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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2013

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aggiornamento al 28.10.2013

aggiornamento al 22.10.2013

aggiornamento al 15.10.2013

aggiornamento all'11.10.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.10.2013

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UTILITA'

SICUREZZA LAVOROTesto Unico sulla Sicurezza. Ecco l’edizione aggiornata ad ottobre 2013.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in vigore dal 15.05.2008 (D.Lgs. 81/2008), nel corso del tempo ha subito diverse modifiche ed integrazioni.
In allegato a questo articolo proponiamo la versione aggiornata ad ottobre 2013 pubblicata sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Il testo, corredato da allegati, note, commenti e da un’ampia appendice normativa, è coordinato con le più recenti disposizioni integrative e correttive.
Le novità nella versione di ottobre sono:
Legge 119/2013 di conversione al Decreto Legislativo 93/2008 con modifiche agli artt. 8, comma 4, 71, comma 13-bis e 73, comma 5-bis;
Legge 98/2013 di conversione al Decreto 69/2013 con modifiche agli artt. 3, 6, 26, 27, 29, 31, 32, 37, 67, 73, 71, 88, 104-bis, 225, 240, 250 e 277;
Legge 99/2013 di conversione al Decreto 76/2013 con l’aggiornamento degli importi delle sanzioni;
Circolari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n.: 18, 21, 28, 30, 31 e 35;
Circolari del Ministero della Salute del 10.05.2013 e del 10.06.2013;
Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero della Salute del 30.05.2013 riguardante l’elenco delle aziende autorizzate ad effettuare lavori sotto tensione su impianti elettrici alimentati a frequenza industriale a tensione superiore a 1000V (ai sensi del punto 3.4 dell’allegato I al D.M. 04/02/2011);
Decreto Dirigenziale del 31.07.2013 riguardante il sesto elenco dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle verifiche periodiche di cui all’art. 71, comma 11 (24.10.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDetrazioni fiscali del 65%, del 50% e bonus mobili. Cosa accade con la Legge di Stabilità?
Da poco varato dal Governo il disegno di legge per la stabilità 2014 (V. art. Arriva la legge di stabilità! Tante novità per imprese, professionisti e cittadini…).
Tra i provvedimenti previsti dalla bozza vi è la proroga di tutti i bonus fiscali previsti attualmente per interventi sulla casa, per dare maggior respiro al settore dell’edilizia.
In particolare, il testo prevede di prorogare le agevolazioni fiscali nel seguente modo: ... (24.10.2013 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Tutta la documentazione per la gestione delle terre e rocce da scavo.
L’Ance mette a disposizione una prima documentazione, che sarà via via aggiornata, relativa alla gestione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti che è stata oggetto, nell’ultimo anno, di una serie di importanti modifiche iniziate nell’agosto del 2012 con la pubblicazione del D.M. 161 e che si sono al momento concluse con l’entrata in vigore, il 21 agosto scorso, dell’art. 41-bis del decreto legge n. 69 convertito nella legge n. 98 del 2013.
Nel frattempo sono in corso di emanazione, a livello regionale, alcuni provvedimenti di natura applicativa relativamente alle procedure indicate nell’articolo 41-bis.
Tralasciando la situazione di incertezza normativa ed interpretativa verificatasi tra il mese di giugno e in parte di agosto del 2013, la gestione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti anziché come rifiuti è riconducibile a due linee e cioè:
• Opere soggette a Valutazione di Impatto Ambientale – VIA e attività soggette a Autorizzazione Integrata Ambientale – AIA --> soggette al D.M.161/2012
• Altre opere/cantieri --> soggette all’art. 41-bis D.L. 69/2013 – L. 98/2013 (21.10.2013 - link a www.ance.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 25.10.2013 n. 251 "Determinazione dei contenuti e delle modalità delle attestazioni dei Comuni comprovanti il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione associata delle funzioni" (Ministero dell'Interno, decreto 11.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 25.10.2013 n. 251 "Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111" (D.P.R. 04.09.2013 n. 122).

APPALTI: G.U. 22.10.2013 n. 196 "Testo del decreto-legge 28.06.2013, n. 76, coordinato con la legge di conversione 09.08.2013, n. 99, recante: «Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti»".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Mantegazza, Modificazioni al Testo Unico in materia Edilizia (D.P.R. 380/2001) - D.L. 21.06.2013 n. 69 convertito in Legge 09.08.2013 n. 98 – Art. 30 (settembre 2013).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, LA DISCIPLINA URBANISTICA VALE ANCHE PER LE CASE MOBILI - LE CASE MOBILI, I TITOLI ABILITATIVI EDILIZI E LE PREVISIONI URBANISTICHE (AL n. 492/2012).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Disegno di legge di stabilità 2014 - Taglio dei compensi all'avvocatura e l'interpretazione sulle festività (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL. - Festività infrasettimanali, lavoro in turni, riduzione dell'orario di lavoro (CGIL-FP di Bergamo, nota 09.10.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Preavvisi di accertamento delle violazioni alle norme sulla sosta dei veicoli. Pagamento in misura ridotta, con ulteriore riduzione del 30 per cento (articolo 202, comma 1, secondo periodo del C.d.S.) - Analisi sintetica delle criticità. Quesito (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, nota 07.10.2013 n. 300/A/7552/13/127/1 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: OGGETTO: Legge 07.08.1990, n. 241, art. 14 - Comuni di ROVIGO, VILLANOVA DEL GHEBBO, LENDINARA e BADIA POLESINE - Lavori urgenti di sostituzione delle alberature stradali lungo la SR 88 "Rodigina" dal km 0+000 al km 30+452 in tratti saltuari - Richiedente: Veneto Strade Spa - Conferenza di servizi del 02.07.2013 - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 24.10.2013 n. 18384 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Verifica dell'interesse culturale di cui all'art. 12, comma 1, del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Cose immobili e mobili, opere di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a più di settanta anni, trasferite a società di diritto privato con scopo di lucro a seguito di processi di privatizzazione verificatesi prima dell'entrata in vigore dell'art. 12 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 06.09.2011 n. 57/2011).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Elaborato denominato "Fotovoltaico. Prontuario per la valutazione del suo inserimento nel paesaggio e nei contesti architettonici" (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 08.08.2011 n. 54/2011).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Art. 146, comma 7 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 04.05.2011 n. 34/2011).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CASTELNUOVO DEL GARDA (Verona) - Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Taglio di alberi di alto fusto per installazione di linea elettrica in area tutelata ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. c), del medesimo decreto - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 14.03.2011 n. 4533 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Competenze professionali - Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 06.12.2010, n. 5540 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 10.01.2011 n. 1/2011).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 09.12.2010 n. 42/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.P.R. 09.07.2010, n. 139, "Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione per gli interventi di lieve entità, a norma dell'art. 146, comma 9, del decreto n. 42, e successive modificazioni" (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 09.11.2010 n. 38/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni in materia edilizia - Conservazione di manufatti abusivi realizzati in aree sottoposte alla tutela paesaggistica di cui alla parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 09.11.2010 n. 37/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - Zone di interesse archeologico di cui all'art. 142, comma 1, lettera m) (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 28.10.2010 n. 35/2010).

PATRIMONIO: Oggetto: PIANIGA (Venezia) - Villa Calzavara Pinton - Contratto di leasing - QUESITO (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 13.10.2010 n. 32/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 - art. 56 - Alienazione di beni culturali effettuata in assenza di autorizzazione - Ammissibilità dell'autorizzazione ex post (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 06.10.2010 n. 31/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Facoltà di richiedere chiarimenti e l'integrazione della documentazione in sede di rilascio del parere vincolante sulla compatibilità paesaggistica (MIBAC, Ufficio Legislativo nota 13.09.2010 n. 16725 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni in materia edilizia - Conservazione di manufatti abusivi realizzati in aree sottoposte alla tutela paesaggistica di cui alla parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 30.06.2010 n. 21/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Atti di alienazione non denunciati tempestivamente ai fini dell'esercizio del diritto di prelazione - D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, articoli 60 e seguenti - PADOVA - Complesso denominato "Immobile in Via San Prosdocimo, 8" - D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 59 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 04.08.2009 n. 9/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 - art. 21 (interventi soggetti ad autorizzazione) e art. 45 (prescrizioni di tutela indiretta (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 19.11.2008 n. 1/2008).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Verifica dell'interesse culturale - D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 12 - Motivazione ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. d) (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 22.10.2008 n. 2/2008).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.P.R. 06.06.201 n. 380, articoli 33 e 37. DIRETTIVA (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, direttiva 21.07.2008 n. 9089 di prot.).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Art. 110 d.lgs. 267/2000.
Il Ministero dell'Interno ha chiarito che, nei confronti dei contratti stipulati ex art. 110 del TUEL, non trovano applicazione le disposizioni di cui al d.lgs. 368/2001, trattandosi di norma speciale che deroga alla disciplina generale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche relative a contratti di alta specializzazione stipulati ai sensi dell'art. 110 del d.lgs. 267 del 2000. In particolare, l'Ente si è posto la questione, relativamente alla durata dei medesimi e ai vincoli di proroga, se sia da ritenersi prevalente il disposto dell'art. 110 citato (norma speciale) rispetto alle previsioni generali contenute nel d.lgs. 368/2001 (artt. 4 e 5
[1]).
Si osserva che sull'argomento in esame ha già avuto modo di esprimersi Il Ministero dell'Interno
[2].
Al riguardo si è precisato che la disciplina sugli incarichi a contratto stipulati ai sensi dell'art. 110, commi 1 e 2, del d.lgs. 267/2000, è contenuta esclusivamente nel medesimo articolo, che dispone puntualmente i presupposti per la sua applicazione, ovvero: la sussistenza di una specifica previsione statutaria o regolamentare[3], le modalità di conferimento degli incarichi stessi, i requisiti necessari, la loro durata e il relativo trattamento economico, nonché le cause di risoluzione del rapporto medesimo.
Conseguentemente, il citato Ministero ha ribadito che la disciplina di cui all'art. 110 del TUEL deve ritenersi quale normativa speciale, che deroga a quella più generale contenuta nel d.lgs. 368/2001, che regolamenta i rapporti di lavoro a tempo determinato.
Si consideri, ad esempio, che il comma 3 del medesimo articolo 110 stabilisce che la durata massima di detti contratti sia collegata a quella del mandato elettivo del sindaco, configurandoli quindi come incarichi di tipo fiduciario, e il successivo comma 4 prevede, quale ulteriore causa di risoluzione di diritto, la dichiarazione di dissesto da parte dell'ente o il fatto che lo stesso si trovi in situazione strutturalmente deficitaria.
In conclusione, si è evidenziato come, per le considerazioni su esposte, non possano applicarsi, nei confronti dei contratti di cui si discute, i termini di interruzione e i limiti alle proroghe fissati dalla disciplina che regolamenta in generale i contratti di lavoro a tempo determinato, nello specifico dal d.lgs. 368/2001.
---------------
[1] Dette norme prevedono una durata massima di 36 mesi.
[2] Cfr. parere del 23.09.2009, consultabile sul sito: http://incomune.interno.it/pareri.
[3] A seconda che si tratti di incarichi sottoscritti ai sensi del comma 1, per la copertura di posti in dotazione organica, o ai sensi del comma 2, extra dotazione
(23.10.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

ACQUISTO FORNITURE: Acquisto arredi urbani alla luce della normativa vigente.
La disposizione di cui all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, sancente limiti di spesa, negli anni 2013 e 2014, per l'acquisto di mobili e arredi, non sembra da ritenersi riferibile, secondo la Ragioneria Generale dello Stato, al cosiddetto arredo urbano, nel presupposto che tale arredo sia destinato esclusivamente a strade pubbliche.
Ciò, ad avviso dell'Ufficio ministeriale, in quanto, in ragione di un'interpretazione logica, il limite di spesa si ritiene rivolto esclusivamente agli immobili intesi come 'unità immobiliari', giusta la definizione contenuta nell'art. 2 del decreto del Ministero delle Finanze 02.01.1998, n. 28, 'Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di produzione ed adeguamento della nuova cartografia catastale', e cioè, sostanzialmente, porzioni di fabbricato, fabbricati, un insieme di fabbricati o aree, che presentano potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.

Il Comune chiede di sapere se la disposizione di cui all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012
[1] (Legge di stabilità 2013) sancente limiti di spesa, negli anni 2013 e 2014, per l'acquisto di mobili e arredi, si applichi anche alle forniture del così detto 'arredo urbano'. L'Ente specifica come, in genere, trattasi di attrezzature (panchine, cestini, paletti dissuasori di traffico, etc.).
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Il comma 141 dell'art. 1 della legge di stabilità 2013, come da ultimo novellata dall'art. 18, comma 8-septies, D.L. n. 69/2013
[2], convertito con modificazioni dalla L. n. 98/2013 [3], stabilisce che 'ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, [ ... ] non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori di conti verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma. [...]".
Si osserva che il tenore letterale della norma, come da ultimo novellata, esclude espressamente dalla limitazione di acquisto i mobili e gli arredi destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia; viene, inoltre, indicata come eccezione alla misura di contenimento della spesa pubblica ivi prevista l'ipotesi in cui gli acquisti siano funzionali alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Premesso che, trattandosi di una norma statale, l'individuazione specifica del significato della locuzione 'mobili e arredi' può provenire unicamente dai competenti organi statali, in via collaborativa, al fine di definire quali siano i beni interessati dalla misura finanziaria, si è ritenuto di contattare, per le vie brevi, la Ragioneria Generale dello Stato, Ispettorato Generale di Finanza.
Detto Ufficio, premesso che il comma 141 in argomento si presenta di non semplice applicazione, ha affermato in primo luogo che per la puntuale identificazione dei mobili e degli arredi da sottoporre al limite di spesa di cui al comma 141, si può fare utile riferimento al CPV (vocabolario comune per gli acquisti)
[4], predisposto dalla Commissione europea con la finalità di standardizzare, avvalendosi di un unico sistema di classificazione per gli appalti pubblici, la descrizione dell'oggetto dei contratti.
La Ragioneria Generale ha ritenuto, pur tuttavia, opportuno evidenziare che non esiste un legame inscindibile tra l'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, e il CPV. Infatti, nell'ambito del CPV, i beni sono identificati -attraverso un codice- con un livello di dettaglio molto elevato, per cui si rende necessaria, ogni volta che ricorra un acquisto, un'analisi approfondita dei codici e quindi dei corrispondenti beni cui applicare o meno il limite introdotto dalla legge.
Secondo l'Ufficio ministeriale, nel caso di specie, il limite disposto dal comma 141 non sembra da ritenersi riferibile al cosiddetto arredo urbano (panchine, cestini, paletti dissuasori di traffico), nel presupposto che tale arredo sia destinato esclusivamente a strade pubbliche, ciò in quanto, in ragione di un'interpretazione logica, il limite di spesa si ritiene rivolto esclusivamente agli immobili intesi come 'unità immobiliari', giusta la definizione contenuta nell'art. 2 del decreto del Ministero delle Finanze 02.01.1998, n. 28, 'Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di produzione ed adeguamento della nuova cartografia catastale', e cioè, sostanzialmente, porzioni di fabbricato, fabbricati, un insieme di fabbricati o aree, che presentano potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
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[1] L. 24.12.2012, n. 228, recante: 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)'.
[2] D.L. 21.06.2013, n. 69, recante: 'Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia'.
[3] L. 09.08.2013, n. 98, recante 'Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia (la legge è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.).
[4] Trattasi del CPV, sistema di classificazione unico per gli apparati pubblici volto a unificare i riferimenti utilizzati dalle amministrazioni e dagli enti appaltanti per la descrizione dell'oggetto degli appalti
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COMPETENZE GESTIONALI: Personale degli enti locali. Competenze degli organi politici e burocratici.
L'art. 107, comma 4, del d.lgs. 267/2000, prevede che, in osservanza al principio di separazione dei poteri, le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al principio di separazione dei poteri (competenza degli organi politici e burocratici dell'Ente), in relazione all'attuale formulazione di una norma statutaria che attribuisce al Sindaco la competenza ad adottare le ordinanze ordinarie, al rilascio delle autorizzazioni commerciali, nonché delle autorizzazioni e delle concessioni edilizie. In particolare l'Amministrazione, alla luce della legislazione vigente (anche regionale), si è posta la questione relativa alla necessità o meno di apportare le eventuali modifiche statutarie affinché i predetti atti siano firmati dai funzionari titolari di posizione organizzativa e non più dal Sindaco.
Preliminarmente si evidenzia in linea generale che le norme statutarie e regolamentari di organizzazione adottate dagli enti locali per definire competenze e ruoli dei singoli soggetti che operano all'interno delle medesime amministrazioni devono risultare in armonia con i principi dettati dall'ordinamento vigente, sia in materia di organizzazione, che con riferimento ai profili delle rispettive competenze.
Ai sensi dell'art. 107, commi 1-3, del d.lgs. 267/2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti.
In particolare, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale. Ai dirigenti sono quindi attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dagli organi politici.
Premesso un tanto, si osserva che la giurisprudenza amministrativa
[1] ha rimarcato che l'art. 107, comma 4, del d.lgs. 267/2000, ha previsto che le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. Inoltre, il comma 5 del citato articolo stabilisce che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi politici l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54 del TUEL.
Il richiamato principio, circa il riparto tra compiti di governo, di indirizzo e di controllo, spettanti agli organi politici elettivi, e compiti di gestione spettanti ai dirigenti, costituisce 'struttura fondante dell'intera riforma delle autonomie locali'
[2], di per sé immediatamente applicabile, senza la necessità dell'interposizione di fonti secondarie (statuto o regolamenti), cui spetta soltanto la determinazione delle modalità di esercizio della competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare impedimenti e soluzioni di continuità [3].
Si rinvia inoltre a quanto disposto dall'art. 42, comma 3, del CCRL del 07.12.2006, a mente del quale la titolarità di posizione organizzativa comporta automaticamente il conferimento delle responsabilità di cui all'art. 107 del d.lgs. 267/2000, ovvero l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalle leggi e dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente, o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale.
Per quanto concerne la norma statutaria dell'Ente che attribuisce al Sindaco la competenza ad emanare 'le ordinanze ordinarie' in generale, si osserva che tale tipologia di atti è adottata dai dirigenti/titolari di posizione organizzativa, trattandosi di atti di gestione dell'attività comunale, ai sensi dell'art. 107, comma 3
[4], del TUEL.
Invece le ordinanze contingibili ed urgenti, ai sensi dell'art. 54 del TUEL, sono attribuite al potere esclusivo del Sindaco, quale ufficiale di governo, che deve adottare con atto motivato, provvedimenti contingibili ed urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini
[5].
Con riferimento poi alla problematica inerente al rilascio di autorizzazioni e concessioni edilizie, si rappresenta che l'art. 22, comma 1, della l.r. 19/2009 stabilisce che il permesso di costruire è rilasciato dal Sindaco o dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale, in relazione alle competenze individuate dallo statuto comunale. Per tale fattispecie, quindi, necessita, a differenza di quanto avviene per le restanti competenze attribuite ex lege ai titolari di posizione organizzativa
[6], l'intervento di una espressa modifica statutaria che definisca espressamente il soggetto competente, in applicazione della richiamata disposizione regionale.
Si evidenzia, infatti, che, per quanto riguarda l'attribuzione della competenza al rilascio dei permessi di costruire, nella Regione Friuli Venezia Giulia il principio di separazione delle funzioni risulta derogato dalla legge. Il legislatore regionale, nell'esercizio della potestà esclusiva riconosciuta alla Regione dall'art. 4 dello Statuto di autonomia, sia in materia di urbanistica che di ordinamento degli enti locali, ha approvato una norma che si discosta dal principio di necessaria separazione fra indirizzo politico ed amministrazione.
Tale principio non risulta invece derogato in relazione all'adozione di altri provvedimenti in materia urbanistico-edilizia.
Infatti l'art. 28, comma 3, della citata l.r. 19/2009, prevede che il responsabile del procedimento
[7] rilascia il certificato di agibilità, verificata la documentazione da produrre.
L'art. 42 della medesima legge attribuisce poi espressamente al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (da intendersi quale titolare di posizione organizzativa) la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia e l'adozione di conseguenti misure sanzionatorie.
Non sono previste deroghe al principio generale di separazione delle funzioni nemmeno in relazione alle autorizzazioni paesaggistiche, il cui rilascio compete pertanto ai titolari di posizione organizzativa.
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[1] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 4778 del 2013.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 5833 del 2001.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 7632 del 2003.
[4] Il comma 3 include una elencazione non tassativa, ma meramente esemplificativa, delle competenze dirigenziali.
[5] Cfr. TAR Napoli, sez. V, sentenza n. 276 del 2007. Si consideri inoltre che la Corte costituzionale, con sentenza n. 115/2011, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 54, comma 4, del TUEL, nella parte in cui comprende la locuzione 'anche', prima delle parole 'contingibili e urgenti'.
[6] Per quanto concerne le autorizzazioni disciplinate da leggi regionali nei settori del commercio e del turismo, l'art. 104 della l.r. 13/1998 dispone l'applicazione dell'art. 51, commi 3 e 3-bis, della l. 142/1990 (ora art. 107 del d.lgs. 267/2000, competenza dei dirigenti o figure assimilate).
[7] Si precisa al riguardo che, trattandosi di atto con contenuto espressivo di volontà con effetti esterni, può essere firmato solo dal soggetto titolare di incarico che lo abilita ad adottare atti con le caratteristiche evidenziate (titolare di posizione organizzativa)
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PATRIMONIO: Divieto di transito per veicoli a motore su strade in aree collinari e boschive.
Tra le strade non appartenenti al demanio pubblico, rimangono estranee alla disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato, le c.d. vie agrarie (chiamate anche 'vicinali private').
Sono, di conseguenza, assai circoscritte le possibilità offerte dalla legge alle amministrazioni locali per limitare la circolazione su dette strade onde impedire danneggiamenti all'ambiente circostante, mentre dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo diritto si riferisce.

