congruità non richiede, di
regola, l’espressione di una motivazione parimenti
dettagliata, potendo essere formulato per relationem con
riferimento alle giustificazioni e agli elementi integrativi
di giudizio forniti dall’impresa in sede di espletamento del
sub procedimento di valutazione dell’offerta anomala.
Invero, “nelle gare di appalto, mentre il provvedimento
amministrativo che ritiene l’offerta anomala deve essere
puntualmente motivato, quello che ritiene l’offerta non
anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo
sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e
giustificazioni della parte che ha formulato l’offerta
sottoposta a verifica con esito positivo”.
Più specificamente si è più di recente chiarito affermato
che “Nelle gare pubbliche d'appalto il giudizio positivo di
congruità dell' offerta anomala non richiede un'articolata
motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa per relationem alle giustificazioni
stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed
adeguate” e che “In materia di gare di appalto nel caso in
cui la valutazione sull' offerta sospetta di anomalia si
traduca in un giudizio di congruità , non è necessario che
il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione
articolata che descriva le singole giustificazioni
corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo
sufficiente anche una motivazione espressa per relationem
alle giustificazioni”.
Su tale scia si era già precisato che “il giudizio di
positiva attendibilità sull'offerta non richiede una
analitica motivazione e può essere anche avvalorato per
relationem con riferimento alle giustificazioni presentate
dall'interessato che, si ripete, rilevano nel loro
complesso, poiché l'attendibilità è questione complessiva e
l'inattendibilità non discende ex se dall'errore in una
singola argomentazione”.
Rimarca peraltro il Collegio che il naturale limite
consustanziale al delineato indirizzo ermeneutico va
ravvisato nell’adeguatezza e congruità, che si traduce poi
nell’attendibilità, delle giustificazioni fornite
dall’impresa scrutinata, carattere che solo può conferire
alle stesse l’attitudine a fungere da elemento di
riferimento su cui misurare per relationem il giudizio di
congruità.
E’ infatti evidente che ove le giustificazioni prodotte
dall’impresa a suffragio della pretesa congruità
dell’offerta non siano munite del pregio della persuasività
ed analiticità, le stesse non possono assurgere ad elemento
sul quale la stazione appaltante può motivare per relationem
la bontà della proposta contrattuale.
Invero il Consiglio di Stato ha efficacemente puntualizzato
l’assunto in parola avendo precisato “in termini generali,
che il giudizio positivo di congruità dell'offerta non
richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime
giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente
anche una motivazione espressa per relationem alle
giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano
state congrue ed adeguate”.
Non sfugge alla Sezione l’approdo cui è pervenuta la
giurisprudenza amministrativa in subiecta materia, avendo
attinto e più volte ribadito il principio di diritto in
ossequio al quale è la valutazione di incongruità, ovvero di
anomalia dell’offerta a soggiacere ad un serrato e stingente
onere di motivazione, che deve possedere i caratteri della
analiticità e completezza, laddove il giudizio positivo di
congruità non richiede, di regola, l’espressione di una
motivazione parimenti dettagliata, potendo essere formulato
per relationem con riferimento alle giustificazioni e agli
elementi integrativi di giudizio forniti dall’impresa in
sede di espletamento del sub procedimento di valutazione
dell’offerta anomala.
Si rammenta che si è precisato che “nelle gare di appalto,
mentre il provvedimento amministrativo che ritiene l’offerta
anomala deve essere puntualmente motivato, quello che
ritiene l’offerta non anomala non abbisogna di una
motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio
alle argomentazioni e giustificazioni della parte che ha
formulato l’offerta sottoposta a verifica con esito
positivo” (Cons. Stato, Sez. VI, 03.04.2002 n. 1853;
Cons. Stato, Sez. VI, 08.03.2004 n. 1080, C.G.A., 29.01.2007 n. 5).
Più specificamente si è più di recente chiarito affermato
che “Nelle gare pubbliche d'appalto il giudizio positivo di
congruità dell' offerta anomala non richiede un'articolata
motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa per relationem alle giustificazioni
stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed
adeguate” (TAR Toscana Firenze Sez. I, 28.01.2013, n.
141) e che “In materia di gare di appalto nel caso in cui
la valutazione sull' offerta sospetta di anomalia si traduca
in un giudizio di congruità , non è necessario che il
provvedimento finale sia sorretto da una motivazione
articolata che descriva le singole giustificazioni
corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo
sufficiente anche una motivazione espressa per relationem
alle giustificazioni” (TAR Lombardia Milano Sez. I,
23.02.2012, n. 593).
Su tale scia si era già precisato che “il giudizio di
positiva attendibilità sull'offerta non richiede una
analitica motivazione e può essere anche avvalorato per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate
dall'interessato che, si ripete, rilevano nel loro
complesso, poiché l'attendibilità è questione complessiva e
l'inattendibilità non discende ex se dall'errore in una
singola argomentazione” (TAR Piemonte Torino Sez. I,
27.01.2011, n. 115).
Rimarca peraltro il Collegio che il naturale limite
consustanziale al delineato indirizzo ermeneutico va
ravvisato nell’adeguatezza e congruità, che si traduce poi
nell’attendibilità, delle giustificazioni fornite
dall’impresa scrutinata, carattere che solo può conferire
alle stesse l’attitudine a fungere da elemento di
riferimento su cui misurare per relationem il giudizio di
congruità.
E’ infatti evidente che ove le giustificazioni prodotte
dall’impresa a suffragio della pretesa congruità
dell’offerta non siano munite del pregio della persuasività
ed analiticità, le stesse non possono assurgere ad elemento
sul quale la stazione appaltante può motivare per relationem
la bontà della proposta contrattuale.
Invero il Consiglio di Stato ha efficacemente puntualizzato
l’assunto in parola avendo precisato “in termini generali,
che il giudizio positivo di congruità dell'offerta non
richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime
giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente
anche una motivazione espressa per relationem alle
giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano
state congrue ed adeguate (cfr. per tutte Cons. Stato, sez.
V, 10.09.2012, n. 4785)” (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.10.2013 n. 4532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Corte
europea.
Avvalimento plurimo ammesso.
Va ammesso l'avvalimento plurimo per qualificarsi negli
appalti di lavori; è quindi illegittimo l'articolo 49, comma
6 del Codice dei contratti pubblici.
È quanto afferma la
sentenza 10.10.2013 n. C-94/12
della Corte di giustizia
europea, che si è
espresso sulla pregiudiziale del Tar Marche per una gara
bandita dalla provincia di Fermo.
In particolare una
impresa, violando il divieto di avvalimento plurimo previsto
per i lavori dall'art. 49, comma 6 del Codice dei contratti,
aveva dimostrato i requisiti di qualificazione in una
categoria avvalendosi di più imprese, per dimostrare i
requisiti di una specifica categoria. I giudici europei
bocciano la norma italiana preliminarmente ricordando che la
direttiva europea autorizza i raggruppamenti di operatori
economici a partecipare a procedure di appalti pubblici
senza limitazioni relative al cumulo di capacità e a
subappaltatori.
Inoltre la precedente la giurisprudenza
della stessa Corte aveva già ammesso la facoltà, per un
operatore economico, di avvalersi, per eseguire un appalto,
di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri soggetti,
eventualmente in aggiunta ai propri mezzi. Così facendo
infatti si persegue l'obiettivo dell'apertura degli appalti
pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile,
obiettivo perseguito dalle direttive a vantaggio non
soltanto degli operatori economici, ma anche delle
amministrazioni aggiudicatrici, facilitando l'accesso delle
piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
In relazione
a tali presupposti la Corte afferma che la norma del Codice,
prevedendo un divieto di carattere generale, non risulta
conforme alla direttiva 2004/18 e quindi implicitamente
costringerà il legislatore italiano ad una dovuta modifica
per evitare una procedura di infrazione.
La pronuncia, in
realtà ammette che, per lavori che presentino peculiarità
tali da richiedere una determinata capacità che non si
ottiene associando capacità inferiori di più operatori, si
possa limitare l'avvalimento ma ciò deve rappresentare una
eccezione, connessa e proporzionata all'oggetto dell'appalto
singolo e non una regola generale
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici. Le imprese potranno qualificarsi con le
caratteristiche di aziende nella stessa categoria di opere.
In gara con più requisiti in prestito.
La Corte Ue cancella il divieto di «avvalimento plurimo» dal
Codice dei contratti.
IL VANTAGGIO/
Sono soprattutto le Pmi ad «appoggiarsi» ad altre società
per conquistare l'ammissione agli appalti.
Via libera all'avvalimento «plurimo» nel settore dei lavori
pubblici. In nome dei principi di concorrenza, libertà di
organizzazione dell'impresa e massima apertura del mercato
degli appalti alle Pmi,
la Corte di Giustizia
dell’Ue, con
sentenza 10.10.2013 n. C-94/12,
cancella la norma che impone a chi partecipa a una gara
pubblica di avvalersi dei requisiti posseduti da una sola
impresa per ciascuna categoria di lavori.
Il paletto imposto dal codice dei contratti pubblici (Dlgs
163/2006, articolo 49, comma 6) contrasta con la direttiva
europea sugli appalti (2004/18/Ce). D'ora in avanti, dunque,
un costruttore potrà partecipare a una gara di lavori
dimostrando di poter contare sui requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi facendo leva su
più imprese per la stessa tipologia di lavoro.
In sintesi è questo il principio stabilito dalla Corte di
Giustizia europea, arrivata rapidamente a sentenza sul caso
sottoposto la settimana scorsa dal Tar Marche in relazione
al ricorso di una società esclusa da una gara d'appalto
perché "accompagnata" in gara da più di un impresa
ausiliaria.
Cade dunque il paletto secondo cui «un solo avvalimento deve
essere sufficiente ad integrare i requisiti che il
concorrente non possiede», come ricordava anche l'Autorità
nella determinazione numero 2/2012, dedicata proprio a
fornire le linee guida a stazioni appaltanti e imprese
sull'utilizzo dell'avvalimento nelle procedure di gara.
Si tratta di una questione molto dibattuta in Italia, che ha
dato adito anche a orientamenti ondivaghi della
giurisprudenza. Rispetto alle indicazioni molto rigorose
previste dal codice dei contratti che vietano esplicitamente
di ricorrere ai mezzi di più di un'impresa "garante" per
eseguire le lavorazioni previste da un appalto, le norme
europee (articoli 47 e 48 della direttiva 2004/18/Ce),
mantengono un'impostazione molto più "aperta". E infatti,
ricorda ora la Corte Ue, «la direttiva non vieta ai
candidati di fare riferimento alle capacità di più soggetti
terzi per comprovare che soddisfano un livello minimo di
capacità o i criteri fissati da un'amministrazione
aggiudicatrice». Anzi, la giurisprudenza europea, ricorda la
Corte, «ha indicato la facoltà, per un operatore economico,
di avvalersi, per eseguire un appalto, di mezzi appartenenti
ad uno o a svariati altri soggetti, eventualmente in
aggiunta ai propri mezzi».
Secondo i giudici Ue,
«un'interpretazione del genere è conforme all'obiettivo
dell'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella
misura più ampia possibile, obiettivo perseguito dalle
direttive a vantaggio non soltanto degli operatori
economici, ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici,
facilitando l'accesso delle piccole e medie imprese agli
appalti pubblici».
La Corte non esclude «l'esistenza di lavori che presentino
peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che
non si ottiene associando capacità inferiori di più
operatori». In un'ipotesi del genere, continua la Corte
«l'amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente
esigere che il livello minimo della capacità in questione
sia raggiunto da un operatore economico unico o da un numero
limitato di operatori economici». Il punto è che deve
trattarsi di «una situazione eccezionale» è non di «una
regola generale».
Conclusione: il no all'avvalimento plurimo imposto dal
codice contrasta con le norme europee e da ora in poi va
disapplicato. Restano invece ancora in piedi gli altri due
paletti previsti dal codice: quello che impone all'impresa
ausiliaria (la società che presta i requisiti) di
partecipare alla medesima gara in proprio e il divieto per
la stessa impresa ausiliaria di prestare i requisiti a più
di un concorrente in gara (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti, illegittime le norme italiane che vietano
attestazioni di più soggetti per lavori della stessa
categoria.
Ancora una volta la Corte di Giustizia bacchetta l'Italia,
stavolta in materia di appalti pubblici. Secondo gli
eurogiudici, infatti, è contrario al
diritto dell'Unione il divieto generale di avvalimento
plurimo all'interno della medesima categoria di
qualificazione previsto dal nostro ordinamento. Si tratta,
più precisamente, del divieto imposto ad una impresa di
avvalersi di mezzi appartenenti ad uno o a più soggetti,
nell'eventualità in aggiunta ai propri, secondo quanto
disposto dal Codice dei Contratti pubblici.
Il caso
Davanti al TAR per le Marche pende una controversia che vede
contrapposti, da un lato, la Swm Costruzioni 2 SpA e la
Mannocchi Luigino DI, che hanno costituito un Raggruppamento
Temporaneo di Imprese (RTI), e, dall’altro, la Provincia di
Fermo, a seguito della decisione di quest’ultima di
escludere il citato RTI dalla procedura di aggiudicazione di
un appalto pubblico di lavori.
In pratica, le due imprese di costruzioni sono state escluse
dall’appalto dalla Provincia di Fermo per aver costituito un
raggruppamento temporaneo d’impresa.
L’atto impugnato dinanzi al TAR è, per l’appunto, la
decisione della Provincia di Fermo.
Il giudice amministrativo italiano, a sua volta, ha ritenuto
opportuno proporre alla Corte di Giustizia dell’Ue una
domanda di pronuncia pregiudiziale vertente
sull’interpretazione dell’art. 47, paragrafo 2, della
direttiva 2004/18/CE relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi.
In particolare, il giudice del rinvio chiede se gli articoli
47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18
debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una
disposizione nazionale che vieta agli operatori economici
partecipanti ad una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico di lavori di fare valere, per una medesima
categoria di qualificazione, le capacità di più imprese.
La decisione della Corte
La Corte di Giustizia dell’Ue, con
sentenza 10.10.2013 n. C-94/12,
ha ribadito che alla luce del combinato disposto degli
articoli 47, par. 2, 48, par. 3 e 44, par. 2 della direttiva
2004/18 sugli appalti pubblici, una normativa nazionale non
può vietare agli operatori economici che partecipano ad una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori
di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione,
delle capacità di più imprese.
L’articolo 47, al paragrafo 1, lettera c), della direttiva
sugli appalti pubblici prevede che l’amministrazione
aggiudicatrice possa chiedere ai candidati o agli offerenti
di provare la loro capacità economica e finanziaria mediante
una dichiarazione concernente il fatturato globale nonché il
fatturato del settore di attività oggetto dell’appalto, così
come la prova delle loro capacità tecniche attraverso la
presentazione dell’elenco dei lavori eseguiti negli ultimi
cinque anni (art. 48, direttiva 2004/18).
Ciò posto –come rilevato anche dall’Avvocato generale al
paragrafo 18 delle sue conclusioni– tali disposizioni non
vietano, in via di principio, ai candidati o agli offerenti
di fare riferimento alle capacità di più soggetti terzi per
comprovare che soddisfano un livello minimo di capacità
richiesta da un’amministrazione aggiudicatrice.
Tra l’altro, la Corte richiamando la giurisprudenza, afferma
che un operatore economico può avvalersi, per eseguire un
appalto, di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri
soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi.
Pertanto, deve considerarsi ammesso il cumulo delle capacità
di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi
di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice,
purché alla stessa si dimostri che il candidato o
l’offerente che si avvale delle capacità di uno o di
svariati altri soggetti disporrà effettivamente dei mezzi di
questi ultimi che sono necessari all’esecuzione
dell’appalto.
In definitiva, la Corte, con la sentenza in commento, ha
dichiarato che la normativa europea in materia di appalti
(in particolare, gli articoli 47, paragrafo 2, e 48,
paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE, letti in combinato
disposto con l’art. 44, paragrafo 2) non ammette che una
disposizione di uno Stato Membro –nella specie, l’Italia con
l’art. 49, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei
Contratti pubblici)– vieti, in via generale, agli operatori
economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico di lavori, di avvalersi delle
capacità di più imprese, per una stessa categoria di
qualificazione.
I possibili impatti pratico-operativi
Ancora una volta, dunque, la Corte di Giustizia ha
bacchettato l’Italia, stavolta in materia di appalti
pubblici.
A livello comunitario, la direttiva 2004/18/CE, che ha
provveduto ad unificare tutte le norme comunitarie in
materia di appalti pubblici (a parte i c.d. “settore
speciali”, cioè quelli relativi agli enti erogatori di
acqua e di energia e agli enti che forniscono servizi di
trasporto e servizi postali, per i quali è stata
contestualmente emanata la direttiva 2004/17/CE), ha come
scopo l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza
nella misura più ampia possibile, al fine di avvantaggiare
non soltanto gli operatori economici, ma anche le
amministrazioni aggiudicatrici.
Come rilevato dall’avvocato generale, la direttiva sugli
appalti tende anche a facilitare l’accesso delle piccole e
medie imprese agli appalti pubblici.
Pertanto, una disposizione nazionale –come quella italiana–
non può vietare agli operatori economici partecipanti ad una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di fare
valere le capacità di più imprese.
Gli eurogiudici hanno dimostrato di non gradire
l’interpretazione restrittiva che il nostro legislatore –con
la norma del Codice dei contratti– ha fornito sugli RTI e
sull’avvalimento nelle attestazioni SOA, ritenendola perciò
contraria al diritto dell’Unione.
Nella normativa europea, piuttosto, si rinviene chiaramente,
un atteggiamento di “favore” volto a “favorire
l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti
pubblici”, che ben possono, pertanto, mettersi insieme
(in una RTI) per poter soddisfare i requisiti minimi di
partecipazione contemplati dalle procedure di gara (CGUE, V
Sez.,
sentenza 10.10.2013 n. C-94/12 - commento tratto
da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligazione di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione ha per oggetto una prestazione pecuniaria, da
eseguire al domicilio del creditore, senza che su
quest’ultimo gravi alcun onere di preventiva sollecitazione
o avvertenza.
In assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione
idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da
contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi
riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione
riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio
e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come nel caso in esame.
---------------
L'applicazione della sanzione pecuniaria non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento, trattandosi dell’applicazione ex lege di una
sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del
contributo dovuto per il rilascio della concessione
edilizia.
L’appello è infondato e va rigettato.
Con l’appello in esame la società ricorrente ha chiesto la
riforma della sentenza del Tar Abruzzo che ha respinto il
ricorso proposto avverso il provvedimento con cui il comune
di L’Aquila ha applicato nei suoi confronti la sanzione
prevista dall'art. 3 della L. n. 47/1985, per il ritardato
pagamento degli oneri relativi al rilascio di una
concessione edilizia.
I dedotti motivi d’appello vanno respinti, alla stregua
dell’ormai consolidato orientamento della sezione.
Con decisioni C.S. n. 1250/2005, n. 6345/2005, n. 4025/2007
e n. 5395/2011 è stato, infatti, precisato che:
- l’obbligazione di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione ha per oggetto una prestazione pecuniaria, da
eseguire al domicilio del creditore, senza che su
quest’ultimo gravi alcun onere di preventiva sollecitazione
o avvertenza;
- in assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione
idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da
contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi
riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione
riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio
e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come nel caso in esame.
L'applicazione della sanzione pecuniaria poi non doveva
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento, trattandosi dell’applicazione ex lege di una
sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del
contributo dovuto per il rilascio della concessione
edilizia.
Per il principio tempus regit actum, va disattesa la istanza
dell’appellante in ordine all’applicazione dell’art. 27,
comma 17, della legge 448/2001 che prevede una riduzione
della sanzione irrogata dal Comune ai sensi dell’art. 3
della legge 47/1985.
Per quanto considerato, l'appello deve essere respinto,
perché infondato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.10.2013 n. 4966 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Deve ritenersi ormai
superato l’orientamento secondo il quale la convalida
dell’atto amministrativo viziato non possa legittimamente
intervenire dopo l’impugnazione per via giurisdizionale
dell’atto medesimo e comunque non per sanare vizi di natura
sostanziale.
E’ stato infatti osservato, sotto il primo aspetto, che la
sanatoria di un atto annullabile mediante convalida non
contrasta con i principi di effettività della tutela
giurisdizionale “nella misura in cui costituisce un
implicito riconoscimento dei vizi portati all’esame del
giudice amministrativo e nel contempo emendando l’azione
amministrativa, senza attendere le more del giudizio e la
successiva riedizione conformata del potere amministrativo
all’esito di un giudicato amministrativo, sempreché
ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l’eventuale
successivo esercizio della funzione”.
Inoltre, per quanto attiene alla tipologia dei vizi
emendabili, è stato sottolineato che “il tradizionale
orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi
sostanziali, fondato sulla disposizione dell’art. 6 l.
18.03.1968 n. 249, può ritenersi superato dall’art.
21-nonies, l. 07.08.990 n. 241, che non pone limitazioni in
materia riferendosi genericamente al provvedimento
amministrativo annullabile”.
Proprio a questo proposito il Collegio rileva
subito che deve ritenersi ormai superato l’orientamento
secondo il quale la convalida dell’atto amministrativo
viziato non possa legittimamente intervenire dopo
l’impugnazione per via giurisdizionale dell’atto medesimo e
comunque non per sanare vizi di natura sostanziale.
E’ stato
infatti osservato, sotto il primo aspetto, che la sanatoria
di un atto annullabile mediante convalida non contrasta con
i principi di effettività della tutela giurisdizionale
“nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento
dei vizi portati all’esame del giudice amministrativo e nel
contempo emendando l’azione amministrativa, senza attendere
le more del giudizio e la successiva riedizione conformata
del potere amministrativo all’esito di un giudicato
amministrativo, sempreché ovviamente si tratti di vizi che
lasciano salvo l’eventuale successivo esercizio della
funzione” (TAR Campania-Napoli, sez. I, n. 3350 dell’11.07.2012); inoltre, per quanto attiene alla tipologia dei
vizi emendabili, è stato sottolineato che “il tradizionale
orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi
sostanziali, fondato sulla disposizione dell’art. 6 l. 18.03.1968 n. 249, può ritenersi superato dall’art. 21-nonies, l.
07.08.990 n. 241, che non pone limitazioni in
materia riferendosi genericamente al provvedimento
amministrativo annullabile” (TAR Lazio-Latina, sez. I, n.
415 del 30.05.2012)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Quanto al fatto che a seguito della convalida il
procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso
alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto
che la rinnovazione integrale di un procedimento
espropriativo si impone quando si renda necessaria la
rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità
scaduta o comunque privata di efficacia ovvero quando
sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e
la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso
l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida
dichiarazione di pubblica utilità.
Quanto al
fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia
stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle
osservazioni da parte dei privati, va detto che la
rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si
impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una
dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata
di efficacia (C.d.S. Sez. IV n. 39 del 13.01.2010)
ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la
fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in
tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una
valida dichiarazione di pubblica utilità (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittima l’ordinanza
di demolizione di una canna fumaria esterna (in parete da
terra) laddove “restringe il passaggio pedonale tra le
proprietà riducendolo da 2,00 mt. a 1,55 mt.”.
Peraltro quale sia la misura esatta poco importa al fine di
determinare la legittimità -o meno- della nuova canna
fumaria, essendo rilevante solo il fatto che la distanza
preesistente è stata ridotta per effetto della realizzazione
della canna fumaria esterna.
Tale riduzione della distanza preesistente deve ritenersi
illegittima per i motivi indicati nella ordinanza di
demolizione, e cioè per la ragione che l’art. 9 del D.M.
1444/1968 prescrive, nelle zone A, che le distanze tra gli
edifici “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico, ambientale”.
E’ noto, infatti, che la giurisprudenza è consolidata nel
qualificare le distanze tra fabbricati indicate dal D.M.
1444/1968 come inderogabili, in quanto poste a presidio di
interessi aventi carattere pubblicistico, e nell’affermare
che le Amministrazioni sono tenute a disapplicare le
eventuali norme urbanistiche ed edilizie che prevedano
distanze inferiori, le quali debbono intendersi
automaticamente sostituite nei rapporti tra privati ed
Amministrazioni.
Alcuna rilevanza possono quindi esplicare eventuali accordi
tra privati che consentano la deroga di tali distanze.
E’ poi da escludersi che la canna fumaria in argomento, che
si riferisce avere dimensioni di circa 45 cm x 65 cm e si
eleva da terra sino al tetto, possa qualificarsi quale mero
sporto, per tale dovendosi intendere solo le sporgenze quali
mensole, lesene, canalizzazioni di gronde e loro sostegni o
altre sporgenze aventi funzione decorativa, purché di
modeste dimensioni. Tali elementi debbono invece computarsi
ai fini del rispetto delle distanze legali quando di fatto
siano destinati ad ampliare il fronte abitativo: nel caso di
specie è evidente che la realizzazione della canna fumaria
esterna ha evitato di perdere superficie e volumetria utile
all’interno dell’edificio, ed in tal senso ha contribuito ad
espandere la zona di godimento.
Quanto alla canna fumaria, realizzata
verso la proprietà A. esternamente al muro di
fabbrica, emerge evidente dai documenti acquisiti agli atti
del giudizio sia la illegittimità per violazione del D.M.
1444/1968 sia la abusività perché eseguita in difformità dal
titolo edilizio.
La parete perimetrale interessata dalla canna
fumaria di che trattasi è quella prospiciente il balcone di
proprietà A., cioè la facciata che nei disegni
prodotti da parte ricorrente è indicata come prospetto
nord-ovest, riconoscibile dalla porticina collocata
nell’angolo in basso a sinistra trasformata, a seguito dei
lavori, in finestra munita di inferiate. I disegni
depositati da parte ricorrente in data 12.12.2008
evidenziano che prima dei lavori (“stato attuale”) sulla
parete non esisteva nulla, se non la porticina in basso, e
neppure veniva evidenziato alcun comignolo. Il disegno del
prospetto nord-ovest ad opere ultimate riproduce, invece, un
vistoso comignolo. L’attento esame dei disegni relativi al
prospetto sud, che ritrae la parete nord-ovest in sezione,
conferma che un tempo il comignolo, ben evidente invece
nello stato di progetto e nel disegno delle opere ultimate,
non esisteva. Tali elaborati non consentono, tuttavia, di
apprezzare la fuoriuscita della canna fumaria dal muro
perimetrale, essendo state riportate solo delle quote
altimetriche. La canna fumaria esterna al muro perimetrale
costituisce quindi un’opera nuova che non si può ritenere
assentita con il permesso di costruire 68/08, da cui il suo
essere abusiva. Peraltro, ove pure risultasse che essa era
compresa tra le opere assentite, non si potrebbe non
considerare che la ricorrente non ha dedotto tale
circostanza quale motivo di illegittimità, in parte qua,
della ordinanza di demolizione.
Ciò chiarito va detto che la nota del Responsabile
del Servizio del 23.02.2009 non appare affatto
inattendibile laddove riferisce che la distanza tra la canna
fumaria ed il fabbricato A. è di circa 150 cm.: in
particolare elementi in segno contrario non possono
rinvenirsi nella nota del 12.08.2008 della signora A., ove la controinteressata ha scritto che la
canna fumaria “restringe il passaggio pedonale tra le
proprietà riducendolo da 2,00 mt. a 1,55 mt., ed è stata
realizzata prima del rilascio della concessione edilizia. Il
camino sbocca all’altezza del balcone della mia proprietà ad
una distanza di circa 2 metri….”.
Nella missiva in esame,
dunque, si trova un diretto riscontro alla misura indicata
dal Responsabile del Servizio, e si riferisce la distanza di
2 metri solo all’altezza del balcone: tale circostanza si
spiega chiaramente con il fatto che il primo piano del
fabbricato A. è notevolmente arretrato rispetto al
piano terreno, ciò che si apprezza esaminando il disegno
acquisito dal Comune che reca la dicitura “realizzazione di
camino a distanza non regolamentare”, disegno che riproduce
il balcone, visibile anche nelle fotografie recanti la
dicitura “aumento eccessivo dello sporto del tetto”. La
lettera del 12.08.2008 proveniente dalla signora A. è dunque coerente laddove riferisce distanze
diverse dalla canna fumaria a livello del passaggio ed a
livello del balcone, e rende attendibili le misure riferite
dal responsabile del Servizio.
Peraltro quale sia la misura esatta poco importa al
fine di determinare la legittimità della nuova canna
fumaria, essendo rilevante solo il fatto che la distanza
preesistente è stata ridotta per effetto della realizzazione
della canna fumaria esterna. Tale riduzione della distanza
preesistente deve ritenersi illegittima per i motivi
indicati nella ordinanza di demolizione, e cioè per la
ragione che l’art. 9 del D.M. 1444/1968 prescrive, nelle zone
A, che le distanze tra gli edifici “non possono essere
inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico,
artistico, ambientale”.
E’ noto, infatti, che la giurisprudenza è consolidata nel
qualificare le distanze tra fabbricati indicate dal D.M.
1444/1968 come inderogabili, in quanto poste a presidio di
interessi aventi carattere pubblicistico, e nell’affermare
che le Amministrazioni sono tenute a disapplicare le
eventuali norme urbanistiche ed edilizie che prevedano
distanze inferiori, le quali debbono intendersi
automaticamente sostituite nei rapporti tra privati ed
Amministrazioni (C.d.S. sez. IV nn. 6909/2005 e 7731/2010).
Alcuna rilevanza possono quindi esplicare eventuali accordi
tra privati che consentano la deroga di tali distanze.
E’ poi da escludersi che la canna fumaria in argomento, che
si riferisce avere dimensioni di circa 45 cm x 65 cm e si
eleva da terra sino al tetto del fabbricato C., possa
qualificarsi quale mero sporto, per tale dovendosi intendere
solo le sporgenze quali mensole, lesene, canalizzazioni di
gronde e loro sostegni o altre sporgenze aventi funzione
decorativa, purché di modeste dimensioni. Tali elementi
debbono invece computarsi ai fini del rispetto delle
distanze legali quando di fatto siano destinati ad ampliare
il fronte abitativo (C.d.S. sez. IV n. 6909/2005 cit.): nel
caso di specie è evidente che la realizzazione della canna
fumaria esterna ha evitato di perdere superficie e
volumetria utile all’interno dell’edificio, ed in tal senso
ha contribuito ad espandere la zona di godimento.
L’ordinanza di demolizione è dunque esente da vizi laddove
indica le ragioni della illegittimità della canna fumaria
esterna di cui è stata ordinata la rimozione
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 1052 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una tettoia prima inesistente
non può certo rientrare nel concetto di opera di
manutenzione ordinaria, che può compendiarsi solo in
interventi che abbiano ad oggetto le mere “finiture” o
impianti tecnologici di edifici già esistenti.
Le opere di manutenzione straordinaria possono avere ad
oggetto non solo finiture e non solo impianti tecnologici,
potendo avere ad oggetto anche parti strutturali di edifici
o potendo implicare la realizzazione ex novo di nuovi
servizi igienici o di locali tecnici: tuttavia anche in
questo caso è evidente che si deve trattare di opere che
incidono direttamente su edifici o parti di edificio già
esistenti.
La realizzazione di una nuova tettoia non può quindi mai
essere ricondotta al concetto di manutenzione ordinaria o
straordinaria, compendiandosi nella realizzazione di nuove
costruzioni, quantunque di dimensioni modestissime.
La realizzazione di una
tettoia prima inesistente non può certo rientrare nel
concetto di opera di manutenzione ordinaria, che può
compendiarsi solo in interventi che abbiano ad oggetto le
mere “finiture” o impianti tecnologici di edifici già
esistenti.
Le opere di manutenzione straordinaria possono
avere ad oggetto non solo finiture e non solo impianti
tecnologici, potendo avere ad oggetto anche parti
strutturali di edifici o potendo implicare la realizzazione
ex novo di nuovi servizi igienici o di locali tecnici:
tuttavia anche in questo caso è evidente che si deve
trattare di opere che incidono direttamente su edifici o
parti di edificio già esistenti.
La realizzazione di una
nuova tettoia non può quindi mai essere ricondotta al
concetto di manutenzione ordinaria o straordinaria,
compendiandosi nella realizzazione di nuove costruzioni,
quantunque di dimensioni modestissime, e certamente tale
assunto vale nel caso di specie, laddove la ricorrente ha
chiesto di poter realizzare due tettoie di rilevanti
dimensioni, saldamente ancorate al suolo, destinate al
ricovero di mezzi meccanici, strutturalmente autonome
rispetto ai capannoni già esistenti
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 1050 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: I camper allacciati alla fognatura portano lottizzazione
abusiva
L'EVOLUZIONE/ In base alla legge 98/2013 roulotte e case
mobili possono essere ancorate al suolo purché destinate al
turismo, anche stanziale.
Un campeggio può esser considerato destinato ad esigenze
temporanee di turisti, ma se si trasforma in un villaggio
diventa una lottizzazione abusiva.
Questo è l'orientamento
della Corte di Cassazione penale,
sentenza 08.10.2013 n. 41479,
resa nei confronti di un intervento in provincia di Latina.
La materia è in divenire, perché la legge 09.08.2013 n.
98 accorda un trattamento di favore a roulotte, camper, case
mobili e imbarcazioni che siano utilizzate come abitazioni.
La norma del 2013 consente il temporaneo ancoraggio al
suolo, purché le strutture siano collocate in spazi
ricettivi all'aperto, siano conformi alle norme regionali di
settore (turistico) e siano destinate alla sosta e al
soggiorno dei turisti. In sintesi, il legislatore del 2013
consente di fare a meno delle ruote, ammettendo l'ancoraggio
al suolo, e appare permissivo verso tutte quelle iniziative
che hanno una durata coerente al turismo, anche di tipo
molto stanziale.
La sentenza della Cassazione distingue tuttavia tra gli
insediamenti residenziali e quelli turistici, sulla base di
dimensioni quantitative e della tipologia delle strutture.
Nel caso specifico si discuteva di oltre 300 piazzole
occupate da strutture fisse con allacci e scarichi,
cucinini, recinzioni, intelaiature in ferro: anche quando
c'erano roulotte, i timoni erano tagliati e le ruote
mancanti o sgonfie.
Sulla base di tali elementi, e di una
nozione di turista come colui che viaggia e soggiorna in
località diverse dalla sua residenza abituale per un periodo
di tempo limitato, per piacere o affari, i giudici penali
hanno bollato l'intervento come abusivo, superando la
normativa sul turismo (Dlgs 79/2011), che ammette nei
campeggi anche mobilhome, maxicaravan, autocaravan e anche
unità abitative fisse, mentre la legge regionale del Lazio
(59/1985) prevede che vi possano essere abbonamenti alle
strutture per periodo prolungati, non superiori ad un anno,
richiedibili entro la fine dell'anno precedente.
La
differenza tra turismo e residenze stabili, sottolineano i
giudici, non è tanto nella tipologia, bensì
nell'urbanizzazione che è indotta da insediamenti non
precari. Di sicuro la precarietà va esclusa se, come e'
accaduto a Latina, le roulotte avevano inferriate alle
finestre, termosifoni ed erano inglobate in strutture in
legno
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
CONDOMINIO:
In condominio nulla osta al bar.
Contro il rumore c'è la chanche di ottenere il risarcimento
dei danni. Cassazione. Il
regolamento non può imporre limiti nei locali privati senza
il consenso scritto del proprietario.
LA CONDIZIONE/ La tutela penale è possibile se il disturbo
coinvolge un numero intedeterminato di persone oltre al
condomino del piano di sopra
Non si può vietare a un condomino di adibire i locali di sua
proprietà a bar, cornetteria e circolo ricreativo.
Ciò vale anche quando il regolamento di condominio e una
delibera condominiale vietano ai condomini di installare nei
locali dell'edificio attività idonee ad arrecare disturbo
alla quiete pubblica e incompatibili con il decoro e la
tranquillità dell'edificio stesso.
È quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione,
sentenza
08.10.2013 n. 22892,
decidendo una lite che vedeva contrapposti due condomini: il
primo si lamentava del rumore e delle immissioni
intollerabili fino a tarda notte provenienti dall'attività
di intrattenimento e vendita di alcolici svolta in un locale
di proprietà di altro condomino, nello stesso fabbricato.
Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte parte dal
presupposto che i limiti all'utilizzazione delle proprietà
esclusive previste da una delibera condominiale possono
comportare un restringimento dei poteri di godimento
dell'immobile da parte del proprietario, ma solo se il
consenso a tali limitazioni è espresso in forma scritta dal
soggetto delegato dal condomino (articolo 1350 del Codice
civile).
La delibera assunta da tutti i condomini, anche delegati, è
valida, ma non può imporre limitazioni alla proprietà se il
delegato non ha una specifica delega ad accettare tale
limite.
Se invece alla delibera fosse intervenuto il condomino in
proprio, la limitazione sarebbe operante.
La Corte di cassazione, tuttavia, non nega tutela al
condomino che deve sopportare schiamazzi e rumori fino a
tarda notte in quanto è possibile chiedere il risarcimento
dei danni, come ad esempio il deprezzamento del valore del
proprio immobile.
Possono inoltre essere risarciti danni morali, biologici
(stress, insonnia, disagi) provocati dalle immissioni
superiori alla soglia di normale tollerabilità derivanti da
bar e locali aperti fino a tarda notte.
Oltre alla tutela risarcitoria, per chi risiede ai piani
superiori di esercizi aperti al pubblico o di circoli
ricreativi, vi è anche una tutela penale (articolo 659 del
Codice penale): ma quest'ultima, sottolinea la Corte di
cassazione 28874/2013, opera solo se i rumori disturbano un
numero indeterminato di persone e non il solo condomino del
piano di sopra
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ordinanza di demolizione circa la costruzione
di una scala esterna in c.a. delle dimensioni di ml 1,20 di
larghezza e ml 4,20 di lunghezza, che insiste su area
pubblica di proprietà comunale, realizzata in forza di un
titolo edilizio formatosi per silenzio-assenso.
Se l'opera realizzata non poteva comunque essere assentita,
nel caso di specie l’ordine di demolizione della scala
avrebbe dovuto essere preceduto da un procedimento in
autotutela (con le correlate garanzie partecipative per il
privato interessato) diretto all’annullamento d’ufficio del
titolo edilizio tacitamente formatosi.
Al contrario, l’Amministrazione comunale, senza fare previo,
necessario ricorso al potere di annullamento d’ufficio, si è
avvalsa direttamente dei poteri repressivi e sanzionatori
previsti dall’art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Ne discende l’illegittimità dell’ordine di demolizione
impugnato in primo grado per difetto di un atto presupposto.
Viene in decisione l’appello con il quale G.G. chiede la
riforma della sentenza del Tribunale amministrativo
regionale per la Basilicata che, in primo grado, in
accoglimento del ricorso proposto da V.M.G., ha annullato
l’ordinanza 23.04.2010, n. 2408, con la quale il Comune di
Baragiano (PZ) ha ordinato la demolizione di una “scala
esterna in c.a. delle dimensioni di ml 1,20 di larghezza e
ml 4,20 di lunghezza, che insiste su area pubblica di
proprietà comunale, di accesso alla unità abitativa in via
Immacolata Concezione di proprietà dei coniugi signori G.A.
e V.M.G.”.
...
Risulta chiaramente dagli atti di causa (cfr. in particolare
la nota dell’Ufficio di Polizia Municipale del Comune di
Baragiano prot. n. 9 P.M:/08 del 17.01.2008) che la
scala in contestazione è stata realizzata sulla base di uno
straordinario silenzio-assenso comunale formatosi ai sensi
dell’art. 14, ottavo comma, della legge 14.05.1981, n.
219 (conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 19.03.1981, n. 75, recante ulteriori
interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi
sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti
organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori
colpiti).
Non si tratta, quindi, di un’opera abusiva, ma di un
intervento edilizio assentito così legittimato.
È evidente, allora, che l’ordine di demolizione della scala
avrebbe dovuto essere preceduto da un procedimento in
autotutela (con le correlate garanzie partecipative per il
privato interessato) diretto all’annullamento d’ufficio del
titolo edilizio tacitamente formatosi.
Al contrario, l’Amministrazione comunale, senza fare previo,
necessario ricorso al potere di annullamento d’ufficio, si è
avvalsa direttamente dei poteri repressivi e sanzionatori
previsti dall’art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380. Ne
discende l’illegittimità dell’ordine di demolizione
impugnato in primo grado per difetto di un atto presupposto.
L’appello, pertanto, deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.10.2013
n. 4946 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Partendo
dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio
non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le
deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), anche in materia di
azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed
esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se
agire in giudizio, se resistere e se impugnare i
provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente.
Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma
all’amministratore che, per sua natura, non è un organo
decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale
potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche
autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche
impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea
e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il
condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza
aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento
l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale
nell’interesse del condominio che rappresenta solo in
presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la
sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche
in campo processuale.
Deve richiamarsi in questa sede
l’indirizzo giurisprudenziale più volte espresso dalla Corte
di Cassazione e recentemente avallato dalle Sezioni Unite
(cfr. Cass., SS.UU., 06.08.2010, n, 18331) che, partendo
dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio
non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le
deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), giunge alla conclusione
che, anche in materia di azioni processuali, il potere
decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la
quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e
se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta
soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in
via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è
un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio.
Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi
potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in
giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il
consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza,
far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese
processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al
riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo
orientamento, che la Sezione condivide, l’amministratore può
proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del
condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica
autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il
relativo potere decisionale, anche in campo processuale.
Nel caso di specie, tale autorizzazione deve ritenersi
mancante
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.10.2013
n. 4944 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Il diritto di accesso agli atti apre anche ai subappaltatori.
Tar Lazio. A garanzia dei pagamenti.
L'INDICAZIONE/
Per i giudici amministrativi l'opportunità si estende a
catena per poter «valutare» la situazione dei fornitori.
Non è necessario avere un rapporto diretto con un ente di
natura pubblicistica per poter esercitare il diritto di
accesso agli atti necessario a passare sotto esame la
capacità dell'ente di effettuare i pagamenti nei confronti
dei fornitori. Questo diritto si estende a catena, e
riguarda anche chi ha stipulato un contratto con una società
privata che, a sua volta, si è vista affidare un appalto
dall'ente pubblico in questione: in particolare, se il
privato appaltatore non onora i contratti con la società "a
valle", quest'ultima può bussare direttamente alle porte
dell'ente pubblico, e mettere gli occhi sul contratto di
appalto, sugli stati di avanzamento lavori, sui certificati
e sui mandati di pagamento emessi in favore
dell'appaltatore.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III, nella
sentenza 07.10.2013 n. 8639, che
sulla base di questo ragionamento ha dato ragione a una Srl
impegnata senza successo nella richiesta degli atti a
un'università.
La Srl, infatti, aveva firmato un contratto
con un'altra società privata, titolare di un appalto bandito
dall'ateneo per una serie di interventi sulle strutture. Il
lavoro era stato eseguito, ma i pagamenti previsti dal
contratto (500mila euro) non erano mai arrivati.
Il Codice degli appalti (Dlgs 163/2006, articolo 118) tutela
il subappaltatore, imponendo fra l'altro all'ente pubblico
di bloccare i versamenti se l'affidatario non certifica
puntualmente i pagamenti effettuati nei confronti dei
privati che lavorano per lui; per esercitare questo diritto,
dal momento che l'affidatario era finito nella procedura di
concordato preventivo, la Srl ha chiesto all'ateneo di
accedere ai documenti, ma non ha ricevuto risposta (in
questi casi, in base all'articolo 25, comma 4, della legge
241/1990, il silenzio equivale a un rifiuto).
Da qui la lite, a cui il Tar Lazio ha offerto la prima
soluzione.
Per i giudici amministrativi, la condizione di
subappaltatore determina un «interesse concreto e attuale»
all'accesso agli atti, perché con la documentazione in mano
può chiedere il blocco dei pagamenti all'ente pubblico e
decidere come agire in via giurisdizionale. Contratti e
mandati di pagamento, specifica il Tar, hanno natura
privatistica, ma rientrano nel novero dei «documenti
amministrativi» se adottati da un ente pubblico (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
APPALTI: P.a. aperta ai subappaltatori. Crediti verso appaltatori?
Stato dei lavori senza segreti.
Sancito dal Tar del Lazio il diritto di accesso a tutela
degli interessi delle imprese.
Il subappaltatore che vanta un credito verso l'impresa
subappaltante può esercitare il diritto di accesso nei
confronti dell'ente pubblico che ha commissionato i lavori.
Quest'ultimo, quindi, è tenuto a rendere disponibile tutta
la documentazione relativa al contratto di appalto e alla
sua esecuzione.
L'importante chiarimento arriva dal TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 07.10.2013 n. 8639, che ha
ordinato a una persona giuridica di diritto pubblico
(rientrante nella categoria degli enti pubblici non
economici) di esibire al subappaltatore, oltre al contratto
di appalto, anche tutti gli stati avanzamento lavori (Sal),
i certificati e i mandati di pagamento da essa emessi in
favore dell'impresa appaltatrice.
Secondo i giudici laziali, la conoscenza di tale
documentazione, dando riscontro sullo stato dei pagamenti
effettuati dall'ente pubblico, consente al creditore di
decidere sulle iniziative più adeguate al recupero delle
somme che formano oggetto del suo credito.
La rilevanza pronuncia, peraltro, va al di là del caso
specifico, in quanto essa afferma che i predetti documenti,
sebbene abbiano natura privatistica, rientrano comunque
nella nozione di «documento amministrativo» ai sensi
dell'art. 22, comma 1, lett. d), della l 241/1990, in quanto
sono stati adottati da un ente pubblico che persegue le
proprie finalità pubblicistiche anche attraverso strumenti
di diritto privato. Essi, pertanto, sono soggetti
all'accesso e, quindi, ostensibili al privato (cfr,
Consiglio di Stato IV sezione, sentenza 04.02.1997, n. 82).
Non solo, ma la sussistenza del diritto di accesso non è
subordinato alla sussistenza di un subappalto ai sensi
dell'art. 118 del Codice dei contratti: ciò che conta,
infatti, è che vi sia un rapporto, seppure indiretto, tra il
soggetto pubblico e una delle due imprese e che l'altra
possa vantare un interesse concreto e attuale alla
conoscenza del relativo fascicolo. In tal caso, l'ente
pubblico non può negare l'accesso
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ricostruzione L'Aquila, operazione trasparenza.
Fuori le carte sugli appalti,
pubblici i consorzi obbligatori.
Operazione-trasparenza nella ricostruzione post sisma
all'Aquila. Hanno natura pubblica i consorzi obbligatori
costituiti con l'ordinanza della presidenza del consiglio
dei ministri per gestire gli interventi edilizi necessari
dopo il terremoto che devastò l'Abruzzo il 06.04.2009.
Dunque? L'azienda risultata non affidataria dei lavori ha
ben diritto ad accedere al verbale dell'assemblea in cui il
consorzio ha valutato le offerte proposte dagli operatori
economici invitati a partecipare alla procedura per le opere
di rifacimento dell'aggregato edilizio di competenza.
Lo stabilisce il Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza
07.10.2013 n. 4923.
Riscontri oggettivi
Accolto il ricorso della società cooperativa per azioni
difesa dagli avvocati Angelo Maleddu e Sergio Fiorenzano. È
vero: il consorzio obbligatorio costituito in base all'Opcm
3820/09 può dirsi senz'altro un organismo di natura privata.
Ma non c'è dubbio che esso svolga nel contempo un'attività
d'interesse pubblico. La ricostruzione dell'Aquila,
osservano infatti i giudici di Palazzo Spada, non è una
circostanza che sta a cuore soltanto ai singoli proprietari
immobiliari rimasti colpiti dal sisma di quattro anni fa: è
un'intera città che rinasce e la circostanza mostra profili
rilevanti sul piano strutturale, igienico-sanitario,
architettonico, estetico e monumentale.
Ecco perché, dunque, deve essere rovesciato il verdetto del
Tar Abruzzo: dal momento che il consorzio sul piano
oggettivo svolge un'attività di pubblico interesse, esso
assume la veste di pubblica amministrazione e, dunque,
risulta soggetto all'art. 22 della legge sulla trasparenza
amministrativa (la 241/1990), con il relativo diritto del
privato ad accedere agli atti. Sono infatti tenuti alla
trasparenza «i soggetti di diritto privato limitatamente
alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal
diritto nazionale o comunitario».
Risultato: entro venti giorni dalla notifica della sentenza
il consorzio deve tirare fuori il verbale dell'assemblea che
valutò la congruità delle offerte proposte per la
realizzazione dei lavori in palio. Compensate le spese dei
due gradi di giudizio, probabilmente per la novità della
questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nelle partecipate comunali assunzione solo per concorso.
Lavoro. Il Tribunale di Salerno respinge la richiesta di
alcuni interinali.
LA REGOLA/
La somministrazione illegittima non fa titolo per il
riconoscimento del rapporto subordinato nella società «in
house».
L'assunzione in una società in house del Comune può avvenire
solo con pubblico concorso. Deve respingersi, quindi,
l'istanza proposta da un gruppo di lavoratori interinali
che, evidenziando l'irregolarità del rapporto fra l'agenzia
di lavoro temporaneo e la partecipata pubblica, avevano
richiesto di vedersi riconoscere un rapporto di lavoro
subordinato in capo a quest'ultima.
A sancire il principio di diritto è stato il TRIBUNALE del
lavoro di Salerno (sentenza
07.10.2013 n. 3847),
con cui il giudice unico ha rigettato il ricorso presentato
dai lavoratori.
Si tratta di un intervento apprezzabile,
stante il clima di incertezza che spesso regna fra enti
locali ed operatori dei servizi pubblici circa la corretta
applicazione delle disposizioni in materia di personale
delle società pubbliche.
Il Tribunale ha esaminato le richieste di alcuni interinali
in forza alla partecipata del Comune di Salerno (a totale
partecipazione pubblica), costituita per la gestione del
servizio d'igiene urbana. Le istanze dei lavoratori traevano
spunto dalla presunta illegittimità del termine apposto ai
singoli contratti (più volte prorogati), nonché
dall'irregolarità della somministrazione intercorsa fra le
singole agenzie e i ricorrenti. La partecipata si è opposta
all'assunzione, lamentando che la stessa sarebbe avvenuta in
spregio alle disposizioni di cui alle leggi 133/08 e 102/09,
relativamente alle limitazioni imposte agli enti locali in
tema di assunzioni. Il Tribunale, dunque, si è dovuto
pronunciare sull'applicabilità dei limiti non solo agli enti
locali ma, di riflesso, anche a tutte le società –benché di
diritto privato– interamente partecipate dai medesimi enti.
Ebbene, il Giudice ha evidenziato che, in base
all'ordinamento vigente, «… le società interamente
partecipate o controllate da un ente pubblico locale e che
sono titolari di un affidamento diretto (senza gara) di
servizi pubblici locali di rilevanza economica: a) devono
rispettare i divieti e le limitazioni alle assunzioni di
personale eventualmente previste dalla normativa vigente in
relazione all'ente controllante; b)devono adeguare le
proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per
l'ente controllante».
A ciò si aggiunge, continua la sentenza, l'obbligo di
adottare, da parte della partecipata, un provvedimento di
carattere organizzativo che definisca i criteri e le
modalità per il reclutamento del personale, nel rispetto dei
principi fissati dall'articolo 35, comma 3 del Dlgs 165/2001.
Proprio in ossequio a tale disposizione, il Tribunale ha
concluso che anche le società partecipate –come l'ente
locale che le controlla– sono tenute a garantire gli stessi
criteri di imparzialità, economicità e trasparenza delle
procedure di selezione del personale. Pertanto, l'assunzione
in capo alla partecipata non potrebbe aver luogo se non
attraverso un pubblico concorso (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi personali top secret.
Il dirigente non può indagare i motivi dell'assenza.
Una nuova sentenza rafforza l'orientamento
giurisprudenziale e indica i paletti.
La fruizione del diritto ai permessi per motivi personali e
familiari è insindacabile. E dunque, i dirigenti scolastici,
una volta ricevuta la domanda da parte del dipendente
interessato, non possono fare altro che prenderne atto e
disporre le relative sostituzioni.
É quanto si evince da una
sentenza
04.10.2013 n. 544/2013 del giudice del lavoro di Potenza.
La fruizione dei permessi, infatti, è «condizionata dalla
sussistenza di due soli presupposti: la richiesta preventiva
e la autocertificazione della motivazione, personale o
familiare.». E quindi, recita la sentenza, «il diritto ai
tre giorni di permesso retribuito non è soggetto ad alcun
potere -discrezionale di diniego» da parte del dirigente
scolastico al quale viene indirizzata l'istanza.
La pronuncia si inquadra in un vero e proprio orientamento
giurisprudenziale, che vede l'amministrazione scolastica
sistematicamente soccombente. E aggiunge un tassello
importante. Il giudice del lavoro di Potenza, infatti, ha
chiarito che il diritto insorge anche nel caso di mero
motivo personale o familiare. E che in ogni caso, la scelta
del tempo e del modo di fruizione spettano in via esclusiva
al dipendente che ne fa domanda. Il caso riguardava una
docente di lingua straniera, che aveva chiesto un permesso a
ridosso delle vacanze di Pasqua per effettuare un viaggio
all'estero ed esercitarsi nell'uso delle lingue. Ritenendo
che il permesso fosse un suo diritto (escludendo, dunque, la
possibilità che tale diritto le venisse precluso) aveva
anche acquistato il biglietto dell'aereo. Il dirigente,
però, aveva opposto un netto rifiuto, frapponendo ostacoli
di carattere organizzativo e valutazioni di merito circa
l'opportunità di differire la data del viaggio.
La docente,
però, non si era data per vinta e, pur rinunciando al
viaggio, aveva presentato ricorso. E il giudice del lavoro
le ha dato ragione su tutta la linea, censurando le
argomentazioni del dirigente scolastico (dichiarandole
inammissibili) e condannando l'ufficio scolastico, in solido
con il dirigente, a pagare 1800 euro di spese legali, più
Iva e cassa degli avvocati. Il giudice monocratico ha
condannato l'amministrazione e il dirigente scolastico anche
a risarcire alla docente il prezzo del biglietto, pari a
46.08 euro. Il tutto aggiungendo che: «Sulla predetta somma
dovranno essere calcolati gli interessi legali, dal dovuto
al saldo, trattandosi di crediti risarcitori, legati alla
violazione di diritti derivanti da un rapporto di lavoro
alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione.».
L'istituto dei permessi per motivi personali o familiari ha
subito nel corso degli anni diverse trasformazioni. E solo
nell'ultima tornata contrattuale è stato qualificato
espressamente come diritto. Quando questo genere di assenze
tipiche fecero il loro ingresso nel contratto di lavoro, nel
1995, la clausola negoziale di riferimento prevedeva che la
fruizione fosse subordinata ad una previa concessione del
dirigente scolastico «per particolari motivi personali o
familiari debitamente documentati anche al rientro». Nella
tornata successiva, nel 1999, le parti cancellarono le
locuzioni «particolari» e «debitamente». Ma bisognerà
attendere fino al 2002 per ottenere la cancellazione della
previa concessione.
Nella nuova formulazione i permessi
venivano attribuiti e non più concessi. Infine nel 2003 i
permessi sono stati qualificati come diritti. E ciò ha
sgombrato definitivamente il campo dagli equivoci. Sebbene
anche oggi vi siano dirigenti scolastici convinti che i
permessi personali siano ancora soggetti a concessione.
Tant'è che negli ultimi due anni si stanno accumulando le
sentenze di condanna dell'amministrazione scolastica. La
sentenza apripista, dopo l'ultima tornata negoziale, è del
Tribunale di Monza: la 288 del 12.05.2011. Dopo di che è
intervenuto il Tribunale di Lagonegro (04.04.2012, n. 309).
Successivamente il Tribunale di Campobasso (n. 749 del
27.11.2012). E infine Potenza
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2013). |
CONDOMINIO: Le deliberazioni del condominio non ledano i diritti
individuali. La Cassazione
sull'attribuzione delle spese che ricadono tra quelle
comuni.
Le deliberazioni dell'assemblea condominiale, sebbene
adottate a maggioranza, non possono ledere diritti
individuali attribuendo ad alcuni dei condomini parti di
spese circa l'impianto di riscaldamento che non ricadono,
per espressa previsione del regolamento contrattuale, tra
quelle comuni.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con
sentenza
03.10.2013 n. 22634.
Il caso su cui si è espressa la Suprema corte riguardava
alcuni condomini che non erano comproprietari in virtù
dell'esistenza di un regolamento contrattuale che, superando
la c.d. presunzione di condominialità, li aveva esclusi dal
condominio su quel bene. In questo contesto, pertanto, era
giusta la conclusione di considerare nulla la deliberazione
di approvazione della ripartizione delle spese.
Circa la presunzione di condominialità appare opportuno, in
questa sede, osservare che la giurisprudenza afferma che i
beni indicati nell'art. 1117 c.c., si intendono comuni per
presunzione derivante sia dall'attitudine oggettiva che
dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune
(si veda Cass. 13.03.2009, n. 6175). E una recentissima
sentenza della Cassazione (sez. II civ., 26.07.2012, n.
13262) ha sottolineato tale principio affermando che l'art.
1117 c.c. (nuova formulazione aggiornato dall'art. 1, legge
11.12.2012, n. 220, in vigore dal 17.06.2013) pone
una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati,
la cui elencazione non è tassativa. In parole povere, i beni
indicati nell'art. 1117 c.c. si presumono comuni sino a
prova contraria.
Gli Ermellini hanno, quindi sottolineato che «i condomini
debitori, a fronte della contestazione delle spese di
riscaldamento, hanno legittimamente esercitato la facoltà di
imputazioni riconosciuta dall'art. 1193 c.c. con riferimento
alle spese di gestione ordinaria, non intendendo invece
estinguere, perché ritenute non dovute, quelle di
riscaldamento oggetto di causa». Aggiungendo, poi, che si
era dinanzi ad un caso «di delibera incidente sui diritti
individuali dei condomini (...), vertendosi sulla
sussistenza del diritto e non sulla mera determinazione
quantitativa del riparto spese per avere il condominio
addebitato a detti condomini importi relativi all'impianto
di riscaldamento che la sentenza impugnata ha escluso
riguardasse i locali siti ai piani sottotetto appartenenti
ai resistenti, per espressa disposizione del regolamento
condominiale (non contestata dall'appellante condominio),
costituente titolo contrario idoneo a vincere la presunzione
di comproprietà dell'impianto di riscaldamento, ex art. 1117
c.c.»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti nulli, Pa tutelata.
Sul principio di conversione prevale quello dell'assunzione
per concorso. Lavoro. Sentenza del
Tribunale di Roma ribadisce l'intrasformabilità
della somministrazione a termine.
NEL DISPOSITIVO/
Il lavoratore non può ottenere neppure l'indennità
risarcitoria forfetaria Danno risarcibile solo se provato in
maniera rigorosa.
La nullità del contratto di somministrazione di manodopera
stipulato con la pubblica amministrazione non comporta né la
conversione a tempo indeterminato del rapporto alle
dipendenze dell'utilizzatore, né il diritto al godimento di
un'indennità risarcitoria forfetaria. Il danno può essere
riconosciuto solo se viene provato in maniera rigorosa dal
lavoratore: in mancanza di tale prova, il dipendente, pur
avendo ottenuto una sentenza favorevole sul tema della
invalidità del rapporto, non matura alcun credito economico.
Questi concetti, coerenti con l'assetto complessivo delle
regole che governano il lavoro flessibile presso la Pa, sono
ricostruiti nell'interessante
sentenza
01.10.2013 del TRIBUNALE di
Roma, Sez. III lavoro, con la quale è stata decisa la
causa promossa da alcuni ex lavoratori somministrati che
avevano prestato servizio, sulla base di diversi contratti
commerciali di somministrazione, alle dipendenze di un ente
pubblico.
Dopo la cessazione dell'ultimo di questi
contratti, i lavoratori avevano avviato un giudizio per
ottenere l'accertamento dell'invalidità dei contratti,
lamentando la genericità della causale, che era in effetto
molto problematica (nei contratti era scritto che si
ricorreva alla somministrazione «per far fronte a ragioni di
carattere organizzativo relative a esigenze di lavoro
aggiuntivo».) Il Tribunale ha accolto la doglianza dei
lavoratori, richiamando quell'orientamento giurisprudenziale
che considera l'indicazione specifica della causale come
condizione di validità del contratto commerciale di
somministrazione.
Una volta accertata l'invalidità del contratto, il giudice
ha analizzato le conseguenze di questa situazione. A tal
fine, viene richiamato l'articolo 86 del Dlgs 276/2003, nella
parte in cui chiarisce che l'effetto tipico della
somministrazione irregolare –la costituzione di un rapporto
di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore– non si
verifica quando le prestazioni lavorative sono state rese
nei confronti della pubblica amministrazione.
Questa norma,
ribadita per tutti i contratti flessibili anche dal Testo
Unico Pubblico Impiego, serve a difendere il principio
costituzionale del pubblico concorso, che sarebbe violato
qualora si accedesse al lavoro presso la Pa con forme
diverse. In mancanza di una conversione del rapporto,
osserva la sentenza, il lavoratore può solo chiedere un
risarcimento del danno. Sul punto la pronuncia afferma un
concetto molto netto: tale danno deve essere valutato alla
stregua delle forme tipiche del codice civile (danno
emergente o lucro cessante), in quanto non esiste nel nostro
sistema giuridico l'istituto del danno punitivo.
Considerato
che i lavoratori non hanno fornito elementi validi per
dimostrare l'esistenza di nessuna delle due voci di danno,
il giudice conclude per il rigetto della domanda
risarcitoria: esclude, infine, che possa essere concessa
l'indennità risarcitoria prevista dal collegato lavoro per i
casi di conversione dei rapporti a termine, in quanto nei
confronti della Pa la conversione, come già ricordato, non
può mai verificarsi (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'esuberanza extra lavoro costa cara.
L'operatore della Guardia di finanza fuori servizio che
intimorisce il cittadino per una questione di parcheggio
inseguendolo e costringendolo ad arrestare il proprio
veicolo mostrandogli il tesserino rischia la condanna per
violenza privata.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V penale con la
sentenza 30.09.2013 n. 40346.
Una banale lite stradale per motivi di viabilità ha
innescato un inseguimento tra due veicoli che si è concluso
con la denuncia dell'inseguitore in divisa e la sua condanna
definitiva per violenza privata. In pratica un agente di
polizia tributaria libero dal servizio ha parcheggiato male
il proprio veicolo ostruendo la viabilità di altri utenti.
A seguito di una accesa discussione tra gli autisti
l'operatore di polizia fuori turno ha esibito il proprio
tesserino inseguendo l'altro conducente animato fino ad
obbligarlo ad arrestarsi. Per questo comportamento
inadeguato dell'operatore di polizia a parere del collegio
scatta il reato di violenza privata che si concretizza
nell'arresto ingiustificato del veicolo dell'altro soggetto
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013). |
CONDOMINIO:
Assemblea, avviso anticipato. La convocazione deve pervenire
cinque giorni prima.
Le indicazioni operative sulla riforma
del condominio in una sentenza della Cassazione.
L'avviso di convocazione dell'assemblea deve pervenire ai
condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per
la riunione in prima convocazione.
È questo il primo
interessante chiarimento fornito dalla Cassazione in
applicazione della nuova legge n. 220/2012 di riforma del
condominio.
Nella recente
sentenza
26.09.2013 n. 22047 la
Corte di cassazione, Sez. VI civile, si è così pronunciata sulla questione del
termine di legge da rispettare per la convocazione
dell'assemblea condominiale, anche alla luce del nuovo
disposto di cui all'art. 66 delle disposizioni di attuazione
del codice civile.
Il caso in questione.
La vicenda portata all'attenzione della Suprema corte
nasceva dall'impugnazione di due deliberazioni condominiali
ritenute invalide perché adottate nel corso di una riunione
assembleare irregolarmente convocata. In particolare la
condomina che si era rivolta al tribunale aveva eccepito il
fatto che, dopo un primo tentativo di recapito dell'avviso
di convocazione non andato a buon fine, aveva ricevuto detta
comunicazione solo un giorno prima della data fissata per
l'assemblea condominiale in prima convocazione e due giorni
prima della seconda convocazione della stessa. Nella specie
il tribunale aveva però dato ragione al condominio,
osservando come la convocazione assembleare fosse stata
inviata dall'amministratore nei termini previsti dalla
legge, senza invece prendere in considerazione la data in
cui la condomina aveva potuto prendere effettivamente
visione del contenuto dell'avviso.
La Corte d'appello
interpellata in secondo grado, che pure aveva confermato la
decisione del tribunale, aveva quindi affermato come, in
assenza di particolari prescrizioni di legge per la
comunicazione ai condomini della convocazione assembleare,
il termine di cinque giorni dovesse essere interpretato con
riguardo alla seconda convocazione dell'adunanza
condominiale, «essendo prassi comune, da parte dei
condomini, quella di non presentarsi alla prima, ma solo
alla seconda convocazione». A riprova di quanto sopra i
giudici di appello avevano evidenziato la circostanza che
nella specie la delibera impugnata era stata adottata in
seconda convocazione, a riprova del fatto che la prima
riunione fosse andata deserta.
La decisione della Suprema corte.
Come ci si poteva aspettare, vista la singolarità del
contenuto delle decisioni di merito, la condomina aveva
quindi portato la questione dinanzi alla Cassazione che,
ribaltando le precedenti sentenze, ne ha dunque accolto i
motivi di impugnazione.
I supremi giudici hanno in primo luogo ricordato come ogni
condomino abbia il diritto di intervenire all'assemblea, con
la conseguente necessità che l'avviso di convocazione sia
non solo inviato ma anche ricevuto entro il termine previsto
dalla legge. In particolare, il predetto avviso deve essere
ricevuto da ogni condomino nel termine di almeno cinque
giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima
convocazione. Infatti secondo la Corte di cassazione,
contrariamente a quanto affermato nella specie dalla Corte
d'appello, è decisamente errato sostenere che, considerata
la normale partecipazione dei condomini alla seconda
convocazione assembleare più che alla prima, il giorno da
considerare per accertare il rispetto del termine di legge
debba essere quello della seconda convocazione. Al
contrario, ai fini del conteggio di tale termine, occorre
considerare esclusivamente la data dell'assemblea fissata in
prima convocazione.
Del resto questa conclusione è sempre stata ritenuta
corretta dalla giurisprudenza anche prima dell'entrata in
vigore della nuova disciplina del condominio. E attualmente,
come sottolineato dai supremi giudici, questa
interpretazione risulta pienamente confermata
dall'intervento del legislatore, che, al nuovo art. 66,
comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile,
ha espressamente stabilito che il termine di cinque giorni
debba essere riferito alla prima convocazione
dell'assemblea, a nulla rilevando la data di svolgimento
dell'assemblea in seconda convocazione, né che tale data sia
stata eventualmente già fissata nel medesimo avviso di
convocazione.
Sempre secondo la Cassazione, la comunicazione dell'avviso
di convocazione si considera avvenuta nel momento in cui la
stessa giunga a conoscenza del condomino e da tale momento
comincia a decorrere, a ritroso, il predetto termine di
cinque giorni, prendendo a riferimento la data di prima
convocazione dell'assemblea. Nella specie i giudici di
legittimità hanno quindi evidenziato come la Corte d'appello
non avesse minimamente preso in considerazione il dato
temporale relativo alla conoscenza, da parte della condomina,
della data di svolgimento dell'assemblea condominiale.
Infatti, dopo avere appurato documentalmente come la stessa
fosse stata messa effettivamente in condizione di
partecipare all'assemblea condominiale un solo giorno prima
della prima convocazione e due giorni prima della seconda
convocazione, i giudici di merito avrebbero dovuto rilevare
la tardività della convocazione dell'assemblea e
conseguentemente annullare le delibere adottate. Infatti la
mancata conoscenza, da parte del condomino, della data
dell'assemblea condominiale costituisce motivo di
annullabilità delle delibere assembleari per contrarietà
alla legge, come ora espressamente disposto dall'art. 66
disp. att. c.c.
--------------
Da indicare ordine del giorno, luogo e
ora della riunione.
L'avviso di convocazione, che deve essere predisposto
dall'amministratore e inviato a tutti i condomini presso la
propria residenza o il proprio domicilio, come risultante
dall'anagrafe condominiale (che è specifico obbligo
dell'amministratore provvedere a mantenere aggiornata), è
finalizzato a consentire la partecipazione dei condomini
all'assemblea. Il nuovo terzo comma dell'art. 66 disp. att.
c.c., facendo tesoro dei più recenti approdi
giurisprudenziali, specifica che lo stesso deve contenere
l'indicazione dell'ordine del giorno, oltre al luogo e
all'ora della riunione.
L'avviso deve essere comunicato ai condomini almeno cinque
giorni prima della data fissata per l'adunanza. Si tratta di
una disposizione introdotta e confermata dal legislatore per
meglio tutelare la posizione dei condomini, in modo da dare
agli stessi la possibilità di organizzare i propri impegni e
poter così presenziare alla riunione, preparandosi in modo
adeguato alla discussione dei singoli argomenti posti
all'ordine del giorno.
Il computo del termine in questione si effettua a partire
dalla data fissata per l'assemblea (che non deve essere
conteggiata) e procedendo a ritroso nel tempo. Se, tanto per
fare un esempio, l'assemblea è stata convocata per il 27
marzo, la comunicazione ai condomini dovrà essere effettuata
entro e non oltre il 22 marzo. In caso di avviso che
contenga la data sia della prima che della seconda
convocazione, il termine in questione, come confermato dalla
Suprema corte, dovrà essere calcolato sulla prima, anche se
sia già certo che la stessa andrà deserta. I cinque giorni
che il legislatore ha voluto concedere ai condomini per
prepararsi alla riunione assembleare devono inoltre essere
intesi come pieni. Ne consegue, per riprendere l'esempio
precedente, che l'avviso di convocazione dovrà arrivare ai
condomini entro e non oltre il 21 marzo, rimanendo
imputabili all'amministratore eventuali ritardi dovuti a
disservizi postali.
Il nuovo art. 66 disp. att. c.c. disciplina quindi in modo
specifico le modalità per l'inoltro dell'avviso di
convocazione, richiedendo alternativamente l'utilizzo della
posta raccomandata, della posta elettronica certificata, del
fax oppure la consegna a mano (con consigliabile ricevuta
cartacea del ritiro dell'avviso da parte del condomino).
La giurisprudenza più recente ha sempre ritenuto che il
mancato rispetto del termine di invio dell'avviso di
convocazione fosse da ritenere causa di annullabilità e non
di nullità della deliberazione assembleare. Alla luce delle
novità introdotte dalla riforma della disciplina
condominiale in merito alle modalità di impugnazione
giudiziale delle deliberazioni assembleari (art. 1337 c.c.),
non stupisce che il nuovo art. 66 disp. att. c.c. abbia
chiarito in modo espresso che qualsivoglia vizio relativo
all'omissione, alla tardività o all'incompletezza della
convocazione legittima il condomino alla mera richiesta di
annullamento della conseguente delibera assembleare
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Equitalia di vetro.
Accesso alle cartelle esattoriali. A
contenzioso concluso.
Equitalia non può negare l'accesso alle cartelle esattoriali
se la richiesta riguarda atti di un procedimento tributario
concluso.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 26.09.2013 n. 4821.
La controversia verte sulla richiesta di accesso proposta da
un contribuente nei confronti del concessionario della
riscossione, avente ad oggetto l'integrale produzione di
ciascuna cartella esattoriale per consentire all'interessato
di conoscere il complessivo ammontare e le relative causali
delle pretese fiscali o tributarie a suo nome.
L'istanza era stata rigettata dal momento che si trattava di
procedimenti tributari e che la richiesta del contribuente
riguardava ben 55 cartelle di pagamento.
Il Consiglio di stato ritiene il diniego illegittimo.
Infatti, sebbene l'art. 24, legge n. 241 del 1990 escluda il
diritto d'accesso, tra l'altro, nei procedimenti tributari,
per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano, è da ritenere che questa norma debba essere
intesa, secondo una lettura della disposizione
costituzionalmente orientata, nel senso che
«l'inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di
accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi
reddituali che conducono alla quantificazione del tributo».
Deve, quindi, riconoscersi il diritto di accesso qualora
l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con
l'emanazione del provvedimento finale e quindi, in via
generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere
agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Secondo il Collegio, dal momento che la cartella esattoriale
costituisce presupposto di procedure esecutive, la richiesta
di accesso è strumentale alla tutela dei diritti del
contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento
giuridico ritenute più rispondenti e opportune. Ritenere
diversamente implicherebbe, sostanzialmente, introdurre una
limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del
contribuente, o, in ogni caso, rendere estremamente
difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che
dovrebbe impegnarsi in una faticosa ricerca delle copie
delle cartelle. Questa limitazione colliderebbe con i
principi costituzionale che garantiscono la tutela
giurisdizionale, e con il principio, di rango
costituzionale, di razionalità
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013). |
APPALTI:
Revoca della gara per mancanza fondi: nessun limite per la
PA.
Nelle procedure ad evidenza pubblica
l'intervenuta aggiudicazione provvisoria (o definitiva) non
osta alla revoca in autotutela dell'intera gara per
sopravvenuta mancanza di copertura finanziaria, dovendo
sempre prevalere il potere/dovere dell'amministrazione di
rivedere i suoi impegni di spesa, e ciò senza che possano
prospettarsi profili di responsabilità precontrattuali volte
ad avanzare pretese risarcitorie da parte dei partecipanti
alla gara revocata.
Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 26.09.2013 n. 4809.
Nel caso di specie una Azienda sanitaria locale ha indetto
un appalto concorso per la realizzazione di un parcheggio
con sistemazione del verde e della viabilità presso un polo
ospedaliero. La gara ha registrato il suo corso fino
all'aggiudicazione provvisoria. Dopodiché, rilevata
l'anomalia dell'offerta presentata dall'aggiudicataria in
sede di controllo, la stazione appaltante ha bruscamente
interrotto la selezione.
Avverso il provvedimento con cui si dichiarava
l'inaffidabilità dell'offerta della provvisoria
aggiudicataria è stato proposto ricorso al Tribunale
amministrativo regionale; e tuttavia, nelle more del
giudizio, l'intera gara è stata revocata per mancanza di
adeguata copertura finanziaria come anche della rispondenza
dell'appalto alle effettive esigenze dell’amministrazione.
All'esito del sindacato di prime cure il giudice
amministrativo ha rigettato tutte le richieste dell'impresa
ricorrente, ritenendo il provvedimento congruamente motivato
e la richiesta di risarcimento danno per responsabilità
precontrattuale parimenti infondata sul presupposto
dell'impossibilità di individuare l'asserita lezione della
posizione soggettiva dell'impresa in presenza di
un'aggiudicazione, allo stato, solamente provvisoria.
La lite è stata sottoposta all'attenzione dei giudici romani
di Palazzo Spada, innanzi ai quali l'aggiudicataria ha
reiterato le proprie censure nei confronti del comportamento
serbato dall'amministrazione nei suoi confronti, giudicato
lesivo del legittimo affidamento riposto sull'esito della
procedura. Più precisamente, l'impresa appellante ha
rimarcato l'erroneità della decisione del Tar nella parte in
cui quest'ultimo ha negato che la posizione dell'impresa si
fosse consolidata per effetto dell'intervenuta
aggiudicazione provvisoria, per l'effetto negando
qualsivoglia risarcimento a titolo di responsabilità
precontrattuale dell'amministrazione connessa alla decisione
di revocare l'intera procedura di gara.
Ebbene, nel pronunciarsi sulla questione, il Consiglio di
Stato ha sposato l'orientamento secondo cui nelle gare di
appalto, l'aggiudicazione provvisoria rappresenta un mero “atto
endoprocedimentale” inidoneo ad assumere valenza di
decisione definitiva in ordine al soggetto aggiudicatario
della gara: i giudici capitolini hanno, invero, spiegato
come la possibilità che ad un'aggiudicazione provvisoria non
segua quella definitiva sia un “evento del tutto
fisiologico”, la cui disciplina è rinvenibile agli artt.
11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006 (Codice
dei contratti pubblici). Si esclude, dunque, che
l'aggiudicazione provvisoria possa, di per sé, essere in
grado di ingenerare qualunque affidamento tutelabile e
obbligo risarcitorio, sempre che non sussista nessuna
illegittimità nell'operato dell’Amministrazione.
Si è poi rimarcato come detta conclusione debba essere
accolta a prescindere dall’inserimento, nel bando, di
apposita clausola volta a prevedere l’eventualità di non dar
luogo alla gara o di revocarla. Ed in ogni caso, ha
soggiunto il Supremo Consesso di giustizia amministrativa,
la revoca della gara in autotutela per il venir meno delle
risorse finanziarie deve assumersi legittima, purché una
tale decisione sia accompagnata da una adeguata motivazione,
come peraltro accaduto nel caso di specie.
Infine, quanto ai profili di responsabilità precontrattuale
dell'amministrazione, è stato precisato come la correttezza
o meno del comportamento della stazione appaltante debba
essere valutata complessivamente, tenuto conto dell'intero
corso dello svolgimento della gara che sia pervenuta alla
conclusione ed alla individuazione del contraente, nonché
nella fase della formazione del contratto, alla luce
dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede,
ai sensi dell'art. 1337 del codice civile. Ciò premesso, è
un principio generale quello per cui, anche laddove sia
intervenuta l’aggiudicazione definitiva, non è precluso alla
stazione appaltante di revocare l’aggiudicazione stessa, in
presenza di un interesse pubblico individuato in concreto,
che ben può consistere nella mancanza di risorse economiche
idonee a sostenere la realizzazione dell’opera, posto che,
anche in questo caso, “rimane integro il potere/dovere
dell'amministrazione di rivedere i suoi impegni di spesa in
ragione delle mutate condizioni delle risorse finanziarie
disponibili” (commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Impossibile il passaggio dalla Tarsu alla Tia-1.
Decisione a forte rischio di contenzioso per i Comuni.
Consiglio di Stato. Ammessi in via transitoria
gli atti deliberativi già assunti.
Dopo l'entrata
in vigore del codice ambientale è possibile effettuare il
passaggio solamente alla Tia2, non più alla Tia1.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 26.09.2013 n. 4756, che ha dichiarato
l'illegittimità di un regolamento comunale istitutivo della
Tia1, approvato a giugno 2011.
All'origine della controversia una norma regolamentare che
imponeva di applicare la quota fissa della Tia anche alle
superfici produttive di rifiuti speciali (non smaltiti dal
Comune), che invece avrebbero dovuto essere totalmente
escluse dalla tassazione. Disposizione ritenuta in contrasto
con il principio comunitario "chi inquina paga", di
immediata e diretta applicazione nella legislazione
nazionale.
Ma i giudici di Palazzo Spada vanno oltre, affermando che
dal 29.04.2006 –data di entrata in vigore del Dlgs
152/2006– non è più ammissibile il passaggio alla tariffa
Ronchi, in quanto soppressa. In via transitoria è invece
tollerata la vigenza degli atti deliberativi già assunti,
mentre è possibile istituire solamente la Tia2, di cui
all'articolo 238 del Dlgs 152/2006. Niente passaggio, quindi,
dalla Tarsu alla Tia1.
Il blocco
La conclusione, tuttavia, non tiene conto del blocco di
regime durato quattro anni (dal 2007 al 2010), periodo
durante il quale non era comunque possibile cambiare
prelievo, ad eccezione dei Comuni della provincia di Trento,
in quanto a legislazione speciale. Quindi il principio
affermato dal Consiglio di Stato riguarderebbe un breve
periodo del 2006 (dal 29 aprile al 31 maggio) e le ultime
due annualità di vigenza della Tarsu, cioè il 2011 e il
2012. Il Dl 208/08 consentiva infatti di effettuare il
passaggio alla "tariffa integrata ambientale (Tia)" solo in
caso di mancata approvazione, entro il 30.06.2010,
dell'apposito regolamento statale previsto dal Dlgs
152/2006.
Inoltre, nella sentenza 4756/2013 non c'è alcun
riferimento al Dlgs 23/2011, che consente ai Comuni di
continuare ad applicare i regolamenti comunali approvati in
base alla normativa concernente la Tarsu e la Tia, ferma
restando la possibilità di adottare la "tariffa integrata
ambientale". Stessa definizione utilizzata nel 2008, che non
trova tuttavia riscontro nell'articolo 238 del Dlgs 152/2006
(Tia2), riferito alla "tariffa per la gestione dei rifiuti".
Insomma, la lettura offerta dal Consiglio di Stato non è del
tutto scontata, anche perché il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria (così definita dal Dl 78/2010), con
rilevanti problemi di natura applicativa per mancanza di
sanzioni, di poteri di accertamento eccetera.
Lo scenario
Si apre, peraltro, uno scenario a forte rischio di
contenzioso per i Comuni, pur escludendo la possibilità di
impugnativa davanti ai Tar per scadenza dei termini. I
contribuenti potrebbero comunque contestare le richieste di
pagamento, chiedendo alle commissioni tributarie la
disapplicazione dei regolamenti istitutivi della Tia1,
ancorché con una efficacia limitata al singolo caso.
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Sotto la lente
01 | Il principio
Secondo il Consiglio di Stato, dopo l'entrata in vigore del
Codice ambientale, Dlgs 152/2006, avvenuta il 29.04.2006, si poteva effettuare soltanto il passaggio dalla Tarsu
alla Tia2
02 | Il problema
La conclusione non tiene conto del fatto che per quattro
anni (dal 2007 al 2010) c'è stato un blocco di regime,
ragion per cui il principio riguarderebbe solo un mese del
2006 e gli ultimi due anni di vigenza della Tarsu (2011 e
2012).
Considerando anche che il passaggio obbligato alla
Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura
extratributaria, si prefigura la possibilità che i
contribuenti contestino le richieste di pagamento e chiedano
di disapplicare i regolamenti istitutivi della Tia1
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ripetitori di telefonia cellulare: le modifiche necessitano
di autorizzazione espressa.
L'autorizzazione per l'installazione di
stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche
mobili GSM/UMTS (art. 87, d.Lgs. n. 259/2003) in quanto
espressamente prevista anche per "la modifica delle
caratteristiche di emissione", è necessaria per la
realizzazione di lavori di installazione di ulteriori
ripetitori, intervento che - per le sue connotazioni
innovative concrete - non può considerarsi di mera
manutenzione straordinaria dell'esistente.
Il caso
Il G.I.P. del Tribunale sottoponeva a sequestro preventivo
l'antenna e gli apparati di una stazione per la telefonia
cellulare della "Vodafone Omnitel N.V.", ipotizzando
la violazione dell'art. 44, lett. b), del D.P.R. n.
380/2001, poiché sull'antenna in oggetto,della quale era già
stata prevista la delocalizzazione in altra area del
territorio comunale, erano stati realizzati lavori di
installazione di ulteriori ripetitori in difetto di permesso
di costruire ed anzi in presenza di un diniego espresso
opposto dall'amministrazione comunale. La società "Vodafone"
proponeva istanza di riesame, deducendo di avere inoltrato
al Comune una SCIA in data antecedente all’accertamento di
polizia, in relazione alla quale doveva ritenersi formato il
silenzio-assenso mentre quell'amministrazione aveva adottato
la misura della sospensione dei lavori ben oltre il termine
di 90 giorni previsto per il formarsi dell'assentimento
tacito.
Il Tribunale aveva respinto l'istanza di riesame,
evidenziando che il piano di localizzazione delle stazioni
radio base (SRB)approvato dal Comune escludeva che
l'installazione in oggetto potesse essere realizzata, tanto
che la società proprietaria dell'impianto (Telecom s.p.a.)
ne aveva concordato con l'amministrazione locale la
delocalizzazione in altro sito. Esistendo una specifica
previsione di allocazione non trova applicazione il
principio secondo il quale le SRB possono essere installate
in qualsiasi zona del territorio comunale attesa la
sostanziale compatibilità dell'impianto con qualsiasi
destinazione urbanistica.