Il Comune riferisce che, in un'area collinare e boschiva, sita nell'ambito del proprio territorio, sussistono diverse strade che attraversano proprietà private. Tra di esse vi è una strada che pare essere stata realizzata diverso tempo fa dall'Esercito. Quest'ultimo, interpellato riguardo alla stessa, sembra abbia dichiarato informalmente il proprio disinteresse senza però produrre un ufficiale atto di dismissione.
Poiché tali strade, che non sono pubbliche o ad uso pubblico, vengono spesso percorse da motoveicoli fuoristrada, che si spingono anche al di fuori dei sentieri tracciati, inoltrandosi nei boschi e scavando profondi solchi nell'ambiente circostante, l'Ente chiede di sapere in che modo possa legittimamente interdire la circolazione ai veicoli a motore, con l'eccezione dei mezzi agricoli appartenenti ai proprietari del fondo, anche se i terreni in argomento non costituiscono aree soggette a vincolo idrogeologico di cui alla legge regionale 23.04.2007, n. 9 (Norme in materia di risorse forestali)
[1].
In via preliminare, il Comune dovrebbe verificare se la strada menzionata appartenga tuttora all'Esercito ovvero se vi sia stata una sdemanializzazione, anche tacita, della stessa
[2].
In caso di appartenenza della via al demanio militare, spetterebbe, infatti, all'ente proprietario della stessa la predisposizione di eventuali misure idonee a contrastare abusi e fenomeni di degrado come quelli segnalati dal Comune
[3].
Le strade che non risultano essere militari e neppure statali, provinciali o comunali e che, quindi, non appartengono al demanio pubblico, sono, secondo una normativa piuttosto risalente, ripresa dalla giurisprudenza e dalla dottrina, le strade vicinali
[4] e le strade agrarie (quest'ultime chiamate anche vicinali private) [5].
Le vie vicinali sono strade private o pubbliche, non iscritte nei registri delle pubbliche vie, che sono idonee al pubblico transito ed assoggettate al medesimo regime giuridico delle strade pubbliche. Titolare del diritto d'uso delle vie vicinali è il comune, ma chi lo esercita è la collettività considerata come complesso di persone
[6].
Le vie agrarie sono strade private costituite dai passaggi interpoderali che sono in comunione incidentale tra i proprietari dei fondi latistanti i quali si servono, iure domini, di quei percorsi per l'accesso e l'utilizzo dei terreni. Su tali vie i proprietari partecipanti alla comunione vantano un diritto d'uso riservato ed esclusivo
[7].
Si osserva, quindi, che mentre le vie vicinali sono di interesse amministrativo, rimangono, invece, estranee alla disciplina pubblicistica, venendo regolate da norme di diritto privato (in particolare da quelle relative alla comunione), le vie agrarie
[8].
Sembrano, perciò, essere assai circoscritte le possibilità offerte dalla legge al Comune instante per limitare la circolazione sulle strade interpoderali de quibus le quali, inoltre, non possono nemmeno godere della protezione fornita con la L.R. 9/2007 non ricadendo all'interno di territori sottoposti a vincolo idrogeologico per i quali sono previste apposite disposizioni riguardanti la circolazione fuori strada
[9].
A dimostrazione di un tanto, si riscontra che unicamente nelle vie vicinali si applicano le disposizioni del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) in quanto solo esse rientrano nella definizione fornita dall'art. 2 di questa normativa che definisce come "strada" l'area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali. In particolare, ai sensi dell'art. 3, comma 1, n. 52, del Nuovo codice della strada, è definita strada vicinale la 'strada privata fuori dai centri abitati ad uso pubblico'. Inoltre, ai sensi dell'art. 2, comma 6, del decreto, le strade vicinali sono assimilate alle strade comunali.
Per questa ragione, per le strade private non soggette ad uso pubblico, è esclusa la possibilità per il sindaco del comune competente, prevista in relazione alle strade vicinali, di emettere le ordinanze, di cui agli artt. 5, comma 3 e 6, comma 4, del Nuovo codice della strada, grazie alle quali l'ente proprietario può stabilire anche obblighi, divieti e limitazioni di carattere temporaneo o permanente, anche per determinate categorie di veicoli, in relazione alle esigenze della circolazione o alle caratteristiche strutturali delle strade.
Diversa è anche la disciplina per i due tipi di strade che deriva dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446 (Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse)
[10].
L'art. 15 di tale decreto ha affidato al sindaco compiti di vigilanza e polizia su tutte le strade vicinali, ma tali poteri, che sembrano comunque esulare dagli aspetti di regolamentazione del traffico
[11], possono essere autonomamente esercitati solamente nell'ipotesi in cui le vie vicinali siano gravate da pubblico transito, mentre, nel caso di strade private non soggette ad uso pubblico, il sindaco può attivarsi solamente a seguito di un'istanza dei consorzi eventualmente costituiti fra gli utenti [12].
Al contrario, poiché le strade in argomento risultano essere di proprietà privata e non soggette ad uso pubblico, dovrebbe essere nell'interesse dei proprietari dei fondi interessati intervenire, utilizzando gli strumenti forniti dal diritto privato e dal diritto penale, a tutela del proprio diritto di proprietà e dell'integrità dei terreni ai quali questo diritto si riferisce
[13].
Un intervento da parte di un comune su strade private, non interessate dalla pubblica circolazione, potrebbe quindi giustificarsi solamente qualora sorgessero importanti esigenze di carattere pubblico.
Tale è evidentemente l'ipotesi in cui si integrino i presupposti, nel caso de quo difficilmente riscontrabili, per l'emissione delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 che richiedono la sussistenza di gravi ed imminenti pericoli per la pubblica incolumità e la sicurezza urbana
[14]. Tali provvedimenti rimangono comunque limitati nel tempo, essendo per loro natura provvisori e sono soggetti a particolare cautela nella loro applicazione nel caso riguardino beni di proprietà privata [15].
In relazione, infine, alla possibilità, fatta propria da alcune amministrazioni comunali, di prevedere, all'interno dei propri regolamenti di polizia rurale
[16], disposizioni che pongono il divieto di ingresso nei fondi altrui, si rileva che risulta abrogato ormai da anni l'art. 110 del Regio decreto 12.02.1911, n. 297 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge comunale e provinciale) [17].
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[1] Tale normativa ha abrogato la legge regionale 15.04.1991, n. 15 (Disciplina dell'accesso dei veicoli a motore nelle zone soggette a vincolo idrogeologico o ambientale. Modifica della legge regionale 22.01.1991, n. 3).
[2] La sdemanializzazione può avvenire grazie ad un provvedimento di declassificazione, assunto ai sensi dell'art. 3, comma 6, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495, oppure in forma tacita, come precisato dalla Corte di cassazione: 'La sdemanializzazione di una strada può anche verificarsi senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge in materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci, concludenti e positivi della Pubblica Amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico. Né il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario possono essere invocati come elementi indiziari dell'intenzione di far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova è pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la Pubblica Amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo' (Cassazione civile, Sez. II, 30.08.2004, n. 17387).
[3] Ai sensi dell'art. 5, comma 3, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), 'I provvedimenti per la regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti segnali'.
[4] L'art. 3, comma 1, n. 52, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) reca la definizione della sola strada vicinale come 'strada privata fuori dei centri abitati ad uso pubblico'.
[5] La distinzione tra i due tipi di strade vicinali deriva dal diritto romano ed è stata ripresa dal decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446. V. 'Il regime giuridico delle strade provinciali, comunali, vicinali e private', Pietro La Rocca, 2006, Maggioli Editore, pagg. 209-290.
[6] Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, affinché una strada possa rientrare nella categoria delle strade vicinali pubbliche, devono sussistere: il requisito del passaggio esercitato iuris servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un gruppo territoriale; la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di interesse generale; un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile (Cfr. Cass. civ., sez. II, 12.07.1991, n. 7718; TAR Sardegna, 21.12.2000, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831).
[7] 'Le vie vicinali agrarie formate "ex collazione privatorum agrorum" traggono la loro origine da situazioni oggettive di diversa natura, le quali possono essere determinate dalla volontà coincidente, anche se non concorde, di tutte le parti, manifestata attraverso il fatto materiale del conferimento in relazione all'effettiva esigenza dei fondi (Cass. 27.07.2006 n. 17111) [...] l'insorgenza della comunione presuppone inevitabilmente che tutti i partecipanti abbiano in vario modo o misura contribuito a conferire il sedime della strada, non essendo ipotizzabile che alla comunione partecipi un soggetto che nulla abbia conferito, a meno che non ricorra un diverso titolo negoziale (Cass. 11.02.2005 n. 2751)', Cassazione civile, sez. II, 05.07.2013, n. 16864.
[8] Come osservato in dottrina, 'le strade private agrarie sono proprietà comune pro indiviso dei proprietari dei fondi latistanti [...] e le strade medesime sono completamente assoggettate alla regolamentazione e alla disciplina privatistica del condominio' ('Le strade nell'attuale disciplina legislativa', A. Romano, in 'Amm. It', n. 4, aprile 1963 e n. 5, maggio 1963, pagg. 309 e ss.)
[9] Tale normativa in particolare prevede, per i territori soggetti a vincolo idrogeologico o appartenenti ad aree protette di cui alla legge regionale 30.12.1996, n. 42, il divieto di circolazione e sosta dei veicoli a motore sui percorsi fuoristrada, fatte salve alcune eccezioni tra le quali il passaggio di veicoli per la conduzione dei fondi e per l'accesso ai beni immobili in proprietà o possesso (artt. 71-73).
[10] Ai sensi dell'art. 3 del decreto, il comune è tenuto a contribuire alle spese di manutenzione e sistemazione/ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico traffico da 1/5 fino a metà delle stesse, mentre ha solo la facoltà di farlo per quelle private e solo fino ad un massimo di 1/5 della spesa..
[11] L'art. 15, comma 1, specifica che al sindaco spetta 'ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate'.
[12] V. Tar Sardegna, 05.12.1979, n. 399 e Tar Piemonte, sez, I, 16.03.1989, n. 203.
[13] V. gli artt. 633 (Invasione di terreni ed edifici), 635 (Danneggiamento), 637 (Ingresso abusivo su fondo altrui) del Codice.
[14] Ai sensi dell'art. 1 del decreto del Ministero dell'interno 05.08.2008, 'per incolumità pubblica si intende l'integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità locali. del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale'.
[15] 'Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al competente giudice civile)' (Tar Campania, Napoli, sez. V, 19.04.2007, n. 4992).
[16] 'I regolamenti di polizia urbana e rurale solitamente disciplinano, in conformità ai principi generali dell'ordinamento giuridico ed in armonia con le norme speciali e con le finalità degli statuti, comportamenti ed attività comunque influenti sulla vita della comunità cittadina e rurale al fine di salvaguardare la convivenza civile, la sicurezza dei cittadini, la decenza, il decoro, la più ampia fruibilità dei beni comuni e di tutelare la qualità della vita e dell'ambiente, con attività di prevenzione, ma anche con attività diretta all'attuazione e all'osservanza da parte dei singoli cittadini delle leggi e dei regolamenti emessi dallo Stato e da altri enti' (v. 'La disciplina della polizia locale nell'ambito dell'autonomia regolamentare degli enti locali', Regione Piemonte, Assessorato Polizia locale, promozione della sicurezza, 2013, pag. 10).
[17] Tale articolo stabiliva -prima dell'abrogazione avvenuta con la legge 08.06.1990, n. 142- che i comuni, con i regolamenti di polizia rurale, provvedessero, tra l'altro, a 'evitare i passaggi abusivi nelle private proprietà'. Nulla di simile è stato successivamente previsto dalla stessa L. 142/1990, dal Tuel o da altre disposizioni di legge
(11.10.2013 -
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LAVORI PUBBLICI: Crediti vantati da subappaltatore non autorizzato per lavori/forniture effettuati nell'ambito dell'esecuzione dei lavori.
L'art. 21, L. n. 646/1982, vieta all'appaltatore di opere affidate dalla p.a. di concedere in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse senza l'autorizzazione dell'amministrazione committente.
Il D.Lgs. n. 163/2006 reca la disciplina del subappalto all'art. 118 che, al comma 8, prevede che la stazione appaltante provvede al rilascio dell'autorizzazione all'affidamento in subappalto entro 30 giorni dalla relativa richiesta, la cui decorrenza senza che si sia provveduto fa sì che l'autorizzazione si intenda concessa.
Secondo la giurisprudenza, il subappalto stipulato in assenza di autorizzazione, è nullo, per violazione di norma imperativa di legge (art. 21, L. n. 646/1982), ai sensi dell'art. 1418, c.c., e non può costituire un valido titolo sulla cui base fondare istanze creditorie nei confronti della p.a. committente.

L'Ente, in relazione ad un contratto di appalto di lavori pubblici in corso di conclusione, riferisce di aver pubblicato l'avviso di cui all'art. 218, D.P.R. n. 207/2010, per quanti vantassero crediti nei confronti dell'esecutore per indebite occupazioni di aree o stabili o per danni arrecati nell'esecuzione dei lavori. A seguito di detto avviso una ditta esterna, non rientrante tra i subappalti autorizzati, ha chiesto al Comune di provvedere al pagamento del credito da essa vantato nei confronti della ditta appaltatrice per lavori/forniture effettuati nell'ambito dell'esecuzione dei lavori, ma non autorizzati né conosciuti dall'amministrazione. Il Comune chiede, dunque, come sia corretto procedere rispetto alla pretesa creditoria avanzata dalla ditta esterna
[1].
Il subappalto è disciplinato dall'art. 118 del D.Lgs. n. 163/2006: in particolare, il comma 8 prevede che la stazione appaltante provvede al rilascio dell'autorizzazione all'affidamento in subappalto entro 30 giorni
[2] dalla relativa richiesta, la cui decorrenza senza che si sia provveduto fa sì che l'autorizzazione si intenda concessa.
L'autorizzazione al subappalto di cui all'art. 118, comma 8, è istituto manifestamente preordinato al perseguimento di interessi pubblici: le condizioni per l'ammissibilità del subappalto
[3], infatti, secondo la giurisprudenza, non appaiono intese (unicamente) a tutelare l'interesse dell'amministrazione committente all'immutabilità dell'affidatario, ma tendono ad evitare che nella fase esecutiva del contratto si pervenga, attraverso modifiche sostanziali dell'assetto di interessi scaturito dalla gara pubblica, a vanificare quell'interesse pubblico che ha imposto lo svolgimento di una procedura selettiva e legittimato l'individuazione di una determinata offerta come la più idonea a soddisfare le esigenze della collettività cui l'appalto è finalizzato [4].
La ratio della prescritta preventiva autorizzazione è, altresì, sottolineata dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP)
[5], la quale evidenzia il fine di preservare l'intuitus personae che connota i contratti pubblici, nonché lo scopo di prevenire il rischio che l'esecuzione delle prestazioni contrattuali sia svolta da soggetti (i subappaltatori appunto) privi dei requisiti di ordine generale e speciale necessari per contrarre con la pubblica amministrazione.
E ancora, l'AVCP osserva che l'esigenza di scongiurare tale rischio è sentita in modo talmente forte dall'ordinamento che il subappalto non autorizzato è penalmente sanzionato come reato contravvenzionale dall'art. 21, della legge 13.09.1982, n. 646 [6], che riconosce alla stazione appaltante 'la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto'.
L'art. 21 richiamato vieta all'appaltatore di opere affidate dalla p.a. di concedere in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse senza l'autorizzazione dell'Amministrazione committente; per cui, afferma la giurisprudenza
[7], il subappalto stipulato in violazione di tale norma imperativa è nullo ai sensi dell'art. 1418, c.c., perché in contrasto con una norma imperativa, e costituisce nel contempo grave inadempimento dell'appaltatore, che legittima la stazione appaltante a chiedere la risoluzione del contratto.
Per quanto concerne le pretese creditorie avanzate nei confronti della p.a. committente da parte del subappaltatore non autorizzato per crediti maturati verso l'appaltatore, risulta utile richiamare una pronuncia della Corte di Cassazione
[8], che, sia pure nel diverso caso della richiesta di pagamento alla p.a. proveniente da un appaltatore per le prestazioni fatte eseguire da un terzo non autorizzato, ha affermato il principio secondo cui l'istanza non può essere fondata sulla base di un subappalto non autorizzato.
Con riferimento alla fattispecie prospettata dal Comune, si può, pertanto, ritenere che nemmeno la ditta subappaltatrice non autorizzata possa vantare pretese creditorie verso la p.a., per prestazioni eseguite per la ditta esecutrice, sulla base di un contratto la cui stipulazione costituisce un fatto illecito dell'appaltatore nei confronti dell'amministrazione committente.
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[1] È il caso di osservare che la ditta esterna ha chiesto alla stazione appaltante di essere soddisfatta del proprio credito nei confronti della ditta appaltatrice per l'esecuzione di forniture/lavori, nell'ambito della procedura di avviso ai creditori di cui all'art. 218, D.P.R. n. 207/2010, norma, invero, relativa a crediti di altra natura e di cui si ritiene utile riportare il testo: 'All'atto della redazione del certificato di ultimazione dei lavori il responsabile del procedimento dà avviso al Sindaco o ai Sindaci del comune nel cui territorio si eseguono i lavori, i quali curano la pubblicazione, nei comuni in cui l'intervento è stato eseguito, di un avviso contenente l'invito per coloro i quali vantino crediti verso l'esecutore per indebite occupazioni di aree o stabili e danni arrecati nell'esecuzione dei lavori, a presentare entro un termine non superiore a sessanta giorni le ragioni dei loro crediti e la relativa documentazione'.
[2] Tale termine può essere prorogato una sola volta ove ricorrano giustificati motivi.
[3] Le condizioni per l'ammissibilità del subappalto sono indicate dal comma 2 dell'art. 118 in argomento: l'indicazione da parte del concorrente, all'atto della presentazione dell'offerta, o da parte dell'aggiudicatario, all'atto dell'affidamento, nel caso di varianti in corso di esecuzione, dei lavori, o delle parti di opere, ovvero dei servizi e delle forniture, o parti di servizi e forniture, che intende subappaltare; il deposito del contratto di subappalto nel termine previsto; il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione; l'insussistenza nei confronti del subappaltatore di alcuno dei divieti previsti dall'art. 10 della legge 31.05.1965, n. 575 ('Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere').
[4] Cfr. Cons. St., Sez. V, 23.01.2012, n. 262; Cons. St., Sez. IV, 24.03.2010, n. 1721.
[5] Cfr. Parere n. 16 del 27.09.2012.
[6] Recante: 'Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alla L. 27.12.1956, n. 1423, alla L. 10.02.1962, n. 57 e alla L. 31.05.1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia'.
[7] C. Cass., sez. I, sentenza 16.07.2003, n. 11131; C. Cass., sez. II, sentenza 18.11.1997, n. 11450.
[8] Cfr. C. Cass., n. 11131/2003, cit.
(11.10.2013 -
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INCARICHI PROFESSIONALI: Personale degli enti locali. Incarico. Riduzione spesa.
La Corte dei conti ha chiarito che gli incarichi di studio si caratterizzano per lo svolgimento di un'attività di studio, nell'interesse dell'amministrazione, che si traduce nella consegna di una relazione scritta finale, nella quale sono illustrati i risultati e le soluzioni proposte.
Gli incarichi di consulenza riguardano invece le richieste di pareri ad esperti.

Il Comune ha chiesto di conoscere se un incarico di co.co.co., da affidare per la realizzazione del progetto 'Sportello di Friulano', rientri o meno tra gli studi e incarichi di consulenza la cui spesa è oggetto di riduzione ai sensi dell'art. 1 del d.l. 101/2013.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
La citata norma, al comma 5, prevede che la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT (tra le quali figurano i comuni), non possa superare il 90 per cento del limite di spesa per l'anno 2013, così come determinato dall'applicazione della disposizione di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010, convertito in l. 122/2010.
Preliminarmente si ritiene opportuno evidenziare l'aspetto rilevante ai fini di un corretto inquadramento della questione prospettata, con specifico riferimento alla locuzione 'incarichi di studio e consulenza'.
Si rammenta, infatti, a tal proposito che la Corte dei conti
[1], nel fornire a suo tempo linee di indirizzo e criteri interpretativi sulle disposizioni della legge 30.12.2004, n. 311 (finanziaria 2005) in materia di affidamento di incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza, ha puntualizzato le definizioni di seguito riportate.
In particolare, si è chiarito in tale sede che 'gli incarichi di studio possono essere individuati con riferimento ai parametri indicati dal D.P.R. n. 338/1994 che, all'articolo 5, determina il contenuto dell'incarico nello svolgimento di un'attività di studio, nell'interesse dell'amministrazione. Requisito essenziale, per il corretto svolgimento di questo tipo d'incarichi, è la consegna di una relazione scritta finale, nella quale saranno illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte'.
Le consulenze invece  si è inoltre precisato- riguardano le richieste di pareri ad esperti.
Per quanto riguarda poi gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) la Corte dei conti ha osservato che i medesimi, per la loro stessa natura che prevede la continuità della prestazione e un potere di direzione dell'amministrazione, appaiono distinti dalla categoria degli incarichi esterni. Si è precisato comunque che: 'resta fermo....che, qualora un atto rechi il nome di collaborazione coordinata e continuativa, ma, per il suo contenuto, rientri nella categoria degli incarichi di studio o di ricerca o di consulenza, il medesimo sarà soggetto al limite di spesa.....'.
Pertanto, in relazione all'attività richiesta per l'incarico in argomento ed alle sue peculiari caratteristiche, si ritiene che l'Ente debba valutare in concreto se il medesimo esuli dalle fattispecie prospettate, come pare risultare dagli elementi forniti, trattandosi di incarico per la gestione di un progetto particolare.
Da ultimo si osserva che ai sensi dell'art. 13, comma 16, lett. b), punto 3-bis, della l.r. 24/2009, i rapporti di co.co.co. coperti da finanziamenti concessi ai sensi della l. 482/1999 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), e della l. n. 38/2001 (Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli Venezia Giulia) sono stipulati in deroga al limite di spesa imposto dal comma 16 del medesimo articolo.
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[1] Cfr. Sez. Riunite in sede di controllo, delibera 15.02.2005, n. 6/CONTR/O (09.10.2013 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso ai sensi della legge 241/1990. Accesso ai dati di persona deceduta.
L'art. 9, comma 3, del D.Lgs. 196/2003, consente l'esercizio del diritto di accesso ai dati personali concernenti persone decedute, da parte di chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione.
In relazione a tale norma, la giurisprudenza ha affermato che sopravvive una forma di tutela dei dati sensibili -come altre forme di tutela- anche dopo la morte e che per l'individuazione dell'interesse sottostante alla richiesta di accesso deve farsi riferimento alla L. 241/1990 e in particolare alla precisa qualificazione fornita dall'art. 22, comma 1, lett. b).

Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'ammissibilità di una richiesta di estrazione copia di dati sensibili di un ospite della casa di riposo deceduto, formulata da una degli eredi al fine di conoscere la valutazione della capacità di intendere e di volere del medesimo.
L'articolo 9, comma 3, del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, consente l'esercizio del diritto di accesso ai dati personali di cui all'articolo 7 del medesimo, concernenti persone decedute, da parte di «chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione».
Su questione analoga, il Consiglio di Stato
[1] ha ritenuto ammissibile la richiesta di accedere alle cartelle cliniche del de cuius, formulata da coeredi individuati dal medesimo nel testamento, alla quale si erano opposti gli eredi legittimi, affermando in primo luogo che il citato articolo 9, comma 3, regola compiutamente ed esaustivamente la questione del trattamento dei dati personali delle persone decedute, incluse le cartelle cliniche, in quanto indica chi può esercitare l'insieme dei diritti previsti dall'articolo 7 del medesimo codice [2].
Secondo il Consiglio di Stato, anche sulla scorta della giurisprudenza precedente
[3], si può affermare che sopravvive una forma di tutela dei dati sensibili -come altre forme di tutela- anche dopo la morte, ma nelle forme specifiche e diverse previste dall'articolo 9. Ne deriva che per l'individuazione dell'interesse sottostante alla richiesta di accesso deve farsi riferimento alla disciplina generale del diritto di accesso, e in particolare alla precisa qualificazione fornita dall'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge 07.08.1990, n. 241, secondo il quale l'interesse deve essere diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso.
Ancora più esplicitamente, il TAR Sardegna
[4], a fronte del diniego ad ottenere la cartella clinica opposto da una struttura ospedaliera all'erede del paziente, sostenendo che il diritto di accesso spetta a tutti gli eredi congiuntamente e non solo ad uno di essi, ha affermato che il diritto a conoscere i dati relativi alle condizioni di salute del defunto non è disciplinato dalla normativa ereditaria, ma, inerendo alla semplice qualità di congiunto, spetta autonomamente a chiunque si trovi in relazione di parentela con la persona deceduta.
In tal senso anche il Garante per la protezione dei dati personali che, da ultimo con il provvedimento 12.01.2012, ha riconosciuto al coniuge separato la legittimazione ad accedere ai dati personali concernenti il de cuius, ai sensi dell'articolo 9, comma 3, del Codice.
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[1] Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 23.03-12.06.2012, n. 3459.
[2] Il Codice, nel disciplinare il trattamento dei dati medesimi, considera non solo le posizioni soggettive di chi può esercitare il diritto di accesso, ma anche quelle di chi può opporsi ad esso.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.06.2008, n. 2866, che però delinea un diverso quadro normativo di riferimento, affermando che «il problema di una comparazione di interessi configgenti non si pone in radice perché il diritto alla riservatezza, che appartiene alla categoria dei diritti della personalità, tradizionalmente configurati come inalienabili, intrasmissibili e imprescrittibili, si estingue con la morte del titolare».
[4] TAR Sardegna, sentenza 27.01.2012, n. 67
(27.09.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 33/2013. Individuazione degli organi con poteri sostitutivi nel caso di violazione delle disposizioni sul conferimento di incarichi.
L'art. 17 del D.Lgs. n. 33/2013 sancisce la nullità degli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del decreto medesimo e dei relativi contratti.
Il successivo art. 18 prevede l'interdizione temporanea dal potere di conferimento degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli e stabilisce che gli enti territoriali adeguino i propri ordinamenti alle disposizioni del decreto (nel termine previsto) ed individuino gli organi che in via sostitutiva procedono al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari.
Dalla lettura della norma, non sembra da escludersi, a tale fine, la possibilità di prevedere la nomina di un commissario ad acta, anche se, per l'individuazione dell'organo sostituto, la scelta di una soluzione che consenta all'Ente di evitare l'assunzione di nuovi oneri a carico del proprio bilancio sembrerebbe maggiormente coerente con l'attuale contesto normativo, fortemente improntato al contenimento della spesa pubblica.

Il Comune pone un quesito in merito al D.Lgs. n. 33/2013
[1], in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati di diritto pubblico, con particolare riferimento alla previsione di cui all'art. 18, comma 3, statuente l'obbligo per gli enti territoriali di adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni del decreto individuando le procedure interne e gli organi che in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari, conseguente alla violazione delle norme sulla inconferibilità di incarichi.
Specificamente, il Comune chiede se possa prevedere nel proprio Statuto la nomina di un commissario ad acta, a pagamento dell'organo sospeso, in relazione alla sostituzione di Giunta e Consiglio.
Premesso che la questione posta dal Comune riguarda una norma statale di recente emanazione, la cui interpretazione spetta unicamente ai competenti uffici ministeriali, si espongono, in via meramente collaborativa, le seguenti considerazioni.
L'art. 17 del citato D.Lgs. n. 33/2013 dispone che 'Gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del presente decreto e i relativi contratti sono nulli'.
Il successivo art. 18 dispone che '1. I componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli sono responsabili per le conseguenze economiche degli atti adottati. Sono esenti da responsabilità i componenti che erano assenti al momento della votazione, nonché i dissenzienti e gli astenuti. 2. I componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli non possono per tre mesi conferire gli incarichi di loro competenza. Il relativo potere è esercitato, per i Ministeri dal Presidente del Consiglio dei Ministri e per gli enti pubblici dall'amministrazione vigilante. 3. Le regioni, le province e i comuni provvedono entro tre mesi dall'entrata in vigore del presente decreto ad adeguare i propri ordinamenti individuando le procedure interne e gli organi che in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari [...]'.
Dalla lettura della norma non sembra da escludersi la possibilità di prevedere la nomina di un commissario ad acta che provveda al conferimento in luogo degli organi politici (nel caso di specie, Giunta e Consiglio) temporaneamente interdetti, anche se, per l'individuazione dell'organo sostituto, la scelta di una soluzione che consenta all'Ente di evitare l'assunzione di nuovi oneri a carico del proprio bilancio sembrerebbe maggiormente coerente con l'attuale contesto normativo, fortemente improntato al contenimento della spesa pubblica.
In relazione alla possibilità, ipotizzata dal Comune, di imputare i costi della figura del commissario ad acta, anziché al proprio bilancio, ai componenti dell'organo interdetto che abbiano contribuito, con il loro voto, a conferire gli incarichi dichiarati nulli, si osserva infatti che l'art. 18, comma 1, D.Lgs. n. 33/2013 si limita a statuire la responsabilità degli stessi 'per le conseguenze economiche degli atti adottati', mentre non si rinvengono norme che espressamente disciplinino le spese correlate alla figura del soggetto che interviene in via sostitutiva.
Premesso che, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione, sussiste una riserva di legge in relazione all'imposizione di prestazioni patrimoniali
[2], compete esclusivamente agli organi statali chiarire se con l'espressione 'conseguenze economiche degli atti adottati' il legislatore abbia voluto riferirsi a quelle immediatamente derivanti dal conferimento degli incarichi nulli o anche agli oneri connesse all'individuazione di un organo con poteri sostitutivi.
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[1] D.Lgs. 08.04.2013, n. 33, recante: 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190'.
[2] L'art. 23 Cost. stabilisce infatti che 'Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge'
(27.09.2013 -
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PATRIMONIO: Vendita di bene sdemanializzato.
Il bene avente natura demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta da un privato cittadino di poter acquistare una strada di proprietà dell'Ente (bene demaniale) 'inglobata' da oltre 50 anni nella proprietà del privato stesso.
Riferisce l'Ente che l'area oggetto della richiesta ha ormai perso i requisiti di strada, essendone stata realizzata un'altra al limite della proprietà del richiedente, atta a servire tutti i fondi limitrofi, in conseguenza di una 'sorta di riordino fondiario'.
Il Comune chiede, quindi, di conoscere se, una volta sdemanializzata la strada in argomento con apposito atto, possa procedere alla vendita della stessa al privato, chiedendogli eventualmente di corrispondere una indennità per il periodo di utilizzo antecedente alla vendita.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Circa la possibilità di procedere alla vendita del bene pubblico, successivamente alla sdemanializzazione dello stesso da parte dell'Amministrazione instante, si richiama l'attenzione sulla necessità che la vendita venga effettuata nel rispetto delle regole dell'evidenza pubblica.
Quanto, invece, alla possibilità di richiedere al privato la corresponsione di un'indennità per il periodo di utilizzo del bene antecedente alla vendita, si precisa che la stessa potrebbe essere vantata dall'Ente solo in relazione all'ultimo quinquennio, risultando prescritta per i periodi antecedenti
[1].
Ad ogni buon conto, in relazione alla fattispecie prospettata, corre l'obbligo di rappresentare quanto segue, in modo che l'Ente possa effettuare le valutazioni ritenute opportune.
Nel possesso indisturbato e protratto da tempo immemore (nel caso in oggetto, oltre 50 anni) da parte del proprietario del fondo in cui la strada risulta 'inglobata' potrebbero ravvisarsi i requisiti per la richiesta di accertamento dell'avvenuta usucapione
[2] della strada in argomento. Il bene avente natura demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare, cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di declassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo.
La giurisprudenza
[3] ha al riguardo osservato che '[...] il disuso prolungato di una strada vicinale da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la destinazione pubblica, non bastano a comprovare inequivocabilmente la cessata destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale pubblico.'.
Atteso che, nell'ambito di un giudizio intentato per l'accertamento dell'avvenuta usucapione del bene, la sdemanializzazione tacita può essere accertata autonomamente dal Giudice, che deve valutare i comportamenti dell'amministrazione in rapporto al bene che si sostenga passato al regime patrimoniale, si considera opportuno che l'Ente instante verifichi preventivamente se la sdemanializzazione tacita possa aver operato in relazione al caso concreto e se il privato intenda conseguentemente far valere l'usucapione
[4], eventualità che renderebbero di fatto impossibili tanto la vendita del bene, quanto la richiesta di indennizzo.
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[1] Con riferimento al termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento per l'occupazione sine titulo del sedime stradale, cfr., tra le altre, Trib. Napoli Sez. fall., 11.04.2011 e Trib. Bologna Sez. III, 20.09.2007.
[2] L'usucapione potrebbe operare anche a vantaggio dell'acquirente (attuale proprietario) del terreno in cui è 'inglobata' l'area, atteso che il possesso dello stesso si può sommare a quello del suo dante causa, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, del codice civile.
[3] Cfr., fra le altre, TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent., 11.07.2011, n. 198; Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209; TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450.
[4] Nel caso in esame, tale ultima evenienza sembrerebbe peraltro scongiurata dal fatto che è stato il privato stesso a richiedere, seppur informalmente, la vendita
(25.09.2013 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Obblighi di pubblicazione ex D.Lgs. 33/2013.
L'elencazione dei provvedimenti oggetto di pubblicazione sul web da parte delle pubbliche amministrazioni, prevista dall'art. 23 del d.lgs. 33/2013, non sembrerebbe, secondo la dottrina, avere carattere esaustivo, in quanto la norma avrebbe come obiettivo finale la pubblicazione di tutti i provvedimenti.
In attesa di circolari o di pronunce giurisprudenziali che ne chiariscano la portata, viste le finalità di 'controllo diffuso' connesse al principio di trasparenza e l'importanza, in tale ambito, della conoscibilità di atti che dispongono il pagamento di somme di denaro da parte della pubblica amministrazione, si ravvisa, perciò, l'opportunità per le amministrazioni di pubblicare, nelle forme previste dalla legge, anche le determinazioni di impegno ed i provvedimenti di liquidazione delle somme di denaro riconosciute dall'amministrazione concedente al concessionario per l'esecuzione di interventi manutentivi straordinari.