I motivi di ricorso
Contro l'ordinanza proponeva ricorso la società "Vodafone
Omnitel N.V.", censurandola sotto diversi profili. Per
quanto qui di interesse, sosteneva, da un lato, l'erronea
applicazione del d.Lgs. n. 259/2003 e del T.U. n. 380/2001,
in quanto non si sarebbe tenuto conto del carattere
omnicomprensivo dell'autorizzazione prevista dal d.Lgs. n.
259/2003, esteso anche ai profili urbanistici ed edilizi
connessi alla realizzazione ed all'attivazione degli
impianti di telefonia cellulare; dall’altro, l’irrilevanza,
sotto il profilo urbanistico, dell'intervento in concreto
realizzato, che -essendo consistito nel montaggio, sul palo
già posizionato, di nuovi apparati in tecnologia UMTS e
nella sostituzione di alcune antenne di Telecom –avrebbe
dovuto essere assimilato ad un intervento di manutenzione
straordinaria del sito esistente, non assoggettato a
permesso di costruire.
La soluzione
La Cassazione ha disatteso i motivi di ricorso.
In particolare, in risposta alle due doglianze prima
evidenziate, la Corte ha affermato che:
a) doveva considerarsi legittima la previsione di
spostamento dell'impianto de quo inserita nel piano
di localizzazione delle stazioni radio base del Comune (e
già concordata dalla Telecom con l'amministrazione locale),
integrando essa una prescrizione non generalizzata attinente
all'urbanistica ed alla pianificazione del territorio che ha
natura consentita dalla legge quadro n. 36/2001;
b) che l'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n.
259/2003 era necessaria, perché espressamente prevista anche
per "la modifica delle caratteristiche di emissione"
e l'intervento eseguito, per le sue connotazioni innovative
concrete, non poteva considerarsi di mera manutenzione
dell'esistente ma (essendo anche assimilato in via normativa
ad un incremento dell'urbanizzazione primaria) non può
ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure sotto
il profilo urbanistico;
c) infine, il silenzio-assenso di cui al comma 9 dell'art.
87 del d.Lgs. n. 259/2003 non poteva ritenersi formato per
la mancanza di conformità dell'opera realizzata alle
prescrizioni contenute nell'anzidetto piano di
localizzazione.
I precedenti ed il panorama complessivo
La sentenza della Suprema Corte si muove nel solco di una
giurisprudenza che, sulla questione, è andata
progressivamente consolidandosi.
l'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza
amministrativa -che ha ricevuto l'avallo della Corte
Costituzionale con la sentenza 28.03.2006, n. 129- riconosce
carattere omnicomprensivo all'autorizzazione prevista dal
D.Lgs. n. 259/2003, esteso a tutti i profili connessi alla
realizzazione ed all'attivazione degli impianti di telefonia
cellulare,inclusi quelli urbanistici ed edilizi [vedi, ad
esempio, Tar Puglia, Bari, sez. III, 13.05.2005, n. 2143;
Tar Veneto, sez. II, 13.09.2004, n. 3295; Tar Veneto, sez.
II, 30.07.2004, n. 2579; Tar Puglia, Bari, sez. III,
22.07.2004, n. 3217; Tar Piemonte,sez. I, 23.06.2004, n.
1176].
Tale orientamento -fatto proprio dal Consiglio di Stato,
Sez. VI, con le decisioni 11.01.2005, n. 100 e 22.10.2004,
n. 6910- è stato condiviso dalla giurisprudenza di
legittimità (vedi Cass. pen., Sez. III: 16.09.2005, n.
33735, Vodafone Omnitel; 21.03.2006, n. 9631, Vodafone
Omnitel), ove sono stati affermati i principi secondo i
quali:
- il provvedimento autorizzatorio e la procedura di denunzia
di inizio dell'attività (oggi SCIA) previsti dall'art. 87
del d.Lgs. 01.08.2003, n. 259, per l'autorizzazione
all'installazione di infrastrutture di comunicazione
elettronica per impianti radioelettrici,hanno come contenuto
imprescindibile anche la verifica della compatibilità
urbanistico-edilizia dell'intervento e non è richiesta,
pertanto, la necessità di un distinto titolo abilitativo a
fini edilizi;
- l'installazione e la modifica delle caratteristiche di
emissione delle infrastrutture di comunicazione elettronica
costituiscono pur sempre interventi di nuova costruzione [ex
art. 3, lettere e.2) ed e.4), del T.U. n. 380/2001] soggetti
al regime sostanziale del permesso di costruire (anche se
tale titolo non deve essere formalmente rilasciato in
aggiunta all'autorizzazione prevista dalla legge speciale).
Ne consegue che la denunzia di inizio dell'attività,
prevista dall'art. 87, 3° comma - ultima parte, del D.Lgs.
n. 259/2003 per la realizzazione di impianti "con potenza
in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt", non
è quella disciplinata dagli artt. 22 e 23 del T.U. n.
380/2001,ma va ricondotta al modello generale di cui
all'art. 19 della legge n. 241/1990, come sostituito
dall'art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010 [sicché
deve ritenersi attualmente sostituita dalla disciplina della
SCIA posta dall'anzidetto art. 19]. Nel relativo
procedimento, pertanto, dovranno essere comunque valutati i
profili urbanistico-edilizi del realizzando intervento,
tenendo conto che la semplificazione è soltanto procedurale.
- Non resta influenzato, in ogni caso, il regime
sanzionatorio penale di cui all'art. 44del T.U. n. 380/2001
e le infrastrutture di comunicazione elettronica specificate
al comma 1 dell'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 restano
sottoposte, pur sempre, alle sanzioni penali specifiche
delle opere soggette a permesso di costruire.
Le disposizioni dell'art. 44 del T.U. n. 380/2001 si
applicano altresì agli impianti "con potenza in singola
antenna uguale od inferiore ai 20 Watt" (di cui al comma
3, ultima parte, del medesimo art. 87) -suscettibili di
realizzazione mediante denunzia di inizio attività (oggi
SCIA) ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241/1990, come
successivamente sostituito- allorché questi siano eseguiti
in assenza o in difformità dalla denunzia medesima. Il
mutamento della disciplina per l'abilitazione all'intervento
edilizio non incide, infatti,sulla disciplina sanzionatoria
penale, che non viene correlata alla tipologia del titolo
abilitativo, bensì alla consistenza concreta
dell'intervento.
Questione dibattuta in dottrina e giurisprudenza è quella
relativa all'eventuale consumazione del potere della
pubblica amministrazione di intervenire sul provvedimento
formatosi per silenzio-assenso una volta decorso il termine
di 90 giorni dalla ricezione della domanda (ai sensi del
comma 9 dell'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003).
Un potere siffatto è stato riconosciuto, ad esempio, dal Tar
Lazio, Roma, Sez. ll-bis, con la sentenza n. 2690 del
16.03.2009, in seguito all'accertamento della insussistenza
dei requisiti e presupposti di legge già dichiarati dagli
interessati nella loro domanda di autorizzazione.
In senso contrario, invece, appare orientata la
giurisprudenza amministrativa prevalente, secondo la quale,
ammettendosi ad libitum l'intervento dell'autorità locale
anche dopo la formazione della fattispecie assentiva per
silentium, si provocherebbe un'ingiustificata anomalia,
sul piano dell'aggravamento procedi mentale, al principio
fondamentale di semplificazione, fermo restando comunque
l'eventuale accesso all'autotutela sul provvedimento
abilitativo in tal modo formatosi.
A giudizio della Cassazione, nel caso in esame, per quanto
rileva ai fini penali, il contrasto può essere superato
allorché si consideri che costituisce condizione per la
formazione del silenzio assenso la sussistenza dei
presupposti e dei requisiti di legge richiesti. [In materia
urbanistica, ad esempio, è stata ritenuta condizione
indefettibile per il formarsi del silenzio-assenso la
conformità dell'intervento che si intende realizzare agli
strumenti urbanistici vigenti - vedi Cass.: Sez. Unite,
23.04.1993, n. 3, Totaro, nonché Sez. III, 09.02.1998, Svara].
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Esito del ricorso
Rigetta
Riferimenti
Tribunale del riesame di Macerata, ordinanza 05.10.2012
Decisioni conformi
Cassazione penale, Sez. III, 01.09.2010, n. 32527;
Cassazione penale, Sez. III, 21.03.2006, n. 9631;
Cassazione penale, Sez. III, 18.11.2005, n. 41598;
Cassazione penale, Sez. III, 16.09.2005, n. 33735
Note esplicative
Ai fini della installazione di ripetitori telefonici è
insufficiente la presentazione di d.i.a., essendo invece
necessario il rilascio delle autorizzazioni previste al
termine della specifica procedura disciplinata dagli artt.
87 e ss. del d.lgs. n. 259 del 2003 il cui mancato rispetto
rende le opere abusive e suscettibili delle sanzioni di cui
all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001. Secondo la sentenza
qui commentata, ciò è necessario anche per la realizzazione
di lavori di installazione di ulteriori ripetitori, non
costituendo interventi di “manutenzione straordinaria”
Riferimenti normativi:
D.Lgs. 01.8.2003, n. 259, art. 87 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 44, lett. b) (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione penale, sentenza 24.09.2013 n. 39415). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Chiusura dei bar solo con le prove.
Senza l'ordine del sindaco è illegittima.
È illegittima l'ordinanza del sindaco con la quale è stato
coattivamente fissato l'orario massimo di apertura di un
bar-bistrot. In quanto tale ordinanza pur richiamando le
problematiche di disturbo alla quiete ed al riposo delle
persone è stata adottata senza alcuna istruttoria in merito
alla ricorrenza di un'effettiva situazione di «grave
pericolo» tale da minacciare l'incolumità pubblica o la
sicurezza urbana. E in assenza di specifiche risultanze
istruttorie atte a dimostrare il superamento dei valori
limite delle emissioni sonore.
Questo è quanto espresso dal TAR Piemonte, Sez. II,
con la
sentenza 24.09.2013 n.
1041.
Il fatto in sintesi:
alcuni cittadini residenti nelle abitazioni circostanti a un
bar-bistrot presentavano numerosi esposti per la rumorosità
del locale.
I giudici del Tar Piemonte, ricordano che la
motivazione dell'impugnata ordinanza, adottata ai sensi
dell'art. 54 dlgs 18/08/2000, n. 267, pur richiamando le
problematiche di disturbo alla quiete e al riposo delle
persone, non dà atto di alcuna istruttoria in merito alla
ricorrenza di un'effettiva situazione di «grave pericolo»
tale da minacciare l'incolumità pubblica o la sicurezza
urbana, così da giustificare l'adozione di un provvedimento
extra ordinem ai sensi dell'art. 54, comma 4, dlgs n. 267
del 2000. Né, analogamente, è stata dovutamente documentata
alcuna situazione di «emergenza» connessa con l'inquinamento
acustico, tale da giustificare l'attivazione del potere
sindacale (pur sempre straordinario) di modifica degli orari
degli esercizi commerciali.
Una simile carenza, peraltro,
nel certificare la fuoriuscita dell'azione amministrativa
dai rigidi confini segnati dalla legge per l'adozione dei
provvedimenti contingibili e urgenti, ha al contempo
determinato un'evidente discriminazione commessa ai danni
del locale, la cui situazione in punto di immissioni
rumorose (in assenza di specifiche risultanze istruttorie
atte a dimostrare il superamento dei valori limite delle
emissioni sonore) non appare in nulla differenziarsi, con
riferimento all'interesse pubblico alla salubrità acustica,
da quella di tutti gli altri locali notturni sul territorio
(articolo ItaliaOggi del 12.10.2013). |
APPALTI: In
tema di gara d’appalto per l’aggiudicazione dei contratti,
va escluso che debbano essere immediatamente impugnate le
clausole del bando o della lettera di invito che non
incidano direttamente ed immediatamente sull’interesse del
soggetto a partecipare alla gara, e, dunque, non
determinino, per lo stesso, un immediato arresto
procedimentale; pertanto, non sono suscettibili di
impugnazione immediata le clausole relative alle modalità di
valutazione delle offerte ed attribuzione dei punteggi e, in
generale, alle modalità di svolgimento della gara, nonché
alla composizione della commissione giudicatrice.
---------------
Qualora la sottocommissione preposta alla valutazione delle
offerte si sia limitata a svolgere attività strumentale,
ossia di supporto alla valutazione della commissione di
gara, mentre la fissazione dei criteri di assegnazione dei
punteggi e la valutazione finale delle offerte sono state
effettuate dalla commissione al completo, il principio di
collegialità non può dirsi violato.
---------------
Allorché la concorrente che si duole delle modalità di
svolgimento della gara semplicemente alleghi il pericolo
che, nella fattispecie concreta, si siano determinate
conoscenze indebite delle valutazioni tecniche –pur
riservate– già compiute dalla commissione giudicatrice,
spetta alle controparti provare in giudizio che quel
pericolo di inquinamento non si è, nei fatti, tradotto in
realtà. Solo in tal modo –ossia, solo con l’assoluta
certezza che il principio della segretezza degli atti di
gara non sia stato intaccato– potrà essere salvato il
segmento procedurale fino a quel momento compiuto, in base
alla regola generale “utile per inutile non vitiatur”.
Quando invece non venga neanche allegato un pericolo
concreto di inquinamento della gara, limitandosi la
ricorrente a mere asserzioni teoriche in punto di violazione
del principio di segretezza (come nel caso oggetto
dell’odierno giudizio), non potrebbe evidentemente ritenersi
che quella violazione, nei fatti, sia avvenuta.
In tal caso, allora, non può che riespandersi la
contrapposta istanza che riposa nell’economicità dell’azione
amministrativa, con necessità di riconoscere prevalenza alla
salvezza del segmento di gara già compiuto. Detto
altrimenti: qualora possa con certezza escludersi che il
principio della segretezza non sia stato violato –o perché
la ricorrente non ha nemmeno allegato l’esistenza di un
concreto pericolo per esso, o perché le controparti sono
riuscite a provare che nessun pericolo si era, nella specie,
verificato– troverà applicazione la regola generale “utile
per inutile non vitiatur” e potrà essere salvato il segmento
procedurale già compiuto.
---------------
L’obbligo di comunicare al partecipante ad una gara di
appalto l’avvenuta esclusione dalla procedura selettiva
entro un termine non superiore a cinque giorni, ai sensi
dell'art. 79, comma 5, lett. b, d.lgs. n. 163 del 2006, non
contiene alcuna espressa sanzione: pertanto, da un’omissione
che non abbia arrecato alcun nocumento alla parte
interessata non può dedursi l’esistenza di un vizio tale da
rendere annullabile il provvedimento recante l’esclusione,
con la precisazione che la tardività di tale comunicazione
non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma
solamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione
anche in ragione della natura ordinatoria del termine
previsto dalla detta norma.
Deve, quindi, richiamarsi il costante insegnamento della
giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in tema di
gara d’appalto per l’aggiudicazione dei contratti, va
escluso che debbano essere immediatamente impugnate le
clausole del bando o della lettera di invito che non
incidano direttamente ed immediatamente sull’interesse del
soggetto a partecipare alla gara, e, dunque, non
determinino, per lo stesso, un immediato arresto
procedimentale; pertanto, non sono suscettibili di
impugnazione immediata le clausole relative alle modalità di
valutazione delle offerte ed attribuzione dei punteggi e, in
generale, alle modalità di svolgimento della gara, nonché
alla composizione della commissione giudicatrice (ex
multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 4699 del 2008).
---------------
Come statuito in
giurisprudenza, qualora la sottocommissione preposta alla
valutazione delle offerte si sia limitata a svolgere
attività strumentale, ossia di supporto alla valutazione
della commissione di gara, mentre la fissazione dei criteri
di assegnazione dei punteggi e la valutazione finale delle
offerte sono state effettuate dalla commissione al completo,
il principio di collegialità non può dirsi violato (cfr.
Cons. Stato, sez. V, n. 1902 del 2005; TAR Toscana, sez. I,
n. 269 del 2009; TAR Campania, Napoli, sez. I, n. 4735 del
2007; TAR Marche, n. 1146 del 2006).
---------------
Come già statuito da questo TAR (sez. II, sent. n. 2363 del
2010, peraltro invocata dalla stessa ricorrente), allorché
la concorrente che si duole delle modalità di svolgimento
della gara semplicemente alleghi il pericolo che, nella
fattispecie concreta, si siano determinate conoscenze
indebite delle valutazioni tecniche –pur riservate– già
compiute dalla commissione giudicatrice, spetta alle
controparti provare in giudizio che quel pericolo di
inquinamento non si è, nei fatti, tradotto in realtà. Solo
in tal modo –ossia, solo con l’assoluta certezza che il
principio della segretezza degli atti di gara non sia stato
intaccato– potrà essere salvato il segmento procedurale fino
a quel momento compiuto, in base alla regola generale “utile
per inutile non vitiatur”.
Quando invece non venga neanche allegato un pericolo
concreto di inquinamento della gara, limitandosi la
ricorrente a mere asserzioni teoriche in punto di violazione
del principio di segretezza (come nel caso oggetto
dell’odierno giudizio), non potrebbe evidentemente ritenersi
che quella violazione, nei fatti, sia avvenuta. In tal caso,
allora, non può che riespandersi la contrapposta istanza che
riposa nell’economicità dell’azione amministrativa, con
necessità di riconoscere prevalenza alla salvezza del
segmento di gara già compiuto. Detto altrimenti: qualora
possa con certezza escludersi che il principio della
segretezza non sia stato violato –o perché la ricorrente non
ha nemmeno allegato l’esistenza di un concreto pericolo per
esso, o perché le controparti sono riuscite a provare che
nessun pericolo si era, nella specie, verificato– troverà
applicazione la regola generale “utile per inutile non
vitiatur” e potrà essere salvato il segmento procedurale
già compiuto.
---------------
In ordine al ritardo con cui la stazione appaltante ha
comunicato alla ricorrente l’avvenuta esclusione dalla gara
(ottavo dei motivi aggiunti), si deve rilevare –in aderenza
al costante orientamento della giurisprudenza– che l’obbligo
di comunicare al partecipante ad una gara di appalto
l’avvenuta esclusione dalla procedura selettiva entro un
termine non superiore a cinque giorni, ai sensi dell'art.
79, comma 5, lett. b, d.lgs. n. 163 del 2006, non contiene
alcuna espressa sanzione: pertanto, da un’omissione che non
abbia arrecato alcun nocumento alla parte interessata non
può dedursi l’esistenza di un vizio tale da rendere
annullabile il provvedimento recante l’esclusione, con la
precisazione che la tardività di tale comunicazione non
incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma solamente
sulla decorrenza del termine per l’impugnazione anche in
ragione della natura ordinatoria del termine previsto dalla
detta norma (cfr., di recente, ex multis: TAR Puglia,
Lecce, sez. III, n. 706 del 2012; TAR Campania, Salerno,
sez. II, n. 2204 del 2012) (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 24.09.2013 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse.
Il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza
di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, ex se comporta infatti la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi.
Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del
2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt.
n. 813 del 2012 e n. 758 del 2013), la presentazione
dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione
dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere
inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi,
improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza
di interesse. Il riesame dell'abusività dell'opera provocato
dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se
comporta infatti la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione
dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con
fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
Di conseguenza, come correttamente argomentato da entrambe
le parti, il presente gravame va dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 24.09.2013 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La società in house partecipa alla gara.
Servizi pubblici. Dal Tar Lombardia.
Le società affidatarie dirette possono partecipare a gare
indette dalle amministrazioni locali per l'affidamento di
servizi pubblici, ma se la loro attività prevalente risulta
dai nuovi affidamenti, perdono uno dei requisiti dell'in
house.
Il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la
sentenza
23.09.2013 780 ribadisce il quadro di
riferimento comunitario, per il quale il modello in house
viene rispettato se sussiste il requisito del controllo
analogo, e se la parte più importante dell'attività viene
svolta con gli enti che detengono il controllo.
L'organo di giustizia amministrativa afferma inoltre che in
base alla giurisprudenza comunitaria i soggetti che
beneficiano di sovvenzioni pubbliche, e quindi anche i
soggetti in house, possono certamente partecipare alle gare
(come del resto possono partecipare in qualità di
imprenditori gli stessi enti pubblici), come pure possono
svolgere attività a favore di terzi, ma questa situazione
espone al rischio di fuoriuscire dallo schema comunitario,
qualora la parte più importante dell'attività non sia più
svolta con gli enti che detengono il controllo.
Queste possibilità di espansione industriale trovano
tuttavia un limite di tipo quantitativo nei principi
comunitari, poiché le società in house, per mantenere tale
caratteristica, dovranno sempre svolgere la loro attività
prevalente (misurabile in termini di fatturato) a favore
dell'ente locale socio.
Qualora la società perda tale requisito non potrà più
risultare affidataria diretta di servizi pubblici locali da
parte degli enti soci e gli stessi affidamenti in essere
risulterebbero privi di una delle due condizioni essenziali
per il loro mantenimento.
Il Tar Brescia ha anche analizzato la problematica del
passaggio diretto del personale del gestore uscente alla
società in house vincitrice della gara, riconoscendo che
norme come l'articolo 202, comma 6, del Dlgs 152/2006
(servizio rifiuti) facciano gravare sul nuovo gestore un
costo aggiuntivo che può poi tradursi in incrementi
tariffari per gli utenti o in minore qualità del servizio,
oppure può costituire ex ante un disincentivo alla
partecipazione a eventuali gare.
La sentenza richiama pertanto l'applicazione dell'articolo
3-bis, comma 2, della legge 148/2011, il quale prevede che
nelle procedure a evidenza pubblica l'adozione di strumenti
di tutela dell'occupazione costituisce elemento di
valutazione dell'offerta e non condizione per il subentro
nel servizio (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive - Estinzione dei reati per
prescrizione - Ordine giudiziale di demolizione dell'opera -
Effetti - Integrale attuazione - Fattispecie.
La demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto
l'immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al
titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito
successivamente che, per la sua accessorietà all'opera
abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo
consentirsi che un qualunque intervento additivo,
abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare
l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione
dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa
restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta
dal giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non
fosse, si finirebbe per incentivare le più diverse forme di
abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo
indefinito la demolizione di opere in precedenza
illegalmente realizzate (Cass. Sez. III n. 21797,
31/05/2011; Sez. III n. 2872, 22/01/2009. Conf. Sez. III n.
16349, 10/04/2002; Sez. III n. 10348, 13/03/2001).
Nella specie, l'intervento abusivo realizzato in zona
sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico,
difettava del requisito della condonabilità, l'opera nel suo
complesso era oggetto dell'ordine di demolizione impartito,
a nulla rilevando la circostanza che, per le opere
abusivamente aggiunte in sopraelevazione, sia stato revocato
l'ordine di demolizione in conseguenza dell'estinzione dei
reati per prescrizione, non avendo tale evenienza
determinato alcuna modificazione delle condizioni del
manufatto, che era ed è ancora abusivo nella sua interezza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
ordinanza 20.09.2013 n. 38947 -
link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Le scelte compiute
dall'amministrazione in sede di formazione del piano
urbanistico (o di variante dello stesso) sono espressione
dell'ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in
materia, da cui discende la loro sindacabilità solo nei
ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità,
arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti.
---------------
Non é configurabile alcuna pretesa alla non reformatio in
pejus della precedente disciplina urbanistica, in quanto la
titolarità di una posizione giuridica qualificata va esclusa
quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una
precedente previsione urbanistica, che consentiva
l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che,
in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del
privato, avente ad oggetto la non reformatio in pejus della
destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla
natura discrezionale del potere di pianificazione
urbanistica.
Nel caso di specie, in particolare, sono del tutto assenti
le specifiche situazioni enucleate dalla giurisprudenza per
configurare in capo alla p.a. un obbligo di motivazione più
incisivo delle proprie scelte discrezionali riguardo alla
destinazione di singole aree (scelte che, di regola, non
necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si
può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano e
ricavabili dalla relazione di accompagnamento al piano
stesso).
In effetti, le evenienze ritenute idonee a creare
aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni
sono state ravvisate:
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di
silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia etc.;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione
di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo
non abusivo.
---------------
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga
rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione
delle osservazioni al piano da parte dei privati, atteso che
queste ultime sono semplici apporti collaborativi offerti
dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed
il loro rigetto non richiede una specifica motivazione,
essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
Anche qui, infatti, s’impone il richiamo al
prevalente orientamento della giurisprudenza, incline a
ritenere che le scelte compiute dall'amministrazione in sede
di formazione del piano urbanistico (o di variante dello
stesso) sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica
di cui essa dispone in materia, da cui discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla
manifesta illogicità, arbitrarietà ed evidente travisamento
dei fatti (cfr. ex multis, Cons. Stato, IV, 21.12.2012, n.
6656; id. 27.12.2007, n. 6686).
---------------
Al riguardo,
giova rammentare che la giurisprudenza ha ripetutamente
chiarito che non é configurabile alcuna pretesa alla non reformatio in pejus della precedente disciplina urbanistica,
in quanto la titolarità di una posizione giuridica
qualificata va esclusa quando l'interesse coinvolto concerna
esclusivamente una precedente previsione urbanistica, che
consentiva l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo,
visto che, in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa
generica del privato, avente ad oggetto la non reformatio in
pejus della destinazione di zona, suscettibile di recedere
dinanzi alla natura discrezionale del potere di
pianificazione urbanistica (così, TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, Sent. 03.03.2011, n. 619; id. 18.10.2010, n.
6989).
Nel caso di specie, in particolare, sono del tutto assenti
le specifiche situazioni enucleate dalla giurisprudenza per
configurare in capo alla p.a. un obbligo di motivazione più
incisivo delle proprie scelte discrezionali riguardo alla
destinazione di singole aree (scelte che, di regola, non
necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si
può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano e
ricavabili dalla relazione di accompagnamento al piano
stesso. Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 24/1999; id. Sez. IV,
n. 6656/2012; id., sez. VI., n. 173/2002; id. Sez. IV, n.
6917/2002; id. n. 2899/2002).
In effetti, le evenienze ritenute idonee a creare
aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni
sono state ravvisate:
a) nel superamento degli standards
minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la
motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle
previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento
qualificato del privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione
edilizia etc. (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.);
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione
di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo
non abusivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 594/1999; Cons.
Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.; Cons. Stato, Sez. IV,
2369/2000 cit.).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la
quale vanta, come già detto, una generica aspettativa alla
non modificazione in pejus della precedente previsione
urbanistica, onde conseguire un utilizzo, nella sua
prospettiva, più proficuo dell'area in questione (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.; Sez. IV, 25.07.2001 n.
4077; TAR Catania, sez. I, 13.02.2012 n. 386;
TAR Salerno, 17.12.2002, n. 2358).
La ricorrente, a ben vedere, allega ma non dimostra quali
sarebbero stati gli “ostacoli amministrativi …ai progetti
edilizi” da lei stessa presentati, di cui agli atti non v’è
traccia alcuna. In tal senso, si deve ritenere che la
fattispecie in esame si presenti senz’altro diversa da
quella decisa da questo Tribunale, con la sentenza
n. 122/2007 (allegata sub doc. n. 8 da parte ricorrente).
Il caso ivi esaminato, infatti, concerneva l’impugnazione di
un’inibitoria di una dia presentata al Comune di Monza,
sempre dall’odierna ricorrente, per un’area posta in fregio
alla Via Impastato; nel caso all’odierno esame del Collegio,
invece, la società non risulta aver presentato alcun titolo
edilizio nelle more della zonizzazione urbanistica
precedente a quella per cui è causa.
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga
rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione
delle osservazioni al piano da parte dei privati, atteso che
queste ultime sono semplici apporti collaborativi offerti
dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed
il loro rigetto non richiede una specifica motivazione,
essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 11.10.2007, n. 5357; id. 30.06.2004, n.
4804; TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2012 n. 1440;
TAR Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010, n. 15) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di “lotto intercluso” ha una sua
valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per
un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei
casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
Né appare
condivisibile la lettura della propria area come lotto
intercluso fornita dalla società, attesa la funzione
eccezionale di tale concetto (su cui cfr., da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2010 n. 3699) e la
tipologia dell’area de qua (che, essendo contermine a fondi inedificati, come meglio risultante dai documenti allegati
sub lett. A e ss. all’osservazione di parte ricorrente
depositata sub n. 3, nonché dal doc. n. 9 non pare affatto
riconducibile a tale ambito).
In ogni caso, va ricordato come la nozione di “lotto
intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga
spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non
è applicabile nei casi di zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori
urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora
conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo
in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n.
7799)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lotto edificabile e volumetria realizzabile: vicende dei
terreni ininfluenti sulla concessione iniziale.
Un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di un permesso di
costruire, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può più essere tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni o successivi frazionamenti. La volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera
area permane invariata.
Il caso riguarda un diniego di un permesso di costruire per
un edificio da adibire ad abitazione del custode di una
villa situata in prossimità.
Il Comune nega il permesso ritenendo che la particella dove
sarebbe dovuta essere ubicata l’abitazione del custode
(part. 274) e quelle adiacenti su cui insiste la villa
(part. 266 e 270) devono considerarsi unitariamente ai fini
del calcolo della volumetria realizzabile.
Dovrebbero, in sostanza, considerarsi come un unico lotto
edificabile, la cui volumetria è già stata a suo tempo
esaurita dalla costruzione della villa sulle due particelle
adiacenti (266 e 270), a cui la restante particella (274)
risulta asservita ai fini volumetrici.
Il Consiglio di Stato si pronuncia per la legittimità del
diniego dando utili indicazioni in materia di individuazione
del lotto edificabile ai fini della volumetria disponibile.
Il lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal
profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile
essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a
diversi proprietari e perfino tra loro non contigui),
individuandosi esclusivamente sulla base degli indici
edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto
edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con
definizione delle potenzialità edificatorie del fondo,
unitariamente considerato, e determinazione della cubatura
ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla
normativa urbanistica.
È, quindi, irrilevante che l'area coincidente con il lotto
edificabile delimitato dalla concessione edilizia sia
successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari, in quanto la volumetria disponibile ai sensi
della normativa urbanistica nell'intera area permane
invariata.
Pertanto un'area edificabile, già interamente considerata in
occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli
effetti della volumetria realizzabile, non può più essere
tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione
nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti
appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei
terreni.
Più specificatamente, nella ipotesi della realizzazione di
un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla
base anche di un'area asservita o accorpata, ai fini
edificatori deve essere considerata l'intera estensione
interessata, con l'effetto che anche l'area accorpata non è
più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di
alienazione separata dalle aree su cui insistono i
manufatti.
---------------
LA DECISIONE IN SINTESI
Esiti del ricorso
Conferma TAR Toscana, Sezione III, n. 775/2001
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2000, n. 749;
Cons. Stato, Sez. V, 07.11.2002 n. 6128, cit.; Sez. IV,
06.08.2012, n. 4482;
TAR Puglia Bari Sez. III, 09.01.2013, n. 11 (commento
tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.09.2013 n. 4531 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI:
Tar Lazio: gli elenchi ISTAT delle P.A. hanno
natura normativa.
Nella sentenza in commento i giudici del Tar Lazio
certificano la natura normativa degli elenchi ISTAT delle
amministrazioni pubbliche.
Secondo i giudici amministrativi capitolini, infatti, con
l'art. 5, c. 7, d.l., 16/2012, conv. ex l. 44/2012, di
modifica dell'art. 1, c. 2, l. 196/2009, i due elenchi ISTAT
del 24.07.2010 e del 30.09.2011 sono stati "cristallizzati"
in legge, con ciò perdendo la loro connotazione
provvedimentale ed assurgendo a norma di rango primario.
L'eventuale esclusione di alcuni enti inseriti in tali
elenchi (del 2010 e del 2011) dall'applicazione delle misure
di finanza pubblica introdotte a regime nell'anno 2012 non
potrà che avvenire attraverso una espressa esclusione
contenuta in una norma di rango legislativo ovvero
attraverso la tecnica della "delegificazione" ai
sensi dell'art. 17 l. 400/1988. Dubbi sulla natura normativa
o amministrativa permangono sull'aggiornamento ISTAT del 28
settembre 2012, in quanto adottato successivamente al d.l.
16/2012.
Poiché, spiegano gli stessi giudici, tale aggiornamento non
sostituisce, ma integra l'elenco delle amministrazioni
pubbliche già inserite nei due elenchi precedenti, la
verifica sulla natura dell'ultimo comunicato va limitata
alla parte relativa agli aggiornamenti ovvero a quelle
integrazioni che hanno incluso ulteriori enti oltre a quelli
già indicati, sancendone la loro connotazione pubblicistica
ai fini dell'applicazione delle misure di finanza pubblica
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 11.09.2013 n. 8227 - commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Pregiudizio spa pubbliche. Corte dei conti bloccata.
Esulano dall'ambito della giurisdizione della Corte dei
conti le azioni di responsabilità nei confronti di
amministratori delle società pubbliche quando il pregiudizio
è risentito dal patrimonio di queste.
Lo ha sancito la Corte
di Cassazione, Sez. unite civili con la
sentenza 02.09.2013 n. 20075.
Secondo il Collegio la più recente evoluzione
dell'ordinamento ha reso i confini tra giurisdizione
contabile e giurisdizione ordinaria meno chiari, «da un
lato incanalando sovente le finalità della pubblica
amministrazione in ambiti tipicamente privatistici,
dall'altro affidando con maggiore frequenza a soggetti
privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di
pertinenza esclusiva degli organi pubblici».
Al fine di evitare il rischio di un sostanziale svuotamento
della giurisdizione della Corte contabile in punto di
responsabilità, si è voluto privilegiare un approccio più «sostanzialistico»,
sostituendo a un criterio eminentemente soggettivo, che
identificava l'elemento fondante della giurisdizione della
Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica
dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura
pubblica delle funzioni espletate e delle risorse
finanziarie adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto
della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario,
occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e
la pubblica amministrazione, ma che per tale può intendersi
anche una relazione con la pubblica amministrazione
caratterizzata dal fatto di investire un soggetto,
altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del
compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza
che rilevi né la natura giuridica dell'atto di investitura
né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona
giuridica o fisica, privata o pubblica.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte ha affermato
che conseguentemente spetta al giudice ordinario la
giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni
subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto
di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti,
non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo
all'autonoma personalità giuridica della società, né un
rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare
della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo
Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la
giurisdizione della Corte dei conti
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Anas obbligata alla pulizia dei rifiuti abbandonati sulle
pertinenze.
Anas s.p.a., in quanto concessionaria
della gestione e manutenzione ordinaria e straordinaria
delle strade e autostrade di proprietà dello Stato, è
obbligata alla pulizia delle sede stradale e delle sue
pertinenze e, quindi, alla rimozione non solo dei rifiuti
abbandonati direttamente sulla sede stradale, ma anche di
quelli abbandonati sulle pertinenze o sulle altre strutture
annesse alla strada, atteso che la loro pulizia interferisce
direttamente con la stessa funzionalità dell’infrastruttura
e con la sicurezza della viabilità e non può quindi non fare
capo direttamente al soggetto gestore, sia esso
proprietario, concessionario o comunque affidatario del
bene.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1, dlgs n. 285/1992 (codice
della strada) “Gli enti proprietari delle strade, allo
scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi; …”. Il comma 3
del citato art. 14 dlgs n. 285/1992 prevede che “Per le
strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente
proprietario della strada previsti dal presente codice sono
esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente
stabilito.”. Pertanto, può certamente affermarsi che la
pulizia delle aree in questione compete ad Anas, essendo il
soggetto concessionario.
Come sottolineato da TAR Puglia, Bari, Sez. I, 09.02.2012,
n. 299 (decisione relativa ad una ordinanza sindacale
adottata nei confronti di Anas, la quale contestava
l’asserita violazione dell’art. 192, comma 3, dlgs n.
152/2006), alle cui conclusioni questo Collegio ritiene di
aderire: “… L’applicazione della disposizione invocata,
che richiama il parametro soggettivo del dolo o della colpa
(e dunque anche della colposa inosservanza del dovere di
vigilanza e custodia), va però effettuata in concreto,
distinguendo la situazione del proprietario che adottando le
normali cautele non ha potuto impedire l’altrui attività
illecita, da quella di un ente avente per oggetto sociale, e
per dovere istituzionale, la custodia e la cura di una rete
viaria sulla quale si verificano gli episodi che qui vengono
in considerazione. …”.
Pertanto, ai sensi dell’art. 14 dlgs n. 285/1992 gli enti
proprietari e concessionari delle strade (come Anas, avente
per oggetto sociale e per dovere istituzionale, la custodia
e la cura della rete viaria [cfr. sentenza del TAR Puglia,
Bari n. 299/2012]) devono provvedere alla manutenzione,
gestione e pulizia delle strade e delle loro pertinenze e
arredo (a prescindere dalle dimensioni della infrastruttura
su cui esercitano la vigilanza). Sulla stessa linea si
colloca Cons. Stato, Sez. V, 31.05.2012, n. 3256 (che a sua
volta richiama Cass. civ., Sez. Un., 25.02.2009, n. 4472)
secondo cui “… il requisito della colpa postulato da
detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli
accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione
dell’area, così impedendo che possano essere indebitamente
depositati rifiuti nocivi. …”.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 3256/2012 rileva che
il dovere di adottare tutte le misure e cautele opportune e
necessarie per eliminare tali rifiuti deriva “…
direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla
proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla
previsione dell’art. 14 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285,
secondo cui gli enti proprietari delle strade devono
provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi.”.
La controversia era sorta in seguito a un’ordinanza n. 4 del
14.02.2011 del Sindaco di un Comune pugliese che ordinava ai
proprietari e possessori (tra cui evidentemente la stessa
Anas) di suoli, giardini, spazi, strutture e siti di ogni
tipo nel centro abitato e nella periferia di dello stesso
Ente di provvedere alla pulizia, disinfezione e
disinfestazione degli stessi con rimozione dei rifiuti e
trasporto presso discariche autorizzate con obbligo di
tenerli costantemente puliti nel tempo (TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 13.08.2013 n. 1242 - commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione
onnicomprensiva di area boscata - Legge n. 353/2000 - Art.
181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
Nell’impostazione "omnicomprensiva" della nozione di
bosco quel che rileva, in ultima analisi, è l'identità di
ratio che accomuna la tutela dei terreni coperti da
foreste di alto fusto a quella delle aree inserite in un
contesto di vegetazione anche di tipo arbustivo ( Cons.
Stato, sez. IV, 12/03/2013 n. 1481).
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione
di bosco o territorio boschivo - Giurisprudenza - L. n.
353/2000 - Art. 181, c.1, d.lgs. n. 42/2004.
La nozione di bosco o territorio boschivo (di cui al d.lgs.
18.05.2001 n. 227, penalmente tutelato dall'articolo 181
d.lgs. 22.01.2004 n. 42, norma annoverata tra quelle dei
capi d'imputazione) deve intendersi in senso normativo e non
naturalistico, essendo il senso normativo un concetto
estensivo che include anche la macchia mediterranea, qualora
(Cass. sez. III, 15/12/2004 n. 48118), comprenda alberi di
medio fusto o essenze arbustive ad elevato sviluppo (macchia
alta) o in un'accezione ancora più estensiva (Cass. sez. III,
16/11/2006 – 23/01/2007 n. 1874, per cui "deve
qualificarsi come bosco, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
18.05.2001 n. 227, ogni terreno coperto da vegetazione
forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da
castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché
aventi un'estensione non inferiore a mq. duemila, con
larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non
inferiore al 20 per cento") di recente pervenuta anche a
ritenere tutelata quale area boschiva pure la macchia
mediterranea caratterizzata dall'assenza di alberi d'alto
fusto (Cass. sez. III, 20/07/2011 n. 28928).
INCENDI BOSCHIVI – Strumenti urbanistici
vigenti prima dell'incendio - Concetto di prevedibilità Art.
4, c. 173, L. n. 350/2003 – L. n. 353/2000 Legge quadro in
materia di incendi boschivi - Art. 44, c. 1, lett. c),
d.p.r. n. 380/2001.
L’articolo 4,
comma 173, L. n. 350/2003, (che modifica la L. n. 353/2000 -
Legge quadro in materia di incendi boschivi) ha escluso che
sia sufficiente la compatibilità delle opere (che, seppur
con una intensità semantica minore, può assimilarsi al
concetto di prevedibilità) con gli strumenti urbanistici
vigenti prima dell'incendio per integrare l'eccezione all'inedificabilità
dettata dall'articolo 10, occorrendo che l'area sia già
stata riservata dallo strumento urbanistico alla
realizzazione delle opere stesse (Cass. sez. III, 28.03.2011
n. 16592) (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2013 n. 32807 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le argomentazioni
incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale,
secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente
la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese
essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica
giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto
elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto
anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto
dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di
corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine
pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta
di acque meteoriche non convogliate o non identificabili
come corpo idrico”).
Tuttavia è doveroso farsi carico anche della persistente
obiezione, articolata nel mezzo di gravame, secondo la quale
sarebbe errato affermare che il detto Fosso, pur costituendo
diramazione del Canale Palocco, sarebbe vincolato: ciò in
quanto soltanto il secondo sarebbe iscritto nell’elenco dei
canali sottoposti a vincolo ex RD n. 1775/1993.
L’unico elemento a suffragio di tale tesi riposa in una
interpretazione deduttiva secondo cui, posto che il corso
del Canale Palocco assumeva tre denominazioni, sebbene il
vincolo fosse stato imposto sull’intero Canale(tale
circostanza non è contestata) esso non poteva essere esteso
-in assenza di specifica apposizione sul Fosso allacciante
Palocco– a quest’ultimo.
La detta tesi appare apodittica e priva di spessore
probatorio, anche allorché si spinge a negare che il Fosso
allacciante Palocco costituisca diramazione del Canale
Palocco in quanto è quest’ultimo che origina dal primo.
Di certo v’è che il Canale Palocco è stato sempre
unitariamente considerato, ed è il tratto di maggiore
importanza: che poi i singoli corsi d’acqua assumano,
diverse denominazioni non può rilevare in punto di
sussistenza del vincolo stesso: peraltro il PTP ha
sottoposto a vincolo il Canale Palocco con tutte le sue
diramazioni (termine atecnico per individuare un corso
d’acqua che comunque si mantiene “unico” e che, quindi, non
esclude ma semmai ricomprende il punto di origine dello
stesso) di guisa che la censura appare priva di spessore.
Peraltro neppure appare chiaro il motivo per cui soltanto
tale parte del corso del Canale avrebbe dovuto essere
sottratta al vincolo imposto sull’intero corso d’acqua.
Assume natura troncante, poi, ai fini della reiezione della
censura la circostanza –già espressa dal primo giudice-
secondo la quale nella deliberazione della G.R. del Lazio
del 22/02/2002 n. 211, contenente la “Ricognizione e graficizzazione, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b),
della L.R. 24/1998 del vincolo paesistico delle fasce di
protezione dei corsi d’acqua pubblica di cui all’art. 146,
comma 1, lett. c), del D.Lgs. 490/1999 e art. 7, commi 1 e 2,
della L.R. 24/1998”, il Canale Palocco era ricompreso
nell’elenco delle acque pubbliche (pag. 242 del Supplemento
ordinario n. 1 al Bollettino Ufficiale n. 18 in data
29/06/2002) e, soprattutto, era individuato nelle cartografie
con un unico codice che copre l’intero tracciato dal canale
comprensivo anche della parte in contestazione.
La unicità del codice utilizzato per descrivere l’intero
corso d’acqua, e la circostanza che tale cartografia faccia
riferimento anche al Fosso allacciante Palocco esclude la
fondatezza della censura; la circostanza rappresentata nella
perizia giurata datata 20.12.2012 depositata nell’ambito
dell’appello n. 5896/2009, limitandosi a ribadire che
nell’area insistono numerose costruzioni a distanza di meno
di 50 metri dal Fosso e che la predetta area nella
planimetria allegata al PTPR non è tratteggiata obliquamente
non apporta elementi decisivi a smentire il vincolo
insistente sul Fosso medesimo (qual parte del Canale Palocco).
Come segnalato infine dalla difesa dell’appellata
amministrazione comunale nella propria memoria, le
argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del
Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne
oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno
decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo
alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene
ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura
oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua
pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque
di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura
né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non
identificabili come corpo idrico” -Trib. Sup. Acque,
02-07-2003, n. 97).
In carenza di alcun provvedimento specifico ed espresso di
esclusione del vincolo, poi, non possono trovare ingresso le
obiezioni (in relazione al disposto di cui all’art. 7 comma
7 della legge regionale del Lazio n. 24/1998) fondate sulla
asserita urbanizzazione dell’area che peraltro risulta
classificata quale zona agricola l’esclusione dal vincolo
riguarda le sole zone urbane perimetrate –e quindi non
certamente quella in questione, classificata come zona
agricola– mentre le asserzioni relative a supposte
concessioni in sanatoria in passato rilasciate sull’area per
costruzioni realizzate in spregio della fascia di rispetto
nulla provano, non potendo neppure la riscontrata
sussistenza di un provvedimento illegittimo eventualmente in
passato emesso costituire il presupposto per la reiterazione
dell’errore ma, semmai, occasione per la eventuale revoca
proprio di quelli illegittimamente rilasciati (si veda sul
punto la consolidata produzione giurisprudenziale in punto
di assenza del vizio di disparità di trattamento quanto al
diniego di condono sebbene in presenza di concessioni in
sanatoria in passato illegittimamente rilasciate nella
stessa area ove insisteva l’immobile oggetto di diniego)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La proroga di un atto può
essere legittimamente disposta solo quando il termine di
efficacia dello stesso non sia ancora scaduto, e non abbia
diversamente inciso in maniera determinante e sostanziale
sulle posizioni soggettive dei destinatari.
Il Collegio,
pur non potendo fare a meno di rilevare che effettivamente
il percorso seguito dall’Amministrazione presti il fianco a
critiche, non ritiene che le doglianze di parte appellante
possano spiegare rilievo decisivo per affermare la
illegittimità degli atti gravati.
Esse, sostanzialmente, muovono da un punto di partenza
(esposto nell’ultimo motivo del gravame) che coincide con la
risalente e condivisa affermazione della giurisprudenza
amministrativa secondo cui “la proroga di un atto può essere
legittimamente disposta solo quando il termine di efficacia
dello stesso non sia ancora scaduto, e non abbia
diversamente inciso in maniera determinante e sostanziale
sulle posizioni soggettive dei destinatari” (Cons. Stato
Sez. IV Sent., 29.07.2008, n. 3768) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
L'Accordo
Programma ex art. 34 T.U. n. 267 del 2000, come è
noto, rappresenta un duttile strumento di azione
amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di
specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di
procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario
svolgimento richiederebbe l'espletamento di più
subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di
interessi pubblici concorrenti.
Quanto al caso specifico, l'accordo di programma è una
ipotesi di urbanistica negoziata, un tipo specifico di
accordo tra Pubbliche Amministrazioni, quale istituto
finalizzato alla definizione, attuazione, con eventuale
incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi
o programmi che richiedono, per la loro completa
realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni,
province e regioni, di amministrazioni statali o altri
soggetti pubblici.
La duttilità dello strumento implica, ad avviso della
giurisprudenza, che lo stesso possa essere utilizzato anche
in ipotesi diverse: si è detto in proposito infatti che “il
ricorso al procedimento in oggetto, conosciuto come una
delle ipotesi di urbanistica contrattata, non può ritenersi
illegittimo qualora si pervenga all'approvazione di una
variante per realizzare, non già un'opera pubblica, bensì
un'opera richiesta da soggetti privati, su aree di proprietà
privata e per finalità private“.
Secondo la pacifica giurisprudenza della Sezione, dalla
quale il Collegio non intende discostarsi “quando il
perseguimento dell'interesse pubblico inerente al recupero
urbano sia realizzato non attraverso l'adozione di singoli
provvedimenti autoritativi da parte delle diverse
amministrazioni che hanno attribuzione nella materia, ma
avvalendosi dello strumento dell'accordo di programma,
trovano applicazione i principi enunciati dall'art. 11,
comma secondo, della legge n. 241 del 1990, che prevedono
l'applicazione agli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento dei principi del codice civile in materia di
obbligazioni in quanto compatibili".
Si è detto più di recente, in particolare, che “nell'ambito
dell'accordo di programma trovano applicazione i principi
civilistici in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili, sicché l'interpretazione delle clausole dubbie
va fatta facendo applicazione dei principi ermeneutici
contenuti nell'art. 1362 e segg. c.c.“.
Ovviamente il richiamo ai principi del codice civile in
materia di obbligazioni non può intendersi limitato alle
disposizioni in materia di interpretazione del negozio
giuridico (artt. 1362-1371 cc) ma coincidono con tutte
quelle disposizioni che possono ritenersi espressive di
principi più generali che permeano di sé il rapporto
obbligatorio.
Tra esse, si rinviene certamente la disposizione di cui
all’art. 1457del codice civile (“Termine essenziale per una
delle parti. Se il termine fissato per la prestazione di una
delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse
dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole
esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine,
deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni.
In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto
anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”)
in quanto precetto di portata contenutistica ampia che
trasla il proprio contenuto su molteplici ulteriori
previsioni codicistiche (cc 1184, 1326, 1174, 1322, 1379,
1464, 1454, 1456, 1458, 1901).
Da tale disposizione secondo avveduta giurisprudenza
civilistica deve trarsi il principio generale della
concedibilità della proroga anche nell’ipotesi di clausola
che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso
di mancata prestazione entro il termine pattuito purché la
proroga stessa venga concessa dalla parte nel cui interesse
il termine era stato pattuito.
Addirittura, è stato a più riprese affermato che la
reiterata concessione di una proroga può financo valere ad
escludere, in via ermeneutica, la essenzialità del termine
stabilito negozialmente, a dispetto delle espressioni
perentorie contenute nel negozio (“entro e non oltre” etc.).
Sennonché, la
prospettiva da cui avrebbe dovuto muovere parte appellante
non è quella (o meglio, non è esclusivamente quella) della
possibile patologia attingente l’atto amministrativo.
Invero la tesi appellatoria oblia che ci si trova al
cospetto di un Accordo di Programma disciplinato in ambito
statale dall'art. 34 T.U. n. 267 del 2000; quest’ultimo,
come è noto rappresenta un duttile strumento di azione
amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di
specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di
procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario
svolgimento richiederebbe l'espletamento di più
subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di
interessi pubblici concorrenti. Quanto al caso specifico,
l'accordo di programma è una ipotesi di urbanistica
negoziata, un tipo specifico di accordo tra Pubbliche
Amministrazioni, quale istituto finalizzato alla
definizione, attuazione, con eventuale incidenza sugli
strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che
richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione
integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di
amministrazioni statali o altri soggetti pubblici.
La duttilità dello strumento implica, ad avviso della
giurisprudenza, che lo stesso possa essere utilizzato anche
in ipotesi diverse: si è detto in proposito infatti che “il
ricorso al procedimento in oggetto, conosciuto come una
delle ipotesi di urbanistica contrattata, non può ritenersi
illegittimo qualora si pervenga all'approvazione di una
variante per realizzare, non già un'opera pubblica, bensì
un'opera richiesta da soggetti privati, su aree di proprietà
privata e per finalità private“ (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 3757 del 29.07.2008).
Secondo la pacifica giurisprudenza della Sezione, dalla
quale il Collegio non intende discostarsi “quando il
perseguimento dell'interesse pubblico inerente al recupero
urbano sia realizzato non attraverso l'adozione di singoli
provvedimenti autoritativi da parte delle diverse
amministrazioni che hanno attribuzione nella materia, ma
avvalendosi dello strumento dell'accordo di programma,
trovano applicazione i principi enunciati dall'art. 11,
comma secondo, della legge n. 241 del 1990, che prevedono
l'applicazione agli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento dei principi del codice civile in materia di
obbligazioni in quanto compatibili" (Cons. Stato Sez. IV,
17.05.2010, n. 3129).
Si è detto più di recente, in particolare, che “nell'ambito
dell'accordo di programma trovano applicazione i principi
civilistici in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili, sicché l'interpretazione delle clausole dubbie
va fatta facendo applicazione dei principi ermeneutici
contenuti nell'art. 1362 e segg. c.c.“ (Cons. Stato Sez. V,
19.10.2011, n. 5627).
Ovviamente il richiamo ai principi del codice civile in
materia di obbligazioni non può intendersi limitato alle
disposizioni in materia di interpretazione del negozio
giuridico (artt. 1362-1371 cc) ma coincidono con tutte
quelle disposizioni che possono ritenersi espressive di
principi più generali che permeano di sé il rapporto
obbligatorio.
Tra esse, si rinviene certamente la disposizione di cui
all’art. 1457del codice civile (“Termine essenziale per una
delle parti. Se il termine fissato per la prestazione di una
delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse
dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole
esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine,
deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni.
In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto
anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”)
in quanto precetto di portata contenutistica ampia che
trasla il proprio contenuto su molteplici ulteriori
previsioni codicistiche
(cc 1184, 1326, 1174, 1322, 1379, 1464, 1454, 1456, 1458, 1901).
Da tale disposizione secondo avveduta giurisprudenza
civilistica deve trarsi il principio generale della
concedibilità della proroga anche nell’ipotesi di clausola
che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso
di mancata prestazione entro il termine pattuito (Cassazione Civile, Sez. II, sent. n. 4226 del 07.05.1987) purché la proroga stessa venga concessa dalla parte nel cui
interesse il termine era stato pattuito.
Addirittura, è stato a più riprese affermato (Cassazione
civile Sez. II, sent. n. 1674 del 16.02.1995, Cassazione
civile Sez. II, sent. n. 3293 del 14.07.1989) che la
reiterata concessione di una proroga può financo valere ad
escludere, in via ermeneutica, la essenzialità del termine
stabilito negozialmente, a dispetto delle espressioni
perentorie contenute nel negozio (“entro e non oltre” etc.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’avente causa del
lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo
in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di
urbanizzazione ancora dovuti. Infatti, l’assunzione a carico
del proprietario degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria -cui a norma del comma 5 n. 2
dell’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765, è subordinata
l’autorizzazione per la lottizzazione– costituisce, secondo
il comma 7 dell’art. 8, una obbligazione propter rem.
La Sezione ha evidenziato che “La Corte di cassazione ha
sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui
che stipula una convenzione edilizia è di natura propter
rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che
tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se
soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia;
ovvero nel senso che colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei
confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano
sull'originario concessionario. La natura reale
dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che
stipulano la convenzione, quelli che richiedono la
concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro
aventi causa”.
---------------
L’art. 16 della legge 28.1.1977 n. 10, ratione temporis
applicabile alla fattispecie in esame, prevedeva che: “I
ricorsi giurisdizionali contro il provvedimento con il quale
la concessione viene data o negata nonché contro la
determinazione e la liquidazione del contributo e delle
sanzioni previste dagli artt. 15 e 18 sono devoluti alla
competenza dei tribunali amministrativi regionali…”.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione ha da tempo precisato che tale disposizione,
affidando alla cognizione del Tribunale amministrativo
regionale non soltanto i ricorsi contro il provvedimento che
accorda o nega la concessione edilizia, ma anche quelli che
investono la determinazione e liquidazione del contributo a
carico del beneficiario della concessione stessa, nonché
l'irrogazione delle sanzioni, introduce un'ipotesi di
giurisdizione esclusiva del predetto giudice amministrativo
che, pertanto, pure in materia di quantificazione del
contributo, non può trovare deroghe in favore della
giurisdizione del giudice ordinario.
Tale orientamento è stato recentemente ribadito dal giudice
del riparto il quale, dopo aver confermato che sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed
i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia
urbanistica ed edilizia, nella quale sono compresi la
totalità degli aspetti dell'uso del territorio, inclusa,
altresì, la materia relativa alla determinazione,
liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione e
relative sanzioni, ha precisato che la cognizione della
controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva di
quest’ultimo anche quando attiene alla richiesta, mediante
cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli
oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni.
---------------
Nel sistema risultante dal combinato disposto dell’art. 28,
quarto comma n. 1), della legge 17.08.1942, n. 1150 e dagli
artt. 3 e 5 della legge 28.01.1977, n. 10, non è rinvenibile
un principio che dia titolo al soggetto che ha stipulato una
convenzione urbanistica con il Comune di non corrispondere
al medesimo (in denaro, in aree cedute o in opere di
urbanizzazione realizzate), beni di valore complessivamente
superiore a quanto dovuto per oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria ai sensi dell’art. 10 della legge n.
10 del 1977 e, conseguentemente, in virtù della convenzione,
il privato è obbligato ad eseguire puntualmente tutte le
prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che queste
possano eccedere originariamente o successivamente gli oneri
di urbanizzazione.
Le convenzioni hanno infatti lo scopo di precisare gli
obblighi che il privato si assume unilateralmente, in
adempimento di un precetto di legge ed in conformità agli
strumenti urbanistici, senza che si instauri alcun vincolo
di sinallagmaticità.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- (quanto al ric. originario) dell’ordinanza-ingiunzione n.
10675 del 04.08.2000, con cui il Responsabile del Servizio
tecnico del Comune di Asola ha richiesto il pagamento di £.
15.181.974 in relazione all’esecuzione dei lavori di
completamento delle opere di urbanizzazione in via Bellini,
nonché degli atti tutti comunque collegati e non noti e in
particolare della delibera 218/98 del consiglio e del piano
di riparto spese in data non nota;
...
Il ricorso non è fondato.
L’art. 28 della L. 17.08.1942 n. 1150, in tema di
lottizzazione, prevede -al quinto comma (come modificato
dall’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765)- l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di
quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai
pubblici servizi.
Come s’è visto, la convenzione di lottizzazione stipulata
dai danti causa del ricorrente, al p. 5, prevedeva
l’obbligo, per i lottizzanti e per i loro “aventi diritto a
qualsiasi titolo” di “assumere gli oneri relativi alle opere
di urbanizzazione primaria…”.
Invero, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale,
l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a
carico di quest’ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti (cfr. già Cons. St., Sez. V, 17.11.1997 n. 1471).
Infatti, l’assunzione a carico del proprietario degli oneri
relativi alle opere di urbanizzazione primaria -cui a norma
del comma 5 n. 2 dell’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765, è
subordinata l’autorizzazione per la lottizzazione–
costituisce, secondo il comma 7 dell’art. 8, una
obbligazione propter rem (cfr. Cass. Sez. 1° 20.12.1994 n.
10947).
La Sezione (cfr. la sentenza n. 1157 del 13.08.2003) ha
evidenziato che “La Corte di cassazione ha sempre affermato
che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una
convenzione edilizia è di natura propter rem, nel senso che
essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha
stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia (Cfr. Cass. Civ. Sez. I,
20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. Civ., Sez. II, 26.11.1988
n. 6382); ovvero nel senso che colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei
confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano
sull'originario concessionario (Cfr. Cass. civile Sez. III,
17.06.1996, n. 5541).
La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i
soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono
la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i
loro aventi causa (da ultimo Cass. civile, Sez. II,
27.08.2002, n. 12571)”.
Per quanto riguarda la doglianza,
introdotta in via subordinata dal ricorrente, di mancato
scomputo dalla somma richiesta dell’importo relativo alle
opere realizzate dai lottizzanti, va osservato quanto segue.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione d’inammissibilità
sollevata dalla difesa del Comune, per l’omessa tempestiva
impugnativa della nota n. 4066 del 23.03.2000 del
Responsabile del Servizio,
con la quale venne respinta la richiesta in tal senso
avanzata dal Rossi, non versandosi in un’ipotesi di giudizio
impugnatorio, ma sul rapporto.
Invero, ancorché il ricorso risulti proposto nella forma
impugnatoria, è stato nella sostanza introdotto un giudizio
di accertamento riguardo alla debenza della somma richiesta
dal Comune in relazione alla realizzazione di opere di
urbanizzazione afferenti a PL, come tale riconducibile alla
giurisdizione esclusiva del G.A.
Va ricordato (cfr. TAR Sardegna Sez. 2° 17.06.2008 n. 1212)
che l’art. 16 della legge 28.1.1977 n. 10, ratione temporis
applicabile alla fattispecie in esame, prevedeva che: “I
ricorsi giurisdizionali contro il provvedimento con il quale
la concessione viene data o negata nonché contro la
determinazione e la liquidazione del contributo e delle
sanzioni previste dagli artt. 15 e 18 sono devoluti alla
competenza dei tribunali amministrativi regionali…”. La
giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
ha da tempo precisato che tale disposizione, affidando alla
cognizione del Tribunale amministrativo regionale non
soltanto i ricorsi contro il provvedimento che accorda o
nega la concessione edilizia, ma anche quelli che investono
la determinazione e liquidazione del contributo a carico del
beneficiario della concessione stessa, nonché l'irrogazione
delle sanzioni, introduce un'ipotesi di giurisdizione
esclusiva del predetto giudice amministrativo che, pertanto,
pure in materia di quantificazione del contributo, non può
trovare deroghe in favore della giurisdizione del giudice
ordinario.
Tale orientamento è stato recentemente ribadito dal giudice
del riparto il quale, dopo aver confermato che sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed
i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia
urbanistica ed edilizia, nella quale sono compresi la
totalità degli aspetti dell'uso del territorio, inclusa,
altresì, la materia relativa alla determinazione,
liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione e
relative sanzioni, ha precisato che la cognizione della
controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva di
quest’ultimo anche quando attiene alla richiesta, mediante
cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli
oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni (cfr: Cass.
Civ., SS.UU., 20.10.2006 n. 22514).
Nel merito la richiesta non è però fondata.
Innanzi tutto va rilevato che, contrariamente a quanto
assunto dal ricorrente, gli originari lottizzanti non hanno
versato somme per oneri di urbanizzazione, essendosi
impegnati nei confronti del Comune alla realizzazione
diretta delle stesse.
In ogni caso va rilevato (cfr. TAR Brescia 25.07.2005 n. 784)
che nel sistema risultante dal combinato disposto dell’art.
28, quarto comma n. 1), della legge 17.08.1942, n. 1150 e
dagli artt. 3 e 5 della legge 28.01.1977, n. 10, non è
rinvenibile un principio che dia titolo al soggetto che ha
stipulato una convenzione urbanistica con il Comune di non
corrispondere al medesimo (in denaro, in aree cedute o in
opere di urbanizzazione realizzate), beni di valore
complessivamente superiore a quanto dovuto per oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi dell’art. 10
della legge n. 10 del 1977 (cfr. Cons. St., Sez. V,
10.06.1998 n. 807, con riferimento a convenzione di
lottizzazione; Tar Lombardia, Milano, 10.5.2000 n. 3180; id.
25.01.2001 n. 4523) e, conseguentemente, in virtù della
convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente
tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che
queste possano eccedere originariamente o successivamente
gli oneri di urbanizzazione (cfr. Cons. St., Sez. V,
10.01.2003 n. 33). Le convenzioni hanno infatti lo scopo di
precisare gli obblighi che il privato si assume
unilateralmente, in adempimento di un precetto di legge ed
in conformità agli strumenti urbanistici, senza che si
instauri alcun vincolo di sinallagmaticità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 11.01.2010 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
cartella esattoriale costituisce uno strumento in cui viene
enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale e
non possiede alcuna autonomia. Pertanto deve essere
impugnata dinanzi al giudice competente a decidere in ordine
al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a nulla
valendo che l'atto non contenga una puntuale indicazione
della fonte del credito fatto valere.
In particolare, la cognizione della controversia attinente
la richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento
del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti
sanzioni, appartiene alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, prevista dall'art. 16 l. 28.01.1977
n. 10.
Può quindi passarsi alla disamina del ricorso per motivi
aggiunti con il quale il ricorrente ha impugnato la cartella
esattoriale notificatagli da Equitalia Nomos in data
10.07.2009, con la quale viene richiesto il pagamento di €
10.088,10.
Va respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione
sollevato, con la memoria depositata in data 03.12.2009,
dalla difesa dell’Amministrazione.
Invero, la cartella esattoriale costituisce uno strumento in
cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura
sostanziale e non possiede alcuna autonomia. Pertanto deve
essere impugnata dinanzi al giudice competente a decidere in
ordine al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a
nulla valendo che l'atto non contenga una puntuale
indicazione della fonte del credito fatto valere
(cfr. Cons. giust. amm. 14.09.2009 n. 790, TAR Lazio sez. II
26.06.2009 n. 6253 e Cass. SS. UU. 08.02.2008 n. 3001).
In particolare, la cognizione della controversia attinente
la richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento
del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti
sanzioni, appartiene alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, prevista dall'art. 16 l. 28.01.1977
n. 10 (cfr. Cass. Civ., SS. UU., 20.10.2006 n. 22514) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 11.01.2010 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 15.10.2013 |
ã |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Parere del Ministero dell'Interno. Diritto di
accesso da parte dei Consiglieri comunali (Prefettura di
Napoli,
nota 24.09.2013 n. 57193 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: BADIA POLESINE (Rovigo) Cimitero monumentale,
sito in via Migliorini snc catastalmente distinto al C.T.
foglio BP 9, particella A e Cimitero di Crocetta, sito in
via Ca' Giovanelli snc, catastalmente distinto al foglio 3,
particella A, di proprietà del Comune di Badia Polesine
(Rovigo) - Decreti dirigenziali generali 20.09.2010 e
16.03.2011) - QUESITO (MIBAC, Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto,
nota 23.09.2013 n. 16515 di prot.).
---------------
Le questioni sottoposte all'attenzione di questa
Direzione regionale, come esposte ai punti da 1 a 6 del
succitato quesito, possono essere riassunte come segue:
●
se le attività di scavo necessarie all'inumazione o
all'esumazione di cui al vigente regolamento di polizia
mortuaria, emanato con decreto del Presidente della
Repubblica 10.09.1990, n. 285, soggiacciano o meno alle
disposizioni di cui agli articoli 20, comma 1, e 21, commi
1, lettera a), e 4 del succitato decreto legislativo 42/2004
(1), concernenti, rispettivamente, gli Interventi vietati e
gli Interventi soggetti ad autorizzazione. In proposito
codesto Comune assume che i campi di inumazione dei siti
cimiteriali in oggetto, ancorché ricompresi nel perimetro
dell'immobile identificato dal provvedimento dichiarativo,
non siano sottoposti alla tutela codicistica di cui alle
nonne sopraccitate, "trattandosi di pura terra" (2), e che,
nella generalità dei casi, le predette attività di scavo, ad
effettuarsi nei campi di inumazione di cui al capo XIV del
citato DPR 285/1990, debbano ritenersi comunque sottratte
all'obbligo della previa autorizzazione di cui al citato
art. 21 del decreto legislativo 42/2004, "in quanto vi è
l'obbligo legale di alternare le inumazioni e le
esumazioni con cadenza decennale" (3), rilevando altresì, a
sostegno di tale affermazione, che tali campi non sarebbero
menzionati, unitamente agli arredi votivi delle sepolture,
nei citati provvedimenti dichiarativi del loro interesse
culturale (4);
●
se gli arredi votivi di cui al precedente punto f, laddove
rivestano interesse culturale ed appartengano a soggetti
diversi da quelli indicati all'art. 10, comma 1, del decreto
legislativo n. 4212004, debbano essere destinatari, ai fini
del loro assoggettamento alla tutela codicistica, di un
provvedimento dichiarativo espresso, da emanarsi ai sensi
del combinato disposto dall'art. 10, comma 3, lettera a) e
13, comma 1, del medesimo decreto legislativo (5 e 6). ... |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali
degli enti locali ex art. 14, commi da 25 a 31-quater, della
legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo
come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012
(Prefettura di Avellino,
nota 11.09.2013 n. 1256 di prot.). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Conegliano (Treviso) - Immobili dichiarati di
interesse culturale ai sensi della legge 20.06.1909 n. 364 -
Richieste di rimborso ICI ovvero IMU - Quesito (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota 31.07.2013 n. 13764 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Art. 13 del CCNL del 09.05.2006.
Attribuzione del buono pasto al personale di polizia
municipale. Circolare (Prefettura di Napoli,
nota 11.07.2013 n. 42911 di prot.). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: possibilità assunzionali (Prefettura di
Napoli,
nota 05.07.2013 n. 42257 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Tutela paesaggistica - Autorizzazione alla
realizzazione di un parco eolico. Sentenza del Consiglio di
Stato, sezione VI, 15.01.2013 n. 220 (MIBAC, Direzione
Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto,
circolare 04.07.2013 n. 23/2013). |
ENTI
LOCALI:
Oggetto: D.M. 13.12.2012. Modifiche e integrazioni al
D.M. 18.05.2007 recante "norme di sicurezza per le attività
di spettacolo viaggiante". Chiarimenti e indirizzi
applicativi (Prefettura di Napoli,
nota 20.06.2013 n. 38459 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Procedimento per il rilascio dell'autorizzazione
unica alla costruzione e all'esercizio di impianti di
produzione di elettricità da fonti rinnovabili di cui
all'art. 12, comma 3, del d.lgs. 29.12.2003 n.
387 - Partecipazione del Ministero per i beni e le attività
culturali di cui al paragrafo 14 delle "Linee guida" emanate
dal Ministero dello sviluppo economico con decreto
10.09.2010 - Istanza di compatibilità paesaggistica ai sensi
dell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC,
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Veneto,
nota 31.05.2013 n. 9911 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Parere dell'Ufficio legislativo prot. 5097 del
20.03.2012 e circolare della Direzione generale per il
paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte
contemporanee n. 11 (prot. 11533) del 18.04.2012 -
Rinvenimenti di cose mobili o immobili nel sottosuolo -
D.lgs. 22.01.2004, n. 42 - Verifica
dell'interesse culturale di cui all'articolo 12 - Circolare
della Direzione regionale per i beni culturali e
paesaggistici del Veneto n. 46/2012 del 14.11.2012 (prot.
21007) - PRECISAZIONI (MIBAC, Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto,
circolare 10.04.2013 n. 14/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Ordine di rimessione in pristino o di versamento
di indennità pecuniaria ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale
per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto,
circolare 25.03.2013 n. 10/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: San Martino Buon Albergo (Verona) - Titoli
abilitativi adottati in carenza di presupposta
autorizzazione paesaggistica - errata interpretazione di un
vincolo paesaggistico di natura provvedimentale - quesito
(MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 13.03.2013 n. 4157 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: competenza delle commissioni di vigilanza sui
locali di pubblico spettacolo. Verifiche sui locali con
capienza pari o superiore a 200 persone - Intervenuta
abrogazione dell'art. 124, c. 2, Reg. TULPS - Quesito
(Prefettura di Napoli,
nota 12.03.2013 n. 14848 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: D.P.R.
09.07.2010, n. 139, "Regolamento recante procedimento
semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli
interventi di lieve entità, a norma del'art. 146, comma 9,
del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, e successive
modificazioni" - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per
i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto,
nota 24.01.2013 n. 1754 di prot.).
--------------
... codesta Provincia chiedeva alla scrivente di
esprimere il proprio parere sulla corretta interpretazione
di alcune delle disposizioni recate dal regolamento in
oggetto, con particolare riferimento a quelle relative ai
punti dell'unito allegato I, che escludono l'applicabilità
del procedimento semplificato per il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ai beni di cui all'art. 136, comma 1, lettere
a), b) e c), del d.lgs. 42/2004 ogniqualvolta il
provvedimento dichiarativo del loro notevole interesse
pubblico non rechi riferimento ad una o più delle lettere
suddette. ... |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146
del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Validità
temporale (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici del Veneto,
circolare 22.01.2013 n. 3/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
JESOLO (Venezia) - Titoli abilitativi adottati in carenza di
presupposta autorizzazione paesaggistica per errata
applicazione dell'art. 142, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004
n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
nota
27.11.2012
n. 21812 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Parere dell'Ufficio legislativo prot. 5097 del 20.03.2012 e
circolare della Direzione generale per il paesaggio, le
belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee n. 11 (prot.
11533) del 18.04.2012 - Rinvenimenti di cose mobili o
immobili nel sottosuolo - D.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Verifica
dell'interesse culturale di cui all'articolo 12
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 14.11.2012
n. 46/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 167, comma 4 - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
nota 06.09.2012
n. 16464 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 142, comma 1, lett. g) -
Quesito
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
nota
23.08.2012
n. 15642 di prot.). |
URBANISTICA: Oggetto:
Valutazione Ambientale Strategica (VAS) di competenza
regionale di cui al d.lgs. 03.04.2006 n. 152 - Indicazioni
procedurali
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 14.05.2012
n. 26/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
D.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Interventi vietati ai sensi
dell'art. 20, comma 1 - Corte di Cassazione, Sez. III
penale, sentenza n. 42065/2011 del 29.09.2011
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 08.05.2012
n. 25/2012). |
COMPETENZE PROGETTUALI: OGGETTO:
Competenze professionali Affidamento di incarichi tecnici ad
ingegneri e architetti su beni sottoposti alla tutela di cui
al Codice dei beni culturali
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 17.04.2012
n. 22/2012). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
Affidamento incarichi tecnici per ingegneri e architetti su
beni sottoposti a tutela - Richiesta parere di cui alla nota
2019/07.04.00/4 del 28.02.2012 - Parere di competenza
(MIBAC,
nota 03.04.2012
n. 9974 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Procedimento di Valutazione di Impatto
Ambientale (VIA) ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. 03.04.2006
n. 152
(MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
circolare 20.02.2012
n. 11/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.P.C.M. 12.12.2005 recante "Individuazione della
documentazione necessaria alla verifica di compatibilità
paesaggistica degli interventi proposti, ai sensi dell'art.
146, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio
di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42 - QUESITO" (MIBAC,
nota
12.01.2012
n. 1123 di prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
OGGETTO: COMPETENZE PROFESSIONALI - TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.10.2007 n. 3630 - DIRETTIVA (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Veneto,
nota
29.04.2008 n. 5407 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Agenzia delle Entrate - richiesta di pagamento per le stime
rese ai sensi del D.P.R. 380/2001 - legittimità richiesta
compenso e riflessi contabili – semplici riflessioni in
merito (13.10.2013 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
APPALTI:
E. Gregoraci,
La (ir)rilevanza di precedenti esperienze analoghe
nell’aggiudicazione di contratti pubblici di lavori, servizi
e forniture - Nota a sentenza del Consiglio di Stato, n.
4405 del 04.09.2013 (10.10.2013 - link a
www.filodiritto.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. G. Fumarola,
Diritto di accesso agli atti e interesse alla richiesta
(09.10.2013 - link a
www.filodiritto.com). |
APPALTI:
F. Manganaro,
Esclusione dalle gare di
appalto per violazioni tributarie definitivamente accertate
(Urbanistica e appalti n. 10/2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
P. Gremigni,
FOCUS decreto del "fare" - Le nuove norme su lavoro e
sicurezza (Consulente
Immobiliare n. 937/2013). |
APPALTI:
B. De Rosa,
FOCUS decreto del "fare" -
Le novità per gli appalti pubblici
(Consulente Immobiliare n. 937/2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI:
C. Colombo,
FOCUS decreto del "fare" - Il ritorno della mediazione
obbligatoria (Consulente
Immobiliare n. 937/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
I. Meo e A. Pesce,
FOCUS decreto del "fare" - Al via nuove norme di
semplificazione edilizia (Consulente Immobiliare n.
937/2013). |
APPALTI:
E. Mariotti,
Transazioni commerciali: i ritardi nei pagamenti (Consulente
Immobiliare n. 936/2013). |
APPALTI:
M. G. Vivarelli,
L'avvalimento (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 2/2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G. Musolino,
La progettazione nell'appalto pubblico e nell'appalto
privato
(Rivista Trimestrale degli Appalti n. 2/2013). |
CORTE DEI CONTI |
URBANISTICA:
Convenzioni. Condannata la Giunta.
I costi dei privati non vanno trasferiti.
I Comuni devono porre grande attenzione alla puntuale
esecuzione degli obblighi previsti nelle convenzioni
urbanistiche.
La Corte dei conti della Lombardia (sentenza
25.07.2013 n. 198) ha
duramente sanzionato il trasferimento sulle finanze comunali
del costo di opere in origine a carico di operatori privati
nell'ambito delle convenzioni.
Con delibere di giunta, previo parere positivo del
responsabile del servizio, è stata posta a carico del
bilancio comunale la spesa per l'esecuzione di plessi
scolastici che, in base a precedenti convenzioni stipulate
in attuazione di due programmi integrati di intervento
(Pii), andavano eseguite dai privati senza oneri per l'ente.
I Pii sono uno strumento urbanistico con cui i Comuni
riqualificano il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale
(articolo 87 l.r. Lombardia 12/2005). I privati possono
proporre i Piani e, con le convenzioni attuative, possono
essere posti a loro carico oneri come l'esecuzione di opere
pubbliche. Nel caso, le convenzioni utilizzavano in modo
esplicito l'espressione «chiavi in mano», che descrive un
contratto in cui una parte si obbliga a fornire all'altra
un'opera completa e pronta per l'uso (obbligazione di
risultato), restando a carico del fornitore dell'opera il
rischio che il costo sia superiore a quello preventivato.
Dopo l'approvazione dei progetti esecutivi, alcune delibere
hanno trasferito sul Comune la realizzazione di alcune
opere, con assunzione di mutui. La Giunta ha manifestato
l'impegno a eseguire le opere di completamento dei plessi
scolastici, approvando le spese, affermando che le opere non
rientravano negli obblighi convenzionali. Le delibere hanno
costituito la base per la contrazione dei mutui e
l'affidamento dei lavori, avendo un ruolo decisivo nella
produzione del danno
Le modifiche introdotte dall'ente al rapporto con i privati
sono state ritenute dalla Corte del tutto illegittime e
fonte di danno erariale e responsabilità amministrativa,
poiché produttive di spese non dovute quali il costo delle
opere e gli interessi pagati sui mutui contratti. I soggetti
chiamati a risponderne, in quote uguali, sono stati il
sindaco, i componenti della giunta e il responsabile del
servizio che ha espresso parere favorevole, previa
diminuzione del danno della parte (20%) teoricamente da
porre in capo al segretario comunale (non citato dalla
Procura), che sarebbe dovuto intervenire per segnalare
l'illegittimità dei provvedimenti, data la natura
essenzialmente giuridica della questione
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2013). |
QUESITI & PARERI |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Tso, decide il commissario. Se l'amministrazione
comunale è stata sciolta. Nelle
regioni autonome può essere prevista una normativa ad hoc.
Qual è l'organo competente ad adottare l'ordinanza relativa
al procedimento amministrativo di trattamento sanitario
obbligatorio, in assenza del Commissario straordinario
incaricato della temporanea gestione di un comune ricompreso
nel territorio di una regione a statuto speciale?
L'art. 34
della legge 23.12.1978, n. 833, attribuisce al sindaco
la competenza ad adottare le ordinanze in materia di
trattamento sanitario obbligatorio, entro 48 ore dalla
convalida della proposta da parte di un medico della unità
sanitaria locale.
Nel caso di specie, poiché il comune è sottoposto a gestione
commissariale e non è prevista dalla specifica normativa
della regione autonoma, in materia di scioglimento degli
organi, la nomina di vice o sub commissari, la competenza
all'adozione del provvedimento in argomento, spetta in via
esclusiva al commissario straordinario incaricato della
gestione dell'ente
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi consiliari.
Se le disposizioni regolamentari di un comune consentono la
costituzione di gruppi consiliari unipersonali, il sindaco,
eletto in una lista, può costituire e fare parte di un nuovo
gruppo consiliare?
La disciplina della materia relativa alla costituzione dei
gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento
del consiglio, nell'esercizio della propria autonomia
funzionale ed organizzativa riconosciuta, in particolare,
dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e
al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere
valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo
al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica
delle predette norme.
Tuttavia, l'attività interpretativa non può essere disgiunta
dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né
possono essere utilizzate, a sostegno di tale attività,
massime giurisprudenziali che non si adattino perfettamente
alla fattispecie esaminata.
Nel caso di specie, occorre tenere presente che la
candidatura del sindaco, per espressa previsione contenuta
nell'art. 71 del Tuel n. 267/2000, non è compresa ma «è
collegata alla lista di candidati alla carica di consigliere
comunale», unitamente alla quale è presentato il relativo
nominativo del candidato.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 46 Tuel, ha, in effetti, una posizione
differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della
posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi
medesimi.
Infatti, va ricordato che nel sistema delle autonomie il
sindaco e il consiglio comunale, di cui i gruppi consiliari
sono organismi strumentali e funzionali, svolgono ruoli
distinti; il primo, di organo responsabile
dell'amministrazione dell'ente, il secondo, di organo di
indirizzo e controllo dell'operato del sindaco e della
giunta, con le specifiche competenze declinate dall'art. 42
del Tuel.
Per lo svolgimento di tali attribuzioni il consiglio si
avvale dei gruppi consiliari che rappresentano la proiezione
dei partiti politici all'interno dell'ente e supportano e
sviluppano quell'azione di indirizzo e controllo svolta
dall'organo consiliare.
Ne deriva che l'iscrizione del sindaco a un gruppo, e a
maggior ragione la costituzione di un gruppo unipersonale
nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco,
può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle
funzioni di governo dell'ente.
Tale sbilanciamento può influire anche sull'esercizio del
fondamentale diritto di iniziativa, nonché sull'attività di
sindacato ispettivo dei consiglieri, ovvero, in casi
estremi, venendo meno il rapporto fiduciario, sulla
presentazione della mozione di sfiducia del sindaco (art. 52
del dlgs n. 267/2000)
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
NEWS |
VARI: Assicurazioni,
vicino l'addio al constrassegno.
Via libera alla progressiva sostituzione o integrazione
entro due anni del contrassegno assicurativo rc auto
cartaceo con un sistema elettronico dotato di microchip. E
per i trasgressori saranno guai grossi anche con l'ausilio
di vigili elettronici ad hoc.
Sono queste alcune delle
novità in materia stradale che diventeranno operative nei
prossimi mesi a seguito dell'attesa divulgazione del decreto
del ministro per lo sviluppo economico 09.08.2013, n.
110, pubblicato sulla gazzetta ufficiale di ieri.
La legge
di conversione 27/2012 ha confermato le norme del decreto
legge n. 1/2012 che prevedono la progressiva messa in
soffitta del contrassegno assicurativo cartaceo
sostituendolo o integrandolo con un microchip da applicare
nel veicolo. Il ministro dello sviluppo economico, di
concerto con il ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, sentito l'Isvap, ha finalmente emanato l'atteso
regolamento per la progressiva dematerializzazione dei
contrassegni, prevedendo la loro sostituzione con sistemi
elettronici o telematici (entro due anni dall'entrata in
vigore del regolamento) e la possibilità di utilizzare per i
controlli i dispositivi o mezzi tecnici in dotazione alla
polizia stradale per il rilevamento a distanza delle
violazioni del codice della strada.
Il provvedimento
approdato ieri in gazzetta (G.U. n. 232 del 03/10/2013) in
pratica dà il via libera a un efficace contrasto dei
furbetti del tagliandino assicurativo e permetterà, a
regime, di avviare controlli elettronici automatici a
distanza sul diffuso fenomeno della mancata copertura
assicurativa. In buona sostanza i dispositivi omologati per
il controllo del traffico potranno essere abilitati anche a
verificare la regolarità della copertura assicurativa degli
automobilisti interfacciandosi con la banda dati creata ad
hoc dal ministero dei trasporti. Tutti queste innovazioni
entreranno a regime progressivamente.
In particolare entro
18 mesi dall'entrata in vigore del regolamento la
motorizzazione renderà operativa la banca dati collegata ai
vigili elettronici per le multe. Mentre per la messa a
regime dell'intero processo di dematerializzazione sono
previsti 24 mesi
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65%, conta la sismicità. Sì all'agevolazione a
prescindere dall'evento calamitoso. Pochi
limiti alla detrazione per le ristrutturazioni: irrilevante
la presenza effettiva di danni
Sì alla detrazione del 65% per gli interventi di
ristrutturazione, che il terremoto ci sia stato oppure no,
purché le costruzioni, abitative o produttive, si trovino in
aree sismiche.
Con la conversione in legge del dl n. 63/2013
(legge n. 90/2013) è stato inserito il comma 1-bis, all'art.
16, in base al quale è possibile fruire della detrazione del
65% delle spese sostenute, fino al prossimo 31 dicembre, per
l'adozione di misure antisismiche (solo per quelle
riferibili alle autorizzazioni avviate dopo il 04/08/2013) su
edifici adibiti ad abitazione principale o ad attività
produttive ricadenti nelle aree sismiche ad alta
pericolosità, di cui all'ordinanza del presidente del
Consiglio dei ministri n. 3274 del 20/03/2003 (codici 1 e 2,
allegato «A»).
Come indicato dalla stessa Agenzia delle entrate (circ.
29/E/2013 § 2.2) «per tipo di utilizzo, rileva la
circostanza che la costruzione sia adibita ad abitazione
principale o ad attività produttiva, con ciò privilegiando
gli immobili in cui è maggiormente probabile che si svolga
la vita familiare e lavorativa delle persone» tenendo conto,
ulteriormente, che «per costruzione adibita ad abitazione
principale s'intende l'abitazione nella quale la persona
fisica o i suoi familiari dimorano abitualmente» secondo la
nozione «rilevante» ai fini dell'imposizione diretta
(Irpef).
Di conseguenza, per quanto concerne le costruzioni adibite
ad attività produttive si deve far riferimento a quelle
unità in cui vengono esercitate attività agricole,
professionali, produttive, commerciali e non commerciali.
Con riferimento all'ambito di applicazione l'Agenzia delle
entrate ha fornito i relativi chiarimenti (circ. n.
29/E/2013) confermando che l'agevolazione spetta per tutti
quegli interventi destinati alla messa in sicurezza statica
(parti strutturali), nonché alla redazione della
documentazione obbligatoria di convalida della raggiunta
sicurezza statica e per la realizzazione degli interventi
necessari per il rilascio della detta documentazione.
La detrazione è pari al 65% delle spese sostenute fino a un
massimo di 96 mila euro (62.400 euro) per ciascuna unità
immobiliare facente parte dell'edificio, da spalmare in
dieci quote annuali di pari importo, per un ammontare
annuale massimo di 6.240 euro, stante il rinvio alle
disposizioni contenute nella lett. i), comma 1, dell'art.
16-bis, dpr n. 917/1986 (Tuir).
Per quanto si evince anche dal documento di prassi citato
(circ. 29/E/2013) la detrazione può essere fruita anche dai
soggetti Ires con questa differenziazione: se si tratta di
opere eseguite su abitazioni principali o su immobili
produttivi (capannoni, negozi, depositi e quant'altro) la
detrazione spetta fino alla fine dell'anno nella percentuale
del 65%, mentre se si tratta di unità abitative residenziali
diverse (seconde case, in particolare) o unità collocate in
altre aree (codici 3 e 4, allegato «A») la detrazione si
applica nella misura più ridotta del 50%.
Non risultano rilevanti, ai fini della fruibilità, la
categoria catastale dell'unità immobiliare, la presenza
effettiva di danni da eventi sismici e la dichiarazione di
area sismica, ma soltanto il tipo di utilizzo (abitazione
principale o unità produttiva) e la collocazione
territoriale all'interno delle zone ad alta pericolosità.
Di conseguenza, gli interventi indicati beneficiano della
detrazione maggiorata del 65% se l'unità abitativa risulta
collocata in area individuata ad alta pericolosità, senza la
necessità che gli enti territoriali o lo stato abbiano
individuato tale area come zona colpita da tali eventi.
Nel caso in cui l'abitazione, pur essendo di fatto collocata
in area sismica, non risulti inserita nelle zone di cui ai
codici «1» e «2» del citato allegato «A», il contribuente
potrà comunque fruire della detrazione del 50% (o, a regime,
del 36%). Come detto, beneficiari della detrazione sono
tutti i contribuenti Irpef e Ires a condizione che abbiano
sostenuto le spese per gli interventi agevolabili indicati
in precedenza, che le dette spese siano rimaste a loro
carico e che possiedano o detengano l'immobile in conformità
a un titolo idoneo (proprietà, diritto reale, locazione,
comodato o altro).
Per la fruizione del bonus, in assenza di
disposizioni specifiche, si rendono applicabili quelle
riferite agli interventi indicati nella lett. i), comma 1,
art. 16-bis del Tuir ovvero pagamento con modalità tracciate
(bonifici parlanti) e conservazione della documentazione
indicata dal provvedimento 02/11/2011 (abilitazioni
amministrative, ricevute Ici/Imu, fatture e ricevute
fiscali, bonifici e quant'altro)
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
APPALTI:
Appalti, solidarietà caso per caso. Se c'è avvalimento conta
quanto scritto nel contratto. Sul rapporto tra i due
istituti continua a esserci incertezza in giurisprudenza e
tra gli operatori.
Le incertezze della giurisprudenza e i dubbi degli operatori
di settore sono lo spunto per tornare a occuparsi brevemente
di un tema ampiamente dibattuto nel settore dei contratti
pubblici: l'istituto dell'avvalimento.
Sulla scorta delle
indicazioni comunitarie e delle poche disposizioni di legge
che riguardano l'argomento, la giurisprudenza ha nel tempo
maturato il convincimento circa una massima possibilità di
utilizzo dell'istituto. Da iniziali posizioni di maggiore
rigidità si è, infatti, passati a una estensione e più
corretta definizione dei limiti operativi dell'istituto,
ammettendo che questo possa oggi riguardare anche requisiti
all'inizio ritenuti incedibili, quale, ad esempio,
l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali.
In tale
opera di sempre migliore definizione dei contorni
dell'istituto rimane esclusa, invece, la possibilità dell'avvalimento
per i requisiti totalmente soggettivi (es. dichiarazioni ex
art. 38 del dlgs n. 163/2006), mentre ancora dibattuta
appare la possibilità di avvalersi di sistemi di qualità Iso
riconosciuti ad altri soggetti (Tar Lazio – Roma, n.
4130/2013; Avcp, delibera n. 2/2012; in senso contrario
Consiglio di stato, n. 2344/2011). Rispetto a tali profili,
comunque fonte di ampio dibattito, appare viceversa non
sufficientemente esplorato lo specifico ruolo che
l'ausiliario va ad assumere nell'ambito della procedura di
gara, nel rapporto plurilaterale che si viene a instaurare
con aggiudicatario e stazione appaltante.
Al riguardo è,
infatti, facile osservare che l'ausiliario non è un semplice
soggetto terzo rispetto alla gara poiché in seno a essa
assume un puntuale impegno, non solo verso l'impresa
concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante,
a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui
questi è carente, diventando così titolare passivo di
un'obbligazione accessoria a quella principale (del
concorrente) e che si perfeziona con l'aggiudicazione a
favore del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti (Tar
Lazio - Roma, n. 10990/2007). Ed ancora non va dimenticato
che, ai sensi di quanto disposto all'art. 49, comma 4, del dlgs n. 163/2006, concorrente e impresa ausiliaria sono
responsabili in solido, nei confronti della stazione
appaltante, in relazione alle prestazioni oggetto del
contratto.
Ma proprio alla luce di tale ultimo profilo sorge
spontaneo domandarsi se esistano o meno dei limiti entro i
quali l'ausiliario è responsabile in solido con il soggetto ausiliato e ciò soprattutto allorché il requisito oggetto di
avvalimento non attenga alla vera e propria prestazione
dell'appalto ma -si supponga- sia funzionale alla mera
ammissione alla gara (ad esempio, avvalimento di un
requisito di fatturato, generale o specifico, ovvero
avvalimento di un requisito di esperienza per lo svolgimento
di determinati servizi/attività analoghi).
Quanto detto anche perché in ipotesi di avvalimento
«immateriale», ovvero in un caso in cui l'ausiliario aveva
«prestato» al concorrente la propria solidità economica e
finanziaria, in modo del tutto disancorato dalla messa a
disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali,
è stato ritenuto che l'avvalimento, di fatto, ampliando lo
spettro della responsabilità per la corretta esecuzione
dell'appalto, estendesse la base patrimoniale della
responsabilità da esecuzione dell'appalto.
Con la conseguenza di poter ritenere che, con riferimento
all'avvalimento dei requisiti economici e finanziari (volume
di affari o del fatturato) ovvero il c.d. avvalimento di
garanzia (ammesso in taluni casi addirittura con riguardo
alle referenze bancarie), l'istituto dispiegherebbe la sua
funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner
commerciale che goda di una (complessiva) solidità
patrimoniale proporzionata ai rischi dell'inadempimento o
inesatto adempimento della prestazione dedotta nel contratto
di appalto.
Peraltro, solo per tali motivi, e, dunque, solo
per la possibilità di avere a disposizione risorse o
capacità economiche maggiori e quindi un assoluto grado di
responsabilità solidale delle imprese coinvolte in relazione
all'intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare,
sarebbe ammissibile una deroga al principio di personalità
dei requisiti di partecipazione alla gara. Infatti, al di
fuori di tale ipotesi, la messa a disposizione di requisiti
(soggettivi e) astratti, cioè svincolati da qualsivoglia
collegamento con risorse materiali o immateriali,
snaturerebbe e stravolgerebbe l'istituto dell'avvalimento
per piegarlo a una logica di elusione dei requisiti
stabiliti nel bando di gara (cfr. Tar Campania, Napoli, n.
644 del 02/02/2011).
La pur pregevole ricostruzione, tuttavia, non sembra
cogliere nel segno o quantomeno non pare applicabile alla
complessiva categoria di contratti di avvalimento aventi ad
oggetto requisiti (immateriali) di «esperienza» che non
esplicano alcun effetto con riferimento specifico alla
prestazione oggetto del contratto pubblico e che, invece,
riguardano i requisiti di ammissione del soggetto alla gara.
In altre parole occorrerà tenere ben separati i casi di
avvalimento che attestino una reale solidità
economico/finanziaria del soggetto, dai casi in cui il
fatturato (specifico), oggetto di avvalimento, è indice
esclusivo di aver maturato una puntuale esperienza in un
dato settore di mercato. Infatti, mentre nel primo caso
potrebbero venire in rilievo le osservazioni anzidette in
merito ad una assoluta solidarietà tra avvalente e ausiliato,
nel secondo caso non potrà che rilevare, solo ed
esclusivamente, quanto dedotto nel contratto di avvalimento.
I dubbi maggiori attengono alla necessità di dover
contemperare all'interno del medesimo contratto: (I) da un
lato, il prestito di un requisito immateriale di
«esperienza» con la necessità (e diremo anche l'evidente
difficoltà) di far corrispondere tale prestito immateriale
ad una corretta definizione delle risorse e dei mezzi
prestati in modo che l'assetto contrattuale risulti coerente
alle previsioni del Regolamento e alle indicazioni
giurisprudenziali relative ai contenuti minimi del contratto
di avvalimento; (II) dall'altro, una corretta perimetrazione
delle risorse messe a disposizione allo scopo di non far
assumere all'ausiliario responsabilità eccessive
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
ENTI LOCALI: Lo
scatto dell'Iva. Le risposte degli esperti del Sole 24 Ore
ai dubbi dei lettori sull'applicazione dell'imposta dopo il
passaggio al 22 per cento.
Effetto boomerang sugli enti locali. L'aumento dell'aliquota
peserà sui Comuni dal punto di vista finanziario e
operativo.
L'aumento dell'Iva dal 21 al 22% dal 1° ottobre scorso ha
pesanti conseguenze sull'operatività degli enti locali, sia
dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista
operativo.
Dal punto di vista del fabbisogno finanziario l'aggravio di
costo colpisce gli acquisti posti in essere nella sfera
istituzionale dell'ente, in quanto nell'esercizio di
attività commerciale l'Iva pagata sugli acquisti può essere
recuperata. L'aumento riguarda in ogni caso voci di spesa
che hanno un peso percentuale rilevante sul totale delle
spese degli enti.
Per quanto riguarda le prestazioni di servizio, gli enti
subiranno l'aumento di aliquota anche se la prestazione è
già avvenuta ma non è stata ancora fatturata, in quanto
l'articolo 6 del Dpr 633/1972 dispone che le prestazioni di
servizio si considerano effettuate all'atto del pagamento
del corrispettivo o all'emissione della corrispondente
fattura, se questo avviene prima. Nel caso ad esempio delle
prestazioni legali, l'ente si potrebbe trovare ad avere una
fattura pro-forma con Iva 21% emessa prima del 1° ottobre e
una fattura definitiva con Iva 22% emessa dopo tale data.
Dal punto di vista operativo, risulterà che gli impegni
contabili già assunti dagli uffici non saranno capienti, e
dovranno essere adeguati con provvedimenti dirigenziali di
integrazione che satureranno gli uffici finanziari. Dal lato
dell'entrata le tariffe dei servizi a domanda individuale,
approvate con delibera di Giunta, sono normalmente
valorizzate Iva compresa. Per le tariffe soggette a Iva
ordinaria l'ente dovrà, con una nuova delibera di Giunta,
scegliere se aumentarle, scaricando l'onere sul cittadino,
oppure mantenerle inalterate, riducendo conseguentemente
l'imponibile e quindi le entrate dell'ente.
Inoltre, nel caso in cui il Comune si fosse rivolto alla
Cassa depositi e prestiti per finanziare un'opera soggetta a
Iva 21%, l'ente dovrà produrre una nuova richiesta di
finanziamento, per il maggior costo rappresentato
dall'incremento Iva, con conseguenti nuovi adempimenti.
La variazione dell'aliquota Iva rischia insomma di causare,
a livello di singole amministrazioni, un incremento del
fabbisogno finanziario che dovrà essere finanziato con
trasferimenti o nuove imposte
(articolo Il Sole 24 Ore del
04.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori in casa. Le regole da seguire nel caso di acquisto di
stufe a pellet e di generatori di calore ad alimentazione
vegetale
Doppio vantaggio per le caldaie. All'agevolazione del 65% si
aggiunge l'Iva con le regole sui beni significativi.
VALORE AGGIUNTO/ Per gli strumenti imposta più bassa per i
costi della manodopera e per parte del valore
dell'apparecchiatura.
La spesa sostenuta per l'acquisto di una stufa a pellet
rientra nell'ambito delle detrazioni fiscali per interventi
finalizzati al conseguimento del risparmio energetico, che
permettono una detrazione pari al 65% del costo
dell'intervento. Dopodiché, se non ci saranno proroghe, dal
01.01.2014 anche questa tipologia di interventi
rientrerà tra quelli presenti nell'articolo 16-bis del Tuir,
che prevedono una detrazione dell'Irpef del 36% per il
recupero del patrimonio edilizio. Fanno eccezione gli
impianti al servizio di edifici condominiali, per i quali il
65% si potrà applicare alle spese sostenute entro il 30.06.2014.
Il caso dell'acquisto della stufa a pellets è uno di quelli
che si sono presentati nell'ambito del Forum tematico
abbinato al Focus «I lavori in casa», pubblicato mercoledì
scorso con Il Sole 24 Ore (e ancora disponibile, per chi
l'avesse perso, su www.ilsole24ore.com/store24). Il Forum
rimarrà aperto fino a mercoledì 9 ottobre e i quesiti
possono essere inviati collegandosi all'indirzzo
www.ilsole24ore.com/bonuslavori.
Tra gli interventi finalizzati al raggiungimento del
risparmio energetico dell'unità immobiliare rientrano
infatti i «generatori di calore che utilizzano come fonte
energetica prodotti vegetali e che, in condizione di regime,
presentano un rendimento, misurato con metodo diretto, non
inferiore al 70%», Dm 15.02.1992. Il rispetto dei
requisiti deve essere attestato dalla casa produttrice.
Con la pubblicazione del Dm 11.03.2008 lo Sviluppo
Economico ha fatto chiarezza circa la possibilità di
ottenere l'agevolazione fiscale in oggetto in caso di
sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con
impianti dotati di generatori di calore alimentati da
biomasse combustibili, quali ad esempio impianti dotati di
stufe e caminetti a legna o pellet. Quindi un impianto a
biomassa (legna o pellet) rientra nei possibili interventi
per una riqualificazione energetica ai fini dell'ottenimento
delle agevolazioni in esame. Occorre tenere presente che
tali prodotti (caminetti e stufe a legna o pellet) devono
avere tuttavia un rendimento utile nominale minimo conforme
alla classe 3 di cui alla norma europea 303-5.
Peraltro, anche prima della scadenza del 65%, l'acquisto di
una stufa a pellet può rientrare tra gli interventi che
danno diritto alla detrazione fiscale sulle ristrutturazioni
edilizie, pari al 36% della spesa sostenuta e –sino al 31.12.2013– al 50%, nel caso in cui non siano raggiunti
i requisiti di rendimento previsti dalla normativa per il
risparmio energetico. Tale agevolazione spetta quando il
contribuente effettua opere di manutenzione straordinaria,
restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione
edilizia su una unità immobiliare residenziale (qualsiasi
sia la categoria catastale di appartenenza). In tali casi,
anche le spese sostenute per l'acquisto e l'installazione di
una stufa a pellet per la realizzazione e/o il rifacimento
della canna fumaria sono ammesse a godere dell'Iva agevolata
e del beneficio fiscale.
Dal punto di vista dell'Iva la stufa a pellet è considerata
un «bene finito di valore significativo» a cui si può
applicare -su parte dell'importo totale- l'aliquota Iva
agevolata del 10 per cento. Ad esempio, se per l'acquisto di
una caldaia in caso di manutenzione straordinaria –con
fornitura e posa in opera– il costo è di 4mila euro, di cui
3mila per la caldaia e 1.000 per la manodopera, l'Iva si
delinea come segue: Iva al 10% su 2mila euro (cioè sul
valore della manodopera e su una parte di valore del bene
pari all'importo della manodopera) e al 22% su altri 2mila
euro.
Se invece, l'acquisto della caldaia è effettuato
direttamente, senza l'intermediazione di un installatore,
l'aliquota Iva agevolata si applica esclusivamente in
presenza di lavori di restauro, risanamento conservativo e
ristrutturazione edilizia di cui alle lettere c), d) oppure
f), articolo 3, del Dpr 380/2001.
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Le risposte ai quesiti dei lettori. Estensione possibile
solo con annotazione sulla fattura.
La detrazione premia chi spende.
Continua la pubblicazione delle risposte ai quesiti dei
lettori. Hanno risposto gli esperti Laura Ambrosi, Stefano
Vietato il cumulo
sullo stesso intervento
Nel caso di lavori di ristrutturazione eseguiti su un unico
immobile è possibile cumulare il bonus ristrutturazioni
edilizie 50% e il bonus risparmio energetico 65%?
R. La cumulabilità è esclusa per la stessa fattura o per lo
stesso intervento. Nell'ambito di una ristrutturazione
complessa (ad esempio rifacimento del bagno, tramezzature
interne, sostituzione delle finestre e porte, ecc) è
possibile scegliere quale opera far concorrere al 50% e
quale al 65%, in relazione ai requisiti previsti.
Obbligo di dettaglio
per la fattura a saldo
Per abitazioni private tutte le fatture dell'impresa
costruttrice devono essere dettagliate sui lavori svolti o è
sufficiente dettagliare l'ultima (e le altre nominarle come
acconti), oppure non c'è bisogno di dettagliare niente e
basta fare riferimento alla licenza edilizia?
R. Le fatture, se riferite ad acconti, possono contenere una
descrizione generica, ma è necessario che la fattura a saldo
specifichi tutte le opere eseguite con il dettaglio dei
costi riferiti ad ogni singolo intervento. Si ritiene,
comunque, che sarebbe opportuno specificare anche nelle
fatture emesse in acconto il dettagli dei lavori svolti, e
ciò a garanzia del committente.
La porta blindata
ha il bonus del 50%
L'installazione di una porta blindata dà diritto alla
detrazione del 50%? Ed è considerata ristrutturazione
edilizia valida per la detrazione del 50% nell'acquisto di
mobilia?
R. Sì. La sostituzione della porta blindata fruisce della
detrazione del 50% sia in quanto intervento di manutenzione
straordinaria, sia in quanto intervento idoneo a prevenire
atti illeciti. L'esecuzione dell'intervento consente poi
l'accesso alla detrazione per l'acquisto dei mobili.
Per la spesa condivisa
una nota sulla fattura
Ho ristrutturato un immobile cointestato a mia sorella e a
me al 50% ed entrambe intendiamo usufruire delle detrazioni
fiscali. Abbiamo acquistato dei mobili, effettuato il
bonifico con i due nominativi e ora l'azienda ci comunica
che non è possibile emettere una fattura cointestata in
quanto non consentito, ma deve intestarla ad un solo
nominativo. È corretta la loro argomentazione? Se proprio
non si può ovviare, con il bonifico già effettuato a nome di
due nominativi e la fattura intestata ad uno solo, come
avverrà la detrazione fiscale?
R. La detrazione compete a chi ha effettivamente sostenuto la
spesa. Per poter usufruire della detrazione è sufficiente
che il soggetto non intestatario della fattura annoti sulla
stessa di avere sostenuto parte della spesa stessa. In
questo caso la detrazione si estende anche al soggetto non
intestatario della fattura in quanto la spesa viene
comprovata dal bonifico bancario (articolo Il Sole 24 Ore del
04.10.2013). |
VARI: Via dal parabrezza il contrassegno dell'assicurazione.
Codice della strada. Ma solo tra due
anni.
DECRETO IN «GAZZETTA»/ Parte il conto alla rovescia per la
creazione della banca dati centralizzata delle polizze
Rc-auto.
Tra due anni niente più contrassegno dell'assicurazione Rc
auto. Non si dovrà più esporre: durante i controlli su
strada le forze di polizia faranno riferimento a una banca
dati centralizzata delle polizze, aggiornata finalmente in
tempo reale. Un aggiornamento che, oltre a mettere fuori
gioco chi falsifica i contrassegni, dovrebbe consentire
anche di effettuare controlli automatici, con apparecchi (di
cui proprio in queste settimane vengono presentati alla
stampa alcuni modelli) che leggono la targa e verificano se
i veicoli in circolazione su un determinato tratto sono
tutti in regola con l'assicurazione obbligatoria.
È lo scenario disegnato nel gennaio 2012 dal decreto
liberalizzazioni (Dl 1/2012) e ora reso più vicino, col varo
della norma attuativa: il decreto del ministero dello
Sviluppo economico n. 110 del 9 agosto scorso, pubblicato
ieri sera sulla Gazzetta Ufficiale e destinato ad entrare in
vigore il 18 ottobre prossimo. Da quel giorno scatterà il
conto dei due anni dopo i quali i contrassegni cartacei
usciranno di scena e di alcune tappe intermedie:
- 30 giorni perché la Motorizzazione renda operativa la
struttura informatica del database;
- 60 per popolare il database con le informazioni già
presenti nella banca dati dell'Ania (l'associazione delle
compagnie);
- un anno per avviare le connessioni informatiche con
cittadini e compagnie;
- 18 mesi per predisporre il database a collegarsi in tempo
reale con le apparecchiature per i controlli automatici che
dovrebbero essere utilizzate dalle forze dell'ordine.
Il Dm arriva con oltre un anno di ritardo rispetto a quanto
prevedeva il Dl. La causa principale è stata proprio la
difficoltà di organizzare una banca dati delle polizze più
affidabile di quella attuale, già attiva da anni presso l'Ania,
l'associazione delle compagnie.
In sostanza, ora il Dm 110 dà alle compagnie la
responsabilità di aggiornare in tempo reale la situazione di
ciascuna polizza Rc auto, dalla sua accensione fino alla
scadenza. Compito non facile: le reti delle compagnie sono
piuttosto ramificate, perché le agenzie presenti nei
principali centri operano sul territorio anche attraverso
subagenzie che operano nei piccoli centri.
Le compagnie risponderanno sempre della «veridicità,
tempestività e validità» delle informazioni presenti in
banca dati. Ferma restando questa loro responsabilità,
potranno affidare il materiale aggiornamento del database
anche agli intermediari «che ne hanno rappresentanza»,
quindi agli agenti cui conferiscono il mandato agenziale.
Le informazioni sulla copertura Rc auto dei singoli veicoli
saranno consultabili gratuitamente online «da parte di
chiunque ne abbia interesse» (articolo Il Sole 24 Ore del
04.10.2013). |
VARI: Rinnovo, spetta al medico autorizzare la guida.
Al superamento della visita medica per il rinnovo della
patente di guida d'ora in poi spetterà al sanitario
consegnare all'interessato una ricevuta valida per la
circolazione stradale. Questo documento abiliterà alla guida
al massimo 60 giorni ovvero fino al momento del ricevimento
del duplicato della licenza vera e propria.
Lo ha stabilito il decreto del ministero dei trasporti 09.08.2013 (pubblicato sulla G.U. n. 231 del 02/10/2013).
La riforma della patente europea ha introdotto
definitivamente nel codice stradale l'innovativo principio
formulato inizialmente nella legge 120/2010 per cui alla
scadenza della patente di guida non verranno più apposti
timbri e adesivi ma verrà rilasciato ogni volta un duplicato
del prezioso documento recante la nuova data di scadenza
dello stesso. Per organizzare amministrativamente tutta la
procedura sono stati però necessari complessi passaggi
tecnici dedicati soprattutto all'allineamento dei medici
coinvolti nei rinnovi delle licenze in una filiera
certificata delle pratiche automobilistiche.
Con questo
decreto, che entrerà in vigore decorsi 30 giorni dalla sua
pubblicazione, viene finalmente stabilito il dettaglio della
significativa riforma, nello spirito della progressiva
digitalizzazione anche delle procedure stradali. All'esito
di ciascuna visita di controllo i medici e le strutture
abilitate alle verifiche trasmetteranno telematicamente al ced della motorizzazione una comunicazione di avvenuto
rinnovo completa con tutti i dati dell'interessato.
Unitamente a questa importante comunicazione il sanitario
trasmetterà al ced della motorizzazione anche la foto e la
firma dell'interessato. Al ricevimento di tutti questi dati
il sistema informatico centrale della motorizzazione
genererà automaticamente una ricevuta recante tutti i dati
della patente di guida appena scaduta.
Questo documento verrà immediatamente consegnato dal
sanitario al titolare della licenza scaduta e ammetterà alla
regolare circolazione l'intestatario per un periodo massimo
di 60 giorni. Ovvero fino al momento del ricevimento postale
della nuova patente di guida nel formato card, senza più
adesivi, timbri e diciture facilmente alterabili
(articolo ItaliaOggi del
03.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tempi più lunghi per le sanzioni del Sistri.
Il Sistri si conferma limitato ai rifiuti pericolosi, ma si
conforma meglio al nuovo scenario applicativo tracciato con
il Dl 101/2013 che, nel percorso verso la conversione in
legge, precisa le disposizioni dell'articolo 11, anche in
ordine agli obbligati alla tenuta di registri e formulari.
Gli emendamenti al Dl approvati dalla commissione Affari
costituzionali del Senato, infatti, contribuiscono a fugare
una serie di dubbi che la nota del ministero dell'Ambiente
del 30 settembre aveva cercato di mitigare. Inoltre si
amplia, come accennato più volte dal ministro dell'Ambiente,
Andrea Orlando, il periodo di non applicazione delle
sanzioni, affinché tutti i soggetti obbligati familiarizzino
con la complessità del Sistri e, soprattutto, l'architettura
di sistema che gli sottende possa essere modificata nei
molti punti caldi che necessitano di intervento.
Gli emendamenti all'articolo 11 che andranno all'esame
dell'aula martedì prossimo prevedono l'obbligo di adesione
al Sistri per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti
speciali pericolosi; per enti o imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo
professionale compresi i vettori esteri che operano in
Italia; per enti o imprese che effettuano operazioni di
trattamento, recupero, smaltimento, commercio e
intermediazioni di rifiuti urbani e speciali pericolosi
(però non è specificata la mancanza di detenzione). Sono
compresi i nuovi produttori che trattano o producono rifiuti
pericolosi.
Tutti i non obbligati hanno facoltà di adesione. Il ministro
dell'Ambiente si riserva un decreto per individuare
ulteriori categorie. Obbligati al Sistri dal 1° ottobre 2013
figurano anche i vettori esteri che trasportano rifiuti
all'interno del territorio nazionali o effettuano trasporti
transfrontalieri in partenza dall'Italia. Altra novità è
costituita dal fatto che le sanzioni si applicano dal 31.12.2013 per la partenza del 1° ottobre e dal
02.06.2014 per quella del 3 marzo del prossimo anno. Nel
frattempo, tutti dovranno continuare a tenere registri e
formulari degli articoli 190 e 193 del decreto legislativo
152/2006 con l'applicazione delle relative sanzioni, sulle
quali tuttavia è opportuno che venga fatta chiarezza poiché
non è così scontato che siano ancora vigenti per tutte le
categorie obbligate a tali scritture. Le sanzioni Sistri,
però, saranno modificate e integrate con decreto del
ministro dell'Ambiente entro il 03.03.2014.
Gli agricoltori disciplinati all'articolo 2135 del Codice
civile, produttori iniziali di rifiuti pericolosi (per
esempio batterie e olio dei mezzi agricoli), non devono
iscriversi all'Albo gestori ambientali per il trasporto in
conto proprio di tali rifiuti all'interno della provincia o
regione ove ha sede l'impresa per conferirli nel circuito di
raccolta. Nuove le modalità alternative per la tenuta del
registro di carico e scarico: conservazione per tre anni del
formulario o della scheda Sistri o del documento di
conferimento dei rifiuti agricoli pericolosi nell'ambito del
circuito organizzato di raccolta.
Viene anche ridisegnata la platea degli obbligati ai
registri e il sistema si "ricalibra" dopo le modifiche dei
soggetti obbligati al Sistri. La logica è quella secondo cui
chi non è nel Sistri, neanche volontariamente, è nel sistema
cartaceo. Comunque il Dl decreta l'obbligo per enti e
imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi;
per i produttori di rifiuti non pericolosi da lavorazioni
industriali e artigianali e per quelli da potabilizzazione e
altri trattamenti di acque (non per il trasporto in conto
proprio).
Si aggiungono enti e imprese che raccolgono e
trasportano rifiuti o che li preparano al riutilizzo, li
trattano, recuperano e smaltiscono, compresi i nuovi
produttori. Commercianti e intermediari dovranno annotare il
registro 24 ore prima dell'operazione ed entro 48 ore dalla
sua conclusione. Ma, se tutti questi soggetti aderiscono
obbligatoriamente o volontariamente al Sistri, non sono
tenuti ai registri. Infine il formulario resta per enti e
imprese che non sono obbligati o che non aderiscono
volontariamente al Sistri (articolo Il Sole 24 Ore del
03.10.2013). |
ENTI LOCALI:
L'anagrafe dai comuni allo stato.
Dpcm in g.u. centralizzazione entro il 31.12.2014.
Al via il passaggio dall'anagrafe comunale a un'unica
anagrafe nazionale. La centralizzazione dell'anagrafe dovrà
completarsi entro il 31.12.2014, ma il primo atto
della complessa procedura tecnica (che prevede svariati
regolamenti e dpcm di attuazione) è giunto in porto.
Si
tratta del dpcm 23.08.2013, n. 109, regolamento recante
disposizioni per la prima attuazione dell'articolo 62 del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, come modificato
dall'articolo 2, comma 1, del decreto legge 18.10.2012,
n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n. 221, che
istituisce l'Anagrafe nazionale della popolazione residente
(Anpr), pubblicato ieri sulla G.U. n. 230 (si veda quanto
anticipato su ItaliaOggi del 14 agosto scorso).
Si è avviata dunque la macchina organizzativa che porterà
alla costituzione dell'Anagrafe nazionale della popolazione
residente (Anpr) nella quale confluiranno l'Indice nazionale
dell'anagrafe (Ina) e l'Anagrafe della popolazione residente
all'estero (Aire).
Nel parere n. 03579/2013 emesso il 5 agosto, il Consiglio di
stato aveva promosso, seppure con qualche rilievo critico,
il testo del regolamento in quattro articoli. I giudici non
sembravano infatti essere convinti del fatto che la riforma
dell'anagrafe sarà a costo zero. Il regolamento esaminato
dai giudici non prevede oneri a carico del bilancio dello
stato e per questo non indica nessuna forma di copertura.
Tuttavia, sottolinea palazzo Spada, «si intravedono passaggi
innovativi che potrebbero comportare oneri».
A parte questi
rilievi, il giudizio complessivo sul regolamento è positivo.
Per i giudici lo schema «è coerente con le finalità e i
criteri ispiratori della norma primaria». La nuova anagrafe
centralizzata subentrerà a quelle comunali e ciò potrà
creare qualche problema ai municipi che dovranno gestire la
transizione al nuovo sistema. Timori, questi, già espressi
dall'Anci in sede di Conferenza unificata soprattutto con
riferimento all'introduzione del «domicilio digitale», la
chance, prevista dal decreto crescita 2.0 che prevede la
possibilità per il cittadino di attivare un indirizzo di
posta elettronica certificata a cui ricevere le
comunicazioni da parte della p.a.
Il provvedimento è
completato da un allegato che indica le fasi in cui si
articola l'attuazione dell'Anpr, dedicando particolare
attenzione alla sicurezza delle informazioni. In
particolare, il modello di scambio dei dati tra le anagrafe
comunali e l'Anpr e tra quest'ultima e gli enti della
pubblica amministrazione centrale dovrà garantire
l'integrità e la riservatezza delle informazioni condivise,
ma anche la sicurezza dell'accesso ai servizi e il
tracciamento delle operazioni effettuate.
Una volta disposto
il subentro dell'Anpr all'Ina e all'Aire, saranno successivi
dpcm a disciplinare il passaggio di consegne, nonché le
modalità di integrazione dei dati relativi alle carte di
identità. Ai sindaci resteranno le attribuzioni previste dal
Tuel (art. 54, comma 3): tenuta dei registri di stato civile
e di popolazione oltre agli adempimenti previsti dalle leggi
in materia elettorale e di statistica
(articolo ItaliaOggi del
02.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente. La nota del ministero prevede anche il rinvio
dell'obbligo per chi trasporta propri «scarti» pericolosi.
Rifiuti urbani esclusi dal Sistri.
I professionisti non hanno l'obbligo di adesione al sistema
di tracciabilità.
Esclusi i trasportatori di rifiuti urbani e i liberi
professionisti, rinvio dell'obbligo per i trasportatori di
propri rifiuti pericolosi, Sistri anche per i trasportatori
stranieri in partenza dall'Italia, rigetto delle proposte
volte a semplificare la procedura di trasporto e ad
escludere dal primo scaglione gli impianti che impiegano
anche rifiuti per generare prodotti.
Queste, insieme alla
conferma dell'inapplicabilità delle sanzioni Sistri per il
primo mese di avvio dell'operatività dei due scaglioni, le
principali novità contenute nella circolare esplicativa del
ministero del'ambiente, pubblicata due giorni fa sui siti
istituzionali quattro ore prima del riavvio del sistema per
la tracciabilità dei rifiuti.
Rifiuti urbani
Secondo l'interpretazione ministeriale non sono sottoposti
all'obbligo di iscrizione al Sistri le imprese che
raccolgono e trasportano rifiuti urbani che operano in
regioni diverse dalla Campania. Tenuti a impiegare il
sistema per la tracciabilità, invece, gli intermediari di
rifiuti urbani pericolosi. Questi ultimi, però, a differenza
degli intermediari e commercianti di rifiuti speciali
pericolosi, non sono citati tra i soggetti obbligati a usare
il Sistri dal 1° ottobre.
Ancora indeterminata, infine, la posizione dei gestori di
impianti che trattano rifiuti urbani pericolosi: da un lato
la circolare afferma il principio generale secondo il quale
dal 1° ottobre il sistema è diventato operativo «per tutti i
soggetti che, nell'ambito della loro attività, detengono
rifiuti pericolosi», dall'altro si limita a richiamare la
prescrizione secondo la quale tra i soggetti obbligati sono
compresi gli enti e le imprese che «effettuano operazioni di
trattamento, recupero o smaltimento di rifiuti pericolosi».
L'esclusione dei trasportatori di rifiuti urbani è
senz'altro una semplificazione di grande rilievo, ma dal
punto di vista dell'ermeneutica giuridica è curioso che il
medesimo termine -"rifiuti pericolosi"- quando riferito
alla raccolta e al trasporto escluda i rifiuti urbani
pericolosi, nel caso dell'intermediazione li includa e nel
caso del trattamento resti indeterminato in proposito.
Liberi professionisti
La circolare li esclude dall'obbligo di iscrizione al
sistema richiamando l'articolo 190, comma 8, Dlgs 152/2006:
adempieranno all'obbligo di tracciabilità conservando in
ordine cronologico le schede di movimentazione Sistri.
Finalità produttive
Per le operazioni di «messa in riserva», stoccaggio prima
del recupero, di «deposito temporaneo», stoccaggio prima
dello smaltimento, e di «deposito temporaneo» messe in atto
da produttori iniziali di rifiuti pericolosi il riavvio del
sistema è posticipato al 03.03.2014. È anomala, la scelta
di accumulare le prime due, attività per le quali è
indispensabile un'autorizzazione, alla terza, operazione
preliminare e distinta dalla gestione di rifiuti. Manca, in
questo caso, qualsiasi argomentazione a sostegno della
scelta.
Rifiutata, infine, la proposta di Confindustria di
circoscrivere l'ambito di applicazione del Sistri ai veri e
propri impianti di trattamento dei rifiuti. Cartiere,
fonderie, acciaierie, cementifici e vetrerie che impiegano
rifiuti per alimentare i loro processi produttivi, sono
quindi tenuti a usare il sistema dal 1° ottobre.
Procedure di trasporto
Rigettata anche la proposta di impiegare la procedura di
«comunicazione per microraccolta», per tutti i trasporti,
anche quelli che prevedono il carico dei rifiuti presso un
unico produttore. La conseguenza della scelta ministeriale è
la necessità di tracciare in anticipo, strada per strada, su
una cartografia digitale il percorso del mezzo di trasporto
che, in ogni caso, sarà monitorato dalla black box
installata sul mezzo.
Nuovi produttori di rifiuti
L'obbligo di impiego del sistema per documentare la
produzione di rifiuti che decadono da attività di
trattamento dei medesimi è stato confermato, ma non si
chiarisce né che cosa significhi che questa attività deve
mutare la composizione o la natura del rifiuto, né se
l'obbligo sia previsto per i «soggetti che sottopongono i
rifiuti pericolosi a trattamento» o, molto più
ragionevolmente, per quanti dal trattamento di qualsiasi
genere di rifiuti ottengono scarti classificati come
pericolosi.
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Chiarita la procedura per i non iscritti.
LA REGOLA/
In caso di temporanea indisponibilità del sistema da parte
del trasportatore sarà il gestore a compilare la scheda.
La nota esplicativa sul Sistri diramata dal ministero
dell'Ambiente in occasione del varo operativo del sistema
contiene una serie di importanti precisazioni. Si ricordano
l'esclusione dei rifiuti urbani pericolosi dal campo di
incidenza del Sistri con riferimento alla produzione, alla
raccolta e al trasporto, la conferma dell'esclusione dal
Sistri per i professionisti singoli ai sensi dell'articolo
190, comma 8, Dlgs 152/2006 e quella per i
raccoglitori/trasportatori di rifiuti pericolosi da sé
stessi prodotti.
Sul fronte del coordinamento dell'azione tra soggetti
iscritti e non iscritti a Sistri, la nota fornisce
importanti chiarimenti e ricorda che l'articolo 14 del
decreto ministeriale 52/2011 (Testo unico Sistri) disciplina
le procedure per i non iscritti al sistema di tracciabilità.
Pertanto «nella prima fase operativa» i produttori iniziali
di rifiuti speciali pericolosi che non aderiscono
volontariamente al Sistri prima del 03.03.2014 (data in
cui scatterà l'obbligo) dovranno conformarsi a tali
procedure.
In particolare il produttore iniziale comunica i propri dati
al delegato dell'impresa di trasporto che li usa per
compilare anche la sezione del produttore della scheda
movimentazione. Una copia della scheda firmata dal
produttore del rifiuto è consegnata al conducente
dell'automezzo. Un'altra copia resta al produttore che la
conserva per cinque anni.
Il gestore dell'impianto di recupero o smaltimento deve
stampare e trasmettere al produttore la copia della scheda
movimentazione completa.
In caso di temporanea indisponibilità del sistema da parte
del trasportatore, la scheda (area trasportatore e area
produttore) è compilata dal gestore.
Se i rifiuti sono conferiti dal trasportatore che li ha
prodotti ("conto proprio"), il destinatario riporta il
codice del formulario (se previsto) nel campo "annotazioni"
della propria registrazione cronologica.
Dal canto loro i produttori e i gestori di rifiuti non
pericolosi dovranno continuare a tenere il registro e il
formulario. Il Dl 101/2013 ha completamente ridisegnato la
platea dei destinatari del Sistri. Quindi, gli articoli 190
(registro) e 193 (formulario) del Dlgs 152/2006 nella
versione che entrerà in vigore il 02.11.2013 (ai sensi
dell'articolo 16, comma 2, del Dlgs 205/2010) non sono più
tarati rispetto alla nuova realtà delle cose. Si spera siano
rivisitati in sede di conversione in legge del Dl.
Invece, le imprese partite ieri dovranno continuare a
compilare e tenere registri e formulari fino al 31 ottobre
(doppio binario). In ogni caso, dopo tale data,
trasportatori e impianti dovranno continuare a gestire il
formulario del produttore non iscritto al Sistri. Quindi, i
vecchi documenti non spariscono.
Il Sistri è sicuramente un sistema complesso ma adesso tutto
dipenderà dalla capacità del Ministero di reagire
prontamente e con efficacia alle difficoltà che verranno di
volta in volta denunciate e rese evidenti dalle imprese e
dalle loro associazioni (articolo Il Sole 24 Ore del
02.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, parte la tracciabilità. Sistri al via. Ma senza le
scorie urbane pericolose. Una
circolare del Minambiente illustra tutte le novità del
sistema di controllo.
Oggi parte il Sistri. Ma il sistema telematico di
tracciabilità dei rifiuti scatta solo per chi tratta rifiuti
pericolosi, con la sola esclusione dei rifiuti urbani
pericolosi che restano fuori dal sistema. Dovranno, dunque,
rispettare gli obblighi di adesione:
- i produttori iniziali di rifiuti pericolosi, tra cui come
detto «non rientrano i rifiuti urbani ancorché pericolosi»;
- gli enti e le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti
pericolosi a titolo professionale. E anche in questo caso la
norma «si riferisce ai soli rifiuti speciali pericolosi» e a
nient'altro;
- gli enti e le imprese che effettuano operazioni di
trattamento, recupero, smaltimento, commercio e
intermediazione di rifiuti pericolosi. Inclusi i nuovi
produttori di rifiuti.
Tutti gli altri produttori e gestori dei rifiuti
classificati diversamente da quelli suddetti potranno,
invece, usare il sistema di tracciabilità su base
volontaria. Ma, in questo caso, l'impresa che intende
aderire al Sistri dovrà «comunicare espressamente questa
volontà al concessionario secondo la modulistica resa
disponibile sul sito www.sistri.it».
I chiarimenti sono contenuti in una circolare applicativa
dell'ultim'ora, che il dicastero dell'Ambiente ha diffuso
ieri in serata sul proprio sito internet. A poche ore
dall'entrata in vigore del sistema. Circolare che prende in
esame anche la problematica delle attività di trasporto
transfrontaliero di rifiuti. A riguardo i tecnici
Minambiente ricordano che, in base all'art. 194, comma 3 del
dlgs 152/2006, «le imprese che effettuano il trasporto
transfrontaliero nel territorio italiano» devono iscriversi
all'Albo nazionale gestori ambientali. Mentre l'articolo
188-ter del medesimo decreto dispone «un obbligo di adesione
al Sistri di tutti gli enti o le imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale». Di
conseguenza, scrivono, «i vettori nazionali e stranieri che,
a titolo professionale, effettuano trasporti esclusivamente
all'interno del territorio nazionale, ovvero in partenza dal
territorio nazionale e verso Stati esteri, sono soggetti
all'obbligo di iscrizione al Sistri». E la stessa cosa vale
per:
- gli enti e le imprese che effettuano operazioni di
trattamento, recupero, smaltimento di rifiuti special
pericolosi. Categoria in cui ricadono anche «i nuovi
produttori, cioè i soggetti che sottopongono i rifiuti ad
attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti, diversi
per natura o composizione rispetto a quelli trattati»;
- i soggetti che svolgono intermediazione e commercio, senza
detenzione, dei rifiuti speciali pericolosi.
Ma il Sistri ha anche uno scaglione successivo: il
03.03.2014. Da quella data il sistema sarà obbligatorio per:
- i cosiddetti produttori iniziali di rifiuti pericolosi e,
attenzione a questa specifica, «le imprese che trasportano i
rifiuti da loro stessi prodotti e iscritte all'Albo
nazionale ai sensi dell'art. 212, comma 8, del dlgs
152/2006»;
- i comuni e le imprese che trasportano rifiuti urbani in
Campania. Per costoro potrebbe anche essere possibile uno
slittamento di ulteriori sei mesi, in caso di messa in opera
di semplificazioni operative nel frattempo raggiunte.
Infatti, il governo, nei giorni scorsi, non ha escluso di
ampliare ulteriormente, in sede di emendamenti al
decreto-legge (il n. 101 del 31.08.2013, atteso alla
conversione in legge), la soglia di non punibilità, purché
si tratti di illeciti colposi.
Sistema transitorio e sanzioni. Nella circolare, i tecnici
dell'Ambiente comunicano che, per il primo mese di avvio
dell'operatività del Sistri, per entrambi gli scaglioni, i
soggetti obbligati al sistema saranno chiamati a compilare
anche i registri di carico e scarico ed i formulari di
trasporto, oltre che a rispettare gli adempimenti del
Sistri. Di conseguenza, le sanzioni relative al sistema
scatteranno un mese dopo la sua entrata in vigore: si
applicheranno cioè dal 31 giorno successivo alla data di
avvio dell'operatività.
E, ovviamente, in base alla
rispettiva categoria di appartenenza dell'operatore. Mentre,
per il primo mese di operatività del Sistri, verranno
applicate ancora le vecchie sanzioni legate alla mancata
tenuta del registro carico e scarico e del formulario di
trasporto (in base agli articoli 190 e193 del dlgs 152/2006,
ma nella formulazione previgente alle modifiche introdotte
dal dlgs 205/2010).
Mud. Infine, il ministero dell'ambiente avverte che le
imprese sono comunque tenute alla presentazione del Modello
unico di dichiarazione per i rifiuti prodotti e gestiti nel
2013 (ex art. 189 del dlgs 152/2006)
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente. Il sistema è obbligatorio da oggi per 17mila
operatori - Chiarimenti in una nota del ministero.
Sistri al via con platea ridotta.
Arriva l'esclusione delle disposizioni per i soggetti che
trasportano rifiuti propri
ESENZIONE/
I rifiuti urbani pericolosi sono esclusi dalla definizione
di rifiuti per cui scatta l'obbligo della tracciabilità.
A tempo quasi scaduto ieri sera è stata pubblicata la
circolare del ministero dell'Ambiente contenente alcune
indicazioni importanti per l'applicazione obbligatoria del
Sistri che per molti operatori scatta oggi.
Il provvedimento chiarisce una serie di punti. Tra questi,
esclude decisamente dal Sistri i rifiuti urbani pericolosi,
siano essi prodotti o raccolti e trasportati. L'esclusione,
scrive il ministero, «si desume» dall'articolo 11, comma 3,
del Dl 101/2013 che per i rifiuti urbani limita l'iscrizione
per i Comuni e le imprese di trasporto degli urbani della
Regione Campania. Inoltre, la nota conferma che dall'obbligo
di Sistri sono esclusi i produttori non organizzati in enti
o imprese (in pratica i professionisti singoli in genere).
I nuovi produttori di rifiuti, cioè i soggetti che trattano
i rifiuti pericolosi e ottengono nuovi rifiuti diversi da
quelli trattati, per natura o composizione, devono
iscriversi sia nella categoria gestori che in quella dei
produttori e devono versare il contributo per ogni categoria
di appartenenza secondo l'allegato 2 del decreto
ministeriale 52/2011.
Secondo la nota ministeriale, con riferimento al trasporto
dei rifiuti, la locuzione «enti o imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale», è
riferita a enti e imprese che trasportano rifiuti pericolosi
prodotti da terzi. Quindi il cosiddetto "conto proprio" è
salvo dal Sistri.
In questa prima fase il sistema il sistema di tracciabilità
riguarderà circa 17mila imprese invece delle 50mila che
sarebbero state obbligate se avesse prevalso una lettura
estensiva della norma. A questo proposito il ministero ha
recepito le richieste giunte dalle associazioni
imprenditoriali che più volte erano intervenute su questo
fronte per limitare il fronte di applicazione del sistema di
tracciabilità.
Per il trasporto transfrontaliero, invece, si conferma
l'obbligo di adesione al Sistri per i vettori nazionali e
stranieri che, a titolo professionale, effettuano trasporti
esclusivamente in Italia, oppure partono dall'Italia.
La nota ricorda che l'articolo 14 del Dm 52/2011 disciplina
le procedure per i soggetti non iscritti al Sistri. Sono
queste le procedure che i produttori iniziali di rifiuti
speciali pericolosi dovranno usare fino al 03.03.2014 se
non aderiscono volontariamente prima di tale data.
La nota, sui termini di operatività delle sanzioni e della
fine dell'obbligo di tracciamento cartaceo parte con il
computo del mese di tempo e poi si esprime con trenta e
trentuno giorni e ritiene che le sanzioni si applicheranno
dal 1° novembre (per chi parte oggi) e dal 03.04.2014
(per chi parte dal 03.03.2014). Registri e formulari
dovranno continuare ad essere tenuti fino al 30 ottobre (per
le partenze del 1° ottobre) e fino al 02.04.2014 (per le
partenze del 03.03.2014). Inoltre ritorna il Mud per i
rifiuti prodotti e gestiti nel 2013.
Tuttavia, la nota segnala che, tra gli emendamenti
presentati in sede di conversione del Dl 101/2013, ed
attualmente all'esame del Senato, ve ne sono alcuni che
prevedono un ampliamento del periodo di inizio
dell'operatività, durante il quale avranno vigore sia gli
adempimenti previsti dagli articoli 190 e 193, Dlgs
152/2006, sia gli adempimenti previsti dal Sistri, e che
durante tale periodo non si applichino le sanzioni relative
al Sistri.
Sul fronte delle sanzioni, inoltre, ulteriori novità
potrebbero arrivare da alcuni emendamenti al Dl 101/2013 in
fase di conversione in legge. Secondo fonti parlamentari,
infatti, nell'ambito dei lavori svolti dalle Commissioni del
Senato si sarebbe vicini a un accordo in base al quale per i
primi tre mesi Sistri e registro di carico conviveranno ma
le sanzioni scatteranno solo per le violazioni riguardanti
il registro. Dal quarto mese, invece, ci saranno solo
sanzioni riguardanti il Sistri, ma a partire dalla terza
violazione.
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I nodi irrisolti. I depositi temporanei possono diventare
sanzionabili.
A rischio anche i produttori.
MIGLIORAMENTO/
Il fatto che data e ora di inizio trasporto vadano indicati
sulla scheda cartacea costituisce un passo avanti ma è
ancora troppo poco.
Dopo tre anni di rinvii, oggi il Sistri si presenta al primo
appuntamento con l'operatività per i gestori di rifiuti
pericolosi. I rinvii, però, non sono stati usati per
risolvere i problemi. Per questo non è difficile prevedere
che quello di oggi non sarà un debutto indolore.
I problemi che affliggono la tracciabilità informatica dei
rifiuti sono ormai noti ma oggi emergeranno in modo
inevitabilmente pesante. Sotto il profilo informatico,
quelli più macroscopici e che, in tre anni, avrebbero potuto
essere risolti si ripropongono con tutto il loro carico di
complicazioni, come l'inadeguatezza delle chiavette Usb che
devono al più presto essere sostituite con sistemi operativi
più semplici, affidabili e non soggetti a perdita,
alterazione e danneggiamento.
Insoluto è rimasto anche il problema dell'assenza di
interoperabilità del Sistri con i gestionali delle aziende
al pari di quello dato dalla lunghezza dei tempi per i
collegamenti informatici e la doppia contabilità.
Tutto questo avrà i suoi riflessi anche sui produttori di
rifiuti pericolosi che, sebbene obbligati al Sistri solo dal
03.03.2014, subiranno ritiri più lenti. Se l'operatività
di un trasportatore si bloccasse, il deposito temporaneo
perfettamente legale di un produttore, in assenza del
ritiro, potrebbe anche trasformarsi in poche ore in uno
stoccaggio non autorizzato, punito penalmente. Le difficoltà
saranno tante anche sotto il profilo gestionale, grazie alla
incompatibilità e ai disallineamenti ricorrenti tra
normativa di riferimento (Dlgs 152/2006, parte IV e Dm
52/2011) e il manuale operativo, ripubblicato in
www.sistri.it il 12.08.2013.
Questa situazione è ora più complessa perché il Dl 101/2013
prevede la partenza differita dei produttori (03.03.2014)
rispetto a quella dei gestori (oggi). Infatti il manuale non
contempla questa discrasia e non reca le relative procedure.
Il che non giova alla speditezza delle transazioni. In
questi anni non sarebbe stato difficile ripristinare almeno
l'annotazione automatica dello scarico del produttore, senza
associare la scheda di movimentazione al registro. Neanche
questo.
I pochissimi casi di intervento sul manuale non hanno dato
esito risolutivo. Si pensi alla quantità che nella scheda
movimentazione può essere espressa in metri cubi, con
possibilità di verificarla a destino. Lo stesso, però, non
accade per la registrazione in carico. Quindi, è inutile.
Non solo: se cambia l'impresa titolare dell'azienda o del
ramo di azienda, l'impresa subentrante accede all'area
riservata di www.sistri.it e trasmette copia degli atti di
variazione «prima che tali cambiamenti acquisiscano
efficacia». Però, se il subentrante non è ancora iscritto al
Sistri, non può accedere all'area "gestione azienda" di
www.sistri.it.
Inoltre non è ancora chiaro come conservare i dati «in
formato elettronico». Ma questo, poiché previsto
dall'articolo 188-bis, è un obbligo che entrerà in vigore il
prossimo 2 novembre. Forse prima di allora la soluzione sarà
trovata. Da oggi, stando al manuale (capitolo 7.3), i
gestori avrebbero dovuto tracciare anche i passaggi interni
all'impianto con il Sistri, ma questo non è previsto dal Dm
52/2001. La circolare di ieri lo sospende.
Una cosa è risolta: il manuale prevede la consegna dei
rifiuti al trasportatore senza inserire la chiavetta Usb del
mezzo nel Pc del produttore. Data e ora di inizio del
trasporto sono indicate sulla scheda movimentazione
cartacea; al loro inserimento nel sistema informatico
provvede in seguito il trasportatore. Questo è positivo ma è
troppo poco per garantire la serena partenza di oggi che,
peraltro, non riguarda i produttori
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2013). |
VARI:
Bonus arredi a maglie larghe. Esteso ai beni destinati ad
arredare le parti comuni.
Come fruire delle detrazioni per il
risparmio energetico dopo i chiarimenti delle Entrate.
Bonus arredi esteso ai beni utilizzabili dal condominio. I
condòmini, infatti, hanno la possibilità di fruire della
detrazione (pro quota) esclusivamente per i beni destinati
ad arredare dette parti a comune, se l'intervento di
ristrutturazione è eseguito sulle parti condominiali.
Con la
circolare 18.09.2013 n. 29/E (si veda ItaliaOggi del 19/09/2013), le Entrate hanno fornito una
serie di chiarimenti finalizzati alla corretta fruizione
delle detrazioni per il risparmio energetico, la
ristrutturazione edilizia e l'acquisto di mobili ed
elettrodomestici, sviluppando anche una miniguida («Bonus
mobili ed elettrodomestici») scaricabile dal sito
all'indirizzo www.agenziaentrate.gov.it.
Il documento di prassi ricorda, in apertura, che i
contribuenti possono usufruire di una detrazione Irpef pari
al 50% del costo sostenuto (tetto a 10 mila euro) per
l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici di classe non
inferiore alla «A+» («A» per i forni), destinati alle unità
immobiliari oggetto di ristrutturazione.
La detrazione si ottiene, però, solo in presenza di una
ristrutturazione edilizia relativa alle singole unità
residenziali o alle parti a comune degli edifici e solo se
le spese, per detti interventi, sono sostenute nel periodo
compreso tra il 26/06/2012 e il 31/12/2013. Inoltre, il
bonus è fruibile sulle spese per l'acquisto, di mobili ed
elettrodomestici nuovi, sostenute dal 06 giugno al 31.12.2013 ed è necessario che la data di inizio dei
lavori di ristrutturazione risulti anteriore a quella di
acquisto dei detti beni, mentre non risulta necessario che
le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle
per l'acquisto degli arredi. Come indicato nel documento di
prassi in commento (§ 3.3), la data di avvio della
ristrutturazione potrà essere dimostrata dal contribuente
dalle eventuali autorizzazioni o comunicazioni
amministrative ottenute, in presenza di lavori soggetti a
tali obblighi, ovvero da una dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà, di cui all'art. 47, dpr 445/2000, come
indicato dal provvedimento del 02/11/2011 delle Entrate.
L'importo massimo su cui calcolare la detrazione è stato
fissato in euro 10 mila, con la conseguenza che il
contribuente potrà portare in detrazione, a prescindere
dall'età posseduta (anche se ultrasettantacinquenne), un
bonus di 500 euro, stante la necessità di eseguire la
ripartizione in dieci quote annuali. Con riferimento
specifico agli adempimenti, il documento di prassi precisa
che, posta la necessità che i lavori di ristrutturazione
siano pagati mediante il bonifico (bancario o postale)
tracciabile, fatte salve alcune eccezioni, per l'acquisto
degli arredi è possibile, per esigenze evidenti di
semplificazione, eseguire il pagamento attraverso l'utilizzo
di carte di credito o di debito, con esclusione
dell'utilizzo di assegni bancari, contanti o altre tipologie
di pagamento (ricevute bancarie, cambiali o altro).
Sul punto due importanti indicazioni: la prima è che la data
di sostenimento valida per l'ottenimento della detrazione
corrisponda a quella della ricevuta telematica di avvenuta
transazione (in sintesi, quella in cui la carta viene
«strisciata») e non quella di addebito sul conto corrente di
appoggio, la seconda è che, in aggiunta alla documentazione
richiesta per la fruizione della detrazione sul recupero
edilizio, il beneficiario deve conservare la documentazione
di addebito sul conto corrente ovvero l'estratto conto,
ancorché tale obbligo non sia sancito da nessuna legge o
provvedimento direttoriale.
Come indicato nella guida e nella circolare per avere la
detrazione sugli acquisti di mobili e di grandi
elettrodomestici «occorre effettuare i pagamenti con
bonifici bancari o postali» (tracciabili) indicando la
causale del pagamento, il codice fiscale del beneficiario
della detrazione e il numero di partita Iva o il codice
fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è
effettuato.
La doppia modalità di pagamento indicata, pagamento a mezzo
bonifico o con carte di credito, crea una disparità
soprattutto nei confronti dei cedenti dei beni, taluni dei
quali, sistemati con bonifico, si vedranno accreditare
quanto spettante decurtato della ritenuta del 4%, giacché la
banca destinataria vedrà solo la causale utilizzata per la
ristrutturazione.
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Agevolata anche la manutenzione.
La detrazione è ottenibile anche in presenza di
ristrutturazione edilizia avente a oggetto la manutenzione
ordinaria, se eseguita su parti comuni degli edifici
residenziali. Come indicato nella circolare 29/E del 18
settembre scorso, la detrazione del 50% per l'acquisto dei
mobili e degli elettrodomestici è ancorata alla presenza di
lavori di ristrutturazione edilizia, avviati in data
anteriore rispetto alla data di sostenimento della spese per
gli arredi, come individuati dall'art. 16-bis, dpr 917/1986.
Pertanto, il contribuente dovrà eseguire interventi di
manutenzione straordinaria, restauro, risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia sulle singole unità
immobiliari residenziali o sulle parti a comune degli
edifici, di manutenzione ordinaria sulle parti a comune, di
ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato da
eventi calamitosi e lavori di restauro, risanamento
conservativo e ristrutturazione edilizia concernente interi
edifici, oltre che la ristrutturazione immobiliare avente a
oggetto immobili delle cooperative edilizie che entro sei
mesi dal termine dei lavori cedono o assegnano l'unità
immobiliare.
Se il contribuente esegue un intervento, anche con gli altri
condomini, nelle parti a comune, lo stesso avrà la
possibilità di fruire del bonus, naturalmente pro quota,
esclusivamente per i beni acquistati per l'arredamento di
dette parti condominiali, senza poter duplicare il bonus per
l'acquisto dell'arredo della propria unità immobiliare. Come
detto è necessario che le spese per gli arredi siano
posteriori all'inizio dei lavori, tenendo conto di quanto
indicato nella stessa circolare per «sostenimento» della
spesa; di conseguenza, per una persona fisica, cui si rende
applicabile il «principio di cassa», se ha iniziato i lavori
di ristrutturazione a gennaio 2013 e deve ancora eseguire i
pagamenti della ristrutturazione ma, nel contempo, acquista
la cucina e la paga a settembre 2013, il bonus sarà
ampiamente fruibile
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, il restyling a fine 2013. A dicembre novità anche
per legno illegale ed emissioni. Il
calendario di scadenze imposto dall'Ue. Paletti a tutte le
apparecchiature elettriche.
È una vera e propria valanga di eco-novità quella che
dovrebbe arrivare dal governo nelle prime due settimane del
dicembre 2013.
In base al calendario che risulta dal
combinato disposto della legge di «delegazione europea 2013»
(la 96/2013) e dalla relativa legge istitutiva (la 234/2012)
tra il 4 e il 14 dell'ultimo mese dell'anno il Consiglio dei
ministri ha il compito di adottare ben cinque decreti
legislativi per tradurre sul piano nazionale altrettanti
provvedimenti ambientali targati Ue in materia di:
apparecchiature elettriche elettroniche (cd.
Aee) e relativi rifiuti (cd. Raee); riduzione integrata
dell'inquinamento industriale (cd. disciplina Ippc), lotta
al commercio del legno illegale; prevenzione degli incidenti
industriali rilevanti (cd. normativa Seveso).
Nella nuova
«Legge di delegazione europea» (che insieme alla parallela
«Legge europea» costituisce l'attuale strumento per
l'adeguamento alle norme Ue) si trovano infatti a convivere
sia le deleghe per l'attuazione di provvedimenti europei con
termini originari di recepimento già scaduti (come quelli su Aee, Ippc e legno, contemplati dalla vecchia «Comunitaria
2012», mai approvata) sia deleghe per l'attuazione di più
fresche direttive (come quella su Raee e Seveso) di prossima
scadenza.
E la fitta concentrazione dei termini finali
proprio nel mese di dicembre è dovuta all'articolo 30 della
legge 234/2012, che impone il recepimento dei provvedimenti
già scaduti entro 3 mesi dall'entrata in vigore della legge
di delegazione europea (operativa dal 04.09.2013) e la
traduzione nazionale degli altri entro i 2 mesi precedenti i
termini di attuazione imposti dall'Ue (termini tutti
coincidenti nel 14.02.2014). Da qui le due citate deadline, rispettivamente, del 4 e del 14.12.2013. Ma
vediamo le novità in arrivo.
Aee e Raee. Con il recepimento delle direttive 2011/65/Ce e
2012/19/Ue dovranno essere tradotte sul piano nazionale le
ultime novità comunitarie sugli aspetti ambientali legati
all'intera filiera delle apparecchiature elettriche ed
elettroniche, ossia: (ulteriore) limitazione dell'utilizzo
di sostanze pericolose nella fabbricazione delle nuove
apparecchiature; spinta su raccolta differenziata e recupero
a valle dei relativi rifiuti.
In particolare sulle Aee, la
direttiva 2011/65/Ce (il cui termine originario di
recepimento, scaduto lo scorso 2 gennaio, è stato rifissato
dal Legislatore nazionale nel 04.12.2013) chiede
l'estensione delle già stringenti regole sulla loro
fabbricazione a qualsiasi apparecchiatura che dipende da
correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare
«almeno una» delle funzioni previste, «pezzi di ricambio»
compresi. Il tutto imponendo ai costruttori
l'identificazione dei prodotti tramite numero seriale e
propri dati. Sul fronte «Raee», invece, la parallela
direttiva 2012/19/Ue sollecita sia l'allargamento del
vigente obbligo di ritiro gratuito delle apparecchiature a
fine vita da parte dei distributori di nuove Aee sia un
innalzamento delle percentuali nazionali di recupero dei
Raee.
Sotto il primo profilo si dovrà infatti passare dal
già noto «one on one» (obbligo di ritiro gratuito del
vecchio dietro acquisto di nuovo prodotto) al «one on zero»,
ossia all'obbligo di ritiro gratuito delle Aee conferite
dagli utenti finali anche senza contestuale acquisto di
nuovo prodotto. Nel tenore della direttiva l'obbligo di
raccolta dovrebbe però essere circoscritto da due parametri,
ossia: imposto ai distributori solo in relazione a negozi al
dettaglio con superficie di vendita di Aee
≥ 400 metri
quadrati o «in prossimità immediata di Raee di piccolissime
dimensioni» (lato più lungo di massimo 25 cm); avere ad
oggetto esclusivamente Raee provenienti da nuclei domestici
(e non da professionisti, dunque).
Sotto il secondo profilo,
invece, la stessa direttiva impone di far salire fino
all'85% (dall'attuale volume del 70/80%) la percentuale
nazionale di raccolta differenziata e recupero delle stesse
apparecchiature una volta giunte a fine vita.
Emissioni industriali. Con il recepimento della direttiva
2010/75/Ue (termine originario di attuazione scaduto il 7
gennaio scorso, ora fissato nel 04.12.2013) dovrà
invece essere ampliato il novero degli impianti industriali
sottoposti alla severa disciplina autorizzatoria Ippc
(acronimo di «Integrated pollution prevention and control»,
ossia «prevenzione e riduzione integrata dell'inquinamento»,
sul piano nazionale meglio nota come «Aia»: autorizzazione
integrata ambientale).
Il rispetto delle cd. «migliori
tecniche disponibili» necessario a ottenere l'autorizzazione
alle emissioni dovrà infatti essere dimostrato anche dagli
impianti di combustione di potenza termica compresa tra 20 e
50 Mw, dagli impianti industriali per la conservazione del
legno e dei prodotti di legno, dalle imprese di produzione
dei pannelli a base di legno.
Lotta contro legno illegale. Con il decreto attuativo del
regolamento 995/2010/Ue dovrà poi arrivare il sistema
sanzionatorio nazionale per le violazioni della disciplina
comunitaria contro il disboscamento illegale in vigore dallo
scorso 03.03.2013.
Le sanzioni (da adottarsi entro il
nuovo termine nazionale del 04.12.2013, rispetto
all'originaria e scaduta deadline Ue del 03.03.2013)
dovranno colpire il mancato rispetto delle tre principali
prescrizioni imposte dal citato regolamento comunitario a
carico degli operatori del settore, ossia: divieto di
immissione nell'Ue di legno tagliato illegalmente in altri
Paesi; obbligo di verifica della provenienza; tracciamento
del materiale lungo l'interna catena di approvvigionamento.
E ciò con misure (secondo quanto chiede lo stesso
provvedimento Ue) effettive, proporzionali e dissuasive, sia
economiche che interdittive.
Controllo incidenti industriali. L'adeguamento alla
direttiva 2012/18/Ue sul «controllo dei pericoli di
incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze
pericolose» (cd. «disciplina Seveso») comporterà
l'inclusione di 14 nuove sostanze (mediate dal regolamento
Ce n. 1272/2008 sull'ultima «classificazione, etichettatura
e imballaggio delle sostanze pericolose») nell'elenco di
quelle nazionali che fanno scattare gli obblighi di
prevenzione e protezione previsti dalla nota disciplina.
Meno stretti, in questo caso, i termini di attuazione:
secondo il calendario guidato dalla stessa direttiva le
prime novità (come la valutazione dei rischi legati alla
presenza di «oli combustibili densi») dovranno essere
recepite entro il 14.12.2014, le altre entro il 31.03.2015. Seppur in modo progressivo, anche in questo caso
(come per la disciplina «Ippc») si assisterà dunque a un
allargamento del novero delle industrie nazionali obbligate
a nuovi adempimenti
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
ESPROPRIAZIONE:
Per i terzi creditori difficile intervenire
nell'espropriazione. Uno studio del
Notariato con precisazioni in tema di diritto di abitazione.
Una serie di precisazioni in tema di diritto di abitazione
sono state proposte dal Consiglio nazionale del notariato
con lo
studio
16.09.2013 n. 21-2013/E. In
particolare ci si è soffermati su quello costituito per
contratto e dei suoi rapporti con l'espropriazione forzata
del bene che ne è oggetto.
Le considerazioni offerte dallo studio sono, come viene
sottolineato dai notai stessi, l'esito anche di una
riflessione che tiene conto delle esigenze sollevate
dall'esperienza pratica.
Il Cnn osserva, innanzitutto, che il diritto di abitazione è
insuscettibile di autonoma espropriazione, pertanto
consequenziale alla sua insuscettibilità di ipoteca è
l'opinione secondo cui il diritto di abitazione non può
essere oggetto di sequestro o di pignoramento.
Si può, quindi, affermare, sottolinea il Consiglio, che il
creditore del titolare del diritto di abitazione non può
sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di
abitazione spettante al proprio debitore.
È stato inoltre osservato che il titolare del diritto di
abitazione deve, in ogni caso, essere messo in condizione di
partecipare al procedimento. Se non gli sia stato notificato
un pignoramento dovrà, quanto meno, essere chiamato a
partecipare all'espropriazione ai sensi dell'art. 498 c.p.c.,
per far valere le proprie ragioni sul ricavato della
vendita.
Per quanto poi riguarda la pubblicità immobiliare, secondo
il Cnn: «Se si esclude che sia il pignoramento a dover dar
conto della libertà della proprietà dei beni sottoposti ad
esecuzione forzata (ricollegando la vendita forzata
all'ipoteca anteriore), risulta evidente che l'unico atto,
destinato alla pubblicità nei Registri Immobiliari (ex art.
2643 n. 6 c.c.) in cui poter dar conto della richiesta da
parte del creditore ipotecario anteriore di far vendere il
bene come libero e ricollegare la vendita forzata
all'ipoteca anteriore, è il decreto di trasferimento dei
beni in esito al procedimento di vendita».
Circa il momento in cui possa intendersi verificata
l'estinzione del diritto di abitazione, i notai hanno
sottolineato che non può essere altro che l'emissione del
decreto di trasferimento se si ritiene, con la
giurisprudenza consolidata ed uniforme, che il trasferimento
(appunto) dei diritti pignorati all'aggiudicatario si
perfezioni con il provvedimento finale in esito al sub
procedimento di vendita forzata e dell'estinzione è
certamente opportuno dar conto nel decreto di trasferimento.
Interessante è la nota di chiusura dello studio, in cui si
osserva che i terzi creditori del titolare del diritto di
abitazione che non abbiano iscritto un'ipoteca in data
anteriore alla trascrizione del trasferimento della
proprietà o non abbiano ottenuto una revocatoria dell'atto
traslativo della proprietà «non sembra (...) abbiano
alcun titolo per intervenire nell'espropriazione forzata
promossa contro un soggetto terzo nei cui confronti non
siano dotati di un diverso titolo esecutivo»
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
Si parte dalle aziende che trattano, trasportano o
commercializzano materiali pericolosi: perimetro ancora
incerto.
Per il Sistri primo banco di prova. Da domani al via la
tracciabilità informatica dei rifiuti ma resta il registro
cartaceo.
È domani, martedì 01.10.2013, la data chiave per
iniziare la tracciabilità informatica dei rifiuti mediante
il Sistri, inserendo le chiavette Usb nei computer e
accendendo le black boxes degli automezzi. Da domani,
infatti, secondo l'articolo 11 del Dl 101/2013, l'obbligo
del Sistri decorre per enti o imprese che raccolgono o
trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale, o che
effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento,
commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi, compresi
i nuovi produttori (cioè i produttori di rifiuti derivanti
da operazioni di trattamento di rifiuti).
Mentre i produttori iniziali di rifiuti pericolosi e –nella
sola Campania– i Comuni e le imprese di trasporto dei
rifiuti urbani (salvo una possibile proroga annunciata nelle
pieghe dell'articolo 11, commi 3 e 8) partiranno il 03.03.2014.
La dizione legislativa ha sollevato una serie di dubbi ai
quali Confindustria –con il documento del 16.09.2013, pubblicato sul sito confederale il giorno dopo (si
veda il Sole 24 Ore del 19 settembre)– ha cercato di
offrire indicazioni il più possibile conformi alle
intenzioni di semplificazione dichiarate dal ministro
dell'Ambiente, Andrea Orlando, nel rispetto della normativa.
Nel documento si legge che relativamente ai soggetti che
devono operare con il Sistri dal 01.10.2013, si devono
intendere:
- per «trasportatori di rifiuti pericolosi»: le aziende
iscritte al Registro delle imprese con codice Ateco 49
(trasporto terrestre e trasporto mediante condotte),
iscritte all'Albo gestori ambientali alla categoria 5.
Restano esclusi, in particolare, i trasportatori di rifiuti
pericolosi iscritti all'Albo gestori ambientali ai sensi
dell'articolo 212, comma 8, Dlgs 152/2006 (produttori
iniziali, trasportatori in conto proprio di rifiuti
pericolosi per non oltre 30 Kg o litri al giorno);
- per «gestori di rifiuti pericolosi»: le imprese che
trattano rifiuti pericolosi prodotti da terzi, individuate
al Registro imprese con codici Ateco 38 e 39 (in
particolare, codice 38: attività di raccolta, trattamento e
smaltimento rifiuti; recupero dei materiali; codice 39:
attività di risanamento e altri servizi di gestione
rifiuti);
- per «nuovi produttori»: i produttori di rifiuti pericolosi
derivanti da operazioni di trattamento di rifiuti sia
pericolosi che non pericolosi, svolte in impianti
individuati con codici Ateco 38 e 39;
- gli intermediari e i commercianti di rifiuti pericolosi.
Del resto, è mediante i codici Ateco che l'Istat codifica le
attività economiche, ed è questa la classificazione usata
dall'agenzia delle Entrate. Né potrebbe essere diversamente
se, per contenere il più possibile l'impatto del primo avvio
del Sistri, la tracciabilità informatica è stata dichiarata
da parte del ministro Orlando come relativa a 17mila imprese
anziché alle 70mila iniziali. Un'interpretazione inutilmente
restrittiva dell'articolo 11, invece, potrebbe includere
quasi tutti, anche il settore del «trasporto in conto
proprio»: in questo caso si può stimare che l'obbligo
riguarderebbe quasi 50mila imprese.
I produttori iniziali di rifiuti pericolosi cominceranno a
usare il Sistri dal 03.03.2014. Quindi, trasportatore e
recuperatore/smaltitore (almeno fino al 03.04.2014)
subiranno sia la complessità informatica del Sistri sia
quella cartacea delle scritture tradizionali, poiché i
produttori, per limitare la propria responsabilità, devono
ricevere la quarta copia del formulario di trasporto. In
base all'articolo 12, comma 2, Dm 17.12.2009, per il
mese successivo alle diverse date di partenza, le imprese
dovranno usare il cosiddetto "doppio binario", cioè
chiavette Usb, black boxes, registri e formulari cartacei.
La platea degli obbligati, tuttavia, resta dinamica;
infatti, il comma 4 dell'articolo 11 prevede un Dm che
individui altre categorie di obbligati da ricercare, sembra,
tra i produttori di rifiuti non pericolosi.
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L'attuazione. Multe crescenti dopo tre violazioni.
Un mese di «test» prima delle sanzioni.
Il 2 novembre prossimo e il 04.04.2014 partiranno le
sanzioni per i soggetti obbligati al sistema Sistri,
rispettivamente, dal 1° ottobre e dal 03.03.2014.
Lo
prevede l'articolo 39, comma 1, del Dlgs 205/2010. Le
sanzioni, infatti, «si applicano a partire dal giorno
successivo alla scadenza del termine di cui all'articolo 12,
comma 2, del Dm 17.12.2009». Cioè dal giorno successivo
alla fine del "doppio binario" (registri, più formulario,
più Sistri).
Le sanzioni previste dall'articolo 260-bis, Dlgs 152/2006
per il Sistri saranno applicabili, quindi, dal 02.11.2013 o dal
04.04.2014.
Si pone ora il problema di capire da quale data, in base
all'articolo 16, comma 2, del Dlgs 205/2010, decorra l'entrata in vigore di una serie di norme del Codice
ambientale modificate o introdotte dall'articolo 16, comma
1, del Dlgs 205.
Anche in questo caso, l'entrata in vigore decorre «dal
giorno successivo alla scadenza del termine di cui
all'articolo 12, comma 2» del Dm 17.12.2009, cioè dal
giorno successivo alla fine del "doppio binario". Gli
articoli che debutteranno (ferme restando le incongruenze)
sono:
1- responsabilità del produttore dei rifiuti (articolo 188);
2- catasto rifiuti (articolo 189);
3- registro di carico e scarico (articolo 190);
4- trasporto e formulario (articolo 193).
Gli articoli nuovi, invece, sono il 188-bis (tracciabilità
dei rifiuti) e il 188-ter (Sistri). Poiché l'articolo 16,
comma 2, del Dlgs 205/2010 rappresenta una condizione di
applicabilità del più generale regime di responsabilità e di
gestione relativo ai rifiuti, si ritiene che tutta la nuova
disciplina gestionale delle norme citate entri in vigore nei
confronti di tutti i suoi destinatari a decorrere dal 02.11.2013, a prescindere dal fatto che il Sistri diventi
operativo da domani o dal 03.03.2014 oppure non lo diventi
mai per le categorie non comprese.
Le sanzioni previste dall'articolo 260-bis, Dlgs 152/2006
per l'invio di informazioni incomplete o inesatte (comma 3),
la non osservanza degli ulteriori obblighi previsti dal
Sistri (comma 5) e la mancata tenuta durante il trasporto
della copia cartacea della scheda Sistri «area
movimentazione» (comma 7) saranno irrogate solo in caso di
più di tre violazioni commesse fino al 31.03.2014 (per
gli obbligati al Sistri dal primo ottobre) o fino al 30.09.2014 (per gli obbligati dal
03.03.2014). Questa
però è una semplificazione quasi inutile per i gestori che,
effettuando centinaia di operazioni al giorno, rischiano di
sbagliare molte volte nel corso della stessa giornata.
Gli operatori del settore e i professionisti che li
assistono, quindi, dovranno fare i conti con la partenza
differita del Sistri, delle sanzioni che sdoppiano la
partenza e delle nuove norme del Codice ambientale (Dlgs
152/2006) introdotte dal Dlgs 205/2010 che entrano in vigore
tutte dallo stesso giorno.
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Le procedure. La versione 3.1 pubblicata il 12 agosto.
Semplificazioni a metà nel manuale.
La versione 3.1 del Manuale operativo del 07.08.2013
apparsa lo scorso 12 agosto in www.sistri.it prova alcune
innovazioni, ma resta un prodotto estremamente simile al
precedente.
Su alcuni problemi operativi, Confindustria ha proposto
possibili soluzioni e –con le prime indicazioni operative
del 16.09.2013– ha suggerito ai trasportatori di
rifiuti pericolosi di applicare la procedura prevista per la microraccolta, di cui al paragrafo 6.5.6 del Manuale
operativo (si veda Il Sole 24 Ore del 24 settembre).
Il Manuale interviene tutto sommato su pochi casi e con
esito talora non risolutivo:
- quantità: nella scheda Sistri «area movimentazione», la
quantità dei rifiuti può essere espressa in metri cubi, con
possibilità di verificarla a destinazione. Lo stesso, però,
non accade per la registrazione in carico;
- dati anagrafici: se cambia la titolarità dell'azienda o
del ramo, chi subentra accede all'area riservata di
www.sistri.it e trasmette copia degli atti di variazione
«prima che tali cambiamenti acquisiscano efficacia». Se il
subentrante, però, non è ancora iscritto al Sistri, non può
accedere all'area «gestione azienda» del sito istituzionale;
- conservazione dei dati: l'articolo 188-bis del Dlgs
152/2006 entra in vigore dal 02.11.2013 (si veda
l'altro articolo in pagina) e richiede la conservazione «in
formato elettronico» del registro e della scheda
movimentazione. Il manuale, anche se la norma non lo
prevede, indica la conservazione «presso la sede legale
dell'azienda». Il problema è informatico, ed è legato alla
difficoltà di scaricare questi documenti.
Mancano invece le semplificazioni procedurali che –senza
modifiche della norma– avrebbero potuto essere presenti nel
Manuale per semplificare le transazioni, come la creazione
automatica del database per conservare i dati trasmessi
oppure, quando il rifiuto è accettato dal destinatario, il
ripristino dell'annotazione automatica dello scarico del
produttore, senza associare la scheda di movimentazione al
registro.
Tra gli aspetti operativi presenti nel Manuale operativo,
c'è la possibilità di consegnare il carico di rifiuti al
trasportatore senza inserire la chiavetta Usb del mezzo nel
computer del produttore. Data e ora di inizio del trasporto
sono indicate sulla Scheda Sistri Area movimentazione
stampata su carta; al loro inserimento nel sistema
informatico provvede in seguito il trasportatore (articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo autostradale ha senza dubbio carattere
di vincolo di inedificabilità assoluta.
Tuttavia, nel caso di vincoli di inedificabilità assoluta
sopravvenuti alla realizzazione dell’opera, la
giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che gli
stessi assumono certamente rilevanza, seppure non quali
elementi di preclusione assoluta al condono, bensì
costituendo vincoli relativi, ai sensi dell’art. 32 della
legge 47/1985, che impongono una concreta valutazione di
compatibilità.
Nel merito il ricorso merita accoglimento,
per le ragioni che seguono.
In primo luogo, appare incontestato –in quanto ammesso
anche da ASPI, cfr. il doc. 2 della ricorrente, ultimo
“considerato”– che le opere abusive di cui è causa sono
state realizzate negli anni 1962-1963, mentre l’attuale
disciplina legislativa del vincolo autostradale –che
prevede nei centri abitati una fascia di rispetto di 30
metri– è contenuta nel D.Lgs. 285/1992 e nel DPR 495/1992,
vale a dire il Nuovo Codice della Strada ed il suo
regolamento di attuazione (cfr. in particolare l’art. 2,
comma 2, del D.Lgs. 285/1992 e l’art. 28, comma 1, lett.
a, del DPR 495/1992).
In precedenza, l’art. 9 della legge 24.07.1961 n. 729 (oggi
abrogato), prevedeva una fascia di rispetto di 25 metri, da
osservarsi dal momento di pubblicazione sul Foglio degli
annunzi legali della Provincia (FAL) dell’avviso di avvenuta
approvazione del progetto della strada.
Il vincolo autostradale ha senza dubbio carattere di vincolo
di inedificabilità assoluta; tuttavia, contrariamente a
quanto sostenuto nel parere di ASPI ivi impugnato (cfr.
ancora il doc. 2 della ricorrente), non sussistono nel caso
di specie i presupposti per l’applicazione dell’art. 33,
comma 1, della legge 47/1985 (come richiamato dall’art. 32
della legge 326/2003), in quanto tale norma prevede
espressamente che i vincoli siano anteriori alla
realizzazione dell’opera abusiva (<<…siano stati imposti
prima della esecuzione delle opere stesse>>).