L'Ente instante pone una serie di quesiti riguardanti l'applicazione del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni). In particolare, l'Ente chiede di sapere se rientrano tra gli obblighi di pubblicazione ivi previsti:
- i provvedimenti afferenti l'approvazione di contratti relativi all'affidamento in concessione di servizi pubblici che prevedano un corrispettivo a favore dell'amministrazione;
- gli atti finalizzati al riconoscimento, da parte dell'amministrazione, dei costi sostenuti dal concessionario per l'esecuzione di interventi manutentivi straordinari;
- i contratti stipulati prima dell'entrata in vigore del menzionato decreto legislativo e tutt'ora in vigore.
Il D.Lgs. 33/2013 ha riordinato in un unico corpo normativo le numerose disposizioni vigenti in materia di obblighi di trasparenza a carico delle pubbliche amministrazioni. Come ribadito dal suo art. 1, la 'trasparenza' è il principio fondamentale alla base della normativa e va inteso come 'accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche'.
In merito ai provvedimenti di interesse per l'Ente instante, si osserva che l'art. 23 del decreto richiede alle pubbliche amministrazioni di pubblicare ed aggiornare ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione 'Amministrazione trasparente' del proprio sito web, gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163;
c) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del decreto legislativo n. 150 del 2009;
d) accordi stipulati dall'amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche.
La disposizione precisa, al comma 2, che ciascuno dei provvedimenti pubblicati, nella forma di una scheda sintetica
[1], deve riportare: il contenuto, l'oggetto, l'eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
In considerazione di un tanto, si ritiene che rientrano tra gli obblighi di pubblicazione anche i provvedimenti relativi alle concessioni in cui sia previsto un corrispettivo a favore dell'amministrazione.
Si osserva, più nel dettaglio, che la menzionata elencazione, nel riferirsi in particolare 'ai provvedimenti finali di [...] concessione', non sembrerebbe avere carattere esaustivo. Trattandosi di una formulazione che, in effetti, solleva dubbi interpretativi, in attesa di circolari o di pronunce giurisprudenziali che ne chiariscano la portata, viste le finalità di 'controllo diffuso' connesse al citato principio di trasparenza e l'importanza, in tale ambito, della conoscibilità di atti che dispongono il pagamento di somme di denaro da parte della pubblica amministrazione, si ravvisa l'opportunità per l'Ente di pubblicare, nelle forme previste dalla legge, anche le determinazioni di impegno ed i provvedimenti di liquidazione delle somme di denaro riconosciute dall'amministrazione concedente al concessionario per l'esecuzione di interventi manutentivi straordinari
[2].
Infine, in merito al dies a quo dei provvedimenti oggetto di pubblicazione, si osserva che gli obblighi di pubblicazione previsti dal D.lgs. 33/2013 decorrono dalla data della sua entrata in vigore (ossia il 20.04.2013) e, non essendo diversamente previsto, non dovrebbero perciò applicarsi ai provvedimenti adottati precedentemente dalle amministrazioni.
Parimenti, però, va tenuto in considerazione che l'art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 83
[3], abrogato dall'art. 53 del D.Lgs. 33/2013, già prevedeva la pubblicazione su internet, da parte delle pubbliche amministrazioni, delle concessioni di sovvenzioni, sussidi ed ausili finanziari, così come dei compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati, nonché dei vantaggi economici di cui all'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
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[1] Maggiori informazioni sui modelli e gli schemi standard da seguire da parte delle pubbliche amministrazioni saranno forniti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri previsti dall'art. 48 del decreto.
[2] In dottrina, è stato fatto notare che l'obiettivo finale della norma risulta essere la pubblicazione di tutti i provvedimenti, nonostante il riferimento ai soli provvedimenti finali dei procedimenti individuati alle lettere a), b), c) e d) del comma 1 dell'art. 23 (v. 'Testo corredato da note esplicative del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33', a cura del prof. Massimo Calvino per Consorzio degli enti locali della Valle d'Aosta).
[3] Come modificato in sede di conversione dalla legge 07.08.2012, n. 134
(18.09.2013 -
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CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONELa redazione di un piano di caratterizzazione ambientale non può dare luogo al riconoscimento degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti).
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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 12264/1.13.9 del 10.07.2013, una richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Carrara in materia di incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti).
In particolare, si chiede:
a) se possa essere erogato l’incentivo alla progettazione in riferimento all’attività progettuale, svolta dal personale interno all’amministrazione, consistente nella redazione di un “piano di caratterizzazione ambientale” nell’ambito dell’attività di progettazione di bonifiche ambientali secondo quanto stabilito dal d.lgs. n. 152/2006 (codice dell’ambiente);
b) se, per l’eventuale quantificazione dell’incentivo, sia applicabile quanto previsto dal comma 6 del citato art. 92 del codice dei contratti, stante l’impossibilità di correlare l’impegno professionale all’importo del lavoro di bonifica.
...
Nel merito, l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 (codice degli appalti) recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…) è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare (…)”. L’art. 92, comma 6, del d.lgs. n.163/2006, prevede: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, (…) tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Questa Sezione si è già pronunciata sull’argomento in diverse occasioni (
parere 18.10.2011 n. 213 e ancor più di recente con il parere 27.11.2012 n. 389 e parere 12.12.2012 n. 459) e, da ultimo, con parere 29.07.2013 n. 252, ove ha chiarito che “l’art. 90 del d.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito <tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto> e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis siano ascrivibili solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”; ciò in sintonia, peraltro, con un parere di altra Sezione della Corte dei conti (Sez. reg. contr. Piemonte parere 30.08.2012 n. 290), che, in riferimento alla disciplina normativa di cui trattasi, ha affermato che: “La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente”, essendo, dunque, necessario che l’attività di progettazione sia il presupposto di una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera pubblica.
Questa circostanza non appare ravvisabile con riferimento al piano di caratterizzazione ambientale, redatto a cura del responsabile dell’inquinamento, e disciplinato dall’art. 242 del d.lgs. n. 152/2006 (codice dell’ambiente), rubricato “Procedure operative ed amministrative”, in quanto, in presenza di un superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC), tale piano, consistente in un’attività d’indagine, è volto, in particolare, a definire le risultanze inerenti la determinazione dell’entità ed estensione della contaminazione, sulla base di parametri stabiliti, essendo assunto nel rispetto dei requisiti di cui all’allegato 2 alla parte quarta del citato codice. Si è in presenza, pertanto, di plurime attività d’indagine (quali sondaggi, campionamento dei terreni e delle acque sotterranee, analisi chimiche ecc...), finalizzate a ricostruire i fenomeni di contaminazione, onde acquisire le informazioni di base essenziali per il successivo processo decisionale da intraprendersi nell’ambito di un quadro realistico della situazione di contaminazione.
Inoltre, la successiva procedura di analisi del rischio, qualora presenti un esito negativo in riferimento al livello di concentrazione delle sostanze contaminanti, comporta la conclusione positiva del procedimento (art. 242, c. 5, del d.lgs. n. 152/2006), sussistendo l’obbligo di avviare la procedura di bonifica, ai sensi del comma 7 del citato art. 242, solo in caso di superamento della soglia di rischio di concentrazione dei contaminanti, con la conseguente redazione, da parte del soggetto responsabile, di un progetto operativo concernente gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza ed eventuale ripristino ambientale, da sottoporre alla regione per l’approvazione, previ i prescritti pareri, con provvedimento autorizzativo che definisce anche le prescrizioni ed i tempi di esecuzione dei lavori pubblici previsti nel progetto di bonifica che sarà poi posto a base di gara dall’amministrazione competente, e solo riguardo al quale appare legittimo il riconoscimento degli incentivi previsti, per il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto e loro collaboratori, dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 (codice degli appalti).
Ad ulteriore sostegno del riconoscimento dell’incentivo agli incaricati della redazione di un atto di progettazione o pianificazione solo qualora questo abbia ad oggetto la realizzazione di un’opera pubblica, il decreto 22.04.2013 n. 66 del Ministero dell’interno, recante norme per la ripartizione dell’incentivo economico al personale del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, detta disposizioni pregnanti anche ai fini della risoluzione del caso di specie, laddove prevede, all’art. 2, comma 2, che gli incentivi di cui all’art. 92, c. 5, del codice dei contratti “sono riconosciuti per le attività del responsabile del procedimento e degli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori” e, al comma 3, che “sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino lavori pubblici di competenza dell'amministrazione, quali attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali progettazioni di connesse campagne diagnostiche e le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive nei casi previsti dall'art. 132, comma 1 del codice, ad eccezione della lettera e)”.
In conclusione,
il Collegio ritiene che la redazione di un piano di caratterizzazione ambientale non possa dare luogo al riconoscimento degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti) (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 23.10.2013 n. 276).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli enti che corrispondono compensi incentivanti per la progettazione ovvero compensi professionali alle avvocature interne sono tenuti, sul piano contabile, a prevedere e accantonare nei rispettivi fondi gli importi necessari a fronteggiare il pagamento dell’IRAP (che sul piano dell’obbligazione giuridica grava esclusivamente sull’ente), rendendoli indisponibili.
Sicché,
l’onere per il pagamento dell’Irap afferente ai compensi incentivanti dovuti ai tecnici dipendenti grava sul datore di lavoro e non sul lavoratore ma, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, va finanziato con i fondi lordi appositamente stanziati, non potendo costituire un onere finanziario “aggiuntivo” per l’ente.
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflettono, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione.

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Con richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, il Sindaco del Comune di Venosa (PZ) ha chiesto un parere in ordine alla corretta determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti del profilo tecnico per l’attività di progettazione e direzione dei lavori ai sensi dell’art. 92, comma 5, D.Lgs. 163/2006.
In particolare l’Ente ha chiesto «… come si debba correttamente applicare il dettato normativo, ai fini della determinazione dei compensi dovuti ai dipendenti di profilo tecnico, ossia se:
a) la quota non superiore al 2 per cento della somma posta a base d'asta di un'opera o di un lavoro debba essere comprensiva anche dell'IRAP, oltre che degli oneri previdenziali ed assistenziali a carico dell'Amministrazione, riducendo così l'importo netto percepito dai dipendenti tecnici;
b) l'importo corrispondente all'IRAP debba essere quantificato "al di fuori ed in aggiunta" alla quota non superiore al 2 per cento di cui sopra, senza incidere sull'importo dell'incentivo percepito dagli interessati
».
...
L’art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, dispone che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione … è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori”.
Su tale norma e su quella di cui all’art. 1, comma 208, della legge 23.12.2005, n. 266, sono sorti, in passato, alcuni dubbi interpretativi legati all’esigenza di chiarire se i compensi dovuti dall’amministrazione ai propri dipendenti (personale tecnico e personale dell’avvocatura interna) debbano essere corrisposti al netto o al lordo dell’Irap e, cioè, se l’Irap debba rimanere a carico del lavoratore ovvero dell’amministrazione.
Nel senso della determinazione del compenso professionale senza la trattenuta, nei confronti del dipendente, della quota Irap (dovendo detta imposta rimanere a carico dell’amministrazione), si sono pronunciate le Sezioni regionali di controllo dell’Emilia-Romagna (deliberazione n. 34 del 27.06.2007 concernente specificamente gli avvocati), dell’Umbria (deliberazione n. 11 del 22.10.2007, anch’essa relativa specificamente agli avvocati, e deliberazione n. 1 del 28.02.2008, concernente l’incentivo per i tecnici), del Veneto (deliberazioni n. 22 del 21.05.2008 e n. 49 del 3 luglio 2008, concernenti entrambe le fattispecie), della Puglia (deliberazione n. 31 del 30.10.2008, concernente specificamente i tecnici), della Basilicata (deliberazione n. 185 del 26.11.2008) e del Molise (deliberazione n. 6 del 24.02.2009, relativa all’incentivo per i tecnici).
Di segno diverso sono state le considerazioni espresse sul punto dalla Sezione regionale della Lombardia (deliberazioni n. 4 dell’11.02.2008 e n. 101 del 04.12.2008), la quale, rilevando che i fondi relativi alle diverse competenze aggiuntive spettanti al personale già ricomprendono quanto l’amministrazione pubblica dovrà versare all’erario sia per i contributi assistenziali e previdenziali sia a titolo di Irap, ha ritenuto che il compenso professionale deve essere corrisposto al dipendente al netto degli “oneri riflessi”, intendendo con tale locuzione “tutti gli oneri”, ivi inclusa la quota Irap.
La questione è stata tuttavia risolta dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti
con la deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010, adottata in funzione nomofilattica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto legge 01.07.2009, n. 78.
Con tale deliberazione le Sezioni Riunite delle Corte, richiamando anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 26.01.2009, hanno chiarito che nell’espressione “oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione” di cui all’art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (così come in quella di “oneri riflessi” di cui all’art. 1, comma 208, della legge 23.12.2005, n. 266) non debba essere ricompresa l’Irap, che costituisce, invece, un onere fiscale a carico esclusivo dell’amministrazione.
Afferma la citata deliberazione che “….anche l’interpretazione sistematica delle disposizioni all’esame è confermativa della soluzione che esclude la riconducibilità dell’IRAP nell’ambito degli “oneri riflessi”. Sia la Corte dei conti (nelle deliberazioni citate), che il Consiglio di Stato (adunanza plenaria sent. n. 32 del 1994) ritengono che i compensi professionali da corrispondere a titolo di onorari ai dipendenti comunali appartenenti all’Avvocatura interna, oltre che del personale tecnico, costituiscono parte della retribuzione; sicché, per detti soggetti, non si realizzano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP, dato che tali soggetti sono privi di autonoma organizzazione … Infatti, il presupposto impositivo dell’IRAP si realizza in capo all’ente che eroga il compenso di lavoro dipendente, il quale rappresenta il soggetto passivo dell’imposta, cioè colui che, nella valutazione del legislatore, in quanto titolare di detta organizzazione è tenuto a concorrere alle spese pubbliche, ai fini di detto tributo; conseguentemente l’onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione a compensi di natura retributiva (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 123/E del 02.04.2008) bensì unicamente sul datore di lavoro”.
Resta fermo, naturalmente, che
gli enti che corrispondono compensi incentivanti per la progettazione ovvero compensi professionali alle avvocature interne sono tenuti, sul piano contabile, a prevedere e accantonare nei rispettivi fondi gli importi necessari a fronteggiare il pagamento dell’IRAP (che sul piano dell’obbligazione giuridica grava esclusivamente sull’ente), rendendoli indisponibili.
Alla luce delle argomentazioni che precedono,
l’onere per il pagamento dell’Irap afferente ai compensi incentivanti dovuti ai tecnici dipendenti grava sul datore di lavoro e non sul lavoratore ma, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, va finanziato con i fondi lordi appositamente stanziati, non potendo costituire un onere finanziario “aggiuntivo” per l’ente.
Pertanto,
le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflettono, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 09.10.2013 n. 115).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione evidenzia che “l’abrogazione delle tariffe professionali non ha eliminato la necessità di una normativa che disciplini sia la liquidazione del compenso di un professionista da parte di un organo giurisdizionale, sia la determinazione degli importi da porre a base di gara, nell’affidamento dei servizi di progettazione” e che tale questione si correla a quella del compenso nel caso di progettazione interna.
Orbene è a dirsi che
se, da un lato, “la liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n. 140 (c.d. “decreto parametri”), dall’altro, per quanto concerne, invece, gli importi da porre a base di gara nell’affidamento dei contratti pubblici di servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, alla quale è connessa la questione del compenso conseguente all’attività di progettazione interna, l’atteso regolamento (“decreto parametri-bis”) non è stato ancora approvato”.
Di qui l’impossibilità di applicare direttamente le tariffe professionali per determinare l’ammontare degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 –che pur non può ritenersi abrogato per effetto del sopravvenuto art. 9 comma 6 D.L. 1/2012– essendo le stesse utilizzabili, nelle more, ai soli fini della liquidazione delle spese giudiziali.

Nondimeno “gli enti locali, nell’esercizio della propria discrezionalità, individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento, da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri già elaborati dal Ministero della Giustizia”.
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Il Comune di San Costanzo con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una articolata richiesta di parere in relazione alla corretta interpretazione della disciplina recata dall’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici in tema di incentivi per la pianificazione, alla enucleazione dei presupposti oggettivi in costanza dei quali possa legittimamente procedersi alla corresponsione dei predetti compensi nonché alla modalità per la determinazione degli stessi.
Richiamato, in particolare, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza contabile circa il nesso di necessaria strumentalità, ai fini del riconoscimento degli emolumenti di cui al menzionato art. 92, comma 6, tra la attività di pianificazione e la realizzazione di opere pubbliche nonché le indicazioni rese dalla Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici il Comune istante chiede di conoscere il motivato parere della Sezione in ordine:
a) alla possibilità di riconoscere l’incentivo di cui trattasi per un atto di pianificazione generale evidenziandosi, a sostegno, come la pianificazione urbanistica, anche se in forma mediata, inerisca a opere ed impianti pubblici in ragione della c.d. zonizzazione e degli effetti che alla stessa devono annettersi anche a fini espropriativi;
b) alla possibilità di corrispondere l’emolumento in parola per la pianificazione interna di varianti urbanistiche e per i progetti di iniziativa pubblica allorché riguardino esclusivamente aree assoggettate a pianificazione attuativa collegata alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da realizzarsi da privati richiamandosi –a favore di una interpretazione estensiva– la circostanza che detta facoltà sia specificamente prevista dall’art. 16, comma 2-bis, D.P.R. 380/2001;
c) alla necessità che l’Ente provveda a specifica modifica del regolamento per il riconoscimento degli incentivi enucleando i singoli interventi suscettivi di essere ricompresi nell’ambito di applicabilità dell’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 ricostruito alla stregua degli indirizzi interpretativi resi in materia;
d) alla modalità con cui procedere alla quantificazione del compenso ed alla correttezza del riferimento al parametro del 30% della tariffa atteso il disposto di cui all’art. 9, comma 5, D.L. 1/2012;
...
La richiesta di parere formulata dal Comune di San Costanzo evoca plurimi profili interpretativi ed applicativi della disciplina recata dall’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 su cui è maturato un orientamento, sostanzialmente, univoco della giurisprudenza contabile che il Collegio ritiene di non disattendere.
A tal riguardo giova, in primo luogo, evidenziare come preliminare rispetto alla delibazione delle diverse questioni prospettate dal Comune istante si appalesi l’individuazione della ratio sottesa alla disciplina di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 in tema di c.d. incentivi alla progettazione/pianificazione interna.
Come noto
la stessa disciplina –che non rappresenta, peraltro, un’assoluta novità del Codice dei contratti rinvenendo un precedente in omologhe disposizioni della legge Merloni (artt. 17 e 18 L. 109/1994 s.m.i.)– mira, al pari di quella previgente, a ricondurre la progettazione e la redazione degli atti di pianificazione nell’ambito delle attività delle stazioni appaltanti in vista, da un lato, di una valorizzazione delle professionalità esistenti all’interno dell’Ente e, dall’altro, del conseguimento di risparmi connessi al limitato ricorso a soggetti esterni alla Amministrazione.
Ciò conformemente al “principio –che informa l’affidamento degli incarichi tecnico-professionali in materia di contratti pubblici (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 d.lgs. 163/2006) e più, in generale, il conferimento di incarichi nel Testo unico sul pubblico impiego (cfr. art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001)– per cui
i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane” (Sezione di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72).
Nondimeno la disposizione di cui trattasi –in ragione della prevista corresponsione del c.d. compenso incentivante– importa una deroga al principio di determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e di omnicomprensività del trattamento economico e, pertanto, si atteggia come norma di stretta interpretazione rispetto alla quale è precluso il ricorso all’analogia giusta il disposto di cui all’art. 12 delle preleggi (cfr. Sezione controllo per la Regione Umbria, parere 09.07.2013 n. 119, Sezione controllo per la Regione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
In questa prospettiva, in vista di una corretta perimetrazione dell’ambito oggettivo di applicabilità della norma in esame e della individuazione dell’atto di pianificazione comunque denominato, per la cui redazione il dipendente matura il diritto al relativo incentivo,
la giurisprudenza contabile è pacifica nell’evidenziare come, le fattispecie riconducibili alla previsione di cui al comma 6, postulino un nesso di necessaria strumentalità tra l’atto medesimo e la realizzazione di opere pubbliche che la Amministrazione debba affidare quale stazione appaltante.
Di qui l’esclusione della mera attività di pianificazione del territorio quale la redazione del Piano regolatore o di una variante generale (cfr. ex pluribus Sezione di controllo per la Regione Umbria, parere 09.07.2013 n. 119; Sezione di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72; Sezione di controllo per la Regione Emilia Romagna, parere 25.06.2013 n. 243, Sezione di controllo per la Regione Toscana, parere 12.12.2012 n. 459 e 293/PAR/2012; Sezione di controllo per il Piemonte parere 30.08.2012 n. 290).
Depone, in tal senso, una interpretazione letterale della disposizione in parola nonché una lettura sistematica della stessa atteso che “la previsione di cui al comma 6 va coordinata sia con i precedenti commi del medesimo art. 92 –il cui impianto ruota intorno alla attività di progettazione di un’opera o di un lavoro che l’amministrazione pubblica, in veste di stazione appaltante, deve aggiudicare (cfr. comma 1 laddove si richiamano compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico amministrative ad essa connesse)– sia con il precedente art. 90 (cfr. pronunce citate).
Dirimente ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante si appalesa, pertanto, ”non il nomen iuris attribuito all’atto di pianificazione quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione della attività istituzionale dell’Ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante (Sezione Regionale di controllo per la Regione Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72).
Tale ricostruzione trova, peraltro, puntuale riscontro nel percorso argomentativo delle Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva che in un recente parere, pur valorizzato da taluni Commentatori per accreditare un preteso revirement della giurisprudenza contabile, dopo aver precisato che “per atto di pianificazione comunque denominato debba intendersi qualunque elaborato complesso previsto dalla legislazione statale o regionale composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi finalizzato a programmare, definire e regolare in tutto o in parte il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le altre prescrizioni normative e con la pianificazione territoriali degli altri livelli di governo”, hanno, in perfetta coerenza interpretativa con le coordinate interpretative dianzi richiamate, ribadito che “l’attività di pianificazione debba prevedere una localizzazione di interventi pubblici e di opere di pubblico interesse in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante nei termini previsti dal Codice dei contratti e dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE (Sezioni Riunite in sede consultiva per la Regione Siciliana
parere 03.01.2013 n. 2).
Le stesse Sezioni Riunite evidenziano, altresì, come “in ogni caso competerà alla fonte regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 chiarire l’esatta portata ermeneutica del concetto di atto di pianificazione comunque denominato magari attraverso idonea elencazione delle fattispecie di riferimento che, in assenza di chiari riferimenti testuali o ermeneutici alla sua natura meramente esemplificativa, si ritiene debba ritenersi tassativa (cfr. Sezioni Riunite in sede consultiva per la Regione Siciliana, cit.).
Evidentemente, pur nel rispetto degli ambiti di discrezionalità dell’Ente, siffatta enucleazione potrà essere orientata dagli indirizzi interpretativi invalsi nella giurisprudenza contabile (cfr. Sezione di controllo per la Regione Campania, parere 10.04.2013 n. 141) che, in questa ottica, assolve ad una valida funzione di ausilio e di collaborazione rispetto all’esercizio della potestà regolamentare che, nella specifica materia, il Codice dei contratti intesta agli Enti locali.
La fonte regolamentare rileva, peraltro, anche ai fini della individuazione dei criteri e delle modalità con cui procedere alla quantificazione del compenso incentivante: a tal riguardo l’Ente istante formula specifica questione volta a verificare se, ed in che misura, l’avvenuta abrogazione delle tariffe professionali ed il disposto di cui all’art. 9, comma 5, D.L. 1/2012 –a mente del quale “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista rinviano alle tariffe di cui al comma 1”- abbia inciso la disciplina di cui al più volte citato art. 92, comma 6, che testualmente recita: “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
Condivisibili appaiono, sul punto, le conclusioni cui è pervenuta la Sezione di controllo per la Regione Emilia Romagna alla stregua di una puntuale ricostruzione del più ampio quadro normativo di riferimento entro cui la problematica va a collocarsi (cfr. parere 25.06.2013 n. 243).
Così richiamato l’art. 9, comma 1 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, rubricato “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” (c.d. “decreto sviluppo 2012”), convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, in forza del quale “Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico” si evidenzia come il successivo comma 2 abbia, tuttavia, ha previsto che, ”ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di 120 giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (…) Ai fini della determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all’architettura e all’ingegneria di cui alla parte II, titolo I, capo IV del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, si applicano i parametri individuati con il decreto di cui al primo periodo, da emanarsi, per gli aspetti relativi alle disposizioni di cui al presente periodo, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti; con il medesimo decreto sono altresì definite le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi. I parametri individuati non possono condurre alla determinazione di un importo a base di gara superiore a quello derivante dall’applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell’entrata in vigore del presente decreto” e come il comma 3 stabilisca che “Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2…” mentre ai sensi del comma 5 “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1”.
Ciò posto
la Sezione evidenzia che “l’abrogazione delle tariffe professionali non ha eliminato la necessità di una normativa che disciplini sia la liquidazione del compenso di un professionista da parte di un organo giurisdizionale, sia la determinazione degli importi da porre a base di gara, nell’affidamento dei servizi di progettazione” e che tale questione si correla a quella del compenso nel caso di progettazione interna.
Orbene è a dirsi che
se, da un lato, “la liquidazione dei compensi riconosciuti dagli organi giurisdizionali ai progettisti è stata regolamentata dal Ministro della giustizia, in esecuzione di quanto previsto dall’art. 9, comma 2, mediante decreto 20.07.2012, n. 140 (c.d. “decreto parametri”), dall’altro, per quanto concerne, invece, gli importi da porre a base di gara nell’affidamento dei contratti pubblici di servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, alla quale è connessa la questione del compenso conseguente all’attività di progettazione interna, l’atteso regolamento (“decreto parametri-bis”) non è stato ancora approvato”.
Di qui l’impossibilità di applicare direttamente le tariffe professionali per determinare l’ammontare degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006 –che pur non può ritenersi abrogato per effetto del sopravvenuto art. 9 comma 6 D.L. 1/2012– essendo le stesse utilizzabili, nelle more, ai soli fini della liquidazione delle spese giudiziali.

Nondimeno “gli enti locali, nell’esercizio della propria discrezionalità, individueranno, in via regolamentare, i parametri provvisori da utilizzare come base per calcolare il trenta per cento, da riconoscere ai dipendenti quale incentivo alla progettazione interna. A tal fine, potrebbero essere riproposte provvisoriamente le abrogate tariffe professionali o, in alternativa, essere utilizzati i criteri già elaborati dal Ministero della Giustizia (così Sezione controllo per la Regione Emilia Romagna, cit.) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 04.10.2013 n. 67).

APPALTI SERVIZIL’art. 113 del d.lgs 267/2000 prevede che i servizi pubblici locali di rilevanza economica possano essere gestiti solamente da:
a) soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata direttamente tale attività, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano;
b) imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica, ai sensi del comma 7.
In altre parole, il modello dell’azienda speciale non risulta più utilmente esperibile al fine di gestire direttamente i servizi connessi alla gestione dei rifiuti a vantaggio della collettività, residuando la più limitata possibilità che tali aziende speciali si limitino a svolgere le funzioni di centrali di committenza dell’affidamento dei servizi, funzione consentita e, anzi, incentivata dall’art. 33 del d.lgs. 133/2006; fermo restando, lo si ribadisce, che,
nelle more dell’istituzione degli a.t.o, da parte della Regione o in via surrogatoria da parte del Governo, l’effettiva gestione del ciclo dei rifiuti dovrebbe essere perseguita affidando poi il servizio:
i) o direttamente a soggetto in house (nella forma della società di capitali);
ii) ovvero esternalizzando il servizio a un terzo concessionario.

La modalità di gestione descritta sub i), tuttavia, contrasta con un’ulteriore previsione del vigente assetto normativo, e in particolare con l’art. 9, comma 6, del d.l. 06.07.2012, n. 95.
Tale disposizione prevede che “
E' fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie, e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell'art. 118, della Costituzione” (sulla portata del divieto cfr. la Sezione con del. 21.01.2013, n. 25).
In conclusione, e sempre nelle more dell’individuazione degli a.t.o. da parte della Regione o, in via surrogatoria da parte del Consiglio dei Ministri, ritiene la Sezione che l’unico assetto gestorio idoneo a conciliare il quadro normativo vigente con l’attuale modalità organizzativa del servizio sia quello di esternalizzare, tramite affidamento concorrenziale l’effettivo espletamento del servizio, mantenendo in capo all’azienda speciale operante le sole funzioni, in veste di centrale di committenza, di coordinamento degli affidamenti.

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Il comune espone in punto di fatto di essere ente consorziato dell’azienda speciale Consorzio dei Comuni dei Navigli (di seguito CCN); che detto consorzio è stato costituito ex artt. 114 e 31 DLgs 267/2000, in data 23.05.2000; e che ad esso partecipano, quali detentori di quote del capitale di dotazione e soggetti affidanti il ciclo dei rifiuti (raccolta, trasporto, spazzamento e smaltimento), ventidue Comuni di cui alcuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e altri con popolazione superiore a 5.000 abitanti (per un bacino complessivo superiore ai 30.000 abitanti richiamati dall'art. 14, c. 32, del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito l. 30.07.2010, n. 122, in relazione al divieto di costituzione di società per ogni comune).
Tra ogni Comune e il CCN risulta sottoscritto un contratto di servizio con cui sono stati, tra l'altro, regolamentati i rapporti relativi alla gestione del ciclo dei rifiuti svolto dal CCN medesimo sul territorio comunale.
Il regime giuridico risulta quindi così ricostruibile:
a) gli enti locali sono, ad oggi, i soggetti che hanno conferito, tramite affidamento diretto, il servizio;
b) il CCN è il soggetto erogatore del servizio, in forma di azienda speciale consortile;
c) il CCN, per il materiale svolgimento del servizio, si avvale di appaltatori per la gestione caratteristica, e di propri dipendenti e collaboratori per la gestione amministrativa;
d) il CCN realizza la parte più importante della propria attività con gli enti pubblici che lo controllano e a livello statutario presenta le caratteristiche strutturali (tra cui il controllo analogo a quello esercitato sui propri uffici) richiesto per l’affidamento in house (a partire dalla pronunzia CGE 18.11.1999, C-107/98, Teckal).
Tanto premesso, e rappresentata l’incertezza sulla possibilità che, ai sensi della normativa vigente, singoli Comuni possano oggi procedere autonomamente con affidamenti afferenti al ciclo dei rifiuti, il comune richiede se possa proseguire la gestione del servizio con il delineato assetto, anche in attesa delle determinazioni della Regione in materia di ambiti territoriali ottimali, vale a dire con:
i) l'affidamento del servizio in house providing all'azienda speciale consortile CCN da parte dei Comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti;
ii) l'approvazione di una convenzione in tema di funzioni associate per i Comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti, e conseguente affidamento del servizio in house al CCN;
iii) l'utilizzo della medesima convenzione di cui sopra, ma con meccanismi decisionali dedicati, anche ai fini dell'esercizio del c.d. controllo analogo.
...
Al fine di un corretto inquadramento giuridico della questione occorre scindere le varie problematiche toccate dai quesiti posti dal comune, e contenute in un autentico ginepraio legislativo.
Deve essere premesso che la gestione del ciclo dei rifiuti (raccolta, trasporto, spazzamento e smaltimento) deve considerarsi un servizio pubblico locale, coerentemente con i principi desumibili dalla normativa vigente (tra gli altri, possono essere citati l’art. 23-bis del decreto legge 25.06.2008, n. 112, come convertito dalla legge 06.08.2008, n. 133 e l’art. 25, comma 4, del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito dalla l. 24.03.2012, n. 27).
Peraltro, come ha già avuto modo di ricordare questa Sezione (Lombardia/531/2012/PAR del 17.12.2012), la giurisprudenza ritiene che “la natura del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti è quella di servizio pubblico locale di rilevanza economica in quanto reso direttamente al singolo cittadino, con pagamento da parte dell’utente di una tariffa, obbligatoria per legge, di importo tale da coprire interamente il costo del servizio (cfr. art. 238 d.lgs. n. 152/2006 e, prima, art. 49 d.lgs. n. 22/1997)”.
La natura di tale servizio è stata confermata in tali termini anche dalla giurisprudenza amministrativa (tra altre sentenze, si veda Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1447), nonché da quella, consolidata, dell'Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato.
Questa conclusione non muta anche quando l'Amministrazione, invece della concessione, stipuli un contratto di appalto (rapporto bilaterale, con versamento diretto da parte del committente), sempre che l'attività sia rivolta direttamente all'utenza e quest’ultima sia chiamata a pagare un compenso, o tariffa, per la fruizione del servizio (Consiglio di Stato, Sez. V, 03/05/2012 n. 2537): infatti, secondo tale orientamento “il servizio pubblico locale di rilevanza economica è configurabile anche quando l'amministrazione, invece della concessione, pone in essere un contratto di appalto".
In sintesi, quindi,
i modelli astrattamente esperibili per l’affidamento del servizio di raccolta e gestione del ciclo dei rifiuti risultano a tutt’oggi quelli vigenti per i servizi di rilievo economico, e quindi:
- affidamento del servizio con gara ex art. 30 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nel rispetto dei principi del Trattato di funzionamento dell'Unione Europea;
- affidamento del servizio a società mista con socio operativo, secondo le indicazioni promananti a livello comunitario in materia di partnership tra pubblico e privato (si vedano, al riguardo, le pronunzie della Corte di Giustizia UE 15.10.2009 C-196/08) e recepite dalla giurisprudenza nazionale
(Cons. Stato, Ad. Plen., parere 18.04.2007, n. 456, e decisione del 03.03.2008, n. 456);
- affidamento del servizio a soggetto interamente pubblico in house, senza più alcun termine finale o limite di valore contrattuale: tanto alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 17.07.2012, n. 199, che ha dichiarato illegittimo l’art. 4 del d.l. 13.08.2011, n. 138, convertito nella l. 14.09.2011, n. 148 e in particolare, per quello che in questa sede risulta conferente, del comma 13, che limitava il valore stesso entro i 200.000 euro annui; e del comma 32, lettera a) che individuava il 31.12.2012 quale termine di cessazione degli affidamenti assegnati in assenza di evidenza pubblica. Il tutto, evidentemente, sempre nel rispetto dei requisiti soggettivi (capitale totalmente pubblico, esercizio del controllo analogo sulla società da parte degli enti soci come avviene su un proprio ufficio, più parte dell'attività svolta in relazione al territorio dei comuni soci) individuati dalla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e già richiamati dall'abrogato art. 113, c. 5, lettera c), DLgs 267/2000.
Per quanto concerne gli ambiti territoriali ottimali nella gestione del ciclo dei rifiuti, occorre rilevare che
a partire dall’entrata in vigore dell’art. 200 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, con specifico riferimento alla materia in epigrafe, è stato peraltro previsto che la gestione dei rifiuti urbani sia organizzata sulla base di ambiti territoriali ottimali (a.t.o.).
Tuttavia,
all’interno della Regione Lombardia tali a.t.o. non risultano essere stati istituiti, essendosi la Regione avvalsa ab origine della facoltà, prevista dal comma 7 dello stesso art. 200 del d.lgs. 152/2006 di non individuare gli ambiti, purché il modello adottato rispettasse i principi ispiratori (di concorrenza e liberalizzazione), permanendo quindi in capo al singolo Comune il ruolo di ente concedente, salva la facoltà di associarsi volontariamente ai fini di svolgimento del servizio su base territoriale più ampia.
Il d.l. 1/2012, novellando con un art. 3-bis il d.l. 13.08.2011, n.138, convertito nella legge 14.09.2011, n. 148, ha peraltro disposto che “
A tutela della concorrenza e dell'ambiente, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano organizzano lo svolgimento dei servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei individuati in riferimento a dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del territorio provinciale e tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio, entro il termine del 30.06.2012. Decorso inutilmente il termine indicato, il Consiglio dei Ministri, a tutela dell'unità giuridica ed economica, esercita i poteri sostitutivi di cui all'art. 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, in riferimento a dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del territorio provinciale e tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio”.
Tuttavia,
a tutt’oggi la Regione non ha ancora assunto determinazioni sul punto, né il Consiglio dei Ministri, a tutela dell'unità giuridica ed economica, ha provveduto in forza dei poteri sostitutivi di cui all'articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131.
Ulteriore profilo che deve essere scrutinato dalla Sezione è l’influenza sul quadro normativo sopra descritto del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito nella legge 07.08.2012, n. 135.
L'art. 19, comma 1, della legge in commento, infatti, novellando l’articolo 14 del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, e successive modificazioni,
individua, tra le funzioni fondamentali dei comuni, alla lettera f), proprio l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani.
Sotto altro aspetto, la successiva novellazione del comma 28 della norma cennata
ormai prevede l’obbligo, per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, di esercitare obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali come sopra elencate.
Ai sensi del delineato quadro normativo,
il livello intercomunale della gestione del servizio di raccolta e gestione dei rifiuti come descritte in epigrafe risultano affatto conformi con l’assetto legislativo vigente, sia pure, ovviamente, in un periodo transitorio.
Resta ferma, infatti, la possibilità che in sede di definizione degli a.t.o. sia configurata una struttura territoriale parzialmente difforme, con il conseguente obbligo di adeguamento anche da parte dei comuni associati.
Se, per quanto riguarda il livello di gestione dei servizi si ha già avuto modo di apprezzare la sostanziale legittimità dell’assetto descritto, per quanto concerne il modulo organizzativo prescelto (azienda speciale) occorre pur tuttavia prendere atto del dato che
l’art. 113 del d.lgs 267/2000, più volte novellato, prevede che i servizi pubblici locali di rilevanza economica, come sopra descritti, possano essere gestiti solamente da:
a) soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata direttamente tale attività, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano;
b) imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica, ai sensi del comma 7.

In altre parole,
il modello dell’azienda speciale non risulta più utilmente esperibile al fine di gestire direttamente i servizi connessi alla gestione dei rifiuti a vantaggio della collettività, residuando la più limitata possibilità che tali aziende speciali si limitino a svolgere le funzioni di centrali di committenza dell’affidamento dei servizi, funzione consentita e, anzi, incentivata dall’art. 33 del d.lgs. 133/2006; fermo restando, lo si ribadisce, che, nelle more dell’istituzione degli a.t.o, da parte della Regione o in via surrogatoria da parte del Governo, l’effettiva gestione del ciclo dei rifiuti dovrebbe essere perseguita affidando poi il servizio:
i) o direttamente a soggetto in house (nella forma della società di capitali);
ii) ovvero esternalizzando il servizio a un terzo concessionario.

La modalità di gestione descritta sub i), tuttavia, contrasta con un’ulteriore previsione del vigente assetto normativo, e in particolare con l’art. 9, comma 6, del d.l. 06.07.2012, n. 95.
Tale disposizione prevede che “
E' fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie, e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell'art. 118, della Costituzione” (sulla portata del divieto cfr. la Sezione con del. 21.01.2013, n. 25).
In conclusione, e
sempre nelle more dell’individuazione degli a.t.o. da parte della Regione o, in via surrogatoria da parte del Consiglio dei Ministri, ritiene la Sezione che l’unico assetto gestorio idoneo a conciliare il quadro normativo vigente con l’attuale modalità organizzativa del servizio sia quello di esternalizzare, tramite affidamento concorrenziale l’effettivo espletamento del servizio, mantenendo in capo all’azienda speciale operante le sole funzioni, in veste di centrale di committenza, di coordinamento degli affidamenti (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 02.09.2013 n. 362).

INCENTIVO PROGETTAZIONECiò che rileva ai fini dell’applicazione della nuova disciplina, piuttosto che della previgente, è il tempo in cui sorge l’obbligazione con la quale nasce l’obbligo di corrispondere l’incentivo in capo all’ente, ed il conseguente diritto di riceverlo per il dipendente.
Tale circostanza viene identificata con il momento in cui “siano state compiute le varie attività che legittimano la corresponsione dell’incentivo, (attività procedimentali amministrative, progettazione, collaudo, collaborazioni etc..) con le quali rimangano fissate, in maniera in-tangibile, da un lato, la somma da ripartire e, dall’altro, la misura del beneficio, così come le stesse sono state determinate in base ai meccanismi previsti dalla norma stessa (modalità e criteri della ripartizione previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento).
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia retroattiva.… Ciò perché, ai fini della nascita del diritto, quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta.

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Il Sindaco del Comune di Toritto chiede a questa Sezione un parere in ordine alla successione nel tempo di disposizioni legislative concernenti la misura degli incentivi alla progettazione.
Espone, infatti, l’Ente che tale misura, inizialmente prevista al “2% dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro” dall’art. 92 d.lgs. n. 163/2006, era stata dapprima ridotta allo 0.5%, con decorrenza 01.01.2009, dall’art. 61, comma 8, del d.l. n. 112/2208 (convertito in legge n. 133/2208) e poi riportato al 2%, con decorrenza 24.11.2010, dalla legge n. 183/2010, che ha abrogato il citato art. 61.
Il Sindaco riferisce che, al momento, presso il Comune –in assenza di chiarimenti in merito– si sta seguendo il criterio secondo cui per le prestazioni (progettazione, direzione lavori, collaborazione amministrativa, responsabilità del procedimento) eseguite in parte prima del 24.11.2010 (facendo riferimento all’importo dei lavori contabilizzato entro quella data) ed in parte dopo, viene riconosciuto lo 0,5% per la quota parte antecedente, ed il 2% per la parte successiva a tale data.
Tale criterio, tuttavia, risulta contestato da un dipendente del Comune istante, destinatario dell’incentivo.
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In detta ottica giova ricordare che dubbi ermeneutici analoghi a quelli oggi posti dall’ente istante sono stati affrontati e risolti -in occasione dell’introduzione del citato art. 61 d.l. n. 112/2208 (convertito in legge n. 133/2208), che portò la percentuale dal 2 allo 0,5%- dalla Sezione Autonomie di questa Corte.
Essa, con
deliberazione 08.05.2009 n. 7/AUT/2009/QMIG, discostandosi dall’interpretazione della Sezione regionale Lombardia n. 40 citata nella richiesta di parere, ha in tale occasione richiamato un principio di diritto che può essere adoperato anche ai fini della risoluzione del quesito di cui trattasi, nei termini di seguito esposti: ciò che rileva ai fini dell’applicazione della nuova disciplina, piuttosto che della previgente, è il tempo in cui sorge l’obbligazione con la quale nasce l’obbligo di corrispondere l’incentivo in capo all’ente, ed il conseguente diritto di riceverlo per il dipendente; tale circostanza viene identificata con il momento in cui “siano state compiute le varie attività che legittimano la corresponsione dell’incentivo, (attività procedimentali amministrative, progettazione, collaudo, collaborazioni etc..) con le quali rimangano fissate, in maniera in-tangibile, da un lato, la somma da ripartire e, dall’altro, la misura del beneficio, così come le stesse sono state determinate in base ai meccanismi previsti dalla norma stessa (modalità e criteri della ripartizione previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento)… In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna efficacia retroattiva.… Ciò perché, ai fini della nascita del diritto, quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta”.
Tale principio, consolidato nell’interpretazione di numerose deliberazioni delle Sezioni regionali (ex pluribus cfr. Sezione Campania, Parere n. 44 del 22.12.2009), compresa la Scrivente Sezione regionale Puglia (Parere n. 49 del 20.05.2009), è stato da ultimo ribadito proprio in occasione dell’ulteriore, descritta, successione di leggi nel tempo che ha, nel recente 2010, riportato il valore di riferimento al 2% (Sezione regionale Toscana,
parere 13.03.2012 n. 35).
La scrivente Sezione, con
parere 01.07.2009 n. 60, ha peraltro ulteriormente argomentato nel senso che segue: “La necessità di coniugare le imprescindibili esigenze di contenimento della spesa pubblica con l’indubbia rilevanza del momento in cui l’attività da remunerare è effettivamente svolta impone l’utilizzo di una tesi, per così dire, sincretista. Occorrerà cioè considerare attività effettivamente realizzata prima dell'01.01.2009 ogni singola fase del complesso procedimento relativo alla realizzazione di un’opera pubblica (lavoro o fornitura) avente una propria individualità ed autonomia. In altre parole, se prima dell’inizio del 2009 risulterà conclusa la fase della progettazione, ma non ancora iniziata, ad esempio, quella del collaudo, nulla vieterà di sottoporre il computo della misura incentivante alla disciplina previgente, per quanto attiene la remunerazione della pro-gettazione, ed a quella nuova la fase attinente il collaudo, interamente svolta, in quanto tale, sotto la vigenza della nuova norma. Occorre, infatti, considerare che, se è vero che ai fini della nascita di quello che è un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (il diritto all’incentivo), come chiarito dalla Suprema Corte (Cass. Sez. lav. n. 13384 19.07.2004), ciò che rileva è il compimento effettivo dell’attività, è anche vero che, per le prestazioni di durata dovrà considerarsi la singola frazione temporale di attività compiuta” (nel medesimo senso, cfr. Sezione Veneto, parere 21.05.2009 n. 79) (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 09.11.2012 n. 107).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’utilizzo avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse, e non uti singuli.
Del pari, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone, oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l’asservimento del bene da parte del proprietario all’uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.

Ebbene, ritiene il Collegio che la tesi dell’amministrazione sia condivisibile, atteso che, in particolare, non risulta dimostrato che la strada in questione (vicolo della Valle) sia privata, e sussistendo, invece, precisi indici rivelatori circa l’esistenza di una servitù di passaggio iure pubblico su detta via.
Un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’utilizzo avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse, e non uti singuli (Cons. Stato sez. V 14.02.2012 n. 728).
Del pari, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare come l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone (Cons. Stato Sez. V 07.12.2010 n. 8624), oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l’asservimento del bene da parte del proprietario all’uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (Cass. Civile Sez. II 21.05.2001 n. 6924) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2013 n. 5116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse».

La giurisprudenza di questo Consiglio, cui la Sezione aderisce, è costante nel ritenere che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l’interessato può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi» (Cons. Stato, sez. VI, 31.05.2013, n. 3010; 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse» (Cons. Stato, sez. VI, n. 3010 del 2013; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592).
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione ha descritto le opere realizzate indicando le ragioni della loro abusività. La motivazione posta a base del provvedimento sanzionatorio è, pertanto, esente dai vizi denunciati, non dovendo essere esternate le ragioni di pubblico interesse che giustificherebbero l’applicazione della sanzione in esame.
Né si dovrebbe pervenire ad un risultato diverso in ragione della particolare “provenienza” della denunzia dell’illecito, in quanto rientra negli ordinari meccanismi procedimentali e processuali di identificazione delle posizioni legittimanti che il terzo denunciante sia portatore di un proprio interesse senza che ciò imponga l’adozione di motivazioni più pregnanti da parte dell’amministrazione. La circostanza, poi, che il Tar abbia disposto un’istruttoria, in ragione del suo generico contenuto, non ha alcuna rilevanza ai fini della presente decisione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.10.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 34 del dPR 06.06.2001, n. 380 prevede che, in caso di opere eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordine di demolizione non può essere adottato nel caso in cui il ripristino dello stato dei luoghi non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
La norma non contempla, quale requisito di legittimità del provvedimento, anche l’incidenza di sopravvenienze di fatto o di diritto sulla esecuzione concreta dell’ordine di demolizione. Qualora, infatti, l’amministrazione accerti in concreto che non sia possibile detta esecuzione, per tali sopravvenienze, adotterà i provvedimenti consequenziali che tengano conto della situazione attuale.

L’art. 34 del decreto del Presidente della Repubblica, 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, in caso di opere eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordine di demolizione non può essere adottato nel caso in cui il ripristino dello stato dei luoghi non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità. La norma non contempla, quale requisito di legittimità del provvedimento, anche l’incidenza di sopravvenienze di fatto o di diritto sulla esecuzione concreta dell’ordine di demolizione. Qualora, infatti, l’amministrazione accerti in concreto che non sia possibile detta esecuzione, per tali sopravvenienze, adotterà i provvedimenti consequenziali che tengano conto della situazione attuale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.10.2013 n. 5088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'autorità statale preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ben può tenere conto del significativo mutamento del quadro normativo, in ordine ai suoi poteri da esercitare nel corso del procedimento di valutazione di una domanda volta ad ottenere un titolo abilitativo paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Tale mutato quadro normativo comporta che la Soprintendenza possa esprimere tale valutazione, anche se per un precedente e corrispondente progetto essa abbia ritenuto insussistenti i presupposti per annullare (sulla base del diverso quadro normativo) l’autorizzazione già rilasciata.
In definitiva, il decorso del termine di efficacia dell’originaria autorizzazione paesaggistica –non dovuto, tra l’altro, a ritardi amministrativi ma a una libera scelta della parte appellata– ha determinato il mutamento del contesto normativo, con il conseguente legittimo mutamento anche del contenuto delle determinazioni amministrative adottate.