Nel caso di vincoli di inedificabilità assoluta sopravvenuti
alla realizzazione dell’opera, la giurisprudenza
amministrativa ha da tempo chiarito che gli stessi assumono
certamente rilevanza, seppure non quali elementi di
preclusione assoluta al condono, bensì costituendo vincoli
relativi, ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985, che
impongono una concreta valutazione di compatibilità (si veda
sul punto, quale precedente specifico, la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n. 2576, che ha
confermato la pronuncia del TAR Lombardia, Milano, sez. II,
n. 3150/2004).
Nel caso di specie, il parere negativo non effettua alcuna
concreta verifica della compatibilità dell’opera con il
vincolo autostradale, limitandosi ad un apodittico richiamo
all’art. 33 della legge 47/1985 ed al vincolo dei 30 metri
introdotto dal Nuovo Codice della Strada.
Preme ancora evidenziare che il parere non contiene neppure
alcun eventuale richiamo al vincolo di 25 metri previsto
dalla legge 729/1961, la cui applicabilità al caso di specie
(soprattutto in ordine alla pubblicazione sul FAL
dell’avviso di approvazione del progetto), non viene
concretamente provata dalle parti resistenti.
Per effetto dell’accoglimento del presente ricorso, devono
essere annullati gli atti impugnati, con conseguente obbligo
di riavvio del procedimento di condono e di rilascio, da
parte dell’Ente preposto alla tutela del vincolo
autostradale, di un nuovo parere sulla compatibilità o meno
- in concreto - dell’opera abusiva con le esigenze della
sicurezza del traffico e con gli altri interessi pubblici
sottesi al vincolo
(TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 11.10.2013 n. 2285
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In merito alla
sussistenza dei presupposti fattuali che rivelano
l’esistenza di un uso pubblico del passaggio, i presupposti
che possono così identificarsi: passaggio esercitato da una
collettività di persone, idoneità del bene a soddisfare
esigenze di carattere generale, protrazione del diritto di
uso pubblico da tempo immemorabile ed eventuale inserimento
del sentiero in un elenco istituito presso il Comune.
Sui requisiti rivelatori dell’uso pubblico di un bene,
recentemente il CdS ha così statuito: <<La giurisprudenza,
con orientamento costante cui la Sezione aderisce, ritiene
che affinché possa considerarsi esistente una servitù
pubblica di passaggio su una strada occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della
pubblica amministrazione>>.
Con provvedimento prot. 5317 del 27.11.2012, il Responsabile
del Servizio Edilizia Privata del Comune di Chiesa in
Valmalenco (SO), diffidava il Condominio “Chalet La
Genziana”, a rimuovere i cancelli e a ripristinare il
pubblico transito di un sentiero asserito di collegamento
fra due strade comunali, ritenuto dal Comune medesimo di uso
pubblico.
...
La questione fondamentale della presente
controversia riguarda l’esistenza o meno di una servitù di
pubblico passaggio sul sentiero adiacente il Condominio ove
risiedono gli esponenti.
Sul punto, attese le opposte posizioni delle parti, il
Collegio ha disposto istruttoria mediante verificazione, per
l’accertamento della sussistenza dei presupposti fattuali
che rivelano l’esistenza di un uso pubblico del passaggio,
presupposti che possono così identificarsi: passaggio
esercitato da una collettività di persone, idoneità del bene
a soddisfare esigenze di carattere generale, protrazione del
diritto di uso pubblico da tempo immemorabile ed eventuale
inserimento del sentiero in un elenco istituito presso il
Comune [sui requisiti rivelatori dell’uso pubblico di un
bene, si veda –fra le più recenti– Consiglio di Stato,
sez. VI, 10.05.2013, n. 2544, nella quale si legge che: <<La
giurisprudenza, con orientamento costante cui la Sezione
aderisce, ritiene che affinché possa considerarsi esistente
una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che
essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia
concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale; c) sia oggetto di interventi di
manutenzione da parte della pubblica amministrazione (ex multis, Cons. Stato, IV, 24.02.2011, n. 1240; IV, n.
2760 del 2012, cit.)>>; oltre a Cassazione civile, sez. II,
05.07.2013, n. 16864].
Ciò premesso, dalla lettura della relazione depositata in
giudizio dal verificatore risulta chiaramente che:
- mancano elementi certi per affermare che sul sentiero vi
sia un passaggio esercitato iure servitutis publicae;
- il sentiero soddisfa esigenze di collegamento con altri
sentieri e non con le pubbliche vie;
- non vi sono elementi certi per avvalorare la tesi di un
uso pubblico protratto nel tempo;
- il Comune, con propria nota allegata dal verificatore alla
sua relazione, ha dichiarato di non avere accertato se il
sentiero sia inserito in elenchi tenuti
dall’Amministrazione.
Viste le risultanze della verificazione, è giocoforza
concludere che non vi è idonea prova dell’uso pubblico del
sentiero, sicché risulta priva di fondamento la pretesa del
Comune stesso di rimozione dei cancelli collocati dal
privato per la salvaguardia del Condominio e dei residenti
nel medesimo.
A diversa conclusione non induce la documentazione prodotta
da parte resistente in data 24.06.2013, la quale attesta
semplicemente l’acquisto della segnaletica da parte della
Giunta Comunale nel 1990 e l’avvenuta pulizia del sentiero,
sempre nel 1990, ma che non appare idonea a scalfire le
conclusioni raggiunte dall’incaricato della verificazione.
Il ricorso deve quindi accogliersi, con conseguente
annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.10.2013 n. 2283 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di verifica
dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante ha
effettuato una approfondita disamina di tutte le componenti
di costo indicate nelle giustificazioni riportate
dall’impresa aggiudicatrice, specificando, in particolare,
le ragioni per le quali ciascuna di esse risulti congrua con
l’offerta presentata e, pertanto, idonea ad assicurare
prestazioni conformi al servizio richiesto.
Altresì, nelle procedure di evidenza pubblica un’offerta non
può ritenersi senz’altro anomala e comportante l’automatica
esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del
lavoro sia stato calcolato secondo valori non perfettamente
corrispondenti a quelli risultanti dalle tabelle
ministeriali; invero tali valori rappresentano non parametri
inderogabili, ma indici del giudizio di congruità,
conseguentemente affinché possa propendersi per l’anomalia
dell’offerta, occorre (ma non è il caso di specie) che la
discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
Osserva, invero, il Collegio, che in sede
di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione
appaltante ha effettuato una approfondita disamina di tutte
le componenti di costo indicate nelle giustificazioni
riportate dall’impresa aggiudicatrice, specificando, in
particolare, le ragioni per le quali ciascuna di esse
risulti congrua con l’offerta presentata e, pertanto, idonea
ad assicurare prestazioni conformi al servizio richiesto.
Sotto altro profilo, si deve, nondimeno, rilevare che nelle
procedure di evidenza pubblica un’offerta non può ritenersi
senz’altro anomala e comportante l’automatica esclusione
dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia
stato calcolato secondo valori non perfettamente
corrispondenti a quelli risultanti dalle tabelle
ministeriali; invero tali valori rappresentano non parametri
inderogabili, ma indici del giudizio di congruità,
conseguentemente affinché possa propendersi per l’anomalia
dell’offerta, occorre (ma non è il caso di specie) che la
discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata
(cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 23.07.2012, n.
4206)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 11.10.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
A differenza della tassa
di occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione (ndr: canone
patrimoniale per la concessione di spazi e aree pubbliche
previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992) ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune.
Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso la
discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata dalla
suddivisione degli stessi in cinque classi per numero di
abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
---------------
Reputa il Collegio che il criterio adottato dal Comune di
fare riferimento, in metri lineari, alla proiezione
ortogonale sul suolo del lato maggiore della struttura, sia
del tutto aderente alla norma attributiva del potere, nella
parte in cui essa indirizza l’amministrazione ad incorporare
nel corrispettivo il “valore economico risultante dal
provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio che
l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Il primo motivo si appunta sulla previsione di
regolamento comunale che, nel disciplinare l’applicazione
del canone patrimoniale per la concessione di spazi e aree
pubbliche previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992,
individua quale criterio per la determinazione delle
tariffe, sia per i cartelloni pubblicitari che per le
pensiline: “la proiezione ortogonale sul suolo del lato
maggiore della porzione di struttura predisposta per
l’installazione dei messaggi pubblicitari al metro lineare”.
All’uopo, si lamenta che il nuovo metodo di calcolo sarebbe
in contrasto con i parametri fissati dall’art. 27 citato,
dal momento che esso non potrebbe certo considerarsi
riferito all’effettiva insistenza sul suolo, considerato
che, se un’area può occupare dello spazio e incidere sul
suolo, lo stesso non potrebbe dirsi di una linea (ovvero,
della base dell’impianto, espressa in metri lineari). Né
potrebbe rilevare, in senso contrario, la presunta remuneratività di un impianto di maggior superficie
espositiva, posto che la ratio dell’imposizione
sull’occupazione di suolo pubblico non sarebbe la pubblica
partecipazione al reddito degli impianti, bensì il
corrispettivo per l’utilizzo di una porzione di suolo
pubblico.
Per contro, il criterio previsto dal regolamento
del 2003, che fissava il canone in considerazione dei metri
quadrati risultanti dall’area ottenuta con la proiezione
ortogonale sul suolo del mezzo istallato, sarebbe stato
effettivamente parametrato sull’insistenza sul suolo,
poiché, considerando sia la lunghezza della base che lo
spessore dell’impianto, veniva identificata una specifica
porzione di spazio sottratta dal cartello all’uso pubblico
del suolo.
Per gli stessi motivi (ovvero, per violazione del
parametro dell’effettiva soggezione sul suolo posto
dall’art. 27 del d.lgs. 285/1992), sarebbe, altresì,
illegittima anche l’introduzione della differenziazione
tariffaria per l’ipotesi della pubblicità mono e bifacciale
(sia sulle pensiline che sui poster): la doppia esposizione,
infatti, non implicherebbe occupazione di una porzione di
strada maggiore rispetto a quella singola.
Il motivo non può essere accolto.
Occorre premettere che, a differenza della tassa di
occupazione (costituente espressione della potestà
impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui
la legge attribuisce il valore di indice di capacità
contributiva), il canone in questione ha natura di
corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al
monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di
un bene comune. Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso
la discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata
dalla suddivisione degli stessi in cinque classi per numero
di abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i
principi relativi al canone di concessione dettati dall’art.
27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della
strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di
discrezionalità.
La norma da ultimo citata, nel dettaglio, statuisce che: “Nel
determinare la misura della somma si ha riguardo alle
soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la
concessione costituisce l’oggetto principale dell’impresa,
al valore economico risultante dal provvedimento di
autorizzazione o concessione e al vantaggio che l’utente ne
ricava". Orbene, richiamata la natura del canone in
questione, reputa il Collegio che il criterio adottato dal
Comune di fare riferimento, in metri lineari, alla
proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della
struttura, sia del tutto aderente alla norma attributiva del
potere, nella parte in cui essa indirizza l’amministrazione
ad incorporare nel corrispettivo il “valore economico
risultante dal provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio
che l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in
questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di
commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata
(la quale non è indice affidabile della potenzialità di
ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali
dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non
arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario
con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Parimenti deve dirsi quanto al rilievo accordato dal
regolamento all’utilizzo mono -facciale o bifacciale della
struttura, poiché è finanche intuitivo che tale doppia
proiezione porta seco un maggiore valore di realizzo
economico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: Per
effetto dell'introduzione del principio della separazione
tra i compiti di indirizzo politico e i compiti gestionali,
devono ritenersi trasferite dagli organi di direzione
politico-amministrativa al personale burocratico (alla
stregua del vigente art. 107 del T.U. n. 267/2000) tutte le
competenze in materia di repressione degli abusi edilizi.
Né può, in diversa direzione, ritenersi che il provvedimento
impugnato sia stato adottato dal Sindaco nella qualità di
Ufficiale di Governo ex art. 38 l. n. 142/1990 (ora trasfuso
nell’art. 54 del T.U. cit.), non constando (fuori del
richiamo, di per sé del tutto irrilevante, alla ridetta
disposizione normativa, oltretutto contrastante con il
contestuale richiamo alla normativa in tema di repressione
degli abusi edilizi) della concreta ricorrenza dei relativi
presupposti e, segnatamente, degli interessi suscettibili di
attivare i relativi poteri extra ordinem.
... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n. 21 del
12.12.2000, notificata il 19 dicembre successivo, con al
quale al ricorrente è stato ingiunto di demolire il
fabbricato di sua proprietà sito alla località “Olivella”;
...
Il ricorso è fondato, nei sensi di cui alle considerazioni
che seguono.
S’impone, in via preliminare ed assorbente, l’esame del
terzo motivo di gravame, in quanto preordinato alla denuncia
della incompetenza alla adozione del provvedimento
impugnato.
La censura è palesemente fondata, non essendo dubbio che,
per effetto dell'introduzione del principio della
separazione tra i compiti di indirizzo politico e i compiti
gestionali, devono ritenersi trasferite dagli organi di
direzione politico-amministrativa al personale burocratico
(alla stregua del vigente art. 107 del T.U. n. 267/2000)
tutte le competenze in materia di repressione degli abusi
edilizi.
Né può, in diversa direzione, ritenersi che il provvedimento
impugnato sia stato adottato dal Sindaco nella qualità di
Ufficiale di Governo ex art. 38 l. n. 142/1990 (ora trasfuso
nell’art. 54 del T.U. cit.), non constando (fuori del
richiamo, di per sé del tutto irrilevante, alla ridetta
disposizione normativa, oltretutto contrastante con il
contestuale richiamo alla normativa in tema di repressione
degli abusi edilizi) della concreta ricorrenza dei relativi
presupposti e, segnatamente, degli interessi suscettibili di
attivare i relativi poteri extra ordinem (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2037 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’opera contestata al
privato, consistita, si ripete, nella realizzazione di una
strada di accesso all’abitazione e di un piazzale di
parcheggio con poderosi sbancamenti di roccia, costituisce,
sotto il profilo edilizio, un intervento di nuova
costruzione ai sensi dell’art. 3, lett. f), D.P.R. n.
380/2001, soggetto a permesso di costruire, sanzionabile, in
mancanza di titolo abilitativo, con l’ordine di ripristino
ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
---------------
La sanzione amministrativa irrogata nel caso di specie ha
funzione non afflittiva (come le sanzioni penali) ma
ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato ed ha natura
non personale ma reale, sicché segue oggettivamente la cosa
abusiva e il suo rapporto proprietario indipendentemente
dall’addebitabilità della condotta abusiva su di essa
realizzata, con la conseguenza che la misura repressiva è
applicabile nei confronti del proprietario attuale
dell’immobile anche se estraneo all’abuso stesso.
Costituisce eccezione alla regola la sola ipotesi della non
applicabilità al proprietario dell’ulteriore sanzione
dell’acquisizione gratuita da parte del Comune, in
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Tale ipotesi si verifica però solo qualora, “risulti in modo
inequivocabile la completa estraneità del proprietario al
compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirla con gli strumenti
offertigli dall’ordinamento”.
---------------
Quanto alla lamentata inesatta individuazione dell'area di
sedime attinta dalle opere abusive in questione, tale
elemento non costituisce causa di illegittimità
dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni
riferibili al successivo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale.
Il collegamento dell’acquisizione gratuita non direttamente
al mancato ripristino entro il termine di 90 giorni previsto
dalla legge, bensì al mancato rispetto della scansione
temporale degli adempimenti fissata nell’ordine di
demolizione, oltre che ragionevole, dovendo i lavori di
ripristino essere previamente autorizzati, è posto al fine
di favorire il ricorrente nel tempestivo adempimento
dell’ordine di ripristino, e ciò nell’ottica di una leale
collaborazione tra amministrazione e cittadino, con la
conseguenza che egli non ha ragione di lamentarsi di tale
specifica determinazione.
Osservato che:
- dall’esame della documentazione depositata in giudizio
dalle parti, in modo particolare dal verbale del Corpo
Forestale, dalla rilevazione tecnica effettuata dal
professionista incaricato dal Comune e dalle fotografie,
emerge come l’abuso contestato a N.B. riguardi la
difformità dell’intervento di escavazione e sbancamento
effettuato rispetto a quanto previsto come necessario per
tutelare la pubblica incolumità dall’amministrazione
comunale, ovvero la realizzazione di lavori estranei
rispetto all’intervento approvato dal Comune di Soave e
relativo alla messa in sicurezza delle sede stradale;
- detto intervento di maggiori dimensioni e quindi di
maggior impatto negativo per l’area tutelata è consistito,
in particolare, nella realizzazione di una nuova strada di
accesso alla proprietà e nella creazione di un’area di sosta
a monte dell’abitazione, opere queste che vanno a diretto
vantaggio del proprietario dell’area, Nello Busacchi; con la
conseguenza che quest’ultimo non può dirsi estraneo ai
maggiori interventi eseguiti e che, quanto meno per tali
difformità, ne è stata correttamente accertata la
responsabilità in qualità di proprietario che si è
avvantaggiato di tali lavori;
- tali considerazioni non risultano inficiate dalla
responsabilità, da accertare in capo all’amministrazione
comunale, circa la legittimità dei lavori specificatamente
previsti per la messa in sicurezza della strada;
- in particolare, l’opera contestata al privato, consistita,
si ripete, nella realizzazione di una strada di accesso
all’abitazione e di un piazzale di parcheggio con poderosi
sbancamenti di roccia, costituisce, sotto il profilo
edilizio, un intervento di nuova costruzione ai sensi
dell’art. 3, lett. f), D.P.R. n. 380/2001, soggetto a
permesso di costruire, sanzionabile, in mancanza di titolo
abilitativo, con l’ordine di ripristino ai sensi dell’art.
31 D.P.R. n. 380/2001;
- pertanto, i denunciati vizi di eccesso di potere per
travisamento dei fatti, carenza dei presupposti, sviamento
di potere e conflitto d’interesse, non sono predicabili nei
confronti del provvedimento sanzionatorio impugnato, attesa
la sua vincolatezza, una volta stabilito che l’intervento di
sbancamento è stato eseguito, all’interno della proprietà
dell’attuale ricorrente, in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, senza alcun titolo abilitativo e senza previa
autorizzazione paesaggistica;
- peraltro, la sanzione amministrativa irrogata nel caso di
specie ha funzione non afflittiva (come le sanzioni penali)
ma ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato ed ha
natura non personale ma reale, sicché segue oggettivamente
la cosa abusiva e il suo rapporto proprietario
indipendentemente dall’addebitabilità della condotta
abusiva su di essa realizzata, con la conseguenza che la
misura repressiva è applicabile nei confronti del
proprietario attuale dell’immobile anche se estraneo
all’abuso stesso. Costituisce eccezione alla regola la sola
ipotesi della non applicabilità al proprietario
dell’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita da parte
del Comune, in conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di
demolizione. Tale ipotesi si verifica però solo qualora,
“risulti in modo inequivocabile la completa estraneità del
proprietario al compimento dell’opera abusiva o che,
essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirla con gli strumenti offertigli dall’ordinamento”
(Corte Cost. n. 345/1991).
Viceversa, nel caso di specie,
come già detto, dagli atti depositati ed in particolare, dal
verbale del Corpo Forestale in atti, risulta come l’attuale
ricorrente non possa non aver contribuito alla realizzazione
delle opere abusive oggetto di sanzione, essendo stata
contestualmente realizzata una nuova strada di accesso alla
sua proprietà ed una nuova piazzola di sosta (opere che,
evidentemente, non possono essere state commissionate
dall’amministrazione comunale);
- quanto alla lamentata inesatta individuazione dell'area di
sedime attinta dalle opere abusive in questione, tale
elemento non costituisce causa di illegittimità
dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni
riferibili al successivo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale;
- il collegamento dell’acquisizione gratuita non
direttamente al mancato ripristino entro il termine di
novanta giorni previsto dalla legge, bensì al mancato
rispetto della scansione temporale degli adempimenti fissata
nell’ordine di demolizione (denunciato con il sesto motivo),
oltre che ragionevole, dovendo i lavori di ripristino essere
previamente autorizzati, è posto al fine di favorire il
ricorrente nel tempestivo adempimento dell’ordine di
ripristino, e ciò nell’ottica di una leale collaborazione
tra amministrazione e cittadino, con la conseguenza che egli
non ha ragione di lamentarsi di tale specifica
determinazione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.10.2013 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai fini della legittimità
della ratifica di un atto amministrativo (viziato per
incompetenza del sottoscrittore), da intendersi
correttamente come ratifica propria e non per convalidare un
atto assunto in via d’urgenza, è richiesto che l’organo
competente dia contezza del vizio da rimuovere, della
propria volontà di volerlo emendare (cd. “animus
convalidandi”) e della condivisione delle ragioni che hanno
sostenuto l’iniziale rigetto dell’istanza e con esse dei
motivi di pubblico interesse ad esse sottese.
Nel caso di specie l’organo competente ha fatto proprie,
espressamente condividendole, le ragioni che avevano portato
il Sindaco a respingere l’istanza di riesame presentata
dalla ricorrente, palesemente riconoscendo la presenza del
vizio di incompetenza e la volontà di rimozione dello
stesso, ferme restando le conclusioni di merito.
- atteso altresì che, con riguardo al vizio di
incompetenza dedotto con il ricorso introduttivo, è
intervenuta nelle more la ratifica da parte del Responsabile
del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica del
provvedimento di rigetto dell’istanza di riesame in
precedenza assunto dal Sindaco;
- visti i motivi aggiunti rivolti a censurare la legittimità
della disposta ratifica;
-
ritenuto che le doglianze dedotte a tale riguardo non
colgono nel segno, in quanto ai fini della legittimità della
stessa, da intendersi correttamente come ratifica propria e
non per convalidare un atto assunto in via d’urgenza, è
richiesto che l’organo competente dia contezza del vizio da
rimuovere, della propria volontà di volerlo emendare (cd.
“animus convalidandi”) e della condivisione delle ragioni
che hanno sostenuto l’iniziale rigetto dell’istanza e con
esse dei motivi di pubblico interesse ad esse sottese (cfr.
C.d.S., V, n. 3809/2013; TAR Lazio, III, n. 5299/2011);
-
considerato che nel caso di specie l’organo competente ha
fatto proprie, espressamente condividendole, le ragioni che
avevano portato il Sindaco a respingere l’istanza di riesame
presentata dalla ricorrente, palesemente riconoscendo la
presenza del vizio di incompetenza e la volontà di rimozione
dello stesso, ferme restando le conclusioni di merito;
- per detti motivi sia il ricorso principale che i motivi
aggiunti successivamente proposti vanno respinti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.10.2013 n. 1152 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In caso di impugnazione giurisdizionale di
determinazioni amministrative di segno negativo fondate su
una pluralità di ragioni (ciascuna delle quali di per sé
idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento),
è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio
giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso
resti indenne dalle censure articolate ed il ricorso venga
dichiarato infondato, o meglio inammissibile in parte qua,
per carenza di interesse alla coltivazione dell'impugnativa
avverso l'ulteriore ragione ostativa, il cui esito resta
assorbito dalla pronuncia negativa in ordine alla prima
ragione ostativa.
Osserva in proposito la Sezione che, in caso di impugnazione
giurisdizionale di determinazioni amministrative di segno
negativo fondate su una pluralità di ragioni (ciascuna delle
quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del
provvedimento), è sufficiente che una sola di esse resista
al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo
complesso resti indenne dalle censure articolate ed il
ricorso venga dichiarato infondato, o meglio inammissibile
in parte qua, per carenza di interesse alla coltivazione
dell'impugnativa avverso l'ulteriore ragione ostativa, il
cui esito resta assorbito dalla pronuncia negativa in ordine
alla prima ragione ostativa (Consiglio di Stato, sez. VI,
05.03.2013, n. 1323)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.10.2013 n. 4969 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In termini astratti, si concorda con quanto
ritenuto dal Comune nelle ordinanze impugnate, e dalla
giurisprudenza ivi citata, ovvero sulla possibilità che sia
necessario munirsi di titolo edilizio per qualsiasi
intervento di modifica del suolo, e quindi al limite anche
per la posa di un cartello pubblicitario come quelli che qui
rilevano.
Tale astratta possibilità deve però essere valutata alla
luce delle normative regionali in concreto di volta in volta
vigenti, emanate nell’esercizio della competenza concorrente
in materia di governo del territorio di cui all’art. 117,
comma 2, Cost. Nel caso presente, rileva l’art. 33, comma 1,
della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, che assoggetta a
permesso di costruire solo gli interventi di “trasformazione
urbanistica ed edilizia”, ovvero impattanti in maniera in
qualche modo significativa sul territorio.
Tale non è la posa di un cartello pubblicitario come quelli
per cui è causa ovverosia cartello cd. bifacciale, ovvero da
un pannello rettangolare, sostenuto da un plinto di cemento
infisso al suolo e idoneo a recare su ogni faccia il
messaggio promozionale desiderato dal cliente, delle
dimensioni di 2 metri per 2 metri.
...
per l’annullamento,
previa adozione della misura cautelare:
●
dell’ordinanza 15.02.2010 n. 21, conosciuta il successivo 18 febbraio,
con la quale il Responsabile del settore tecnico del Comune
di Trescore Balneario ha ingiunto alla Carminati
Allestimenti S.r.l. di rimuovere in quanto abusivo un
impianto pubblicitario collocato in territorio comunale,
sulla S.S. n. 42 al Km 33 + 855 lato destro;
●
dell’ordinanza
15.02.2010 n. 23, conosciuta il successivo 18 febbraio,
con la quale il medesimo Responsabile del settore tecnico ha
ingiunto alla Carminati Allestimenti S.r.l. di rimuovere in
quanto abusivo un impianto pubblicitario collocato in
territorio comunale, sulla S.S. n. 42 al Km 33 + 950 lato
destro;
...
La Carminati Allestimenti S.r.l., odierna ricorrente, nota
azienda attiva nel settore della cartellonistica
pubblicitaria, ha ricevuto le due ordinanze meglio indicate
in epigrafe, che le prescrivono di rimuovere in quanto
asseritamente abusivi, due impianti pubblicitari siti in
Comune di Trescore Balneario, lungo il tracciato della S.S.
42 sul lato destro, alle progressive 33+855 e 33+950, e
costituiti entrambi da un cd. cartello bifacciale, ovvero da
un pannello rettangolare, sostenuto da un plinto di cemento
infisso al suolo e idoneo a recare su ogni faccia il
messaggio promozionale desiderato dal cliente.
Le ordinanze
in questione, di identico tenore, ritengono che i manufatti
in parola si trovino nella zona indicata come “zona 2”
dall’art. 122 del regolamento edilizio comunale, in cui sono
ammesse le affissioni pubblicitarie le quali rispettino
quanto previsto dal codice della strada e dal regolamento
edilizio in questione; ritengono poi che nella specie i
manufatti tali prescrizioni non rispettino, perché assistiti
soltanto da una autorizzazione dell’ANAS in scadenza al 31.12.2010 per il primo e scaduta il 31.12.2009 per
il secondo, e privi invece sia di autorizzazione comunale ad
occupare il suolo pubblico, sia di permesso di costruire,
titoli ritenuti entrambi necessari (doc. ti ricorrente 1 e
2, copie ordinanze impugnate; doc.ti ricorrente 3 e 4,
estratti regolamento edilizio Comune Trescore).
Avverso tali ordinanze e attraverso le presupposte norme
regolamentari, di cui pure meglio in epigrafe, propone ora
impugnazione la Carminati, con ricorso articolato in tre
motivi:
- con il primo di essi, rubricato come terzo a p.14
dell’atto, deduce violazione dell’art. 7 della l. 07.08.1990 n. 241, per avere il Comune omesso di inviarle l’avviso
di inizio del procedimento;
- con il secondo motivo, rubricato come primo a p.5
dell’atto, deduce violazione dell’art. 23 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285 e dell’art. 53, comma 1, lettera a), del DPR
16.12.1992 n. 495, cd. Codice della strada e relativo
regolamento di esecuzione, poiché per cartelli come quelli
per cui è causa, siti all’esterno del centro abitato, la
competenza a rilasciare l’autorizzazione necessaria alla
posa è dell’ANAS, ente proprietario della strada, non già
del Comune, non essendo dovuta una distinta ed ulteriore
autorizzazione comunale ad occupare il suolo pubblico;
- con il terzo motivo, rubricato come secondo a p.10
dell’atto, deduce violazione delle medesime norme, poiché
impianti come quelli per cui è causa, delle dimensioni di 2
metri per 2 metri, non richiedono nemmeno il permesso di
costruire.
...
E’ poi fondato anche il terzo motivo di ricorso, fondato
sulla non necessità di titolo edilizio per i manufatti per i
quali è processo. In termini astratti, si concorda con
quanto ritenuto dal Comune nelle ordinanze impugnate, e
dalla giurisprudenza ivi citata, ovvero sulla possibilità
che sia necessario munirsi di titolo edilizio per qualsiasi
intervento di modifica del suolo, e quindi al limite anche
per la posa di un cartello pubblicitario come quelli che qui
rilevano.
Tale astratta possibilità deve però essere valutata alla
luce delle normative regionali in concreto di volta in volta
vigenti, emanate nell’esercizio della competenza concorrente
in materia di governo del territorio di cui all’art. 117,
comma 2, Cost. Nel caso presente, rileva l’art. 33, comma 1,
della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, che assoggetta a
permesso di costruire solo gli interventi di “trasformazione
urbanistica ed edilizia”, ovvero impattanti in maniera in
qualche modo significativa sul territorio. Tale non è la
posa di un cartello pubblicitario come quelli per cui è
causa, così come ritenuto su un caso identico da TAR
Lombardia Milano 13.02.2008 n. 2948, correttamente
citata dalla ricorrente.
Devono essere quindi annullate sia le ordinanze impugnate
sia le previsioni regolamentari illegittime da esse
presupposte, così come in dispositivo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.10.2013 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’impugnata deliberazione
di classificazione della strada in questione come strada
comunale deve ritenersi illegittima sulla base
dell’assorbente rilievo dell’insussistenza del presupposto
della proprietà pubblica o di una servitù di uso pubblico
sulle aree interessate dal tracciato stradale, alla luce
dell’ivi richiamato consolidato orientamento
giurisprudenziale, secondo cui per l’attribuzione del
carattere di demanialità comunale ad una via privata è
necessario che con la destinazione della strada all’uso
pubblico concorra l’intervenuto acquisto, da parte dell’ente
locale, della proprietà del suolo relativo o di altro
diritto reale immobiliare (per effetto di un contratto, in
conseguenza di un procedimento d’esproprio, per effetto di
usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in
difetto dell’appartenenza della sede viaria al Comune,
l’iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali,
giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse
con il regime giuridico della medesima.
In reiezione del secondo, complesso motivo d’appello, è sufficiente
rilevare che:
- la natura di strada forestale, propria di lunghi tratti
della strada in questione, non incide sull’assetto
dominicale dei fondi attraversati dal tracciato stradale,
nel caso di specie in parte di proprietà di soggetti
privati;
- come accertato con la sentenza, che definisce il giudizio
parallelo trattenuto in decisione all’udienza del 04.06.2013 (ricorso in appello n. 3282 del 2013), l’impugnata
deliberazione di classificazione della strada in questione
come strada comunale deve ritenersi illegittima sulla base
dell’assorbente rilievo dell’insussistenza del presupposto
della proprietà pubblica o di una servitù di uso pubblico
sulle aree interessate dal tracciato stradale, alla luce
dell’ivi richiamato consolidato orientamento
giurisprudenziale, secondo cui per l’attribuzione del
carattere di demanialità comunale ad una via privata è
necessario che con la destinazione della strada all’uso
pubblico concorra l’intervenuto acquisto, da parte dell’ente
locale, della proprietà del suolo relativo o di altro
diritto reale immobiliare (per effetto di un contratto, in
conseguenza di un procedimento d’esproprio, per effetto di
usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in
difetto dell’appartenenza della sede viaria al Comune,
l’iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali,
giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse
con il regime giuridico della medesima (v. sul punto, per
tutte, Cass. civ., sez. II, 28.09.2010, n. 20405;
Cass. civ., sez. I, 26.08.2002, n. 12540; Cass. civ.,
Sez. II, 07.04.2006, n. 8204);
- la contestazione dell’illegittimità ab imis dell’impugnata
deliberazione di classificazione, per difetto del
presupposto di una strada di uso pubblico, deve ritenersi
insita nell’impianto difensivo della Provincia, ricavabile
da un’interpretazione sistematica del ricorso di primo
grado, nonché riproposta in appello nei relativi atti
difensivi (v. anche le difese svolte dall’appellata
Provincia in replica al primo motivo d’appello), con la
conseguenza che, sotto un profilo processuale, la questione
in esame rientra nei limiti dell’oggetto del presente
giudizio.
La rilevata insussistenza della presupposta situazione
giuridica reale impone la conferma dell’appellata
statuizione annullatoria dell’impugnata delibera di
classificazione stradale, con sequela di caducazione
dell’ordinanza sindacale recante la disciplina della
circolazione sulla strada medesima, sul presupposto
(insussistente) della sua natura comunale (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.10.2013 n. 4953 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Dell’abbandono e deposito
di rifiuti sui fondi risponde -in solido con l'autore
materiale, anche- il proprietario dell'area, o il titolare
di diritto reale o personale di godimento, al quale l'azione
sia addebitabile a titolo di dolo o colpa.
Per cui l'accertamento della condotta asseritamente colposa
va eseguito dall'amministrazione e qualora non sia stata né
accertata, né tantomeno dimostrata la sussistenza
dell'elemento psicologico (ossia almeno la colpa), in
difetto quindi di accertato concorso con il terzo autore
dell'illecito di una condotta colpevole del proprietario del
fondo, non è dato ricavare alcuna sua responsabilità per la
rimozione da effettuare, per cui è illegittima la relativa
ordinanza sindacale emessa unicamente sul rilievo della
proprietà del fondo su cui si trovano i beni depositati.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 233 del 23/12/2004,
con la quale il comune di Alfonsine ingiunge alla società
ricorrente lo sgombero di materiale plastico depositato
nell'area sita in via ... di Alfonsine e di tutti gli atti
connessi, presupposti o conseguenti a quello sopra
individuato ed, in particolare, dell'ordinanza sindacale n.
13 del 21/02/2005, per la parte in cui, concedendo una
proroga del termine per lo sgombero dell'area, conferma
l’ordinanza precedente.
...
Il Tribunale ritiene che il ricorso meriti accoglimento,
risultando fondata la censura rilevante eccesso di potere
per erroneità dei presupposti di fatto sui quali è fondata
l’ordinanza di sgombero principalmente impugnata, nonché per
difetto di adeguata istruttoria e di carenza motivazione.
La ricorrente ha infatti comprovato di non essere né la
proprietaria del materiale da sgomberare, avendo essa
acquisito il capannone e la relativa area cortiliva dal
Fallimento CEDAL (v. doc. n. 4 della ricorrente) in cui
detto materiale era già ivi giacente, né la depositaria
dello stesso, in quanto l’effettiva proprietaria era Fermach
s.a.s., che aveva comprato lo stesso dal Fallimento CEDAL,
con obbligo di asporto (v. doc. n. 4 della ricorrente). La
ricorrente ha più volte ha invitato e poi sollecitato la
proprietaria del materiale plastico a ritirarlo, stante
l’ingombro dell’area cortiliva e la completa estraneità del
materiale rispetto all’attività commerciale svolta dalla
ricorrente.
Successivamente intervenivano in loco i Vigili del Fuoco i
quali, con nota in data 15/09/2013 comunicavano al Comune e
al curatore del Fallimento CEDAL che dal sopralluogo
effettuato era emerso il suddetto deposito di materiale
plastico, pericoloso in caso di incendio, del quale chiedeva
la rimozione per salvaguardare l’incolumità pubblica.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che il Comune, mediante
una più attenta istruttoria, avrebbe potuto appurare
l’estraneità della ricorrente rispetto a detto materiale ed
individuare l’effettiva proprietaria dello stesso (anche a
seguito di ulteriore vendita del materiale depositato da
Sermach s.a.s. ad altra impresa: ditta GRAEL, con successivo
ritiro, da parte di quest’ultima, di una parte del materiale
depositato), nonché, infine il vincolo di asporto
espressamente pattuito alla compravendita del bene tra
Fallimento CEDAL e Sarmach s.a.s..
Di conseguenza, nella specie, l’ordinanza di sgombero ex
art. 54 T.U. n. 267 del 2000 del Comune avrebbe dovuto
essere inviata agli effettivi proprietari dei beni
depositati, in quanto soggetti già chiaramente individuati
(o comunque facilmente individuabili a seguito di attività
istruttoria) che, in tale loro qualità dovevano provvedere
(anche in forza di espressa obbligazione contrattuale) alla
rimozione degli stessi. Risulta pertanto illegittima
l’ingiunzione alla società proprietaria dell’area, la cui
responsabilità per il deposito avrebbe potuto ricorrere
nell’ipotesi –come si è visto qui insussistente– di
impossibilità di individuare i soggetti responsabili del
deposito abusivo o, comunque, della mancata rimozione di
propri beni dalla proprietà di terzi.
Si ritiene, pertanto, non persuasiva l’argomentazione della
resistente amministrazione comunale facente leva sulla
asserita esistenza, in capo alla proprietaria dell’area, di
un rapporto giuridico qualificabile come detenzione di cosa
altrui, con correlato obbligo di custodia, in quanto
trattasi di mera affermazione che non risulta suffragata da
alcun elemento probatorio. Né a tale riguardo, può essere
considerato rilevante lo strumento utilizzato dal Sindaco
del comune di Alfonsine per ordinare la rimozione dei
materiali, vale a dire l’ordinanza contingibile ed urgente,
poiché anche detti provvedimenti extra ordinem devono avere
quali destinatari –in caso di loro facile individuazione–
i soggetti responsabili della situazione di pericolo che si
intende fronteggiare e rimuovere.
In applicazione di tale
principio, è stato affermato in giurisprudenza, che
dell’abbandono e deposito di rifiuti sui fondi risponde -in
solido con l'autore materiale, anche- il proprietario dell'area, o il titolare di diritto reale o personale di
godimento, al quale l'azione sia addebitabile a titolo di
dolo o colpa; per cui l'accertamento della condotta asseritamente
colposa va eseguito dall'amministrazione e qualora non sia
stata né accertata, né tantomeno dimostrata la sussistenza
dell'elemento psicologico (ossia almeno la colpa), in
difetto quindi di accertato concorso con il terzo autore
dell'illecito di una condotta colpevole del proprietario del
fondo, non è dato ricavare alcuna sua responsabilità per la
rimozione da effettuare, per cui è illegittima la relativa
ordinanza sindacale emessa unicamente sul rilievo della
proprietà del fondo su cui si trovano i beni depositati (v.
TAR Catania-Sicilia sez. I, 30.12.2011, n. 3235)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 08.10.2013 n. 622 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pretesa azionata da ENEL Distribuzione s.p.a.
consiste, in concreto, in un azione di accertamento della
sussistenza di posizione creditoria nei confronti
dell’amministrazione comunale riferita alla restituzione
delle spese a suo tempo asseritamente sostenute dalla
ricorrente per lo spostamento di un palo di sostegno della
linea elettrica sito a margine di una via; spostamento,
questo, resosi necessario per potere realizzare il
marciapiede, in un tratto della strada che ne era
sprovvisto.
Trattasi, in definitiva, di verificare su quale soggetto
(ENEL o Comune) gravino gli oneri relativi allo spostamento
dell’impianto, e, quindi, trattasi di accertare l’esistenza
o meno di un obbligazione in capo all’ente proprietario
della strada di pagare le spese asseritamente sostenute dal
gestore del servizio per eseguire la suddetta operazione,
con la conseguenza che detta controversia deve essere decisa
dal giudice ordinario, quale giudice dei diritti.
Sicché, il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo questo
TAR che la relativa controversia rientri nella giurisdizione
del giudice ordinario.
Sono fatti comunque salvi gli effetti della translatio
iudicii ai sensi e nei limiti di cui all’art. 11, comma 2,
cod. proc. amm..
Il Collegio ritiene, condividendo sul
punto la relativa eccezione del resistente comune di
Bologna, che il proposto ricorso sia inammissibile per
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito.
La pretesa azionata da ENEL Distribuzione s.p.a., pur
attraverso una formale azione impugnatoria di atti comunali,
consiste, in concreto, in un azione di accertamento della
sussistenza di posizione creditoria nei confronti
dell’amministrazione comunale bolognese, riferita alla
restituzione delle spese a suo tempo asseritamente sostenute
dalla ricorrente per lo spostamento di un palo di sostegno
della linea elettrica sito a margine di via Siepelunga a
Bologna; spostamento, questo, resosi necessario per potere
realizzare il marciapiede, in un tratto della strada che ne
era sprovvisto.
La presente controversia deve essere qualificata, pertanto,
quale ordinaria azione di accertamento di un diritto di
credito, con conseguente qualificazione del ricorso quale
azione di condanna del debitore al pagamento di una
determinata somma in favore del creditore.
La fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 28 del
Codice della Strada, norma che riconosce all’ente
proprietario della strada (nella specie il Comune) un vero e
proprio diritto soggettivo nei confronti dei concessionari
esercenti un servizio pubblico sulla strada (nella specie
ENEL riguardo al palo di sostegno della linea elettrica sito
in via Siepelunga) ad ottenere –in caso di comprovate
esigenze della viabilità (nella specie: realizzazione del
marciapiede in tratto di strada che ne è sprovvista) lo
spostamento degli impianti in altre sedi messe a
disposizione del proprietario della strada.
Trattasi, in
definitiva, di verificare su quale soggetto (ENEL o Comune)
gravino gli oneri relativi allo spostamento dell’impianto,
e, quindi, trattasi di accertare l’esistenza o meno di un
obbligazione in capo all’ente proprietario della strada di
pagare le spese asseritamente sostenute dal gestore del
servizio per eseguire la suddetta operazione, con la
conseguenza che detta controversia deve essere decisa dal
giudice ordinario, quale giudice dei diritti.
Per i suesposti motivi, il ricorso è dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, ritenendo questo TAR che la relativa
controversia rientri nella giurisdizione del giudice
ordinario.
Sono fatti comunque salvi gli effetti della translatio
iudicii ai sensi e nei limiti di cui all’art. 11, comma 2,
cod. proc. amm.
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 08.10.2013 n. 621 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 22 della L.
241/1990 dispone espressamente che: “Ai fini del presente
capo si intende: (…) e) per <<pubblica amministrazione>>
tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto
privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Per i particolari fini considerati dalla norma, quindi, la
nozione di “pubblica amministrazione” risulta di ben più
ampia portata rispetto a quella contenuta in altri settori
ordinamentali (quale ad esempio quello della
contrattualistica pubblica), estendendosi anche, per quanto
di interesse in questa sede, ai soggetti privati tout court,
laddove l’attività da questi posta in essere risulti
genericamente di pubblico interesse.
Ne consegue che, in tema di accesso ai documenti
amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto
privato ponga in essere una attività che corrisponda ad un
pubblico interesse, perché lo stesso assuma la veste di
“pubblica amministrazione” e come tale sia assoggettato alla
specifica normativa di settore.
In altri termini, è sufficiente che il soggetto presso cui
si pratica l’accesso, ancorché di diritto privato, svolga
un’attività che sia riconducibile sul piano oggettivo ad un
pubblico interesse inteso in senso lato, perché a
quest’ultimo sia applicabile la disciplina fissata dalla
legge n. 241 del 1990 in materia in accesso.
Ed invero, l’art. 22 della L. 241/1990 sopra menzionato dispone
espressamente che: “Ai fini del presente capo si intende:
(…) e) per <<pubblica amministrazione>> tutti i soggetti di
diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Per i particolari fini considerati dalla norma, quindi, la
nozione di “pubblica amministrazione” risulta di ben più
ampia portata rispetto a quella contenuta in altri settori ordinamentali (quale ad esempio quello della
contrattualistica pubblica), estendendosi anche, per quanto
di interesse in questa sede, ai soggetti privati tout court, laddove l’attività da questi posta in essere risulti
genericamente di pubblico interesse.
Ne consegue che, in tema di accesso ai documenti
amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto
privato ponga in essere una attività che corrisponda ad un
pubblico interesse, perché lo stesso assuma la veste di
“pubblica amministrazione” e come tale sia assoggettato alla
specifica normativa di settore.
In altri termini, è sufficiente che il soggetto presso cui
si pratica l’accesso, ancorché di diritto privato, svolga
un’attività che sia riconducibile sul piano oggettivo ad un
pubblico interesse inteso in senso lato, perché a
quest’ultimo sia applicabile la disciplina fissata dalla
legge n. 241 del 1990 in materia in accesso (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.10.2013 n. 4923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
La controversia si incentra nel chiarire se
l’emissione di una sentenza secondo il rito del
patteggiamento, in cui manca un giudizio formale di
accertamento del fatto di reato, possa costituire o meno
presupposto per l’irrogazione, da parte della P.A., del
divieto all’esercizio dell’attività commerciale.
Osserva al riguardo il Collegio che, ai sensi dell’art. 445
c.p.p., “la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2,
anche quando è pronunciata dopo la chiusura del
dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o
amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la
sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Dal tenore letterale della citata disposizione, quindi,
emerge chiaramente la volontà del legislatore di escludere
l’efficacia della sentenza patteggiata solo nell’ambito dei
giudizi civili ed amministrativi, restando, per converso,
ferma la sua equiparazione alla pronuncia di condanna ad
ogni altro fine.
In altri termini, la sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti non può essere posta dal giudice
civile o amministrativo a fondamento di pronunce che
postulino l’accertamento del fatto, né può spiegare effetti
penali che siano subordinati a detto accertamento, in quanto
priva dell’autorità propria del giudicato sostanziale, ma è
“del tutto equivalente alla condanna ordinaria, in mancanza
di una disposizione che lo escluda espressamente, rispetto a
quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente
ricollega al fatto giuridico della condanna,
indipendentemente dai presupposti e dalle modalità
procedimentali con cui sia stata adottata”.
Ed una siffatta espressa esclusione non è rinvenibile
nell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998.
Il Collegio, pertanto, non ha, motivo di discostarsi
dall’insegnamento giurisprudenziale ormai consolidato e
coerente al citato dato normativo, secondo cui “quando una
norma assume l’esistenza di una condanna penale come
presupposto (più o meno vincolante) per l’adozione di un
provvedimento amministrativo, ovvero quale preclusione
all’esercizio di determinate facoltà o diritti, a questi
fini vale come sentenza di condanna anche quella emessa a
seguito di patteggiamento”.
È pacifico in causa che l’originario legale rappresentante della R.
abbia subito una condanna, con sentenza passata in
giudicato, per il reato di bancarotta fraudolenta.
La controversia si incentra, quindi, nel chiarire se
l’emissione di una sentenza secondo il rito del
patteggiamento, in cui manca un giudizio formale di
accertamento del fatto di reato, possa costituire o meno
presupposto per l’irrogazione, da parte della P.A., del
divieto all’esercizio dell’attività commerciale.
Osserva al riguardo il Collegio che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., “la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2,
anche quando è pronunciata dopo la chiusura del
dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o
amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la
sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Dal tenore letterale della citata disposizione, quindi,
emerge chiaramente la volontà del legislatore di escludere
l’efficacia della sentenza patteggiata solo nell’ambito dei
giudizi civili ed amministrativi, restando, per converso,
ferma la sua equiparazione alla pronuncia di condanna ad
ogni altro fine.
In altri termini, la sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti non può essere posta dal giudice
civile o amministrativo a fondamento di pronunce che
postulino l’accertamento del fatto (cfr. Corte Cost., 11.12.1995, n. 499), né può spiegare effetti penali che
siano subordinati a detto accertamento, in quanto priva
dell’autorità propria del giudicato sostanziale, ma è “del
tutto equivalente alla condanna ordinaria, in mancanza di
una disposizione che lo escluda espressamente, rispetto a
quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente
ricollega al fatto giuridico della condanna,
indipendentemente dai presupposti e dalle modalità
procedimentali con cui sia stata adottata” (Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009, n. 4006).
Ed una siffatta espressa esclusione non è rinvenibile
nell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998.
Il Collegio, pertanto, non ha, motivo di discostarsi
dall’insegnamento giurisprudenziale ormai consolidato e
coerente al citato dato normativo , secondo cui “quando una
norma assume l’esistenza di una condanna penale come
presupposto (più o meno vincolante) per l’adozione di un
provvedimento amministrativo, ovvero quale preclusione
all’esercizio di determinate facoltà o diritti, a questi
fini vale come sentenza di condanna anche quella emessa a
seguito di patteggiamento” (cfr. da ultimo e per tutte:
Cons. Stato, Sez. III, 27.03.2012, n. 1781).
Ne consegue la fondatezza dell’appello principale interposto
dal Comune di Padova,atteso che erroneamente il Tar, per
l’applicazione dell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998, non ha
ritenuto la piena equiparabilità tra la sentenza di condanna
e quella emessa su richiesta delle parti (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.10.2013 n. 4921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di gare di
appalto (D.Lgs. n. 163/2006 - Codice degli appalti) in una
situazione di obiettiva incertezza (quando cioè le clausole
della lex specialis risultino imprecisamente formulate o si
prestino comunque ad incertezze interpretative) la risposta
dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di
chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce
un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di
gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui
l'amministrazione chiarisce la propria volontà
provvedimentale in un primo momento poco intelligibile,
precisando e meglio delucidando le previsioni della lex
specialis.
Si rammenta in proposito che, per
consolidata giurisprudenza "in materia di gare di appalto (D.Lgs.
n. 163/2006 - Codice degli appalti) in una situazione di
obiettiva incertezza (quando cioè le clausole della lex
specialis risultino imprecisamente formulate o si prestino
comunque ad incertezze interpretative) la risposta
dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di
chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce
un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di
gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui
l'amministrazione chiarisce la propria volontà
provvedimentale in un primo momento poco intelligibile,
precisando e meglio delucidando le previsioni della lex
specialis" (Cons. Stato Sez. V, 17/10/2012, n. 5296) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 07.10.2013 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune non può fissare
limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da
quelli stabiliti dallo Stato e altresì non può, attraverso
l'utilizzo di atti di natura edilizia ed urbanistica,
adottare misure che in buona sostanza costituiscono una
deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato.
Più in particolare, i Comuni, non possono adottare misure
che ostacolino o impediscano in modo irragionevole
l'insediamento degli impianti di telefonia, e comunque non
posso prevedere il divieto d'installazione delle stazioni
radio base per intere zone territoriali omogenee ovvero
introdurre misure che nella veste urbanistica sono dirette
alla tutela dei rischi dell'elettromagnetismo.
---------------
L'art. 86, comma terzo, del codice delle comunicazioni
elettromagnetiche, ha equiparato le infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione
primaria, e come tali, devono ritenersi poste al servizio
dell'insediamento abitativo.
In altre parole gli atti impugnati non tengono conto del
fatto che tali opere hanno carattere infrastrutturale ex
articoli 86 e 90 del decreto legislativo 259 del 2003 e
quindi devono ritenersi assimilate, ad ogni effetto, a
quelle di urbanizzazione primaria con caratteri di pubblica
utilità, con la conseguenza che, in via di principio, devono
ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione
urbanistica.
Ed infatti come correttamente rilevato
dalla ricorrente, con la legge 22.02.2001 n. 36, è
stata riservata allo Stato la competenza in materia di
fissazione dei limiti alle esposizioni elettromagnetiche
mentre alla Regioni e agli Enti Locali è stato affidato il
compito di individuare i criteri localizzativi di detti
impianti di telecomunicazioni;
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale chiarendo
che “la fissazione a livello nazionale dei valori soglia,
non derogabili da parte delle Regioni nemmeno il senso più
restrittivo, rappresenta il punto di equilibrio tra le
esigenze contrapposte di evitare al massimo l'impatto delle
emissioni elettromagnetiche e di realizzare impianti
necessari al paese, nella logica per cui le competenze delle
Regioni in materia di trasporto dell'energia e di
ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente,
vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi
dello Stato. Tutt'altro discorso è da farsi circa le
discipline localizzative territoriali. A questo proposito è
logico che riprenda pieno vigore l'autonoma capacità delle
Regioni e degli Enti Locali di regolare l'uso del proprio
territorio, purché, ovviamente, criteri localizzativi è
standard urbanistici rispettino le esigenze della
pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel
merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente
l'insediamento degli stessi" (corte costituzionale
07.10.2003 n. 307);
Pertanto, alla luce di tale principio, il Comune non può
fissare limiti di esposizione ai campi elettromagnetici
diversi da quelli stabiliti dallo Stato, e d'altro lato, non
può, attraverso l'utilizzo di atti di natura edilizia ed
urbanistica, adottare misure che in buona sostanza
costituiscono una deroga ai limiti di esposizione fissati
dallo Stato. Più in particolare, i Comuni, non possono
adottare misure che ostacolino o impediscano in modo
irragionevole l'insediamento degli impianti di telefonia, e
comunque non posso prevedere il divieto d'installazione
delle stazioni radio base per intere zone territoriali
omogenee ovvero introdurre misure che nella veste
urbanistica sono dirette alla tutela dei rischi
dell'elettromagnetismo.
Nella specie, l'amministrazione comunale ha limitato la
possibilità di installazione degli impianti per la telefonia
nelle sole zone agricole e F4 e pertanto ha di fatto
introdotto una misura cautelativa che va a sovrapporsi a
quella fissata dallo Stato;
A ciò va aggiunto che l'articolo 86, comma terzo, del codice
delle comunicazioni elettromagnetiche, ha equiparato le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere
di urbanizzazione primaria, e come tali, devono ritenersi
poste al servizio dell'insediamento abitativo. In altre
parole gli atti impugnati non tengono conto del fatto che
tali opere hanno carattere infrastrutturale ex articoli 86 e
90 del decreto legislativo 259 del 2003 e quindi devono
ritenersi assimilate, ad ogni effetto, a quelle di
urbanizzazione primaria con caratteri di pubblica utilità,
con la conseguenza che, in via di principio, devono
ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione
urbanistica.
Essendo al contrario i provvedimenti impugnati fondati sulla
non compatibilità degli impianti con la zonizzazione
vigente, gli stessi anche per tale ragione, devono ritenersi
illegittimi
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.10.2013 n. 837 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'obbligo di predisporre
adeguate cautele a tutela dell'integrità delle buste
contenenti le offerte delle imprese partecipanti a gare
pubbliche, in mancanza di apposita previsione da parte del
legislatore, discende necessariamente dalla ratio che
sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per
l'individuazione del contraente, in quanto l'integrità dei
plichi contenenti le offerte dei partecipanti è uno degli
elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della
par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto
dei principi di buon andamento ed imparzialità, consacrati
dall'articolo 97 della Costituzione, ai quali deve
uniformarsi l'azione amministrativa.
Sicché la mera circostanza che il plico sia pervenuto aperto
alla commissione di gara implica l'esclusione della
partecipante, indipendentemente dal soggetto cui sia
addebitabile l'erronea apertura, stante l'esigenza di
assicurare la garanzia dei principi di par condicio e di
segretezza delle offerte.
... per l'annullamento della determinazione dirigenziale
n. d19/53 del 02/10/2012, con la quale si è disposto "di non
ammettere l'istanza presentata da polo per l'innovazione -
cooperazione- sostenibilità soc.cons.coop. al pos fasr
abruzzo 2007-20013 -attività di sostegno alla creazione dei
polo di innovazione".
...
-
Considerato che essendo il ricorso manifestamente infondato
può essere emanata nella specie sentenza in forma
semplificata ex art. 74 C.P.A..
-
Che invero in primo luogo va precisato che l'avviso pubblico
de quo all'articolo 2 ha previsto espressamente che
avrebbero trovato applicazione le norme sugli appalti
pubblici di cui al decreto legislativo 12.04.2006 numero
163;
-
Che della normativa sugli appalti non si è fatta, pertanto,
nella specie, applicazione analogica, bensì diretta, in
quanto richiamata dalla legge speciale di gara;
-
Che ciò stante, nella specie, non può non trovare
applicazione l'articolo 46, comma 1-bis, (come aggiunto
dall'articolo 4 del decreto-legge 13.05.2011 numero 70
convertito in legge 12.07.2011 numero 106) del decreto
legislativo numero 163 del 2006, il quale, nel prevedere in
via generale l'esclusione del concorrente per mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice,
dal regolamento ed da altre disposizioni di legge vigenti,
precisa che l'esclusione va comunque disposta "in caso di
non integrità del plico contenente l'offerta";
-
Che la giurisprudenza amministrativa ha affermato il
principio secondo cui "l'obbligo di predisporre adeguate
cautele a tutela dell'integrità delle buste contenenti le
offerte delle imprese partecipanti a gare pubbliche, in
mancanza di apposita previsione da parte del legislatore,
discende necessariamente dalla ratio che sorregge e
giustifica il ricorso alla gara pubblica per
l'individuazione del contraente, in quanto l'integrità dei
plichi contenenti le offerte dei partecipanti è uno degli
elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della
par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto
dei principi di buon andamento ed imparzialità, consacrati
dall'articolo 97 della Costituzione, ai quali deve
uniformarsi l'azione amministrativa" (confronta Consiglio di
Stato, sezione quinta, 28.03.2012, numero 1862);
-
Che nella specie il principio della segretezza delle offerte
risulta palesemente violato, posto che, è pacifico il fatto
che nella specie il plico spedito dalla ricorrente è
arrivato aperto presso la Direzione Sviluppo Economico e
Turismo (l'accertamento è stato effettuato e dichiarato dal
dipendente addetto al protocollo);
- Che ciò stante, nella specie, deve trovare necessariamente
applicazione il principio giurisprudenziale secondo cui "la
mera circostanza che il plico sia pervenuto aperto alla
commissione di gara implica l'esclusione della partecipante,
indipendentemente dal soggetto cui sia addebitabile
l'erronea apertura, stante l'esigenza di assicurare la
garanzia dei principi di par condicio e di segretezza delle
offerte” (confronta Tar Veneto, prima sezione,
19.07.2005, numero 2867)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.10.2013 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI:
In materia di contributi pubblici, la
giurisprudenza ha oramai chiarito che rientrano nella
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie
sugli atti di ritiro del finanziamento, anche susseguente
alla relativa erogazione, ove costituiscano manifestazione
di autotutela amministrativa in vista della tutela
dell’interesse pubblico, con ponderazione dell’interesse
pubblico sottostante all’erogazione del contributo, mentre
spettano alla giurisdizione ordinaria le controversie su
provvedimenti di ritiro, comunque denominati, assunti in
funzione della negativa verifica in ordine al raggiungimento
dello scopo che si è voluto agevolare, ossia a situazione
riconducibili alla fase esecutiva del rapporto ed attinenti
alle modalità di utilizzazione del contributo e al rispetto
degli impegni assunti dal beneficiario.
Più di recente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
ha confermato tale indirizzo, tuttora saldamente fondato
sugli ordinari criteri di riparto fondati sulla natura delle
posizioni soggettive azionate, ritenendo la sussistenza
della giurisdizione amministrativa in un caso vertente su
finanziamenti concessi in via provvisoria e disciplinato
dalla L. n. 488/1992, ossia in fattispecie nelle quali
l’attribuzione finanziaria in favore dei beneficiari non è
ancora consolidata (definitiva) e la loro situazione
soggettiva è tuttora inquadrabile come interesse legittimo
giacché soggetta al potere discrezionale
dell’Amministrazione in una fase procedimentale ancora
precedente alla definitiva attribuzione del beneficio,
caratterizzata da valutazioni discrezionali in un contesto
concorsuale e comparativo di distribuzione di risorse
scarse.
Al contrario, nella fase successiva all’attribuzione del
contributo, il beneficiario risulta titolare di un diritto
soggettivo relativamente alla conservazione dell’erogazione
disposta di fronte alla contraria posizione assunta
dall’amministrazione, con provvedimenti variamente
denominati (revoca, decadenza, risoluzione), significanti la
posizione paritetica dell’Amministrazione in relazione ad
assunti inadempimenti del beneficiario, che non avrebbe
utilizzato i fondi concessi secondo le finalità individuate
ovvero nei termini stabiliti, tutte circostanze di fatto da
valutare innanzi al giudice delle situazioni soggettive
paritetiche che è l’AGO.
In materia di contributi pubblici,
la giurisprudenza ha oramai chiarito che rientrano nella
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie
sugli atti di ritiro del finanziamento, anche susseguente
alla relativa erogazione, ove costituiscano manifestazione
di autotutela amministrativa in vista della tutela
dell’interesse pubblico, con ponderazione dell’interesse
pubblico sottostante all’erogazione del contributo, mentre
spettano alla giurisdizione ordinaria le controversie su
provvedimenti di ritiro, comunque denominati, assunti in
funzione della negativa verifica in ordine al raggiungimento
dello scopo che si è voluto agevolare, ossia a situazione
riconducibili alla fase esecutiva del rapporto ed attinenti
alle modalità di utilizzazione del contributo e al rispetto
degli impegni assunti dal beneficiario (cfr. ex pluris, con
giurisprudenza costante e consolidata, Cass. Sezz. Un. 16.12.2010, n. 25398,
09.09.2008, n. 22651, Cass.
Civ., Sezz. UU., 13.10.2006, n. 22099; Cons. di Stato, sez. VI, 26.11.2004, n. 5649 e
09.05.2002, n. 2539;
Cons. di Stato, sez. V, 27.03.2000, n. 1765; Cass. Civ., SS.UU.,
09.08.2000, n. 554; Cons. di Stato, sez. VI, 05.11.2007, n. 5700).
Più di recente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
(sentenza n. 17/2013) ha confermato tale indirizzo, tuttora
saldamente fondato sugli ordinari criteri di riparto fondati
sulla natura delle posizioni soggettive azionate, ritenendo
la sussistenza della giurisdizione amministrativa in un caso
vertente su finanziamenti concessi in via provvisoria e
disciplinato dalla L. n. 488/1992, ossia in fattispecie nelle
quali l’attribuzione finanziaria in favore dei beneficiari
non è ancora consolidata (definitiva) e la loro situazione
soggettiva è tuttora inquadrabile come interesse legittimo
giacché soggetta al potere discrezionale
dell’Amministrazione in una fase procedimentale ancora
precedente alla definitiva attribuzione del beneficio,
caratterizzata da valutazioni discrezionali in un contesto
concorsuale e comparativo di distribuzione di risorse
scarse.
Al contrario, nella fase successiva all’attribuzione del
contributo, il beneficiario risulta titolare di un diritto
soggettivo relativamente alla conservazione dell’erogazione
disposta di fronte alla contraria posizione assunta
dall’amministrazione, con provvedimenti variamente
denominati (revoca, decadenza, risoluzione), significanti la
posizione paritetica dell’Amministrazione in relazione ad
assunti inadempimenti del beneficiario, che non avrebbe
utilizzato i fondi concessi secondo le finalità individuate
ovvero nei termini stabiliti, tutte circostanze di fatto da
valutare innanzi al giudice delle situazioni soggettive
paritetiche che è l’AGO
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.10.2013 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte in ordine alla
destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di
emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante
generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali
che non richiedono una particolare motivazione al di là di
quella ricavabile dai criteri e principi generali che
ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale
in relazioni a situazioni soggettive di affidamento
qualificato del privato in ordine a una precipua
destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di
annullamento di diniego di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di permesso di costruire,
oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Come già anticipato nella narrativa in fatto, il P.R.G. di Pinzolo,
adottato con deliberazioni del Commissario ad acta n. 1 del
31.07.2000 (in via provvisoria) e n. 1 del 30.05.2001 (in via definitiva) e approvato con modifiche con
deliberazione della Giunta Provinciale di Trento n. 3345 del
23.12.2002, ha impresso, inter alios, destinazione
agricola di "zona a pascolo" alle particelle fondiarie n.
3117/4 e n. 3135/1, appartenenti alla società ... S.a.s., ubicate in S. Antonio di Mavignola, già tipizzate, almeno in parte, a zona B di
completamento estensivo.
Orbene, come già osservato in modo esatto e condivisibile
dal giudice amministrativo trentino la nuova destinazione
urbanistica rispecchia le linee generali ispiratrici del
nuovo P.R.G., intese a salvaguardare il territorio libero da
edificazione in relazione a un previo sostanziale
sovradimensionamento delle zone di completamento estensive,
anche con finalità di tutela e recupero ambientale e
paesaggistico.
Tale orientamento pianificatorio si ricollega, peraltro,
alle peculiarità della località, poiché, come noto, il
Comune di Pinzolo, sito nell'ambito di comprensorio montano
di particolare pregio, è costituito dai centri abitati di
Pinzolo, Madonna di Campiglio e S. Antonio di Mavignola, e
quindi a pregnanti profili di natura ambientale,
naturalistica e paesistica.
Ciò posto deve rammentarsi che, secondo pacifico
orientamento giurisprudenziale, le scelte in ordine alla
destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di
emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante
generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali
che non richiedono una particolare motivazione al di là di
quella ricavabile dai criteri e principi generali che
ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale
in relazioni a situazioni soggettive di affidamento
qualificato del privato in ordine a una precipua
destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di
annullamento di diniego di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di permesso di costruire,
oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
(cfr. tra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2012, n.
5665, 16.11.2011, n. 6049, 09.12.2010, n. 8682,
22.06.2006, n. 3880, 14.10.2005, n. 5716; vedi
anche Sez. III, 06.10.2009, n. 1610).
Nel caso di specie non risulta, né è stato dimostrato, che i
suoli di cui alle ricordate particelle costituiscano lotto
intercluso, né che fossero ricorrenti altre situazioni
idonee a fondare il riconoscimento di un'aspettativa
qualificata alla conservazione della destinazione edilizia (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.10.2013 n. 4917 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario
dell’area, «fino a prova contraria», deve ritenersi
corresponsabile dell’abuso edilizio.
---------------
L’ordinanza di demolizione, con assegnazione del termine di
novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere notificata
sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario. Se entro
questo spazio temporale l’opera non viene demolita dal
responsabile dell’abuso, può essere adottato il
provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di
demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non
costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa,
rappresenta requisito di validità del successivo
provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere
concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario,
al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le
iniziative necessarie per eseguire l’ordine.
Il Consiglio di Stato ha avuto più volte occasione di affermare che il
proprietario dell’area, «fino a prova contraria», deve
ritenersi corresponsabile dell’abuso (da ultimo, Cons.
Stato, sez. IV, 26.02.2013, n. 1179).
----------------
L’art. 31 del
d.p.r. n. 380 del 2001 (disposizioni analoghe sono contenute
nell’art. 15 della legge regionale n. 15 del 2008) prevede,
tra l’altro, che:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di
permesso di costruire, «ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso» la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del successivo comma 3 (comma 2);
- se il «responsabile dell'abuso» non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi «nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione», il bene e
l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le
vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del Comune; si specifica che
l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita
(comma 3);
- l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, «previa
notifica all’interessato», costituisce titolo per
l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
Da quanto esposto risulta che l’ordinanza di demolizione,
con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua
esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile
dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio
temporale l’opera non viene demolita dal responsabile
dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di
acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di
demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non
costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa,
rappresenta requisito di validità del successivo
provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere
concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario,
al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le
iniziative necessarie per eseguire l’ordine
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.10.2013 n. 4913 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La tesi della ricorrente secondo cui la
parziale inattuazione del P.I.P. comporterebbe, così come
avviene per i piani particolareggiati, l'obbligo del Comune
di provvedere alla formazione di un nuovo piano per il
necessario assetto della parte non realizzata nei termini è
destituita di fondamento.
Invero, la sussistenza di un obbligo del Comune volto alla
formazione di un nuovo piano nel caso all’esame, non si
desume né dall'art. 17, comma 2, né dall’art. 27 della legge
n. 865/1971.
La prima disposizione prevede infatti che: "Le aree da
comprendere nel piano sono delimitate, nell'ambito delle
zone destinate a insediamenti produttivi dai piani
regolatori generali o dai programmi di fabbricazione
vigenti, con deliberazione del consiglio comunale, la quale,
previa pubblicazione, insieme agli elaborati, a mezzo di
deposito presso la segreteria del comune per la durata di
venti giorni, è approvata con decreto del presidente della
giunta"; mentre l'art. 27 L. 865/1971, ai fini che ne
occupano, si limita a stabilire l'inefficacia del piano
particolareggiato per la parte in cui lo stesso non abbia
avuto attuazione decorso il termine stabilito per la sua
esecuzione.
---------------
Il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto
dall'art. 27 della legge n. 865/1971, è uno strumento
urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia
decennale dalla data di approvazione ed avente valore di
piano particolareggiato di esecuzione: “come tale, trascorsi
i dieci anni, l'Amministrazione non può disporre alcuna
proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare
l'opportunità di predisporre un nuovo strumento con
conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria
attuativa rimasta inattuata”.
Da quanto esposto si deduce, quindi, che, alla scadenza del
termine di dieci anni legislativamente previsto, la
inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che,
segnando il venir meno dei presupposti per il
perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca
dell’assegnazione previamente disposta (nella specie, in
favore del ricorrente), di tal che la stessa revoca non
presenta profili di discrezionalità.
Il contestato provvedimento (comunale) di revoca è dunque
privo dei dedotti profili di discrezionalità mentre, per
converso, non è configurabile alcun obbligo
dell’Amministrazione di procedere alla ripianificazione
delle aree ricadenti nella porzione di P.I. non attuata;
quest’ultima attività soltanto, secondo la giurisprudenza,
sarebbe il risultato eventuale di una valutazione
discrezionale della p.a..
... per l'annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
del provvedimento del Comune di Roma, in data 15.12.1992, n.
56, prot. Rip. XIII 6937, del 14.12.1992, con cui viene
revocata l’assegnazione in diritto di superficie di alcuni
lotti siti nel p.i.p. 9/ L. Tor Cervara, di cui uno
assegnato al ricorrente;
...
Secondo la prospettazione del ricorrente, la parziale
inattuazione del P.I.P. comporterebbe, così come avviene per
i piani particolareggiati, l'obbligo del Comune di
provvedere alla formazione di un nuovo piano per il
necessario assetto della parte non realizzata nei termini;
intorno a questa tesi, che non risulta, tuttavia, suffragata
né da fonti normative né da pronunce giurisprudenziali,
vengono costruiti i quattro motivi di gravame, che debbono
dunque ritenersi privi di fondamento giuridico per le
ragioni che si vengono ad esporre.
Osserva in proposito il Collegio che, a differenza di
quanto sostenuto nel ricorso, la sussistenza di un obbligo
del Comune volto alla formazione di un nuovo piano nel caso
all’esame, non si desume né dall'art. 17, comma 2, né
dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
La prima disposizione prevede infatti che: "Le aree da
comprendere nel piano sono delimitate, nell'ambito delle
zone destinate a insediamenti produttivi dai piani
regolatori generali o dai programmi di fabbricazione
vigenti, con deliberazione del consiglio comunale, la quale,
previa pubblicazione, insieme agli elaborati, a mezzo di
deposito presso la segreteria del comune per la durata di
venti giorni, è approvata con decreto del presidente della
giunta"; mentre l'art. 27 L. 865/1971, ai fini che ne
occupano, si limita a stabilire l'inefficacia del piano
particolareggiato per la parte in cui lo stesso non abbia
avuto attuazione decorso il termine stabilito per la sua
esecuzione.
Risultano pertanto prive di pregio le deduzioni di parte
ricorrente, svolte nei primi due motivi di ricorso, volte ad
affermare la sussistenza di un obbligo per l’intimata
Amministrazione di procedere alla ripianificazione delle
aree ricadenti nella porzione di P.I. non attuata.
Come la giurisprudenza ha chiarito, il piano per gli
insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall'art. 27 della
legge n. 865/1971, è uno strumento urbanistico di natura
attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di
approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di
esecuzione: “come tale, trascorsi i dieci anni,
l'Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello
stesso, potendo invece unicamente valutare l'opportunità di
predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione
della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata”
(Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 6363/2011; Tar Campania-Napoli, sez. II, n. 1503/2002 (ud. del 15.11.2011).
Da quanto esposto si deduce, quindi, che, alla scadenza
del termine di dieci anni legislativamente previsto, la
inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che,
segnando il venir meno dei presupposti per il
perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca
dell’assegnazione previamente disposta (nella specie, in
favore del ricorrente), di tal che la stessa revoca non
presenta profili di discrezionalità.
Il contestato provvedimento di revoca è dunque privo dei
dedotti profili di discrezionalità mentre, per converso, non
è configurabile alcun obbligo dell’Amministrazione di
procedere alla ripianificazione delle aree ricadenti nella
porzione di P.I. non attuata; quest’ultima attività
soltanto, secondo la giurisprudenza, sarebbe il risultato
eventuale di una valutazione discrezionale della p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 02.10.2013 n. 8551 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Trattandosi di
terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta
deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi
dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione
dei principi di trasparenza, eguaglianza e non
discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza
pubblica, per darli in concessione al migliore offerente,
sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata,
sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce
un’occasione di guadagno per il soggetto privato che
utilizza tale bene.
... per
l'annullamento della Determinazione n. 304 del 29.8.2012
(pubblicata nell’Albo Pretorio on-line il 31.08.2012), nella
parte in cui il Dirigente dell’Unità di Direzione Gestione
Patrimonio del Comune di Potenza ha dato in concessione, per
la durata di 5 anni con scadenza il 29.06.2015 ed
esclusivamente per l’installazione di impianti di
radiodiffusione sonora in ambito locale, il terreno di
proprietà comunale, sito nella Località Poggio Cavallo, alla Festula 2000;
...
La Determinazione n. 304 del 29.8.2012 è stata impugnata con
il presente ricorso (notificato il 12.07.2013), deducendo:
2) violazione dei principi in materia di evidenza pubblica,
cioè dei principi comunitari e nazionali di trasparenza,
concorrenza e par condicio, in quanto il concessionario di
un bene di proprietà comunale va individuato mediante
l’indizione di un apposito procedimento di evidenza
pubblica;
...
Invece, risulta fondato il secondo motivo di impugnazione.
Infatti, trattandosi di terreni di proprietà comunale,
l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad
un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n.
2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza,
eguaglianza e non discriminazione, deve indire un
procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione
al migliore offerente, sia perché da tale concessione il
Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un
bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il
soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l’orientamento
giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali
marittime (cfr. C.d.S. Sez. VI n. 168 del 25.01.2005) e
quello recentissimo in tema impianti pubblicitari (cfr.
C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 5 del 25.02.2013), oltre a quello
relativo alle cave di proprietà comunale (cfr. da ultimo TAR
Basilicata Sent. n. 406 del 30.08.2012) (TAR Basilicata, Sez. I,
sentenza 02.10.2013 n. 578 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Sconti senza paletti. Niente condizioni sui bonus Ici.
Ctr:
agevolazioni svincolate da obblighi dichiarativi.
Un comune non può subordinare un'agevolazione Ici a un
obbligo dichiarativo non previsto dalla legge statale. In
ogni caso, non può dichiararsi la decadenza dal beneficio
del soggetto che non abbia adempiuto a tale onere
supplementare. Gli avvisi di accertamento emessi dall'ente
locale sulla base di tale disposizione regolamentare
risultano quindi viziati da eccesso di potere.
È quanto ha
stabilito la Ctp di Campobasso con la sentenza 01.10.2013 n. 144/1/13.
Il caso in questione vedeva due fratelli ricorrere contro
una serie di rettifiche operate dall'ufficio tributi
comunale in materia di Ici.
I ricorrenti avevano adibito gratuitamente un immobile ad
abitazione principale dei propri genitori. Tuttavia, il
comune aveva proceduto alla contestazione fiscale, in quanto
il regolamento Ici adottato dall'amministrazione prevedeva
l'obbligo della presentazione di apposita preventiva
dichiarazione ai fini dell'applicazione dell'esenzione sulla
prima casa concessa in uso gratuito a parenti e/o affini
entro il 1° grado.
Una tesi che non trova però concorde i giudici molisani. Il
dl n. 223/2006, in un'ottica di semplificazione degli
adempimenti, aveva infatti soppresso l'obbligo di presentare
la dichiarazione Ici. «La pretesa del comune di Campobasso
di sottoporre il riconoscimento dell'agevolazione prima casa
per parenti e affini alla presentazione di una dichiarazione
preventiva», spiega la sentenza, «risulta assai poco
coerente con il complesso sistema impositivo dell'Ici».
Anche la Cassazione, con la pronuncia n. 13151 del 28.05.2010, si era espressa in tal senso.
Peraltro, secondo la Ctp, il comune ha anche violato il
principio di collaborazione tra cittadini ed ente impositore
previsto dall'articolo 10 della legge n. 212/2000 (Statuto
del contribuente). «Il rispetto di tale principio e della
regola del preventivo contraddittorio», osservano i
magistrati tributari, «avrebbe consentito una rapida
chiarificazione della posizione dei due contribuenti ed
evitato i costi (in termini di lavoro, tempo e denaro)
connessi agli accertamenti e ai procedimenti giudiziari in
corso». Da qui l'annullamento degli avvisi impugnati e
la condanna dell'ente alle spese di lite
(articolo ItaliaOggi del
04.10.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mal di mobbing? Non si licenzia.
La Cassazione sul periodo di comporto.
Il dipendente si ammala perché vittima di «mobbing»?
Impossibile licenziarlo, anche se la somma delle sue assenze
dal luogo in cui svolge l'attività supera il periodo di
comporto (l'arco temporale stabilito dalla legge).
È quanto sancisce la Corte di Cassazione che, con la sentenza n.
22568/2013, ha respinto il ricorso con cui una società di Brugherio
(Monza e Brianza), proprietaria di un supermercato, chiedeva
l'interruzione del rapporto lavorativo di un addetto del
reparto macelleria, sostenendo che le troppe giornate in cui
non si era presentato in ditta fossero sufficienti a
giustificarne la perdita del diritto al posto.
Opinione rigettata dalla Suprema corte che ha, invece,
confermato, come già stabilito prima dal tribunale di Monza
e poi dalla Corte d'appello nel 2010, che erano «imputabili
alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per
malattia» dell'uomo e, di conseguenza, i giorni di
assenza erano irrilevanti «ai fini del calcolo del
periodo di comporto».
La vicenda parte nel 2002, quando l'impiegato inizia a
ricevere, si legge nel pronunciamento, «una numerosa serie
di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che
andavano dalla multa alla sospensione». E, soprattutto, nel
corso dell'inverno (da dicembre a febbraio 2003),
ammalatosi, viene sottoposto ad una raffica di «ben 15
visite fiscali di controllo». Pratica proseguita anche
nei mesi successivi, quando cioè il dipendente, ricevuto un
richiamo particolarmente duro da parte di un suo superiore,
ne ricava «una crisi psicologica»; in estate, precisamente a
luglio, la società usa il pugno di ferro, e fa scattare la
procedura di licenziamento, in virtù del superamento del
periodo di comporto.
Tuttavia, i magistrati, in seguito ad una perizia medica,
appurano che le assenze per malattia sono diretta «conseguenza
dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale»
posta in essere ai suoi danni, ravvisando il reato di «mobbing»
(vessazioni perpetrate laddove si esercita una funzione)
suffragato dalle «numerose sanzioni disciplinari, poi
accertate come illegittime».
Pertanto, la Cassazione, oltre a disporre il reintegro
dell'uomo, ha condannato l'impresa a risarcirgli i danni per
l'ingiusto licenziamento che gli era stato inflitto
(articolo ItaliaOggi del
03.10.2013). |
APPALTI: Appalti, meno carte per le ditte. Documenti sui requisiti
acquisiti direttamente dalle p.a..
Per il Consiglio di stato norma sull'acquisizione d'ufficio
prevalente sul Codice contratti.
Meno scartoffie e adempimenti burocratici per chi partecipa
agli appalti. I documenti a comprova dei requisiti devono
infatti essere acquisiti direttamente dalle stazioni
appaltanti e non richiesti ai concorrenti. E ciò perché
prevale la disciplina generale sulla cosiddetta
«acquisizione d'ufficio» rispetto al Codice dei contratti.
È
quanto afferma il Consiglio di Stato, con la
sentenza
26.09.2013 n. 4785 della
III Sez., che affronta
il tema dei rapporti fra il dpr 445/2000 e l'art. 48 del
Codice dei contratti pubblici, dopo l'entrata in vigore (01.01.2012) delle modifiche apportate dalla legge di
stabilità per il 2012 (legge 183/2011).
In particolare la
legge 183, nel rafforzare il principio della
inutilizzabilità dei certificati nei rapporti con la
pubblica amministrazione, ha affermato l'obbligo, per
quest'ultima, di acquisire d'ufficio le informazioni oggetto
delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47
del dpr n. 445/2000.
La sentenza del Consiglio di stato
precisa che gli accertamenti d'ufficio riguardano tutte le
ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni
sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso dpr 445,
dichiarazioni sostitutive che, per le gare di appalto
pubblico, attengono ai requisiti di partecipazione alle gare
disciplinati dagli artt. 41 e 42 del codice dei contratti.
Lo stesso codice dei contratti stabilisce però (art. 48) che
la richiesta della documentazione probatoria sia rivolta
direttamente all'interessato anziché acquisita d'ufficio
dall'amministrazione o dall'ente pubblico certificante. Al
riguardo l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
con la determina 4/2012 (sul cosiddetto «bando tipo»), ha
precisato che la norma del Codice ha natura di «norma
speciale» rispetto alla disciplina generale del dpr n.
445/2000 e soddisfa «l'esigenza di assicurare la serietà
dell'offerta, unitamente alla celerità della conclusione del
procedimento di verifica». Secondo l'Autorità, quindi,
rimangono in vigore le modalità di comprova del possesso dei
requisiti previste dall'art. 48, con richiesta ai
concorrenti.
Di tutt'altro avviso è invece il Consiglio di
stato, il quale afferma che nelle gare di appalto non rileva
la «specialità» della disciplina dei contratti pubblici. Il
principio affermato viene dedotto anche dalla norma
transitoria introdotta dalla legge di stabilità per il 2012
per la quale, fino alla data di avvio della Banca dati
nazionale sui contratti pubblici, le stazioni appaltanti e
gli enti aggiudicatori verificano il possesso dei requisiti
secondo le modalità previste dalla «normativa vigente» che
non può che comprendere anche gli artt. 43 e 47 del dpr
445/2000, in vigore dal 01.01.2012.
Per i giudici,
quindi, fino all'attivazione della banca dati, le stazioni
appaltanti dovranno procedere d'ufficio tramite contatti con
le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti
auto dichiarati dai concorrenti. Dopo tale data i controlli
d'ufficio diventeranno centralizzati attraverso il
riferimento diretto alla Bdncp, «strumento pubblicistico di
coordinamento e raccolta dati.» Implementato dal cosiddetto Avcpass,
che costituisce un ausilio informatico per l'esercizio dei
poteri-doveri di accertamento d'ufficio
(articolo ItaliaOggi del
02.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cds: fotovoltaico nei campi anche senza leggi ad hoc
Sì alla realizzazione di un impianto fotovoltaico in area
agricola anche quando la normativa urbanistica regionale non
ne preveda la realizzazione. Questo in virtù dell'attuazione
del principio Ue di sviluppo delle rinnovabili (direttiva
2001/77/Ue). Deve essere ribadito che la collocazione di
impianti per la produzione di energia elettrica da fonte
rinnovabile in zona urbanistica agricola è ammessa in linea
generale dall'art. 12, settimo comma, del dlgs 29.12.2003, n. 387. Deve inoltre essere osservato che la
realizzazione di tali impianti risponde a un interesse la
cui rilevanza è stata consacrata dallo stesso legislatore
nazionale, sulla base degli impegni internazionali assunti,
con l'articolo 12 del dlgs n. 387 del 2003.
Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 26.09.2013, n. 4755.
Con la sentenza in commento i giudici di palazzo Spada
respingevano le richieste dei ricorrenti proprietari di
alcuni terreni confinanti con quello che aveva ottenuto
l'autorizzazione a realizzare l'impianto fotovoltaico.