Sotto tale profilo, va richiamato l’orientamento di questo Consiglio (Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129), per il quale l’autorità statale preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ben può tenere conto del significativo mutamento del quadro normativo, in ordine ai suoi poteri da esercitare nel corso del procedimento di valutazione di una domanda volta ad ottenere un titolo abilitativo paesaggistico.
Ed infatti con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Tale mutato quadro normativo comporta che la Soprintendenza possa esprimere tale valutazione, anche se per un precedente e corrispondente progetto essa abbia ritenuto insussistenti i presupposti per annullare (sulla base del diverso quadro normativo) l’autorizzazione già rilasciata.
In definitiva, il decorso del termine di efficacia dell’originaria autorizzazione paesaggistica –non dovuto, tra l’altro, a ritardi amministrativi ma a una libera scelta della parte appellata– ha determinato il mutamento del contesto normativo, con il conseguente legittimo mutamento anche del contenuto delle determinazioni amministrative adottate.
Non esiste, pertanto, alcuna incoerenza o contraddittorietà tra atti posti essere dalla stessa amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.10.2013 n. 5082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Atti di trasferimento immobiliare - Vendita di immobile urbanisticamente irregolare - Nullità di un contratto preliminare.
Deve essere affermata la nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il fatto che l'art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 e s.m., faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia reale immediata, mentre il contratto preliminare di cui si discute abbia efficacia semplicemente obbligatoria non elimina dal punto di vista logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo per contrarietà alla legge (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.10.2013 n. 23591 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza sindacale che vieta ai proprietari ed accompagnatori di cani l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini pubblici del territorio comunale.
Ed invero, l’atto adottato dal sindaco, nella parte oggetto di gravame, risulta eccessivamente limitativo della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posto in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente soddisfatto dal punto 3 della medesima ordinanza, con cui si impone agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 65 del 26.09.2012 emessa dal Sindaco del Comune di Oppido Lucano, relativamente al punto n. 1 nella sola parte in cui vieta l'ingresso dei cani nei giardini pubblici comunali.
...
L’associazione ricorrente Earth -la cui finalità è quella di “tutelare con ogni mezzo legittimo, ivi compreso il ricorso allo strumento giudiziario, la salvaguardia del patrimonio faunistico e ambientale con particolare riguardo alla biodiversità” perseguendo tali finalità, tra l’altro, attraverso “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, del patrimonio storico, artistico e naturale” e “la promozione del riconoscimento dei diritti soggettivi di tutti gli animali” (cfr. art. 2 dello Statuto)- ha impugnato l’ordinanza del sindaco del Comune di Oppido Lucano indicata in epigrafe nella sola parte in cui vieta ai proprietari ed accompagnatori di cani l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini pubblici del territorio comunale, adottata al fine di evitare che le deiezioni canine insudicino detti spazi provocando disagio e rischio per la cittadinanza (in particolare per bambini, non vedenti e anziani), sotto il profilo igienico-sanitario.
Il ricorso è fondato e va accolto nei sensi e limiti che seguono.
Il provvedimento impugnato, nella parte in cui impone il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a giardini pubblici, è illegittimo per le ragioni già evidenziate in sede cautelare.
Ed invero, l’atto adottato dal sindaco del Comune di Oppido Lucano, nella parte oggetto di gravame, risulta eccessivamente limitativo della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posto in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall’Ente locale di mantenere il decoro e l’igiene pubblica è già adeguatamente soddisfatto dal punto 3 della medesima ordinanza, con cui si impone agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all’uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati (cfr., in termini, TAR Puglia, Lecce, 28/03/13 n. 732).
Per tali motivi va annullata l’ordinanza impugnata nella sola parte in cui vieta ai proprietari ed accompagnatori di cani l’accesso, con i propri animali, a tutti i giardini pubblici del territorio comunale (TAR Basilicata, sentenza 17.10.2013 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di edilizia, il potere inibitorio previsto dall'art. 23, comma 6, T.U. 06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio di trenta giorni, potendo successivamente essere emanati soltanto provvedimenti d'autotutela e sanzionatori, in quanto alla scadenza del detto termine matura l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati e indicati nella denuncia di inizio attività, restando fermo al contempo il potere dell'Amministrazione comunale di provvedere non più con provvedimento inibitorio ma con provvedimento sanzionatorio di tipo ripristinatorio o pecuniario, in base alla normativa che disciplina la repressione degli abusi edilizi.
Come di recente ripetuto (cfr. TAR Molise, 19.04.2013, n. 282), in tema di edilizia, il potere inibitorio previsto dall'art. 23, comma 6, T.U. 06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio di trenta giorni, potendo successivamente essere emanati soltanto provvedimenti d'autotutela e sanzionatori, in quanto alla scadenza del detto termine matura l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati e indicati nella denuncia di inizio attività, restando fermo al contempo il potere dell'Amministrazione comunale di provvedere non più con provvedimento inibitorio ma con provvedimento sanzionatorio di tipo ripristinatorio o pecuniario, in base alla normativa che disciplina la repressione degli abusi edilizi (cfr. Cons. Stato, II Sezione, 17.10.2007 n. 1698, IV Sezione, 22.07.2005 n. 3916 e TAR Napoli, Sez. II, 27.06.2005 n. 8707) (TAR Basilicata, sentenza 17.10.2013 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Spetta al tecnico laureato, e non diplomato, l'incarico comunale inteso a rimodulare una significativa area comunale, sia sotto il profilo viario, che con riferimento ad insediamenti artigianali, nonché determinare le fasce di rispetto che si sostanziano nella individuazione delle distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
La competenza professionale dei geometri, a mente dell’art. 16 del RD 274/1929 non comprende, invero, la progettazione urbanistica, ma, di contro, neppure gli art. 51 e 52 del RD 23.10.1925 n. 2537 (regolamento delle professioni di ingegnere e architetto) prevedono esplicitamente tale esclusiva competenza in capo ai professionisti laureati.
Ciò perché il problema della progettazione urbanistica si è posto solo con l'introduzione del piano regolatore generale (art. 7 della legge 1150/1942), che al proprio interno prevede, sia la zonizzazione del territorio, sia la localizzazione di opere pubbliche.
La giurisprudenza che ha affrontato la questione ha ritenuto di dover distinguere le evenienze affidate legittimamente al professionista diplomato secondo il grado obiettivo di difficoltà della concreta progettazione urbanistica.
Mentre infatti la redazione di uno strumento di programmazione generale è un'attività complessa che richiede sicuramente adeguate ed approfondite conoscenze tecniche collegate certamente al grado di preparazione di ingegneri e architetti (e urbanisti), come confermato dall'art. 5, comma 1, lett. c), della legge 02.03.1949 n. 143 (tariffa professionale di ingegneri e architetti), nella ipotesi di varianti semplificate è però necessario distinguere a seconda del contenuto e della complessità dell’intervento professionale.
Invero, è stato affermato che “… se la variante semplificata ha finalità solo localizzative (ossia riguarda l'inserimento o lo spostamento di un'opera pubblica all'interno di un quadro urbanistico già definito) la complessità delle valutazioni tecniche è molto minore e non giustifica la riserva a favore dei professionisti laureati …”.
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Nel caso in questione, la disamina degli atti prodotti evidenzia che l’incarico professionale affidato al geometra è consistito nella individuazione di tratti di strada per il collegamento viario di una zona produttiva e nella ridistribuzione della stessa area artigianale al fine di razionalizzarne l’uso, nonché della nuova individuazione della fascia di massima tutela.
In altre parole il comune ha inteso rimodulare una significativa area comunale, sia sotto il profilo viario, che con riferimento ad insediamenti artigianali, nonché determinare le fasce di rispetto che si sostanziano nella individuazione delle distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
In buona sostanza, quindi, l’incarico riguarda un’attività professionale che richiede e necessita per il suo esatto adempimento adeguate e complesse cognizioni tecniche che non possono certo limitarsi a quelle proprie del tecnico diplomato.
Si è trattato, quindi, di incarico complesso ed articolato che ha richiesto sinanche i pareri del Genio civile e della ULSS.
Tale articolata e complessa attività professionale avrebbe dovuto, quindi, essere necessariamente affidata ad un tecnico laureato né, di contro, è sufficiente una non corretta, ovvero elusiva rappresentazione definitoria per alterare la sostanza dell’intervento così da utilizzare professionalità normativamente non adeguate.
Ritiene il Collegio, per ragioni di economia processuale, opportuno esaminare per primo il ricorso rubricato al n. 500/1999 con il quale il Consiglio dell’Ordine degli architetti della Provincia di Treviso ha censurato la delibera di giunta del comune di Crocetta del Montello - (Tv) n. 238 del 1998, pubblicata nell’Albo Pretorio il 17.12.1998, con la quale è stata adottata la variante cartografica al PRG per la sistemazione della zona artigianale D.1.1., ed affidato, all’attuale controinteressato, l’incarico per la redazione tecnica del progetto.
Il ricorrente, ente pubblico associativo a partecipazione necessaria, esponenziali della particolare categoria professionale, è legittimato ed ha interesse al ricorso.
Sostiene il ricorrente che l’originario affidamento per la realizzazione degli elaborati tecnici relativi alla variante parziale al PRG per la sistemazione della zona artigianale D.1.1. ad un geometra contrasterebbe con l’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, che puntualmente precisa le competenze per tale categoria professionale.
In buona sostanza il ricorrente rileva che i geometri sono, ai sensi della legge professionale, competenti per la progettazione di manufatti e nelle connesse attività di vigilanza e direzione, soltanto se di modesta valenza, ossia attività che non implicano soluzioni di problemi tecnici di significativa rilevanza, come quello affidato ed in questa sede censurato.
Osserva il Collegio.
La competenza professionale dei geometri, a mente dell’art. 16 del RD 274/1929 non comprende, invero, la progettazione urbanistica, ma, di contro, neppure gli art. 51 e 52 del RD 23.10.1925 n. 2537 (regolamento delle professioni di ingegnere e architetto) prevedono esplicitamente tale esclusiva competenza in capo ai professionisti laureati.
Ciò perché il problema della progettazione urbanistica si è posto solo con l'introduzione del piano regolatore generale (art. 7 della legge 1150/1942), che al proprio interno prevede, sia la zonizzazione del territorio, sia la localizzazione di opere pubbliche.
La giurisprudenza che ha affrontato la questione ha ritenuto di dover distinguere le evenienze affidate legittimamente al professionista diplomato secondo il grado obiettivo di difficoltà della concreta progettazione urbanistica.
Mentre infatti la redazione di uno strumento di programmazione generale è un'attività complessa che richiede sicuramente adeguate ed approfondite conoscenze tecniche collegate certamente al grado di preparazione di ingegneri e architetti (e urbanisti), come confermato dall'art. 5, comma 1, lett. c), della legge 02.03.1949 n. 143 (tariffa professionale di ingegneri e architetti), nella ipotesi di varianti semplificate è però necessario distinguere a seconda del contenuto e della complessità dell’intervento professionale.
… se la variante semplificata ha finalità solo localizzative (ossia riguarda l'inserimento o lo spostamento di un'opera pubblica all'interno di un quadro urbanistico già definito) la complessità delle valutazioni tecniche è molto minore e non giustifica la riserva a favore dei professionisti laureati …” (TAR Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 22.02.2010, n. 864).
Nel caso di specie l’incarico è stato definito dall’organo comunale come mera variante cartografica, le cui modifiche costituiscono prestazioni tecniche elementari che non alterano lo strumento urbanistico.
In realtà, più che limitarsi alla mera definizione formale relativa all’incarico, così come rappresentata dalla resistente, è necessario, invece, valutare quello che concretamente risulta essere stato affidato in sede di incarico professionale.
Nel caso in questione, la disamina degli atti prodotti evidenzia che l’incarico professionale affidato al geometra è consistito nella individuazione di tratti di strada per il collegamento viario di una zona produttiva e nella ridistribuzione della stessa area artigianale al fine di razionalizzarne l’uso, nonché della nuova individuazione della fascia di massima tutela.
In altre parole il comune ha inteso rimodulare una significativa area comunale, sia sotto il profilo viario, che con riferimento ad insediamenti artigianali, nonché determinare le fasce di rispetto che si sostanziano nella individuazione delle distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
In buona sostanza, quindi, l’incarico riguarda un’attività professionale che richiede e necessita per il suo esatto adempimento adeguate e complesse cognizioni tecniche che non possono certo limitarsi a quelle proprie del tecnico diplomato.
Si è trattato, quindi, di incarico complesso ed articolato che ha richiesto sinanche i pareri del Genio civile e della ULSS.
Tale articolata e complessa attività professionale avrebbe dovuto, quindi, essere necessariamente affidata ad un tecnico laureato né, di contro, è sufficiente una non corretta, ovvero elusiva rappresentazione definitoria per alterare la sostanza dell’intervento così da utilizzare professionalità normativamente non adeguate.
Per tali motivi il provvedimento impugnato deve essere annullato.
Successivamente il ricorrente ha anche impugnato, sia la delibera del Consiglio comunale n. 14 del 15.02.1999 di approvazione (rectius adozione) variante cartografica al PRG per la sistemazione della zona artigianale D 1.1, nei termini formulati dalla delibera di giunta già cassata, che la determina dirigenziale, n. 305 del 31.12.1998, con allegata convenzione, con la quale è stato affidato al geometra Gianpaolo Bressan l’incarico per la redazione della variante.
Tali ulteriori provvedimenti, costituiscono, all’evidenza, la necessaria e diretta conseguenza dell’atto di giunta, come detto, già annullato dal Collegio.
Nel caso in questione emerge, dall’obiettivo dato fattuale, un chiaro, palese, stretto ed inscindibile legame logico-giuridico che cementa tra loro gli atti censurati e consente di rilevare che la cassazione dell’atto presupposto assume significativa valenza anche e, soprattutto, nei confronti di tali atti che dal primo ricavano la loro ragione esistenziale.
Si può dire che il rapporto tra tutti gli atti in sequenza, in questa sede censurati, evidenzia una loro relazione diretta e necessaria, nel senso che i secondi costituiscono il naturale sviluppo e completamento del primo, anche perché la loro adozione non ha comportato alcuna valutazione di nuovi ed ulteriori interessi rispetto a quelli originariamente scrutinati con il provvedimento presupposto.
Quindi, nel caso di specie, la proposizione di una autonomo ricorso, consente solo di ravvisare, senz’altro e senza ulteriori disamine, la chiare ed univoca manifestazione di interesse alla caducazione dei diversi e successivi atti, atteso che il riferito legale teleologico-funzione comporta, necessariamente, che all’annullamento dell’atto presupposto conseguano affetti imprescindibili ed automatici anche per gli atti conseguenti e connessi al primo.
In altri termini il riconosciuto vizio dell’atto presupposto si ripercuote, per i motivi sopra indicati, sull’atto/i presupponente/i proprio in virtù del vincolo che lega gli stessi, per cui il venir meno dell’atto originario ha un effetto travolgente, proprio dell’invalidità derivata, di quelli a valle nei termini propri dell’invalidità ad effetto caducante, considerato che gli atti in esame hanno la loro unica ragione nel genetico collegamento con quello annullato (Con. St., sez. V, 07.02.2000, 672).
Ne consegue che l’eliminazione automatica di tali atti dal mondo giuridico rende il ricorso conseguentemente proposto improcedibile in conseguenza della sopravvenuta carenza di interesse, atteso che l’annullamento dell’originario provvedimento travolge automaticamente quelli conseguenti che ripetono dal primo, come nel caso di specie, l’imprescindibile presupposto della loro esistenza, costituendo gli stessi una evenienza meramente confermativa della originaria determinazione ormai cassata (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 1171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico (inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
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Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico.
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Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini (mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione.

... per l’annullamento: - a) del diniego di cui alla nota, prot. n. 2800 del 30.01.2012, successivamente comunicato, a firma congiunta del Responsabile del Servizio Sportello Unico Edilizia Privata e del Responsabile del Settore 4° del Comune di Pontecagnano Faiano, con il quale è stata respinta l’istanza di permesso di costruire per l’ampliamento, ai sensi dell’art. 4 della l. r., n. 19/09 e ss. mm. ii., di un fabbricato sito alla via Veneto;
...
La ricorrente, quale proprietaria esclusiva, in virtù di atto di donazione, rep. n. 19595, racc. 6376 dell’01.02.1979, di un sottotetto, sito alla via Veneto n. 12 del Comune di Pontecagnano Faiano, distinto in catasto al foglio 7, p.lla n. 771, rappresentava che, in data 20.07.2010, in considerazione del regime di favore, introdotto dalla l.r. Campania n. 19/2009, aveva depositato apposita istanza (prot. n. 20509), ai fini dell’ampliamento e del cambio di destinazione d’uso del predetto sottotetto in abitazione; che, in esito al prescritto iter, il Comune di Pontecagnano Faiano, con nota del 19.09.2011, le aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza; in particolare, era stata evidenziata la necessità di acquisire:
a) “l’autorizzazione esplicita, espressa nelle forme di legge, della parte rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato (...)”;
b) “l’autorizzazione esplicita (...) della proprietà dell’intero fabbricato in aderenza”;
che, nei termini di cui all’art. 10 bis, aveva depositato un’articolata memoria, con la quale aveva evidenziato che:
   a) ai sensi dell’art. 1127 c. c., il parere degli altri condomini alla sopraelevazione non sarebbe stato necessario, essendo la stessa espressamente consentita dalla predetta disposizione normativa;
   b) aveva comprovato il pieno diritto ad effettuare costruzioni in sopraelevazione, come da titolo di proprietà;
   c) aveva fornito elaborati grafici, dai quali s’evinceva che l’intervento proposto non alterava l’aspetto architettonico dell’immobile;
   d) aveva evidenziato che il fabbricato era stato realizzato, in aderenza a quello limitrofo; pertanto, non sarebbe stato necessario alcun ulteriore atto di assenso dei proprietari dell’immobile in aderenza; lamentava che la P. A., senza tener conto dell’esatta portata di detta memoria, aveva comunque respinto l’istanza; avverso detto provvedimento articolava, pertanto, le seguenti censure: ...
...
Va poi precisato che ai sensi dell’art. 1127 cod. civ. il diritto del proprietario dell’ultimo piano alla sopraelevazione incontra tre limiti:
- le condizioni statiche dell’edificio devono consentire la sopraelevazione: trattasi di divieto assoluto, cui è possibile ovviare se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo l’edificio a sopportare il peso della nuova costruzione;
- non deve esserci pregiudizio dell’aspetto architettonico (inteso come stile architettonico dell’edificio);
- non deve determinarsi una notevole diminuzione di aria e di luce per i piani sottostanti: sia il limite precedente che il presente sono limiti per i quali è prevista l’opposizione facoltativa dei singoli condomini controinteressati.
Né opera il richiamato principio della prevenzione in quanto secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione “in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione; ne consegue l’applicazione della normativa vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata, al momento della sopraelevazione” (Cass. 11.06.2008 n. 15572; 03/01/2011 n. 74).
In conformità a tali considerazioni, e tenute altresì presenti la argomentazioni esposte nella memoria difensiva del controinteressato S.A., diffusamente riportate in narrativa, osserva il Tribunale come, diversamente da quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso, il diritto alla sopraelevazione attribuito al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio non è assoluto, ma incontra “tre limiti, dei quali il primo (le condizioni statiche) introduce un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione, mentre gli altri due limiti (il pregiudizio delle linee architettoniche e la diminuzione di aria e di luce) presuppongono l’opposizione facoltativa dei singoli condomini interessati”.
Prescindendo per il momento da tali ultimi due limiti, è indubbio che nella specie manca il consenso della parte rimanente dell’assetto proprietario dell’intero fabbricato, necessario in vista del conseguimento dell’autorizzazione all’esecuzione delle opere di rafforzamento e consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso dell’intera costruzione, e tanto per l’opposizione del condomino Scalea Antonio, comproprietario del secondo piano del’edificio de quo.
Si tenga altresì presente che, come opportunamente rilevato da S.A. nello scritto difensivo in atti: “Il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2, c. c., va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture son tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica. Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico” (Cassazione civile – Sez. II, 30.05.2012, n. 8643).
Nella specie, trattandosi di zona sismica, ed attesa la natura integrativa dell’art. 1127 cpv. cod. civ., ascritta alle leggi antisismiche, il consenso unanime dei condomini (mancante nella specie) avrebbe dovuto esercitarsi per l’appunto sulle particolari cautele da adottarsi, nella sopraelevazione, per la prevenzione del rischio in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl principio codificato dall’art. 11, commi 2 e 3, t.u. 06.06.2001 n. 380, secondo cui i permessi di costruire devono intendersi rilasciati con salvezza dei diritti di terzi , al fine di non pregiudicare eventuali posizioni soggettive di terzi confliggenti con quanto assentito, non esclude che il loro rilascio richieda una valutazione della sussistenza dei presupposti urbanistico–edilizi, e in generale pubblicistici, della trasformazione del territorio richiesta.
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In base ad un principio generale in materia, le autorizzazioni amministrative sono sempre rilasciate dall’Amministrazione con l’apposizione della clausola della salvezza dei diritti dei terzi, ne consegue che la stessa Amministrazione non è tenuta ad effettuare una puntuale verifica in ordine al contenuto specifico del titolo giuridico sulla base del quale la richiesta di rilascio dell’autorizzazione è stata effettuata, essendo rimesse alla competenza del giudice ordinario le eventuali questioni interpretative eventualmente sorte al riguardo tra le parti private.
Da ciò non consegue altresì che nel caso in cui il proprietario del locale nel quale l’attività da autorizzare debba svolgersi, intervenga nel relativo procedimento, manifestando motivatamente la propria opposizione al rilascio del titolo autorizzatorio richiesto l’Amministrazione debba ignorare la detta circostanza, procedendo comunque al rilascio dello stesso.
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Non è rispettata la condizione prevista dal rilascio delle concessione edilizia della salvezza dei diritti dei terzi, nel caso in cui si sia proceduto all’intervento invasivo della proprietà altrui e pregiudizievole per la statica ed il libero godimento da parte del proprietario.

Non può quindi sottoscriversi la convinzione espressa da parte ricorrente, secondo cui: “In ogni caso, l’eventuale autorizzazione, da parte di terzi, sarebbe stata una circostanza estranea ai poteri istruttori della P.A., attenendo all’aspetto privatistico, ed essendo il titolo edilizio rilasciato, con piena salvezza dei diritti dei terzi”.
Si consideri, in contrario, che: “Il principio codificato dall’art. 11, commi 2 e 3, t.u. 06.06.2001 n. 380, secondo cui i permessi di costruire devono intendersi rilasciati con salvezza dei diritti di terzi , al fine di non pregiudicare eventuali posizioni soggettive di terzi confliggenti con quanto assentito, non esclude che il loro rilascio richieda una valutazione della sussistenza dei presupposti urbanistico–edilizi, e in generale pubblicistici, della trasformazione del territorio richiesta” (TAR Umbria – Sez. I, 05.09.2011, n. 290); che: “In base ad un principio generale in materia, le autorizzazioni amministrative sono sempre rilasciate dall’Amministrazione con l’apposizione della clausola della salvezza dei diritti dei terzi, ne consegue che la stessa Amministrazione non è tenuta ad effettuare una puntuale verifica in ordine al contenuto specifico del titolo giuridico sulla base del quale la richiesta di rilascio dell’autorizzazione è stata effettuata, essendo rimesse alla competenza del giudice ordinario le eventuali questioni interpretative eventualmente sorte al riguardo tra le parti private. Da ciò non consegue altresì che nel caso in cui il proprietario del locale nel quale l’attività da autorizzare debba svolgersi, intervenga nel relativo procedimento, manifestando motivatamente la propria opposizione al rilascio del titolo autorizzatorio richiesto l’Amministrazione debba ignorare la detta circostanza, procedendo comunque al rilascio dello stesso” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 09.05.2011, n. 3987); e che: “Non è rispettata la condizione prevista dal rilascio delle concessione edilizia della salvezza dei diritti dei terzi, nel caso in cui si sia proceduto all’intervento invasivo della proprietà altrui e pregiudizievole per la statica ed il libero godimento da parte del proprietario” (Consiglio Stato – Sez. V, 10.04.2002, n. 1970).
Si consideri, del resto, che, come osservato dalla difesa del Comune, “al fine di raggiungere il requisito del 70% dell’utilizzo dell’intero edificio va calcolata anche la volumetria della proprietà dell’altro condomino, del quale quindi va acquisito il consenso, mancante nel caso di specie”.
Ma non basta, perché, sempre come rilevato dalla difesa dell’ente, il fabbricato oggetto di intervento risulta in aderenza ad altro di proprietà aliena e che, con l’ampliamento previsto, si modifica la “sagoma di aderenza” in ampliamento.
Pertanto in ossequio all’art. 3, punto 16), del vigente Regolamento Edilizio Comunale (REC) “In caso di proprietà diverse sono ammesse costruzioni in aderenza sul confine di proprietà, nel caso di richiesta presentata congiuntamente”, di richiesta congiunta ovvero di autorizzazione esplicita, espressa nelle forme di legge, della proprietà del detto fabbricato verso il quale viene modificata l’anzidetta aderenza; ma nella specie, con nota prot. 19525/2011, era stata trasmessa all’Ente un’autorizzazione solo di quota parte della proprietà del fabbricato in aderenza (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio.
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze.

Ne risulta confermata la legittimità anche del secondo motivo di diniego, cui non osta l’invocato, da parte ricorrente, criterio della prevenzione.
Si consideri, al riguardo, quanto risulta dalla parte motiva della sentenza del TAR Veneto – Sez. II, dell’11.11.2011, n. 1683: “Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, condivisa dal Collegio, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore) (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.12.2001, n. 6374).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine –come nell'ipotesi dell’art. 18, comma 3, delle N.T.A. vigenti nel Comune di Baone– non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2004, n. 46)
” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Complesso monumentale lasciato in stato di abbandono.
DIRITTO URBANISTICO - Degrado di monumenti per mancanza di manutenzione ordinaria - Responsabilità degli enti pubblici - Configurabilità.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Omissione d'atti d'ufficio - Responsabilità del sindaco e dei dirigente - Fattispecie: violazioni in area sottoposta a specifici vincoli e Ordinanza di rigetto di istanza di archiviazione - Artt. 328, 677 e 733 c.p..

Rispondono ai sensi degli artt. 677 e 733 c.p. dei danneggiamenti strutturali e dei pericoli di crollo che siano stati immediatamente e direttamente causati dalla mancanza di manutenzione ordinaria, l'ente pubblico proprietario del complesso monumentale lasciato in stato di abbandono, al degrado e alla vandalizzazione altrui e altresì tutti coloro che erano tenuti alla conservazione ed alla vigilanza del medesimo bene culturale.
Inoltre, si configura sul sindaco o sul dirigente in suo luogo delegato, la responsabilità ex art. 328 c.p. per avere omesso ogni intervento necessario a scongiurare conclamati pericoli di crollo anche attraverso l'esercizio dei poteri di ordinanza di cui all'art. 54 t.u. enti locali.
Nella specie sul sito oggetto di contestazione gravavano specifici vincoli storico monumentale, paesaggistico, idrogeologico, di inedificabilità assoluta, e di altra natura, per cui gli enti preposti sono tenuti alla manutenzione e conservazione e tutela del bene, nelle persone dei rispettivi responsabili pro tempore (da individuarsi ogni volta in base alla funzione), rispondendo delle violazione di detti vincoli, sia di quelle cagionate direttamente attraverso l'omissioni della cura manutentiva del bene, sia di quelle riconducibili alle condotte arbitrarie di terzi, ma favorite significativamente dal mancato esercizio della doverosa vigilanza.
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Sito vincolato - Abusi edilizi - Conferimento di rifiuti - Totale omissione di vigilanza - Inerzia degli Enti preposti in concorso - Caratteri dell'acquiescenza - Art. 169 e 181, c.1 e 1-bis, D.lgs. n. 42/2004 - Artt. 838 c.c., Artt. 328, 677 e 733 c.p. - Art. 9 Cost. - Art. 44 dpr n. 380/2001.
Le condotte di violazione dei vincoli monumentale e paesaggistico i danneggiamenti strutturali, gli abusi edilizi compiuti all'interno del sito vincolato, ai sensi dell'art. 169 e dell'art. 181, comma 1 e 1-bis, del Decreto legislativo n. 42/2004, sono in concreto riconducibili alla responsabilità immediata e diretta degli enti pubblici proprietari o tenuti alla conservazione e alla tutela.
Pertanto i medesimi enti, relativamente ai danni da mancanza di manutenzione o a violazioni di vincoli anche se compiute da terzi attraverso abusi edilizi, conferimenti incontrollati di rifiuti ecc., risponderanno a titolo di concorso laddove la loro inerzia -di fronte a simili scempi- abbia assunto in concreto i caratteri dell'acquiescenza.
In conclusione, l'abbandono impietoso di un monumento, costituisce un aperto dispregio dell'obbligo giuridico (art. 9 Cost.) di natura generale di gestione del bene di interesse pubblico secondo i criteri del buon padre di famiglia (TRIBUNALE di Palermo, Sez. G.I.P., ordinanza 08.10.2013 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la tollerabilità delle emissioni?
Il Sindaco può ordinare la chiusura di un'industria insalubre per impedire il pericolo per la salute pubblica? Il Consiglio di Stato ha precisato che l'autorizzazione per l'esercizio di un'industria classificata insalubre è concessa, e può essere mantenuta, a condizione che l'esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure atte a prevenire emissioni moleste: se il Sindaco constata che l'impresa non ha adottato le misure richieste per prevenire e impedire il danno da esalazioni, può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell'attività.
Gli interrogativi
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri?
Può ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la salute pubblica?
Sono i due interrogativi alla base della sentenza del Consiglio di Stato (n. 4687/13), che nel confermare quanto stabilito dal TAR, ha precisato che l’autorizzazione per l’esercizio di un’industria insalubre è concessa, e può essere mantenuta, a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure atte a prevenire emissioni moleste: se il Sindaco constata che l’impresa non ha adottato le misure richieste per prevenire e impedire il danno da esalazioni, può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività.
Il caso
La vicenda trae origine da una serie di atti che il Sindaco di un Comune ha adottato nei confronti di un’azienda suinicola (industria insalubre di prima classe).
Sono tre sostanzialmente i motivi d’appello sottoposti dall’azienda all’esame del Consiglio di Stato:
1. i provvedimenti impugnati sono stati adottati sulla base di accertamenti tecnici effettuati dall’ASL ai fini dell’adozione della precedente ordinanza, poi annullata dal TAR; 2. l’ubicazione in zona agricola dell’azienda è idonea ad evitare problemi di coesistenza con altri insediamenti; 3. gli interventi tecnici non sono congrui né idonei a far fronte agli inconvenienti ambientali rilevati.
La validità degli accertamenti tecnici
In estrema sintesi, secondo l’appellante l’annullamento avrebbe travolto anche gli atti istruttori.
Ad avviso del Consiglio di Stato, invece, la sorte del precedente provvedimento, in quanto annullato dal TAR per mancanza del presupposto costituito dall’esistenza di una situazione di necessità ed urgenza, vale a dire in ragione della errata qualificazione giuridica della situazione oggettivamente riscontrata, non inficia il valore degli accertamenti tecnici in sé considerati, che ben potevano essere utilizzati ai fini dell’adozione di altro e diverso (quanto ai presupposti giuridici) provvedimento.
L’ubicazione in zona agricola
In relazione alla seconda contestazione, il Collegio ha evidenziato che l’originaria localizzazione dell’allevamento in zona agricola non esentava il ricorrente dal tenere l’azienda “isolata nella campagna” e comunque “lontana dalle abitazioni”; tanto più che l’area dell’allevamento era stata riclassificata, dalla variante generale del PRG in fase di adozione, quale zona D1 a destinazione agricola-artigianale, proprio in accoglimento di un’osservazione del ricorrente, il quale si era impegnato a riconvertire in edifici artigianali le costruzioni esistenti, dacché nell’area insistevano ormai altri insediamenti produttivi (oltre che case sparse).
Le valutazioni peritali di parte

In relazione al terzo motivo d’appello –che si è fondato su una relazione peritale di parte– i giudici di Palazzo Spada hanno osservato che alle valutazioni tecnico-discrezionali espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela igienico-sanitaria ed ambientale non possono essere sovrapposte le valutazioni peritali di parte di segno contrario.
A meno che –si specifica– a carico delle prime non vengano evidenziati vizi di logicità, contraddittorietà o incompletezza per quanto concerne l’individuazione degli elementi di fatto rilevanti e la scelta della regola tecnica di riferimento o la sua applicazione: si tratta di un principio valevole tanto più in un settore, come quello delle emissioni olfattive, che è connotato da un’estesa discrezionalità tecnica, che il giudice amministrativo può sindacare solo in caso di manifesta irragionevolezza od incoerenza sotto il profilo scientifico.
La discrezionalità tecnica Poteri del Sindaco
In base agli artt. 216 e 217 del TULLSS spetta al Sindaco, all’uopo ausiliato dall’USL, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate insalubri Tempistiche. L’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo: quindi anche in epoca successiva all’attivazione dell’impianto industriale
Modalità
Adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità Limiti dell’autorizzazione. Non devono essere superati limiti della più stretta tollerabilità Devono essere adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni moleste
Diffida
È legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dal DLgs 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva, anche a prescindere da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli
Revoca
A seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il Sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività
Discrezionalità
È inevitabilmente ampia: il cit. art. 216 riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sussiste l’interesse del consigliere comunale per lesione dello ius offici laddove si tratta, in sostanza, di vizi che rivelino l'immediata interferenza con le prerogative del componente il consesso, il quale ne veda obiettivamente compromesso il corretto esercizio del suo mandato, come potrebbe verificarsi, tra le altre, per le erronee modalità di convocazione dell'organo, la violazione dell'ordine del giorno, l'inosservanza del termine di deposito della documentazione ed, in generale, per tutte le violazioni procedurali che si risolvono in un concreto impedimento al regolare esercizio delle attribuzioni inerenti al munus, nonché le determinazioni che comportino la preclusione, in tutto o in parte, all'ulteriore svolgimento delle funzioni relative all'incarico rivestito, oltre naturalmente ai casi in cui gli atti collegiali riguardino direttamente e personalmente il consigliere stesso.
Con un primo motivo di appello si reitera la censura di mancato rispetto del termine di cinque giorni tra la convocazione e la seduta consiliare, in asserita violazione dell’art. 22 dello statuto comunale, dell’art. 5 del Regolamento del Consiglio comunale di Schilpario, nonché dell’art. 31 della L. 08.06.1990, n. 142.
Il motivo è infondato, avendo condivisibilmente il primo giudice dichiarato l’inammissibilità della censura, considerando la regola a sola prerogativa dei consiglieri comunali (si veda Consiglio Stato sez. V, 12.06.2009, n. 3744, che ha statuito l’interesse del consigliere comunale per lesione dello ius offici laddove si tratta, in sostanza, di vizi che rivelino l'immediata interferenza con le prerogative del componente il consesso, il quale ne veda obiettivamente compromesso il corretto esercizio del suo mandato, come potrebbe verificarsi, tra le altre, per le erronee modalità di convocazione dell'organo, la violazione dell'ordine del giorno, l'inosservanza del termine di deposito della documentazione ed, in generale, per tutte le violazioni procedurali che si risolvono in un concreto impedimento al regolare esercizio delle attribuzioni inerenti al munus, nonché le determinazioni che comportino la preclusione, in tutto o in parte, all'ulteriore svolgimento delle funzioni relative all'incarico rivestito, oltre naturalmente ai casi in cui gli atti collegiali riguardino direttamente e personalmente il consigliere stesso)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Costituisce principio generale del diritto, di cui le previsioni dell'art. 2, l. n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria, quello secondo cui i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge.
È pur vero che l'intenzione del legislatore non si ricava sempre e necessariamente dall'esplicita disposizione in tal senso, potendo la natura perentoria essere desunta anche implicitamente dalla «ratio legis» e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare, ma tale non è, in generale, il caso del termine fissato per l'adozione del provvedimento finale ai sensi dell'art. 2 summenzionato.
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Ad eccezione dell’ipotesi delineata sub a) sulla localizzazione delle opere pubbliche comunali, in tutti gli altri casi la variante in forma semplificata (L.R. 23/1997) non è idonea a mutare il quadro urbanistico generale del vigente P.R.G., mirando la normativa regionale, alla stregua dell’art. 25, comma 1, lett. a), della L. 28.02.1985, n. 47, a rendere più agile e flessibile il rapporto tra i diversi livelli di pianificazione, preservando peraltro il nesso di derivazione di quello secondario rispetto a quello primario, che non può essere unilateralmente modificato da parte dell’amministrazione comunale senza il concorso di quella regionale.
Invero, la previsione di riduzione della volumetria rientra nell’ipotesi di cui alla lettera e) della richiamata previsione, che prevede varianti di completamento interessanti ambiti territoriali di zone omogenee già classificate come zone B, C e D, che comportino, con o senza incremento della superficie azzonata, un aumento della relativa capacità edificatoria non superiore al 10% di quella consentita nell’ambito oggetto della variante.
Sarebbe irragionevole il contrario e cioè ammettere varianti semplificate per aumenti della capacità edificatoria, escludendone per converso le potenziali, possibili riduzioni, involgendo queste ultime un minor consumo del territorio, che è il vero bene da salvaguardare (tale lettura è avallata anche dalla circolare interpretativa dell’Assessorato alla Urbanistica e al Territorio n. 37 del 10.07.1997).
A sua volta, la modificazione della destinazione dei parcheggi da privati a pubblici è compresa nell’ipotesi dell’art. 2, 2° comma, lett. a), che consente il procedimento semplificato per le varianti dirette a localizzare opere pubbliche di competenza comunale.

La tesi dell’appello consiste nel sostenere l’illegittimità dell’approvazione della variante ben oltre i novanta giorni previsti dalla legge regionale.
L’art. 3, 3° comma, della L.r. 23.06.1997, n. 23 che entro i novanta giorni successivi alla scadenza del termine di cui al comma 2 (per la presentazione delle osservazioni), le varianti sono sottoposte all'approvazione del Consiglio comunale.
In disparte la considerazione di ben noti rimedi per rimuovere la eventuale inerzia dell’amministrazione rispetto all’obbligo di provvedere nei termini, costituisce principio generale del diritto, di cui le previsioni dell'art. 2, l. n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria, quello secondo cui i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge. È pur vero che l'intenzione del legislatore non si ricava sempre e necessariamente dall'esplicita disposizione in tal senso, potendo la natura perentoria essere desunta anche implicitamente dalla «ratio legis» e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare, ma tale non è, in generale, il caso del termine fissato per l'adozione del provvedimento finale ai sensi dell'art. 2 summenzionato (Consiglio Stato sez. VI, 14.01.2009, n. 140).
Né può valere in senso contrario il richiamo alle amministrazioni comunali al rispetto dei termini da parte della Regione Lombardia operato con la circolare n. 37 del 10.07.1997, rilevando la violazione dei termini probabilmente ad altri fini, ma non al fine della validità degli atti comunque adottati.
Sotto altro profilo, la parte appellante lamenta la violazione del termine di 12 mesi previsto dall’art. 21 della legge n. 136 del 1999.
Anche tale rilievo è infondato.
L'art. 21 l. 30.04.1999 n. 136 prevede che “l'approvazione degli strumenti urbanistici generali e delle relative varianti da parte delle regioni, delle province o di altro ente locale, ove prevista, interviene entro il termine perentorio di dodici mesi dalla data del loro deposito, col corredo della documentazione prescritta, da parte dell'ente che li ha adottati. L'Amministrazione ricevente ha l'obbligo di asseverare, all'atto del deposito, la regolarità formale degli atti in base ai requisiti prescritti dalle norme vigenti”.
Nel disporre che l'approvazione degli strumenti urbanistici debba intervenire entro 12 mesi dalla data di deposito del piano, fissa un termine che rileva eventualmente ai soli fini della formazione della fattispecie del silenzio-inadempimento e non del silenzio-assenso; con la conseguenza che la scadenza del termine in questione non priva l'amministrazione competente del potere di provvedere in merito.
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Con altro motivo l’appello ripropone la censura con cui si sostiene l’illegittimo ricorso alla procedura della variante semplificata fuori dei casi consentiti (soppressione di preesistente volumetria, eliminazione della strada, nonché sostituzione dei parcheggi).
La legge regionale della Regione Lombardia autorizza l’adozione ed approvazione di varianti in sede locale, quando esse siano:
a) dirette a localizzare opere di competenza comunale;
b) volte ad adeguare le originarie previsioni di localizzazione dello strumento urbanistico alla progettazione esecutiva;
c) atte ad apportare agli strumenti urbanistici generali le modificazioni necessarie a realizzare vigenti previsioni urbanistiche;
d) dirette a modificare le modalità di intervento sul patrimonio edilizio esistente;
e) si propongano fini di completamento;
f) comportino modificazioni dei perimetri territoriali esistenti subordinati ai piani attuativi, finalizzate ad assicurare un migliore assetto urbanistico nell’ambito dell’intervento opportunamente motivato e tecnicamente documentato, ovvero a modificare la tipologia dello strumento urbanistico attuativo;
g) siano finalizzate all’individuazione delle zone di recupero del patrimonio edilizio esistente;
h) siano relative a comparti soggetti a piani attuativi;
i) concernano modificazioni della normativa dello strumento urbanistico generale.
Ad eccezione dell’ipotesi delineata sub a) sulla localizzazione delle opere pubbliche comunali, in tutti gli altri casi la variante in forma semplificata non è idonea a mutare il quadro urbanistico generale del vigente P.R.G., mirando la normativa regionale, alla stregua dell’art. 25, comma 1, lett. a), della L. 28.02.1985, n. 47, a rendere più agile e flessibile il rapporto tra i diversi livelli di pianificazione, preservando peraltro il nesso di derivazione di quello secondario rispetto a quello primario, che non può essere unilateralmente modificato da parte dell’amministrazione comunale senza il concorso di quella regionale.
Come ha osservato il primo giudice, la previsione di riduzione della volumetria rientra nell’ipotesi di cui alla lettera e) della richiamata previsione, che prevede varianti di completamento interessanti ambiti territoriali di zone omogenee già classificate come zone B, C e D, che comportino, con o senza incremento della superficie azzonata, un aumento della relativa capacità edificatoria non superiore al 10% di quella consentita nell’ambito oggetto della variante.
Sarebbe irragionevole il contrario e cioè ammettere varianti semplificate per aumenti della capacità edificatoria, escludendone per converso le potenziali, possibili riduzioni, involgendo queste ultime un minor consumo del territorio, che è il vero bene da salvaguardare (tale lettura è avallata anche dalla circolare interpretativa dell’Assessorato alla Urbanistica e al Territorio n. 37 del 10.07.1997).
A sua volta, la modificazione della destinazione dei parcheggi da privati a pubblici è compresa nell’ipotesi dell’art. 2, 2° comma, lett. a), che consente il procedimento semplificato per le varianti dirette a localizzare opere pubbliche di competenza comunale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In materia di varianti allo strumento urbanistico generale, la giurisprudenza reputa necessaria la puntuale motivazione in tutti casi in cui l’amministrazione abbia adottato (…) varianti specifiche e settoriali al P.R.G., che incidono su interessi e aspettative basate su una particolare tutela od affidamento (…) .
Come eccezione alla regola (della non necessità della motivazione), è altresì vero che in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico, uno specifico obbligo di motivazione sussiste solo quando la nuova destinazione urbanistica incida su aspettative qualificate degli interessati, aspettative determinate dall'esistenza di un piano di lottizzazione approvato o convenzionato.
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La variante di uno strumento urbanistico primario, che imprime una nuova destinazione ad aree già urbanisticamente classificate per effetto della strumentazione urbanistica previgente, necessita di apposita motivazione soltanto se le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultino fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni di affidamento, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
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Le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.

In diritto, in materia di varianti allo strumento urbanistico generale, la giurisprudenza (Cons. Stato Sez. V, 23.05.2000, n. 2982; Sez. IV, 20.03.2001, n. 1679) reputa necessaria la puntuale motivazione in tutti casi in cui l’amministrazione abbia adottato (…) varianti specifiche e settoriali al P.R.G., che incidono su interessi e aspettative basate su una particolare tutela od affidamento (…) .
E’ noto ampiamente l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa (cfr. per tutte Consiglio Stato, Sez. IV, 22.06.2004, n. 4431) secondo cui (…) come eccezione alla regola (della non necessità della motivazione), è altresì vero che in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico, uno specifico obbligo di motivazione sussiste solo quando la nuova destinazione urbanistica incida su aspettative qualificate degli interessati, aspettative determinate dall'esistenza di un piano di lottizzazione approvato o convenzionato.
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Per costante giurisprudenza di questo Consesso (da ultimo, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 26.10.2012, n. 5492), la variante di uno strumento urbanistico primario, che imprime una nuova destinazione ad aree già urbanisticamente classificate per effetto della strumentazione urbanistica previgente, necessita di apposita motivazione soltanto se le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari che risultino fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte che incidano su particolari situazioni di affidamento, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
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Le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni; in sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Consiglio Stato sez. IV, 09.12.2010, n. 8682).
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In disparte la generica prospettazione delle censure (si pensi al riferimento a consiglieri comunali e parenti, senza alcuna specificazione di nomi o altro), va ricordato il principio per cui in sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (tra tante, Consiglio Stato sez. IV, 21.04.2010, n. 2264)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza formatasi in materia (e riferita sia all’art. 15, comma 2, DPR 380/2001, sia al previgente art. 4 L. 10/1977) ha chiarito che all'istituto giuridico della decadenza della concessione edilizia fanno eccezione i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla legge, non riferibili alla condotta del titolare della concessione e assolutamente ostative ai lavori.
L’intento legislativo sotteso a tale disposizione normativa e valorizzato dalla costante interpretazione giurisprudenziale è quello di circoscrivere le ipotesi di proroga ai casi in cui insorgano fatti ostativi di rilevanza oggettiva, slegati da responsabilità del titolare del titolo concessorio o comunque non riconducibili a evenienze allo stesso imputabili.
Va ulteriormente rilevato che le norme sulla proroga dei termini previsti per la realizzazione di interventi soggetti a permesso di costruire, di cui all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, sono ritenute di stretta interpretazione, rappresentando le stesse una deroga alla disciplina generale dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più.
Indicativa di tale ratio legis è anche la previsione normativa, di cui al comma 4 dell’art. 15, D.P.R. n. 380/2001, secondo la quale il permesso di costruire decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio dei lavori.

Ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”.
La giurisprudenza formatasi in materia (e riferita sia all’art. 15, comma 2, DPR 380/2001, sia al previgente art. 4 L. 10/1977) ha chiarito che all'istituto giuridico della decadenza della concessione edilizia fanno eccezione i casi di sospensione o proroga connessi a factum principis, forza maggiore o ad altre cause espressamente contemplate dalla legge, non riferibili alla condotta del titolare della concessione e assolutamente ostative ai lavori (cfr., fra le tante, TAR Napoli sez. II, 07.05.2007, n. 4788 e sez. IV, 29.04.2004; TAR Lazio sez. II, 15.04.2004, n. 3297; Cons. St. sez. V, 03.02.2000 n. 597).
L’intento legislativo sotteso a tale disposizione normativa e valorizzato dalla costante interpretazione giurisprudenziale è quello di circoscrivere le ipotesi di proroga ai casi in cui insorgano fatti ostativi di rilevanza oggettiva, slegati da responsabilità del titolare del titolo concessorio o comunque non riconducibili a evenienze allo stesso imputabili.
Va ulteriormente rilevato che le norme sulla proroga dei termini previsti per la realizzazione di interventi soggetti a permesso di costruire, di cui all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, sono ritenute di stretta interpretazione, rappresentando le stesse una deroga alla disciplina generale dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più (cfr. TAR Marche sez. I, 20.04.2010, n. 193).
Indicativa di tale ratio legis è anche la previsione normativa, di cui al comma 4 dell’art. 15, D.P.R. n. 380/2001, secondo la quale il permesso di costruire decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio dei lavori (TAR Veneto sez. II, 22.04.2011, n. 671; TAR Napoli sez. II, 12.01.2011, n. 74).
Nel caso in esame, il giudizio civile radicato innanzi al Tribunale di Torino non può configurarsi come fatto impeditivo rilevante ai sensi dell’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, e ciò sotto un duplice profilo.
Innanzitutto, la controversia è stata avviata dal titolare del permesso e quindi, in termini puramente formali, costituisce evenienza interamente riferibile alla sua condotta e priva di rilievo oggettivo.
Andando poi a indagare le ragioni del contenzioso, si osserva che lo stesso è sorto come impugnazione di una delibera condominiale intervenuta in data 07.06.2006 (quindi in epoca successiva al rilascio del permesso di costruire) con la quale alcuni condomini avevano negato il nulla osta all'esecuzione dei lavori di rifacimento del sottotetto.
Secondo quanto accertato dalla sentenza del giudice civile n. 209/2009, la tipologia dei lavori in progetto avrebbe reso necessaria l’approvazione preventiva degli stessi da parte di tutti i condomini, in applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale (il quale dispone che “per ogni lavoro esterno ed interno che possa interessare l’estetica e la struttura organica, od anche la solidità del fabbricato, si dovrà ottenere l’approvazione preventiva dei comproprietari”).
La clausola regolamentare è stata cioè intesa come dotata di natura contrattuale, in quanto implicante limitazioni al diritto del condomino anche relativamente al contenuto delle facoltà dominicali sulle parti di sua esclusiva proprietà (per una fattispecie analoga si veda Cass. Civ. sez. II, 21.05.1997, n. 4509).
È sulla base di tale previsione regolamentare che i condomini riuniti nell’assemblea del 07.06.2006 hanno ritenuto di negare il loro consenso all’esecuzione dei lavori, ritenendo che gli stessi incidessero sulle parti comuni del fabbricato.
Come detto, che tale autorizzazione preventiva fosse necessaria è circostanza confermata dalla sentenza emessa dal Giudice Civile, la quale ha fatto applicazione del richiamato art. 5 del regolamento condominiale, correlando tale disposizione alla natura e alla consistenza degli interventi edilizi.
Alla luce di queste necessarie premesse, va ulteriormente chiarito che un consenso unanime ai lavori da parte della totalità dei condomini non è mai venuto in essere in epoca antecedente alla richiesta del permesso di costruire.
Ne consegue che l’assenza della previa autorizzazione condominiale ha costituito circostanza ostativa ai lavori, integratasi in un momento antecedente al rilascio del premesso di costruire.
In questo senso appare corretta la valutazione da parte del Comune secondo cui le circostanze addotte dal ricorrente non integrano “fatti sopravvenuti”, in quanto il fatto ostativo (l’assenza della necessaria preventiva autorizzazione condominiale) risale ad epoca antecedente al rilascio del titolo edilizio (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.07.2013 n. 892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.10.2013

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UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Guida alle semplificazioni del decreto legge del Fare (Dipartimento Funzione Pubblica, 15.10.2013).

CONDOMINIO: IL CONDOMINIO E LA PRIVACY (Garante per la protezione dei dati personali, vademecum 10.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: DICHIARAZIONE IN MERITO AL RISPETTO DEI CRITERI PREVISTI IN TEMA DI RIUTILIZZO DI TERRE E ROCCE DA SCAVO DAL COMMA 1 DELL’ART. 41-bis DEL DECRETO LEGGE 21.06.2013, N. 69, RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER IL RILANCIO DELL’ECONOMIA, CONVERTITO CON MODIFICHE NELLA LEGGE N. 98 DEL 09.08.2013 (Regione Marche, Nuova modulistica su terre e rocce da scavo. Tale modulistica debitamente compilata deve essere spedita prima dell'operazione di movimentazione - 04.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre e rocce da scavo: le principali novità, la modulistica e le FAQ di ARPA Toscana (27.09.2013 - link a www.arpat.toscana.it):
il modulo
le FAQ
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Ulteriori precisazioni a seguito richieste di chiarimento sull'ambito di applicazione della disciplina semplificata di cui all’art. 41-bis del D.L. 69/2013, introdotto dalla legge di conversione n. 98/2013 (03.10.2013 - link a www.arpat.toscana.it).

APPALTIAcquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia (Regione Piemonte, settembre 2013).
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Il suddetto volume, realizzato dalla Regione Piemonte e aggiornato al settembre 2013, contribuisce a risolvere i dubbi interpretativi ed applicativi dovuti alla continua evoluzione della normativa in materia.

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Disegno di legge di Stabilità 2014 - Previsto il blocco del trattamento economico nel pubblico impiego (CGIL-FP di Bergamo, nota 21.10.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: IL REGIME DI SOLIDARIETA’ NEGLI APPALTI (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, circolare 16.10.2013 n. 13).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: IL DECRETO DEL FARE PUNTO PER PUNTO (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, circolare 10.09.2013 n. 11).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Muratori, Terre e rocce di scavo: quando le semplificazioni... possono complicare (Ambiente & Sviluppo n. 10/2013).

APPALTI: R. Cippitani, Formalismi e verifica delle offerte anomale (Urbanistica e appalti n. 8-9/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.M. 13.03.2013 – certificazione di crediti e rilascio del DURC – primi chiarimenti (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 21.10.2013 n. 40/2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 22.10.2013, "Norme per la prevenzione e il trattamento del gioco d’azzardo patologico" (L.R. 21.10.2013 n. 8).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2013, "Individuazione degli interventi di irrilevante impatto sulla stabilità idrogeologica dei suoli, ai sensi dell’articolo 44, comma 6, lettera b), della l.r. 31/2008 e delle relative procedure. Contestuali precisazioni sulla definizione di “Trasformazione del Bosco” (art. 43 l.r. 31/2008) e sulla definizione di “Mutamento di destinazione d’uso del suolo” ai sensi dell’art. 4-quater, comma 5-bis della l.r. 31/2008" (deliberazione G.R. 11.10.2013 n. 773).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 17.10.2013 n. 244 "Specifiche tecniche delle operazioni di scavo e ripristino per la posa di infrastrutture digitali nelle infrastrutture stradali" (Ministero dello Sviluppo Economico di concerto col Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 01.10.2013).

ENTI LOCALI: G.U. 15.10.2013 n. 242 "Testo del decreto-legge 14.08.2013, n. 93, coordinato con la legge di conversione 15.10.2013, n. 119, recante: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province»".
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Per quanto di interesse per gli enti locali si legga:
Art. 12-bis - Disposizioni finanziarie per gli enti locali

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROGETTUALINel nostro ordinamento trova accoglimento il principio giuridico secondo cui l’esternalizzazione delle attività sarebbe consentito solo nel caso di constatata impossibilità o inidoneità della struttura pubblica a svolgere una determinata attività e che il ricorso alle prestazioni intellettuali di soggetti estranei all’amministrazione può essere ritenuto legittimo nei casi in cui si debbano risolvere problemi specifici aventi carattere contingente e speciale e difettando nell’apparato burocratico strutture organizzative idonee e professionalità adeguate.
Tuttavia devesi condividere la corretta impostazione della Procura attrice, che sottende all’odierno atto di citazione, secondo cui tali ipotesi non devono porsi in contrasto con il precetto normativo che impone di limitare il ricorso a professionalità esterne solo a casi eccezionali e per attività professionali che non possono essere effettuate dal personale interno, limiti che nella prospettazione attorea sono stati, invece, sostanzialmente elusi in tutti i casi contrattuali contestati.
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Risponde a principi di economicità e ragionevolezza la vigenza, in via generale, dell'obbligo delle pubbliche amministrazioni di far fronte alle ordinarie competenze istituzionali con il migliore e il più produttivo impiego delle risorse umane e professionali di cui esse dispongono, rendendosi ammissibile il ricorso ad incarichi e consulenze professionali esterne soltanto in presenza di specifiche condizioni quali la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di personale idoneo, il carattere limitato nel tempo e l'oggetto circoscritto dell'incarico e/o della consulenza.
Sostanzialmente, in materia di consulenze esterne o di affidamento di incarichi all’esterno dell’amministrazione, è stato ripetutamente affermato dal giudice contabile che la P.A., in conformità del dettato costituzionale, deve uniformare i propri comportamenti a criteri di legalità, economicità, efficienza e imparzialità, dei quali è corollario, per ius receptum, il principio per cui essa, nell'assolvimento dei compiti istituzionali, deve avvalersi prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte si è più volte pronunciata indicando i parametri entro i quali tali rapporti e le correlative spese sono da ritenersi lecite e ha ritenuto per lo più antigiuridico e produttivo di danno erariale -giova ribadire- certamente il conferimento di incarichi per attività alle quali si può far fronte con personale interno dell'ente e, a maggior ragione, per attività estranee ai suoi fini istituzionali, ovvero troppo onerose in rapporto alle disponibilità di bilancio.
Di converso, in casi particolari e contingenti, è stata ammessa la legittimazione della P.A. ad affidare il perseguimento di determinate finalità all'opera di estranei, purché dotati di provata capacità professionale e specifica conoscenza tecnica della materia di cui vengono chiamati ad occuparsi, ogni volta che si verifichino:
a) la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare;
b) la mancanza di strutture e di apparati preordinati al loro soddisfacimento, ovvero, pur in presenza di detta organizzazione, la carenza, in relazione all'eccezionalità delle finalità, del personale addetto, sia sotto l'aspetto qualitativo che quantitativo.
Tali parametri, se da un lato attestano che nell'ordinamento non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere ad esternalizzazioni per l'assolvimento di determinati compiti, dall'altro, tuttavia, confermano che la utilizzazione del modulo negoziale non può concretizzarsi se non nel rispetto delle condizioni e dei limiti sopra specificati.

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Gli illegittimi affidamenti di c.d. “supporto” (all'attività interna istituzionale), se non effettivamente necessitati da specifiche e contingenti esigenze, realizzano degli squilibri di competenze interne all’apparato amministrativo, dirigenziali e non, e una inevitabile diseconomicità, atteso che l’attività e le competenze proprie della dirigenza interna, per realizzare una “buona amministrazione”, devono vertere in maniera significativa sulla capacità organizzativa e gestionale delle strutture amministrative e della forza lavoro assegnate alle relative strutture.