I
giudici del Consiglio di stato hanno riconosciuto che la
legge urbanistica regionale veneta n. 11/2004 non prevede
l'ammissibilità degli impianti fotovoltaici in area
agricola (bensì, solo interventi funzionali all'attività
agricola) a differenza di quanto statuisce l'articolo 12,
comma 7, dlgs 387/2003.
Ma continuano i giudici considerare
la legge regionale del Veneto 23.04.2004, n. 44 nel
senso di una implicita abrogazione di quella statale del
2003 non è esatto. Il dlgs 387/2003 è attuativo dell'obbligo
verso l'Unione europea di sviluppo delle rinnovabili ex
direttiva 2001/77/Ue (ora sostituita dalla direttiva
2009/28/Ce) consentendone la realizzazione anche in area
agricola, e vincola, quindi, l'interpretazione della norma
regionale che deve «cedere» rispetto all'osservanza
degli obblighi europei
(articolo ItaliaOggi del
03.10.2013). |
APPALTI:
Annullamento dell’atto presupposto: inefficacia del
contratto dichiarabile in autotutela?
L’amministrazione vincolata da un
rapporto negoziale non può dichiarare in autotutela
l’inefficacia del contratto, incidendo unilateralmente sul
rapporto contrattuale stipulato con la controparte, essendo
tale misura rimessa solo al giudice.La domanda di
declaratoria di inefficacia del contratto può essere
proposta per la prima volta anche nel giudizio di
ottemperanza, a patto però che sussistano i presupposti di
fatto e di diritto e l’interesse della parte.
Il Consiglio di Stato si pronuncia, in sede di giudizio di
ottemperanza, ancora una volta sulla vexata questio
della caducazione del contratto come conseguenza della
sentenza di annullamento dell’atto presupposto e, in
particolare, sul potere di autotutela della p.a..
Nello specifico, in accoglimento di un ricorso straordinario
al Capo dello Stato era stata annullata la deliberazione di
un Comune di approvazione di un progetto di realizzazione di
un parcheggio interrato (per la precisione dell’ampliamento
del parcheggio) e di concessione del diritto di superficie
sull’area, cui aveva fatto seguito la stipula del relativo
contratto.
Il Comune, con apposita delibera, prendeva atto della
decisione di annullamento, indicando però nel contempo che
il relativo contrato “rimane efficace tra le parti”.
La parte che ha ottenuto l’annullamento proponeva un
giudizio di ottemperanza, lamentando che l’Amministrazione,
nel mantenere l’efficacia del contratto, non avesse dato
corretta esecuzione alla pronuncia resa in accoglimento del
ricorso straordinario.
La sentenza in esame dichiara infondata la domanda di
ottemperanza per due ordini di motivi.
In primo luogo, la pronuncia del Capo dello Stato di cui si
chiede l’esecuzione, nell’annullare la delibera comunale che
ha approvato il progetto di ampliamento dei parcheggi nulla
ha statuito in ordine al relativo contratto.
Nell’ordinamento vigente, la caducazione del contratto non è
una conseguenza automatica ed ineluttabile della sentenza di
annullamento dell’atto presupposto, essendo rimessi al
giudice l’accertamento e la relativa dichiarazione (art.
245-bis del codice dei contratti pubblici, introdotto dal
d.lgs. n. 53/2010, e art. 121 del codice del processo
amministrativo).
In assenza di una statuizione sul punto, l’amministrazione
non avrebbe potuto dichiarare autonomamente il contratto
inefficace.
Non è ipotizzabile, infatti, che la p.a. decida la sorte del
contratto in assenza di una decisione giurisdizionale.
L’amministrazione vincolata da un rapporto negoziale non può
dichiarare in autotutela l’inefficacia del contratto,
incidendo unilateralmente sul rapporto contrattuale
stipulato con la controparte, essendo tale misura rimessa
solo al giudice (Cass. sezioni unite, 18.01.2012, n. 17842).
In secondo luogo, è vero che la domanda di declaratoria di
inefficacia del contratto può essere proposta anche nel
giudizio di ottemperanza, in quanto deve essere intesa quale
una delle possibili modalità di attuazione del giudicato,
anche se non vi sia stata alcuna domanda in tal senso nel
giudizio di cognizione.
Tuttavia tale domanda presuppone pur sempre la sussistenza
dei presupposti di fatto e di diritto e l’interesse della
parte, essendo la declaratoria di inefficacia sempre
strumentale all’interesse del ricorrente di poter subentrare
nel contratto o partecipare ad una nuova procedura di
affidamento.
Questa situazione non ricorre nel caso in esame, atteso che
il contratto è stato integralmente eseguito ed eventuali
residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo
dall’esecutore originario, così che l’impresa ricorrente non
ha nessuna possibilità di subentrare nel contratto o di
vedersi affidare i lavori, avendo il contratto esaurito ogni
effetto.
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Esito
Rigetta il ricorso
Precedenti giurisprudenziali sul potere di
dichiarare in autotutela l’inefficacia del contratto
in senso conforme Cass. sezioni unite, 18.01.2012, n. 17842;
in senso difforme: Cons. Stato Sez. V, 04.01.2011, n. 11; in
senso sostanzialmente difforme, ancorché su diverso oggetto,
anche Cons. Stato Sez. III, 23.05.2013, n. 2802, secondo cui
l'annullamento in via di autotutela dell'aggiudicazione da
parte dell'Amministrazione comporta l'automatica inefficacia
del contratto medio tempore stipulato, tenendo presente che
ciò che rileva è il collegamento sostanziale tra i due atti,
l'aggiudicazione e il contratto, i quali simul stabunt,
simul cadent, qualunque sia la sede dell'annullamento.
Precedenti giurisprudenziali
sull’ammissibilità della domanda di declaratoria di
inefficacia del contratto ottemperanza
Cons. Stato Sez. III, 19.12.2011, n. 6638
Riferimenti normativi
Art. 245-bis del D.Lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti
pubblici); art. 121 del codice del processo amministrativo
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 26.09.2013 n. 4752 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Firma digitale semplice. Non va allegata copia della carta
d'identità. Il chiarimento in una
sentenza depositata dal Consiglio di stato.
L'apposizione della firma digitale non necessita
dell'allegazione di copia del documento di identità del
dichiarante.
A stabilirlo è la VI Sez. del Consiglio di Stato con
sentenza
20.09.2013 n. 4676.
I giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato come ai sensi
dell'articolo 1, comma 1, lettera s) del «Codice
dell'amministrazione digitale» la firma digitale si
distingue dall'ordinaria firma elettronica per il
particolare grado di certezza e attendibilità che la
caratterizza (ai sensi della disposizione appena richiamata,
infatti, la «firma digitale» viene definita come «un
particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un
certificato qualificato e su un sistema di chiavi
crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra
loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e
al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente,
di rendere manifesta e di verificare la provenienza e
l'integrità di un documento informatico o di un insieme di
documenti informatici»).
In tal modo, l'apposizione della
firma digitale conferisce un grado di certezza ed
attendibilità in ordine alla provenienza del documento
certamente non inferiore a quello conseguibile attraverso le
particolari modalità di cui agli articoli 38 e 47 del dpr
445 del 2000 (e, in particolare, attraverso l'allegazione di
copia del documento di identità del dichiarante).
Inoltre, secondo la lettera del comma 1, lettera a),
dell'articolo 65 del «Codice dell'amministrazione digitale»,
la sottoscrizione di un documento con firma digitale
rilasciata da un certificatore accreditato rende valida
sotto ogni aspetto la presentazione di una dichiarazione di
cui al comma 3 dell'articolo 38 del dpr 445 del 2000.
Osserva poi il collegio, a sostegno di tale tesi, che il
comma 6, lettera b), del dlgs 82 del 2005 stabilisce che: «Le
offerte presentate per via elettronica possono essere
effettuate solo utilizzando la firma elettronica digitale,
anche in questo caso non richiamando in alcun modo le
ulteriori prescrizioni e formalità (invero, in tali ipotesi,
non necessarie) richieste in via ordinaria per rendere
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà di cui al
comma 3 dell'articolo 38 del dpr 445 del 2000».
Pertanto l'apposizione della firma digitale, per via del
particolare grado di sicurezza e di certezza
nell'imputabilità soggettiva che la caratterizza, è di per
sé idoneo a soddisfare i requisiti dichiarativi anche in
assenza dell'allegazione in atti di copia del documento di
identità del dichiarante
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Il permesso per abbattere le barriere architettoniche non
occorre.
A stabilirlo è la III Sez. penale della Corte di
Cassazione con
sentenza
18.09.2013 n. 38360.
La Suprema corte ha, poi, sottolineato che per quanto
concerne la definizione di «barriere architettoniche» per i
soggetti disabili, deve ricordarsi che: «le opere funzionali
all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo
quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità,
l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non
quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla
maggior comodità dei residenti» (si veda anche Tar
Campania, Salerno, sez. 2, 19.04.2013, n. 952; Tar Abruzzo,
Pescara, sez. 1, 24/02/2012, n. 87; Tar Abruzzo, L'Aquila,
sez. 1, 08.11.2011, n. 526).
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del dpr n. 380
del 2001, tali opere rientrano nell'attività edilizia libera
qualora «consistano in interventi volti all'eliminazione
di barriere architettoniche che non comportino la
realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di
manufatti che alterino la sagoma dell'edificio». Qualora
vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori
esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione
della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non
ricomprese nell'art. 10 trova applicazione l'art. 22 dello
stesso dpr, a norma del quale sono realizzabili mediante
denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili
all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6.
I giudici osservano, poi, che a tale disposizione si
sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come
modificato dal dl n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale
consente che, per le opere soggette a Dia ordinaria, si
proceda, in via semplificata, con Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione
autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del dl n.
70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
106 del 2011, il quale prevede che: «Le disposizioni di
cui all'articolo 19 della legge 07/08/1990, n. 241 si
interpretano nel senso che le stesse si applicano alle
denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate
dal dpr 06/06/2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le
denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale,
siano alternative o sostitutive del permesso di costruire»
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Contributo per il rilascio del permesso di costruire, Poste
Italiane SpA esenti.
Non è dovuto il pagamento del
contributo per il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione da parte di Poste Italiane S.p.A.
dell’ampliamento di un edificio adibito a Centro Postale
Meccanizzato. Ricorrono entrambi i requisiti previsti per la
gratuità del permesso ovverosia che l'opera sia realizzata
da un "ente istituzionalmente competente" (requisito
soggettivo) e che gli impianti, le attrezzature e le opere
siano "pubbliche o di interesse generale" (requisito
oggettivo).
Nel caso in esame Poste Italiane S.p.A., proprietaria di
edificio adibito a Centro Postale Meccanizzato, chiedeva un
permesso di costruire per il suo ampliamento e il TAR
milanese è chiamato a risolvere la questione se sia dovuto
il pagamento del contributo per il rilascio del permesso
edificatorio o se si ricada in una ipotesi di concessione
gratuita.
L'art. 9, lett. f), della legge 28.01.977 n. 10 (“Norme
per la edificabilità dei suoli”), dispone che il
contributo per il rilascio della concessione edilizia non
sia dovuto in presenza di due requisiti:
a) che l'opera sia realizzata da un "ente
istituzionalmente competente" (requisito soggettivo);
b) che gli impianti, le attrezzature e le opere siano "pubbliche
o di interesse generale" (requisito oggettivo).
L’organo giudicante ritiene che sussistano entrambi i
presupposti per la gratuità.
Quanto al requisito soggettivo, Poste Italiane S.p.A., quale
società a totale partecipazione dello Stato derivante dalla
trasformazione dell'Ente Poste Italiane - conserva la
connotazione propria della sua originaria natura
pubblicistica e continua ad essere affidataria della cura di
rilevanti interessi pubblici.
Poste Italiane S.p.A., è concessionaria del servizio postale
che costituisce un servizio pubblico di preminente interesse
generale (Cons. Stato, VI, sentenza 02.10.2009 n. 5987).
Secondo giurisprudenza il requisito c.d. soggettivo,
necessario onde accordare l’esenzione dal contributo
previsto dall’art. 3 della l. 10 del 1977, sussiste non solo
nel caso in cui l’opera sia realizzata direttamente da un
ente pubblico nell’esercizio delle proprie competenze
istituzionali, ma anche nel caso in cui l’opus venga
realizzato da un soggetto privato, purché per conto di un
ente pubblico, come nel caso della concessione di opera
pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie, in cui
l’opera sia realizzata da soggetti che non agiscano per
scopo di lucro, o che accompagnino tale lucro ad un legame
istituzionale con l’azione dell’amministrazione volta alla
cura di interessi pubblici (Cons. Stato, Sez. VI, 09.09.2008
n. 4296; Cons. Stato, Sez. VI, 12.07.2005, n. 3744; Cons.
Stato, Sez. VI, 10.05.2005, n. 2226; Cons. Stato, Sez. V,
02.12.2002, n. 6618; TAR Lombardia-Milano, sez. IV,
16.07.2013 n. 1872).
Quanto al requisito oggettivo, l’opera oggetto della
concessione edilizia, cui inerisce il contributo in
questione, si qualifica quale opera "necessaria" per
l'espletamento del pubblico servizio, risultando
direttamente collegata all’attività istituzionale di
prestazione del servizio postale (il Centro Postale
Meccanizzato, infatti, risulta progettato e costruito per
ospitare l'attività di smistamento degli effetti postali,
sicché esso assume un ruolo centrale e preminente
nell'ambito dell'intera rete del servizio postale).
Si rientra pertanto nell’ipotesi di non debenza del
contributo.
---------------
Esito
Accoglie il ricorso
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato, Sez. VI, 09.09.2008 n. 4296; Cons. Stato,
12.07.2005, n. 3744; Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2005, n.
2226; Cons. Stato, Sez. V, sent. 02.12.2002, n. 6618; TAR
Lombardia-Milano, sez. IV, 16.07.2013 n. 1872
Riferimenti normativi
Artt. 3 e 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10
(commento tratto da www.ipsoa.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisdizione del g.a. non viene meno ancorché
gli venga richiesto di accertare, in via incidentale, la
sussistenza o meno del diritto della collettività sul suolo
pubblico o soggetto ad uso pubblico.
Se è vero, infatti, che non rientra nella giurisdizione del
Giudice Amministrativo l'accertamento in via principale di
una servitù pubblica di passaggio, essendo detta questione
devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario, è
altrettanto vero che ricorre la giurisdizione del Giudice
Amministrativo qualora l'esistenza della servitù pubblica
risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente
impugnato, cosicché la valutazione della sua sussistenza si
ponga come questione da valutare, incidenter tantum, al
limitato fine di verificare la legittimità degli atti
gravati, non ravvisandosi alcuna pregiudiziale obbligatoria,
in siffatte questioni, a favore del Giudice Ordinario.
---------------
Infondato si appalesa, poi, il secondo motivo, atteso
che, la presenza di una doppia sottoscrizione (del Sindaco e
del Dirigente) non fa di certo venire meno l’assunzione
della paternità dell’ordinanza al soggetto ex lege
legittimato alla sua adozione (nel caso di specie, il
Sindaco, ex art. 15 cit.), così rendendo l’atto in questione
soggettivamente perfetto e immune dalle dedotte censure.
Da ciò si ricava anche l’infondatezza del terzo motivo,
atteso che l’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000 non ha inteso
privare il Sindaco delle competenze ad esso specificamente
attribuite dalle previgenti previsioni normative, laddove si
resti comunque al di fuori dei compiti di gestione (cfr.
artt. 107, co. 5 e 50, co. 4 d.lgs. n. 267/2000). Infatti,
in disparte la circostanza che l’ordinanza in esame non
rientra tra i “compiti” espressamente attribuiti, ai sensi
del comma 3 dell’art. 107 cit. alla competenza dirigenziale,
in ogni caso essa non è riconducibile fra i “compiti di
attuazione degli obiettivi o dei programmi definiti con gli
atti di indirizzo”.
Ne consegue che, legittimamente l’ordinanza in esame reca la
firma del Sindaco, in conformità del chiaro disposto di cui
all’art. 15 d.l.lgt. cit..
---------------
Le funzioni di vigilanza e polizia sulle strade vicinali
sono esercitate dal sindaco, a cui spetta ordinare che siano
rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e
all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che
siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente
alterate.
Per le strade soggette ad uso pubblico, il sindaco dispone
l'esecuzione dei lavori occorrenti a spese degli
interessati, quando vi sia urgenza o non si adempia entro il
termine prefisso agli ordini ricevuti. La nota di spese è
resa esecutoria dal prefetto, sentiti gli interessati, ed è
riscossa nelle forme e con i privilegi fiscali. Sono altresì
applicabili per queste strade gli artt. 374 a 377 della
legge sulle opere pubbliche.
Per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può
solo provvedere quando ne sia richiesto, e può autorizzare
il Consorzio ad eseguire i lavori di ripristino anche in
pendenza di ricorsi.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza, i presupposti
che legittimano l'esercizio del potere di autotutela
possessoria delle strade vicinali, attribuito al Sindaco ai
sensi della su riportata norma, sono:
a) la preesistenza di fatto dell'uso pubblico della strada,
anche se questa sia del tutto privata;
b) la sopravvenienza di un'alterazione del preesistente
stato di fatto, che abbia frapposto impedimenti all'uso
pubblico della strada medesima.
---------------
L’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali
soggette ad uso pubblico, comporta, per la sua natura
dichiarativa, in adesione a consolidata giurisprudenza, una
presunzione della sussistenza del diritto di pubblico
transito sulla strada, che può essere vinta solo con
l’esperimento dell’actio negatoria servitutis di fronte al
giudice ordinario, ai sensi del disposto dell’art. 20, II
comma, dell’all. “F” alla legge n. 2248 del 1865.
Al contempo, quindi, alla stregua del medesimo indirizzo
giurisprudenziale, la sussistenza di tale iscrizione
costituisce il presupposto che fonda la legittimazione del
Comune all’esercizio del potere di ripristino dell’uso
pubblico stesso, estrinsecazione del potere di autotutela
possessoria, di cui all’art. 15 copra richiamato.
Non si può dire, infatti, che la parte ricorrente abbia
adempiuto all’onere probatorio conseguentemente ravvisabile
a suo carico, in ordine alla prova della mancanza di un uso
pubblico della strada de qua, essendosi la difesa attorea
limitata a richiamare, al riguardo, l’attuale stato di
inservibilità della strada.
Sennonché, giova osservare al riguardo come, sempre per
giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di
autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi
dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865 n.
2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt.
01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche quando
da tempo la strada non è stata utilizzata dalla collettività
ed anche quando sia diventata impraticabile al carreggio.
Per completezza, è utile richiamare anche quanto
recentemente affermato dal Consiglio di Stato, secondo cui:
“La circostanza che il Comune non sia intervenuto
tempestivamente nell'assumere iniziative per il ripristino
della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione
delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può
ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della
strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle
strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969),
ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato
nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono
l'esistenza di una strada vicinale iscritta come tale
nell'elenco delle strade comunali, l'uso da parte della
collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a
soddisfare esigenze di generale interesse per il
collegamento con la pubblica via del santuario dell'acqua
nera e l'interruzione e trasformazione da parte del
ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo della
realizzazione sull'area stradale di opere edilizie abusive.
Si è costituito il Comune di Garlasco,
controdeducendo con separata memoria alle censure avversarie
e sollevando, altresì, eccezioni pregiudiziali di
inammissibilità del gravame.
In particolare, il Comune ha rilevato come la pretesa
sostanziale azionata con l’odierna impugnazione verta
sull’accertamento della natura privata della strada vicinale
Milano, sicché essa è sottratta alla giurisdizione del
giudice amministrativo e riconducibile a quella dell’A.G.O.,
alla stregua dell’actio negatoria servitutis, finalizzata ad
accertare che la strada non è soggetta all’uso pubblico.
La difesa civica ha, altresì, rilevato come il ricorso sia
inammissibile per mancata impugnazione di atto presupposto,
autonomamente lesivo, consistente nella delibera del
Consiglio comunale n. 78/1981 di classificazione della
strada de qua come vicinale d’uso pubblico.
Con ordinanza n. 1179 del 24.08.2012 è stata accolta la
formulata domanda cautelare.
In prossimità dell’udienza fissata per la discussione del
merito entrambe le parti hanno depositato memorie e
repliche.
All’udienza pubblica del 02.05.2013 la causa è stata
trattenuta dal Collegio per la decisione.
Il Collegio rileva, in via preliminare, la pacifica
sussistenza della propria giurisdizione sulla fattispecie,
poiché l'impugnata ordinanza, qualificabile ai sensi
dell'art. 15 del d.l.lgt. n. 1446/1918, integra una
fattispecie di autotutela possessoria in via amministrativa
o "iure publico" - finalizzata all'immediato ripristino
dello stato di fatto preesistente di una strada, volto a
reintegrare la collettività nel godimento del bene (cfr.
Cons. St., Sez. V, sent. 08.01.2009, n. 25; TAR
Piemonte, Torino, Sez. I, Sent. 20.03.2013, n. 341; TAR
Salerno, Sez. I, sent. 29.05.2012, n. 1058; TAR
Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, sent. 08.04.2011, n. 184).
La giurisdizione del g.a. non viene meno ancorché gli venga
richiesto di accertare, in via incidentale, la sussistenza o
meno del diritto della collettività sul suolo pubblico o
soggetto ad uso pubblico. Se è vero, infatti, che non
rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo
l'accertamento in via principale di una servitù pubblica di
passaggio, essendo detta questione devoluta alla
giurisdizione del Giudice Ordinario, è altrettanto vero che
ricorre la giurisdizione del Giudice Amministrativo qualora
l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un
presupposto dell'atto eventualmente impugnato, cosicché la
valutazione della sua sussistenza si ponga come questione da
valutare, incidenter tantum, al limitato fine di verificare
la legittimità degli atti gravati, non ravvisandosi alcuna
pregiudiziale obbligatoria, in siffatte questioni, a favore
del Giudice Ordinario (cfr. in tal senso, sempre TAR
Piemonte, Torino Sez. I, Sent., n. 341/2013; TAR
Friuli-Venezia Giulia Sez. I, n. 184/2011; Cass. SS.UU.
02.10.1989, n. 3950, 23.01.1991, n. 596, 07.11.1994, n. 9206).
--------------
Si può, a
questo punto, prescindere dall’esame della residua questione
preliminare, essendo il ricorso infondato nel merito.
In tal senso, re melius perpensa rispetto a quanto deciso in
sede di cognizione sommaria, preme al Collegio evidenziare
come l’ordinanza di cui trattasi, pur richiamando nelle
proprie premesse almeno un duplice ordine di presupposti
normativi (da un lato, il d.P.R. n. 380/2001, la l.reg. n.
12/2005 e il d.lgs. n. 42/2004 e, dall’altro, l’art. 15 del
d.l.lgt. n. 1446/1918), radichi, di fatto, la disposta
ingiunzione sull’esercizio del potere di autotutela
possessoria, spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 15 del
d.l.lgt. n. 1446/1918.
In effetti, è proprio sul potere in esame che risulta
calibrata la motivazione del provvedimento, che, dopo avere
descritto lo stato della strada interessata dal cumulo di
materiale inerte, richiama, nelle premesse, nell’ordine, la
delibera del Consiglio comunale recante l’elenco delle
strade vicinali ad uso pubblico, i presupposti applicativi
dell’art. 15 cit. e, quindi, il prevalente interesse
pubblico al ripristino della preesistente viabilità. In
siffatte circostanze, reputa il Collegio che il
provvedimento in questione costituisca esplicazione del
predetto potere di autotutela e come tale debba essere
valutato, tenendo conto della normativa ad esso applicabile.
Non va dimenticato, infatti, che l’esatta qualificazione
giuridica del provvedimento amministrativo impugnato,
fondandosi sull'analisi del suo contenuto effettivo e della
sua causa reale, spetta al giudice investito dalla
controversia, il quale può, addirittura, legittimamente
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'amministrazione all'atto adottato (cfr. ex multis, da
ultimo, TAR Lazio Roma Sez. II, Sent., 22.05.2013, n.
5144).
Su tali premesse, il primo motivo di ricorso appare
inammissibile, prima ancora che infondato, poiché non
riferibile all’ordinanza che qui ci occupa, così come
correttamente intesa alla stregua di provvedimento adottato
nell’esercizio del potere di autotutela possessoria delle
strade vicinali, potere di spettanza sindacale. Esso, a ben
vedere, appare riferito ad un ipotetico provvedimento,
conclusivo del procedimento avviato con la comunicazione del
29.09.2011, per l’abusiva trasformazione permanente del
suolo in edificato, non ravvisabile -a parere del Collegio- nell’ordinanza per cui è causa. Quest’ultima, proprio in
virtù della sua specifica connotazione, non necessita di
previa comunicazione di avvio, rivestendo natura tipicamente
cautelare e urgente, diretta a recuperare nell’immediato
l’uso pubblico della strada di cui trattasi (cfr. Cons. di
Stato, sent. 01.12.2006 n. 7081).
Analogamente infondato si appalesa, poi, il secondo motivo,
atteso che, la presenza di una doppia sottoscrizione (del
Sindaco e del Dirigente) non fa di certo venire meno
l’assunzione della paternità dell’ordinanza al soggetto ex lege legittimato alla sua adozione (nel caso di specie, il
Sindaco, ex art. 15 cit.), così rendendo l’atto in questione
soggettivamente perfetto e immune dalle dedotte censure.
Da ciò si ricava anche l’infondatezza del terzo motivo,
atteso che l’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000 non ha inteso
privare il Sindaco delle competenze ad esso specificamente
attribuite dalle previgenti previsioni normative, laddove si
resti comunque al di fuori dei compiti di gestione (cfr.
artt. 107, co. 5 e 50, co. 4 d.lgs. n. 267/2000). Infatti, in
disparte la circostanza che l’ordinanza in esame non rientra
tra i “compiti” espressamente attribuiti, ai sensi del comma
3 dell’art. 107 cit. alla competenza dirigenziale, in ogni
caso essa non è riconducibile fra i “compiti di attuazione
degli obiettivi o dei programmi definiti con gli atti di
indirizzo”.
Ne consegue che, legittimamente l’ordinanza in esame reca la
firma del Sindaco, in conformità del chiaro disposto di cui
all’art. 15 d.l.lgt. cit..
Si può, così, passare all’esame del quarto motivo, con cui
si lamenta, in sostanza, il difetto dei presupposti di cui
all’art. 15 richiamato.
Ebbene, tale norma (introdotta con il d.l.lgt. 01.09.1918 n.
1446, convertito in legge dalla L. 17.04.1925, n. 473,
le cui disposizioni -delle quali l'art. 2, d.l. 22.12.2008, n. 200, aveva previsto l’abrogazione a decorrere dal
16.12.2009- sono state sottratte all’effetto
abrogativo in base al comma 2 dell’art. 1, d.lgs. 01.12.2009, n. 179), così dispone:
“Le funzioni di vigilanza e polizia sulle strade vicinali
sono esercitate dal sindaco, a cui spetta ordinare che siano
rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e
all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che
siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente
alterate.
Per le strade soggette ad uso pubblico, il sindaco dispone
l'esecuzione dei lavori occorrenti a spese degli
interessati, quando vi sia urgenza o non si adempia entro il
termine prefisso agli ordini ricevuti. La nota di spese è
resa esecutoria dal prefetto, sentiti gli interessati, ed è
riscossa nelle forme e con i privilegi fiscali. Sono altresì
applicabili per queste strade gli artt. 374 a 377 della
legge sulle opere pubbliche.
Per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può
solo provvedere quando ne sia richiesto, e può autorizzare
il Consorzio ad eseguire i lavori di ripristino anche in
pendenza di ricorsi”.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza, i presupposti
che legittimano l'esercizio del potere di autotutela
possessoria delle strade vicinali, attribuito al Sindaco ai
sensi della su riportata norma, sono:
a) la preesistenza di fatto dell'uso pubblico della strada,
anche se questa sia del tutto privata;
b) la sopravvenienza di un'alterazione del preesistente
stato di fatto, che abbia frapposto impedimenti all'uso
pubblico della strada medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
sent. n. 151 del 09.05.1983; di recente, TAR
Emilia-Romagna Parma Sez. I, Sent., 21.01.2013, n. 20).
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Come
correttamente rilevato dalla difesa comunale, infatti,
l’iscrizione della strada nel tratto che qui interessa
nell’elenco delle strade vicinali soggette ad uso pubblico,
comporta, per la sua natura dichiarativa, in adesione a
consolidata giurisprudenza (cfr. Cons. di Stato sez. V,
sent. 22.06.2010 n. 3891), una presunzione della sussistenza
del diritto di pubblico transito sulla strada, che può
essere vinta solo con l’esperimento dell’actio negatoria
servitutis di fronte al giudice ordinario, ai sensi del
disposto dell’art. 20, II comma, dell’all. “F” alla legge n.
2248 del 1865.
Al contempo, quindi, alla stregua del medesimo indirizzo
giurisprudenziale, la sussistenza di tale iscrizione
costituisce il presupposto che fonda la legittimazione del
Comune all’esercizio del potere di ripristino dell’uso
pubblico stesso, estrinsecazione del potere di autotutela
possessoria, di cui all’art. 15 copra richiamato.
Non si può dire, infatti, che la parte ricorrente abbia
adempiuto all’onere probatorio conseguentemente ravvisabile
a suo carico, in ordine alla prova della mancanza di un uso
pubblico della strada de qua, essendosi la difesa attorea
limitata a richiamare, al riguardo, l’attuale stato di
inservibilità della strada.
Sennonché, giova osservare al riguardo come, sempre per
giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di
autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi
dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865
n. 2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt.
01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche
quando da tempo la strada non è stata utilizzata dalla
collettività ed anche quando sia diventata impraticabile al
carreggio (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 522 del
07.04.1995).
Per completezza, è utile richiamare anche quanto
recentemente affermato dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. V,
Sent., 14.05.2013, n. 2611), secondo cui:
“La circostanza che il Comune non sia intervenuto
tempestivamente nell'assumere iniziative per il ripristino
della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione
delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può
ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della
strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle
strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969),
ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato
nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono
l'esistenza di una strada vicinale iscritta come tale
nell'elenco delle strade comunali, l'uso da parte della
collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a
soddisfare esigenze di generale interesse per il
collegamento con la pubblica via del santuario dell'acqua
nera e l'interruzione e trasformazione da parte del
ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo della
realizzazione sull'area stradale di opere edilizie abusive
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531; sez. V,
04.02.2004, n. 373; sez. V, 24.10.2002, n. 5692;
Cass. civ., sez. II , 10.10.2000, n. 13485; 07.04.2000, n. 4345; Sez. I,
03.10.2000, n. 13087, cui si
rinvia a mente degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d) c.p.a.)” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA:
Piano regionale per le attività estrattive: sulle
osservazioni dei Comuni valutazione obbligatoria.
La partecipazione dei Comuni al
procedimento di formazione del Piano regionale per le
attività estrattive (PRAE) non può ridursi alla mera facoltà
collaborativa di presentare proprie osservazioni (alla
stregua delle osservazioni formulate dai privati nel
procedimento di formazione di uno strumento urbanistico).
Nel procedimento di approvazione del PRAE, l’Autorità
regionale procedente, acquisite le osservazioni dei Comuni
coinvolti dalle previsioni del piano, è tenuta a ponderare,
con una motivazione esplicita, gli interessi pubblici o
collettivi articolati dagli enti comunali.
Il Consiglio di Stato si è espresso su una sentenza del TAR
Napoli che aveva dichiarato illegittimo il Piano regionale
per le attività estrattive (PRAE) della Regione Campania.
Tra i motivi della decisione di primo grado vi era la
violazione delle garanzie partecipative del Comune
ricorrente nella procedura di adozione del medesimo piano.
La decisione in esame conferma il profilo di illegittimità
rilevato, indicando come la partecipazione dei Comuni al
procedimento pianificatorio di formazione del PRAE non può
ridursi alla mera facoltà collaborativa di presentare
proprie osservazioni (alla stregua delle osservazioni che
possono essere formulate dai privati nel procedimento di
formazione di uno strumento urbanistico).
La pronuncia indicata la necessità di interpretare la
disciplina legislativa regionale (art. 2 L.R. 13.12.1985, n.
54) in un’ottica costituzionalmente orientata, alla luce dei
vari interessi coinvolti tra cui quelli di rango
costituzionale di tutela dell’ambiente e della salute dei
cittadini (artt. 9 e 32 Cost.) e del principio di
sussidiarietà tra i diversi livelli di governo investiti di
competenze in materia di pianificazione territoriale, in
conformità alle previsioni dell’art. 118 Cost., che impone
la cooperazione tra Enti nei processi di pianificazione
territoriale.
Si pone, difatti, un’esigenza di coordinamento tra potestà
pianificatoria regionale in materia di cave e potestà
pianificatoria comunale in materia urbanistica e di assetto
del territorio.
Il principio di leale cooperazione che deve informare i
rapporti tra gli enti territoriali e i vari livelli di
governo nell’azione pianificatoria in settori che si
intersecano reciprocamente e coinvolgono una pluralità di
interessi (pubblici, collettivi e privati), anche di rango
costituzionale, impone nel procedimento di approvazione del
PRAE che l’Autorità regionale procedente, nell’acquisizione
delle osservazioni dei Comuni coinvolti dalle previsioni del
piano, sia tenuta a ponderare, con una motivazione
esplicita, gli interessi pubblici o collettivi articolati
dagli enti comunali e, dunque, a prenderli in debita
considerazione.
Diversamente opinando sarebbe precluso ogni sindacato, anche
giurisdizionale, delle scelte pianificatorie (per il resto
non sindacabili nel merito) sotto i profili del rispetto dei
principi di logicità, proporzionalità e congruità
motivazionali, in relazione alle osservazioni formulate dai
Comuni quali enti esponenziali degli interessi della
comunità locale.
Un altro punto degno di nota della sentenza è che da tale
illegittimità procedimentale il Consiglio di Stato,
muovendosi in una ottica conservativa, non ha fatto
discendere, come aveva invece fatto il TAR Campano, la
caducazione del PRAE nel suo complesso ma solo nella parte
relativa agli interessi del Comune ricorrente, (che lamenta
la mancata valutate di alcune osservazioni) e, in ogni caso,
limitatamente alla parte del piano concernente il territorio
comunale.
Da ciò deriva che l’effetto conformativo della decisione si
risolva nell’obbligo di rinnovazione procedimentale,
limitato alla valutazione delle menzionate osservazioni da
parte dell’Autorità procedente.
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Esito
Riforma parzialmente TAR Campania Napoli, Sez. I, n.
452/2008
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato Sez. VI, 06.06.2008, n. 2743
Riferimenti normativi
Art. 2 legge Regione Campania 13.12.1985, n. 54; art. 8 l.
reg. 22.12.2004, n. 16; art. 118 Cost. (commento tratto
da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.09.2013 n. 4548 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appalti.
Insufficiente la richiesta di indennizzo.
Lavori non contestati da pagare.
Se il committente di un appalto, rilevati i difetti
dell'opera realizzata, non pretende che l'esecutore li
elimini ma chiede solo il risarcimento del danno, resta
invariato il credito dell'appaltatore per il corrispettivo.
È questo il principio ricordato dalla Corte di Cassazione con la
sentenza
10.09.2013 n. 20707.
L'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i
vizi dell'opera. Ma la garanzia non è dovuta se il
committente ha accettato l'opera e le difformità o i vizi
erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché non
siano stati in mala fede taciuti dall'appaltatore. Il
committente può chiedere, in alternativa, la riparazione
dell'opera a spese dell'appaltatore o la riduzione del
prezzo e, nei casi più gravi, la risoluzione del contratto.
Se però il committente chiede solo il risarcimento del
danno, l'appaltatore ha diritto al compenso pattuito.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il committente non ha
chiesto di eliminare i difetti né ha pagato l'appaltatore,
che ha quindi fatto ricorso per decreto ingiuntivo.
L'opposizione del committente è stata accolta dai giudici di
merito. Ma il verdetto è stato ribaltato dalla Cassazione.
Questo perché la domanda proposta dal committente per il
risarcimento dei danni è autonoma rispetto alla domanda che
punta a eliminare i vizi. Non è pertanto consentito al
committente, nel caso di colpa dell'appaltatore, ottenere
con la domanda di risarcimento dei danni gli effetti
dell'azione per eliminare i vizi.
Nei lavori per il condominio, la decisione di non pretendere
l'eliminazione dei vizi dell'opera ma di chiedere solo il
risarcimento del danno compete all'assemblea e non
all'amministratore poiché ciò implica, comunque il pagamento
del corrispettivo. L'amministratore che omettesse di
informare l'assemblea rischierebbe di dover poi lui
risarcire i danni al condominio se il suo operato non
venisse ratificato
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2013). |
TRIBUTI:
Il casone rurale non è di lusso.
Metri quadri insufficienti a definirlo tale.
In un'abitazione di tipo agricolo, la sola superficie
maggiore di 240 metri quadrati non è sufficiente a renderla
«abitazione di lusso»; il solo riferimento alla superficie
della casa, infatti, non può far rientrare un immobile
agricolo tra quelli di lusso.
Sono le conclusioni raggiunte dalla Commissione tributaria
provinciale di Cremona, che si leggono nella sentenza
19.07.2013 n.
62/2/13.
Gli
immobili adibiti ad abitazione principale di un nucleo
familiare godono di diversi benefici fiscali, sia per quello
che riguarda il loro acquisto sia per l'imposizione fiscale
relativa ai tributi locali e sui redditi. Tra questi
immobili, che costituiscono abitazione principale, sono
escluse, tuttavia, le abitazioni che, presentando
determinate caratteristiche, possano essere ritenute di
lusso e non rientrano tra le categorie agevolate. Sono,
quindi, ritenute tali (di lusso) quelle abitazioni che
abbiano almeno quattro caratteristiche tra quelle indicate
nella tabella allegata al decreto ministeriale 02.08.1969.
Sono, inoltre, ritenute sempre di lusso, tra le altre,
le singole unità abitative di superficie superiore a 240
metri quadrati, computate con l'esclusione di balconi,
terrazze, cantine, soffitte, scale e posto macchina. Nel
caso trattato dai giudici lombardi, le Entrate di Cremona,
dopo aver rilevato che l'immobile indicato dai contribuenti
in successione aveva una superficie di 270 mq, con la
liquidazione impugnata revocavano le agevolazioni fiscali
per la prima casa.
In sede di ricorso avverso la stessa
liquidazione erariale, i ricorrenti palesavano che, sia pure
di superficie superiore ai 240 metri quadri, l'immobile non
aveva le caratteristiche di lusso che potevano giustificare
la pretesa fiscale; dai documenti allegati al ricorso si
poteva agevolmente rilevare che si trattava di una
abitazione rurale. Gli stessi giudici, dopo aver verificato
la consistenza dell'immobile, di tipo agricolo, hanno
annullato la liquidazione e stabilito «che il solo
riferimento alla metratura della casa (mq 270) non possa far
rientrare la stessa nelle abitazioni di lusso»
(articolo ItaliaOggi del
05.10.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La normativa di settore ha previsto i piani di
secondo livello, in attuazione dei piani generali, al fine
di garantire un equilibrato sviluppo urbanistico del
territorio (cfr. artt. 13 e 28 della L. 17.08.1942 n. 1150).
La suddetta funzione viene assolta dai piani
particolareggiati di iniziativa pubblica e dai piani di
lottizzazione di iniziativa privata, non solo quando
trattasi di asservire per la prima volta una zona non ancora
urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere
residenziale o produttivo, ma anche quando l’intervento su
aree libere esiga il raccordo armonico con il preesistente
aggregato abitativo.
Al fine dunque di riscontrare la permanente necessità della
previa adozione del piano attuativo occorre, tra l’altro,
verificare lo stato di edificazione della zona interessata
dall’intervento, nonché il suo grado di urbanizzazione
primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza e
fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime, a fronte
della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento
del carico urbanistico da questo discendente.
Orbene, nel caso in trattazione, in disparte il fatto che il
lotto in questione non può definirsi intercluso, confinando
a nord con zona inedificata e tenuto conto che l’area in
esame è sprovvista di opere di urbanizzazione primaria quali
la rete idrica e fognaria nonché del gas, è necessario porre
in rilievo la totale mancanza di opere di urbanizzazione
secondaria; e tale carenza risulta di particolare rilievo,
anche a fronte della consistenza del progettato intervento
edilizio e dell’incremento del carico urbanistico da questo
discendente.
Correttamente pertanto ha operato l’Amministrazione nel
respingere la richiesta di permesso di costruire de qua, in
assenza del piano attuativo, secondo quanto previsto nelle
N.T.A. del P.R.G. per la zona in esame.
Ciò posto, a tale riguardo il giudice di primo
grado ha evidenziato che, “invero la normativa di settore
ha previsto i piani di secondo livello, in attuazione dei
piani generali, al fine di garantire un equilibrato sviluppo
urbanistico del territorio (cfr. artt. 13 e 28 della L.
17.08.1942 n. 1150).
La suddetta funzione viene assolta dai piani
particolareggiati di iniziativa pubblica e dai piani di
lottizzazione di iniziativa privata, non solo quando
trattasi di asservire per la prima volta una zona non ancora
urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere
residenziale o produttivo, ma anche quando l’intervento su
aree libere esiga il raccordo armonico con il preesistente
aggregato abitativo (Cons. Stato, A.P., 06.10.1992 n. 12).
Al fine dunque di riscontrare la permanente necessità della
previa adozione del piano attuativo occorre, tra l’altro,
verificare lo stato di edificazione della zona interessata
dall’intervento, nonché il suo grado di urbanizzazione
primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza e
fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime, a fronte
della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento
del carico urbanistico da questo discendente (cfr. in ultimo
TAR Puglia-Lecce, III, 17.11.2008 n. 3317 e la
giurisprudenza ivi citata).
Orbene, nel caso in trattazione, in disparte il fatto che il
lotto in questione non può definirsi intercluso (cfr. TAR
Puglia-Lecce, III, 01.04.2008 n. 961), confinando a nord con
zona inedificata (cfr., tra l’altra documentazione, lo
stralcio aerofotogrammetrico, all. 2 al ricorso) e tenuto
conto che l’area in esame è sprovvista di opere di
urbanizzazione primaria quali la rete idrica e fognaria (per
stessa ammissione del ricorrente -cfr. pag. 12 dei motivi
aggiunti depositati in data 21.04.2008-, alla cui mancanza
si porrebbe peraltro rimedio, sempre a detta del ricorrente,
rispettivamente con cisterne e fosse ecologiche) nonché del
gas, è necessario porre in rilievo la totale mancanza di
opere di urbanizzazione secondaria (come del resto parimenti
ammesso dall’interessato -cfr. pag. 13 dei motivi aggiunti
depositati il 21.04.2008-); e tale carenza risulta di
particolare rilievo, anche a fronte della consistenza del
progettato intervento edilizio e dell’incremento del carico
urbanistico da questo discendente (cfr. ancora Cons. Stato
Ad. Pl. n. 12 del 1992).
Correttamente pertanto ha operato l’Amministrazione nel
respingere la richiesta di permesso di costruire de qua, in
assenza del piano attuativo, secondo quanto previsto nelle
N.T.A. del P.R.G. per la zona in esame (cfr. all. 3 agli atti
depositati dal Comune in data 26.02.2008). Ne discende
pertanto anche l’infondatezza della domanda di condanna del
Comune al risarcimento del danno che va pertanto parimenti
respinta”.
Il Collegio, a sua volta, non può che confermare la
correttezza degli assunti del giudice di primo grado ... (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 05.12.2012 n.
6229) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.07.2013 n. 3880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di pianificazione
urbanistica, la nozione di lotto intercluso ha una sua
valenza quando non si rinviene spazio giuridico per
un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei
casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto,
con la conseguenza che il titolo edilizio può essere
rilasciato in assenza del piano attuativo richiesto dalle
norme di piano regolatore solo quando in sede istruttoria
l’Amministrazione Comunale abbia accertato che il lotto del
richiedente è l’unico a non essere stato ancora edificato,
come nell’ipotesi –per l’appunto- del lotto residuale ed
intercluso, e si trova in una zona che, oltre che
integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata
delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione
convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi
eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standards urbanistici minimi prescritti.
Né risultava
possibile configurare l’area in questione –interessata,
oltre a tutto, da un progetto di rilevante carico
urbanistico, ancorché limitato ai soli mesi estivi, stante
il non indifferente rilievo costituito dall’insediamento di
15 appartamenti e della conseguente presenza dei loro
occupanti e dei mezzi di trasporto a loro disposizione– come
“lotto intercluso”, posto che in tema di
pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha
una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per
un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei
casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto
(così Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2012 n. 6656), con la
conseguenza che il titolo edilizio può essere rilasciato in
assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano
regolatore solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione
Comunale abbia accertato che il lotto del richiedente è
l’unico a non essere stato ancora edificato, come
nell’ipotesi –per l’appunto- del lotto residuale ed
intercluso, e si trova in una zona che, oltre che
integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata
delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può prescindere
dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di
piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio
interessato sussista una situazione di fatto corrispondente
a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione
stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi
prescritti (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 05.12.2012 n.
6229) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.07.2013 n. 3880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In pendenza del
procedimento di sanatoria, il ricorso giurisdizionale
avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso
che, se la domanda di sanatoria viene favorevolmente
definita, l’ingiunzione di demolizione perde efficacia,
mentre, se viene respinta, l’Amministrazione dovrà
necessariamente procedere, con autonomo procedimento, al
riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di
un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in
quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente
provvedimento demolitorio.
Invero, come la giurisprudenza ha pure posto in luce, non
appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli
di logicità e razionalità consentire, senza la previa
valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la
distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in
caso di conformità del manufatto alle previsioni
urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua
distruzione.
---------------
In materia edilizia l’attività sanzionatoria è vincolata e
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può mai legittimare.
---------------
Il comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 prevedente la
sanzione demolitoria-ripristinatoria -a differenza del
successivo comma 3 che indica il solo responsabile
dell’abuso a riguardo dell’acquisizione dei beni abusivi al
patrimonio comunale se non portati al pristino stato–
individua anche il proprietario come destinatario e
legittimato passivo del provvedimento di demolizione anche
se non autore dell’abuso edilizio commesso nella sua
proprietà.
Al riguardo, dunque, la legittimazione passiva del
proprietario è prevista espressamente dal suddetto comma 2
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 che trova,
evidentemente, la sua ratio nell’attenzione che il
proprietario, proprio in forza del suo diritto dominicale,
ha (o può e/o deve avere) di ciò che avviene nella sua
proprietà e nella consapevolezza avuta di ciò che prende dal
suo dante causa, per cui pure ad esso è imposto l’obbligo di
ripristino dello stato dei luoghi con l’eliminazione
dell’abuso edilizio, fatti salvi i rapporti interni con il
responsabile dell’abuso in ordine al risarcimento dei danni
e al rimborso delle spese sostenute.
---------------
Discorso diverso va fatto per il provvedimento di
acquisizione dei manufatti abusivi e della relativa area di
sedime al patrimonio comunale nelle ipotesi di mancata
demolizione ad opera dell’autore dell’illecito o del
proprietario.
In proposito l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, al comma 3,
dispone la menzionata acquisizione “se il responsabile
dell’abuso non provvede alla demolizione” ed, al comma 5,
stabilisce che “L’opera acquisita è demolita" a cura del
Comune ed a spese “dei responsabili dell’abuso”, salvo che
non si decida di conservarla se non contrasti con gli
interessi urbanistici o ambientali; e, dunque, al riguardo
viene richiamato il solo responsabile dell’abuso e non anche
il proprietario.
E, come ricorda la ricorrente, la Corte Costituzionale ha
posto in luce che l'acquisizione in parola non è “una misura
strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando poi il
sindaco (recte: Comune) ad una scelta fra la demolizione di
ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già
acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici”;
che “Da quanto precede deve dedursi che, essendo
l'acquisizione gratuita una sanzione prevista per il caso
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolire, essa, come
risulta dalla stessa formulazione del terzo comma dell'art.
7 della legge in questione (ora art. 31 del D.P.R. n.
380/2001), si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene
talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura
accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad
impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o
l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri
soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario
dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua
completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che,
essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento”; e
che “Di conseguenza appare evidente che, qualora non
ricorrano i presupposti per l'acquisizione gratuita del
bene, come nel caso in cui l'area sia di proprietà del
terzo, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico
violato dall'abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità
della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli
organi comunali di darvi esecuzione d'ufficio. E ciò senza
che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione
dell'area che, se di proprietà del terzo estraneo all'abuso,
deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo
eseguita d'ufficio la demolizione.”
Al riguardo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, anche di questo Tribunale, ha avuto modo di
affermare che in pendenza del procedimento di sanatoria, il
ricorso giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene
favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde
efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione
dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento,
al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di
un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in
quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente
provvedimento demolitorio (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV
–03/12/2010 n. 8502; TAR Piemonte-TO – Sez. I – 07/04/2011 n.
358; TAR Liguria Genova - sez. I - 28.01.2011 n.
169; TAR Lazio Roma - sez. II - 22.12.2010 n.
38234; TAR Campania Napoli - sez. VI - 25.10.2010 n.
21366; TAR Lombardia Milano - sez. IV – 08.09.2010
n. 5159; TAR Campania – SA – 22/02/2011 n. 350).
Invero, come la giurisprudenza ha pure posto in luce, non
appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli
di logicità e razionalità consentire, senza la previa
valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la
distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in
caso di conformità del manufatto alle previsioni
urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua
distruzione.
---------------
Al riguardo è
sufficiente ricordare che la giurisprudenza, condivisa da
questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che in materia
edilizia l’attività sanzionatoria è vincolata e non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può mai
legittimare (ex multis: Cons. di Stato - sez. VI – 04/03/2013
n. 1268).
----------------
Si deve
osservare che il comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001
prevedente la sanzione demolitoria-ripristinatoria -a
differenza del successivo comma 3 che indica il solo
responsabile dell’abuso a riguardo dell’acquisizione dei
beni abusivi al patrimonio comunale se non portati al
pristino stato– individua anche il proprietario come
destinatario e legittimato passivo del provvedimento di
demolizione anche se non autore dell’abuso edilizio commesso
nella sua proprietà.
Al riguardo, dunque, la legittimazione passiva del
proprietario è prevista espressamente dal suddetto comma 2
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 che trova,
evidentemente, la sua ratio nell’attenzione che il
proprietario, proprio in forza del suo diritto dominicale,
ha (o può e/o deve avere) di ciò che avviene nella sua
proprietà e nella consapevolezza avuta di ciò che prende dal
suo dante causa, per cui pure ad esso è imposto l’obbligo di
ripristino dello stato dei luoghi con l’eliminazione
dell’abuso edilizio, fatti salvi i rapporti interni con il
responsabile dell’abuso in ordine al risarcimento dei danni
e al rimborso delle spese sostenute (Cfr. anche TAR
Campania – NA – Sez. VII – 13/02/2013 n. 873; id. 22/3/2012
n. 1445; id. Sez. VI – 05/03/2012 n. 1099; id. TAR Calabria –
CZ – Sez. I – 12/04/2012 n. 369)
Discorso diverso va fatto per il provvedimento di
acquisizione dei manufatti abusivi e della relativa area di
sedime al patrimonio comunale nelle ipotesi di mancata
demolizione ad opera dell’autore dell’illecito o del
proprietario.
In proposito l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, al comma 3,
come innanzi si è accennato, dispone la menzionata
acquisizione “se il responsabile dell’abuso non provvede
alla demolizione” ed, al comma 5, stabilisce che “L’opera
acquisita è demolita" a cura del Comune ed a spese “dei
responsabili dell’abuso”, salvo che non si decida di
conservarla se non contrasti con gli interessi urbanistici o
ambientali; e, dunque, al riguardo viene richiamato il solo
responsabile dell’abuso e non anche il proprietario.
E, come ricorda la ricorrente, la Corte Costituzionale, con
la sentenza n. 345/1991, ha posto in luce che l'acquisizione
in parola non è “una misura strumentale, per consentire al
Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma
che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
poi il sindaco (recte: Comune) ad una scelta fra la
demolizione di ufficio e la conservazione del bene,
definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti
interessi pubblici”; che “Da quanto precede deve dedursi
che, essendo l'acquisizione gratuita una sanzione prevista
per il caso dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolire,
essa, come risulta dalla stessa formulazione del terzo comma
dell'art. 7 della legge in questione (ora art. 31 del D.P.R.
n. 380/2001), si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene
talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura
accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad
impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o
l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri
soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario
dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua
completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che,
essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento”; e
che “Di conseguenza appare evidente che, qualora non
ricorrano i presupposti per l'acquisizione gratuita del
bene, come nel caso in cui l'area sia di proprietà del
terzo, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico
violato dall'abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità
della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli
organi comunali di darvi esecuzione d'ufficio. E ciò senza
che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione
dell'area che, se di proprietà del terzo estraneo all'abuso,
deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo
eseguita d'ufficio la demolizione.”
Alla luce, dunque, dei suesposti parametri legislativi e
giurisprudenziali, nel caso in esame, nel quale la
ricorrente non risulta autrice dell’abuso perché
presumibilmente risalente al suo dante causa e pertanto
senza possibilità di opporvisi e nel quale essa è
comproprietaria e pertanto non avente la piena disponibilità
dei beni, il motivo di gravame esaminato appare fondato
nella parte volto avverso il provvedimento di acquisizione
dei manufatti al patrimonio comunale, ferma restando la
sanzione della demolizione da eseguirsi a cura di parte
ovvero, provenendo questa da provvedimento autoritativo con
valenza esecutoria, d’ufficio ed a spese della parte
privata (Cfr. anche TAR Sicilia – PA – Sez. III – 21/01/2013
n. 153; id. Campania - NA – Sez. II – 26/05/2004 n. 8998) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2013 n. 1592 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 11,
comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo.
Quindi, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre
l'onere di verificare la legittimazione del richiedente,
accertando che questi sia il proprietario dell'immobile
oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne
abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria.
---------------
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali
è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le
unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma
anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano
anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce,
due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1,
del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune
dei proprietari delle singole unità immobiliari che
compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono,
singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo
invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell’assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art.
1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è
stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere
autorizzatorio; sicché deve ritenersi che questi fosse privo
di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.
Decisivo, ai fini della soluzione della controversia, è il primo
motivo, avente carattere assorbente, con il quale la
ricorrente lamenta che il sig. L.L., odierno controinteressato, sarebbe stato privo della legittimazione
a richiedere il permesso di costruire poi rilasciato, atteso
che le opere che si intendono realizzare investono parti
comuni dell’edificio (nella specie il tetto), e che quindi
la richiesta avrebbe dovuto essere preceduta da una delibera
condominiale di contenuto autorizzatorio.
In proposito, va osservato che, in base all’art. 11, comma
primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi
abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012
n. 1990).
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali
è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le
unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma
anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano
anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce,
due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1,
del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune
dei proprietari delle singole unità immobiliari che
compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono,
singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo
invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell’assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art.
1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è
stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere
autorizzatorio; sicché deve ritenersi, conformemente a
quanto sostenuto dalla ricorrente, che questi fosse privo di
legittimazione a richiedere il titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.07.2013 n. 1820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quanto alla doglianza che investe la mancata
liquidazione delle spese del giudizio a fronte della
soccombenza, deve ribadirsi, come da concorde
giurisprudenza, la più ampia discrezionalità del giudice del
merito di ripartire fra le parti l’onere delle spese
sostenute per la partecipazione al giudizio, salvo un
controllo estrinseco in sede di appello in ordine alla
corretta applicazione dei canoni di ragionevolezza e di
proporzionalità, che nella specie, in relazione
all’effettivo svolgimento del giudizio e della peculiarità
della materia oggetto del contendere, non si configurano
violati.
Quanto alla doglianza che investe la mancata liquidazione
delle spese del giudizio a fronte della soccombenza dell’a.t.i.
ricorrente in prime cure deve ribadirsi, come da concorde
giurisprudenza, la più ampia discrezionalità del giudice del
merito di ripartire fra le parti l’onere delle spese
sostenute per la partecipazione al giudizio, salvo un
controllo estrinseco in sede di appello in ordine alla
corretta applicazione dei canoni di ragionevolezza e di
proporzionalità, che nella specie, in relazione
all’effettivo svolgimento del giudizio e della peculiarità
della materia oggetto del contendere, non si configurano
violati (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.07.2013 n. 3568 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
L’indicazione in sede di
offerta degli oneri aziendali di sicurezza, non soggetti a
ribasso, costituisce –sia nel comparto dei lavori che in
quelli dei servizi e delle forniture- un adempimento imposto
dagli artt. 86, co. 3-bis, e 87, co. 4, del d.lgs.
12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii. all’evidente scopo di consentire
alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di
verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei
fondamentali interessi dei lavoratori in relazione
all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o
fornitura da affidare.
Stante la natura di obbligo legale rivestita
dall’indicazione, resta irrilevante la circostanza che la
lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima
indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia
legis.
Poiché la medesima indicazione riguarda l’offerta, non può
ritenersene consentita l’integrazione mediante esercizio del
potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante
(ex art. 46, co. 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006), pena
la violazione della par condicio tra i concorrenti.
Nel merito, il primo, articolato motivo di gravame è
infondato alla stregua dei principi affermati dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 23.07.2010 n. 4849,
08.02.2011 n. 846 e 29.02.2012 n. 1172, nonché sez. III, 03.10.2011 n. 5421),
pienamente condivisi dal Collegio, secondo cui:
- l’indicazione in sede di offerta degli oneri aziendali di
sicurezza, non soggetti a ribasso, costituisce –sia nel
comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle
forniture- un adempimento imposto dagli artt. 86, co. 3-bis, e 87, co. 4, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii.
all’evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di
adempiere al suo onere di verificare il rispetto di norme
inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei
lavoratori in relazione all’entità ed alle caratteristiche
del lavoro, servizio o fornitura da affidare;
- stante la natura di obbligo legale rivestita
dall’indicazione, resta irrilevante la circostanza che la
lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima
indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una
ignorantia legis;
- poiché la medesima indicazione riguarda l’offerta, non può
ritenersene consentita l’integrazione mediante esercizio del
potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante
(ex art. 46, co. 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006), pena
la violazione della par condicio tra i concorrenti (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.07.2013 n. 3565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La dimostrazione della
tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena
conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al
destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la
tardività dell'impugnazione.
In particolare, la conoscenza effettiva e completa del
titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con
l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non
solo con il loro inizio; ai fini della tempestività
dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a
ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il
termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione
medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori,
ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli
in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera
agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che
la prova della tardività dell'impugnazione deve essere
fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali,
alla parte che la deduce.
In punto di diritto, si osserva che (così, tra tante,
Consiglio di Stato sez. IV, 19.12.2012, n. 6557), in
base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della
prova, ex art. 2697 c.c., la dimostrazione della tardività
del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza
degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario,
deve essere fornita da chi eccepisce la tardività
dell'impugnazione; in particolare, la conoscenza effettiva e
completa del titolo edilizio da parte del terzo si verifica
di regola con l'ultimazione dei lavori di costruzione
dell'immobile, e non solo con il loro inizio; ai fini della
tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte
del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale
decorre il termine decadenziale per la proposizione
dell'impugnazione medesima va riferita al momento
dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la
costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le
caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua
eventuale difformità rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova
della tardività dell'impugnazione deve essere fornita
rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla
parte che la deduce (Consiglio di Stato sez. IV, 07.11.2012, n. 5657).
Nella specie, il termine non poteva che decorrere dalla
ultimazione dei lavori, potendosi desumere soltanto a quella
data la significativa alterazione planivolumetrica delle
caratteristiche dell’edificio costruito rispetto al
preesistente.
Né ha senso limitarsi a valutare le censure di non
edificabilità per rispetto della fascia cimiteriale, sia
perché anche esse non escludono del tutto la edificabilità
(come deduce nei riproposti motivi l’appellato) vietando
certamente la ipotesi di notevole aumento di volume, sia
perché tale valutazione in senso limitativo riguarderebbe,
evidentemente, solo una parte delle censure proposte nel
ricorso originario.
E’ evidente che la percezione del superamento dei limiti di
altezza e volume nella consistenza lamentata non poteva che
avvenire a costruzione pressoché ultimata e non ad inizio
dei lavori (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2013 n. 2974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La consulenza tecnica di
ufficio non è un mezzo di prova vero e proprio, ma uno
strumento istruttorio per la soluzione, sulla scorta delle
acquisizioni di causa, di questioni di carattere non
strettamente giuridico con l'ausilio di un soggetto
tecnicamente qualificato.
Al pari di ogni altro mezzo istruttorio il giudice di merito
dispone di un'ampia sfera di apprezzamento discrezionale
sull'opportunità di disporre o non la consulenza tecnica di
ufficio e la scelta se avvalersene o non è sindacabile solo
entro limiti molto ristretti.
Deve anche richiamarsi il principio pacifico di giurisprudenza
secondo cui la consulenza tecnica di ufficio (da ultimo, tra
tante, Consiglio di Stato sez. III, 30.10.2012, n.
5542) non è un mezzo di prova vero e proprio, ma uno
strumento istruttorio per la soluzione, sulla scorta delle
acquisizioni di causa, di questioni di carattere non
strettamente giuridico con l'ausilio di un soggetto
tecnicamente qualificato; al pari di ogni altro mezzo
istruttorio il giudice di merito dispone di un'ampia sfera
di apprezzamento discrezionale sull'opportunità di disporre
o non la consulenza tecnica di ufficio e la scelta se
avvalersene o non è sindacabile solo entro limiti molto
ristretti (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2013 n. 2974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
●
Il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione
di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto
libera e priva di vincoli, non potendo comportare la
vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini
l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa
soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio,
una inammissibile vulnerazione delle prerogative di
autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali,
ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole
generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato
assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo
di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati
dalla strumentazione urbanistica.
●
Il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario
-comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la
circostanza che tale modifica avvenga o meno con
l’effettuazione di opere edilizie.
La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della
concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale
tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece
sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso
sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non
implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio
del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di
concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto
dell’area.
Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia
edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari
caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione
del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto
essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il
regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che
occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un
mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un
organismo in tutto o in parte nuovo.
●
La nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le
categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le
singole zone territoriali omogenee.
---------------
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra
categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò,
comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la
circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con
l’effettuazione di opere edilizie.
E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del
provvedimento con il quale la resistente amministrazione
comunale di Avellino ha sanzionato, con l’ingiunzione del
ripristino dello stato dei luoghi, il mutamento di
destinazione d’uso dell’appartamento di proprietà del
ricorrente, sito al secondo piano di via ..., siccome
adibito, senza preventiva autorizzazione, a studio
commerciale in luogo dell’originaria destinazione
residenziale.
L’ordinanza è contestata dal ricorrente che oppone
l’esistenza di un mero mutamento funzionale dell’immobile,
realizzato senza opere edilizie, in conformità alla
normativa urbanistica vigente nel 1997, epoca dell’avvenuto
mutamento.
In sostanza, i ricorrenti invocano la costante
giurisprudenza del Giudice Amministrativo (sin da Cons.
Stato, sez. IV, 27.07.1982, n. 525) secondo cui «il
semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza
opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento
urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale,
non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga
l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade»
(così TAR Lazio-Roma, sez. I-quater, 24.05.2011, n. 4622);
Sostengono che, all'epoca dell'indicato cambiamento di
destinazione d'uso (da residenziale a studio professionale)
la Regione Campania non aveva ancora legiferato in materia
e, comunque, l’attività di studio professionale impressa
all’immobile fin dal 1977 era conforme alle previsioni
dell'allora vigente Piano Regolatore Generale di Avellino,
siccome ricadente in zona “B - residenziale”.
La tesi attorea, pur finemente esposta e doviziosamente
argomentata, non ha pregio atteso che la giurisprudenza ha
chiarito che:
- il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Cons. St. Sez. I 25.05.2012 n.
759; Cons. St. Sez. V 10.07.2003 n. 4102; 03.01.1998 n. 24;
28.05.2010 n. 3420);
- il cambio di categoria edilizia, da residenziale a
terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa
dotazione di standards, specie di parcheggi- rende
ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno
con l’effettuazione di opere edilizie. La giurisprudenza,
dunque, afferma la necessità della concessione edilizia
(oggi permesso di costruire) per tale tipologia di
interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente
laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato
effettuato senza opere evidenti in quanto non implica
necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del
territorio comunale e, come tale, non abbisogna di
concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto
dell’area. Più precisamente la Cassazione ha sancito che in
materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari
caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione
del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto
essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il
regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che
occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un
mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un
organismo in tutto o in parte nuovo (cfr. Cass. Pen., sez.
III, 15.03.2002, n. 19378);
- la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le
categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le
singole zone territoriali omogenee (cfr. Cons. St., sez. V,
07.09.2004, n. 5867);
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra
categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò,
comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la
circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con
l’effettuazione di opere edilizie
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento perché
trattasi di atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Quanto, infine, alla
dedotta violazione dell’indefettibile modulo partecipativo
ex art. l. n. 47/1985, è appena il caso di osservare che,
per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di
atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere abusivo delle medesime (ex
multis Tar Lombradia–Brescia, Sez. I, 25.11.2011 n.
1632)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’edificazione
di aree è condizionata quantitativamente, nello strumento
urbanistico, dagli indici di densità. Tra questi, la densità
territoriale indica la quantità massima di volumi
realizzabili in una zona territoriale omogenea, ovvero un
comprensorio di terreno caratterizzato da una medesima
qualità urbanistica, mentre la densità fondiaria indica il
volume massimo realizzabile su uno specifico lotto, in
funzione della prima.
Ogni lotto di terreno edificabile esprime, o meglio
possiede, dunque, una propria caratteristica “vocazione” o
possibilità edificatoria che si esprime in termini di
cubatura ammissibile o consentita.
Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza, la cubatura che
un terreno esprime o possiede può essere alienata o ceduta
indipendentemente dalla alienazione o dalla cessione del
terreno medesimo, a determinate condizioni. Questo perché
dovrebbe riconoscersi che la cubatura (ossia, lo si ripete,
la possibilità di edificare un determinato volume edilizio)
pur se intrinsecamente collegata al terreno che la esprime,
costituisce una utilità separata da questo, autonomamente
valutabile e con una propria commerciabilità e
patrimonialità.
La cubatura espressa dal terreno può dunque essere oggetto
di un contratto di trasferimento con il quale il
proprietario di un’area trasferisce a titolo oneroso parte
delle sue possibilità edificatorie ad altro soggetto allo
scopo di consentire a quest’ultimo di realizzare, nell’area
di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel
rispetto dell’indice di densità fondiaria.
L’area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene,
per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale
inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che
inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al
trasferimento di questa, opponibile, dunque, anche ai terzi,
sebbene la sua sussistenza non sia evincibile secondo il
sistema della trascrizione immobiliare, non richiesta per la
cessione in sé (fermo restando che, laddove necessaria per
il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la
relativa cessione risulterà dalla trascrizione). Tuttavia,
l’esistenza dell’asservimento deve risultare dal certificato
di destinazione urbanistica dell’area, ex art. art. 30,
comma 2, d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Per la giurisprudenza amministrativa, la legittimità della
cessione di cubatura, ai fini dello sfruttamento della
cubatura ceduta in un progetto edilizio da parte
dell’acquirente, è legata a due condizioni e cioè la
omogeneità dell’area territoriale entro la quale si trovano
i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura
oggetto del contratto) e la contiguità dei due fondi.
Il primo requisito è volto ad assicurare che non si
stravolgano le previsioni di piano, che sono legate alla
rilevazione della volumetria esistente, in modo da
determinare, secondo gli standard del d.m. 1444/1968, a
quale tipologia di comparto edificabile appartiene l’area;
se fosse ammessa la cessione di cubatura tra fondi aventi
qualificazione urbanistica di ZTO differenti si otterrebbe
che l’indice di densità territoriale potrebbe essere
alterato o superato nei limiti massimi.
Il secondo requisito non è inteso dalla
giurisprudenza come una condizione fisica (ossia contiguità
territoriale) ma giuridica, e viene a mancare quando tra i
fondi sussistano una o più aree aventi destinazioni
urbanistiche incompatibili con l’edificazione.
In altri termini, è necessario che le stesse aree siano se
non contigue almeno significativamente vicine, non potendosi
accomunare sotto un regime urbanistico unitario aree
ricadenti in zone urbanistiche non omogenee.
In altri termini, come la giurisprudenza del Giudice di
seconde cure ha condivisibilmente ritenuto in fattispecie di
distanza pari a 35 ml, la contiguità dei fondi non deve
intendersi nel senso della adiacenza, ossia della continuità
fisica tra tutte le particelle catastali interessate, bensì
come effettiva e significativa vicinanza tra i fondi
asserviti per raggiungere la cubatura.
Con riguardo al tema della cessione di cubatura, tuttavia,
va posto in rilievo come la giurisprudenza abbia precisato
che <<l’edificazione di aree è condizionata
quantitativamente, nello strumento urbanistico, dagli indici
di densità. Tra questi, la densità territoriale indica la
quantità massima di volumi realizzabili in una zona
territoriale omogenea, ovvero un comprensorio di terreno
caratterizzato da una medesima qualità urbanistica, mentre
la densità fondiaria indica il volume massimo realizzabile
su uno specifico lotto, in funzione della prima.
Ogni lotto di terreno edificabile esprime, o meglio
possiede, dunque, una propria caratteristica “vocazione” o
possibilità edificatoria che si esprime in termini di
cubatura ammissibile o consentita.
Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza, la cubatura che
un terreno esprime o possiede può essere alienata o ceduta
indipendentemente dalla alienazione o dalla cessione del
terreno medesimo, a determinate condizioni.
Questo perché dovrebbe riconoscersi che la cubatura (ossia,
lo si ripete, la possibilità di edificare un determinato
volume edilizio) pur se intrinsecamente collegata al terreno
che la esprime, costituisce una utilità separata da questo,
autonomamente valutabile e con una propria commerciabilità e
patrimonialità.
La cubatura espressa dal terreno può dunque essere oggetto
di un contratto di trasferimento con il quale il
proprietario di un’area trasferisce a titolo oneroso parte
delle sue possibilità edificatorie ad altro soggetto allo
scopo di consentire a quest’ultimo di realizzare, nell’area
di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel
rispetto dell’indice di densità fondiaria.
L’area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene,
per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale
inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che
inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al
trasferimento di questa, opponibile, dunque, anche ai terzi,
sebbene la sua sussistenza non sia evincibile secondo il
sistema della trascrizione immobiliare, non richiesta per la
cessione in sé (fermo restando che, laddove necessaria per
il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la
relativa cessione risulterà dalla trascrizione). Tuttavia,
l’esistenza dell’asservimento deve risultare dal certificato
di destinazione urbanistica dell’area, ex art. art. 30,
comma 2, d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Per la giurisprudenza amministrativa, la legittimità della
cessione di cubatura, ai fini dello sfruttamento della
cubatura ceduta in un progetto edilizio da parte
dell’acquirente, è legata a due condizioni e cioè la
omogeneità dell’area territoriale entro la quale si trovano
i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura
oggetto del contratto) e la contiguità dei due fondi.
Il primo requisito è volto ad assicurare che non si
stravolgano le previsioni di piano, che sono legate alla
rilevazione della volumetria esistente, in modo da
determinare, secondo gli standard del d.m. 1444/1968, a
quale tipologia di comparto edificabile appartiene l’area;
se fosse ammessa la cessione di cubatura tra fondi aventi
qualificazione urbanistica di ZTO differenti si otterrebbe
che l’indice di densità territoriale potrebbe essere
alterato o superato nei limiti massimi.
Il secondo requisito non è inteso dalla
giurisprudenza come una condizione fisica (ossia contiguità
territoriale) ma giuridica, e viene a mancare quando tra i
fondi sussistano una o più aree aventi destinazioni
urbanistiche incompatibili con l’edificazione.
In altri termini, è necessario che le stesse aree siano se
non contigue almeno significativamente vicine, non potendosi
accomunare sotto un regime urbanistico unitario aree
ricadenti in zone urbanistiche non omogenee (Tar Campania
Napoli, VIII, 15.05.2008, n. 4549).
In altri termini, come la giurisprudenza del Giudice di
seconde cure ha condivisibilmente ritenuto in fattispecie di
distanza pari a 35 ml, la contiguità dei fondi non deve
intendersi nel senso della adiacenza, ossia della continuità
fisica tra tutte le particelle catastali interessate, bensì
come effettiva e significativa vicinanza tra i fondi
asserviti per raggiungere la cubatura (cfr. Consiglio Stato,
V, 30.10.2003, n. 6734).
Facendo applicazione dei predetti principi, il concetto di
vicinanza, invero relativo, appare rispettato nel caso di
specie, trattandosi di fondi, per altro di proprietà della
ricorrente, distanti dai 21 ai 40 ml.>> (Tar Sicilia
Catania, I, 12.10.2010, n. 4113)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza
07.05.2012 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento d’uso di cui è causa è avvenuto
senza esecuzione di alcuna opera edilizia e, all’epoca dei
fatti, non era ancora stata promulgata per la Regione
Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n.
47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da
subordinare a concessione e quali ad autorizzazione.
Ciò premesso, dopo le sentenze della Corte Costituzionale
11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in
giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il
mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere
edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e
non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge
regionale, vale il principio che il mutamento di
destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in
linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto,
incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione
urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente
funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di
proprietà e di impresa.
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione
riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente,
non può che essere registrata la presa di posizione,
applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa,
secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione
e, neppure, ad autorizzazione edilizia.
---------------
Va chiarito come, se da un lato, la circostanza che
le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione,
dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa
giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario
accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici.
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla
realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto
per il pagamento della parte di contributo afferente al
costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della
realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che
attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il
presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo
all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla
nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro,
ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia
riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico
urbanistico”.
Rileva il Collegio che:
a) in punto di fatto, risulta incontroverso tra le parti che
il mutamento d’uso di cui è causa, sia avvenuto senza
esecuzione di alcuna opera edilizia;
b) in punto di diritto, all’epoca dei fatti non era ancora
stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui
l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine
di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a
concessione e quali ad autorizzazione;
c) sempre in punto di diritto, dopo le sentenze della Corte
Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è
pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato
stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato
senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e
nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice
autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di
apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento
di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in
linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto,
incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione
urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente
funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di
proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365; sez. V 18.01.1988
n. 8).
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione
riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente,
non può che essere registrata la presa di posizione,
applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa,
secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione
e, neppure, ad autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n.
341; id., 01.10.1993, n. 818; nonché, di recente, TAR
Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699; TAR Lazio, sez. II, 03.03.2008 n.1973).
---------------
Quanto ai
pretesi oneri di urbanizzazione, il Collegio osserva quanto
segue.
Nel caso di modificazione della destinazione d'uso senza
opere edilizie, cui sia ascrivibile un maggior carico
urbanistico, sarebbe senz’altro integrato il presupposto che
giustifica l'imposizione, al titolare del bene, del
pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione
dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa. E,
tuttavia, rileva il Collegio come occorra, da parte
pubblica, fornire un adeguato riscontro di tale maggior
carico urbanistico ascrivibile alla nuova destinazione.
In altri termini, riepilogando sul punto, va chiarito come,
se da un lato, la circostanza che le modifiche di
destinazione d'uso senza opere non siano soggette a
preventiva concessione o autorizzazione sindacale non
comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione,
dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa
giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario
accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici (cfr., in tal senso, TAR
Lombardia Brescia, 07.11.2005 , n. 1115).
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla
realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto
per il pagamento della parte di contributo afferente al
costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della
realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che
attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il
presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo
all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla
nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro,
ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia
riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico
urbanistico” (così TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005 ,
n. 3844)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 04.05.2009 n. 3604 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2013 |
ã |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo
bottone:
dossier DEBITI FUORI BILANCIO |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
R. Lasca,
Incarichi fiduciari a dirigenti precari negli EE.LL.: chi è
che sosteneva che erano sempre e comunque illegittimi?
(09.10.2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: art. 32 del d.lgs. n. 151 del 2001 - art. 1,
comma 339, della l. n. 228 del 2012 - fruizione ad ore del
congedo parentale (nota
07.10.2013 n. 45298 di prot.). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.L. 19.06.2013, n. 69, convertito in legge
09.08.2013, n. 98. Terre e rocce da scavo, articoli 41 e
41-bis. Indirizzi operativi (Regione Veneto, Segreteria
Regionale per l'Ambiente, Direzione Tutela Ambiente,
nota 23.09.2013 n. 397711 di prot.).
Si vedano anche:
►
MODELLO 1 - DA UTILIZZARE PER LA COMUNICAZIONE
ALL’ARPAV AI SENSI DELL’ART. 41-BIS, COMMA 1, DELLA LEGGE N.
98/2013 E PER LE EVENTUALI MODIFICHE
►
MODELLO 2 - DA UTILIZZARE PER LA
COMUNICAZIONE ALLE AUTORITA’ COMPETENTI AI SENSI DELL’ART.
41BIS, COMMA 3, DELLA LEGGE N. 98/2013, DELLA CONFERMA DEL
COMPLETO UTILIZZO DEI MATERIALI DA SCAVO: - ARPAV - COMUNE
DI PRODUZIONE - COMUNE/I DI UTILIZZO |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abc dei Diritti: il Dizionario on-line.
La Funzione Pubblica CGIL mette a disposizione questo
dizionario on-line dei diritti delle lavoratrici e dei
lavoratori che raccoglie oltre 600 voci: maternità,
malattia, infortunio, tipologie di rapporto di lavoro,
pensioni, licenziamenti, dimissioni, ferie, permessi e
congedi, diritti di cittadinanza, diritti sociali, diritti
sindacali, ecc..
Per le singole voci sono indicate le principali fonti di
riferimento a cui è possibile accedere direttamente.
Questo sito mette a disposizione informazioni e chiarimenti
sui diritti dei lavoratori in modo rigoroso e con un
linguaggio accessibile a tutti.
Ogni voce è affrontata con diversi livelli di
approfondimento, con schede sintetiche destinate ad un
utente in cerca di informazioni e chiarimenti di carattere
generale e con schede di approfondimento orientate ad un
pubblico con conoscenze più specifiche (Delegati, Dirigenti
sindacali, ecc).
Uno strumento di consultazione accessibile a tutte e a tutti
per orientarsi nel mondo del lavoro e dei diritti, nel
sistema di welfare.
Innovativo, unico nella rete, si rivolge a tutte le
lavoratrici e i lavoratori, le delegate e i delegati
sindacali nei luoghi di lavoro, i componenti dei comitati
degli iscritti, i dirigenti sindacali (link a
www.fpcgil.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
settembre 2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: istruzioni operative (ANCE Bergamo,
circolare 04.10.2013 n. 223) |
ENTI
LOCALI:
OGGETTO: Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente.
Pubblicazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, n. 109 in data 23.08.2013, recante disposizioni
per la prima attuazione dell' articolo 62 del decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, come modificato dall'articolo
2, comma 1, del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, convertito
dalla legge 17.12.2012, n. 221, che istituisce l'Anagrafe
Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) (Ministero
dell'Interno,
circolare 03.10.2013 n.
19/2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Tosiani,
Delega di funzioni nell’amministrazione pubblica e nelle
scuole (09.10.2013 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
PRIME INDICAZIONI PER L’APPLICAZIONE DELLE MODIFICAZIONI
INTRODOTTE ALL’ART. 82 DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
DALLA LEGGE 09.08.2013 N. 98 DI CONVERSIONE DEL DL 69/2013
(ITACA, 19.09.2013).
---------------
L’art. 32, comma 7-bis della legge 09.08.2013, n.98 di
conversione del decreto legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
entrato in vigore lo scorso 21 agosto, ha introdotto il
nuovo comma 3-bis all’art. 82 del D.Lgs. 163/2006.
Tale nuova disposizione normativa inerente al criterio del
prezzo più basso valutato anche sulla base del costo del
personale e degli adempimenti in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro, sta producendo delle
importanti ripercussioni nel settore degli appalti pubblici.
La norma, volta a migliorare le condizioni di lavoro nel
mercato dei contratti pubblici, non prevedendo un periodo
transitorio, è in vigore dal giorno successivo alla sua
pubblicazione in gazzetta ufficiale (21/08/2013).
Il Gruppo di lavoro interregionale “Contratti pubblici”
presso ITACA, ha realizzato un primo contributo operativo a
supporto dell’attività delle stazioni appaltanti nella
delicata applicazione della nuova disciplina normativa,
soprattutto per quanto riguarda le modifiche e integrazioni
da apportare ai documenti costituenti i bandi e la gestione
delle gare. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
09.10.2013 n. 237 "Approvazione dell’Atto aggiuntivo alla
Convenzione 29.08.2013 disciplinante i criteri per l’accesso
all’utilizzo delle risorse degli interventi che fanno parte
del primo Programma «6000 Campanili»" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 26.09.2013).
---------------
Sulla materia, si legga tutta la normativa aggiornata ad
oggi -e relativa modulistica- reperibile
cliccando qui circa la pagina web opportunamente
dedicata da parte del Ministero. |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
08.10.2013 n. 236 "Testo
del decreto-legge 08.08.2013, n. 91, coordinato con la legge
di conversione 07.10.2013, n. 112, recante:
«Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il
rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo»".
-----------------
Di particolare interesse, si leggano i
seguenti articoli:
● Art. 2-bis - Modifiche
all’articolo 52 del codice dei beni culturali e del
paesaggio
● Art. 3-quater - Autorizzazione paesaggistica
● Art. 4-bis - Decoro dei complessi monumentali ed altri
immobili
● Art. 6 - Disposizioni urgenti per la realizzazione di
centri di produzione artistica, nonché di musica, danza e
teatro contemporanei |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'08.10.2013,
"Differimento dei termini di consegna delle informazioni
geografiche relative alle reti e alle infrastrutture del
sottosuolo previsti dalla d.g.r. 02.07.2012 n. 3692" (deliberazione
G.R. 04.10.2013 n. 754). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 07.10.2013, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.09.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 01.10.2013 n. 116). |
TRIBUTI:
G.U. 04.10.2013 n. 233 "Ripartizione del contributo ai
comuni per il ristoro del minor gettito IMU 2013" (Ministero
dell'Interno,
decreto 27.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 04.10.2013, "Sesto
aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 02.10.2013 n. 8765). |
VARI:
G.U. 03.10.2013 n. 232 "Regolamento recante norme per la
progressiva dematerializzazione dei contrassegni di
assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi per
danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore su
strada, attraverso la sostituzione degli stessi con sistemi
elettronici o telematici, di cui all’articolo 31 del
decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27" (Ministero
dello Sviluppo Economico,
decreto 09.08.2013 n. 110). |
ENTI
LOCALI - VARI:
G.U. 01.10.2013 n. 230
"Regolamento recante disposizioni per la prima attuazione
dell’articolo 62 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82,
come modificato dall’articolo 2, comma 1, del decreto-legge
18.10.2012, n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n.
221, che istituisce l’Anagrafe Nazionale della Popolazione
Residente (ANPR)" (D.P.C.M.
23.08.2013 n. 109). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
01.10.2013 n. 230 "Regolamento sugli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione" (Commissione
di Garanzia dell'Attuazione della Legge sullo Sciopero nei
Servizi Pubblici essenziali,
regolamento 09.09.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
30.09.2013 n. 229 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato, individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di
finanza pubblica)"
(ISTAT). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Domanda
In quali casi un Giudice può legittimare un'Associazione
locale all'impugnazione degli atti amministrativi a tutela
dell'ambiente?
Risposta
Ad esempio quando non si denunci la diretta lesione di un
bene ambientale in senso stretto, ma ci si limiti a
contestare alcune scelte gestionali degli enti coinvolti, la
giurisprudenza (TAR Piemonte Torino Sez. I, 04.09.2009, n.
2258) ha ritenuto che l'incidenza sull'ambiente sia del
tutto ipotetica e indiretta e non ha attenga con le ragioni
di tutela per cui è riconosciuta ex lege la
legittimazione delle associazioni di protezione ambientale.
Altra giurisprudenza (TAR Veneto Venezia Sez. II Sent.,
11.07.2008, n. 1993) ha chiarito che la legittimazione
attribuita alle associazioni ambientaliste non può, dunque,
giustificare l'impugnazione di atti aventi valenza meramente
urbanistica, senza che ne sia dimostrata, in concreto, la
contestuale incidenza negativa su valori ambientali, cosa
che nella specie è avvenuta, in quanto si agisce contro una
supposta minaccia al bene ambientale nella sua integralità.
Le associazioni di protezione ambientale a carattere
nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni sono
individuate con decreto del Ministro dell'ambiente sulla
base delle finalità programmatiche e dell'ordinamento
interno democratico previsti dallo statuto, nonché della
continuità dell'azione e della sua rilevanza esterna, previo
parere del Consiglio nazionale per l'ambiente (L.
08.07.1986, n. 349, art. 13).
L'elenco è pubblicato sul sito istituzionale del Ministero
(http://www.minambiente.it) (08.10.2013 - tratto da
www.ispoa.it). |
URBANISTICA: Piani
regolatori particolareggiati.
Domanda
Per i piani regolatori particolareggiati è necessaria la
valutazione ambientale strategica (Vas).
Risposta
Nel settore ambientale, «piani» e «programmi» hanno lo scopo
di enucleare la funzione programmatica dell'azione della
Pubblica amministrazione. Con essi, la Pubblica
amministrazione viene a organizzare una serie di condotte e
di decisioni degli organi pubblici in modo coordinato e
convergente.
L'articolo 3 della direttiva 2001/41/CE dispone che gli
Stati membri, per «piani» e «programmi» che possono incidere
in modo significativo sull'ambiente, devono sottoporre detti
«piani» e «programmi» alla valutazione ambientale strategica
(Vas).
L'articolo 3 della citata direttiva 2001/41/CE dispone al
riguardo che, fatto salvo il paragrafo 3, «viene effettuata
una valutazione ambientale per tutti i piani e i programmi
che sono elaborati per i settori agricolo, forestale, della
pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della
gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni,
turistico, della pianificazione territoriale o della
destinazione dei suoli e che definiscono il quadro di
riferimento per l'autorizzazione dei progetti elencati negli
allegati I e II della direttiva 85/337/CEE o, per i quali,
in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene
necessaria una valutazione ai sensi degli articoli 6 o 7
della direttiva 92/43/CEE».
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione IV,
con la sentenza del 22.03.2012, (causa C-567/10) ha
affermato che la nozione di «piani» e «programmi» previsti
da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative,
di cui all'articolo 2, lettera a), della direttiva
2001/42/CE, si applica ai piani regolatori
particolareggiati, per cui essi sono sottoposti alla
valutazione ambientale strategica (Vas).
La valutazione ambientale strategica (Vas), per i citati
Giudici, è, infatti, un processo a supporto dell'attività di
gestione del territorio e delle connesse scelte di
programmazione e di pianificazione e si radica con lo
strumento del piano o del programma urbanistico-territoriale.
Essa, pertanto, per la suddetta Corte di giustizia delle
Comunità europee, trova applicazione anche in caso di
modifica o abrogazione, totale o parziale dello strumento di
pianificazione: modifica o abrogazione che può comportare
effetti significativi sull'ambiente, per cui è sempre
necessaria una nuova valutazione ambientale strategica (Vas),
che per la sua connotazione duttile e plasmabile si
differenzia dalla valutazione di impatto ambientale (Via),
che va riferita a singoli progetti per i quali è richiesto
un approccio più circoscritto e unidirezionale
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Attività
ambulante.
Domanda
In qualità di ambulante per la raccolta ed il trasporto di
rifiuti ferrosi sono soggetto alla normativa di cui al
decreto legislativo numero 152 del 2006?
Risposta
L'articolo 28 del decreto legislativo numero 114 del 1998
prevede che: «Il commercio su aree pubbliche può essere
svolto (_) su qualsiasi area purché in forma itinerante.
L'esercizio dell'attività di cui al comma 1 è soggetta ad
apposita autorizzazione rilasciata a persone fisiche o a
società di persona regolarmente costituite secondo le norme
vigenti. L'autorizzazione all'esercizio dell'attività di
vendita sulle aree pubbliche esclusivamente in forma
itinerante è rilasciata in base alla normativa emanata dalla
Regione, dal Comune nel quale il richiedente ha la
residenza, se persona fisica, o la sede legale».
La Corte di cassazione, sezione terza penale, con la
sentenza del 27.06.2012, numero 25370, ha affermato che
l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
prodotti da terzi effettuata in forma ambulante non
configura il reato di gestione di rifiuti non autorizzata,
di cui all'articolo 266, comma 5, del decreto legislativo
numero 152, del 2006, sempre che il soggetto sia abilitato
all'esercizio dell'attività in forma ambulante e che si
tratti di rifiuti che formino oggetto del suo commercio.
La
norma citata dai Supremi Giudici prevede, come eccezione
alla regola generale, che alle attività di raccolta e
trasporto in forma ambulante non si applichi la disciplina
dei rifiuti di cui agli articoli 189, 190, 193, 212 del
citato decreto legislativo numero 152, del 2006, relative
alla compilazione del modello unico di dichiarazione
ambientale, alla tenuta del registro di carico e scarico,
alla compilazione dei formulari di trasporto dei rifiuti e
all'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali,
sempre che il soggetto, come su detto, sia abilitato
all'esercizio dell'attività in forma ambulante e che si
tratti di rifiuti che formino oggetto del suo commercio.
Con detta pronuncia, la Corte di cassazione viene a
confermare un costante indirizzo giurisprudenziale secondo
il quale non sussiste il reato per gli ambulanti muniti dei
titoli abilitativi all'esercizio del commercio, atteso che
per essi non sussistono quegli obblighi che il decreto
legislativo numero 152 del 2006, pone a carico di coloro che
esercitano professionalmente il trasporto per conto terzi
dei rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Sportello unico per l'edilizia.
Domanda
Con lo Sportello unico per l'edilizia, l'autorizzazione
paesaggistica deve essere richiesta dal Comune o dal privato
cittadino?
Risposta
L'articolo 5, comma 1, del decreto Presidente della
Repubblica del 06.06.2001, numero 380, prevede che le
Amministrazioni comunali, nell'ambito della propria
autonomia organizzativa, provvedono a costituire un ufficio
denominato Sportello unico per l'edilizia che ha l'onere di
curare tutti i rapporti tra il privato e l'Amministrazione
e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della
richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività.
Il Consiglio di Stato, sezione quarta, con la sentenza del
30.07.2012, numero 4312, ha affermato che il Comune è
tenuto ad acquisire soltanto tutti i pareri e nulla osta di
carattere endoprocedimentale tesi al rilascio del permesso
edilizio. Fra questi pareri, per il Consiglio di Stato, non
può essere inclusa l'autorizzazione paesaggistica.
Però, di recente, il legislatore, con il decreto legge 22.06.2012, numero 83, convertito con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, numero 134, rafforzando il ruolo dello
Sportello Unico, prevede espressamente che detto Ufficio
debba acquisire tutti gli atti di assenso, comunque
denominati, delle Amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e del patrimonio
storico artistico, nonché degli atti di assenso previsti per
immobili vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e
del paesaggio di cui al decreto legislativo numero 42, del
2004, anche mediante l'istituto della Conferenza di servizi,
prevista dalla legge numero 241, del 1990 .
È da dire, per chiarezza, che l'autorizzazione
paesaggistica, volta alla tutela, conservazione
preservazione dell'ambiente e dei beni culturali, è distinta
dal permesso di costruire, che è preposto alla tutela e al
governo dello sviluppo del territorio e del corretto
estrinsecarsi dell'ius aedificandi
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.09.2013). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f),
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - “Redazione
degli atti di pianificazione e riconoscimento dell’incentivo
ex art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163”.
...
Considerazioni finali.
Come illustrato nelle premesse, gli operatori del settore
(incluse Associazioni di categoria) hanno rappresentato
all’Autorità le difficoltà applicative della disposizione di
cui all’art. 92, comma 6, del Codice, stante il generico
riferimento agli “atti di pianificazione comunque
denominati” ivi contenuto e la non conformità degli
indirizzi sopra illustrati in ordine alla relativa
interpretazione.
Si tratta di un tema di diffuso interesse, sia in relazione
alla necessità che le amministrazioni interessate redigano
atti regolamentari ex art. 92, comma 5, del Codice omogenei
e conformi allo spirito della norma, sia in relazione al
corretto riconoscimento del compenso incentivante in favore
del personale incarico della redazione degli atti di
pianificazione.
Si segnala, dunque, l’opportunità di
procedere ad una modifica o ad una integrazione dell’art.
92, comma 6, del Codice, volta ad individuare in maniera
chiara la tipologia di atti di pianificazione in relazione
ai quali è possibile riconoscere l’incentivo ivi contemplato
in favore dei tecnici interni che li hanno redatti, in modo
da contemplare espressamente anche il riferimento a quegli
atti che afferiscono, sia pure mediatamente, alla
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico
(atto
di segnalazione 25.09.2013 n. 4 -
link a www.avcp.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f),
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Qualificazione
lavori.
...
Sommario
Premessa
A. Problematiche connesse con il sistema di
qualificazione per i lavori
1. La vigilanza sul sistema di qualificazione delle imprese
esecutrici di lavori pubblici
2. Interventi normativi da realizzare
2.1 Azionariato delle SOA
2.2 Organico delle SOA e attività di attestazione.
2.3 Cessione/affitto di azienda o di ramo di azienda.
2.4 CEL privati.
B. Problematiche connesse all’attuazione del Parere
consultivo del Consiglio di Stato n. 3014, del 26.06.2013
3. Qualificazione ai fini dell’esecuzione
4. Qualificazione acquisita attraverso l’esecuzione
Allegato: Proposte di emendamenti al Regolamento ...
(atto
di segnalazione 25.09.2013 n. 3 -
link a www.avcp.it). |
APPALTI:
Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f),
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Osservazioni e
proposte di intervento in materia di appalti pubblici.
...
Sommario
Premessa
1. Misure per il contenimento della spesa e la
semplificazione delle procedure
1.1 Misure in materia di concessioni previste dal DL 69/2013
1.2 Eliminazione della proroga dell’esclusione automatica
delle offerte anomale
2. Misure per ridurre il rischio di opere incompiute
3. Le competenze dell’Autorità
4. Misure per favorire la partecipazione alle gare
4.1 La revisione della normativa in materia di
qualificazione per i lavori
4.2 Il potenziamento dell’istituto del soccorso istruttorio
di cui all’art. 46 del Codice
5. Misure per la deflazione del contenzioso
6. Alcune ulteriori considerazioni ...
(atto
di segnalazione 04.07.2013 n. 2 -
link a www.avcp.it). |
APPALTI:
Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f),
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - “Pubblicazione
cartacea degli avvisi e dei bandi ex art. 66, comma 7,
secondo periodo, del Codice”.
...
2. L’opportunità di un chiarimento
normativo.
L’applicazione delle norme in materia di pubblicità di
avvisi e bandi per l’affidamento dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture è materia che reca con sé
importanti implicazioni sulla regolarità delle procedure di
gara. La frammentarietà e la mancanza di chiarezza del
quadro normativo esposto possono essere all’origine di un
ingente contenzioso amministrativo, soprattutto in
considerazione dell’obbligo di rimborso delle spese di
pubblicazione introdotto ex lege a carico
dell’aggiudicatario.
Alla luce delle osservazioni sin qui svolte,
l’Autorità ritiene auspicabile un intervento
normativo, atto a coordinare le diverse disposizioni
succedutesi nel tempo, in linea con le misure di
modernizzazione, semplificazione e digitalizzazione
dell’attività amministrativa, introdotte con i recenti
interventi normativi, in tema di spending review e di
sviluppo (atto
di segnalazione 27.03.2013 n. 1 -
link a www.avcp.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi interamente riservati agli interni.
Dalla
sentenza 07.10.2013 n. 4919 del Consiglio di Stato,
Sez. V, si evince:
- anche in presenza di norma regolamentare che preveda una
quota riservata al personale interno nelle procedure
concorsuali (per conformità ai principi sanciti dalla Corte
Costituzionale, non superiore al 50%; vedasi sentenza n.
373/2002), la stessa non può essere legittimamente applicata
nelle procedure bandite per un solo posto, così vanificando
il doveroso rispetto dell'adeguato accesso dall'esterno; a
maggior ragione se la programmazione dei fabbisogni
dell'ente non prevede ulteriori procedure di reclutamento
rivolte all'esterno;
- in relazione a quanto sopra non ha alcun pregio il
riferimento all'articolo 91, comma 3, del TUEL (concorsi
unicamente riservati al personale interno, in presenza di
necessità di preservare particolari profili o figure
professionali caratterizzati da una professionalità
acquisita esclusivamente all'interno dell'ente);
- infine, riguardo alla fattispecie decisa che riguardava la
copertura di un posto di vigile urbano, l'Alto Consesso
precisa "... quanto all'invocata applicabilità dell'art. 91
del D.Lgs. n. 267/2000, osserva il Collegio come la figura
professionale messa a concorso (vigile urbano) non sia
oggettivamente sussumibile tra quelle per cui è possibile
derogare al regime ordinario, in ragione della necessità di
garantire particolari profili o figure professionali con
esperienza all'interno dell'ente. Anzi, a ben vedere, con
riferimento alle mansioni di agente di p.s. proprio
l'effettuazione di una selezione concorrenziale risulta lo
strumento più idoneo all'individuazione del soggetto più
qualificato" (tratto da www.publika.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
In tema di contratto di locazione e principi di evidenza
pubblica.
Ai servizi di cui all’Allegato II-B,
d.lgs. n. 163 del 2006, si applicano ex art. 20, comma 1,
solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque
applicabili ex ante i principi del trattato, sia che si
tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di
concessione.
---------------
L’art. 27, d.lgs. n. 163 del 2006, estende l’applicazione
dei principi del Trattato europeo anche ai contratti
esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo
porre un principio di rispetto delle regole minimali di
evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato,
da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli
appalti. Sicché detta disposizione deve dirsi applicabile
anche quando il contratto da stipulare abbia ad oggetto la
prestazione di un servizio funzionalmente connesso ovvero
integrativo di servizio pubblico.
La controversia riguarda un contratto stipulato da FES in
ordine al quale l’odierna appellante, prioritariamente
ripropone le censure di violazione delle regole
dell’evidenza pubblica e, in particolare, dell’art. 27
d.lgs. n. 163 del 2006.
La sentenza di primo grado ha affermato che FSE rientra
nella categoria degli organismi di diritto pubblico e in
tale parte essa non è stata impugnata. Posto, dunque, che si
rientra nell’ambito di applicazione soggettiva del codice e
del diritto comunitario, occorre esaminare i contenuti del
contratto per valutare se la fattispecie sia soggetta ai
principi in materia di evidenza pubblica nonché alla
disposizione in particolare segnalata.
La natura non strettamente privatistica di mera locazione si
desume chiaramente dal tenore del contratto stipulato in
data 04.11.2009 tra FSE e la ditta Caniglia Francesco (cfr.
doc. 1 della produzione di primo grado, depositata il
22.06.2010, di FSE), il cui art. 1, intitolato “oggetto
del contratto” indica che “FSE mette a disposizione
della ditta il complesso dei locali … per la produzione del
servizio di ristorazione per l’esigenza dei viaggiatori,
nonché della rivendita di generi di privativa e
pubblicazioni editoriali nella stazione di Campi Salentina.
La struttura e le destinazione dei locali, i tipi di servizi
da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi
dovranno essere predisposti e organizzati sotto la direttiva
di FSE allo scopo del miglior soddisfacimento delle esigenze
dei viaggiatori”; il contratto prevede inoltre che “la
ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il
pavimento dell’intero atrio biglietteria, sala d’attesa e
quant’altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno
ed esterno della stazione” (art. 4), l’obbligo della
ditta ad attenersi, nella conduzione dell’esercizio, alle “prescrizioni
che al riguardo FES potesse impartire”, la necessità di
autorizzazione di FSE per consentire alla ditta di “essere
coadiuvata nella conduzione dell’esercizio da persona di Sua
fiducia in possesso dei requisiti richiesti”, il
controllo di FSE sugli introiti di esercizio e sulla
gestione contabile (art. 5), il diritto di FSE “di
controllare i prezzi di vendita al pubblico e di richiedere
tutte quelle modificazioni che, a proprio discrezionale
giudizio, ritenesse giusto” (art. 7), gli orari di
apertura e chiusura in funzione degli orari dei treni
(apertura almeno mezz’ora prima del primo treno e fino a
mezz’ora dopo l’ultimo), con facoltà di FSE di “modificare
insindacabilmente tale orario in funzione delle esigenze del
servizio” (art. 11), l’interferenza di FSE in ordine ai
generi di consumo in funzione delle “necessità
dell’utenza” (art. 13), riduzioni di prezzo per il
personale FSE ed altri specificati (art. 16), la non
ammissione del passaggio del pubblico non munito di
biglietto dall’esterno della stazione alla parte dei locali
del bar comunicanti con il piazzale interno e viceversa
(art. 24), il mantenimento nei locali del quadro orari dei
treni (art. 25), la riserva a FSE della pubblicità per conto
terzi sulle pareti dei locali del bar (art. 26).
I contenuti specifici del contratto, che vanno ben oltre la
cessione della mera detenzione dell’immobile e prevedono
un’ingerenza delle FSE non giustificata dal un mero rapporto
di locazione, evidenziano che il contratto stipulato è
caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio
attinente ai viaggiatori.
La stessa appellata, del resto, puntualizza che era “interessata
esclusivamente ad offrire celermente un servizio, in parte
indispensabile, volto alla commercializzazione dei biglietti
di trasporto dell’azienda, in parte utile e più volte
richiesto dall’utenza”.
Non vi è, quindi, una mera connessione logistica dovuta alla
collocazione in locali destinati al servizio pubblico ma una
chiara connessione funzionale, ponendosi il servizio di
ristorazione come integrativo del servizio ai viaggiatori
Il servizio di ristorazione è incluso nell’Allegato II –B
(cat. 17) cui si riferisce il primo comma dell’art. 20
d.lgs. 16.04.2006, n. 163 (inserito nel Titolo II “Contratti
esclusi in tutto o in parte”), comma secondo cui si
applicano solo le specificate norme del codice (artt. 65, 68
e 225); il successivo art. 27 (“Principi relativi ai
contratti esclusi”) stabilisce che “l’affidamento dei
contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi
forniture esclusi, in tutto o in parte dall’applicazione del
presente codice, avviene nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere
preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se
compatibile con l’oggetto del contratto”; ai principi di
matrice comunitaria si riferisce anche il terzo comma
dell’art. 30 (“Concessione di servizi”) secondo cui “La
scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei
principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici, in particolare dei principi
di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità,previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tal numero
soggetti qualificati in relazione all’oggetto della
concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Ne deriva, in una lettura coordinata, che ai servizi di cui
all’Allegato II –B, si applicano ex art. 20, comma 1, solo
gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque
applicabili ex ante i principi del trattato (sia che si
tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di
concessione).
La giurisprudenza (cfr., in particolare, Cons. Stato Ad.
plen. 01.08.2001, n. 16), sulla premessa che tanto gli
appalti “sotto soglia”, che fruiscono di una
temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di
servizi “esclusi”, che fruiscono di un regime di
parziale esenzione, rientrano negli scopi del diritto
comunitario, è orientata nel senso di ritenere che l’art. 27
d.lgs. citato estende l’applicazione dei principi del
Trattato anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o
di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle
regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della
concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al
rispetto del codice degli appalti.
Nella specie, dunque, non si poteva addivenire alla stipula
del contratto in questione in spregio ai principi di
trasparenza ed imparzialità, omettendo una comparazione tra
le offerte presentate (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.10.2013
n. 4902 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza di demolizione di
un'opera pertinenziale (tettoia a protezione di una pompa di
irrigazione) realizzata senza licenza edilizia negli anni
’50 al di fuori del centro abitato, tanto più che il comune
era sprovvisto di disciplina urbanistica.
La doglianza non può essere condivisa.
Vero è, infatti, che nella vigenza dell’art. 7 del
D.L. n. 9/1982 (e della L. n. 10/1977) la realizzazione di
opere pertinenziali o di impianti tecnologici in aree
sottoposte a vincolo paesaggistico necessitava comunque di
specifica concessione edilizia, come dedotto
dall’amministrazione appellante.
Tuttavia, nella specie, è del tutto ragionevole ritenere che
le opere oggetto dell’ordinanza per cui è causa (ossia la
platea in cemento armato, delimitata su tre lati da un
muretto con funzione di contenimento della scarpata e la
sovrastante tettoia), siano state edificate in contestualità
o comunque in un momento prossimo alla installazione della
pompa irrigua e, quindi, negli anni cinquanta, nella vigenza
della L. n. 1550/1942.
Invero, del fatto che la pompa de qua sia in loco sin dal
1950, si ha contezza dall’analisi dell’atto di costituzione
di servitù a rogito Notaio Francesco Tei in data 01.06.1950,
rep. n. 4209/1946 e, segnatamente, dalla parte dedicata alla
descrizione della servitù, in cui si riferisce della sua già
avvenuta installazione “su piazzuola di cemento”.
Dalla natura delle opere in esame emerge, poi, che le stesse
hanno oggettivamente lo scopo di proteggere lo strumento
irriguo dalla caduta di materiale dalla scarpata e dagli
agenti atmosferici, sicché, in assenza di prova contraria,
non può che ritenersi che le stesse siano state realizzate,
proprio per soddisfare detta esigenza, in contestualità o
comunque in un momento prossimo alla installazione della
pompa e non già a distanza di oltre venti o, ancor più,
anni.
Del resto, il Comune di Perugia non ha fornito alcun
elemento per far emergere il contrario, neppure a fronte
delle allegazioni del privato in corso di causa, mancando
così la prova che il presunto abuso sia stato perpetrato
nella vigenza dell’invocato art. 7 del D.L. 9/1982 (e della
L. 10/1977).
Pertanto, a prescindere dalla natura pertinenziale o meno
delle opere e dalla loro qualificazione come volume tecnico,
correttamente il primo giudice ha accolto il ricorso
proposto dalla Signora R. sul presupposto che l’opera
contestata fosse stata realizzata “in uno con
l’installazione della pompa”, avvenuta “quantomeno dal
primo giugno 1950”, allorquando la disciplina invocata dal
Comune appellante non era ancora stata approvata, essendo
viceversa vigente la L. 1150/1942 .
Ed ai sensi di detta legge, è appena il caso di
evidenziarlo, non occorreva uno specifico titolo edilizio (in allora licenza edilizia) per la realizzazione di
manufatti (come quelli per cui è causa) al di fuori dei
centri abitati.
L’appello principale proposto dal Comune di Perugia si
appalesa quindi privo di fondamento e, come tale, da
respingere (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.10.2013 n. 4889 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il corpo di disposizioni
dettate dal d.lgs. n. 157 del 1995 in tema di appalti
pubblici di servizi, vigente nel periodo di svolgimento
della gara, non reca specifiche previsioni sulla fissazione
di termini perentori per la conclusione delle gare.
Lo stesso r.d. n. 827 del 1924, di approvazione del
regolamento di esecuzione della legge di contabilità di
Stato, codifica all’art. 71 la regola di conclusione della
gara in un sol giorno con riguardo al solo metodo di scelta
del contraente con asta pubblica.
Diverse esigenze presiedono, invece, l’andamento del
procedimento nel caso in cui la selezione del contraente
avvenga -come nella fattispecie di cui è causa- secondo il
criterio dell’offerta più vantaggiosa, trattandosi di metodo
che impone più articolate cadenze procedimentali ed una più
complessa valutazione del merito delle offerte tecniche in
più sedute del collegio giudicante.
Ed invero -quanto ai profili di violazione di legge- il
corpo di disposizioni dettate dal d.lgs. n. 157 del 1995 in
tema di appalti pubblici di servizi, vigente nel periodo di
svolgimento della gara, non reca specifiche previsioni sulla
fissazione di termini perentori per la conclusione delle
gare.
Lo stesso r.d. n. 827 del 1924, di approvazione del
regolamento di esecuzione della legge di contabilità di
Stato, codifica all’art. 71 la regola di conclusione della
gara in un sol giorno con riguardo al solo metodo di scelta
del contraente con asta pubblica.
Diverse esigenze presiedono, invece, l’andamento del
procedimento nel caso in cui la selezione del contraente
avvenga -come nella fattispecie di cui è causa- secondo il
criterio dell’offerta più vantaggiosa, trattandosi di metodo
che impone più articolate cadenze procedimentali ed una più
complessa valutazione del merito delle offerte tecniche in
più sedute del collegio giudicante.
Non può, inoltre, ricondursi effetto viziante al superamento
del termine di 180 giorni per la validità dell’offerte,
stabilito al punto 14, lett. b), del capitolato di appalto.
Detto termine, fissato nell’interesse dell’ Amministrazione,
è infatti disponibile da parte di quest’ultima. L’ente
aggiudicatore, una volta scaduto, si è attivato, con scelta
discrezionale non sindacabile nel merito, per ottenere la
dichiarazione delle ditte partecipanti di mantenere ferma
l’offerta come originariamente articolata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.10.2013 n. 4884 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 21, comma 5, della legge n. 109 del 1994
fissa la regola del numero dispari dei compenti della
commissione con specifico riferimento agli appalti di opere
pubbliche. Analoga disposizione non si rinviene nel d.lgs.
n. 157 del 1995 in materia di appalti pubblici. L’organica e
specifica regolamentazione di detto settore dei appalti
pubblici, successiva alla legge n. 109 del 1994, preclude
quindi ogni applicazione in via analogico/estensiva della
norma invocata.
E’ stato del resto affermato in giurisprudenza con
riferimento all'art. 84, comma 2, del codice dei contratti
pubblici, che la regola ivi detta sulla composizione della
commissione di gara con un numero dispari di componenti non
superiore a cinque, non è espressione di un principio
generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare
l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un
numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di
collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano
(o che occasionalmente possono operare) in composizione
paritaria.
Quanto
al primo profilo di doglianza, l’art. 21, comma 5, della
legge n. 109 del 1994 fissa la regola del numero dispari dei
compenti della commissione con specifico riferimento agli
appalti di opere pubbliche. Analoga disposizione non si
rinviene nel d.lgs. n. 157 del 1995 in materia di appalti
pubblici. L’organica e specifica regolamentazione di detto
settore dei appalti pubblici, successiva alla legge n. 109
del 1994, preclude quindi ogni applicazione in via
analogico/estensiva della norma invocata.
E’ stato del resto affermato in giurisprudenza con
riferimento all'art. 84, comma 2, del codice dei contratti
pubblici, che la regola ivi detta sulla composizione della
commissione di gara con un numero dispari di componenti non
superiore a cinque, non è espressione di un principio
generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare
l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un
numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di
collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano
(o che occasionalmente possono operare) in composizione
paritaria (cfr. Cons. St. Sez. III, n. 3730 dell’11.07.2013)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.10.2013 n. 4884 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il mutamento in prosieguo
di gara del legale rappresentante della società che ha
sottoscritto l’offerta non incide sulla regolarità delle
precedente fase di qualificazione ed ammissione delle
imprese che, in base al principio tempus regit actum, ha
necessariamente assunto a riferimento, ai fini della
verifica dei requisiti di moralità, l’assetto societario in
atto alla data di scadenza del termine per la proposizione
dell’offerta e, tantomeno, sulla capacità del nuovo
rappresentante p.t. a confermare l’offerta.
Ogni successiva verifica in ordine alla permanenza dei
requisiti morali rifluisce al momento dell’aggiudicazione e
della stessa esecuzione del contratto, che presuppongono la
permanenza dei requisiti di moralità e di affidabilità delle
imprese affidatarie del servizio.
Ed invero:
- il mutamento in prosieguo di gara del legale
rappresentante della società che ha sottoscritto l’offerta
non incide sulla regolarità delle precedente fase di
qualificazione ed ammissione delle imprese che, in base al
principio tempus regit actum, ha necessariamente
assunto a riferimento, ai fini della verifica dei requisiti
di moralità, l’assetto societario in atto alla data di
scadenza del termine per la proposizione dell’offerta e,
tantomeno, sulla capacità del nuovo rappresentante p.t. a
confermare l’offerta.
Ogni successiva verifica in ordine alla permanenza dei
requisiti morali rifluisce al momento dell’aggiudicazione e
della stessa esecuzione del contratto, che presuppongono la
permanenza dei requisiti di moralità e di affidabilità delle
imprese affidatarie del servizio.
Né, sul piano sostanziale, sono state sollevate mende in
capo al nuovo rappresentante legale idonee a inficiare la
capacità di confermare l’offerta (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.10.2013 n. 4884 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree
costituiscono una forma di responsabilità oggettiva
dell’autore dell’inquinamento, in quanto l’obbligo di
effettuare gli interventi di legge sorge a prescindere
dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o
colposo in capo all’autore dell’inquinamento, sempre che
sussista il rapporto di causalità tra l’azione (o
l’omissione) dell’autore dell’inquinamento ed il superamento
(o pericolo concreto ed attuale di superamento) dei limiti
di contaminazione, in coerenza col principio comunitario
“chi inquina paga”.
L’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 (ora art. 192 del
d.lgs. n. 152 del 2006), pure vigente ratione temporis,
prevedeva, poi, la corresponsabilità solidale del
proprietario o del titolare di diritti personali o reali di
godimento sull’area ove erano stati abusivamente abbandonati
o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, ma solo in
quanto la violazione fosse imputabile anche a quei soggetti
a titolo di dolo o colpa (la giurisprudenza, sul punto, ha
però precisato che, per un verso, le esigenze di
tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente
che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o
personali di godimento va inteso in senso lato, essendo
destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con
l'area interessata in un rapporto, anche demaniale o di mero
fatto, tale da consentirgli e per ciò stesso imporgli di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente; e, per altro verso, il requisito della
colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio
nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che
l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano
essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi).
---------------
Mentre spettano alla cognizione del giudice amministrativo
le controversie in materia di sanzioni di tipo
ripristinatorio, destinate a realizzare il medesimo
interesse pubblico al cui soddisfacimento è preordinata la
funzione amministrativa assistita dalla sanzione
amministrativa di tale natura (nei confronti della quale la
posizione giuridica del privato ha natura di interesse
legittimo), l’accertamento dei presupposti per la
ripetizione dei costi necessari alla bonifica ed al
ripristino della area in questione, sia che si qualifichi la
relativa azione in termini di regresso conseguente
all’esecuzione in danno, sia che si prediliga una sua
lettura in termini risarcitori, radica comunque la
risoluzione di una questione meramente patrimoniale che
esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo (il
quale, in tale materia, non è fornito di giurisdizione
esclusiva).
---------------
A questo punto, declinata la giurisdizione, occorre dar
seguito alle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione e della Corte costituzionale, da ultimo fatte
proprie anche dal Legislatore (art. 59 della L. 69/2009 ed
ora art. 11 c.p.a.), secondo cui, allorquando un giudice
declini al propria giurisdizione affermando quella di un
altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice
fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al
giudice incompetente in punto di giurisdizione, così
evitando l’inaccettabile conseguenza di un processo che si
debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la
giurisdizione del giudice adito senza decidere
sull’esistenza o meno della pretesa.
In termini generali, la responsabilità dell’utilizzatore di
un sito contaminato, una volta accertato il nesso di
causalità tra la sua attività produttiva e l’avvenuta
contaminazione dei luoghi, era disciplinata, per le
fattispecie antecedenti l’entrata in vigore del d.lgs.
03.04.2006, n. 152, dall’art. 17 del d.lgs. 22.04.1997, n.
22, il cui comma 2 disponeva che: “Chiunque cagiona,
anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di
cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo
concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è
tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa
in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle
aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo
di inquinamento” (per il periodo precedente alla entrata
in vigore di tale provvedimento legislativo, era comunque
l’art. 2050 c.c. ad imporre al responsabile di attivarsi al
fine di porre in essere atti e comportamenti unitariamente
finalizzati al recupero ambientale del sito).
Secondo la giurisprudenza, gli obblighi di bonifica, messa
in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla
contaminazione delle aree costituiscono una forma di
responsabilità oggettiva dell’autore dell’inquinamento, in
quanto l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge
a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento
soggettivo doloso o colposo in capo all’autore
dell’inquinamento, sempre che sussista il rapporto di
causalità tra l’azione (o l’omissione) dell’autore
dell’inquinamento ed il superamento (o pericolo concreto ed
attuale di superamento) dei limiti di contaminazione, in
coerenza col principio comunitario “chi inquina paga”.
L’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 (ora art. 192 del
d.lgs. n. 152 del 2006), pure vigente ratione temporis,
prevedeva, poi, la corresponsabilità solidale del
proprietario o del titolare di diritti personali o reali di
godimento sull’area ove erano stati abusivamente abbandonati
o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, ma solo in
quanto la violazione fosse imputabile anche a quei soggetti
a titolo di dolo o colpa (la giurisprudenza, sul punto, ha
però precisato che, per un verso, le esigenze di
tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente
che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o
personali di godimento va inteso in senso lato, essendo
destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con
l'area interessata in un rapporto, anche demaniale o di mero
fatto, tale da consentirgli e per ciò stesso imporgli di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente; e, per altro verso, il requisito della
colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio
nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che
l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano
essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi:
cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. II, 05.12.2011, n.
2990).
Ciò premesso, mentre spettano alla cognizione del giudice
amministrativo le controversie in materia di sanzioni di
tipo ripristinatorio, destinate a realizzare il medesimo
interesse pubblico al cui soddisfacimento è preordinata la
funzione amministrativa assistita dalla sanzione
amministrativa di tale natura (nei confronti della quale la
posizione giuridica del privato ha natura di interesse
legittimo), l’accertamento dei presupposti per la
ripetizione dei costi necessari alla bonifica ed al
ripristino della area in questione, sia che si qualifichi la
relativa azione in termini di regresso conseguente
all’esecuzione in danno, sia che si prediliga una sua
lettura in termini risarcitori, radica comunque la
risoluzione di una questione meramente patrimoniale che
esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo (il
quale, in tale materia, non è fornito di giurisdizione
esclusiva).
Non a caso, il parallelo giudizio pendente innanzi al
giudice civile presenta sia identità di causa petendi
(difatti, anche qui, da una parte, si argomenta la
responsabilità omissiva della proprietaria; dall’altra, si
oppone il carattere assorbente del comportamento colposo
della stessa amministrazione comunale, per non essersi
attivata per quasi dieci anni per provvedere alla bonifica
dell’area sequestrata), sia di petitum (ovviamente a
parte invertite, in quanto, per ovvi motivi, nel giudizio
civile, è l’amministrazione ad agire per la condanna della
società ricorrente alla somma di € 989.908,45 per
l’intervento di bonifica dell’intera area colpita
dall’esondazione del fiume Olona); identità di petitum
sostanziale, dunque, e non (come pure è stato sostenuto in
giudizio) relazione di pregiudizialità (che non figura qui
né in termini tecnici, né logici).
A questo punto, declinata la giurisdizione, occorre dar
seguito alle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione (22.02.2007, n. 4109) e della Corte
costituzionale (12.03.2007, n. 77), da ultimo fatte proprie
anche dal Legislatore (art. 59 della L. 69/2009 ed ora art.
11 c.p.a.), secondo cui, allorquando un giudice declini al
propria giurisdizione affermando quella di un altro giudice,
il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di
giurisdizione e rimangono salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda proposta davanti al giudice
incompetente in punto di giurisdizione, così evitando
l’inaccettabile conseguenza di un processo che si debba
concludere con una sentenza che confermi soltanto la
giurisdizione del giudice adito senza decidere
sull’esistenza o meno della pretesa.
In definitiva, il Tribunale amministrativo dichiara il
proprio difetto di giurisdizione in favore del Giudice
ordinario. Per la riassunzione davanti a questi è fissato
per legge il termine perentorio, fino alla scadenza del
quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda, di tre mesi decorrenti dal passaggio in
giudicato della presente sentenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.10.2013 n. 2222 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea di principio, l’onere della prova circa la data di
realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha
commesso l'abuso: secondo il principio generale previsto
dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla
realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del
condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato
fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in
quanto la pubblica amministrazione non può di solito
materialmente accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge,
mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante la conclusione dell’opera.
E’ stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a
sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte
risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e
documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione
di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo
assurgere al rango di prova.
E’ stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile,
alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà deve
negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora
costituiscano l’unico elemento esibito in giudizio al fine
di provare un elemento costitutivo dell'azione o
dell'eccezione atteso che la parte non può derivare elementi
di prova a proprio favore –ai fini del soddisfacimento
dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da proprie
dichiarazioni non asseverate da terzi.
-------------
Gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica,
ove consistano nella realizzazione di opere senza le
prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di
illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono
meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale
a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni:
pertanto il potere amministrativo repressivo può essere
esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di
motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza
di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione
antigiuridica ancora sussistente.
Come esplicitato nella recente pronuncia della Sezione
18/05/2012 n. 838, in linea di principio l’onere della prova
circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta
a chi ha commesso l'abuso (Consiglio di Stato, sez. IV –
31/01/2012 n. 478): secondo il principio generale previsto
dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla
realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del
condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato
fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in
quanto la pubblica amministrazione non può di solito
materialmente accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge,
mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante la conclusione dell’opera
(Consiglio di Stato, sez. IV – 27/11/2010 n. 8298; si veda
anche TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/07/2010 n. 16569;
TAR Lombardia Brescia, sez. I – 08/04/2010 n. 1506).
E’ stato altresì sottolineato che tale onere può
ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove
addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di
atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione
di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo
assurgere al rango di prova (TAR Liguria, sez. I –
08/03/2012 n. 367). E’ stato inoltre puntualizzato che, nel
processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di
notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure
indiziaria, qualora costituiscano l’unico elemento esibito
in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo
dell'azione o dell'eccezione
atteso che la parte non può derivare elementi di prova a
proprio favore –ai fini del soddisfacimento dell'onere di
cui all'art. 2697 c.c.– da proprie dichiarazioni non
asseverate da terzi (TAR Lombardia Milano, sez. II –
24/02/2012 n. 617).
Nel caso di specie, il ricorrente ha allegato la
dichiarazione sostitutiva di un altro soggetto senza
accompagnarla con riscontri probatori di data certa, mentre
al contrario l’interveniente ha fornito elementi i quali
lasciano presumere che la costruzione risalga ad epoca ben
più recente: dall’esame della fotografia allegata si notano
materiali di costruzione il cui utilizzo in epoca remota non
appare plausibile (cfr. foto doc. 1), e inoltre
nell’estratto aerofotogrammetrico del 1985 e nell’estratto
del P.R.G. del 1955 detto manufatto non compare. Il quadro
fattuale vede dunque la prevalenza di dati incompatibili con
la tesi propugnata dal Sig. Sangalli circa l’ultimazione
delle opere in data anteriore al 1967.
---------------
... il Collegio
richiama il consolidato orientamento ai sensi del quale gli
illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove
consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte
concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti
permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo
con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire
con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni:
pertanto il potere amministrativo repressivo può essere
esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di
motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza
di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione
antigiuridica ancora sussistente (cfr. sentenze sez. I –
21/05/2012 n. 848; 16/01/2012 n. 59 e la giurisprudenza ivi
richiamata).
Peraltro nel caso di specie non necessita
diffondersi sull’indirizzo minoritario che valorizza il
lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
e il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta
alla vigilanza (che potrebbero ingenerare un affidamento del
privato) dato che la dedotta ampia soluzione di continuità
temporale è sfornita di prova (cfr. supra par. 1)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta
di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti che
non alterano in modo significativo l'assetto del territorio,
cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui
ineriscono.
Come sottolineato da questo Tribunale “la giurisprudenza
richiede che dette opere, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono".
La Sezione ha sottolineato che la strumentalità non può mai
desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal
proprietario e devono comportare una circoscritta incisione
sul cd. “carico urbanistico”.
La nozione di
pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella
civilistica ed è riferibile solo a manufatti che non
alterano in modo significativo l'assetto del territorio,
cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui
ineriscono.
Come sottolineato da questo Tribunale (cfr. sez.
I – 30/10/2012 n. 1747) “la giurisprudenza richiede (cfr.
Cons. St. Sez. IV, 17.05.2010 n. 3127 e precedenti ivi
richiamati) che dette opere, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono".
La Sezione (cfr. TAR Brescia
11.01.2006 n. 32) ha sottolineato che la strumentalità non
può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data
dal proprietario e devono comportare una circoscritta
incisione sul cd. “carico urbanistico”.
Venendo ora a fare applicazione dei suddetti principi alla
fattispecie all’esame occorre rilevare che si è
effettivamente in presenza di una struttura avente una
superficie non eccessiva (mq. 16,40) utilizzata per il
ricovero della legna
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea generale il divieto di costruzione di opere dagli
argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f),
t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e
inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la
possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche
(e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici; cioè, esso è
teso a garantire le normali operazioni di
ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle
acque.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di
interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi
prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare
scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto
ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare
dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici
tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un
effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità
assoluta della fascia di rispetto.
---------------
E' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia
in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato
all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso
che, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in
contrasto con tale divieto, trova applicazione l'art. 33 l.
28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i
vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi
in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in
determinate aree.
E’ decisivo a questo punto l’elemento ostativo ulteriore
rimarcato nel provvedimento impugnato, ossia la mancata
osservanza della distanza minima dal Fiume Oglio stabilita
dall’art. 96 del R.D. 523/1904 per ragioni di sicurezza
idraulica. Sul punto non sono condivisibili i rilievi di
parte ricorrente sulle circostanze che il manufatto non
impedisce il corretto deflusso delle acque né le opere di
manutenzione, e che in oltre 50 anni non si sono mai
verificati pericoli.
Come osservato da questa Sezione nella sentenza 01/08/2011
n. 1231, l’indirizzo assolutamente costante della
giurisprudenza civile e amministrativa si attesta sul canone
per il quale <<in linea generale il divieto di costruzione
di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art.
96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale,
assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare
non solo la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle
acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi
pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n.
17784, citata dalla Regione nella propria memoria
conclusiva); cioè, esso è teso a garantire le normali
operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le
esondazioni delle acque>>.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di
interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi
prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare
scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto
ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare
dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici
tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un
effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità
assoluta della fascia di rispetto (TAR Toscana, sez. III
– 08/03/2012 n. 439).
In assenza di elementi a suffragio dell’applicazione
della deroga contenuta nella lett. F del citato art. 96, ne
consegue tra l’altro che nessuna opera realizzata in
violazione della norma de qua può essere sanata e altresì –come affermato nella già citata sentenza di questo TAR n.
1231/2011- “che è legittimo il diniego di rilascio di
concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un
fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di
servitù idraulica, atteso che, nell'ipotesi di costruzione
abusiva realizzata in contrasto con tale divieto, trova
applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono
edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità,
includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in
modo assoluto di edificare in determinate aree (da ultimo:
TAR Roma-Latina, Sez. I, sentenza 15.12.2010 n. 1981)”.
L’accertata operatività del vincolo di inedificabilità
assoluta, nel caso di specie, è idonea di per sé a
sorreggere il provvedimento impugnato, e determina,
pertanto, l’infondatezza del ricorso, senza necessità di
approfondire l’ulteriore profilo –invocato
dall’interveniente e non menzionato nell’atto impugnato–
afferente alla sussistenza del concorrente vincolo
paesaggistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di mancata presentazione dell’istanza di permesso di
costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 entro 90
giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione e/o
in caso di inottemperanza a tale provvedimento sempre entro
il termine perentorio di 90 giorni, si verifica
automaticamente ope legis l’effetto ablatorio
dell’acquisizione gratuita dell’immobile abusivo al
patrimonio comunale, in quanto la notifica dell’accertamento
formale dell’inottemperanza si configura solo quale titolo
necessario per l’immissione in possesso e per al
trascrizione nei registri immobiliari.
Inoltre, anche l’annullamento dell’ordinanza di demolizione
da parte del Giudice Amministrativo non incide sul
trasferimento della proprietà dell’immobile, già
verificatosi in favore del Comune, mentre l’effetto
ripristinatorio della restituzione al proprietario
dell’immobile, se non è stata presentata entro 90 giorni
l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
DPR n. 380/2001, può verificarsi soltanto nel caso di
annullamento giurisdizionale del provvedimento di
demolizione, ottenuto non soltanto sotto il profilo formale,
ma sotto il profilo sostanziale, cioè quando non è stata
violata alcuna norma in materia di edilizia e/o urbanistica.
Pertanto, anche l’esercizio del potere di autotutela
dell’annullamento dell’ordinanza di demolizione non risulta
ostativo al già avvenuto trasferimento della proprietà al
patrimonio comunale, in quanto, come sopra detto, nonostante
l’impugnazione giurisdizionale del predetto provvedimento di
demolizione, va sempre presentata, entro 90 giorni,
l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
DPR n. 380/2001.
In via preliminare, va rilevato che, in caso di
mancata presentazione dell’istanza di permesso di costruire
in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 entro 90 giorni
dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione e/o in
caso di inottemperanza a tale provvedimento sempre entro il
termine perentorio di 90 giorni, si verifica automaticamente
ope legis l’effetto ablatorio dell’acquisizione gratuita
dell’immobile abusivo al patrimonio comunale, in quanto la
notifica dell’accertamento formale dell’inottemperanza si
configura solo quale titolo necessario per l’immissione in
possesso e per al trascrizione nei registri immobiliari.
Al riguardo, va richiamata la recente Sentenza Cass. Pen.
Sez. III n. 14868 del 18.04.2012, con la quale viene pure
puntualizzato che anche l’annullamento dell’ordinanza di
demolizione da parte del Giudice Amministrativo non incide
sul trasferimento della proprietà dell’immobile, già
verificatosi in favore del Comune, mentre l’effetto ripristinatorio della restituzione al proprietario
dell’immobile, se non è stata presentata entro 90 giorni
l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
DPR n. 380/2001, può verificarsi soltanto nel caso di
annullamento giurisdizionale del provvedimento di
demolizione, ottenuto non soltanto sotto il profilo formale,
ma sotto il profilo sostanziale, cioè quando non è stata
violata alcuna norma in materia di edilizia e/o urbanistica.
Pertanto, anche l’esercizio del potere di autotutela
dell’annullamento dell’ordinanza di demolizione non risulta
ostativo al già avvenuto trasferimento della proprietà al
patrimonio comunale, in quanto, come sopra detto, nonostante
l’impugnazione giurisdizionale del predetto provvedimento di
demolizione, va sempre presentata, entro 90 giorni,
l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
DPR n. 380/2001
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 576 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, può essere emanata
soltanto la sanzione pecuniaria “pari al doppio dell’aumento
del valore venale dell’immobile conseguente alla
realizzazione degli interventi” abusivi “e comunque in
misura non inferiore a 516,00 €”, ma non la sanzione della
demolizione.
Infatti, in caso di interventi edilizi, soggetti a SCIA e
non a permesso di costruire, risulta comunque necessaria la
presentazione della relativa istanza di sanatoria ex art. 37
DPR n. 380/2001, per la regolarizzazione di tali abusi
minori, ma tale domanda di sanatoria può essere presentata
fino alla materiale esecuzione dell’eventuale sanzione di
demolizione, irrogata dal Comune, a prescindere
dall’impugnazione giurisdizionale entro il termine
decadenziale di 60 giorni ex art. 29 Cod. Proc. Amm.
dell’eventuale provvedimento di demolizione.
Parimenti, la
divisione interna del fabbricato rurale di cui è causa,
difforme dalla concessione edilizia in sanatoria del
15.05.2000, risulta assoggettata a SCIA e non a permesso di
costruire.
Conseguentemente, deve ritenersi che, nella specie, il
trasferimento al patrimonio comunale non si è verificato
atteso che, tenuto conto del principio, secondo cui spetta
al Giudice Amministrativo qualificare la fattispecie,
oggetto del giudizio, e di interpretare il potere esercitato
dall’Amministrazione, prescindendo dalle parole e/o termini
usati sia dai soggetti privati che dall’Amministrazione, va
sottolineato che, ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, può
essere emanata soltanto la sanzione pecuniaria “pari al
doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile
conseguente alla realizzazione degli interventi” abusivi “e
comunque in misura non inferiore a 516,00 €”, ma non la
sanzione della demolizione.
Infatti, in caso di interventi edilizi, soggetti a SCIA e
non a permesso di costruire, risulta comunque necessaria la
presentazione della relativa istanza di sanatoria ex art. 37
DPR n. 380/2001, per la regolarizzazione di tali abusi
minori, ma tale domanda di sanatoria può essere presentata
fino alla materiale esecuzione dell’eventuale sanzione di
demolizione, irrogata dal Comune, a prescindere
dall’impugnazione giurisdizionale entro il termine
decadenziale di 60 giorni ex art. 29 Cod. Proc. Amm.
dell’eventuale provvedimento di demolizione
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 576 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare d’appalto l’obbligo di motivare in modo completo e
approfondito sussiste solo nel caso in cui la stazione
appaltante esprime un giudizio di non congruità sull’offerta
anomala, mentre non sussiste uguale obbligo in caso di esito
positivo della verifica di anomalia, risultando esaustiva la
motivazione per relationem con le giustificazioni presentate
dal concorrente aggiudicatario, se ritenute congrue ed
adeguate.
Perciò, incombe su chi contesta l’aggiudicazione l’onere di
individuare gli specifici elementi da cui il Giudice
Amministrativo possa evincere che la valutazione
tecnico-discrezionale dell’Amministrazione sia stata
irragionevole o basata su fatti erronei o travisati.
Anche il terzo motivo di impugnazione non merita
di essere accolto, atteso che, secondo un condivisibile e
prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. da ultimo
C.d.S. Sez. V Sent. n. 6061 del 29.11.2012; idem n. 5703 del
12.11.2012; idem n. 4785 del 10.09.2012; idem n. 3934 del
5.7.2012; idem n. 2552 del 3.5.2012; idem n. 1183 del
29.02.2012; C.d.S. Sez. III Sent. n. 4322 del 15.07.2011;
C.d.S. Sez. IV Sent. n. 2055 dell’01.04.2011; C.d.S. Sez. V
Sent. n. 1925 del 29.03.2011) nelle gare d’appalto l’obbligo
di motivare in modo completo e approfondito sussiste solo
nel caso in cui la stazione appaltante esprime un giudizio
di non congruità sull’offerta anomala, mentre non sussiste
uguale obbligo in caso di esito positivo della verifica di
anomalia, risultando esaustiva la motivazione per relationem
con le giustificazioni presentate dal concorrente
aggiudicatario, se ritenute congrue ed adeguate.
Perciò, incombe su chi contesta l’aggiudicazione l’onere di
individuare gli specifici elementi da cui il Giudice
Amministrativo possa evincere che la valutazione
tecnico-discrezionale dell’Amministrazione sia stata
irragionevole o basata su fatti erronei o travisati
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta
dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso
integrative, deve tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in
muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di
consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di
sopra del livello del suolo.
Al riguardo, va statuito che nel
calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta
dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso
integrative, deve tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in
muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di
consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di
sopra del livello del suolo (cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent.
n. 1966 del 30.1.2007; TAR Bari Sez. III Sent. n. 1219 del
21.06.2012; CONTRA TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 505 del
25.03.2008, che richiama le Sentenze Cass. Civ. Sez. II n.
14379 del 21.12.1999 e n. 5467 dell’08.09.1986).
Il vigente art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. non contraddice
il suddetto principio giurisprudenziale, quando stabilisce
che la distanza degli edifici dai confini e dalle strade va
“misurata nel punto di massima sporgenza della parete delle
edificio, di logge, balconi, etc.”, atteso che, anche se non
vengono citate espressamente le scale esterne scoperte,
dalla parola abbreviata “etc.” si desume agevolmente che la
predetta norma urbanistica, al fine di evitare un lungo
elenco, intende riferirsi a tutti i corpi aggettanti e
perciò anche alle scale esterne scoperte, che sono
materialmente unite alla parete dell’edificio, come le logge
ed i balconi.
Ma, poiché dalla documentazione acquisita in giudizio non
risulta che il progetto, assentito con l’impugnato permesso
di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed in
variante (al permesso di costruire del 16.12.2005),
prevedeva che le predette scale esterne scoperte erano
posizionate ad una distanza dal confine inferiore a quella
prescritta di minimo 5 m. ed ad una distanza dai fabbricati
inferiore a quella prescritta di minimo 10 m., deve
ritenersi che la violazione delle N.T.A. del P.d.L.,
approvato con Del. C.C. n. 220 del 06.01.1983, assume la
configurazione di un abuso edilizio, in quanto non
autorizzata dall’impugnato permesso di costruire.
Comunque, nella specie, il Comune di Matera ha l’obbligo di
ordinare la demolizione delle scale esterne, già realizzate,
ed il loro arretramento fino a 5 m. dal confine e 10 m.
dalle adiacenti costruzioni compreso quella dei ricorrenti
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di interventi edilizi eseguiti in parziale difformità,
l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la
sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo
un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso
commesso, mentre la sostituzione della demolizione con la
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34, comma 2, DPR n.
380/2001, può essere adottata soltanto in un secondo
momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato
spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato
che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità.
---------------
La disposizione di cui al comma 2-ter dell’art. 34 DPR n.
380/2001 (introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 5,
D.L. n. 70/20011 conv. nella L. n. 106/2011), secondo cui
“non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in
presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o
superficie coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2% delle misure progettuali”, non è sempre
applicabile atteso che tale eccedenza nella misura massima
del 2% non può comunque violare i parametri urbanistici
stabiliti dagli strumenti urbanistici, come il rapporto di
superficie massima coperta del lotto edificabile.
Secondo questo
Tribunale (cfr. per es. TAR Basilicata Sentenze n. 340 del
27.06.2008 e n. 779 del 14.09.2005) “in caso di interventi
edilizi eseguiti in parziale difformità, l’ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria
ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso”, mentre la
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria
prevista dall’art. 34, comma 2, DPR n. 380/2001, può essere
adottata “soltanto in un secondo momento, cioè quando il
soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione” ed il Comune ha accertato che “la demolizione
non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità”.
Pertanto, il Comune di Matera dovrà ordinare la demolizione
di 2,11 mq. di superficie occupata in più dall’edificio di
cui è causa, al fine di ripristinare il citato parametro
urbanistico della superficie coperta di 1/5 dell’area del
lotto, e soltanto, se la demolizione non può essere eseguita
senza danneggiare restanti 331,60 mq. di superficie coperta,
può essere sostituita con la sanzione pecuniaria di cui
all’art. 34, comma 2, DPR n. 380/2001.
Mentre, nella specie, non può trovare applicazione il comma
2-ter dell’art. 34 DPR n. 380/2001 (introdotto dall’art. 5,
comma 2, lett. a, n. 5, D.L. n. 70/20011 conv. nella L. n.
106/2011), il quale prevede che “non si ha parziale
difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure
progettuali”, atteso che tale eccedenza nella misura
massima del 2% non può comunque violare i parametri
urbanistici stabiliti dagli strumenti urbanistici, come il
rapporto di superficie massima coperta del lotto edificabile
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Termine di prescrizione del diritto al pagamento delle ferie
non godute.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza 01.10.2013 n. 4878, si occupa del compenso
per ferie non godute da parte di un Segretario comunale
negli anni 1982-1987; in particolare, del termine
prescrizionale del diritto all'ottenimento del pagamento
sostitutivo.
Il giudice di primo grado aveva respinto la richiesta
dell'interessato, in quanto (nonostante avesse dimostrato la
non fruizione delle ferie) non aveva intentato l'azione
entro il termine di cinque anni dalla maturazione del
credito.
In sede di gravame, invece, viene riformata la pronuncia,
per le seguenti motivazioni:
"Il prestatore che non abbia goduto delle ferie per esigenze
di servizio ha diritto al compenso sostitutivo; e il credito
relativo, avendo natura non retributiva ma risarcitoria, ha
termine di prescrizione decennale (v. C.d.S., Sez. V, 22.10.2007, n. 5531; 19.10.2009, n. 6415)".
Nella fattispecie, poi, il deducente aveva anche interrotto
(con nota scritta) il precitato termine decennale di
prescrizione
(tratto da www.publika.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte di localizzazione delle aree preordinate
all’esproprio sono indefettibilmente contenute in un
regolamento urbanistico che, come da consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio, risponde a scelte
dell’amministrazione connotate da un’ampissima
discrezionalità, costituendo apprezzamenti di merito che
sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
irrazionalità od irragionevolezza, ovvero dal travisamento
dei fatti in relazione alle esigenze che si intendono in
concreto soddisfare.
Esse, inoltre, non abbisognano di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di
ordine tecnico discrezionale– seguiti nell’impostazione del
piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano
creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le
cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche
considerazioni.
Pacifica, dunque, è l’ampia discrezionalità che connota le
decisioni dell’amministrazione in sede di pianificazione
generale del territorio, tali da non richiedere una
particolare motivazione se non quella ricavabile dai
principi generali che informano lo strumento urbanistico.
Con riferimento alle censure, anch’esse
riproposte, mosse alla delibera n. 470/2004, occorre
rilevarne l’infondatezza, atteso che le scelte di
localizzazione delle aree preordinate all’esproprio sono indefettibilmente contenute in un regolamento urbanistico
che, come da consolidata giurisprudenza di questo Consiglio,
risponde a scelte dell’amministrazione connotate da
un’ampissima discrezionalità, costituendo apprezzamenti di
merito che sono sottratti al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da
irrazionalità od irragionevolezza, ovvero dal travisamento
dei fatti in relazione alle esigenze che si intendono in
concreto soddisfare; esse, inoltre, non abbisognano di
apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai
criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti
nell’impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di
specifiche considerazioni (cfr., ex multis, Cons. St., Sez.
IV, 07.04.2008, n. 1476; id., 13.03.2008, n. 1095; id.
27.12.2007, n. 6686; id., 10.12.2007, n. 6326;
id., 11.10.2007, n. 5357; id., 08.10.2007, n. 5210;
id., 12.06.2007, n. 3072).
Pacifica, dunque, è l’ampia discrezionalità che connota le
decisioni dell’amministrazione in sede di pianificazione
generale del territorio, tali da non richiedere una
particolare motivazione se non quella ricavabile dai
principi generali che informano lo strumento urbanistico
(cfr., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 24.02.2011,
n. 1222; id., 18.10.2010, n. 7554; id., 26.01.2012, n. 119;
id., 31.07.2009, n. 4847)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333/1992, convertito con modificazioni nella legge n.
359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971
n. 865 sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento
per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui
alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del
10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità
costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con
l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte
di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché
il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde
dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora
ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del
bene. Restano così trascurate le caratteristiche di
posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue
anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia
elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia
nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul
valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere
inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con
il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata
giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il
legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente
l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non
sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale,
l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità
dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando
eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato,
impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto
equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio,
l'inapplicabilità del v.a.m. (valore agricolo medio),
ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario
riferimento "... al valore venale pieno, potendo
l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile
di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo,
pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che,
quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e
l'edificatoria".
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità
d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio
ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a
fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini
risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore
venale in comune commercio, considerate tutte le
caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione
più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza
di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza
naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie
inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica.
E' fondato il primo motivo d'appello, relativo
alla commisurazione del risarcimento del danno al criterio
del valore agricolo medio.
Il giudice amministrativo pugliese ha osservato al riguardo
che:
"...trattandosi di terreno a destinazione puramente agricola
(e di cui non risulta acquisita la prova della sussistenza
di <<possibilità legali ed effettive di edificazione
esistenti al momento dell'apposizione del vincolo
preordinato all'esproprio>>), devono poi trovare
applicazione, ai fini della quantificazione
dell’obbligazione risarcitoria, <<le norme di cui al titolo II della legge 22.10.1971, n. 865, e successive
modificazioni ed integrazioni>> richiamate dall’art. 5-bis,
comma 4, del d.l. 11.07.1992, n. 333, conv. in l. 08.08.1992, n. 359 (il necessario riferimento al criterio
dell’effettivo valore venale dell’area reintrodotto da Corte
cost., 24.10.2007, n. 349 trova, infatti, applicazione
con riferimento ai suoli forniti di suscettibilità
edificatoria e non ai suoli a destinazione puramente
agricola, come nel caso di specie)".
Sennonché, come esattamente evidenziato dagli appellanti
nella memoria difensiva depositata il 09.10.2012, il
combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333/1992, convertito con modificazioni nella legge n.
359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 (ossia delle norme di cui al titolo II della
predetta legge cui il primo rinviava) sono ormai
definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della
declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della
Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità
costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con
l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte
di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché
il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde
dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora
ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del
bene. Restano così trascurate le caratteristiche di
posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue
anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia
elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia
nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul
valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere
inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con
il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata
giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il
legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente
l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non
sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale,
l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità
dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando
eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato,
impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto
equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio,
l'inapplicabilità del v.a.m., ovviamente nei rapporti non
esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore
venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il
fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso
da quello agricolo , pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà
e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia
possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e
l'edificatoria" (Cass. Civ., Sez. I, 17.10.2011, n.
21386).
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità
d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio
ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio,
a
fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini
risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore
venale in comune commercio, considerate tutte le
caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione
più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza
di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza
naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie
inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica
(tipizzata in gran parte come E1 fascia di rispetto stradale
e per piccola porzione come E2 aree per attrezzature
esistenti e di progetto)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
differenza tra restauro e risanamento conservativo, da un
lato, e ristrutturazione edilizia, dall'altro,
risiede essenzialmente nella conservazione formale e
funzionale dell'organismo edilizio che connota il primo
rispetto alla seconda.
Ne consegue che è consentita, negli interventi di restauro e
risanamento conservativo, la sostituzione di parti anche
strutturali e in generale di elementi costitutivi degli
edifici (strutture portanti, pareti perimetrali, e quindi
anche un rinnovo sistematico e globale purché nel rispetto
degli elementi essenziali tipologici, formali e strutturali.
Com'é noto, ai sensi dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 (recante "Norme per l'edilizia
residenziale"), applicabile ratione temporis, sono
rispettivamente:
- "interventi di restauro e risanamento conservativo quelli
rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne
la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere
che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio" (art. 31, comma 1, lettera c);
- "interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti"
(art. 31, comma 1, lettera d).
Tali definizioni tipologiche prevalgono e si impongono sulle
previsioni e prescrizioni degli strumenti urbanistici
generali e dei regolamenti edilizi, secondo l'inequivoca
disposizione del comma 2 dell'art. 31.
In effetti, anche l'art. 3, comma 1, lettere c) e d), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (recante "Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia") ripropone le suddette definizioni, salvo
l'ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia
alla "...demolizione e successiva fedele ricostruzione di un
fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime
e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento
alla normativa antisismica".
Orbene, la differenza tra restauro e risanamento
conservativo, da un lato, e ristrutturazione edilizia,
dall'altro, risiede essenzialmente nella conservazione
formale e funzionale dell'organismo edilizio che connota il
primo rispetto alla seconda.
Ne consegue che è consentita, negli interventi di restauro e
risanamento conservativo, la sostituzione di parti anche
strutturali e in generale di elementi costitutivi degli
edifici (strutture portanti, pareti perimetrali: cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 19.11.2012, n. 5818, vedi anche Sez. VI,
30.09.2008, n. 4694), e quindi anche un rinnovo
sistematico e globale purché nel rispetto degli elementi
essenziali tipologici, formali e strutturali (Cons. Stato,
Sez. IV, 16.06.2008, n. 2981)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del rilascio delle concessioni edilizie, la volumetria
necessaria per la realizzazione di sale cinematografiche non
concorre alla determinazione della volumetria complessiva in
base alla quale sono calcolati gli oneri di concessione.
E "per sala cinematografica si intende qualunque spazio, al
chiuso o all'aperto, adibito a pubblico spettacolo
cinematografico".
Poi, l'art. 22 d.lgs. 28/2004 ha demandato alle Regioni
l'onere di disciplinare "...le modalità di autorizzazione
alla realizzazione, trasformazione ed adattamento di
immobili da destinare a sale ed arene cinematografiche,
nonché alla ristrutturazione o all'ampliamento di sale e
arene già in attività, anche al fine di razionalizzare la
distribuzione sul territorio delle diverse tipologie di
strutture cinematografiche...", ed il comma 2 ha dettagliato
la descrizione tipologica delle aree destinate a pubblici
spettacoli cinematografici, tra le quali, per quanto qui
interessa, alla lettera c) ha incluso anche le "...
multisala, (ossia) l'insieme di due o più sale
cinematografiche adibite a programmazioni multiple accorpate
in uno stesso immobile sotto il profilo strutturale, e tra
loro comunicanti".
L'art. 20 del d.l. 14.01.1994,
n. 26, convertito con modificazioni nella legge 01.03.1994, n. 153 (recante "Interventi urgenti in favore del
cinema") -nel quadro di disposizioni tese ad agevolare
"...la trasformazione, la ristrutturazione e l'adeguamento
strutturale e tecnologico delle sale esistenti anche ai fini
del rispetto della normativa sulla sicurezza dei locali di
pubblico spettacolo e di quella sull'abolizione delle
barriere architettoniche, nonché per l'installazione e la
ristrutturazione di impianti e di servizi accessori alle
sale, per l'installazione di casse automatiche
computerizzate, per la realizzazione di nuove sale, per il
ripristino di sale non più in attività e per l'acquisto dei
locali per l'esercizio cinematografico e per i servizi
connessi..." (comma 1)-, ha previsto, al comma 7, che:
"Ai fini del rilascio delle concessioni edilizie, la
volumetria necessaria per la realizzazione di sale
cinematografiche non concorre alla determinazione della
volumetria complessiva in base alla quale sono calcolati gli
oneri di concessione".
L'ambito della fattispecie agevolativa deve essere,
pertanto, raccordato all'identificazione tipologica del suo
oggetto, come enucleabile anzitutto dall'art. 2, comma 8, del
d.lgs. 22.01.2004 n. 28 (recante "Riforma della
disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137"), a
tenore del quale:
"Per sala cinematografica si intende qualunque spazio, al
chiuso o all'aperto, adibito a pubblico spettacolo
cinematografico".
Peraltro, il successivo art. 22, nel demandare alle Regioni
di disciplinare "...le modalità di autorizzazione alla
realizzazione, trasformazione ed adattamento di immobili da
destinare a sale ed arene cinematografiche, nonché alla
ristrutturazione o all'ampliamento di sale e arene già in
attività, anche al fine di razionalizzare la distribuzione
sul territorio delle diverse tipologie di strutture
cinematografiche...", al comma 2 ha dettagliato la
descrizione tipologica delle aree destinate a pubblici
spettacoli cinematografici, tra le quali, per quanto qui
interessa, alla lettera c) ha incluso anche le "...
multisala, (ossia) l'insieme di due o più sale
cinematografiche adibite a programmazioni multiple accorpate
in uno stesso immobile sotto il profilo strutturale, e tra
loro comunicanti"
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza del
titolo edilizio di cui all’art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10
e –ora– dell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R.
06.06.2001 n. 380, l’effettivo inizio dei lavori deve essere
valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e
puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni
dell’intervento edilizio così come programmato e
autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il
termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con
ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non
oggettivamente significativi di un effettivo intendimento
del titolare della concessione stessa di procedere alla
costruzione.
--------------
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del
titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere
intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da
di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il
semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli
strumenti e materiali da costruzione; ovvero, detto
altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per
effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di
sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto
l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che
dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino
alla loro ultimazione, con la conseguenza che la
declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato
inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima
solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il
riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni
perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il
termine di legge” o se lo sbancamento realizzato si estende
un’area di vaste dimensioni.
---------------
Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento
recante la pronuncia di decadenza della concessione si
configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in
ordine al quale la regola generale di per sé impone
l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento
in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo
destinatario originate da un provvedimento precedentemente
adottato in suo favore; ma anche in tale evenienza l’inoltro
medesimo non è ritenuto necessario se risulta che
l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa
informazione.
... il Collegio rileva che ai fini
della sussistenza dei presupposti per la decadenza del
titolo edilizio di cui all’art. 4 della L. 28.01.1977
n. 10 e –ora– dell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato
con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, l’effettivo inizio dei
lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta,
ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle
dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e
autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il
termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con
ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non
oggettivamente significativi di un effettivo intendimento
del titolare della concessione stessa di procedere alla
costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615 e, ancor più recentemente, Cons.
Stato, Sez. IV, 18.05.2012 n. 2915).
Sempre in tal senso, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire
la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente
quando le opere intraprese siano tali da evidenziare
l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a
ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione
(così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165);
ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa
a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
03.10.2000 n. 5242), con la conseguenza che la
declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato
inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima
solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il
riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni
perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il
termine di legge” (Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n.
1006) o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di
vaste dimensioni (Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n.
535): circostanze, queste ultime, non sussistenti nel caso
di specie.
Dalla lettura del verbale del sopralluogo effettuato in data
21.03.2002 dal personale dell’Ufficio tecnico comunale,
nonché dall’esame dell’annessa documentazione fotografica,
si evince incontrovertibilmente che a quella data, ossia a
quattro anni dal rilascio della concessione edilizia n.
1650/98 dd. 18.03.1998 era stato eseguito soltanto “un
modesto scavo recintato, delle dimensioni di circa due
metri”.
La circostanza -allegata da Ste.Ros.- che siano stati anche
abbattuti due alberi d’alto fusto per realizzare tale scavo,
nonché la parimenti allegata presenza di una recinzione e di
macchinari edili nell’area nulla aggiungono a tale oggettiva
realtà, dalla quale pertanto inoppugnabilmente si ricava che
il titolo edilizio non è stato nella sostanza fruito dal
soggetto a favore del quale esso era stato rilasciato, e che
pertanto la pronuncia della decadenza dallo stesso era atto
dovuto per l’Amministrazione Comunale.
---------------
Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento
recante la pronuncia di decadenza della concessione si
configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in
ordine al quale la regola generale di per sé impone
l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento
in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo
destinatario originate da un provvedimento precedentemente
adottato in suo favore (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato,
Sez. V, 29.07.2003 n. 3169); ma anche in tale evenienza
l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che
l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa
informazione (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato,
Sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; Sez. V, 18.11.2004,n. 7553 e
22.01.2003 n. 243)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Le
norme dettate in tema di partecipazione al procedimento
amministrativo non devono essere applicate in via del tutto
meccanica e a fini meramente strumentali, essendo esse
deputate non solo ad una funzione difensiva a favore del
destinatario dell’atto conclusivo del procedimento, ma anche
a formare nell’Amministrazione procedente una più completa e
meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il
vizio derivante dall’omissione di comunicazione non sussista
nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato
sia stato comunque raggiunto o manchi l’utilità della
comunicazione all’azione amministrativa.
Segue dunque ciò, anche in dipendenza dei principi stabiliti
dall’art. 21-octies della L. 241 del 1990, che non può
configurarsi la violazione di tale obbligo di comunicazione
nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente da un
provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto
dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di
fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far
determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione
procedente dell’azione amministrativa.
---------------
Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento
recante la pronuncia di decadenza della concessione si
configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in
ordine al quale la regola generale di per sé impone
l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento
in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo
destinatario originate da un provvedimento precedentemente
adottato in suo favore; ma anche in tale evenienza l’inoltro
medesimo non è ritenuto necessario se risulta che
l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa
informazione.
Innanzitutto, per quanto attiene ai motivi
dedotti da Ste.Ros. in ordine all’asseritamente avvenuta
violazione degli artt. 7 e 8 della L. 241 del 1990 sia con
riguardo al difetto di motivazione della sentenza impugnata
per quanto attiene alla valutazione delle relative censure
formulate nel primo grado di giudizio, sia sotto il profilo
della violazione dei principi di diritto che assistono
l’annullamento degli atti di secondo grado, il Collegio
ribadisce –concordando sul punto con il contenuto della
sentenza impugnata– che le norme dettate in tema di
partecipazione al procedimento amministrativo non devono
essere applicate in via del tutto meccanica e a fini
meramente strumentali, essendo esse deputate non solo ad una
funzione difensiva a favore del destinatario dell’atto
conclusivo del procedimento, ma anche a formare
nell’Amministrazione procedente una più completa e meditata
volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio
derivante dall’omissione di comunicazione non sussista nei
casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia
stato comunque raggiunto o manchi l’utilità della
comunicazione all’azione amministrativa (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 20.06.2012 n. 3595).
Segue dunque ciò, anche in dipendenza dei principi stabiliti
dall’art. 21-octies della L. 241 del 1990, che non può
configurarsi la violazione di tale obbligo di comunicazione
nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente da un
provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto
dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di
fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far
determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione
procedente dell’azione amministrativa (cfr. ibidem).
Nel caso di specie assume pertanto valore dirimente la
circostanza che Ste.Ros. non dimostra che l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento conclusosi con
l’adozione del provvedimento n. 13120 dd. 05.11.2002 di
decadenza della concessione edilizia n. 1650/98 dd. 18.03.1998 le ha precluso di dedurre nel procedimento medesimo a
propria difesa elementi decisivi e tali dunque da indurre
l’Amministrazione Comunale ad un diverso apprezzamento della
fattispecie; né va sottaciuto che parimenti non sussiste la
violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 se
l’interessato ha comunque avuto aliunde informazione
dell’avvio del procedimento (cfr. ex multis Cons. Stato,
Sez. V, 07.09.2011 n. 5032), come nell’ipotesi –qui,
per l’appunto, sussistente– nella quale la relativa
conoscenza proviene all’interessato medesimo dalla
sussistenza di un contenzioso con l’amministrazione sul
punto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n. 2884).
Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento
recante la pronuncia di decadenza della concessione si
configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in
ordine al quale la regola generale di per sé impone
l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento
in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo
destinatario originate da un provvedimento precedentemente
adottato in suo favore (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato,
Sez. V, 29.07.2003 n. 3169); ma anche in tale evenienza
l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che
l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa
informazione (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato,
Sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; Sez. V, 18.11.2004,n. 7553 e
22.01.2003 n. 243)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Gli
Ordini professionali hanno legittimazione a difendere in
sede giurisdizionale gli interessi della categoria di
soggetti di cui abbiano la rappresentanza istituzionale
qualora si tratti della violazione di norme poste a tutela
della professione stessa, o allorché si tratti comunque di
conseguire determinati vantaggi -sia pure di carattere
strumentale- giuridicamente riferibili alla intera
categoria, con il limite derivante dal divieto di occuparsi
di questioni relative ad attività non soggette alla
disciplina o potestà degli Ordini medesimi.
Ossia, detto altrimenti, sussiste nel nostro ordinamento la
legittimazione di un Ordine professionale a tutelare anche
in via contenziosa l’interesse collettivo dei professionisti
suoi iscritti in modo generale e indistinto.
---------------
L’art. 2, lett. d), della L. 07.01.1976 n. 3, recante
l’ordinamento della professione di dottore agronomo,
riconduce testualmente alla relativa competenza
professionale anche “la progettazione... ed il collaudo dei
lavori relativi alle costruzioni rurali e di quelli
attinenti alle industrie agrarie e forestali”.
A suo tempo questo stesso giudice ha già avuto modo di
affermare la legittimità di un titolo edilizio per la
realizzazione di un complesso industriale per la lavorazione
di carni suine e di pollame su progetto redatto da un
dottore agronomo, posto che la disposizione testé riportata
consente la prestazione professionale di quest’ultimo
relativamente alle industrie, tra le quali devono essere
annoverate le “industrie agrarie” e, quindi, il complesso in
questione, essendo indubitabile che nella disposizione
medesima il termine “industria” è sempre usato nel senso
tecnico-giuridico di attività diretta alla produzione di
beni o di servizi di cui all’art. 2195, n. 1 c.c. e che
l’opera in questione è –per l’appunto- relativa ad industria
agraria.
Lo stesso ragionamento non può -quindi- non valere anche per
la realizzazione di un frantoio, trattandosi parimenti di
“industria agraria” nel senso ora descritto.
Va comunque precisato che se il progetto eventualmente
fuoriesce dai caratteri propri della semplice edilità e
richiede, ad esempio, opere di “conglomerato cementizio
semplice od armato, la cui stabilità possa comunque
interessare la incolumità delle persone”, la competenza
professionale spetta inderogabilmente, a’ sensi del tuttora
vigente art. 1, primo comma, del R.D.L. 16.11.1939 n. 2229,
agli ingegneri e agli architetti iscritti ai relativi albi,
“nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della L.
24.06.1923 n. 1395 e del R.D. 23.10.1925 n. 2537,
sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di
architetto, e delle successive modificazioni”.
Nella sentenza resa in primo grado si afferma
“che il diniego fu comunicato il 21 e 22.12.1998, sia
al presidente della Cooperativa istante, che al progettista,
dott. M.C., ma avverso di esso non fu proposto
ricorso e la Cantina Cooperativa richiedente curò, invece,
la redazione di un nuovo progetto, a firma questa volta di
un ingegnere, che fu approvato in forza di atto di
concessione rilasciato il 16.07.1999. … (Gli) effetti
del gravato diniego ebbero come loro destinataria immediata
e diretta la Cantina Cooperativa, titolare della facoltà di
costruire incisa negativamente dal diniego stesso. Al
riguardo, il redattore del progetto assume la posizione di
terzo rispetto alla relazione giuridica, intercorrente tra
concedente e l’aspirante concessionario; lo stesso, per
effetto del contratto d’opera intercorso con il committente
proprietario dell’area, al più avrebbe avuto titolo ad
intervenire nel giudizio eventualmente promosso da
quest’ultimo contro il rifiuto, ma non mai a porsi come
ricorrente in via principale (cfr. TAR Veneto, 22.01.1982 n. 101).
Peraltro, -e sul punto il Tribunale non
ritiene di doversi discostare dall’insegnamento del giudice
amministrativo, da ultimo confermato con le sentenze del
Consiglio di Stato (Sez. V) 20.08.1996, n. 929, e 23.05.1997 n. 527, e del Csi n. 254 del 14.06.1999-
gli Ordini
professionali non sono persone giuridiche di diritto
pubblico aventi, tra l'altro, anche la finalità di tutelare
gli interessi della categoria; ma sono, invece, soggetti
pubblici che, per le professioni, per l’esercizio delle
quali occorre una speciale abilitazione dello Stato, hanno,
in base alle disposizioni degli artt. 2229 e 2233 del Codice
civile e delle varie leggi istitutive dei singoli Ordini, le
specifiche competenze della tenuta degli albi,
dell'esercizio della funzione disciplinare, nonché, della
redazione e proposta delle tariffe e della liquidazione dei
compensi a richiesta del professionista o del privato. Le
predette funzioni -ha sottolineato il giudice
amministrativo- sono assegnate dalla legge agli Ordini
essenzialmente per la tutela della collettività nei
confronti degli esercenti la professione, la quale solo
giustifica l’obbligo dell'appartenenza all'Ordine stesso, e
non già per una tutela degli interessi della categoria
professionale, che farebbe degli Ordini un'abnorme figura
d'associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per
la difesa di interessi privati settoriali.
In particolare, poi, l’interesse azionato dall’Ordine
ricorrente fa capo ad ognuno dei soggetti abilitati
all’esercizio della professione di agronomo e non può
definirsi, quindi, come interesse collettivo, poiché di
quest’ultimo è, invece, connotato essenziale l’essere l’ente
esponenziale in veste di ente collettivo il legittimo,
esclusivo portatore della situazione di vantaggio a
carattere metaindividuale, perché l’anzidetta condizione,
pur astrattamente riferibile a ciascuno degli individui
facenti parte del gruppo sociale che si riconosce nel
soggetto collettivo, tuttavia, non è “frazionabile” e non è,
dunque, tutelabile singolarmente. Il difetto di
legittimazione dell’Ordine ricorrente (e la conforme
eccezione sollevata dall’amministrazione resistente risulta,
perciò, fondata) deve pertanto essere affermato, alla luce
di quanto appena detto, pure sotto il profilo sostanziale,
poiché si è agito a difesa, in realtà, della posizione
giuridica nella titolarità del redattore del progetto
respinto e ciò in violazione dell’art. 81 c.p.c. in base al
quale, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge di
sostituzione processuale o di rappresentanza, nessuno può
far valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio. In
definitiva, alla stregua delle su esposte considerazioni, il
ricorso in esame è inammissibile".
La giurisprudenza di questo Consiglio citata dal
giudice di primo grado a supporto della statuizione da lui
assunta non è stata infatti da quest’ultimo ben intesa, e
ciò in quanto le predette decisioni n. 929 dd. 20.08.1996 e n. 527 dd. 23.05.1997 non relegano –come
sembrerebbe– gli Ordini professionali allo svolgimento
delle mere competenze della tenuta degli albi,
dell’esercizio delle azioni disciplinari, della redazione e
della proposta delle tariffe e della liquidazione dei
compensi a richiesta del professionista o del privato, ossia
ad attività preordinate “essenzialmente per la tutela della
collettività nei confronti degli esercenti la professione,
la quale solo giustifica l’obbligo dell'appartenenza
all'Ordine stesso, e non già per una tutela degli interessi
della categoria professionale” (così a pag. 4 la sentenza
impugnata).
Nelle predette due decisioni si afferma infatti che
l’attività degli Ordini professionali comunque concerne -ancorché in vista dell’interesse della collettività e, solo
di riflesso, anche degli stessi professionisti– gli
iscritti agli ordini medesimi, ossia coloro che esercitano
la libera professione mediante contratti d’opera
direttamente con il pubblico dei clienti o, in alcuni casi,
pure alle dipendenze di privati, mentre sfugge al controllo
degli Ordini la posizione dei pubblici dipendenti che,
svolgendo una prestazione di lavoro subordinato presso una
pubblica amministrazione, effettuino compiti il cui
contenuto corrispondente a quello di una libera professione,
posto che costoro sono retribuiti in base a stipendi
prefissati e soggiacciono alle regole disciplinari stabilite
dalla p.a. datrice di lavoro e non dall'ordine professionale
(cfr., negli stessi termini, le due sentenze dianzi citate).
E’ evidente, quindi, l’inconferenza di tali due richiami
giurisprudenziali contenuti nella sentenza impugnata, posto
che nelle due decisioni non si affronta in linea di
principio la tematica della legittimazione processuale degli
Ordini professionali.
Solo la decisione n. 254 dd. 14.06.1999 resa dalla
Sezione consultiva del Consiglio di giustizia amministrativa
per la Regione Siciliana, parimenti riferita nella sentenza
impugnata, in effetti afferma –tra l’altro– che “per le
attività e per l'esercizio gli ordini e i collegi
professionali sono enti pubblici, per i quali serve un tipo
di abilitazione dello Stato, in base agli art. 2229 e 2233
c.c. e secondo le diverse leggi istitutive dei singoli
ordini, sono provvisti delle precise competenze della tenuta
degli albi, dell’esercizio della funzione disciplinare,
tanto più della redazione e proposta delle tariffe e dei
pagamenti dei compensi secondo il privato o il
professionista; perciò, queste funzioni si considerano
elargite a difesa della collettività nei confronti degli
esercenti la professione e non ormai a difesa dei vantaggi
della classe professionale”.
Tali ultimi enunciati sono invero parzialmente conformi a
quelli del giudice di primo grado: ma da essi comunque non è
dato di ricavare la conseguenza da quest’ultimo affermata,
ossia il difetto, per il caso di specie, della
legittimazione processuale dell’Ordine professionale.