La vicenda all’esame attiene, come esposto in narrativa, ad una ipotesi di responsabilità amministrativa per il danno erariale conseguito all’ANAS a seguito di pagamenti relativi a contratti di acquisizioni di servizi e conferimento di incarichi e consulenze con soggetti esterni per attività rientranti nelle funzioni ricoperte in seno al medesimo Ente.
...
Al riguardo si rileva che la fattispecie di danno erariale portata all'esame della Sezione involge in via generale, come desumibile da quanto esposto in narrativa, la problematica sottesa al conferimento di incarichi a personale esterno e, in particolare, le modalità di pratica attuazione di tali scelte operative, non improntate, in sostanza, al perseguimento degli obiettivi di economicità ed efficienza, e anzi rivelatesi produttive di un danno concreto a carico dell'Amministrazione, oltre che in violazione della disciplina anche comunitaria vigente in materia.
Dalla contestazione mossa ai convenuti emerge innanzitutto la violazione del principio costituzionale di buon andamento dell'attività della P.A. e nello specifico, l’aver stipulato l’ANAS, nelle persone in alcuni casi del suo vertice e, in altri, di alti dirigenti, una serie di contratti, con soggetti estranei all’amministrazione, per l’espletamento di attività, che, peraltro, potevano e dovevano essere svolte da personale dipendente dell’azienda medesima.
Vero è che nel nostro ordinamento trova accoglimento il principio giuridico secondo cui l’esternalizzazione delle attività sarebbe consentito solo nel caso di constatata impossibilità o inidoneità della struttura pubblica a svolgere una determinata attività e che il ricorso alle prestazioni intellettuali di soggetti estranei all’amministrazione può essere ritenuto legittimo nei casi in cui si debbano risolvere problemi specifici aventi carattere contingente e speciale e difettando nell’apparato burocratico strutture organizzative idonee e professionalità adeguate. Tuttavia devesi condividere la corretta impostazione della Procura attrice, che sottende all’odierno atto di citazione, secondo cui tali ipotesi non devono porsi in contrasto con il precetto normativo che impone di limitare il ricorso a professionalità esterne solo a casi eccezionali e per attività professionali che non possono essere effettuate dal personale interno, limiti che nella prospettazione attorea sono stati, invece, sostanzialmente elusi in tutti i casi contrattuali contestati.
Pertanto, ai fini della definizione della domanda di responsabilità per le vicende contrattuali dedotte in giudizio e delle diverse posizioni delle parti, il Collegio, in primo luogo, ribadisce la piena adesione alla giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, di questa Sezione, che già in precedenti giudizi (ricordati anche da parte attrice) si è pronunciata in maniera del tutto analoga alla ormai costante giurisprudenza, che si richiama interamente in motivazione anche nel caso all’esame (cfr., tra tutte, Sez. giur. Lazio 14.12.2009, n. 1922 e 03.08.2010, n. 1598).
Risponde a principi di economicità e ragionevolezza la vigenza, in via generale, dell'obbligo delle pubbliche amministrazioni di far fronte alle ordinarie competenze istituzionali con il migliore e il più produttivo impiego delle risorse umane e professionali di cui esse dispongono, rendendosi ammissibile il ricorso ad incarichi e consulenze professionali esterne soltanto in presenza di specifiche condizioni quali la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di personale idoneo, il carattere limitato nel tempo e l'oggetto circoscritto dell'incarico e/o della consulenza.
Sostanzialmente, in materia di consulenze esterne o di affidamento di incarichi all’esterno dell’amministrazione, è stato ripetutamente affermato dal giudice contabile che la P.A., in conformità del dettato costituzionale, deve uniformare i propri comportamenti a criteri di legalità, economicità, efficienza e imparzialità, dei quali è corollario, per ius receptum, il principio per cui essa, nell'assolvimento dei compiti istituzionali, deve avvalersi prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.
In proposito la giurisprudenza di questa Corte si è più volte pronunciata indicando i parametri entro i quali tali rapporti e le correlative spese sono da ritenersi lecite e ha ritenuto per lo più antigiuridico e produttivo di danno erariale -giova ribadire- certamente il conferimento di incarichi per attività alle quali si può far fronte con personale interno dell'ente e, a maggior ragione, per attività estranee ai suoi fini istituzionali, ovvero troppo onerose in rapporto alle disponibilità di bilancio.
Di converso, in casi particolari e contingenti, è stata ammessa la legittimazione della P.A. ad affidare il perseguimento di determinate finalità all'opera di estranei, purché dotati di provata capacità professionale e specifica conoscenza tecnica della materia di cui vengono chiamati ad occuparsi, ogni volta che si verifichino:
a) la straordinarietà e l'eccezionalità delle esigenze da soddisfare;
b) la mancanza di strutture e di apparati preordinati al loro soddisfacimento, ovvero, pur in presenza di detta organizzazione, la carenza, in relazione all'eccezionalità delle finalità, del personale addetto, sia sotto l'aspetto qualitativo che quantitativo.
Tali parametri, se da un lato attestano che nell'ordinamento non sussiste un generale divieto per la P.A. di ricorrere ad esternalizzazioni per l'assolvimento di determinati compiti, dall'altro, tuttavia, confermano che la utilizzazione del modulo negoziale non può concretizzarsi se non nel rispetto delle condizioni e dei limiti sopra specificati.
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Anche per tutti i suddetti incarichi descritti al sopracitato punto 3 la domanda attorea si appalesa fondata in quanto risulta per tabulas che trattasi di fattispecie contrattuali poste in essere senza procedure comparative con altri potenziali contraenti e in assenza di qualsiasi indicazione circa la necessità di specifiche competenze professionali e, comunque, di verifica sulla presenza di figure professionali interne e in servizio idonee allo svolgimento degli incarichi esternalizzati; in disparte la considerazione che, stando all’oggetto degli incarichi, hanno riguardato attività riservate all’apparato amministrativo e sono consistite in un generico c.d. “supporto tecnico-specialistico”, che, in diversi casi e per gran parte, non si è tradotto nella produzione di lavori e/o documentazione a corredo dell’attività svolta, precludendo, peraltro, il ragionevole riscontro sul relativo adempimento contrattuale.
In realtà, in qualche caso (come per la fattispecie contrattuale di cui alla sopracitata lett. a) del punto 3, alla luce dei reports prodotti, si è trattato di elaborazione di meri dati statistici e di competenze proprie del personale dirigente ANAS (quale appunto l’organizzazione e ottimizzazione delle risorse, umane e materiali) e, comunque, di attività riservate all’apparato amministrativo.
Al riguardo il Collegio condivide la richiamata giurisprudenza (Sez. giur. Trentino Alto Adige n. 8/2010) in base alla quale devesi ritenere che gli illegittimi affidamenti di c.d. “supporto”, quali quelli di specie, se non effettivamente necessitati da specifiche e contingenti esigenze, realizzino, viceversa, degli squilibri di competenze interne all’apparato amministrativo, dirigenziali e non, e una inevitabile diseconomicità, atteso che l’attività e le competenze proprie della dirigenza interna, per realizzare una “buona amministrazione”, devono vertere in maniera significativa sulla capacità organizzativa e gestionale delle strutture amministrative e della forza lavoro assegnate alle relative strutture.
Analoghe argomentazioni valgono del resto anche per tutti gli altri incarichi e, segnatamente, per quelli di cui alle lett. e) ed f) del punto 3, atteso che rientrano appieno nella sfera dirigenziale l’organizzazione e l’ottimizzazione delle risorse, umane e materiali in cui in sostanza consistono.
Valgono per tutte le relative fattispecie, anche le considerazioni generali e le rilevate violazioni circa l’attività di fatto scarsamente tecnica commissionata, circa l’assenza di proporzionalità economica dei compensi e la liquidazione forfettaria sindacata dalla giurisprudenza già citata intervenuta in casi del tutto analoghi (Sez. giur. Lazio n. 1598/2010 e Sez. I Centrale d’Appello n. 145/2009).
Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, i contratti indicati alle lett. c) e d) del punto 3, aventi ad oggetto attività connesse ai compiti ex d.lgs. n. 231/2001, in condivisione con l’assunto attoreo, si appalesa altresì inidonea a supportare la scelta la motivazione dei conferimenti basata sulla generica affermazione dell’ANAS di “non disporre di risorse interne atte a garantire in tempi rapidi l’identificazione dei processi/aree aziendali a rischio” o, comunque, di ricorrere agli Organismi già istituiti. Infatti, a riprova della ritenuta responsabilità dei convenuti, occorre evidenziare, oltre alle contestazioni già formulate, anche il fatto che in tali casi esisteva un Organismo interno e, cioè, un apposito Auditing che era stato già costituito, dopo la istituzione di un apposito Gruppo di lavoro, nonché l’Organismo di Vigilanza composto da professionisti esterni e supportato da apposito staff, formato da diversi avvocati e dall’Auditing interno aziendale (tutte attività adeguatamente remunerate, come si evince dalle note nn. 317, 318, 319 e 320 del 06.10.2003 del Presidente ANAS).
A conferma del suddetto convincimento giova anche richiamare le premesse dell’Ordine di Servizio n. 01 del 02.02.2004 (adottato, prima del conferimento degli incarichi in questione dal Direttore Generale Sabato per la istituzione un apposito Gruppo di lavoro che “…provveda a completare il sistema di procedure in attuazione del d.lgs. 231/2001”), nel quale si legge testualmente che “….l’Auditing Interno, con la istituzione dell’Organismo di Vigilanza, ne è divenuto operativamente Ufficio strumentale e che deve quindi svolgere le conseguenti complesse funzioni di verifica sul corretto rispetto delle procedure attualmente vigenti”.
Si rileva, infine, che le attività affidate rientrano appieno tra i compiti che l’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 affidati direttamente all’Organo dirigente dell’Ente e all’Organismo di Vigilanza e Controllo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 14.10.2013 n. 683).

CONSIGLIERI COMUNALI: Non c'e' danno erariale se l'Ente acquista un dono con finalità di rappresentanza.
Secondo la Corte dei Conti del Lazio, che affronta la delicata questione delle spese di rappresentanza sostenute in ambito pubblico, gli acquisti volte ad accrescere il prestigio dell'ente pubblico, dandogli lustro nel contesto sociale in cui opera, sono legittimi.
Le spese finalizzate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell'ente pubblico, allo scopo di accrescere il prestigio dell'immagine dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui opera, sono legittime, in quanto rientrano in quelle di rappresentanza. In caso contrario si configura responsabilità erariale del Dirigente che ha disposto la spesa e del collegio sindacale che non vi si oppone.

La vicenda
In occasione della partecipazione di rappresentanti di un Ospedale ad un’udienza generale del Papa tenutasi in Vaticano, venivano donate al Pontefice tre vetrate artistiche con telaio in legno, del costo di circa € 26.000. Il P.M. contabile evocava in giudizio:
- il Direttore sanitario, il Direttore amministrativo ed il Direttore generale dell’Azienda Sanitaria, i quali avevano emesso la delibera con la quale era stato autorizzato l’ufficio competente a pagare ad un artigiano la somma per la realizzazione delle vetrate;
- i membri del collegio sindacale, in quanto pur avendo visionato la delibera non avevano sollevato alcuna obiezione al riguardo.
In particolare la Procura sosteneva che detta delibera era illegittima poiché non era stata effettuata alcuna procedura per la scelta dell’esecutore dell’opera, con la quale, inoltre, non era stato stipulato alcun contratto formale e si era ottenuto solo un preventivo orale.
Allo stesso tempo la struttura ospedaliera, precedentemente all’emanazione dell’atto relativo al pagamento, non aveva emesso alcun provvedimento concernente sia l’utilità di donare al Papa l’opera, sia l’opportunità di procedere alla sua costruzione.
Dunque i primi tre soggetti sarebbero responsabili a titolo di dolo, mentre i sindaci a titolo di colpa grave.
Si chiedeva pertanto la condanna degli stessi alla restituzione della somma spesa per le opere suindicate.
I convenuti si costituivano eccependo innanzitutto che la trattativa privata nella scelta dell’artigiano era consentita dall’art. 57 D.Lgs. 163/2006.
Inoltre le tre vetrate artistiche, essendo copie di quelle già esistenti nella cappella dell’Ospedale, erano state commissionate allo stesso soggetto che aveva realizzato quelle originali.
Per quanto concerne l’inutilità della spesa contestata dalla Procura, i convenuti rilevavano come la stessa fosse stata imputata al capitolo di bilancio relativo alle spese di rappresentanza in occasione della visita al Vaticano per partecipare all’udienza del Pontefice; pertanto il dono a quest’ultimo trovava ragion d’essere nel collegamento ai rapporti tra sanità pubblica ed organismi religiosi, segno tangibile di riconoscenza verso enti religiosi, congregazioni di suore e sacerdoti che forniscono assistenza volontaria e gratuita alle aziende sanitarie. Inoltre i membri del collegio sindacale eccepivano di non aver mai preso visione della delibera e pertanto non ci sarebbe stato un omesso controllo.
La decisione
La Corte dei Conti ha rigettato la richiesta di condanna dei convenuti, assolvendoli.
In particolare i Giudici, confermando quanto dedotto dalle difese, hanno ritenuto che si trattasse di spesa di rappresentanza, caratterizzata all’esigenza dell’Ospedale, in rapporto ai propri fini istituzionali, di intrattenere pubbliche relazioni con soggetti estranei, allo scopo di mantenere o di accrescere il proprio prestigio all’esterno.
Tali spese sono legittime altresì nel caso in cui siano destinate a “soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico allo scopo di accrescere il prestigio dell’immagine dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui opera”.
Conclusioni
La questione delle spese di rappresentanza è stata oggetto di molte pronunce della Corte dei Conti.
Dette spese sono finalizzate, per natura, a rapporti con soggetti esterni all'ente che le dispone; quindi devono avere una qualche proiezione esterna atta a migliorare le pubbliche relazioni concernenti l'ente stesso, come nel caso della sentenza sopra riportata.
Si ricorda ad esempio che non rientrano in tale categoria:
- le spese disposte dal presidente del Consiglio regionale per donativi natalizi ai membri del Consiglio e al personale (sentenza n. 417/11);
- gli omaggi d'inizio anno effettuati da un ente in favore di propri amministratori e componenti di organi di controllo (sentenza n. 106/02);
- spese per l’invio in missione della squadra di calcio del corpo dei vigili urbani per la partecipazione ad un torneo (sentenza n. 118/98) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 03.10.2013 n. 661).

ENTI LOCALIPre-dissesto, procedura rigida. No alla revoca, spirati i termini del piano di riequilibrio. Deliberazione della Corte dei conti chiarisce dubbi sollevati dalle sezioni regionali.
Gli enti locali non possono revocare la deliberazione di ricorso alla procedura di «pre-dissesto» una volta scaduto il termine perentorio di 60 giorni per la presentazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale. L'approvazione di quest'ultimo deve obbligatoriamente essere preceduta dal varo del bilancio annuale di previsione e del rendiconto nei termini di legge.
Sono questi i due principali chiarimenti forniti dalla sezione delle autonomie della Corte dei conti nella deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, pubblicata ieri e adottata per sciogliere i dubbi sollevati da alcune sezioni regionali di controllo sulla corretta interpretazione dei nuovi artt. 243-bis, 243-ter e 243-quater del Tuel.
Come noto, tali disposizioni sono state introdotte dal dl 174/2012 per fornire un'ultima ancora di salvezza agli enti locali che presentano gravi squilibri strutturali di bilancio, prima dell'apertura del dissesto.
Per accedere alla procedura (che può contare anche su un fondo statale in grado di erogare anticipazioni di liquidità per tamponare i buchi di cassa), le province e i comuni interessati devono adottare un'apposita deliberazione consiliare, che, entro cinque giorni dalla data di esecutività, va trasmessa alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e al ministero dell'interno.
Tale iniziativa ha un duplice effetto sospensivo: da un lato, essa preclude l'avvio del procedimento per la dichiarazione esterna di dissesto ai sensi dell'art. 6, comma 2, del dlgs 149/2011, congelando la possibilità per la magistratura contabile di fissare il termine per l'adozione delle misure correttive; dall'altro, sospende le procedure esecutive già intraprese nei confronti degli enti richiedenti.
Nel termine perentorio di 60 giorni dall'esecutività della precedente deliberazione di adesione alla procedura, il consiglio degli enti che ambiscono al pre-dissesto deve adottare formalmente un piano di riequilibrio finanziario pluriennale contenente le misure di risanamento.
La giurisprudenza contabile aveva già precisato che entro lo stesso termine può essere esercitata anche la facoltà di revocare l'istanza di ricorso alla procedura. Ciò che non è consentito, chiarisce ora la sezione autonomie, è procedere alla revoca dopo la scadenza dei 60 giorni: in tal caso, infatti, scatta automaticamente il cosiddetto «dissesto guidato», con l'assegnazione al consiglio dell'ente, da parte del prefetto, di un termine non superiore a 20 giorni per deliberare il default.
L'altro chiarimento riguarda, invece, la fase precedente di presentazione dell'istanza: essa non solo non sospende i termini di legge per l'approvazione dei documenti contabili (come accade, invece, per il dissesto vero e proprio), ma deve essere preceduta dall'approvazione del bilancio di previsione per l'anno corrente e dell'ultimo rendiconto. Tali adempimenti, precisa la pronuncia in commento, pur non costituendo condizioni legali di ammissibilità del piano, rappresentano «essenziali e imprescindibili elementi istruttori» destinati alla commissione ministeriale che deve esaminarlo in prima battuta. La loro mancanza, quindi, «costituisce oggettivo elemento di perplessità» in grado di condizionare la decisione della sezione regionale di controllo, cui spetta l'ultima parola sull'approvazione o sul diniego del pre-dissesto (articolo ItaliaOggi del 09.10.2013).

ENTI LOCALIIl ritardo nel riequilibrio porta l'ente al dissesto. Corte dei conti. La procedura «anti-default».
La mancata presentazione del piano di riequilibrio entro 60 giorni dalla pubblicazione della delibera con cui il Comune o la Provincia decidono di aderire alla procedura «anti-dissesto» blocca tutto l'iter, e impone alle sezioni regionali di controllo di aprire la strada che porta al dissesto guidato. L'approvazione del rendiconto e del bilancio di previsione, poi, sono condizioni essenziali per aderire alla procedura, perché senza gli ultimi documenti contabili è impossibile valutare l'entità degli squilibri da sanare e, di conseguenza, le misure da mettere in campo per riportare i conti dell'ente in una condizione di equilibrio strutturale.

Con la deliberazione 02.10.2013 n. 22/2013, la sezione Autonomie della Corte dei conti risponde a una serie di dubbi interpretativi sollevati da diverse sezioni regionali sulle tappe della procedura introdotta dal decreto «salva-enti» (Dl 174/2012) per venire in soccorso delle amministrazioni locali a rischio "fallimento".
Nelle loro risposte, i giudici della sezione Autonomie ribadiscono come regola generale il rispetto rigoroso di tempi e requisiti, per sottrarre la sorte degli enti locali interessati alle differenze interpretative sorte sul territorio. Un «diverso apprezzamento» su casi particolari è sempre possibile, ma non può aprire le maglie di un iter che il legislatore ha definito nei dettagli: quando i requisiti non sono rispettati, l'alternativa consiste solo nell'applicazione del decreto legislativo su «premi e sanzioni» (Dlgs 149/2011, articolo 7), che impone lo scioglimento di Giunta e Consiglio (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

ENTI LOCALIIl tirocinio formativo è spesa di personale. Corte conti Emilia Romagna. Il limite del 50% del 2009.
I tirocini formativi sono spesa di personale e devono rientrare tra le tipologie lavorative da contenere nel limite del 50% dell'anno 2009.
La conclusione giunge dalla Corte dei conti dell'Emilia Romagna che, con il
parere 02.10.2013 n. 268, risponde ad un sindaco che intende attivare tirocini formativi, mediante convenzioni con l'amministrazione provinciale.
Due sono le questioni principali. Innanzitutto, i giudici contabili sono chiamati a esprimersi sulla nozione di "spesa di personale" specificando, tra l'altro, se in tale aggregato vanno ricomprese le spese per praticantati e/o apprendistati.
A tale proposito è inevitabile il riferimento all'articolo 36 del Dlgs 165/2001, che prevede, al secondo comma, che le amministrazioni pubbliche possono avvalersi, per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, delle forme di lavoro flessibile. Tra queste sono esplicitamente richiamati gli "altri rapporti formativi". A parere della Corte dei conti, tale locuzione porta a una interpretazione che non può che essere ampia, ricomprendendo al suo interno qualunque forma di rapporto con intento formativo. Se la fattispecie è rapportata all'articolo 36, difficilmente si può sostenere che tale spesa non ricada tra i costi del personale; di conseguenza va conteggiata sia per la riduzione in valore assoluto (rispetto all'anno precedente per gli enti soggetti a patto) sia per determinare il rapporto tra spese di personale e spese correnti.
Il secondo aspetto preso in esame riguarda, invece, il contenimento delle forme di lavoro flessibile nel limite del 50% di quanto speso nell'anno 2009, come previsto dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010. Tale norma utilizza, ancora una volta, il termine "rapporti formativi" e, pertanto, la conclusione dei giudici contabili è inevitabile. Il tirocinio formativo, pur non costituendo un rapporto di lavoro in senso proprio, instaura un rapporto tra amministrazione e soggetto dal quale derivano specifici obblighi e diritti. In questo modo si instaura una relazione che può considerarsi rientrante nel concetto di rapporto formativo in senso ampio.
Va però ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza 173/2012, ha precisato che ciascun ente locale può determinare se e quanto ridurre la spesa relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma restando la necessità di osservare il limite della riduzione del 50 per cento della spesa complessiva rispetto a quella che è stata sostenuta nel 2009 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Consiglieri e basta. Politici fuori dai controlli interni. È quanto afferma la Corte dei conti della Liguria.
È inammissibile la partecipazione dei consiglieri comunali al sistema dei controlli interni disciplinato dall'articolo 147 del Tuel. E ciò per due motivi. Innanzitutto, l'elencazione dei soggetti coinvolti in tale sistema, che include le figure organizzative di maggior livello di responsabilità presenti negli enti locali, è da intendersi rigorosamente tassativa. Inoltre, essendo i controlli interni l'esplicazione di un'attività amministrativa, il loro esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali sono i consiglieri comunali.

È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Liguria nel testo del parere 10.05.2013 n. 35, con cui ha fatto chiarezza su un particolare aspetto in merito alla disciplina dei controlli interni novellata dal recente intervento legislativo operato con il «Salva Enti» (art. 3 del dl n. 174/2012).
Nel parere in esame, il sindaco del comune di Cervo (Im), chiedeva l'intervento della Corte in funzione consultiva per sapere se fosse legittima la modifica del regolamento comunale, nel prevedere che al sistema dei controlli interni, al segretario dell'ente, ai responsabili dei servizi e alle unità organizzative, potessero affiancarsi anche i componenti del consiglio comunale. Nel merito, la Corte ligure ha osservato che la lettura dell'art. 147 Tuel, nel testo della sua nuova formulazione, individua distintamente i soggetti coinvolti e che i successivi articoli definiscono chiaramente il ruolo di ciascuno di tali soggetti «non lasciando spazio all'inserimento di ulteriori figure con specifiche competenze».
Ne consegue che l'elencazione normativa dei soggetti che partecipano al sistema dei controlli interni è da considerarsi tassativa, ferma restando l'autonomia normativa e organizzativa di ciascun ente. Inoltre, depone a favore dell'inammissibilità della partecipazione dei consiglieri comunali a tale sistema un'ulteriore considerazione. In pratica, i controlli interni ex art. 147 Tuel appartengono alla categoria dei controlli amministrativi delle pubbliche amministrazioni. In tale categoria sono ricomprese tutte le varie forme di controllo che hanno a oggetto atti o attività poste in essere da organi o uffici amministrativi di un ente.
Pertanto, ammette la Corte, posto che si tratta di attività amministrativa, anche se strumentale rispetto a quella «attiva», il suo esercizio è precluso agli organi di natura politica, quali sono i componenti del consiglio comunale. Questi ultimi, piuttosto, figurano tra i soggetti referenti e beneficiari delle risultanze dell'attività di controllo espletate all'interno dell'apparato amministrativo e, qualora lo ritengano opportuno, possono utilizzare altri strumenti giuridici (su tutti, il deposito di interrogazioni e il diritto di accesso garantito dall'art. 43 Tuel) per garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze informative connesse all'adempimento del loro ufficio (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013).

QUESITI & PARERI

URBANISTICA: In che termini decadono le previsioni relative alla necessità di espropriare determinate aree?
Le aree necessarie alla realizzazione di opere per la viabilità sono destinate ad essere acquisite mediante espropriazione.
Il vincolo preordinato all'esproprio per pubblica utilità può derivare dall'approvazione di variante agli strumenti urbanistici comunali.
Le relative previsioni di P.R.G.C. rientrano fra quei vincoli destinati a decadere ai sensi dell'art. 2 della L. 19.11.1968, n. 1187 (ora art. 9 D.P.R. 08.06.2001, n. 327 - T.U. Espropriazione per pubblica utilità), qualora non siano stati attuati entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale gli strumenti urbanistici esecutivi e qualora non siano vincoli di natura conformativa.
Hanno natura conformativa, ad esempio le destinazioni a "parco urbano", "verde pubblico", "verde urbano" o "verde attrezzato", posto che, usualmente, tale destinazione non impedisce ogni possibilità di utilizzazione dei terreni da parte dei proprietari (Cons. Stato Sez. IV, 29.11.2012, n. 6094).
La reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti non è di per sé illegittima e può considerarsi correttamente disposta qualora sia corredata da una congrua e specifica motivazione circa l'attualità della previsione vincolistica, sia preceduta da una rinnovata ed adeguata comparazione fra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti e presenti una esaustiva giustificazione circa le scelte urbanistiche di piano.
Sono vincoli espropriativi e, come tali, soggetti a decadenza i vincoli incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata (TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.07.2011, n. 1456).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 08.06.2001, n. 327
Riferimenti di giurisprudenza