Tale affermazione si configura, pertanto, come del tutto
autonomamente elaborata dal giudice di primo grado senza
alcun previo supporto giurisprudenziale, avendo in
particolar modo riguardo alla paventata ipotesi che l’Ordine
professionale divenga –come detto innanzi– “un’abnorme
figura d'associazione obbligatoria, munita di potestà
pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali”, e
posto che l’interesse azionato dall’Ordine, facendo capo a
ciascuno dei soggetti abilitati all’esercizio della relativa
professione comunque non potrebbe definirsi secondo lo
stesso giudice come “collettivo”, né sarebbe “frazionabile”
e, quindi, tutelabile dall’Ordine medesimo in vece del
singolo suo iscritto.
La tesi del giudice di primo grado è –viceversa– smentita
da esplicita e del tutto unanime giurisprudenza formatasi
sul punto in discussione, secondo la quale gli Ordini
professionali hanno legittimazione a difendere in sede
giurisdizionale gli interessi della categoria di soggetti di
cui abbiano la rappresentanza istituzionale qualora si
tratti della violazione di norme poste a tutela della
professione stessa, o allorché si tratti comunque di
conseguire determinati vantaggi -sia pure di carattere
strumentale- giuridicamente riferibili alla intera
categoria, con il limite (che qui non rileva) derivante dal
divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non
soggette alla disciplina o potestà degli Ordini medesimi
(così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10.11.2010 n.
8006; cfr., altresì, la decisione n. 8404 resa sempre dalla
Sez. V); ossia, detto altrimenti, sussiste nel nostro
ordinamento la legittimazione di un Ordine professionale a
tutelare anche in via contenziosa l’interesse collettivo dei
professionisti suoi iscritti in modo generale e indistinto
(così Cons. Stato, Sez. II, 24.01.2011 n. 2783).
Nel caso in esame, quindi, non è ravvisabile –a differenza
di quanto affermato dal giudice di primo grado– una
sostituzione processuale da parte dell’Ordine nei riguardi
della posizione del singolo professionista, per certo
preclusa a’ sensi dell’art. 81 c.p.c., ma è sussistente –anche
al di là della lesione arrecata sia alla sfera
dell’interesse individuale del progettista, sia alla sfera
del committente dell’opera, i quali peraltro liberamente non
hanno ritenuto di tutelarsi in sede giudiziale– un
concomitante e del tutto autonomo interesse dell’Ordine a
veder assicurata l’applicazione delle disposizioni normative
che disciplinano la competenza professionale dei suoi
iscritti -anche se materialmente non coinvolti nel presente
procedimento giudiziale– proprio in quanto soggetto ex lege
esponenziale di tutti gli iscritti medesimi.
Tale interesse alla decisione del ricorso perdura anche
allorquando –come, per l’appunto, nel caso di specie–
l’annullamento dell’atto impugnato non può dispiegare
effetti concreti ma è apprezzabile comunque la perdurante lesività dell’atto stesso per il credito, il prestigio e
l’estimazione sociale della parte ricorrente, ossia
allorquando comunque persistano come fatti storici
valutazioni e giudizi negativi su qualità e capacità della
parte medesima (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 30.07.2002 n. 4076 e Sez. V,
05.03.2001 n. 1250).
Nel caso di specie, è indiscutibile la permanenza a
tutt’oggi dell’interesse dell’Ordine a rimuovere ope iudicis
un provvedimento che, se considerato nel suo intrinseco
contenuto, si pone come non corretta valutazione
dell’idoneità professionale non solo –contingentemente-
del dott. Cassandro ma di qualsivoglia iscritto all’Ordine
professionale degli agronomi se chiamato a progettare un
frantoio, configurandosi quindi come un precedente ostativo
–anche perché reiterabile dallo stesso Comune, nonché da
altre pubbliche amministrazioni- per le opportunità
professionali di tutti i suoi iscritti.
---------------
Il ricorso
proposto in primo grado va accolto, in quanto –come detto
innanzi- l’art. 2, lett. d), della L. 07.01.1976 n. 3,
recante l’ordinamento della professione di dottore agronomo,
riconduce testualmente alla relativa competenza
professionale anche “la progettazione... ed il collaudo dei
lavori relativi alle costruzioni rurali e di quelli
attinenti alle industrie agrarie e forestali”.
A suo tempo questo stesso giudice ha già avuto modo di
affermare la legittimità di un titolo edilizio per la
realizzazione di un complesso industriale per la lavorazione
di carni suine e di pollame su progetto redatto da un
dottore agronomo, posto che la disposizione testé riportata
consente la prestazione professionale di quest’ultimo
relativamente alle industrie, tra le quali devono essere
annoverate le “industrie agrarie” e, quindi, il complesso in
questione, essendo indubitabile che nella disposizione
medesima il termine “industria” è sempre usato nel senso
tecnico-giuridico di attività diretta alla produzione di
beni o di servizi di cui all’art. 2195, n. 1 c.c. e che
l’opera in questione è –per l’appunto- relativa ad
industria agraria (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 29.10.1992 n. 1078).
Lo stesso ragionamento non può -quindi- non valere anche
per la realizzazione di un frantoio, trattandosi parimenti
di “industria agraria” nel senso ora descritto.
Va comunque precisato che se il progetto eventualmente
fuoriesce dai caratteri propri della semplice edilità e
richiede, ad esempio, opere di “conglomerato cementizio
semplice od armato, la cui stabilità possa comunque
interessare la incolumità delle persone”, la competenza
professionale spetta inderogabilmente, a’ sensi del tuttora
vigente art. 1, primo comma, del R.D.L. 16.11.1939 n.
2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti ai relativi
albi, “nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi
della L. 24.06.1923 n. 1395 e del R.D. 23.10.1925
n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di
architetto, e delle successive modificazioni” (cfr. ivi;
cfr., altresì, sul punto, ad es., Cassazione civ., Sez. II,
02.09.2011 n. 18038)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4854 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
un intervento edilizio possa essere qualificato come
restauro e risanamento conservativo occorre che siano
rispettati gli elementi tipologici, formali e strutturali
dell’edificio senza modifiche dell’identità, della struttura
e della fisionomia dello stesso, né ampliamento dei volumi e
delle superfici , essendo esso diretto alla mera
conservazione, mediante consolidamento, ripristino o rinnovo
degli elementi costitutivi, dell’organismo edilizio
esistente, ed alla restituzione della sua funzionalità.
L’aumento di superficie o di volumetria comporta, al
contrario, una trasformazione dell’edificio che necessita di
permesso di costruire.
Affinché un intervento edilizio
possa essere qualificato come restauro e risanamento
conservativo occorre che siano rispettati gli elementi
tipologici, formali e strutturali dell’edificio senza
modifiche dell’identità, della struttura e della fisionomia
dello stesso, né ampliamento dei volumi e delle superfici ,
essendo esso diretto alla mera conservazione, mediante
consolidamento, ripristino o rinnovo degli elementi
costitutivi, dell’organismo edilizio esistente, ed alla
restituzione della sua funzionalità.
L’aumento di superficie
o di volumetria comporta, al contrario, una trasformazione
dell’edificio che necessita di permesso di costruire (Cons.
St. Sez. V, 02.02.2010, n. 431; Sez. IV, 21.05.2004, n. 3295)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nel
caso di indebita erogazione di denaro ad un pubblico
dipendente l'affidamento di quest'ultimo e la stessa buona
fede non sono di ostacolo all'esercizio da parte
dell'Amministrazione del potere-dovere di recupero, e la
medesima non è tenuta a fornire alcuna ulteriore motivazione
sull'elemento soggettivo riconducibile all'interessato.
Come pure va ricordato, rispetto all’unica
problematica concreta opposta in questa sede alla
compensazione, quella attinente all’invocata buona fede del
percipiente, che la giurisprudenza amministrativa si è da
tempo consolidata nel senso che nel caso di indebita
erogazione di denaro ad un pubblico dipendente l'affidamento
di quest'ultimo e la stessa buona fede non sono di ostacolo
all'esercizio da parte dell'Amministrazione del
potere-dovere di recupero, e la medesima non è tenuta a
fornire alcuna ulteriore motivazione sull'elemento
soggettivo riconducibile all'interessato (in tal senso v.,
di recente, C.d.S., V, 18.12.2012, n. 6505; III, 10.12.2012, n. 6287; IV, 20.09.2012, n. 5043; VI,
06.08.2012, n. 4505)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.09.2013 n. 4849 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
l.r. lombarda n. 93/1980, nel disciplinare in modo puntuale
i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole,
con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la
loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle
attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici
fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con
ineludibili requisiti soggettivi è ispirata ad una
trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d.
consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi
che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso
ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa
sostenersi che, sia pure con specifica e congrua
motivazione, essi non possano, invece, introdurre
limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter
precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei
manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi
produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di
chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r.
07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei
territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso
all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di
pianificazione del territorio anche in funzione di
salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la
conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si
applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono
illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità
e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che
subordinano l'identificazione delle possibili modifiche
all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo
parco".
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni
di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono
immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di
igiene comunali che risultino in contrasto con esse",
intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli
prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente
previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti
comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa
doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente
dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente
precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna
procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
---------------
La legge regionale lombarda n. 12/2005, a differenza della
legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e
previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano
recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree
destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la
"conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e
salvaguardia di livello comunale con i requisiti,
condizioni, limiti e parametri direttamente individuati
dagli artt. 59 e 60.
Il giudice amministrativo lombardo
muove, in effetti, da una erronea interpretazione dell'art.
4 della l.r. n. 93/1980 e più in generale sul rapporto tra
le previsioni della predetta legge regionale e i poteri
pianificatori comunali in assenza di strumenti di
pianificazione intermedia con valenza anche paesistico-ambientale.
La legge regionale 07.06.1980, n. 93, nel disciplinare in
modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle
zone agricole, con l'individuazione tipologica degli
interventi ammessi, la loro necessaria connotazione
funzionale all'esercizio delle attività agricole,
l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il
collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti
soggettivi (riconosciuto pienamente legittimo dalla nota
sentenza della Corte Costituzionale, 16.05.1995, n. 167)
è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e
minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi
che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso
ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa
sostenersi che, sia pure con specifica e congrua
motivazione, essi non possano, invece, introdurre
limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter
precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei
manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi
produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di
chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r.
07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei
territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso
all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di
pianificazione del territorio anche in funzione di
salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la
conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si
applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono
illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità
e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che
subordinano l'identificazione delle possibili modifiche
all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo
parco" (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007, n. 860).
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni
di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono
immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di
igiene comunali che risultino in contrasto con esse",
intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli
prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente
previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti
comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa
doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente
dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente
precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna
procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
In tale chiave interpretativa si comprende anche la
previsione contenuta nell'art. 2, comma 7, della legge, a
tenore della quale "Le disposizioni di cui al comma 2°, 3°,
4°, 5° e 6° del presente articolo si applicano fino
all'approvazione del piano territoriale comprensoriale di
cui alla sezione II, titolo II, della legge regionale 15.04.1975, n. 51", che ha inteso evidentemente demandare
l'individuazione di una più articolata e specifica
disciplina dell'utilizzazione delle zone agricole allo
strumento di pianificazione intermedio di livello
comprensoriale, al quale rimane affidata la funzione di
dettare una normativa rapportata agli ambiti territoriali di
riferimento, e quindi in grado di valutare e valorizzare le
loro precipue caratteristiche.
In altri termini, se il piano territoriale comprensoriale
(strumento rimasto inattuato, come pure riconosciuto dal
giudice amministrativo lombardo, salvo che per la provincia
di Lodi) avrebbe potuto introdurre nuovi, diversi, anche più
ampliativi, limiti e parametri, non per questo ai comuni era
precluso, nell'esercizio del potere di pianificazione,
l'enucleazione di limiti e parametri più restrittivi, e ciò
anche in vista di esigenze di tutela lato sensu ambientale e
paesistica.
Non può infatti obliterarsi che l'art. 18, comma 1, n. 1)
della stessa della legge regionale 15.04.1975, n. 51
(recante "Disciplina urbanistica del territorio regionale e
misure di salvaguardia del patrimonio naturale e
paesistico") demandava ai piani regolatori comunali, tra
l'altro, di individuare "le aree agricole, di riserva
naturale e di tutela dei beni paesaggistici", e che nella
diversa forma del territorio possono essere e sono
normalmente compresenti in una stessa area valenze
produttive e connotazioni naturalistiche, ambientali e
paesistiche.
Né ai fini della corretta interpretazione dell'art. 4 della
l.r. n. 93/1980 può soccorrere, al contrario di quanto
opinato dal giudice amministrativo bresciano, la
disposizione dell'art. 61 della l.r. 11.03.2005, n. 12
(recante "Legge per il governo del territorio"), ossia la
successiva legge urbanistica regionale, poiché la
inderogabilità delle previsioni e prescrizioni di cui agli
artt. 59 e 60 della medesima ivi si ricollega alla
vincolante e specifica indicazione di cui al precedente art.
10, comma 4, lettera a), n. 1), secondo cui "Il piano delle
regole: a) per le aree destinate all'agricoltura: 1) detta
la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia, in
conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte
seconda".
In altri termini, la legge regionale n. 12/2005, a
differenza della legge regionale n. 93/1980, ha
espressamente indicato e previsto che gli strumenti
urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi
recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo
assicurare la "conformità" della normativa d'uso,
valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i
requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente
individuati dagli artt. 59 e 60
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Va
da un lato evidenziato che secondo l’unanime
giurisprudenza il decorso del termine previsto per la
conclusione del procedimento non consuma il potere della
amministrazione di provvedere, sia in senso satisfattivo per
il destinatario dell’atto finale del procedimento medesimo,
sia in senso a lui negativo, sia –ancora– mediante un atto
interlocutorio, il quale ultimo comunque sostanzia
l’esercizio di una potestà decisoria dell’Amministrazione
medesima; e, dall’altro, che per altrettanto costante
giurisprudenza, avuto riguardo alla generalità del principio
affermato dall’art. 152, comma 2, cod. proc. civ.,
traslabile in via analogica anche ai procedimenti
amministrativi, il termine per la conclusione di questi
ultimi assume natura meramente acceleratoria (e, quindi,
intrinsecamente ordinatoria) in difetto di una espressa
previsione in ordine alla loro perentorietà.
A tale riguardo va da un lato evidenziato
che secondo l’unanime giurisprudenza il decorso del termine
previsto per la conclusione del procedimento non consuma il
potere della amministrazione di provvedere, sia in senso satisfattivo per il destinatario dell’atto finale del
procedimento medesimo, sia in senso a lui negativo, sia –ancora– mediante un atto interlocutorio, il quale ultimo
comunque sostanzia l’esercizio di una potestà decisoria
dell’Amministrazione medesima (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 10.08.2011 n. 4768 e 15.01.2009 n.
179); e, dall’altro, che per altrettanto costante
giurisprudenza, avuto riguardo alla generalità del principio
affermato dall’art. 152, comma 2, cod. proc. civ.,
traslabile in via analogica anche ai procedimenti
amministrativi, il termine per la conclusione di questi
ultimi assume natura meramente acceleratoria (e, quindi,
intrinsecamente ordinatoria) in difetto di una espressa
previsione in ordine alla loro perentorietà (cfr., sul
punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 15.12.2010 n.
8931, 14.01.2009 n. 140 e 25.06.2008 n. 3215)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4847 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’eventuale
iscrizione di una strada nell’elenco delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta,
ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del
Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità
dell’uso che è superabile con la prova contraria della
natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di
godimento da parte di coloro che sono al riguardo
legittimati mediante un'azione negatoria di servitù e che,
conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di
diritti di uso pubblico su una strada privata è comunque
devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che
essa investe l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione
di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune
medesimo; né diversamente accade per l’accertamento dei
presupposti dell’anzidetto istituto della dicatio ad patriam,
parimenti rientrante nell’ambito della giurisdizione del
giudice ordinario.
Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere la
questione del carattere pubblico ovvero privato di una
strada, nonché la sussistenza di una servitù di uso pubblico
sulla strada privata –eventualmente costituita anche
mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di
risolverla non già come questione principale, sulla quale
pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione
preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via
principale -e all’evidenza rientrante nella sua
giurisdizione- concernente la legittimità di un
provvedimento del tipo di quello qui impugnato.
---------------
Il titolo idoneo ad affermare il diritto di uso pubblico
deve infatti essere rigorosamente provato; e a tal fine in
giudizio deve essere fornita la prova specifica di un
effettivo e pacifico uso dell’area da parte della generalità
dei cittadini e dell’acquiescenza del proprietario, non
essendo sufficiente che le singole utilizzazioni dedotte a
prova dell’esistenza della servitù si risolvano in sporadici
episodi svoltisi in maniera discontinua ovvero per mera
tolleranza dei legittimi proprietari.
Il pubblico transito iure servitutis publicae sussiste
infatti soltanto se esercitato da parte di una collettività
di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità
territoriale, e la circostanza (qui comunque non comprovata
per un lasso di tempo almeno ventennale) del pregresso
parcheggio nell’area in questione da parte di terzi non
significa -di per sé- che costoro abbiano intenzionalmente
agito quali componenti della collettività usando il bene in
modo continuativo uti cives con contestuale disconoscimento
del diritto del proprietario.
Va anche soggiunto che l’avvenuta installazione della
predetta cabina telefonica su di un’evidentemente ristretta
porzione dell’area di cui trattasi non significa per certo
che l’eventualmente intervenuta acquisizione di un
qualsivoglia diritto al riguardo da parte del gestore del
servizio telefonico dell’epoca possa riguardare la sorte
dell’intera area per la quale è causa, e che l’avvenuta
installazione di segnali stradali da parte del Comune non
può essere considerata -avendo propriamente riguardo ai
limiti dell’incidentalità dell’accertamento richiesto a
questo giudice- come piena dimostrazione circa la
sussistenza di un diritto reale del Comune sull’area di cui
trattasi.
Ciò posto, va premesso che l’eventuale
iscrizione di una strada nell’elenco delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta,
ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del
Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità
dell’uso che è superabile con la prova contraria della
natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di
godimento da parte di coloro che sono al riguardo
legittimati mediante un'azione negatoria di servitù e che,
conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di
diritti di uso pubblico su una strada privata è comunque
devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che
essa investe l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione
di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune
medesimo (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., SS.UU.,
17.03.2010 n. 6406); né –per quanto qui segnatamente
interessa- diversamente accade per l’accertamento dei
presupposti dell’anzidetto istituto della dicatio ad patriam,
parimenti rientrante nell’ambito della giurisdizione del
giudice ordinario (cfr. sul punto Cass. Civ., SS.UU., 18.03.1999 n. 158)
Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere la
questione del carattere pubblico ovvero privato di una
strada, nonché la sussistenza di una servitù di uso pubblico
sulla strada privata –eventualmente costituita anche
mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di
risolverla non già come questione principale, sulla quale
pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione
preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via
principale -e all’evidenza rientrante nella sua
giurisdizione- concernente la legittimità di un
provvedimento del tipo di quello qui impugnato (così, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2006 n. 5209).
Se così è, dall’analisi della documentazione versata in atti
risulta che, in effetti, le tavole di viabilità e della
zonizzazione del P.R.G. del 1968 riportano l’area in
questione assoggettandola ad allargamento della sede
stradale (cfr. doc. 14 di parte resistente in primo grado):
ma, all’evidenza, tale elaborato grafico assume al più
valenza programmatoria dell’allargamento medesimo, non
sostanziando alcuna imposizione di vincoli servili sull’area
di cui trattasi; né l’apposizione sull’area medesima di
cartelli stradali e la realizzazione sullo stesso sedime di
una cabina telefonica, ovvero di recinzioni (cfr. ibidem,
doc. ti 7 e 11), o anche la tolleranza prestata al
parcheggio da parte di terzi (cfr. ibidem, doc.ti 9 e 10)
possono a tale fine costituire idonea comprova del
sopravvenuto asservimento pubblico.
Il titolo idoneo ad affermare il diritto di uso pubblico
deve infatti essere rigorosamente provato; e a tal fine in
giudizio deve essere fornita la prova specifica di un
effettivo e pacifico uso dell’area da parte della generalità
dei cittadini e dell’acquiescenza del proprietario, non
essendo sufficiente che le singole utilizzazioni dedotte a
prova dell’esistenza della servitù si risolvano in sporadici
episodi svoltisi in maniera discontinua ovvero per mera
tolleranza dei legittimi proprietari (così, ad es., (Cass.
Civ., Sez. II, 09.12.1989 n. 5452).
Il pubblico transito iure servitutis publicae sussiste
infatti soltanto se esercitato da parte di una collettività
di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità
territoriale, e la circostanza (qui comunque non comprovata
per un lasso di tempo almeno ventennale) del pregresso
parcheggio nell’area in questione da parte di terzi non
significa -di per sé- che costoro abbiano intenzionalmente
agito quali componenti della collettività usando il bene in
modo continuativo uti cives con contestuale disconoscimento
del diritto del proprietario (cfr. sul punto, ad es., Cass.
Civ., Sez. II, 17.06.2004 n. 11346).
Va anche soggiunto che l’avvenuta installazione della
predetta cabina telefonica su di un’evidentemente ristretta
porzione dell’area di cui trattasi non significa per certo
che l’eventualmente intervenuta acquisizione di un
qualsivoglia diritto al riguardo da parte del gestore del
servizio telefonico dell’epoca possa riguardare la sorte
dell’intera area per la quale è causa, e che l’avvenuta
installazione di segnali stradali da parte del Comune non
può essere considerata -avendo propriamente riguardo ai
limiti dell’incidentalità dell’accertamento richiesto a
questo giudice- come piena dimostrazione circa la
sussistenza di un diritto reale del Comune sull’area di cui
trattasi.
Semmai –come rettamente considerato dal giudice di primo
grado– dall’esame della documentazione complessivamente
versata in atti, ed in ispecie della nota di trascrizione di
vincolo a favore del Comune da parte della S.I.C.E.A. ,
incontrovertibilmente emerge la sussistenza di un vincolo di
non ulteriore edificabilità dell’area in questione, da
asservire a verde a vantaggio delle erigende costruzioni,
ossia a beneficio degli attuali appellati.
Tale ulteriore circostanza conforta quindi ancor di più -a
ben vedere- l’insussistenza di una destinazione dell’area in
questione a pubblico transito o al pubblico parcheggio, e
quindi la carenza del presupposto invocato dal Comune a
fondamento dell’ordinanza da esso emessa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4844 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
noto quanto consolidato
l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del
c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n.
163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di
una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può
essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile,
e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la
regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a
vizi puramente formali.
E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze
generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.
In particolare, è noto quanto consolidato
l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del
c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n.
163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di
una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può
essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile,
e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la
regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a
vizi puramente formali.
E ciò tanto più quando non
sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di
clausole della legge di gara (cfr., tra le tante: C.d.S., V,
02.08.2010, n. 5084; 02.02.2010, n. 428; 15.01.2008, n. 36)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.09.2013 n. 4842 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
vero che il Consiglio di Stato con decisione n. 525/1982 ha
affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur
tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n.
765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge
28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa
l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con
conseguente non necessità di concessione o autorizzazione.
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che
giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha
evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione
sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle
differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie
tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella
medesima zona territoriale omogenea.
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso
nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n.
380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa
tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi
regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi
permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con
ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di
regolazione.
E’ vero che, come sostengono gli
appellanti, il Consiglio di Stato con decisione 525/1982 del
28.07.1982 ha affermato che allo stato della
legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del
’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n.
10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza
urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non
necessità di concessione o autorizzazione; ed è altresì vero
che, sulla base di tale affermazione, il Consiglio di Stato
ha annullato la variante al PRG di Roma approvata nel ’79
nella parte in cui conteneva prescrizioni concernenti la
zona B che imponevano limiti al cambiamento di destinazione
d’uso (da residenziale a non residenziale).
Non v’è quindi dubbio che all’indomani della decisione
demolitoria, il mutamento di destinazione d’uso senza opere
fosse da considerare attività dal punto di vista
urbanistico/edilizio non necessitante di alcun titolo, salvi
i controlli in ordine all’abitabilità, o al legittimo
esercizio dell’attività (cfr. pagg. 45 e 46 della
decisione).
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che
giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha
evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione
sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle
differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie
tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella
medesima zona territoriale omogenea (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24).
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso
nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n.
380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa
tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi
regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi
permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con
ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di
regolazione (al riguardo Cons. St., sez. IV, 29.05.2008, n.
2561) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che vi
ha interesse; può anche essere presentata da un suo legale,
ma, in tal caso, deve essere accompagnata -per asseverare
l'effettiva provenienza della richiesta da parte di soggetto
interessato- da copia di apposito mandato o incarico
professionale ovvero da sottoscrizione congiunta
dell'interessato stesso.
La sottoscrizione diretta sulla nota inviata dal legale o
copia del mandato da parte del diretto interessato a favore
di legale stesso integrano, infatti, elementi di certezza
essenziali ai fini della imputabilità della richiesta e
assunzione delle eventuali relative responsabilità (sia da
parte del richiedente che del funzionario chiamato
all'estensione di quanto richiesto), nonché ai fini della
verifica di sussistenza di un concreto interesse alla
richiesta medesima; in mancanza di che deve escludersi che
il silenzio serbato dall'Amministrazione possa essere
configurato come illegittimo e che possa, quindi, essersi
consolidato il diritto all'accesso.
---------------
L’impostazione appena delineata vale anche, in linea di
principio, per l’ipotesi in cui l’interessato abbia già
precedentemente rilasciato al proprio legale un mandato
professionale per la proposizione di un ricorso
giurisdizionale.
In tal caso, tuttavia, non sussiste la necessità, per il
legale che debba richiedere l’accesso ad un documento
connesso al contenzioso per il quale è stato officiato, di
munirsi di un ulteriore ed apposito mandato, sufficiente
essendo quello già ottenuto.
L’avvocato che sia già munito di mandato difensivo conferito
con le forme d’uso (nella specie, attributivo di “ogni più
ampio potere di legge”), invero, così come può senz’altro
rivolgere al Giudice adìto un’istanza istruttoria diretta
all’acquisizione di documenti, allo stesso modo deve
reputarsi abilitato a perseguire tale risultato presentando
direttamente, nella propria qualità, un’istanza di accesso
all’Amministrazione controparte del giudizio già pendente.
Questo, naturalmente, sempre che si tratti dell’acquisizione
di atti che siano obiettivamente connessi all’oggetto
dell’impugnativa precedentemente proposta, condizione che
peraltro nella fattispecie ricorre con evidenza.
Risulta quindi corretta la tesi di fondo dell’odierna
appellante che nel caso concreto il suo legale, già
officiato mediante un pieno mandato difensivo, non
abbisognava di ulteriori mandati a supporto della richiesta
di accesso da lui presentata per conto della società.
E’ noto che il Regolamento in materia di
accesso ai documenti (d.P.R. 12.04.2006, n. 184), dopo
avere confermato il principio di origine legislativa (art.
22, comma 1, legge n. 241/1990) per cui l’accesso compete a
chiunque abbia un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento richiesto, stabilisce che il
richiedente l’ostensione debba dimostrare la propria
identità e, “ove occorra, i propri poteri di rappresentanza
del soggetto interessato” (art. 5, comma 2, d.P.R. cit.): il
che comporta la conseguenza che, se già in caso di semplici
dubbi sull’effettività dei poteri rappresentativi del
richiedente, non potrà avere luogo l’accoglimento della
richiesta di ostensione presentata in via informale, ove il
richiedente risulti, invece, del tutto carente di
legittimazione anche la sua richiesta di accesso formale
dovrà essere disattesa (cfr. gli artt. 6, commi 1 e 3, d.P.R. cit.).
Per quanto precede, non vi è dubbio che anche le richieste
di accesso presentate, per conto di un interessato, dal suo
legale, debbano in via di principio soddisfare la regola
-appena vista- della necessità di una dimostrazione dei
poteri di rappresentanza vantati dal richiedente.
In coerenza con i relativi principi, la giurisprudenza di
questa Sezione ha del resto già osservato da tempo (sentenza
05.09.2006, n. 5116) quanto segue:
“La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte
che vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo
legale, ma, in tal caso, deve essere accompagnata -per
asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte
di soggetto interessato- da copia di apposito mandato o
incarico professionale ovvero da sottoscrizione congiunta
dell'interessato stesso.
La sottoscrizione diretta sulla nota inviata dal legale o
copia del mandato da parte del diretto interessato a favore
di legale stesso integrano, infatti, elementi di certezza
essenziali ai fini della imputabilità della richiesta e
assunzione delle eventuali relative responsabilità (sia da
parte del richiedente che del funzionario chiamato
all'estensione di quanto richiesto), nonché ai fini della
verifica di sussistenza di un concreto interesse alla
richiesta medesima; in mancanza di che, come nella specie,
deve escludersi che il silenzio serbato dall'Amministrazione
possa essere configurato come illegittimo e che possa,
quindi, essersi consolidato il diritto all'accesso”
(così la sentenza n. 5116/2006 cit.; nello stesso senso è
orientata anche la giurisprudenza di primo grado: v. ad es.
TAR Lazio, III, 02.07.2008, n. 6365; TAR Toscana,
I, 15.07.2009, n. 1282; TAR Campania, Napoli, V, 09.03.2009, n. 1331).
L’impostazione appena delineata vale anche, in linea di
principio, per l’ipotesi in cui l’interessato abbia già
precedentemente rilasciato al proprio legale un mandato
professionale per la proposizione di un ricorso
giurisdizionale.
In tal caso, tuttavia, non sussiste la necessità, per il
legale che debba richiedere l’accesso ad un documento
connesso al contenzioso per il quale è stato officiato, di
munirsi di un ulteriore ed apposito mandato, sufficiente
essendo quello già ottenuto.
L’avvocato che sia già munito di mandato difensivo conferito
con le forme d’uso (nella specie, attributivo di “ogni più
ampio potere di legge”), invero, così come può senz’altro
rivolgere al Giudice adìto un’istanza istruttoria diretta
all’acquisizione di documenti, allo stesso modo deve
reputarsi abilitato a perseguire tale risultato presentando
direttamente, nella propria qualità, un’istanza di accesso
all’Amministrazione controparte del giudizio già pendente.
Questo, naturalmente, sempre che si tratti dell’acquisizione
di atti che siano obiettivamente connessi all’oggetto
dell’impugnativa precedentemente proposta, condizione che
peraltro nella fattispecie ricorre con evidenza.
Risulta quindi corretta la tesi di fondo dell’odierna
appellante che nel caso concreto il suo legale, già
officiato mediante un pieno mandato difensivo, non
abbisognava di ulteriori mandati a supporto della richiesta
di accesso da lui presentata per conto della società.
Tale soluzione tanto più si impone se si considera che un
ulteriore mandato professionale non occorrerebbe neppure ai
fini della proposizione dell’impugnazione mediante motivi
aggiunti del provvedimento sopravvenuto che nella specie si
tratterebbe di acquisire. Come la Sezione ha recentemente
avuto già modo di puntualizzare (decisione n. 1219 del 28.02.2013), infatti, “… benché si tratti di motivi
aggiunti proposti avverso un provvedimento sopravvenuto, e
non contro gli stessi atti gravati con il ricorso
introduttivo, la relativa iniziativa impugnatoria non
richiede(va) il rilascio di un nuovo ed apposito mandato
difensivo. Come ha ricordato l’appellata, l’art. 24 C.P.A.
stabilisce che la procura rilasciata per il ricorso sia
valida anche per i motivi aggiunti: e questo senza che
l’articolo contempli distinzioni a seconda che si profilino
motivi aggiunti c.d. propri o impropri.”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.09.2013 n. 4839 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base alla disciplina normativa applicabile “ratione temporis”
e cioè la l. n. 10/1977, la concessione ad edificare poteva
essere rilasciata “al proprietario dell'area o a chi abbia
titolo per richiederla” (art. 4, comma 1, sostanzialmente
corrispondente all'art. 11, del testo unico dell’edilizia di
cui al d.p.r. n. 380/2001 attualmente in vigore).
Il riferimento operato dalla citata disposizione al “titolo”
era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale
di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a
chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base ad
un diritto personale (come ad esempio il promissario
acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il
proprietario).
Pertanto, è solo un legame qualificato con l’area da
sfruttare a fini edificatori che fonda l’interesse legittimo
ad ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo.
In mancanza, si è rispetto a quest’ultimo nella posizione di
“quisque de populo”.
In base alla disciplina normativa
applicabile “ratione temporis” e cioè la l. n. 10/1977, la
concessione ad edificare poteva essere rilasciata “al
proprietario dell'area o a chi abbia titolo per
richiederla” (art. 4, comma 1, sostanzialmente
corrispondente all'art. 11, del testo unico dell’edilizia di
cui al d.p.r. n. 380/2001 attualmente in vigore). Il
riferimento operato dalla citata disposizione al “titolo”
era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale
di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a
chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base ad
un diritto personale (come ad esempio il promissario
acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il
proprietario: C. di S., V, 24.08.2007, n. 4485).
Pertanto, è solo un legame qualificato con l’area da
sfruttare a fini edificatori che fonda l’interesse legittimo
ad ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo.
In mancanza, si è rispetto a quest’ultimo nella posizione di
“quisque de populo”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.09.2013 n. 4827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
nell’ipotesi in cui vi sia una evidente discrasia fra il
preavviso di diniego e il diniego definitivo, quando il
primo non fa menzione di contrasto di legge poi riportati
nel secondo.
È illegittimo il diniego di concessione in sanatoria qualora
fondato su motivi ulteriori e diversi rispetto a quelli
genericamente indicati nel preavviso di rigetto –nella
specie il superamento dei limiti volumetrici del fabbricato–
e riguardanti istanze istruttorie acquisite successivamente
alla comunicazione di detto preavviso.
---------------
Ove nel preavviso di provvedimento negativo non siano
contenuti tutti i motivi del diniego va rilevato che, ai
sensi dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, comunque non
è annullabile un provvedimento per omessa comunicazione di
avvio del procedimento, cui vanno assimilati l’omesso
preavviso di provvedimento negativo e l’omissione di uno dei
motivi su cui il provvedimento negativo si fonda, quando la
p. a. abbia dimostrato in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
Va, quindi, fatta applicazione dell’orientamento
giurisprudenziale, compendiato, tra le altre, nelle massime
che seguono: “Sussiste la violazione dell’art. 10-bis, l. n.
241 del 1990, nell’ipotesi in cui vi sia una evidente
discrasia fra il preavviso di diniego e il diniego
definitivo, quando il primo non fa menzione di contrasto di
legge poi riportati nel secondo” (TAR Lombardia–Milano – Sez. II,
04.01.2013, n. 21); “È illegittimo il
diniego di concessione in sanatoria qualora fondato su
motivi ulteriori e diversi rispetto a quelli genericamente
indicati nel preavviso di rigetto –nella specie il
superamento dei limiti volumetrici del fabbricato– e
riguardanti istanze istruttorie acquisite successivamente
alla comunicazione di detto preavviso” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 27.11.2009, n. 11946).
Se è vero, poi, che, secondo altra giurisprudenza: “Ove nel
preavviso di provvedimento negativo non siano contenuti
tutti i motivi del diniego va rilevato che, ai sensi
dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, comunque non è
annullabile un provvedimento per omessa comunicazione di
avvio del procedimento, cui vanno assimilati l’omesso
preavviso di provvedimento negativo e l’omissione di uno dei
motivi su cui il provvedimento negativo si fonda, quando la
p. a. abbia dimostrato in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso da
quello in concreto adottato” (TAR Veneto – Sez. III, 04.06.2007, n. 1752), di tale orientamento –in disparte
ogni considerazione, circa la sua validità generale– non
potrebbe comunque tenersi conto nella specie, stante la
mancata costituzione in giudizio del Comune di Centola (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autore
di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al
diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade
dalla possibilità di rimettere in discussione l’abuso
accertato in sede di impugnazione dell’ordine di
demolizione, atteso che quest’ultimo rinviene nel diniego di
sanatoria il suo presupposto.
---------------
L’ingiunzione di demolizione, che ha a proprio presupposto
il diniego di condono e la realizzazione di un’opera in
assenza di concessione, non trova ostacolo nell’avvenuto
versamento di acconti per un condono poi denegato né tanto
meno nel rilascio di autorizzazioni commerciali che nulla
hanno a che vedere con la regolarità delle strutture
edilizie, le quali richiedono un titolo autonomo.
In
giurisprudenza, per l’affermazione del nesso di
presupposizione, esistente tra i due provvedimenti in questione, si tengano presenti le seguenti massime:
“L’autore di un abuso edilizio, che abbia prestato
acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in
sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in
discussione l’abuso accertato in sede di impugnazione
dell’ordine di demolizione, atteso che quest’ultimo rinviene
nel diniego di sanatoria il suo presupposto” (TAR
Puglia–Bari – Sez. II, 05.01.2011, n. 8);
“L’ingiunzione di demolizione, che ha a proprio presupposto
il diniego di condono e la realizzazione di un’opera in
assenza di concessione, non trova ostacolo nell’avvenuto
versamento di acconti per un condono poi denegato né tanto
meno nel rilascio di autorizzazioni commerciali che nulla
hanno a che vedere con la regolarità delle strutture
edilizie, le quali richiedono un titolo autonomo” (TAR
Lombardia–Milano – Sez. II, 15.02.2007, n. 267) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
22, comma 3, all. f), l. n. 2248/1865 stabilisce
espressamente che “nell’interno delle città e villaggi fanno
parte delle strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli
ad esse adiacenti sul suolo pubblico, restando però ferme le
consuetudini, le convenzioni ed i diritti acquisiti”.
Con questa disposizione, il legislatore ha introdotto una
presunzione di uso pubblico delle aree adiacenti il suolo
pubblico, presunzione che può trovare conferma in un formale
provvedimento classificatorio dell’amministrazione ovvero
nella destinazione urbanistica dell’area.
Qualora questi elementi siano assenti, l’uso pubblico di
un’area può ugualmente ricavarsi da indici rilevatori,
individuati, secondo l’elaborazione giurisprudenziale sul
tema, tra l’altro nelle seguenti circostanze:
- passaggio continuativo esercitato da una collettività di
persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo
territoriale;
- concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche con il collegamento ad una via
pubblica;
- presenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione
del diritto di uso pubblico.
Viene anche affermato che l’onere della prova della
esistenza di tali elementi grava sul Comune.
In sintesi, come chiarito dalla giurisprudenza, dunque, la
destinazione ad uso pubblico di una strada è desumibile in
particolare dall' uso pubblico effettivo della stessa.
Oggetto della controversia è l’asserito
diritto della ricorrente di delimitare ed acquisire ad uso
esclusivo privato una strada che il comune asserisce essere
pacificamente adibita, da oltre trent’anni, ad uso pubblico.
Sul punto, si rammenta che l’art. 22, comma 3, all. f), l. n.
2248/1865 stabilisce espressamente che “nell’interno delle
città e villaggi fanno parte delle strade comunali le
piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti sul suolo
pubblico, restando però ferme le consuetudini, le
convenzioni ed i diritti acquisiti”.
Con questa disposizione, il legislatore ha introdotto una
presunzione di uso pubblico delle aree adiacenti il suolo
pubblico, presunzione che può trovare conferma in un formale
provvedimento classificatorio dell’amministrazione ovvero
nella destinazione urbanistica dell’area.
Qualora questi elementi siano assenti, l’uso pubblico di
un’area può ugualmente ricavarsi da indici rilevatori,
individuati, secondo l’elaborazione giurisprudenziale sul
tema, tra l’altro nelle seguenti circostanze:
- passaggio continuativo esercitato da una collettività di
persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo
territoriale;
- concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche con il collegamento ad una via
pubblica;
- presenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione
del diritto di uso pubblico (cfr. TAR Marche, Ancona, I, 15.04.2009, n. 217; TAR Abruzzo, Pescara, I, 10.12.2008, n. 955; TAR Lazio, Roma, II;
03.11.2009, n. 10781
e I, 06.08.2009, n. 7932; TAR Campania, Salerno, sez. II,
11.04.2011, n. 660).
Viene anche affermato che l’onere della prova della
esistenza di tali elementi grava sul Comune (cfr. TAR Marche
n. 217/2009 cit.).
In sintesi, come chiarito dalla giurisprudenza, dunque, la
destinazione ad uso pubblico di una strada è desumibile in
particolare dall' uso pubblico effettivo della stessa (cfr.
Cons. di Stato, sez. V, 23.06.2003, n. 3716).
Nella fattispecie in esame, non mancano indici rivelatori
della destinazione pubblica della strada, in particolare per
quanto riguarda l’uso continuativo e frequente della strada
da parte della collettività.
La sussistenza di questo elemento di fatto è infatti
confermato dalla nota della polizia municipale prot. n.
121/A2 del 25.05.2010, nella quale si dichiara
espressamente che la via oggetto di disputa è in uso
pacifico ed ininterrotto, da oltre trent’anni, da parte
della cittadinanza.
La strada è peraltro usata con frequenza, attesa la sua
utilità nell’accorciare le distanze dai fabbricati con il
pubblico parcheggio delle scuole elementari nonché la
postazione del deposito dei rifiuti solidi urbani.
Proprio in relazione all’uso pubblico, l’amministrazione ha
realizzato nel corso degli anni la pubblica illuminazione,
la condotta idrica e quella fognaria, tutte opere di utilità
collettiva che forniscono un’ulteriore conferma della
destinazione pubblica della strada in questione.
Per quanto sopra il ricorso è infondato e va quindi respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Risulta
incontestato, in fatto, che gli abusi oggetto di
controversia rimontino a modifiche all’originario fabbricato
risalenti ad oltre cinquanta anni prima della adozione delle
contestate misure demolitorie.
Orbene, alla luce di tale peculiare circostanza di fatto, il
Collegio è dell’avviso che il proprietario sanzionato avesse
maturato un legittimo affidamento sulla regolarità
dell'immobile, e che la prolungatissima inerzia
dell'Amministrazione avesse determinato la ragionevole
presunzione che eventuali irregolarità sarebbero state ormai
tollerate, rendendosi, per tal via, fondata la doglianza di
difetto di motivazione, mossa sul rilievo di fondo che nella
fattispecie la sanzione inflitta avrebbe potuto essere
adottata solo sulla base di un interesse pubblico specifico
e concreto, idoneo a giustificare l'intervento
dell'Amministrazione su un assetto da lungo tempo ormai
consolidato, motivazione di cui non vi è traccia nel
provvedimento impugnato.
Sul punto, vale ripetere principi da ultimo elaborati e
riassunti, in fattispecie non dissimile, da Cons. Stato,
in base ai quali la regola
di fondo in subiecta materia è senz'altro quella che il
potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non
essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né
di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in
ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o
per lo meno dei loro effetti).
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo
giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non
richiedono una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico che si intendono tutelare, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente
posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un
affidamento alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo, puntualizzando che "... vale il principio
dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e
controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito
dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il
lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa
preordinazione o di abuso".
E
anche di recente è stato ricordato che "la
giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero
decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi
del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi".
Il criterio dell'indifferenza dell'epoca di commissione
dell'abuso non può essere però applicato con un meccanicismo
indiscriminato ed illimitato. Quando, infatti, la
costruzione in rilievo sia munita di un titolo edificatorio
(venendo in questione delle semplici difformità dal
medesimo), e siano passati svariati decenni dalla
commissione della presunta violazione, la sottoposizione dei
privati cittadini a procedimento sanzionatorio scuote per
ciò stesso il valore della certezza delle situazioni
giuridiche. Tanto più sono destinate a sorgere delle
criticità, inoltre, quando l'azione sanzionatoria
dell'Amministrazione si indirizzi, come nella specie, nei
confronti di semplici aventi causa dal responsabile della
presunta violazione (o, addirittura, di acquirenti dai
suddetti aventi causa), i quali fino a prova contraria hanno
acquistato i rispettivi immobili, a suo tempo, ad un prezzo
di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva.
L'attivazione del potere repressivo a tale distanza di tempo
rende, fra l'altro, oltremodo difficoltoso l'esercizio del
diritto di difesa da parte degli attuale proprietari, e,
soprattutto, improba ogni iniziativa di rivalsa, da parte
loro, nei riguardi degli effettivi responsabili dell'abuso.
In siffatti casi estremi non si può non notare, dunque, che
l'onere della motivazione dell'iniziativa sanzionatoria si
impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di
prescrizione/decadenza per l'esercizio del potere
repressivo.
L'esistenza, in casi eccezionali, di possibili deroghe al
principio esposto è del resto a sua volta acquisita al
panorama giurisprudenziale.
In particolare, il
Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare che
"rappresenta, invero, orientamento consolidato in
giurisprudenza quello secondo il quale, pur confermandosi
che l'ingiunzione demolitoria, come atto dovuto in presenza
della constatata realizzazione dell'opera senza titolo
abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, si fa salva l'ipotesi
in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato.
Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato".
Analogamente, altro pronunciamento
ha espresso la necessità che il potere sanzionatorio della
P.A. venisse esercitato in ragionevole collegamento logico e
causale con la situazione illegittima da rimuovere e con
l'interesse pubblico alla sua eliminazione.
Poco prima, inoltre, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, pur osservando che, nella
dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 l.
06.08.1967 n. 765, la constatazione dell'abusività
dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a
condizionarne la concreta operatività, senza necessità di
alcuna ulteriore attività di intermediazione amministrativa
volta ad apprezzare altri aspetti della vicenda, aveva
avvertito che tale principio poteva però subire
un'attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività
privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse
comunque conforme allo strumento di pianificazione
territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia
dell'Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata
"un lasso di tempo molto rilevante".
Un onere di motivazione si può quindi eccezionalmente
configurare ove il decorso di un lasso di tempo davvero
notevole (nella specie, oltre 50 anni) fra la realizzazione
dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale
titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia
ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino
(specialmente, ma non necessariamente, ove si tratti di un
terzo acquirente).
E tale onere di motivazione non potrebbe non chiamare in
causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la
condizione di possibile buona fede dei soggetti che si
vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar
disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti
vantaggi che questi avrebbero ritratto dall'illecito.
Vale, nel merito, osservare come risulti
incontestato, in fatto, che gli abusi oggetto di
controversia rimontino a modifiche all’originario fabbricato
risalenti ad oltre cinquanta anni prima della adozione delle
contestate misure demolitorie.
Orbene, alla luce di tale peculiare circostanza di fatto, il
Collegio è dell’avviso che il proprietario sanzionato avesse
maturato un legittimo affidamento sulla regolarità
dell'immobile, e che la prolungatissima inerzia
dell'Amministrazione avesse determinato la ragionevole
presunzione che eventuali irregolarità sarebbero state ormai
tollerate, rendendosi, per tal via, fondata la doglianza di
difetto di motivazione, mossa sul rilievo di fondo che nella
fattispecie la sanzione inflitta avrebbe potuto essere
adottata solo sulla base di un interesse pubblico specifico
e concreto, idoneo a giustificare l'intervento
dell'Amministrazione su un assetto da lungo tempo ormai
consolidato, motivazione di cui non vi è traccia nel
provvedimento impugnato.
Sul punto, vale ripetere principi da ultimo elaborati e
riassunti, in fattispecie non dissimile, da Cons. Stato,
sez. V, 15.07.2013, n. 3847, in base ai quali la regola
di fondo in subiecta materia è senz'altro quella che il
potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non
essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né
di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in
ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o
per lo meno dei loro effetti).
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo
giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non
richiedono una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico che si intendono tutelare, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare" (C.d.S., VI, 05.04.2012, n. 2038).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente
posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un
affidamento alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo
(cfr. da ultimo C.d.S., IV, 31/08/2010, n. 3955; V,
27/04/2011, n. 2497; VI, 11/05/2011, n. 2781; I, 30/06/2011,
n. 4160), puntualizzando che "... vale il principio
dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e
controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito
dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il
lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa
preordinazione o di abuso" (IV, 04.05.2012, n. 2592).
E
anche di recente è stato ricordato che "la giurisprudenza è
costante nel ritenere che l'ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato e non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e
l'interessato non può dolersi del fatto che
l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11.05.2011,
n. 2781)" (VI, 28.01.2013, n. 496).
Il criterio dell'indifferenza dell'epoca di commissione
dell'abuso non può essere però applicato con un meccanicismo
indiscriminato ed illimitato. Quando, infatti, la
costruzione in rilievo sia munita di un titolo edificatorio
(venendo in questione delle semplici difformità dal
medesimo), e siano passati svariati decenni dalla
commissione della presunta violazione, la sottoposizione dei
privati cittadini a procedimento sanzionatorio scuote per
ciò stesso il valore della certezza delle situazioni
giuridiche. Tanto più sono destinate a sorgere delle
criticità, inoltre, quando l'azione sanzionatoria
dell'Amministrazione si indirizzi, come nella specie, nei
confronti di semplici aventi causa dal responsabile della
presunta violazione (o, addirittura, di acquirenti dai
suddetti aventi causa), i quali fino a prova contraria hanno
acquistato i rispettivi immobili, a suo tempo, ad un prezzo
di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva.
L'attivazione del potere repressivo a tale distanza di tempo
rende, fra l'altro, oltremodo difficoltoso l'esercizio del
diritto di difesa da parte degli attuale proprietari, e,
soprattutto, improba ogni iniziativa di rivalsa, da parte
loro, nei riguardi degli effettivi responsabili dell'abuso.
In siffatti casi estremi non si può non notare, dunque, che
l'onere della motivazione dell'iniziativa sanzionatoria si
impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di
prescrizione/decadenza per l'esercizio del potere
repressivo.
L'esistenza, in casi eccezionali, di possibili deroghe al
principio esposto è del resto a sua volta acquisita al
panorama giurisprudenziale.
In particolare, con la decisione 29.05.2006 n. 3270, il
Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare che
"rappresenta, invero, orientamento consolidato in
giurisprudenza quello secondo il quale, pur confermandosi
che l'ingiunzione demolitoria, come atto dovuto in presenza
della constatata realizzazione dell'opera senza titolo
abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, si fa salva l'ipotesi
in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato.
Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (cfr. Cons. Stato, V, 25.06.2002 n. 3443; C.G.A.R.S. 23.04.2001 n. 183; Cons.
Stato, V, 19.03.1999 n. 286; id., 11.02.1999 n.
143; id., 14.10.1998 n. 1483; id., 12.03.1996 n.
247; Cons. Stato sez. IV, 03.02.1996 n. 95)." (così
C.d.S., V, n. 3270/2006 cit.).
Nello stesso ordine di idee anche altre decisioni possono
essere richiamate: Sez. V, 30.05.2006, n. 3283; VI, 24.02.1994, n. 192; IV, 27.02.1989, n. 127.
Analogamente, Cons. Stato, Sez. V, 29.10.1985, n. 353,
ha espresso la necessità che il potere sanzionatorio della
P.A. venisse esercitato in ragionevole collegamento logico e
causale con la situazione illegittima da rimuovere e con
l'interesse pubblico alla sua eliminazione.
Poco prima, inoltre, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato 19.05.1983, n. 12, pur osservando che, nella
dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 l.
06.08.1967 n. 765, la constatazione dell'abusività
dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a
condizionarne la concreta operatività, senza necessità di
alcuna ulteriore attività di intermediazione amministrativa
volta ad apprezzare altri aspetti della vicenda, aveva
avvertito che tale principio poteva però subire
un'attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività
privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse
comunque conforme allo strumento di pianificazione
territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia
dell'Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata
"un lasso di tempo molto rilevante".
Un onere di motivazione si può quindi eccezionalmente
configurare ove il decorso di un lasso di tempo davvero
notevole (nella specie, oltre 50 anni) fra la realizzazione
dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale
titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia
ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino
(specialmente, ma non necessariamente, ove si tratti di un
terzo acquirente).
E tale onere di motivazione non potrebbe non chiamare in
causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la
condizione di possibile buona fede dei soggetti che si
vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar
disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti
vantaggi che questi avrebbero ritratto dall'illecito.
Alla luce degli esposti principi, da cui il Collegio non
ravvisa ragione per discostarsi, il ricorso deve essere, con
assorbimento di ogni altro dei dedotti profili, accolto,
posto che il provvedimento impugnato, che merita per tal via
di essere annullato, non ha dato conto delle ragioni di
attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse
che giustificasse il ripristino della violata legalità pur
in presenza di un consistente affidamento rinveniente dal
decorso di un notevole lasso di tempo dalla contestazione
degli abusi, non accompagnato da alcuna iniziativa ispettiva
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parametro valutativo dell'attività edilizia svolta dai
privati consiste nell'accertamento della conformità
dell'opera alla disciplina urbanistica, lasciando sempre
salvi i diritti dei terzi; perciò la legittimità di
un'autorizzazione edilizia non può comunque condizionare la
regolazione dei rapporti tra parti private.
Conseguentemente non sussiste un obbligo generalizzato per
l'Amministrazione di verificare che non sussistano limiti di
natura civilistica per la realizzazione di un'opera
edilizia; tuttavia, essa ha il potere-dovere di verificare
in capo al richiedente un idoneo titolo di godimento
sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione
urbanistica, al fine di accertare il requisito della sua
legittimazione.
Circa l'ampiezza dei poteri istruttori, a ciò finalizzati, è
stato, peraltro, precisato che non si tratta di obbligare la
P.A. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non
aggravare il procedimento.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il parametro valutativo dell'attività edilizia svolta dai
privati consiste nell'accertamento della conformità
dell'opera alla disciplina urbanistica, lasciando sempre
salvi i diritti dei terzi; perciò la legittimità di
un'autorizzazione edilizia non può comunque condizionare la
regolazione dei rapporti tra parti private. Conseguentemente
non sussiste un obbligo generalizzato per l'Amministrazione
di verificare che non sussistano limiti di natura
civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia;
tuttavia, essa ha il potere-dovere di verificare in capo al
richiedente un idoneo titolo di godimento sull'immobile
interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, al
fine di accertare il requisito della sua legittimazione.
Circa l'ampiezza dei poteri istruttori, a ciò finalizzati, è
stato, peraltro, precisato che non si tratta di obbligare la
P.A. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non
aggravare il procedimento
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Non
si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il
titolo edilizio nell'ambito di intervento edilizio
riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le
modificazioni apportate dal singolo condomino, senza
necessità del consenso degli altri partecipanti alla
comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare
utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri
condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi
ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola
unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini
l'uso del muro comune e non ne alteri la normale
destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Ciò premesso, nella specie non si ravvisano limiti
sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio, in
quanto si tratta di intervento riconducibile all'art. 1102
c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal
singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri
partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune
una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta
dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro
di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo
della singola unità immobiliare, purché non precluda agli
altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la
normale destinazione con interventi di eccessiva vastità
(cfr., in relazione ad analoga fattispecie concernente
l’installazione di canna fumaria, TAR Toscana, 29.04.2009, n. 724, nonché Id. 27.09.2012, n. 1569.
In sostanza, non può dubitarsi della riconducibilità
all'ambito degli interventi contemplati dall'art. 1102 c.c.
di tutte le modificazioni -apportabili dal singolo
condomino, senza bisogno del consenso degli altri
partecipanti alla comunione- che consentono di trarre dal
bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a
quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa
l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti
al servizio esclusivo della singola unità immobiliare,
purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro
comune e non ne alteri la normale destinazione con
interventi di eccessiva vastità (ferme restando, beninteso,
le iniziative di tutela giurisdizionale esperibili dai
condomini in sede civile).
Le esposte ragioni militano nel senso della fondatezza del
gravame, con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato, nella parte in cui subordina l’efficacia della
autorizzazione al conseguimento del previo consenso della
compagine condominiale
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
relazione all’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, ex art. 151 D.Lgs. n. 490/1999,
l'Amministrazione dei beni culturali è obbligata a
comunicare al destinatario dell'autorizzazione l'avvio del
procedimento, allo scopo di consentire a quest'ultimo di
avvalersi concretamente degli strumenti di partecipazione e
di accesso previsti dalla L. n. 241/1990.
La giurisprudenza ha anche evidenziato che l'onere di
comunicare l'avvio del procedimento non può essere
soddisfatto dalla semplice indicazione della soggezione al
potere ministeriale contenuta nell'autorizzazione
paesaggistica, né dall'indicazione del Ministero tra i
destinatari dell'atto medesimo, in quanto siffatte
indicazioni non garantiscono né che la pratica sia stata
effettivamente trasmessa all'autorità statale, né che questa
l'abbia ricevuta, di modo che l'interessato dovrebbe
esercitare la propria pretesa partecipativa senza sapere se
l'autorizzazione rilasciatagli ed il relativo incartamento
siano pervenuti a destinazione, con il rischio di porre in
essere un'attività che potrebbe, poi, rivelarsi prematura e
inutile.
Né può ritenersi irrilevante il vizio, ai sensi dell'art.
21-octies l. n. 241/1990, perché, presentando la valutazione
di compatibilità paesaggistica un margine di opinabilità, la
partecipazione dell'interessato al procedimento avrebbe
potuto fornire un apporto per una soluzione favorevole,
anche mediante l'indicazione di marginali modifiche del
progetto di ristrutturazione.
Il ricorso è fondato.
Con l’ultimo dei motivi il ricorrente deduce l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento.
In relazione all’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, ex art. 151 D.Lgs. n. 490/1999,
l'Amministrazione dei beni culturali è obbligata a
comunicare al destinatario dell'autorizzazione l'avvio del
procedimento, allo scopo di consentire a quest'ultimo di
avvalersi concretamente degli strumenti di partecipazione e
di accesso previsti dalla L. n. 241/1990 (così, CdS, Sez. VI,
n. 5247 del 11.09.2006).
La giurisprudenza ha anche evidenziato che l'onere di
comunicare l'avvio del procedimento non può essere
soddisfatto dalla semplice indicazione della soggezione al
potere ministeriale contenuta nell'autorizzazione
paesaggistica, né dall'indicazione del Ministero tra i
destinatari dell'atto medesimo, in quanto siffatte
indicazioni non garantiscono né che la pratica sia stata
effettivamente trasmessa all'autorità statale, né che questa
l'abbia ricevuta, di modo che l'interessato dovrebbe
esercitare la propria pretesa partecipativa senza sapere se
l'autorizzazione rilasciatagli ed il relativo incartamento
siano pervenuti a destinazione, con il rischio di porre in
essere un'attività che potrebbe, poi, rivelarsi prematura e
inutile.
Né può ritenersi irrilevante il vizio, ai sensi dell'art. 21-octies l. n. 241/1990, perché, presentando la valutazione di
compatibilità paesaggistica un margine di opinabilità, la
partecipazione dell'interessato al procedimento avrebbe
potuto fornire un apporto per una soluzione favorevole,
anche mediante l'indicazione di marginali modifiche del
progetto di ristrutturazione.
La vicenda all’esame del Collegio ha, infatti, ad oggetto
lavori di ristrutturazione di un fabbricato in stato di
evidente degrado, come si evince dalla relazione peritale di
parte, e dalla documentazione fotografica.
Ciò premesso, l’avere omesso la comunicazione di avvio del
procedimento ha impedito quella necessaria partecipazione
dell’interessato che poteva portare ad un diverso esito
valutativo (cfr., da ultimo, in fattispecie simile, TAR
Salerno, sez. II, 22.02.2013, n. 488).
A ciò si aggiunga il fatto che il vincolo non riguarda
l’edificio, bensì il paesaggio circostante e che la quasi
totalità degli interventi contenuti nel progetto, oltre a
non incidere sul bene interessato dal vincolo, mirano a
risanarne gli interni e a riqualificarlo.
Alla luce di quanto sopra osservato, dato il carattere
assorbente della censura scrutinata, il ricorso va accolto
e, per l’effetto, annullato il decreto adottato dalla
Soprintendenza
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1983 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'autore
di un esposto, anche se proprietario confinante del
destinatario di un provvedimento di annullamento d'ufficio
del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di
controinteressato perché il potere di autotutela è
esercitato per il conseguimento dell'interesse pubblico al
quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di
mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come
nella specie, l'intervento ad opponendum a norma dell'art.
28, comma 2, c.p.a..
In via preliminare, vale comunque
respingere la spiegata eccezione di inammissibilità, sul
rilievo per cui l'autore di un esposto, anche se
proprietario confinante del destinatario di un provvedimento
di annullamento d'ufficio del titolo ad aedificandum, non
assume la veste giuridica di controinteressato perché il
potere di autotutela è esercitato per il conseguimento
dell'interesse pubblico al quale è estraneo il privato che,
se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i
presupposti, può svolgere, come nella specie, l'intervento
ad opponendum a norma dell'art. 28, comma 2, c.p.a. (in
termini, da ultimo, TAR Salerno, sez. II, 04.10.2012, n.
1794 e Cons. Stato, sez. V, 11.11.2011, n. 6074) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
Parimenti
destituito di fondamento è l’ultimo motivo di doglianza,
alla luce del principio, che costituisce jus receptum, per
cui l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto
(in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 24.05.2013, n. 2873) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica da
parte della Soprintendenza che esprime non un potere di
controllo, bensì una manifestazione di cogestione del
vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, se non
comporta un riesame di merito delle valutazioni dell'ente
competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di
base anche in tutti i profili che possono rappresentare,
nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione,
che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non
abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera
adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica
dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano
l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare
-anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le
ragioni di merito che concludono per la non compatibilità
dell'intervento edilizio con i valori tutelati.
Al riguardo, è noto, alla luce del
costante orientamento giurisprudenziale nella materia che ne
occupa, che il potere di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica da parte della Soprintendenza che esprime non
un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, se non comporta un riesame di merito delle
valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la
valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che
possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un
eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il
difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia
l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di
motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi
ministeriali annullano l'atto locale per difetto di
motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il
vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio
con i valori tutelati (in termini, da ultimo, Cons. Stato,
sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
Ciò posto, osserva il Collegio che il decreto impugnato ha
evidenziato una serie di elementi che non sono stati presi
in considerazione dall’Ente locale ovvero sono stati fatti
oggetto di una valutazione erronea, consistenti:
a) nella
mancata considerazione del tipo d materiali impiegati che
risultano del tutto avulsi “non solo dall’architettura
tradizionale locale, ma anche dal patrimonio urbano”;
b) nei
sistemi costruttivi adoperati, considerati inadeguati per
luoghi sottoposti a tutela paesaggistica;
c) nei caratteri
dei manufatti abusivi —consistenti in due locali a
pianoterra— del tutto avulsi dai tratti caratteristici
dell’architettura tradizionale locale, sicché realizzano
delle vere e proprie “superfetazioni”.
L’omessa motivazione su tali decisivi profili ridonda,
obiettivamente, in ragione di illegittimità della
autorizzazione paesaggistica rilasciata, di cui appare, per
tal via, legittimo il disposto annullamento. Il quale si
sottrae, per il medesimo ordine di ragioni, alla censura di
non essere supportato da idonea motivazione.
Risulta, infine, destituita di fondamento la censura di
incompetenza, alla luce del pacifico rilievo per cui, a
seguito della entrata in vigore dell'art. 3 d.lgs. 03.02.1993, n. 29, gli atti di amministrazione attiva dei singoli
Ministeri sono stati direttamente assegnati alla competenza
dei dirigenti e non più del Ministro, e ciò alla stregua del
generale principio di separazione tra le funzioni di
indirizzo (in capo al Ministro) e le funzioni di gestione
(in capo ai dirigenti): cfr. da, ultimo, Cons. Stato, sez. VI,
27.11.2012, n. 5977)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1977 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere statale di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di
legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato
dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame
complessivo, come tale in grado di consentire la
sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di
merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute
dall'ente locale.
Detto potere è, peraltro, necessariamente ancorato ad un
riesame meramente estrinseco, teso a verificare l'eventuale
presenza di vizi di legittimità comprendenti l'eccesso di
potere nelle diverse forme sintomatiche, che non può
tradursi in un ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla
compatibilità paesaggistico ambientale dell'intervento,
giudizio che è riservato all'autorità comunale preposta alla
tutela del vincolo: ne consegue che l'Amministrazione
statale può verificare dall'esterno la coerenza, la logicità
e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale
seguito dall'amministrazione emanante, senza con ciò
sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità
ambientale con quelli espressi dall'ente locale.
---------------
Il ridetto potere di annullamento esprime non già un potere
di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del
vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, la quale, se
non comporta nei sensi chiariti un riesame di merito delle
valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la
valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che
possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un
eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione,
che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non
abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera
adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica
dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano
l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare
-anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le
ragioni di merito che concludono per la non compatibilità
dell'intervento edilizio con i valori tutelati.
Premette il Collegio come costituisca jus
receptum nella materia in esame quello per cui il potere
statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica
deve ritenersi circoscritto a vizi di legittimità; la natura
del potere di annullamento esercitato dalla Soprintendenza
non comporta, infatti, un riesame complessivo, come tale in
grado di consentire la sovrapposizione o sostituzione di un
suo apprezzamento di merito alle valutazioni tecniche
discrezionali compiute dall'ente locale; detto potere è,
peraltro, necessariamente ancorato ad un riesame meramente
estrinseco, teso a verificare l'eventuale presenza di vizi
di legittimità comprendenti l'eccesso di potere nelle
diverse forme sintomatiche, che non può tradursi in un
ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità
paesaggistico ambientale dell'intervento, giudizio che è
riservato all'autorità comunale preposta alla tutela del
vincolo: ne consegue che l'Amministrazione statale può
verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la
completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i
suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli
espressi dall'ente locale (in termini, ex permultis e da
ultimo, TAR Salerno, 03.06.2013, n. 1218).
È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime
non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un
riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente,
nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in
tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie
manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in
particolare il difetto di motivazione, che si ha quando
l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al
suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla
compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli
organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di
motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il
vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio
con i valori tutelati (cfr. di recente Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2013, n. 2535)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1976 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
termine fissato alla Soprintendenza competente per
l'eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica
rilasciata dalla Regione (ovvero dall'ente subdelegato), per
quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto
ai fini dell'adozione dell'eventuale provvedimento di
annullamento e non anche per la sua comunicazione ai
soggetti interessati.
In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto
termine è sufficiente che l'atto sia adottato nel termine
per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del
termine stesso l'attività successiva di partecipazione di
conoscenza dell'atto ai suoi destinatari. Ciò in
considerazione della natura non recettizia di questo tutorio
annullamento, che è espressione di cogestione attiva del
vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai
fini della sua validità, della comunicazione ai diretti
interessati nell'arco temporale fissato dalla legge per
l'adozione del provvedimento.
---------------
Il potere statale di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di
legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato
dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame
complessivo, come tale in grado di consentire la
sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di
merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute
dall'ente locale; detto potere è, peraltro, necessariamente
ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a
verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità
comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme
sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio
tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico
ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato
all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo.
Ne consegue che l'Amministrazione statale può verificare
dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza
istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i
suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli
espressi dall'ente locale.
---------------
È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime
non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un
riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente,
nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in
tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie
manifestazioni, un eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione,
che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non
abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera
adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica
dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano
l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare
-anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le
ragioni di merito che concludono per la non compatibilità
dell'intervento edilizio con i valori tutelati.
In particolare, la giurisprudenza ha individuato il vizio di
eccesso di potere dell'autorizzazione regionale o sindacale
allorquando questa contraddica, esplicitamente o
implicitamente, valutazioni sottese all'imposizione del
regime vincolistico, con conseguente sviamento, ovvero si
fondi sull'apprezzamento di elementi di fatto insussistenti
o palesemente erronei, con conseguente travisamento.
Costituisce, invero, jus receptum quello
per cui il termine fissato alla Soprintendenza competente
per l'eventuale annullamento della autorizzazione
paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall'ente
subdelegato), per quanto di natura perentoria, è previsto
dalla legge soltanto ai fini dell'adozione dell'eventuale
provvedimento di annullamento e non anche per la sua
comunicazione ai soggetti interessati.
In altri termini,
perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è
sufficiente che l'atto sia adottato nel termine per
provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del
termine stesso l'attività successiva di partecipazione di
conoscenza dell'atto ai suoi destinatari. Ciò in
considerazione della natura non recettizia di questo tutorio
annullamento, che è espressione di cogestione attiva del
vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai
fini della sua validità, della comunicazione ai diretti
interessati nell'arco temporale fissato dalla legge per
l'adozione del provvedimento (per tutti ed ex permultis, tra
le più recenti, Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2013, n.
2410, nonché TAR Salerno, sez. I, 10.05.2013, n. 1072).
Quanto al distinto motivo di gravame con il quale il
ricorrente lamenta che la Soprintendenza avrebbe effettuato
una valutazione di merito, sovrapponendo il proprio giudizio
a quello espresso dal Comune, osserva il Collegio come
costituisca jus receptum nella materia in esame quello per
cui il potere statale di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di
legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato
dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame
complessivo, come tale in grado di consentire la
sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di
merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute
dall'ente locale; detto potere è, peraltro, necessariamente
ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a
verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità
comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme
sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio
tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico
ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato
all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo: ne
consegue che l'Amministrazione statale può verificare
dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza
istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i
suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli
espressi dall'ente locale (in termini, ex permultis e da
ultimo, TAR Salerno, 03.06.2013, n. 1218).
È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime
non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di
cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema
difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un
riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente,
nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in
tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie
manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in
particolare il difetto di motivazione, che si ha quando
l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al
suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla
compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli
organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di
motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il
vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio
con i valori tutelati (cfr. di recente Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2013, n. 2535).
In particolare, la giurisprudenza ha individuato il vizio di
eccesso di potere dell'autorizzazione regionale o sindacale
allorquando questa contraddica, esplicitamente o
implicitamente, valutazioni sottese all'imposizione del
regime vincolistico, con conseguente sviamento, ovvero si
fondi sull'apprezzamento di elementi di fatto insussistenti
o palesemente erronei, con conseguente travisamento
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 27.09.2013 n. 1973 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'aggiudicazione
provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una
scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario
della gara; la possibilità che ad un'aggiudicazione
provvisoria non segua quella definitiva è un evento del
tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12
e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a
ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo
risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità
nell'operato dell’Amministrazione, a prescindere
dall’inserimento nel bando di apposita clausola che preveda
l’eventualità di non dare luogo alla gara o di revocarla.
---------------
Nei contratti pubblici, anche dopo l’intervento
dell’aggiudicazione definitiva, non è precluso
all’amministrazione appaltante di revocare l’aggiudicazione
stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in
concreto, che ben può consistere nella mancanza di risorse
economiche idonee a sostenere la realizzazione dell’opera.
E ciò senza che vi sia contraddittorietà con gli atti di
indizione della gara nei quali la stazione appaltante ha
indicato la copertura finanziaria, perché, comunque, rimane
integro il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i
suoi impegni di spesa in ragione delle mutate condizioni
delle risorse finanziarie disponibili.
---------------
L’aggiudicazione provvisoria non determina l’insorgere di
affidamento nella conclusione del contratto, e che,
pertanto, non è configurabile la responsabilità
precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente,
fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla
gara.
Ai fini della configurabilità della responsabilità
precontrattuale della P.A., difatti, rileva la correttezza
del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso dello svolgimento
della gara che sia pervenuta alla conclusione ed alla
individuazione del contraente, nonché nella fase della
formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti
di comportarsi secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1337
c.c..
Nelle gare di appalto, l'aggiudicazione provvisoria è atto
endoprocedimentale che determina una scelta non ancora
definitiva del soggetto aggiudicatario della gara; la
possibilità che ad un'aggiudicazione provvisoria non segua
quella definitiva è un evento del tutto fisiologico,
disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del
d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque
affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non
sussista nessuna illegittimità nell'operato
dell’Amministrazione, a prescindere dall’inserimento nel
bando di apposita clausola che preveda l’eventualità di non
dare luogo alla gara o di revocarla (questione pure
sollevata dall’appellante) (Consiglio di Stato Sez. III -
sentenza 24.05.2013, n. 2838).
---------------
Deve essere
ribadito, inoltre, il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale nei contratti pubblici, anche
dopo l’intervento dell’aggiudicazione definitiva, non è
precluso all’amministrazione appaltante di revocare
l’aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse
pubblico individuato in concreto, che ben può consistere
nella mancanza di risorse economiche idonee a sostenere la
realizzazione dell’opera (C.d.S., Sez. III, 11.07.2012,
n. 4116; Adunanza Plenaria, 05.09.2005, n. 6; C.d.S.,
sez. IV, 19.03.2003, n. 1457).
E ciò senza che vi sia contraddittorietà con gli atti di
indizione della gara nei quali la stazione appaltante ha
indicato la copertura finanziaria, perché, comunque, rimane
integro il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i
suoi impegni di spesa in ragione delle mutate condizioni
delle risorse finanziarie disponibili (C.G.A., Sez.
giurisdizionale, 25.01.2013, n. 47).
---------------
Quanto al
terzo motivo di appello, secondo cui a fronte della revoca
legittima il primo giudice avrebbe però erroneamente
ritenuto insussistente la responsabilità precontrattuale, si
ribadisce che l’aggiudicazione provvisoria non determina
l’insorgere di affidamento nella conclusione del contratto,
e che, pertanto, non è configurabile la responsabilità
precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente,
fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla
gara.
Ai fini della configurabilità della responsabilità
precontrattuale della P.A., difatti, rileva la correttezza
del comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso dello svolgimento
della gara che sia pervenuta alla conclusione ed alla
individuazione del contraente, nonché nella fase della
formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti
di comportarsi secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1337
c.c. (C.d.S., Sez. IV, 07.02.2012, n. 662; Cons.
Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6) (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 26.09.2013 n. 4809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ex
art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997 la responsabilità
dell'inquinatore ha carattere oggettivo e che il
proprietario di un'area inquinata, ove non sia responsabile
del medesimo inquinamento, non ha l'obbligo di provvedere
direttamente alla messa in sicurezza e bonifica, ma solo
l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti
dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale
e di privilegio immobiliare per le spese per la
realizzazione d'ufficio dei relativi interventi.
E’ stato affermato in giurisprudenza che
ex art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997 la responsabilità
dell'inquinatore ha carattere oggettivo (cfr. Consiglio di
Stato, sez. II, 21.02.2012 n. 282; Consiglio di Stato,
sez. VI, 15.07.2010, n. 4561) e che il proprietario di
un'area inquinata, ove non sia responsabile del medesimo
inquinamento, non ha l'obbligo di provvedere direttamente
alla messa in sicurezza e bonifica, ma solo l'onere di farlo
se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che
gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio
immobiliare per le spese per la realizzazione d'ufficio dei
relativi interventi (Cons. St. VI, 05.09.2005, n. 4525)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le pubbliche amministrazioni sono tenute ad acquisire
d’ufficio anche i documenti che comprovano i requisiti dei
partecipanti ad una gara d’appalto, risultando irrilevante la presenza di una diversa
disciplina speciale all’interno del codice dei contratti
pubblici.
Il DPR n. 445/2000, in materia di
documentazione amministrativa, pacificamente trova
applicazione nella materia degli appalti pubblici, essendo
lo stesso codice a legittimarne l’uso.
Sicché non può che trovare applicazione anche l’innovazione
introdotta con l’art. 15 della legge 183/2011, che, per
quanto qui interessa, ha introdotto il seguente comma
all’art. 40: <<01. Le certificazioni rilasciate dalla
pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità
personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei
rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della
pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i
certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti
dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47>> ed
all'articolo 43 ha sostituito il comma 1 col seguente: <<1.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi
sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto
delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e
47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso
delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da
parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il
reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero
ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta
dall'interessato>>.
E’ evidente, ad una lettura unitaria delle norme in
questione, che gli accertamenti d’ufficio disciplinati
dall’art. 43, comma 1, D.P.R. 445/2000, come novellato dal
citato art. 15 della l. 183/2011, riguardano tutte le
ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni
sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso D.P.R.,
dichiarazioni sostitutive che gli artt. 41 e 42 del codice
dei contratti pubblici consentono ai concorrenti di
utilizzare per comprovare i requisiti tecnico-organizzativi
ed economico-professionale, salvo verifica successiva da
parte della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 48 commi
1 e 3, senza che possa in alcun modo rilevare la
“specialità” della disciplina dei contratti pubblici.
---------------
Neppure l’art. 6-bis del codice degli
appalti, introdotto dal d.l. 09.02.2012, n. 5, consente di
rinviare, a partire dal 01.01.2013, l’applicazione della
nuova disciplina alla istituzione di una banca dati
nazionale dei contratti pubblici, cui le stazioni appaltanti
dovranno attingere per verificare il possesso dei requisiti
di partecipazione dichiarati in gara dai concorrenti.
La norma contiene una disciplina transitoria secondo cui,
fino alla data di avvio della Banca dati, le stazioni
appaltanti e gli enti aggiudicatori verificano il possesso
dei requisiti secondo le modalità previste dalla normativa
vigente (comma 5).
Il riferimento alla “normativa vigente” include anche la
novella disciplina degli artt. 43 e 47 del D.P.R. 445/2000,
in vigore dal 01.01.2012.
La banca dati è uno strumento di semplificazione e di
accelerazione dei procedimenti di accertamento, che
costituisce un ausilio informatico per l’esercizio dei
poteri-doveri di accertamento d’ufficio; ne consegue che il
coordinamento tra le norme appare logicamente condurre alla
conclusione che:
1) fino all’attivazione della Banca Dati, le stazioni
appaltanti dovranno procedere d’ufficio tramite contatti con
le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti
auto dichiarati dai concorrenti, secondo quanto dispongono
gli artt. 43 e 47 DPR 445/2000;
2) dopo l’attivazione della Banca Dati, i controlli
d’ufficio diventano centralizzati attraverso il riferimento
diretto a tale strumento pubblicistico di coordinamento e
raccolta dati.
Quanto all’obiezione
che solleva Lombardia Informatica, ovvero al carattere di
specialità della disciplina dei contratti pubblici che
impedirebbe l’applicazione della norma di carattere generale
dettata dall’art. 15 della l. 183/2011 (in particolare,
l’art. 41, comma 1, lett. “b” e “c”, in relazione al comma
4, del D.lgs. n. 163/2006, il quale prescrive che i servizi
prestati ad amministrazioni pubbliche siano comprovati
dall’aggiudicataria con certificazioni delle stesse, e
l’art. 42, comma 1, lett. “a”, il quale prevede che i
servizi e le prestazioni in favore di amministrazioni ed
enti pubblici siano provati da certificati rilasciati o
vistati delle amministrazioni o enti destinatari), il
Collegio osserva che il DPR n. 445/2000, in materia di
documentazione amministrativa, pacificamente trova
applicazione nella materia degli appalti pubblici, essendo
lo stesso codice a legittimarne l’uso.
Sicché non può che trovare applicazione anche l’innovazione
introdotta con l’art. 15 della legge 183/2011, che, per
quanto qui interessa, ha introdotto il seguente comma
all’art. 40: <<01. Le certificazioni rilasciate dalla
pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità
personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei
rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della
pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i
certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti
dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47>> ed
all'articolo 43 ha sostituito il comma 1 col seguente: <<1.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi
sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto
delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e
47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso
delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da
parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il
reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero
ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta
dall'interessato>>.
E’ evidente, ad una lettura unitaria delle norme in
questione, che gli accertamenti d’ufficio disciplinati
dall’art. 43, comma 1, D.P.R. 445/2000, come novellato dal
citato art. 15 della l. 183/2011, riguardano tutte le
ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni
sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso D.P.R.,
dichiarazioni sostitutive che gli artt. 41 e 42 del codice
dei contratti pubblici consentono ai concorrenti di
utilizzare per comprovare i requisiti tecnico-organizzativi
ed economico-professionale, salvo verifica successiva da
parte della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 48 commi
1 e 3, senza che possa in alcun modo rilevare la “specialità”
della disciplina dei contratti pubblici.
Inoltre, ad avviso di questo Collegio, neppure l’art. 6-bis
del codice degli appalti, introdotto dal d.l. 09.02.2012, n.
5, consente di rinviare, a partire dal 01.01.2013,
l’applicazione della nuova disciplina alla istituzione di
una banca dati nazionale dei contratti pubblici, cui le
stazioni appaltanti dovranno attingere per verificare il
possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati in gara
dai concorrenti.
La norma contiene una disciplina transitoria secondo cui,
fino alla data di avvio della Banca dati, le stazioni
appaltanti e gli enti aggiudicatori verificano il possesso
dei requisiti secondo le modalità previste dalla normativa
vigente (comma 5).
Il riferimento alla “normativa vigente” include anche
la novella disciplina degli artt. 43 e 47 del D.P.R.
445/2000, in vigore dal 01.01.2012.
La banca dati è uno strumento di semplificazione e di
accelerazione dei procedimenti di accertamento, che
costituisce un ausilio informatico per l’esercizio dei
poteri-doveri di accertamento d’ufficio; ne consegue che il
coordinamento tra le norme appare logicamente condurre alla
conclusione che:
1) fino all’attivazione della Banca Dati, le stazioni
appaltanti dovranno procedere d’ufficio tramite contatti con
le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti
auto dichiarati dai concorrenti, secondo quanto dispongono
gli artt. 43 e 47 DPR 445/2000;
2) dopo l’attivazione della Banca Dati, i controlli
d’ufficio diventano centralizzati attraverso il riferimento
diretto a tale strumento pubblicistico di coordinamento e
raccolta dati (Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 26.09.2013 n. 4785 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in posizione
differente da quella del proprietario non inquinatore,
costituisce una vera e propria forma di responsabilità
oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e
ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle
aree inquinate. Dalla natura oggettiva della responsabilità
in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli
interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2,
d.lgs. n. 22 del 1997, in connessione con una condotta
«anche accidentale», ossia a prescindere dall'esistenza di
qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo
all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur
sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o
l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la
contaminazione e/o il suo aggravamento in coerenza con il
principio comunitario «chi inquina paga», principio che
risulta espressamente richiamato dall'art. 15, direttiva n.
91/156, di cui il d.lgs. del 1997 costituisce recepimento.
E’ stato affermato in giurisprudenza che
la responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in
posizione differente da quella del proprietario non
inquinatore, costituisce una vera e propria forma di
responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa
in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla
contaminazione delle aree inquinate. Dalla natura oggettiva
della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo
di effettuare gli interventi di legge sorge, in base
all'art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997, in connessione
con una condotta «anche accidentale», ossia a prescindere
dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o
colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della
responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario
il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione)
dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/o il
suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario «chi inquina paga», principio che risulta espressamente
richiamato dall'art. 15, direttiva n. 91/156, di cui il
d.lgs. del 1997 costituisce recepimento (Consiglio di Stato
sez. II 21.02.2012 n. 282; Consiglio di Stato sez. VI
15.07.2010, n. 4561)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'indennità
prevista dall'art. 15 della l. n. 1497/1939 è una sanzione
amministrativa da irrogare per abusi edilizi commessi in
aree con vincolo paesaggistico e non una forma di
risarcimento del danno; come tale, si concreta in un atto
dovuto che prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno
ambientale, il quale, unitamente al profitto conseguito,
rileva solo come parametro alternativo per la commisurazione
del “quantum” della sanzione, che deve essere effettuata in
via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una
stima tecnica di carattere generale.
Detta sanzione è pari alla maggior somma tra danno
ambientale causato e profitto conseguito con la
trasgressione. Quest'ultimo deve essere rapportato
all'effettivo vantaggio economico ottenuto dal trasgressore,
ovvero va identificato nell'incremento del valore venale che
gli immobili acquistano per effetto della trasgressione;
incremento che viene determinato come differenza tra il
valore attuale e il valore dell'immobile prima
dell'esecuzione delle opere abusive, in quanto
l'arricchimento ottenuto dalla realizzazione dell'abuso non
può coincidere con il valore venale attuale del medesimo
senza detrazione del costo sostenuto per la sua costruzione.
Occorre cioè apprezzare il valore dell'immobile prima e dopo
la realizzazione del manufatto abusivo e portare in
detrazione dal valore venale dell'opera abusiva il costo
sostenuto per la sua esecuzione.
---------------
Poiché la commisurazione del “quantum” della sanzione deve
avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere
ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, essa
è insuscettibile di una dimostrazione articolata ed
analitica, sfuggendo il danno paesistico, per la sua
intrinseca natura, ad una indagine dettagliata e minuta, a
prescindere dalla sua entità, tanto che è stato considerato
legittimo il provvedimento con il quale viene irrogata la
sanzione pecuniaria di cui trattasi per il caso di
violazione degli obblighi in materia di tutela del paesaggio
anche qualora sia accertata la mancanza di danno ambientale.
Osserva la Sezione che l'indennità
prevista dall'art. 15 della l. n. 1497/1939 è una sanzione
amministrativa da irrogare per abusi edilizi commessi in
aree con vincolo paesaggistico e non una forma di
risarcimento del danno; come tale, si concreta in un atto
dovuto che prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno
ambientale, il quale, unitamente al profitto conseguito,
rileva solo come parametro alternativo per la commisurazione
del “quantum” della sanzione, che deve essere effettuata in
via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una
stima tecnica di carattere generale.
Detta sanzione è pari alla maggior somma tra danno
ambientale causato e profitto conseguito con la
trasgressione. Quest'ultimo deve essere rapportato
all'effettivo vantaggio economico ottenuto dal trasgressore,
ovvero va identificato nell'incremento del valore venale che
gli immobili acquistano per effetto della trasgressione;
incremento che viene determinato come differenza tra il
valore attuale e il valore dell'immobile prima
dell'esecuzione delle opere abusive, in quanto
l'arricchimento ottenuto dalla realizzazione dell'abuso non
può coincidere con il valore venale attuale del medesimo
senza detrazione del costo sostenuto per la sua costruzione.
Occorre cioè apprezzare il valore dell'immobile prima e dopo
la realizzazione del manufatto abusivo e portare in
detrazione dal valore venale dell'opera abusiva il costo
sostenuto per la sua esecuzione.
Tanto è stato effettuato nel caso che occupa, in cui
l’Amministrazione, dopo aver calcolato in £ 184.583.404,
corrispondente al costo dei lavori di realizzazione del muro
di cui trattasi e del movimento terra effettuato in base a
perizia prodotta dalla appellante, il danno arrecato, nonché
in £ 627.450.000 il profitto conseguito (pari al valore di
mercato dei realizzati garage detratti i costi di
costruzione), ha determinato la sanzione in tale ultima
entità, perché costituente maggior somma tra le due sopra
indicate.
Poiché la commisurazione del “quantum” della sanzione deve
avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere
ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, essa
è insuscettibile di una dimostrazione articolata ed
analitica, sfuggendo il danno paesistico, per la sua
intrinseca natura, ad una indagine dettagliata e minuta, a
prescindere dalla sua entità, tanto che è stato considerato
legittimo il provvedimento con il quale viene irrogata la
sanzione pecuniaria di cui trattasi per il caso di
violazione degli obblighi in materia di tutela del paesaggio
anche qualora sia accertata la mancanza di danno ambientale
(Consiglio Stato, sez. IV, 14.04.2010 n. 2083)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4783 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Il
principio contenuto negli articoli 51 della l. n. 142 del
1990 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, circa il riparto tra
compiti di governo, di indirizzo e di controllo, spettanti
agli organi politici elettivi, e compiti di gestione,
spettanti ai dirigenti, costituisce “struttura fondante
dell’intera riforma delle autonomie locali”, di per sé
immediatamente applicabile senza la necessità
dell’interposizione di fonti secondarie, cui spetta soltanto
la determinazione delle modalità di esercizio della
competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare
impedimenti e soluzioni di continuità.
Su un piano più generale è stato sottolineato che, a seguito
della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai
dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella
gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione
degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di
indirizzo politico, aggiungendosi che, con specifico
riferimento agli enti locali, proprio l’art. 107 del D.Lgs.
n. 267 del 2000 dispone che gli statuti ed i regolamenti si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e
controllo politico–amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica compete in via esclusiva ai dirigenti, con la
precisazione che l’attività di indirizzo, riservata agli
organi elettivi o politici del comune, si risolve nella
fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da
perseguire con l’attività di gestione.
---------------
Sulla scorta di tale substrato normativo (e
giurisprudenziale) il sindaco non può adottare un proprio
atto di annullamento, in autotutela, della determinazione
dirigenziale riguardante la procedura del concorso pubblico
per titoli ed esami per l’assunzione di un istruttore
contabile, trattandosi di un’attività di gestione, non
appartenente come tale ai compiti di governo, indirizzo e
controllo propri di un organo politico, quale appunto è il
sindaco.
Questi invero, proprio nell’esercizio dei predetti poteri di
indirizzo e controllo, può -e deve- sollecitare il
responsabile del servizio ovvero il dirigente competente
all’adozione degli atti opportuni e necessari a rimuovere la
pretesa illegittimità verificatasi nella procedura
concorsuale in esame, così rispettando il fondamentale ed
insuperabile principio di distinzione tra attività di
governo ed attività di gestione (potendo del resto
eventualmente utilizzare nei confronti del funzionario o del
dirigente, riottoso o inadempiente, gli ordinari poteri
disciplinari fino a giungere anche alla rimozione
dall’incarico o dalla funzione).
Né, a fondamento della sussistenza del potere esercitato nel
caso in esame, possono invocarsi, l’articolo 50, comma 3,
del D.Lgs. n. 267 del 2000 e l’art. 44, ultimo comma, del
Regolamento recante l’ordinamento degli uffici e dei servizi
(quest’ultimo nella parte in cui autorizza il sindaco ad
annullare, di propria iniziativa o su istanza di parte, per
motivi di legittimità gli atti dei responsabili dei servizi
degli organi dell’amministrazione).
Sotto un primo profilo deve infatti osservarsi che, se è
vero che il ricordato terzo comma dell’art. 50 del D.Lgs. n.
267 del 2000 stabilisce che il sindaco esercita le funzioni
attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti, è
altrettanto vero che tale norma fa espressamente salvo
quanto stabilito dall’articolo 107 che, come già si è avuto
modo di osservare, delimita e distingue nettamente
l’attività politica da quella di gestione, attribuendo solo
ai dirigenti quest’ultima, in cui è espressamente
ricompresa, secondo l’esemplificativa normativa, la
“responsabilità delle procedure di concorso”, formulazione
in cui deve farsi ragionevolmente rientrare, anche per
coerenza sistematica, l’eventuale esercizio del potere di
autotutela.
Giova al riguardo rilevare che l’art. 51
della legge 08.06.1990, n. 142, aveva già stabilito, al
comma 2, che “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici
e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli
statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per
cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli
organi elettivi mentre la gestione amministrativa è
attribuita ai dirigenti”, aggiungendo al successivo terzo
comma che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa
l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso
l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non
riservano agli organi di governo dell’ente. Sono ad essi
attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e
dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati
dall’organo politico, tra i quali in particolare, secondo le
modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell’ente:…b) la responsabilità delle procedure di appalto e
di concorso”.
Tale disposizione ha trovato conferma nell’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, laddove è stato previsto al
comma 4 che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione
del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative” e al comma 5 che, “a decorrere
dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le
disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I,
titolo III l’adozione di atti di gestione e di atti o
provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto
previsto dall’art. 50, comma 3, e dall’art. 54”.
Il principio contenuto nei ricordati articoli 51 della l. n.
142 del 1990 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, circa il
riparto tra compiti di governo, di indirizzo e di controllo,
spettanti agli organi politici elettivi, e compiti di
gestione, spettanti ai dirigenti, costituisce “struttura
fondante dell’intera riforma delle autonomie locali”
(C.d.S., sez. V, 15.11.2001, n. 5833), di per sé
immediatamente applicabile senza la necessità
dell’interposizione di fonti secondarie, cui spetta soltanto
la determinazione delle modalità di esercizio della
competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare
impedimenti e soluzioni di continuità (C.d.S., sez. V, 23.03.2000, n. 1617; 21.11.2003, n. 7632).
Su un piano più generale è stato sottolineato che, a seguito
della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai
dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella
gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione
degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di
indirizzo politico, aggiungendosi che, con specifico
riferimento agli enti locali, proprio l’art. 107 del D.Lgs.
n. 267 del 2000 dispone che gli statuti ed i regolamenti si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e
controllo politico–amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica compete in via esclusiva ai dirigenti (C.d.S., sez.
V, 16.10.2004, n. 6029; 05.10.2005, n. 5312; 10.12.2012, n. 6277), con la precisazione che l’attività
di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del
comune, si risolve nella fissazione delle linee generali da
seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di
gestione (C.d.S., sez. V, 09.09.2005, n. 4654).
Sulla scorta di tale substrato normativo (e
giurisprudenziale) il sindaco del Comune di Avetrana non
poteva adottare, come invece è avvenuto, la disposizione
prot. n. 2332 del 19.03.2002, di annullamento, in
autotutela, della determinazione n. 348 del 31.07.2001
e, conseguentemente, dell’intera procedura del concorso
pubblico per titoli ed esami per l’assunzione di un
istruttore contabile, trattandosi di un’attività di
gestione, non appartenente come tale ai compiti di governo,
indirizzo e controllo propri di un organo politico, quale
appunto è il sindaco.
Questi invero, proprio nell’esercizio dei predetti poteri di
indirizzo e controllo, avrebbe potuto -e dovuto-
sollecitare, anche sulla scorta degli indirizzi forniti
dall’organo giuntale, il responsabile del servizio ovvero il
dirigente competente all’adozione degli atti opportuni e
necessari a rimuovere la pretesa illegittimità verificatasi
nella procedura concorsuale in esame, così rispettando il
fondamentale ed insuperabile principio di distinzione tra
attività di governo ed attività di gestione (potendo del
resto eventualmente utilizzare nei confronti del funzionario
o del dirigente, riottoso o inadempiente, gli ordinari
poteri disciplinari fino a giungere anche alla rimozione
dall’incarico o dalla funzione).
Né, a fondamento della sussistenza del potere esercitato nel
caso in esame, possono invocarsi, come indicato nel
provvedimento impugnato, l’articolo 50, comma 3, del D.Lgs.
n. 267 del 2000 e l’art. 44, ultimo comma, del Regolamento
recante l’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune
di Avetrana (quest’ultimo nella parte in cui autorizza il
sindaco ad annullare, di propria iniziativa o su istanza di
parte, per motivi di legittimità gli atti dei responsabili
dei servizi degli organi dell’amministrazione).
Sotto un primo profilo deve infatti osservarsi che, se è
vero che il ricordato terzo comma dell’art. 50 del D.Lgs.
n. 267 del 2000 stabilisce che il sindaco esercita le
funzioni attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai
regolamenti, è altrettanto vero che tale norma fa
espressamente salvo quanto stabilito dall’articolo 107 che,
come già si è avuto modo di osservare, delimita e distingue
nettamente l’attività politica da quella di gestione,
attribuendo solo ai dirigenti quest’ultima, in cui è
espressamente ricompresa, secondo l’esemplificativa
normativa, la “responsabilità delle procedure di concorso”,
formulazione in cui deve farsi ragionevolmente rientrare,
anche per coerenza sistematica, l’eventuale esercizio del
potere di autotutela.
A ciò consegue, sotto altro concorrente profilo, che nessun
autonomo rilievo può essere attribuito alla previsione
contenuta nell’articolo 44 del Regolamento sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi, approvato con delibera della
Giunta comunale n. 640 del 22.11.1999, da ritenersi
tacitamente abrogata o comunque inapplicabile per effetto
della disposizione contenuta nel quinto comma dell’articolo
107 del più volte citato D.Lgs. n. 267 del 2000, secondo
cui “A decorrere dall’entrata in vigore del presente testo
unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui
al capo I, titolo III l’adozione di atti di gestione e di
atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso
che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto
previsto dall’art. 50, comma 3, e dell’art. 54”.
Ciò senza contare che ad identiche conclusioni del resto si
giunge anche disapplicando la predetta norma regolamentare,
proprio a causa del suo insanabile contrasto con il disposto
legislativo primario, essendo appena il caso di rilevare che
la disapplicazione della norma secondaria regolamentare, al
fine della decisione sulla legittimità del provvedimento
amministrativo impugnato, è in questi casi (di macroscopico
contrasto con la norma primaria) consentita al giudice
amministrativo, a prescindere dall’impugnazione congiunta
del regolamento e quindi anche in mancanza di richiesta
delle parti (C.d.S., sez. V, 25.09.2006, n. 5625; 11.05.2004, n. 2966; 13.11.2002, n.6293; sez. IV, 14.04.2006, n. 2142; sez. VI,
03.10.2007, n. 5098).
La fondatezza dell’esaminato motivo di gravame, alla
cui stregua è da ritenersi pertanto viziato da incompetenza
dell’organo che lo ha emanato il provvedimento sindacale prot. n. 2332 del 19.03.2002, nonché la stessa delibera
della Giunta comunale n. 64 del 18.03.2002, nella parte
in cui autorizza il sindaco ad emettere un provvedimento di
autotutela (della determinazione n. 348 del 31.07.2001),
determina l’assorbimento degli altri motivi di censura (che
attengono al merito della questione e dunque al corretto
esercizio del potere di autotutela e che conseguentemente in
tale sede non possono essere esaminati).
In conclusione l’appello deve essere accolto e per
l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere
accolto il ricorso proposto in primo grado dalla dott.
L.C.C. e devono essere annullati sia il
provvedimento sindacale prot. n. 2332 del 19.03.2002, sia la
stessa delibera della Giunta comunale n. 64 del 18.03.2002,
nella parte indicata sub. 5.3
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Anche
allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta,
la tollerata occupazione del bene non radica alcuna
posizione di diritto o di interesse legittimo in capo
all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal
fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti
all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali
somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo,
non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una
concessione per facta concludentia per l’impossibilità di
desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di
vincolarsi.
Come ha precisato la giurisprudenza, anche
allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta,
la tollerata occupazione del bene non radica alcuna
posizione di diritto o di interesse legittimo in capo
all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal
fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti
all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali
somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo
(C.d.S., sez. V, 27.09.2004, n. 6277), non essendo
del resto ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia per l’impossibilità di desumere per
implicito la volontà dell’amministrazione di vincolarsi
(C.d.S., sez. V, 22.11.2005, n. 6489)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Correttamente
l’approvazione del progetto definitivo e di quello esecutivo
del primo lotto dei lavori è avvenuta con deliberazione
dell’organo giuntale, non potendo detta approvazione
considerarsi un atto di programmazione ed indirizzo come
tale appartenente alla competenza dell’organo consiliare, a
nulla rilevando la circostanza che le spese per la
realizzazione dell’opera impegni più esercizi finanziari.
-----------------
Non è vietato ad un ente locale il ricorso per la
realizzazione di opere e lavori pubblici alla contrazione di
mutui o di altre forme di finanziamento, nei limiti e nei
modi stabiliti dalla legge, così che è legittima la
deliberazione, con la quale venga approvato il progetto
esecutivo di un’opera pubblica che comporti la necessità
della copertura finanziaria, purché sia effettivamente
indicata l’esistenza della copertura con la relativa
attestazione da parte del responsabile del servizio
finanziario, attestazione che può fare anche riferimento al
ricorso all’indebitamento ma previa inclusione della
relativa previsione o di apposita variazione nel bilancio
dell’esercizio.
Del resto è stato precisato che la prescrizione (contenuta
nell’art. 55 della legge 08.06.1990, n. 142) secondo la
quale è nulla la deliberazione comunale di spesa priva di
attestazioni della copertura finanziaria, deve essere
interpretata nel senso che la nullità consegue alla sola
carenza della previa attestazione della copertura e non è
esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura sussista,
ancorché non previamente attestata; peraltro, qualora sia
stata effettivamente ed espressamente manifestata
l’intenzione di contrarre un mutuo, deve ritenersi che
l’obbligo della relativa copertura finanziaria sia stato
effettivamente adempiuto.
---------------
E' legittimamente omessa la comunicazione dell’avvio del
procedimento per l’emanazione del decreto di occupazione di
urgenza, trattandosi di atto di mera attuazione del
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza
che le garanzie procedimentali relative alla partecipazione
sono proprie solo di quest’ultimo.
A ciò consegue, sotto altro
concorrente profilo, che correttamente l’approvazione del
progetto definitivo e di quello esecutivo del primo lotto
dei lavori sia avvenuta con deliberazione dell’organo
giuntale, non potendo detta approvazione considerarsi un
atto di programmazione ed indirizzo come tale appartenente
alla competenza dell’organo consiliare (C.d.S., sez. IV, 05.02.1999, n. 110; 27.03.2002, n. 1742; 19.10.2004, n. 6714; 16.04.2006, n. 2992; sez. V, 16.06.2009, n. 3853), a nulla rilevando la circostanza che le
spese per la realizzazione dell’opera impegni più esercizi
finanziari.
---------------
E’ sufficiente
rilevare al riguardo che non è vietato ad un ente locale il
ricorso per la realizzazione di opere e lavori pubblici alla
contrazione di mutui o di altre forme di finanziamento, nei
limiti e nei modi stabiliti dalla legge, così che è
legittima la deliberazione, con la quale venga approvato il
progetto esecutivo di un’opera pubblica che comporti la
necessità della copertura finanziaria, purché sia
effettivamente indicata l’esistenza della copertura con la
relativa attestazione da parte del responsabile del servizio
finanziario, attestazione che può fare anche riferimento al
ricorso all’indebitamento ma previa inclusione della
relativa previsione o di apposita variazione nel bilancio
dell’esercizio (C.d.S., sez. V, 16.01.2002, n. 216);
del resto è stato precisato che la prescrizione (contenuta
nell’art. 55 della legge 08.06.1990, n. 142) secondo la
quale è nulla la deliberazione comunale di spesa priva di
attestazioni della copertura finanziaria, deve essere
interpretata nel senso che la nullità consegue alla sola
carenza della previa attestazione della copertura e non è
esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura sussista,
ancorché non previamente attestata; peraltro, qualora sia
stata effettivamente ed espressamente manifestata
l’intenzione di contrarre un mutuo, deve ritenersi che
l’obbligo della relativa copertura finanziaria sia stato
effettivamente adempiuto (C.d.S., sez. sez. IV, 23.03.2000, n. 1561).
----------------
Quanto alle
censure sollevate nei confronti della determinazione
dirigenziale 02.04.1999, n. 19, e dell’avviso di
occupazione 07.04.1999, n. 3244, anche a voler
prescindere dalla loro inammissibilità per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che per effetto della nuova
delibera n. 539 del 20.05.1999 detti provvedimenti
devono considerarsi caducati, esse sono infondate:
- quella di
illegittimità derivata, stante l’acclarata legittimità della
citata delibera n. 1815 del 19.11.1998;
- quelle
concernenti la pretesa violazione delle garanzie
partecipative ed il presunto difetto di motivazione, in
quanto, secondo un consolidato e condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, è legittimamente omessa la comunicazione
dell’avvio del procedimento per l’emanazione del decreto di
occupazione di urgenza, trattandosi di atto di mera
attuazione del provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la
conseguenza che le garanzie procedimentali relative alla
partecipazione sono proprie solo di quest’ultimo (C.d. S.,
sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; 31.05.2007, n. 2874).
Né all’avviso di occupazione si sarebbe dovuto allegare, a
pena di illegittimità dello stesso, il provvedimento di
occupazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I pareri, previsti per l'adozione delle
deliberazioni comunali dall'art. 53 l. 08.06.1990 n. 142,
non costituiscono requisito di legittimità delle
deliberazioni cui si riferiscono, in quanto preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li
formulano, della responsabilità eventualmente in solido con
i componenti degli organi politici in via amministrativa e
contabile e il mancato inserimento dei pareri di regolarità
tecnica e contabile nella deliberazione impugnata
costituisce mera irregolarità, ai sensi dell’art. 53 l.
08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l’effettiva
esistenza dei pareri medesimi.
Ciò senza contare che è stato anche puntualizzato come
l’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, nel prevedere la necessità
dei pareri del responsabile del servizio interessato, del
responsabile di ragioneria nonché (nel sistema anteriore
alla l. 15.05.1997 n. 127) del segretario comunale, non pone
alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del
consiglio comunale, che possono liberamente disporre del
contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su
queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale
dell’iter procedimentale, il parere dei predetti organi
tecnici.
Non può
peraltro sottacersi che la giurisprudenza ha già avuto modo
di evidenziare che i pareri, previsti per l'adozione delle
deliberazioni comunali dall'art. 53 l. 08.06.1990 n. 142,
non costituiscono requisito di legittimità delle
deliberazioni cui si riferiscono, in quanto preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li
formulano, della responsabilità eventualmente in solido con
i componenti degli organi politici in via amministrativa e
contabile (sez. IV, 22.06.2006, n. 3888; 23.04.1998,
n. 670) e che il mancato inserimento dei pareri di
regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata
costituisce mera irregolarità, ai sensi dell’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l’effettiva
esistenza dei pareri medesimi (C.d.S., sez. IV, 11.02.2004, n. 548); ciò senza contare che è stato anche
puntualizzato come l’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, nel
prevedere la necessità dei pareri del responsabile del
servizio interessato, del responsabile di ragioneria nonché
(nel sistema anteriore alla l. 15.05.1997 n. 127) del
segretario comunale, non pone alcun limite alla potestà
deliberante della giunta e del consiglio comunale, che
possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di
deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato
acquisito, quale elemento formale dell’iter procedimentale,
il parere dei predetti organi tecnici (C.d.S., sez. V, 25.05.1998,
n. 680) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
provvedimento amministrativo adottato in esecuzione di
un'ordinanza cautelare del giudice amministrativo non
implica di per sé il ritiro dell'atto impugnato e la
cessazione della materia del contendere, avendo una
rilevanza solo provvisoria in attesa che la decisione di
merito accerti se l'atto (impugnato) sia o meno legittimo:
la misura cautelare infatti non determina di norma una
radicale consumazione della potestà amministrativa e
l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si
estende comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla
pubblica amministrazione a seguito dell'adozione
dell'ordinanza cautelare.
Del resto, benché possa accadere che la nuova attività
dell’amministrazione, conseguente in modo diretto ed
immediato all'ordine cautelare del giudice amministrativo di
riesaminare la vicenda e di provvedervi, possa determinare
una fattispecie estintiva della controversia cui la cautela
accede, ciò si verifica solo se la pubblica amministrazione
emani l'atto richiesto senza riserve e senza condizioni,
cioè alla luce di una nuova ed autonoma valutazione della
fattispecie, non collegata all'oggetto del giudizio di
merito.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, il provvedimento amministrativo adottato
in esecuzione di un'ordinanza cautelare del giudice
amministrativo non implica di per sé il ritiro dell'atto
impugnato e la cessazione della materia del contendere,
avendo una rilevanza solo provvisoria in attesa che la
decisione di merito accerti se l'atto (impugnato) sia o meno
legittimo: la misura cautelare infatti non determina di
norma una radicale consumazione della potestà amministrativa
e l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si
estende comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla
pubblica amministrazione a seguito dell'adozione dell'ordinanza cautelare (C.d.S., sez. V, 11.04.2013, n.
1970; 16.01.2013, n. 240).
Del resto, benché possa accadere che la nuova attività
dell’amministrazione, conseguente in modo diretto ed
immediato all'ordine cautelare del giudice amministrativo di
riesaminare la vicenda e di provvedervi, possa determinare
una fattispecie estintiva della controversia cui la cautela
accede, ciò si verifica solo se la pubblica amministrazione
emani l'atto richiesto senza riserve e senza condizioni,
cioè alla luce di una nuova ed autonoma valutazione della
fattispecie, non collegata all'oggetto del giudizio di
merito (C.d.S., sez. III, 14.03.2013, n. 1534) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
principio di democraticità del procedimento amministrativo,
cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti della legge
07.08.1990, n. 241, ed il conseguente rispetto delle
garanzie partecipative, devono essere assicurati nella
sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che
ogni qualvolta l'interessato sia stato informato
dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla
propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di
utilmente rappresentare le proprie osservazioni e deduzioni,
che integrano la partecipazione procedimentale, non può
ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento.
La comunicazione (di avvio del procedimento) è da ritenersi
(addirittura) superflua, riprendendo rilievo i principi di
economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività
amministrativa, ogni qualvolta l’interessato è venuto
comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura,
conducono necessariamente all'adozione di provvedimenti
obbligati; d’altra parte, ai sensi dell'art. 21-octies,
della legge n. 241 del 1990, i vizi procedurali relativi al
mancato previo avviso d'inizio del procedimento non possono
portare all'annullamento giurisdizionale del provvedimento
impugnato ove questo non avrebbe potuto comunque avere un
contenuto diverso.
E’ stato
affermato che il principio di democraticità del procedimento
amministrativo, cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti
della legge 07.08.1990, n. 241, ed il conseguente
rispetto delle garanzie partecipative, devono essere
assicurati nella sostanza e non già nella mera forma, con la
conseguenza che ogni qualvolta l'interessato sia stato
informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad
incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in
condizione di utilmente rappresentare le proprie
osservazioni e deduzioni, che integrano la partecipazione
procedimentale, non può ritenersi violato alcun canone del
giusto procedimento (ex multis, C.d.S., sez. IV, 08.01.2013, n. 32); la comunicazione (di avvio del procedimento) è
da ritenersi (addirittura) superflua, riprendendo rilievo i
principi di economicità e di speditezza dai quali è retta
l’attività amministrativa, ogni qualvolta l’interessato è
venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro
natura, conducono necessariamente all'adozione di
provvedimenti obbligati (C.d.S., sez. V, 09.04.2013, n.
1950; sez. IV, 20.02.2013, n. 1056); d’altra parte, ai
sensi dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, i
vizi procedurali relativi al mancato previo avviso d'inizio
del procedimento non possono portare all'annullamento
giurisdizionale del provvedimento impugnato ove questo non
avrebbe potuto comunque avere un contenuto diverso (C.d.S.,
sez. III, 21.03.2013, n. 1630; sez. IV, 17.09.2012, n. 4925) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di verifica dell’anomalia dell’offerta costituisce jus
receptum che:
a) il giudizio della stazione appaltante costituisce
esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta;
b) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni
della pubblica amministrazione sotto il profilo della
logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria,
senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci, cosa che
rappresenterebbe invece un’inammissibile invasione della
sfera propria della pubblica amministrazione;
c) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria
offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può
intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell’amministrazione;
d) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in
modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento
dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che lo compongono, non può considerarsi
viziato il procedimento di verifica per il fatto che
l’amministrazione appaltante ovvero la commissione di gara
si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole
voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il
concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane
la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs. n.
163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi
elemento dell’offerta e quindi anche su voci non
direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue,
così che se un concorrente non è in grado di dimostrare
l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il
richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati
nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò
non può essere ascritto a responsabilità della stazione
appaltante per erronea o inadeguata formulazione della
richiesta di giustificazioni.
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta
costituisce jus receptum che:
a) il giudizio della stazione appaltante costituisce
esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta (C.d.S., sez. V, 26.06.2012, n.
3737; 22.02.2011, n. 1090; 08.07.2008, n. 3406; 29.01.2009, n. 497);
b) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni
della pubblica amministrazione sotto il profilo della
logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria,
senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci, cosa che
rappresenterebbe invece un’inammissibile invasione della
sfera propria della pubblica amministrazione (C.d.S., sez.
V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
c) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria
offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può
intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell’amministrazione (C.d.S., sez.
V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
d) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in
modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento
dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che lo compongono (C.d.S., sez. V, 27.08.2012, n. 4600; sez. V, 16.08.2011, n. 4785; sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI,
02.04.2010, n.
1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n.
3762), non può considerarsi viziato il procedimento di
verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante
ovvero la commissione di gara si sia limitata a chiedere le
giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non
per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la
propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex
art. 87, comma 1, D.Lgs. n. 163 del 2006, spiegazioni e
giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi
anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione
come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di
dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta
attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli
individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di
principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della
stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione
della richiesta di giustificazioni (C.d.S., A.P., 29.11.2012, n. 36)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4761 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sebbene
non possa negarsi in generale che nell’ambito dei
fondamentali principi costituzionali di imparzialità e buon
andamento, cui deve ispirarsi l’azione amministrativa anche
nei procedimenti di scelta del contraente dei contratti
pubblici (sub specie di correttezza, affidamento,
trasparenza e parità di trasparenza, ex art. 2 del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163) rientrino anche quelli di buona fede e
collaborazione, principi che, per un verso, impongono
innanzitutto alle stazioni appaltanti di privilegiare, nei
limiti del possibile, una lettura ed una interpretazione non
rigida e formalistica delle regole della lex specialis, onde
assicurare la più ampia partecipazione alle procedure ad
evidenza pubblica e, per altro verso, si
concretizzano in un vero e proprio obbligo per
l’amministrazione di cooperare con i concorrenti,
invitandoli specialmente a completare la documentazione
ovvero a fornire chiarimenti in ordine a certificati,
documenti e dichiarazioni presentati, è altrettanto
indiscutibile che il ricordato c.d. dovere di soccorso deve
in ogni caso intendersi limitato a consentire la “sanatoria”
di difformità e carenze di carattere meramente formale e
facilmente riconoscibili, come tali inidonee a violare gli
altrettanto fondamentali principi di parità di trattamento
dei concorrenti e di non discriminazione, non potendo
pertanto con esso supplirsi a sostanziali carenze
dell’offerta presentata, integrandola o rielaborandola, così
superando decadenze o situazioni di inammissibilità già
verificatesi.
Sebbene, infatti, non possa negarsi in
generale che nell’ambito dei fondamentali principi
costituzionali di imparzialità e buon andamento, cui deve
ispirarsi l’azione amministrativa anche nei procedimenti di
scelta del contraente dei contratti pubblici (sub specie di
correttezza, affidamento, trasparenza e parità di
trasparenza, ex art. 2 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163)
rientrino anche quelli di buona fede e collaborazione,
principi che, per un verso, impongono innanzitutto alle
stazioni appaltanti di privilegiare, nei limiti del
possibile, una lettura ed una interpretazione non rigida e
formalistica delle regole della lex specialis, onde
assicurare la più ampia partecipazione alle procedure ad
evidenza pubblica e, per altro verso, si concretizzano in un
vero e proprio obbligo per l’amministrazione di cooperare
con i concorrenti, invitandoli specialmente a completare la
documentazione ovvero a fornire chiarimenti in ordine a
certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è
altrettanto indiscutibile che il ricordato c.d. dovere di
soccorso deve in ogni caso intendersi limitato a consentire
la “sanatoria” di difformità e carenze di carattere
meramente formale e facilmente riconoscibili, come tali
inidonee a violare gli altrettanto fondamentali principi di
parità di trattamento dei concorrenti e di non
discriminazione (C.d.S., sez. VI, 13.02.2013, n. 889;
sez. V, 23.10.2012, n. 5408; 30.08.2012, n. 4654;
31.03.2012, n. 1896), non potendo pertanto con esso
supplirsi a sostanziali carenze dell’offerta presentata,
integrandola o rielaborandola, così superando decadenze o
situazioni di inammissibilità già verificatesi
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4760 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’asservimento,
inteso come fattispecie negoziale atipica ad effetti
obbligatori in base al quale un’area viene destinata a
servire al computo di edificabilità di un altro fondo, dà
vita ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente
indipendentemente da quando questo asservimento è stato
posto in essere.
L’asservimento, inteso come fattispecie negoziale
atipica ad effetti obbligatori in base al quale un’area
viene destinata a servire al computo di edificabilità di un
altro fondo, dà vita ad un rapporto pertinenziale che ha
natura permanente indipendentemente da quando questo
asservimento è stato posto in essere (Cons. Stato, adunanza
plenaria 23.04.2009, n. 3)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.09.2013 n. 4757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denuncia di inizio
attività, in quanto mero atto del privato, non costituisce
titolo amministrativo: l’attività edilizia, realizzabile a
seguito di denuncia, è attività completamente liberalizzata
cui si correla un potere di controllo dell’Amministrazione,
la quale può intervenire per inibirla o rimuoverne gli
effetti qualora accerti il suo contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia vigente.
Si distingue, pertanto, fra potere inibitorio, esercitabile
nel breve termine previsto dalla legge, decorrente dal
momento di presentazione della denunzia (il quale presuppone
unicamente il mero accertamento della non compatibilità
urbanistico–edilizia dell’intervento), e potere di
“autotutela” che può essere invece esercitato senza limiti
temporali prestabiliti (e che presuppone accertamenti più
complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui generis
in quanto, come detto, non incidente su un precedente
provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide
con il classico potere di autotutela le regole di disciplina
sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio
presuppone:
a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la
comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7
della legge n. 241/1990;
B) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra
interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo
ante, e interesse del privato, teso invece a conservare
l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il
primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque
attivabile al mero fine di ripristinare la legalità
violata).
Queste regole, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale ed
oggi codificate nell’art. 21-nonies, primo comma, della
legge 07.08.1990 n. 241, hanno la finalità di tutelare
l’affidamento ingenerato nel destinatario del titolo il
quale, confidando nella legittimità di quest’ultimo, vi
abbia in buona fede dato esecuzione.
Dopo iniziali incertezze, è ormai
opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale
la denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del
privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività
edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività
completamente liberalizzata cui si correla un potere di
controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per
inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente
(cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 29.07.2011 n. 15).
Si distingue, pertanto, fra potere inibitorio,
esercitabile nel breve termine previsto dalla legge,
decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il
quale presuppone unicamente il mero accertamento della non
compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e
potere di “autotutela” che può essere invece esercitato
senza limiti temporali prestabiliti (e che, come vedremo,
presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui
generis in quanto, come detto, non incidente su un
precedente provvedimento amministrativo. Tale potere
tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le
regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il
suo esercizio presuppone:
a) l’avvio di un nuovo
procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli
interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n.
241/1990;
B) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra
interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo
ante, e interesse del privato, teso invece a conservare
l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il
primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque
attivabile al mero fine di ripristinare la legalità
violata).
Queste regole, frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale ed oggi codificate nell’art. 21-nonies,
primo comma, della legge 07.08.1990 n. 241, hanno la
finalità di tutelare l’affidamento ingenerato nel
destinatario del titolo il quale, confidando nella
legittimità di quest’ultimo, vi abbia in buona fede dato
esecuzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2013 n. 2213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di
un'istanza di sanatoria (nel caso di specie, ex art. 32 d.l.
n. 269/2003), per un’opera edilizia già oggetto di
provvedimento sanzionatorio, determina l'improcedibilità del
gravame proposto nei confronti di quest’ultimo, in quanto il
ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un
gravame concernente misure che —all'esito del procedimento
di sanatoria— dovranno essere sostituite con un nuovo
provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio
rilasciato in sanatoria.
... per l'annullamento:
> quanto al ricorso introduttivo: - dell’ordinanza n. 2830
del 30.06.2003 con cui il Comune di Livigno ha ingiunto alla
ricorrente di demolire la tettoia in profilati metallici,
con copertura in telo di p.v.c., a pianta rettangolare,
delle dimensioni di circa 25 metri per 8 metri, con falda
unica inclinata ed altezza variabile dai 3 ai 4 metri,
realizzata sul terreno accatastato ai mappali nn. 528, 529 e
530, foglio 20 del Comune citato; e con richiesta di
risarcimento del danno ex art. 35 co. 1 d.lgs. n. 80/19978;
> quanto ai motivi aggiunti: - per l’annullamento del
provvedimento di rigetto della domanda di condono emesso il
05.06.2008.
...
Iniziando dal ricorso introduttivo va rammentato che, per
diffuso orientamento giurisprudenziale, cui la Sezione
aderisce, la presentazione di un'istanza di sanatoria (nel
caso di specie, ex art. 32 d.l. n. 269/2003), per un’opera
edilizia già oggetto di provvedimento sanzionatorio,
determina l'improcedibilità del gravame proposto nei
confronti di quest’ultimo, in quanto il ricorrente non può
avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente
misure che —all'esito del procedimento di sanatoria—
dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento
sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in
sanatoria (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 07.05.2009, n.
2833; TAR Lombardia, Milano, II, 08/02/2012, n. 441)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per individuare la natura
precaria di un'opera si deve seguire non il criterio
strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può
anche non essere stabilmente infissa al suolo ma, se essa
presenta la caratteristica di essere realizzata per
soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del
regime delle opere precarie.
Rientrano, per tale via, nella nozione giuridica di
“costruzione” per la quale occorre munirsi di idoneo titolo
edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi al suolo e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come
impianti per attività produttive all'aperto, ove comportanti
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo inedificato.
Concludendo sul punto, va ribadito che, la natura "precaria"
di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca
destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente
di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
La
giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, Sent.,
27.03.2013, n. 1776; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
05.06.2013, n.1460; id., Sez. IV, Sent., 08.04.2011, n. 930)
è concorde nel ritenere che, per individuare la natura
precaria di un'opera, si debba seguire non il criterio
strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può
anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma, se essa
presenta la caratteristica di essere realizzata per
soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del
regime delle opere precarie.
Rientrano, per tale via, nella nozione giuridica di
“costruzione” per la quale occorre munirsi di idoneo titolo
edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi al suolo e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come
impianti per attività produttive all'aperto, ove comportanti
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo inedificato.
Concludendo sul punto, va ribadito che, la natura "precaria"
di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente data all'opera dal
costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca
destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente
di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nel caso di specie, vista anche la documentazione
fotografica versata in atti da parte resistente, non può
dirsi affatto provata la precarietà dell’opera in
contestazione, trattandosi di un manufatto destinato a
realizzare una trasformazione permanente del suolo
inedificato, in assenza di titolo edilizio e in violazione
della destinazione urbanistica di zona.
Su quest’ultimo aspetto, giova precisare come,
contrariamente a quanto sostenuto dall’esponente, la
precedente autorizzazione in sanatoria datata 16.12.2002
fosse stata rilasciata sull’unico presupposto, poi
rivelatosi erroneo, che la costruzione della tettoia
servisse al ricovero, per un periodo limitato di quattro
mesi, di attrezzature elettromeccaniche per la sagomatura
del ferro, da utilizzare nei cantieri edili.
Sennonché, la struttura in esame, che presenta un impatto
visivo ed una consistenza che vanno ben oltre i limiti
propri di una pertinenza, si trova tutt’ora localizzata,
dopo oltre un decennio, nella medesima postazione in cui si
trovava all’epoca della predetta autorizzazione temporanea.
Ne consegue che, diversamente da quanto osservato in sede di
cognizione sommaria del gravame, il Collegio deve escludere
la riconducibilità dell’opera di cui trattasi fra quelle
soggette ad autorizzazione, essendo la stessa sussumibile
nella nozione di “nuova costruzione”, subordinata, in quanto
tale, a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.P.R.
n. 380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla
rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva, non solo non
incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe
legittimare.
---------------
La mancata o inesatta indicazione dell’area di sedime da
acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di
demolizione, secondo un condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, non costituisce causa di illegittimità
dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni
riferibili al successivo ed autonomo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale.
Il contenuto essenziale dell'ingiunzione di demolizione va,
pertanto, individuato in relazione alla funzione tipica del
provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione
delle opere abusive, sicché, ai fini della legittimità
dell'atto in parola, è necessaria e sufficiente l'analitica
indicazione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente.
Anche il terzo
motivo segue la medesima sorte dei precedenti, atteso che
l’ordinanza chiariva in modo non equivoco quali fossero i
presupposti della disposta demolizione, richiamando sia il
contenuto pregnante dell’autorizzazione in sanatoria, ormai
scaduta, sia le caratteristiche dell’opera, con specifico
riguardo alle sue dimensioni, che, infine, il carattere
vincolato dell’area di ubicazione.
Ciò, senza trascurare che, secondo consolidato orientamento
giurisprudenziale, l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla
rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva, non solo non
incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe
legittimare (cfr., ex multis, Consiglio Stato, V Sezione, 11.01.2011, n. 79; Consiglio Stato, IV Sezione, 31.08.2010 n. 3955; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, Sent.
24.07.2013, n. 3851; TAR Campania, Napoli, VII Sezione,
14.01.2011, n. 160).
Risulta infondato anche l’ultimo motivo del ricorso
introduttivo, poiché la mancata o inesatta indicazione
dell’area di sedime da acquisire nell'ipotesi di
inottemperanza all'ordine di demolizione, secondo un
condivisibile indirizzo giurisprudenziale, non costituisce
causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire,
concernendo indicazioni riferibili al successivo ed autonomo
atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale (cfr. Consiglio di Stato, IV
Sezione, 26.09.2008, n. 4659; TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, Sent. 24.07.2013, n. 3851; id., 04.04.2012 n. 1601; TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent.,
02.05.2012, n. 757; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 28.07.2011, n. 1461; 24.03.2011, n. 518 e
09.12.2010, n. 2809; nello stesso senso, TAR Piemonte, Torino,
sez. I, 24.03.2010, n. 1577).
Il contenuto essenziale dell'ingiunzione di demolizione va,
pertanto, individuato in relazione alla funzione tipica del
provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione
delle opere abusive, sicché, ai fini della legittimità
dell'atto in parola, è necessaria e sufficiente l'analitica
indicazione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente (TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent.,
02.05.2012, n. 757; TAR Lazio Roma, sez. I, 09.02.2010, n. 1785).
Nel caso di specie, nel provvedimento di demolizione l’opera
da rimuovere è stata adeguatamente individuata, sia per
ubicazione, sia per consistenza, senza trascurare che
l'univoco riferimento all'esistenza di un’autorizzazione
temporanea a suo tempo richiesta dallo stesso istante pone
il medesimo destinatario nelle condizioni di non avere dubbi
di sorta né sull'oggetto dell'ingiunzione, né sulle
conseguenze di un'eventuale inottemperanza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Qualora si controverte
sulla legittimità di un provvedimento fondato su una
pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti,
l’accertamento dell’“inattaccabilità” anche di una sola di
esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che
diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di
interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti
ragioni.
L’ultimo
motivo, infine, risulta inammissibile per difetto di
interesse prima ancora che infondato, atteso che, qualora si
controverte sulla legittimità di un provvedimento fondato su
una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti,
l’accertamento dell’“inattaccabilità” anche di una sola di
esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che
diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di
interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti
ragioni (cfr. Consiglio di Stato IV, 02.11.2009, n. 6784;
id., 06.11.2008, n.5503) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Non sussiste un onere
probatorio in capo al Comune in ordine alla circostanza
dello smarrimento di pratiche edilizie oggetto di richiesta
di accesso.
Invero, l’attestazione del pubblico ufficiale è più che
sufficiente a documentare il mancato rinvenimento e le vane
ricerche, sino a querela di falso.
La dott.ssa G., proprietaria di un immobile adibito a sede
della propria attività professionale di Notaio, nel Comune
di Campagna, loc. Quadrivio, via S.S. 91, civico 377,
chiedeva al Comune di Campagnia il rilascio di copia degli
atti abilitativi edilizi, relativi, sia al fabbricato ove
insisteva la sua proprietà (concessione 683/1975 e
successiva variante 740/1975), sia ad un nuovo edificio
adibito ad attività commerciali, realizzato nello spazio
retrostante il fabbricato, già utilizzato quale parcheggio
dai proprietari di quest’ultimo nonché dai dipendenti e dai
clienti dello studio notarile.
Il Comune rimaneva silente, sicché la dott.ssa G. proponeva
ricorso al TAR Campania.
Nel giudizio di costituiva l’amministrazione deducendo
l’impossibilità (innanzi già comunicata in via
amministrativa) di reperire la pratica edilizia del ’75,
andata distrutta insieme a parte degli archivi a seguito del
sisma del 1980. Nulla deduceva in ordine all’ulteriore e
diverso titolo abilitativo riguardante il nuovo edificio
commerciale assentito in epoca molto più recente.
Il TAR dichiarava il ricorso inammissibile, ritenendo non
ostensibile il documento non materialmente detenuto
dall’amministrazione (salvo il dovere di ricostruzione del
fascicolo, tuttavia esulante dal contenuto specifico
dell’obbligo di accesso). Quanto all’ulteriore titolo
abilitativo concernente l’edificio commerciale, il TAR
perveniva alle medesime conclusioni in punto di
inammissibilità, questa volta in ragione della genericità
della domanda (mancanza degli estremi dell’atto o di
indicazione del periodo).
...
L’appello è solo in parte fondato.
Non può in particolare essere condivisa la censura a mezzo
della quale si individua un onere probatorio in capo al
Comune in ordine alla circostanza dello smarrimento ed alle
relative cause. L’attestazione del pubblico ufficiale è più
che sufficiente a documentare il mancato rinvenimento e le
vane ricerche, sino a querela di falso (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 24.09.2013 n. 4696 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'osservanza
della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873
cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di
Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si
estende a qualsiasi opera non completamente interrata,
avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione
rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai
caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e
continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua
realizzazione (è stato affermato, per esempio, che ai fini
dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod.
civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera
non completamente interrata avente i requisiti della
solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello
stesso senso, è stata annullata la sentenza impugnata che
aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al
rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia
seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della
distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non
essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che
si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non
formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni
frontistanti.
Tanto premesso, reputa il Collegio come la
tesi del Comune, per cui le costruzioni seminterrate poste
ai lati ovest ed est dell’intervento in esame non possono
rilevare alla stregua di costruzioni o muri di fabbrica, ai
fini della costruzione in aderenza ad esse, non possa essere
condivisa.
Come correttamente rilevato dall’esponente, ai fini
dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui
all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata
dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di
edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente
interrata, avente i requisiti della solidità,
dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una
preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello
di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal
materiale impiegato per la sua realizzazione (cfr. così
Cass. Sez. II, sent. n. 10608 del 05.11.1990; analogamente,
cfr. Cass. S.U., sent. n. 7067 del 09.06.1992, per cui, ai
fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod.
civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera
non completamente interrata avente i requisiti della
solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello
stesso senso, cfr. la sentenza della Cass. Sez. II, n. 12489
del 04.12.1995, citata nelle difese di parte ricorrente, ove
la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva negato
il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle
distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata,
sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della
distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non
essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che
si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non
formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni
frontistanti (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 2343 del
01.03.1995)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La deliberazione del
Consiglio Comunale che fissa gli oneri concessori (ai sensi
dell’art. 16 del DPR 380/2001) è un atto autoritativo, da
impugnarsi nell’ordinario termine di decadenza di sessanta
giorni, stante la previsione degli articoli 29 e 41 del
D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo amministrativo”).
Tale termine decorre, nel caso di atti a contenuto generale
quali le delibere consiliari di aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione, dalla scadenza del termine di pubblicazione
della delibera, ai sensi del già citato art. 41, comma 2°,
del D.Lgs. 104/2010.
Al riguardo, il Collegio, ad un più
approfondito esame rispetto a quanto rilevato in sede di
cognizione sommaria, non può che condividere la tesi fatta
propria da parte resistente.
In effetti, è indubbio che i due motivi articolati con
l’odierno ricorso si appuntino proprio sulla delibera
n. 23/2002, per la quale (come già evidenziato nella sentenza
n. 2080/2012, pronunciata dalla Sezione in un caso analogo a
quello all’odierno esame), deve trovare applicazione
l’indirizzo giurisprudenziale, ribadito anche di recente dal
Supremo giudice amministrativo (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 28.05.2012, n. 3122 e 03.05.2006, n. 2463), secondo cui
la deliberazione del Consiglio Comunale che fissa gli oneri
concessori (ai sensi dell’art. 16 del DPR 380/2001) è un
atto autoritativo, da impugnarsi nell’ordinario termine di
decadenza di sessanta giorni, stante la previsione degli
articoli 29 e 41 del D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo
amministrativo”).
Tale termine decorre, nel caso di atti a contenuto generale
quali le delibere consiliari di aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione, dalla scadenza del termine di pubblicazione
della delibera, ai sensi del già citato art. 41, comma 2°,
del D.Lgs. 104/2010
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al di fuori dei casi
tassativamente previsti (cfr. in tema di misure di
salvaguardia ad esempio l’art. 12 DPR n. 380 del 2001),
l'ordinamento non attribuisce all'amministrazione comunale
il potere di sospendere l'esame delle pratiche edilizie,
comprimendo sine die lo jus aedificandi dei privati.
Il motivo è
fondato.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, a cui
si ritiene di dover aderire, al di fuori dei casi
tassativamente previsti (cfr. in tema di misure di
salvaguardia ad esempio l’art. 12 DPR n. 380 del 2001),
l'ordinamento non attribuisce all'amministrazione comunale
il potere di sospendere l'esame delle pratiche edilizie,
comprimendo sine die lo jus aedificandi dei
privati.
L'atto impugnato si pone dunque in contrasto con l'art. 2
della legge n. 241/1990 -che impone all'amministrazione
l'obbligo di concludere il procedimento, iniziato di ufficio
o su istanza di parte, con atto espresso e motivato- e con
l'art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 -che fissa i termini per la
definizione delle domande di permesso di costruire- nonché
con i sottesi principi generali di certezza giuridica,
indefettibilità, speditezza e continuità della funzione
pubblica.
Inoltre per l’esame della pratica edilizia il comune deve
riferirsi, e provvedere di conseguenza, alla vigente
normativa urbanistico-edilizia, dovendo ritenersi ultronea
l’acquisizione di un parere regionale, non richiesto dalla
vigente disciplina.
Ne consegue l'illegittimità dell'arresto procedimentale
determinatosi per effetto dell'atipica misura soprassessoria
opposta dall'ente con la nota impugnata del 29.08.2012 che
in tal modo ha attuato un differimento, a tempo
indeterminato, dell'esame dell'istanza del privato (TAR Puglia-Lecce, Sez.
III,
sentenza 18.09.2013 n. 1944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Deve ritenersi
inapplicabile l'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 ai
procedimenti diretti ad ottenere l'accesso ad atti, poiché
il procedimento di accesso realizza un interesse meramente
partecipativo, strumentale alla soddisfazione di un
interesse primario, che non si concilia con la previsione di
una ulteriore fase subprocedimentale.
---------------
Il diritto di accesso può essere riconosciuto nei limiti di
cui al disposto dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n.
241/1990 secondo cui per soggetti “interessati” si intendono
coloro i quali vantino un “interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”, essendo in ogni caso inammissibile l’istanza di
accesso preordinata “ad un controllo generalizzato
dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24,
comma 3, L. n. 241/1990).
L’accesso informativo, quindi, è riconosciuto nei limiti di
un interesse personale e diretto della parte richiedente,
laddove anche l’esigenza connessa all’esercizio del diritto
di difesa se, da un lato, può condurre ad attribuire
prevalenza -nella logica del bilanciamento dei contrapposti
interessi- alle ragioni ostensive rispetto a quelle della
riservatezza, del segreto commerciale ovvero delle strategie
imprenditoriali, dall’altro, non può in ogni caso superare
il necessario presupposto della specifica connessione tra
gli atti di cui si ipotizza la rilevanza ai fini difensivi e
quelli della procedura rispetto alla quale deve svolgersi
l’esercizio del diritto di difesa; tale dimostrazione,
peraltro, deve essere fornita deducendo fatti ed elementi di
valutazione che, allo stato della procedura da cui
scaturisca l’astratta esigenza difensiva appaiano
oggettivamente connessi ai documenti da ostendere.
---------------
Se è ben possibile che documenti afferenti al procedimento
che vede personalmente coinvolta una società possano
legittimamente essere sottratti all’accesso quando non siano
indispensabili per la sua difesa -ad esempio in quanto non
utilizzati dall’Autorità per la formulazione dei relativi
addebiti- a fortiori deve essere esclusa la rilevanza delle
pretese ostensive ove queste abbiano ad oggetto atti
contenuti non nel fascicolo del procedimento condotto nei
confronti della società istante, bensì in fascicolo diverso,
relativo ad un distinto procedimento condotto contro altra
impresa per fatti solo asseritamente indicati quali simili a
quelli oggetto della sanzione nei confronti della società
istante.
---------------
Un interesse del tutto eterogeneo rispetto all’oggetto
dell’attività amministrativa posta in essere dall’Autorità,
infatti, non può ritenersi un interesse giuridico ai sensi
dell’art. 24, co. 7, L. 241/1990 in quanto totalmente
estraneo alle finalità, non solo di carattere partecipativo,
ma anche di imparzialità e trasparenza dell’attività
amministrativa, cui sono preordinate le norme sull’accesso
ai documenti dell’amministrazione.
Diversamente opinando, d’altra parte, si perverrebbe alla
paradossale conclusione che ogni Pubblica Amministrazione
potrebbe essere destinataria di richieste di accesso
indiscriminate, per il solo fatto di formare o detenere
stabilmente documenti, anche da parte di soggetti che
perseguono un interesse completamente estraneo agli
interessi, siano essi pubblici o privati, coinvolti
dall’azione amministrativa e, quindi, per fini totalmente
diversi da quelli per i quali l’accesso agli atti è stato
legislativamente previsto.
La stessa definizione di “interessati” di cui all’art. 22 L.
241/1990, secondo cui interessati sono tutti i soggetti che
abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è richiesto l’accesso, in
coerenza con la complessiva normativa in materia, va intesa
nel senso di interesse collegato all’attività amministrativa
cui inerisce il documento di cui è chiesta l’ostensione.
In definitiva, in ragione della ratio del corpus normativo
in materia, gli interessi giuridici considerati dall’art.
24, co. 7, L. 241/1990 devono ritenersi quelli e solo quelli
coinvolti dall’azione amministrativa in relazione alla quale
la richiesta di accesso, ancorché successivamente alla
conclusione del procedimento, sia stata avanzata.
Come costantemente affermato da questo Tribunale, in base al
dato sistematico, deve ritenersi inapplicabile l'art. 10-bis
della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti diretti ad ottenere
l'accesso ad atti, poiché il procedimento di accesso
realizza un interesse meramente partecipativo, strumentale
alla soddisfazione di un interesse primario, che non si
concilia con la previsione di una ulteriore fase
subprocedimentale (TAR Lazio Roma, sez. I, n. 13562/2005;
sez. II, n. 71/2008; Sez. III, n. 30/2012).
---------------
Rileva il Collegio
come il diritto di accesso può essere riconosciuto nei
limiti di cui al disposto dell’art. 22, comma 1, lett. b),
L. n. 241/1990 secondo cui per soggetti “interessati”
si intendono coloro i quali vantino un “interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso”, essendo in ogni caso
inammissibile l’istanza di accesso preordinata “ad un
controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche
amministrazioni” (art. 24, comma 3, L. n. 241/1990).
L’accesso informativo, quindi, è riconosciuto nei limiti di
un interesse personale e diretto della parte richiedente,
laddove anche l’esigenza connessa all’esercizio del diritto
di difesa se, da un lato, può condurre ad attribuire
prevalenza -nella logica del bilanciamento dei contrapposti
interessi- alle ragioni ostensive rispetto a quelle della
riservatezza, del segreto commerciale ovvero delle strategie
imprenditoriali, dall’altro, non può in ogni caso superare
il necessario presupposto della specifica connessione tra
gli atti di cui si ipotizza la rilevanza ai fini difensivi e
quelli della procedura rispetto alla quale deve svolgersi
l’esercizio del diritto di difesa; tale dimostrazione,
peraltro, deve essere fornita deducendo fatti ed elementi di
valutazione che, allo stato della procedura da cui
scaturisca l’astratta esigenza difensiva appaiano
oggettivamente connessi ai documenti da ostendere (Cfr.
Cons. Stato, 15.03.2013, n. 1568).
Alla luce di tali principi, se è ben possibile che documenti
afferenti al procedimento che vede personalmente coinvolta
una società possano legittimamente essere sottratti
all’accesso quando non siano indispensabili per la sua
difesa -ad esempio in quanto non utilizzati dall’Autorità
per la formulazione dei relativi addebiti- a fortiori
deve essere esclusa la rilevanza delle pretese ostensive ove
queste abbiano ad oggetto atti contenuti non nel fascicolo
del procedimento condotto nei confronti della società
istante, bensì in fascicolo diverso, relativo ad un distinto
procedimento condotto contro altra impresa per fatti solo
asseritamente indicati quali simili a quelli oggetto della
sanzione nei confronti della società istante.
Tali presupposti, fanno si che non possa riconoscersi
sussistente in capo alla ricorrente quell'“interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n.
241/1990, anche nel nuovo testo conseguente alle modifiche
operate dalla l n. 15/05 e coerentemente a quanto statuito
dall'art. 2 d.P.R. n. 352/1992 (che richiede un "interesse
personale e concreto"), prevede quale presupposto per la
legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa
domanda.
Sotto tale profilo, infatti, l’interesse giuridico al quale
fa riferimento l’art. 24, la cui tutela determina la
garanzia dell’accesso ai documenti, non può essere
individuato in un qualunque interesse giuridicamente
rilevante vantato da un qualsiasi soggetto dell’ordinamento,
ma deve essere un interesse attinente all’azione
amministrativa in relazione alla quale l’istanza di accesso
è presentata.
Un interesse del tutto eterogeneo rispetto all’oggetto
dell’attività amministrativa posta in essere dall’Autorità,
infatti, non può ritenersi un interesse giuridico ai sensi
dell’art. 24, co. 7, L. 241/1990 in quanto totalmente
estraneo alle finalità, non solo di carattere partecipativo,
ma anche di imparzialità e trasparenza dell’attività
amministrativa, cui sono preordinate le norme sull’accesso
ai documenti dell’amministrazione.
Diversamente opinando, d’altra parte, si perverrebbe alla
paradossale conclusione che ogni Pubblica Amministrazione
potrebbe essere destinataria di richieste di accesso
indiscriminate, per il solo fatto di formare o detenere
stabilmente documenti, anche da parte di soggetti che
perseguono un interesse completamente estraneo agli
interessi, siano essi pubblici o privati, coinvolti
dall’azione amministrativa e, quindi, per fini totalmente
diversi da quelli per i quali l’accesso agli atti è stato
legislativamente previsto.
La stessa definizione di “interessati” di cui
all’art. 22 L. 241/1990, secondo cui interessati sono tutti
i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è richiesto
l’accesso, in coerenza con la complessiva normativa in
materia, va intesa nel senso di interesse collegato
all’attività amministrativa cui inerisce il documento di cui
è chiesta l’ostensione.
In definitiva, in ragione della ratio del corpus
normativo in materia, gli interessi giuridici considerati
dall’art. 24, co. 7, L. 241/1990 devono ritenersi quelli e
solo quelli coinvolti dall’azione amministrativa in
relazione alla quale la richiesta di accesso, ancorché
successivamente alla conclusione del procedimento, sia stata
avanzata (TAR Lazio-Roma, Sez.
I,
sentenza 17.09.2013 n. 8309 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Revoca dell'aggiudicazione per chi non rispetti
la clausola sociale.
Nel caso in cui il bando di gara preveda espressamente
l'obbligo per l'aggiudicataria di assunzione del personale
già dipendente dell'impresa uscente, garantendo le medesime
condizioni giuridico-economiche, è legittimo il
provvedimento con cui la stazione appaltante abbia revocato
in autotutela l'aggiudicazione per il venir meno del
rapporto fiduciario con il contraente, in considerazione del
fatto che l'impresa esecutrice dell'appalto aveva applicato
nei confronti dei suddetti lavoratori condizioni economiche
deteriori rispetto a quelle in godimento alle dipendenze
della precedente ditta.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la
sentenza 10.09.2013 n. 4216,
posto che l’art. 21-quinquies, L. n. 241/1990 non indica
ipotesi tipizzate per l’esercizio del potere di autotutela
che, anzi, trova fondamento negli stessi principi
costituzionali di cui all’art. 97 Cost., ha ravvisato la
legittimità di un provvedimento di revoca di una
aggiudicazione in favore di una società che non ha garantito
ai dipendenti della ditta uscente l’assorbimento in servizio
alle medesime condizioni contrattuali in corso –obbligo
espressamente previsto dal bando: in tale evenienza,
infatti, il provvedimento si giustifica con la grave
compromissione del rapporto fiduciario tra la P.A. e
l’aggiudicataria dovuta al mancato rispetto delle
fondamentali garanzie poste a tutela dei lavoratori.
Analisi del caso
La ricorrente, aggiudicataria del servizio di pulizia di
alcuni locali e impianti di proprietà di un Comune, avendo
iniziato l’esecuzione in via d’urgenza del medesimo
servizio, in assenza della previa stipulazione del
contratto, era stata diffidata dalla civica P.A. ad assumere
tutto il personale della ditta uscente, alle stesse
condizioni già praticate, nel rispetto delle disposizione
del capitolato speciale d’appalto.
In assenza di riscontro positivo alla specifica richiesta
–imposta, in ogni caso, dalla lex specialis di gara–
l’Amministrazione aveva provveduto alla revoca e
annullamento in autotutela dell’aggiudicazione definitiva,
con risoluzione del rapporto in essere, liquidato ogni
compenso per l’attività comunque svolta, e aveva disposto il
conseguente affidamento del servizio in favore dell’impresa
seguente in graduatoria.
L’originaria aggiudicataria ha, così, adito il Collegio di
Napoli per l’annullamento del provvedimento di revoca, per
la declaratoria d’inefficacia del contratto stipulato con
l’attuale ditta esecutrice del servizio e per la condanna
della stazione appaltante al risarcimento del danno,
censurando l’operato della P.A. per la violazione dell’art.
7, L. n. 241/1990, per mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento, per eccesso di potere per travisamento dei
fatti posti a fondamento della revoca, nonché difetto di
istruttorie e motivazione, atteso che tutti i dipendenti
della precedente ditta sarebbero stati assunti e che la
disparità di condizioni rispetto a quelle in godimento non
sarebbe dipesa dalla volontà della stessa aggiudicataria, e
comunque risulterebbe consentita dall’art. 4, lett. b), del
C.C.N.L. del settore, trattandosi di appalto affidato a
condizioni diverse dalle precedenti.
Si è costituito il Comune resistente che ha ribadito come
l’aggiudicataria non avesse rispettato la c.d. “clausola
sociale” in quanto aveva assunto i dipendenti
dell’impresa uscente solo con orario di lavoro a tempo
settimanale ridotto e che, per tale ragione, si era tenuto
un incontro presso la Direzione territoriale del lavoro e
risultava pendente un ricorso, con esito interinale
cautelare favorevole, avverso la medesima aggiudicazione,
poi revocata, presentato dalla concorrente seconda in
graduatoria, esecutrice del servizio: in relazione a
quest’ultima circostanza, la P.A. sollevava eccezione di
inammissibilità del ricorso.
La soluzione
Il giudicante, prima di ogni altra considerazione, ha
disatteso l’eccezione di inammissibilità del gravame
sollevata dalla civica P.A., evidenziando come quel giudizio
si fosse ormai concluso con una decisione in rito di
improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse e che,
in ogni caso, la sola pendenza di un processo impugnatorio
non sarebbe di per sé idonea a scalfire l’interesse
dell’attuale ricorrente a conseguire l’annullamento del
provvedimento di revoca, l’aggiudicazione e il risarcimento
del danno.
Nel merito, il TAR ha confutato il primo motivo di ricorso,
precisando che la partecipazione dell’interessata al
procedimento è stata comunque garantita avendo la ricorrente
partecipato all’incontro presso la locale D.T.L. e
presentato le proprie giustificazioni a seguito del
ricevimento della nota di diffida ad assumere tutto il
personale già dipendente della impresa uscente – nota
prodromica all’adozione della revoca dell’aggiudicazione: ha
fatto, così, applicazione del principio del “raggiungimento
dello scopo” recepito dall’art. 21-octies, L. n.
241/1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02.11.2011, n. 7732).
Con riferimento agli ulteriori due motivi di gravame, poi,
ha osservato come la norma dell’art. 4 del C.C.N.L. relativo
ai servizi di pulizia integrati e multi servizi, non
consentisse affatto la possibilità di derogare all’obbligo
imposto dal capitolato speciale d’appalto di rispettare la
c.d. “clausola sociale”, ma, al contrario, ordinava
la convocazione dell’impresa aggiudicataria al fine di
armonizzare le mutate condizioni dell’appalto con le
esigenze di tutela dei lavoratori: a questo precipuo scopo,
ha confermato il G.A., era stato indetto l’incontro presso
la D.T.L. da cui era, però, emerso l’inadempimento da parte
della ricorrente alle prescrizioni del bando, tale da
giustificare l’esercizio del diritto di autotutela da parte
della P.A..
Al riguardo, ha osservato la Sezione, in materia di appalti
pubblici, anche dopo l’intervento dell’aggiudicazione
definitiva, non è precluso alla stazione appaltante di
revocare l’aggiudicazione stessa, in presenza di un
interesse pubblico, individuato in concreto, qual è, nel
caso di specie, quello della tutela dei lavoratori (Cfr.
Cons. Stato, Sez. III, 11.07.2012, n. 4116), il cui mancato
rispetto ha determinato un giudizio negativo della P.A.
sulla capacità di gestione del servizio e sull’affidabilità
dell’impresa, con il venir meno di quel necessario rapporto
fiduciario, a base della normativa sui contratti pubblici e
che deve esistere e persistere per tutta la durata
dell’appalto.
Il Collegio ha, così, ritenuto idonee le motivazioni addotte
dall’Amministrazione resistente a sostegno del provvedimento
di revoca, rigettando il ricorso, anche nella parte della
domanda risarcitoria.
I precedenti e i possibili impatti
pratico-operativi
In riferimento ad analoghe questioni, la giurisprudenza si è
sempre orientata nel senso di realizzare il principio
costituzionale della “funzione sociale” dell’impresa,
riconoscendo alla clausola sociale nei contratti pubblici la
funzione di preservare il livello occupazionale in atto,
costituendo essa una vera e propria “modalità di esecuzione
del servizio”, non già un requisito di partecipazione
richiesto ai concorrenti (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen.
06.08.2013, n. 19; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 05.12.2011, n.
9570; Trib. Salerno, Sez. I, 05.10.2007).
La decisione segnalata, dunque, si pone in termini di
assoluta continuità con l’indirizzo unanimemente seguito
dalla giurisprudenza e indica alle stazioni appaltanti la “via
maestra” per un adeguato contemperamento degli interessi
imprenditoriali e sociali; ove l’Amministrazione rilevi
situazioni in cui l’esecuzione del servizio in violazione
della clausola sociale -nella ridetta accezione delineata
dall’Adunanza plenaria– potrà sempre adottare le proprie
determinazioni a seguito della valutazione, altamente
discrezionale e sindacabile solo in sede di legittimità per
manifesta illogicità, della persistenza, o meno, dei
requisiti di moralità professionale in capo alla ditta
risultata aggiudicataria (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
30.12.2005, n. 7580), scongiurando, però, ed è questo
l’auspicio, il rischio di rimettere alla P.A. il potere di
scelta del contraente in elusione delle procedure di gara,
facendo leva proprio sulla natura “fiduciaria”,
indefinita, se non per tratti soffusi, del rapporto
d’appalto (tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere parzialmente difformi dal permesso di
costruire: come si calcola la sanzione?
Alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di
costruire si applica una sanzione pecuniaria nel caso in cui
la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità. In caso di abusi su immobili
non aventi destinazione residenziale, la determinazione del
valore venale, ai fini della quantificazione della sanzione
pecuniaria, deve avere ad oggetto l’intero manufatto
interessato dall’abuso e non soltanto la parte dell’opera
realizzata in difformità (come invece per gli immobili
adibiti ad uso residenziale).
Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità
dal permesso di costruire sono soggetti a demolizione, salvo
il caso in cui risulti che la demolizione non può avvenire
senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
In quest’ultima ipotesi si applica una sanzione pecuniaria “pari
al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla
legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata
in difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”
(art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001)
Nel caso in questione è contestata l’entità della sanzione
pecuniaria comminata per la difformità al permesso di
costruire di un capannone industriale.
In particolare, la sanzione sarebbe stata calcolata
computando tutta l’area del capannone e non solo quella
contrastante con lo strumento urbanistico.
Il TAR milanese ha ritenuto legittima la quantificazione
della sanzione indicando che in caso di abusi su immobili
non aventi destinazione residenziale, quale quello in esame,
la determinazione della sanzione pecuniaria deve avvenire
avendo riguardo non soltanto alle parti ritenute abusive ma
alla superficie complessiva dell'edificio dove gli abusi
sono stati realizzati
Ciò in base ad una un'applicazione della disciplina
contenuta nel testo unico dell'edilizia connotata da criteri
di razionalità e, soprattutto, aderente alla ratio
sanzionatoria espressa dalla normativa primaria e regionale.
Dal testo del riportato art. 34, comma 2, del d.P.R. n.
380/2001 si evince che l'elemento su cui si applica la
sanzione e a cui fa riferimento il legislatore non è
limitato al solo segmento spaziale modificato, atteso che la
norma non si riferisce alla modificazione planivolumetrica,
ma si riferisce ai diversi concetti di opere o interventi,
con palese riferimento alle tipologie edilizie previste
nello stesso d.P.R. n. 380/2001 all'art. 3.
È, pertanto, corretto riferire la nozione di parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso ad un
ambito diverso, ossia all'intero manufatto, separatamente
individuabile all'interno dell'intervento dove gli abusi
insistono, e che da questi ultimi è inciso e modificato, e
non al solo incremento dimensionale determinatosi.
La determinazione del valore venale deve quindi avere ad
oggetto l’intero manufatto interessato dall’abuso e non
soltanto la parte dell’opera realizzata in difformità
(com’è, invece, per gli immobili adibiti ad uso
residenziale).
---------------
LA DECISIONE IN SINTESI
Esito
Accoglie il ricorso
Precedenti giurisprudenziali
Cons. di Stato, Sez. IV, Sent. 30.07.2012 n. 4304
Riferimenti normativi
Artt. 3 e 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10
(commento tratto da www.ispoa.it - TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 08.09.2013
n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve ammettersi il
risarcimento dell'interesse pretensivo all'ottenimento di
permesso di costruire la cui lesione sia stata cagionata dal
duplice diniego illegittimamente opposto
dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel
provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia
intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina
paesaggistica dalla quale scaturisca l'impossibilità di
realizzare detto intervento edilizio.
--------------
L'esame della sussistenza del danno da perdita di chance, in
seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo,
interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua
esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’articolazione di argomentazioni logiche
che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente
sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto
secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della
Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non", e
cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può essere
integrata dai dati della comune esperienza, evincibili
dall'osservazione dei fenomeni sociali.
-------------
Il danno subìto in seguito ad illegittimo diniego di
concessione edilizia può essere determinato in via
equitativa sulla scorta della differenza del valore che
l'area di proprietà degli appellanti aveva al momento del
progetto di diniego ed al momento della delibera di
approvazione del nuovo piano regolatore generale.
L'ammontare del risarcimento così stabilito dovrà essere
aumentato della rivalutazione monetaria degli interessi
legali da calcolarsi fino alla data di notifica della
domanda giudiziale.
Sul punto va rilevato che, secondo un costante orientamento
giurisprudenziale, ribadito pur con alcune differenze in una
recente pronuncia del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato
Sez. IV, 18.04.2013, n. 2164), deve ammettersi il
risarcimento dell'interesse pretensivo all'ottenimento di
permesso di costruire la cui lesione sia stata cagionata dal
duplice diniego illegittimamente opposto
dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel
provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia
intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina
paesaggistica dalla quale scaturisca l'impossibilità di
realizzare detto intervento edilizio.
---------------
Al riguardo, vanno
richiamati i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato
(contenuti nella decisione sopra citata) in relazione ai
quali l'esame della sussistenza del danno da perdita di
chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento
illegittimo, interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua
esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’articolazione di argomentazioni logiche
che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente
sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto
secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della
Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non",
e cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può
essere integrata dai dati della comune esperienza,
evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2012, nr. 2974).
---------------
E’ possibile prescindere da detta quantificazione
considerando come l’orientamento prevalente (Cons. Stato
Sez. IV Sent., 24.12.2008, n. 6538) sancisce … “il danno
subito in seguito ad illegittimo diniego di concessione
edilizia può essere determinato in via equitativa sulla
scorta della differenza del valore che l'area di proprietà
degli appellanti aveva al momento del progetto di diniego ed
al momento della delibera di approvazione del nuovo piano
regolatore generale. L'ammontare del risarcimento così
stabilito dovrà essere aumentato della rivalutazione
monetaria degli interessi legali da calcolarsi fino alla
data di notifica della domanda giudiziale”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.08.2013 n. 1073 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Peculato d'uso per chi naviga in Internet dal
computer dell'ufficio.
La rilevanza penale si realizza esclusivamente con la
produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della Pa o
di terzi, o con una seria lesione della funzionalità
dell'ufficio.
Scatta la condanna
per peculato d'uso, a carico del dipendente pubblico che, a
fini privati, navighi sul web dal computer d'ufficio,
procurando, però, un danno economico all'ente.
A precisarlo, è la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
sentenza 08.08.2013 n. 34524. |
APPALTI:
Offerta tecnica oltre le pagine consentite: non può
escludersi il concorrente.
In applicazione dell'ormai positivizzato principio di
tassatività delle cause di esclusione dalle gare a evidenza
pubblica, il TAR di Salerno ha chiarito come deve comunque
ritenersi legittima l'aggiudicazione di una gara d'appalto
in favore di una ditta che abbia presentato la propria
offerta tecnica in un numero di pagine diverso ''superiore''
a quello consentito dal bando.
Analisi del caso
La ricorrente, seconda in graduatoria, ha adito il
competente G.A. per l’annullamento della determinazione
dirigenziale del servizio finanziario di un Comune recante
l’aggiudicazione definitiva di una gara d’appalto per la
fornitura di beni e servizi in favore della
controinteressata e per la declaratoria d’inefficacia del
relativo contratto eventualmente stipulato, chiedendo il
subentro nello stesso.
Pertanto ha eccepito la violazione dell’art 20 del bando di
gara che prevedeva l’automatica esclusione del concorrente,
aggiudicatario che aveva presentato l’offerta tecnica in un
numero di pagine superiore a 100.
Il Tribunale campano, sentite sul punto le parti, ha deciso
la questione in forma semplificata ex art. 60, D.Lgs. n.
104/2010. -
La soluzione
Il Collegio ha evidenziato che la censurata, citata
violazione della legge di gara atteneva alla mancata
osservanza del limite massimo di pagine consentito nella
presentazione dell’offerta tecnica, giacché, nella specie,
unitamente all’offerta tecnica di 98 pagine era presente
nella busta un documento denominato “allegato all’offerta
tecnica” composto di ulteriori 26 pagine, per un totale di
124.
Ha ulteriormente precisato che, ove anche si fosse voluto
considerare che il predetto allegato non concorresse a
formare l’offerta tecnica –così che il limite sarebbe stato
rispettato– vi sarebbe comunque violazione della medesima
disposizione che impone il divieto di inserire nella busta
contenente l’offerta tecnica “altri documenti”.
Il G.A. ha tuttavia rilevato che l’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 dispone che la stazione appaltante
esclude un concorrente soltanto: in caso di mancato
adempimento alle disposizioni del codice e di altre
disposizioni di legge vigenti; nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o la provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o altri elementi essenziali; in
caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la
domanda di partecipazione, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato il principio di
segretezza (cfr. Determinazione A.v.c.p., 10.10.2012,
n. 4).
Ha poi aggiunto che la stessa disposizione di legge vieta
che i bandi e le lettere di invito possano contenere
ulteriori e diverse prescrizioni a pena di esclusione e
sancisce la nullità di tali clausole eventualmente inserite
nelle leggi di gara.
Nel merito, ha sostenuto il giudicante, le violazioni
contestate non potevano portare all’esclusione
dell’aggiudicataria in quanto le stesse non integravano
alcuna delle ipotesi tassative indicate dal citato art. 46,
né poteva farsi riferimento alla causa di esclusione
“speciale” dell’art. 20 del bando, giacché da ritenersi
nulla e, pertanto, inefficace in quanto in contrasto col
principio di tassatività.
Ha infine ulteriormente considerato che, nel caso di specie,
non è configurabile neppure alcuna sostanziale violazione
della par condicio dei concorrenti, atteso che, come ha
evinto dal verbale della seduta pubblica, la Commissione
giudicatrice, ai fini della valutazione dell’offerta, non
aveva preso in considerazione il controverso documento
allegato, ma si era limitata a constatarne la presenza
all’interno della busta, impedendo così che la ricorrente
potesse risultare svantaggiata dal proprio comportamento
conforme alle –sebbene nulle– prescrizioni speciali di
gara.
Per l’effetto, l’adito TAR ha respinto il ricorso perché
infondato e ritenuto legittimo l’operato della P.A. che ha
correttamente disapplicato quelle clausole del bando nulle.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Non constano specifici precedenti in termini, ma la
produzione giurisprudenziale in tema di tipicità e
tassatività delle cause di esclusione è vastissima e varia
(cfr. tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2013, n. 2064; TAR Trentino Alto Adige, Sez. I, 22.05.2013, n. 168).
Particolarmente importante è del resto la considerazione
conclusiva della decisione segnalata per le implicazioni
operative che potrebbe avere in termini di contemperamento
dei concomitanti fondamentali principi che ispirano la
materia delle procedure competitive di scelta del
contraente: appare necessario, infatti, tenere in
considerazione non soltanto il rispetto formale della
tassatività, ma anche la sostanziale tutela dell’affidamento
dei concorrenti che si trovino di fronte a clausole del
bando ambigue, dal cui rispetto/violazione, o
applicazione/disapplicazione, possano trarre
vantaggi/svantaggi che rischiano di alterare
l’imprescindibile condizione di parità di trattamento che
deve essere sempre garantita tra tutti i partecipanti alle
gare (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Salerno,
Sez. I,
sentenza 22.07.2013
n. 1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Acquisizione sanante di un immobile per pubblico
interesse: chi deve decidere?
Il provvedimento con cui l’Ente locale ha disposto
l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di un
bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, importando
l’acquisto della proprietà immobiliare che richiede una
formale e specifica espressione di volontà, deve essere
adottato necessariamente dal Consiglio comunale.
Il TAR Lecce ha stabilito che il dirigente comunale è
incompetente ad adottare un provvedimento di acquisizione
sanante di un bene immobile occupato d’urgenza dalla P.A.,
in assenza del relativo decreto di esproprio e che al
proprietario del bene illegittimamente acquisito al
patrimonio dell’Ente deve essere riconosciuto il diritto al
risarcimento del danno subito.
Analisi del caso
Il proprietario di un terreno ha subìto il provvedimento di
occupazione d’urgenza, per la durata quinquennale dalla data
di immissione in possesso, relativamente a una porzione del
medesimo terreno, per l’esecuzione di lavori di
riqualificazione del sistema viario e dei parcheggi
circostanti al centro abitato; l’Amministrazione ha preso
possesso dell’immobile oggetto di occupazione, ma non ha mai
provveduto a emettere il decreto di esproprio.
A distanza di molti anni dalla scadenza del termine
dell’occupazione d’urgenza (5 anni), il proprietario ha
chiesto al competente G.A. la restituzione del terreno
oppure il risarcimento del danno. Nelle more, un dirigente
del Comune ha disposto l’acquisizione del bene in questione;
avverso tale atto, con motivi aggiunti, il ricorrente ha
dedotto l’incompetenza dell’organo che ha adottato il
provvedimento e la violazione e falsa applicazione degli
artt. 42, 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Con controricorso, la civica P.A. ha rilevato che il
progetto di opera pubblica in ragione di cui era stata
disposta l’occupazione d’urgenza era stato approvato
dall’organo consiliare e che, pertanto, il provvedimento
dovesse considerarsi in mera attuazione di
quell’approvazione.
La soluzione
Il Tribunale amministrativo ha ricordato che l’art. 42,
comma 2, lett. l), D.Lgs. n. 267/2000 stabilisce
testualmente che rientrano nella competenza del Consiglio
gli “… acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute,
appalti e concessioni che non siano previsti espressamente
in atti fondamentali del Consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione…”: tra questi, ha desunto,
rientra sicuramente anche l’acquisto mediante l’istituto
della c.d. “acquisizione sanante” (Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante, infatti, per i profili di
discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dalla
competenza dell’ufficio per le espropriazioni e rientra
nelle attribuzioni del Consiglio comunale (Cons. Stato, Sez.
III, 31.08.2010, n. 775).
Né poteva ritenersi, ha proseguito l’adito Collegio, che il
dirigente avesse dato mera attuazione alla volontà comunale
come espressa in precedenti provvedimenti deliberativi –in
particolare quello di inizio della procedura espropriativa–
stante la particolare natura di tale acquisizione (Cons.
Stato n. 775/2010 cit.); parimenti non ha condiviso che tale
atto potesse qualificarsi come previsto in atti
fondamentali, ricordando la forte caratterizzazione
discrezionale dell’acquisizione.
Il giudicante ha così escluso, richiamando anche la
giurisprudenza comunitaria, che la mera trasformazione del
suolo con la realizzazione di un’opera pubblica costituisca
circostanza idonea a trasferire la proprietà del bene, in
assenza di un regolare provvedimento espropriativo; il
comportamento della P.A., dunque, costituisce un illecito
“permanente” al quale deve conseguire l’obbligo di far
cessare la indebita compromissione del diritto di proprietà
del privato mediante la restituzione o il risarcimento del
danno.
Con riferimento al risarcimento del danno, il T.A.R.
pugliese ha precisato che esso opera in relazione
all’illegittima occupazione a far data dalla scadenza del
termine quinquennale dall’immissione in possesso d’urgenza e
sino alla regolarizzazione, ossia la restituzione, il
perfezionamento di un valido atto di acquisto della
proprietà (anche l’usucapione, cfr. TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 19.06.2013, n. 1423), ovvero il ricorso, in
via postuma allo strumento acquisitivo di cui all’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
Avuto riguardo a tale contesto temporale, il G.A. salentino
ha condannato il Comune al pagamento in favore del
ricorrente di una somma quantificata nel 5% annuo sul valore
del bene illegittimamente occupato, oltre interessi legali,
da calcolarsi sulla somma annualmente rivalutata, ai sensi
del citato art. 42-bis, comma 3, D.P.R. n. 327/2001.
I precedenti e i possibili impatti
pratico-operativi
Sono molteplici i precedenti giurisprudenziali in materia.
Su tutti, e tra i più recenti, particolarmente connotanti
risultano Cons. Stato, Sez. IV, 08.05.2013, n. 2481 e la
pronuncia del TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.05.2013, n.
684 che ha qualificato il comportamento dell’Amministrazione
come un vero e proprio illecito “permanente” con conseguente
imprescrittibilità dell’azione per l’illegittimo
impossessamento (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.04.2013, n. 1199 e anche lo stesso TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 19.06.2013, n. 1423 cit.) e l’obbligo per il
Giudice di rivalutare le somme da liquidare, in quanto
derivanti da debito di valore.
L’impatto pratico della decisione sembra nel senso di
obbligare la P.A. comunale ad agire con maggior rigore nelle
procedure ablatorie, rispettandone i termini e il riparto di
competenza, senza abusare degli strumenti sananti
(re)introdotti nell’ordinamento: è di tutta evidenza,
invero, che l’intento del legislatore del 2011, che ha
concepito l’art. 42-bis, D.P.R. n. 327/2001, non era quello
di far rivivere l’istituto dichiarato costituzionalmente
illegittimo di cui all’abrogato art. 43 del decreto citato,
ma quello di regolare i possibili contrasti tra l’interesse
privato del proprietario e quello pubblico di cui è
portatrice la P.A., nel senso di contemperare il miglior
esercizio del potere pubblico col minimo sacrificio del
soggetto privato (tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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