TAR Toscana Firenze Sez. I, 22.01.2013, n. 85 - Cons. Stato Sez. IV, 29.11.2012, n. 6094 - TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 16.06.2012, n. 421 - TAR Piemonte Torino Sez. II, 09.05.2012, n. 512 - TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.07.2011, n. 1456
 (18.10.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento dell'autorizzazione paesaggistica.
Domanda
L'Amministrazione statale ha l'obbligo di comunicare al privato interessato l'avvio del procedimento ministeriale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione sesta, con la sentenza del 14.08.2012, numero 4562, aveva sentenziato che sussiste l'obbligo in capo all'Amministrazione statale della comunicazione al privato interessato dell'avvio del procedimento ministeriale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica. I giudici amministrativi, per la fattispecie al loro esame, hanno applicato la normativa di cui al decreto ministeriale 13.06.1994, numero 495, cioè il Regolamento concernente disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 07.08.1990, numero 24, riguardanti i termini e i responsabili dei procedimenti.
Con successivo decreto ministeriale 19.06.2002, numero 165 (Regolamento di modifica del decreto ministeriale 13.06.1994, numero 495), il legislatore ha previsto che «la comunicazione prevista dal comma 1 non è dovuta per i procedimenti avviati ad istanza di parte, ed in particolare, per quelli disciplinati dagli articoli 21, 22, 23, 24, 25, 26, 34, 41, 43, 50, 51, 53, 55, 56, 59, 66, 68, 69, 72, 86, 102, 107, 108, 109, 113, 114, 151, 154, 157 del decreto legislativo 29.10.1999, n .490, anche quando l'istanza è stata previamente valutata da una diversa Amministrazione, in applicazione di norme di legge o di regolamento. È comunque fatta salva la possibilità per l'istante di presentare memorie o documenti».
Il Consiglio di Stato, però, con altre sentenza aveva sottolineato come la conoscenza da parte dell'interessato dell'avvio del procedimento statale, avvenuta in altri modi, potesse legittimare una limitazione all'obbligo rigoroso di comunicazione dell'avvio del procedimento statale (sentenza numero 685, del 13.02.2001; 29.01.2003, numero 2983, numero 408, del 2008) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Telefonia mobile.
Domanda
Il contributo per i diritti di installazione di strutture su proprietà pubbliche o private deve esse corrisposto dagli operatori non proprietari di tali strutture che utilizzino le stesse per prestare servizi di telefonia mobile?
Risposta
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, con la sentenza del 12.07.2012 (cause riunite C-55/11, C57/11; C58/11) – Vodafone España SA, ha interpretato l'articolo 13 della direttiva 2002/20/Ce nel senso che non si applica il contributo per i diritti di installazione di strutture su proprietà pubbliche o private, al di sopra o sotto di esse, agli operatori non proprietari di tali strutture che utilizzino le stesse per prestare servizi di telefonia mobile.
Detta normativa, per i giudici europei, ha un'efficacia diretta atteso che essa attribuisce ai singoli il diritto di avvalersene dinnanzi al giudice nazionale, anche per chiedere la disapplicazione dei provvedimenti nazionali che vengono ad assoggettare a contributo diritti non ricompresi in detta normativa. Pertanto, ai legislatori nazionali o locali viene vietata la facoltà di imporre oneri fiscali contributivi agli operatori che non siano proprietari delle strutture per il solo fatto che le utilizzano per prestare servizi di comunicazione elettronica, quali quelli di telefonia mobile.
Infatti, le frequenze, alla luce di tale principio, sono un bene di proprietà pubblica, per cui, alla luce di detta configurazione giuridica, deve esser meglio garantita l'utilizzazione ottimale dello spettro radio. Ciò comporta che deve essere garantita al meglio l'utilizzazione e distribuzione di servizi sulle stesse frequenze, nel rispetto dei limiti degli standard di compatibilità con il divieto delle interferenze dannose.
Nel caso, è da sottolineare che, pure a distanza di tempo, i principi internazionali relativi alle frequenze radio sono ancora oggi attuali e devono essere rispettati in tutto il mondo per una corretta ripartizione delle frequenze e delle loro allocazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistema fognario e depurazione.
Domanda
Le piogge eccezionali hanno mandato in tilt il depuratore del Comune nel cui settore lavoro. Detta situazione eccezionale può essere sanzionata a livello di Unione europea?
Risposta
La direttiva 91/271/Cee all'articolo 10, prevede, che gli «Stati membri provvedono affinché la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane realizzati per ottemperare ai requisiti fissati agli articoli da 4 a 7 siano condotte in modo ad garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali. La progettazione degli impianti deve tenere conto delle variazioni stagionali di carico».
La nota 1 a piè di pagina dell'Allegato 1 di detta direttiva 91/271/Cee, riferita al titolo «Reti fognarie», aggiunge: «Poiché non è possibile costruire reti fognarie e impianti di trattamento in modo che tutte le acque reflue possano venire trattate in situazioni come quelle determinate da piogge singolarmente abbondanti, gli Stati membri decidono le misure per contenere l'inquinamento da tracimazioni dovute a piogge violente. Tali provvedimenti possono essere basati sui tassi di diluizione o sulla capacità rispetto alla portata di tempo asciutto o possono specificare un numero accettabile di tracimazioni all'anno».
Con detta direttiva l'Unione europea non solo vuole raggiungere l'obiettivo di proteggere gli ecosistemi acquatici, ma vuole anche la preservazione dell'uomo, della fauna, della flora, del suolo, delle risorse idriche, dell'aria e del paesaggio da qualsiasi incidenza negativa connessa alla proliferazione delle alghe e di forme superiori di vita vegetale cagionata dagli scarichi di acque reflue urbane.
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. I, con la sentenza del 19.10.2012 (causa C-301/10), benché la predetta direttiva prenda in considerazione ipotesi di incapacità di trattamento di tutte le acque reflue in situazione come quelle determinate da piogge abbondanti, rimettendo agli Stati membri le misure per contenere l'inquinamento da tracimazioni dovute a piogge violente, ha affermato che i casi di incapacità di trattamento delle acque reflue, in situazioni come quelle determinate da piogge abbondanti, devono essere interpretati quali ipotesi eccezionali.
Infatti gli Stati membri, alla luce di detta direttiva devono, per i giudici, assicurare «prestazioni sufficienti» per trattare le piogge eccezionalmente abbondanti in base alle «tecniche migliori che non comportino costi eccessivi» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

AMBIENTE-ECoLOGIA: Piano di tutela delle acque.
Domanda
Gradirei avere notizie sul piano di tutela delle acque.
Risposta
L'articolo 121 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 121, dispone che il «Piano di tutela acque costituisce uno specifico piano di settore ed è articolato secondo i contenuti elencati nel presente articolo, nonché secondo le specifiche indicate nella parte B dell'Allegato 4 alla parte terza del presente decreto. Entro il 31.12.2006 le Autorità di bacino, nel contesto dell'attività di pianificazione o mediante atti di indirizzo e coordinamento, sentite le Province e le Autorità d'ambito, definiscono gli obiettivi su scala di distretto cui devono attenersi i piani di tutela delle acque, nonché le priorità degli interventi. Entro il 31.12.2007, le Regioni, sentite le Province e previa adozione delle eventuali misure di salvaguardia, adottano il Piano di tutela delle acque e lo trasmettono al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, nonché alle competenti autorità di bacino, per le verifiche di competenza».
L'articolo 27, del decreto legislativo n. 152, del 1999 prevede che gli «agglomerati devono essere provvisti di erte fognarie per le acque reflue urbane: a) entro il 31.12.2000 per quelli con numero di abitanti equivalenti o superiori a 15.000». Inoltre, il successivo articolo 31, al comma terzo, prevede che le «acque reflue urbane devono essere sottoposte prima della scarico, ad un trattamento secondario o a un trattamento equivalente in conformità con le indicazioni dell'allegato 5, e secondo le seguenti cadenze temporali; a) entro il 31.12.2000 per li scarichi provenienti da agglomerati con oltre 15.000 abitanti equivalenti».
La direttiva 91/271/Cee all'articolo 3, prevede, che gli «Stati membri provvedono affinché tutti gli agglomerati siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue - entro il 31.12.2000 per quelli con numero di abitanti equivalenti o superiore a 15.000. Laddove la realizzazione di una rete fognaria non sia giustificata o perché non presenterebbe vantaggi dal punto di vista ambientale o perché comporterebbe costi eccessivi, occorrerà avvalersi di sistemi individuali o di altri sistemi adeguati che raggiungano lo stesso livello di protezione ambientale».
Per abitante equivalente si intende, ai sensi dell'articolo 1 della direttiva 91/271/Cee, «il carico organico biodegradabile, avente una richiesta biochimica di ossigeno a 5 giorni (BOD5) di 60 g di ossigeno al giorno».
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VII, con la sentenza del 19.07.2012 (causa C-565/10) ha accertato che l'Italia è venuta meno agli obblighi derivanti dalla citata direttiva 91/271/Cee.
Detta sentenza è l'epilogo di un procedimento di infrazione avviato dalla Commissione europea contro l'Italia con procedimento pre-contenzioso e concluso dinnanzi la summenzionata Corte di giustizia, adita ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Tfue), versione consolidata in G.U. 30.03.2010, serie C, 83 (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Uso del telefonino.
Domanda
Nel rapporto di pubblico impiego cosa comporta l'uso per fini personali del telefono assegnato dall'amministrazione?
Risposta
L'utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze d'ufficio, è punibile come peculato d'uso. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall'apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicista, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a.
Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell'analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l'offensività del fatto, che, nel caso del peculato d'uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio: eventualità quest'ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. «tutto incluso».
L'uso del telefono d'ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi, penalmente irrilevante (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Procedimento disciplinare.
Domanda
In base a quali norme è sanzionato il mobbing?
Risposta
Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), ma deve altresì rispettare il principio generale di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.
Tali comportamenti, anche ove non siano determinati da norme di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice del merito, in quale, senza duplicare le voci del risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i meri pregiudizi -concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili- dai danni che vanno invece risarciti (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, decide lo Statuto. Soglie differenti per l'adunanza e per il voto. Le diverse maggioranze sono funzionali all'elezione del presidente.
Può ritenersi validamente costituito, ai fini dell'elezione del presidente, un consiglio comunale con un numero di consiglieri inferiore a quello prescritto dalle disposizioni statutarie e regolamentari per l'elezione in questione?

In merito alla disciplina del numero legale per la validità delle adunanze, «quorum strutturale», e delle votazioni, «quorum funzionale o deliberativo», l'art. 38 del dlgs n. 267/2000 si limita a disporre che «il regolamento indica il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Nel caso di specie, per quanto riguarda il quorum strutturale, lo statuto comunale prevede che «le sedute del consiglio comunale sono valide con la presenza di 16 consiglieri, o in seconda convocazione, con almeno 11 di essi, computando a tal fine anche il sindaco», facendo salvi i casi in cui la legge o lo stesso Statuto «richiedano una maggioranza qualificata o dispongano particolari modalità di votazione».
Per lo specifico quorum funzionale, invece, lo Statuto prevede che «il presidente è eletto tra i consiglieri (_) con il voto favorevole dei 2/3 dei componenti il consiglio comunale.
Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, si procederà ad una nuova votazione con le stesse modalità della prima. In caso di ulteriore esito negativo, si procederà a una terza votazione, nella quale sarà sufficiente raggiungere il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti il consiglio
».
Il regolamento consiliare, peraltro, ribadisce sostanzialmente il contenuto delle norme statutarie senza apportare ulteriori integrazioni alle modalità di elezione del presidente.
Pertanto, in base alle citate disposizioni, per la validità della seduta sarà necessario il raggiungimento del quorum strutturale indicato, ovvero la presenza di 16 consiglieri.
Ne consegue che, accertata la validità della seduta con la presenza del numero dei consiglieri prescritto dallo Statuto, qualora le prime due votazioni, che necessitano del voto favorevole di 2/3 dei componenti, dovessero risultare infruttuose, si potrà procedere alla terza votazione per la quale è richiesta la maggioranza assoluta.
Diversamente, qualora si accogliesse la tesi secondo cui il quorum funzionale iniziale dei 2/3 dei componenti del consiglio rende necessitato il raggiungimento del medesimo quorum ai fini della validità della seduta, ne deriverebbe l'oggettiva impossibilità, in carenza del suddetto quorum, di procedere alla terza votazione. Tale conclusione è incongruente con il meccanismo contemplato dalla norma statutaria in argomento, mirante a pervenire necessariamente all'elezione del presidente.
Il presidente, infatti, è un organo obbligatorio previsto dal nostro ordinamento che svolge funzioni fondamentali per l'attività del consiglio comunale e ne garantisce l'ordinato svolgimento dei lavori a tutela e garanzia della vita democratica dell'ente stesso (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

PATRIMONIO: Federalismo demaniale.
Domanda
A seguito del trasferimento a un Ente locale di immobili dello Stato tramite le procedure previste dall'art. 56-bis dl n. 69/2013 (Federalismo demaniale), l'Ente può procedere all'alienazione di detti immobili o sussistono particolari vincoli di inalienabilità?
Risposta
L'art. 56-bis, introdotto in sede di conversione al decreto legge n. 69/2013 («Decreto del Fare»), ha sbloccato e data concreta attuazione al processo di trasferimento dei beni patrimoniali dallo Stato agli Enti locali. Dal 01.09.2013 fino al 30.11.2013 gli Enti, in base al principio di sussidiarietà, potranno avanzare apposita richiesta all'Agenzia del demanio territorialmente competente per richiedere il trasferimento in proprietà dei beni.
I beni trasferiti, con tutte le pertinenze, accessori, oneri e pesi, entrano a far parte del patrimonio disponibile delle regioni e degli enti locali. Come patrimonio disponibile il bene può pertanto essere alienato, previo esperimento delle procedure previste dalla normativa, dall'Ente che ne ha acquisito la proprietà. La normativa in esame non prevede nessun particolare vincolo di inalienabilità.
In caso però gli enti decideranno di alienare i beni loro trasferiti potranno tenere per sé il 75% del ricavato e destinarlo prioritariamente alla riduzione dell'indebitamento. In assenza di debito (o per la parte eventualmente eccedente), le risorse ricavate potranno essere utilizzate per spese di investimento. Il restante 25% sarà invece destinato al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. (cfr. art. 56-bis, comma 10, decreto legge n. 69/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

PATRIMONIO: Ordine di sgombero
Domanda
Nel caso in cui un terzo occupi abusivamente un'area demaniale e presenta un'istanza di regolarizzazione la Pubblica amministrazione può ordinare ugualmente lo sgombero dell'area ?
Risposta
La Pubblica amministrazione può ordinare la rimozione delle strutture abusivamente installate su area demaniale anche in presenza di un'istanza di regolarizzazione, dal momento in cui non esiste un principio generale secondo cui la Pubblica amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi in pendenza di procedimenti di regolarizzazione dell'attività svolta (cfr. tra gli altri Tar Lazio, Sezione I-ter Roma n. 5551 del 04/06/2013).
Tale divieto deve trovare fondamento in un'esplicita previsione normativa (ex. art. 38 legge 47/1985), essendo un'eccezione al principio secondo cui la Pubblica amministrazione deve intervenire in presenza di ogni comportamento di privati che realizzi una violazione delle regole che disciplinano il territorio e l'utilizzo delle differenti aree (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI: Triplicato il contributo per le cause. La marca da 8 diventa da 25.
Arriva un salasso per gli avvocati. La cosiddetta «marca da otto», ossia l'importo forfettario di 8 euro che si versa, oltre al contributo unificato, all'atto dell'iscrizione a ruolo della causa, triplica e arriva a 25 euro per garantire l'assunzione dei nuovi magistrati vincitori di concorso. Per i quali lo stato spenderà 18,6 milioni nel 2014, 25,3 nel 2015 e 31,2 nel 2016, tutti finanziati attraverso l'aumento dei diritti di notifica e la riduzione di un terzo degli importi spettanti al difensore, all'ausiliario del magistrato, al consulente tecnico di parte e all'investigatore privato. E arriva anche l'obolo per partecipare agli esami di avvocato e ai concorsi di notaio e magistrato. Per partecipare l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense si dovranno versare 50 euro, mentre gli aspiranti cassazionisti dovranno pagarne 75. Sempre 50 euro sarà il contributo obbligatorio a carico dei futuri notai e magistrati.

Con la bozza di legge di stabilità 2014 il ministero della giustizia ha chiarito una volte per tutte che, di questi tempi, i concorsi costano troppo. Troppi i candidati per l'esame di avvocato, ad esempio, che costano a via Arenula, tra allestimento delle aule, cancelleria e rimborso spese per i commissari, circa 3 milioni di euro a sessione. Soldi che le tasse attualmente pagate dai candidati (12,91 euro più 14,62 euro per bollo) non bastano a coprire.
In questo modo, stima la relazione illustrativa della bozza di manovra, considerando che in media partecipano all'esame 37.000 candidati a sessione, il ministero guidato da Anna Maria Cancellieri incamererà 1.850.000 euro, coprendo così parte delle spese. Anche il concorso da notaio in quanto a costi non scherza. Il ministero spende circa 470.000 euro e per questo chiede ai 5.500 candidati che in media si presentano al concorso di pagare 50 euro.
Per quanto riguarda invece le future toghe, la necessità di imporre un contributo di 50 euro si impone in considerazione del fatto, si giustifica il ministero, che per ogni concorso si spendono in media 2 milioni di euro (articolo ItaliaOggi del 15.10.2013).

PATRIMONIO -  VARI: Una polizza contro il terremoto. Lo stato non paga i danni. Spetta alle famiglie tutelarsi. Guida alle offerte delle compagnie: i costi variano in base al valore dell'immobile.
La polizza anti-sisma potrebbe presto diventare obbligatoria, con la necessità per famiglie e imprese di provvedere autonomamente alla loro protezione in caso di disastro naturale.
Le compagnie stanno dunque adeguando la propria offerta con nuovi prodotti che puntano a tutelare dai danni da terremoto. Prima di sottoscrivere qualsiasi contratto occhio, però, a limitazioni ed esclusioni, franchigie e massimali.
Il governo pensa all'assicurazione obbligatoria. La riforma della Protezione civile varata lo scorso anno dal governo Monti prevede che lo stato non si farà più carico dei danni da alluvioni, terremoti e altre calamità naturali, lasciando a imprese e famiglie la libertà di decidere se tutelarsi oppure no. Il nuovo esecutivo Letta sta però pensando di rendere obbligatoria la copertura contro i danni da catastrofi naturali. Due le strade che il governo sta prendendo in considerazione per alleggerire l'assicurazione: defiscalizzare i premi per le assicurazioni anti terremoto, visto che attualmente circa il 20% del premio pagato finisce in tasse, o prevedere un'integrazione della spesa per i premi da parte delle imprese costruttrici al momento della consegna degli immobili per la vendita. Le associazioni dei consumatori ritengono però che l'obbligo di copertura assicurativa contro le calamità naturali rappresenterebbe un'ulteriore spesa a carico delle famiglie. Federconsumatori e Adusbef hanno ad esempio calcolato che il costo medio di una copertura obbligatoria sui fabbricati si aggira sui 100 euro circa a famiglia; aggiungendo anche la copertura del rischio legato a disastri naturali il costo salirebbe a 200 euro per ogni famiglia che vive in condominio.
Come funzionano e aspetti da tenere d'occhio. Le polizze anti-sisma sono spesso legate alla sottoscrizione di un'assicurazione sulla casa e hanno carattere modulare. I costi variano in base al valore e alle caratteristiche dell'immobile, nonché alla sua ubicazione. I prodotti sono inoltre apparentemente simili, ma in realtà è bene fare grande attenzione ai dettagli che possono fare la differenza. Da considerare, ad esempio, che non sempre la stessa clausola copre sia i danni all'edificio sia al suo contenuto; quasi tutte le polizze poi assicurano il box e la cantina, ma non un eventuale giardino o terreno. Prima di sottoscrivere qualsiasi contratto è dunque bene controllare limitazioni ed esclusioni della copertura assicurativa, nonché franchigie e massimali.
Le proposte degli operatori. Tra le offerte delle varie compagnie, Allianz propone Casa tua Eventi Sismici, polizza che mette a disposizione fino al 50% della somma assicurata per affrontare la ricostruzione della casa e i disagi causati dal terremoto. In particolare, il prodotto indennizza i danni alla struttura e agli impianti dell'abitazione, agli arredi, agli elettrodomestici, agli oggetti personali anche contenuti nelle pertinenze come cantina e box. Sono inoltre comprese le spese per demolizione e sgombero, il trasporto e deposito dei beni presso terzi durante la ristrutturazione e il rifacimento dei documenti dell'intero nucleo familiare. Nel caso in cui l'abitazione risultasse inagibile la polizza rimborsa fino a tre mesi le spese di pernottamento in albergo.
Axa offre invece Protezione Familiare per il terremoto, polizza che rimborsa per i danni materiali causati dal sisma alla casa (inclusi incendio, esplosioni e scoppio). Possono essere assicurate, oltre che le case tradizionali, anche quelle in bioedilizia o gli chalet. La copertura contro il terremoto è acquistabile in abbinamento a Protezione familiare e a Protezione familiare per la mia casa.
Genertel propone invece Quality home, assicurazione online che, oltre a proteggere l'abitazione, i suoi abitanti e il suo contenuto, copre anche i danni più gravi al fabbricato che derivano da alluvioni, inondazioni o terremoti. La formula può essere modulata a seconda delle esigenze: è infatti possibile scegliere tra vari livelli di protezione grazie a diversi set di garanzie a partire da 2,20 euro al mq. La polizza è inoltre personalizzabile in base al tipo di abitazione da assicurare (villa, villetta a schiera, condominio), alla situazione abitativa (casa di proprietà o affitto) e alla metratura. L'assicurazione prevede inoltre una speciale garanzia di assistenza all'abitazione (in collaborazione con Europ Assistance), con massimale triplicato in caso di intervento di emergenza, 24 ore su 24, con fabbro, idraulico ed elettricista per i piccoli imprevisti quotidiani oltre all'assistenza legale gratuita.
Toro Assicurazioni propone invece Garanzia Terremoto Casa, polizza complementare all'assicurazione per la casa e la famiglia Master Casa che consente di tutelarsi dai danni causati dal terremoto. È possibile scegliere tra due formule: quella base garantisce l'immobile contro i danni provocati dal sisma; la formula full offre invece, oltre a quanto coperto dalla forma base, anche un'indennità aggiuntiva, il rimborso delle spese alberghiere o di affitto in caso di inagibilità e di crollo dell'abitazione e il rimborso delle spese per la riparazione di autoveicoli di proprietà della famiglia che siano stati danneggiati dal sisma (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

INCARICHI PROFESSIONALII nuovi «parametri» premiano gli avvocati. Compensi medi più alti - Torna il rimborso spese forfettario.
DOPO LE TARIFFE/ I valori sono utilizzabili come riferimento quando non c'è accordo tra le parti sulla somma dovuta.

Compensi più elevati per (quasi) tutti i gradi e le fasi di giudizio. Un taglio meno deciso per il gratuito patrocinio. E il ritorno del rimborso delle spese forfettarie, che si aggiunge al "prezzo" della prestazione e alla restituzione dei costi sostenuti.
È con questi interventi che lo schema di regolamento sui nuovi parametri –messo a punto dal ministero della Giustizia per dare attuazione alla riforma dell'avvocatura e ora inviato al Consiglio di Stato e al Consiglio nazionale forense per i pareri– supera i valori previsti dal Dm 140/2012 e premia le parcelle dei legali.
Attenzione, però: si tratta di importi che possono essere utilizzati come guida per definire i compensi –in primo luogo dal giudice, se manca l'accordo delle parti– ma che non sono vincolanti. Resta ferma, infatti, l'abrogazione delle tariffe, cancellate dal decreto legge 1 del 2012.
Importi rivisti
Alla prova di alcuni casi concreti (si vedano gli schemi pubblicati a fianco), i nuovi parametri si rivelano quasi sempre più generosi rispetto ai vecchi importi: ad esempio, cresce di oltre il doppio (da 495 a 1.197 euro) il compenso minimo che può spettare al legale che difende un imputato ammesso al gratuito patrocinio di fronte al tribunale monocratico; mentre aumenta di più del 20% (da 6.336 a 7.767 euro) la parcella massima che può essere liquidata per un giudizio tributario in secondo grado, se include anche il rimborso delle spese di trasferta.
Si tratta di risultati a cui contribuiscono più fattori. Intanto, il nuovo schema di regolamento eleva, rispetto al Dm 140, quasi tutti i compensi medi per le singole fasi. Peraltro, gli importi individuati dal ministero –come chiarisce la relazione illustrativa dello schema di provvedimento– sono inferiori rispetto a quelli che erano stati proposti dal Cnf.
Inoltre, il nuovo regolamento rimodula la forbice delle riduzioni e delle maggiorazioni sul compenso medio del giudizio: per ogni fase, si prevedono aumenti fino all'80% e sconti fino al 50%, tranne che per la fase istruttoria dei riti civili, tributari e amministrativi, per cui sono fissati incrementi fino al doppio e riduzioni fino al 70 per cento.
I nuovi parametri riducono poi la sforbiciata ai compensi per gli avvocati che difendono i clienti ammessi al patrocinio a spese dello Stato: mentre il Dm 140 prevedeva un taglio del 50%, lo schema di regolamento mantiene la riduzione per esigenze di bilancio, ma la ferma al 30 per cento.
Ma i nuovi parametri non portano in dote solo aumenti. Ad esempio, nei giudizi di fronte al giudice di pace i compensi medi vengono ridotti in modo significativo rispetto a quelli previsti dal Dm 140. Così, il compenso medio per il legale che difende un cittadino che impugna una multa può scendere di oltre il 70% (da 850 a 265 euro).
Le spese forfettarie
La bozza di regolamento i reintroduce una voce di rimborso autonoma rispetto ai compensi per l'attività svolta e alle spese documentate. Si tratta delle «spese generali» già previste dalle tariffe, vale a dire un rimborso spese forfettario, che mira a coprire i costi effettivi ma non documentabili (come quelli per la gestione dello studio).
Il rimborso forfettario, cancellato dal Dm 140, viene ora reintrodotto «di regola nella misura tra il 10 e il 20% del compenso per la prestazione». Così, lo schema di regolamento dà attuazione alla norma della riforma forense per cui le spese forfettarie sono dovute al legale «oltre al compenso per la prestazione professionale» e «al rimborso delle spese effettivamente sostenute».
I giudizi tributari
Il nuovo schema di regolamento introduce parametri ad hoc per i giudizi tributari, con tabelle autonome (per i procedimenti in commissione tributaria provinciale e regionale) rispetto a quelle previste per la difesa civile in tribunale.
Ma i compensi più alti sono stati stabiliti per la fase istruttoria e/o di trattazione, che nel rito tributario è pressoché inesistente, dato che non è prevista la possibilità di sentire testimoni o di espletare l'interrogatorio formale. Piuttosto, sarebbe opportuno che i valori indicati nella fase istruttoria fossero riconosciuti nella fase decisionale, sicuramente più delicata nel processo tributario (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013).

EDILIZIA PRIVATACostruzioni. Pagamento richiesto in base al carico urbanistico.
Oneri e contributo, gratuiti soltanto i lavori edilizi minori. Sempre esonerata la manutenzione.
Gli interventi edilizi minori sono gratuiti. Per la manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili non viene richiesto il contributo di costruzione. Mentre la nuova costruzione produce, sempre, un incremento del carico urbanistico sull'area di intervento ed è quindi un intervento oneroso.

Ma non è il solo titolo edilizio a distinguere i lavori soggetti al contributo da quelli esenti. Di recente, infatti, sono stati considerati onerosi anche gli interventi che comportano un aumento delle superfici utili di calpestio (Corte di giustizia amministrativa sentenza 05.09.2013, n. 741) pur in assenza di aumento di cubatura (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 999/1999).
L'articolo 16 del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) precisa che per il rilascio del permesso di costruire l'interessato è tenuto a versare all'amministrazione comunale un contributo di costruzione che si compone di due voci, l'incidenza degli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione. Attraverso la quota degli oneri di urbanizzazione del contributo di costruzione, il titolare del permesso di costruire è chiamato a partecipare ai costi sociali delle opere di urbanizzazione, le quali, quindi, si ridistribuiscono e gravano su coloro che beneficeranno delle utilità del nuovo intervento. La quota per costo di costruzione si giustifica per l'aumentata capacità contributiva del titolare.
Gli interventi a pagamento
L'onerosità del titolo abilitativo va ravvisata ogniqualvolta un nuovo intervento edilizio produca un aggravio del carico urbanistico sul territorio. È quindi il caso delle ristrutturazioni mediante demolizione e ricostruzione: questi interventi, portando alla definizione di un bene nella sostanza nuovo, producono di regola un incremento del carico urbanistico pari a quello delle nuove costruzioni (Tar Lombardia, Sezione II, n. 4455/2009). Il tipo di permesso necessario per l'esecuzione degli interventi di ristrutturazione non incide sull'obbligatorietà del contributo: esso dovrà, quindi, essere corrisposto anche se la ristrutturazione è soggetta a semplice Scia.
I lavori gratuiti
Sono gratuiti gli interventi minori, quali le opere di manutenzione ordinaria, straordinaria e di risanamento conservativo. Le modifiche interne ad unità abitative, come apertura di porte interne o spostamento di pareti, sono in particolare gratuite sempre che non comportino la modifica dei parametri urbanistici quali la superficie utile.
Inoltre, secondo il Testo unico il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi da realizzare in zona agricola, funzionali alla conduzione del fondo e alle esigenze dell'imprenditore agricolo.
Tra le fattispecie gratuite, poi, l'articolo 17 annovera gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento di edifici unifamiliari, in misura non superiore al 20%. Sul punto l'interpretazione giurisprudenziale è fortemente restrittiva: sono stati considerati onerosi, infatti, gli interventi su immobili familiari destinati allo svolgimento di attività produttive o con destinazione mista abitativa e produttiva, come i bed & breakfast: in questi casi, la giurisprudenza vi ha scorto un fine di lucro incompatibile con lo scopo della norma che tende -tramite la gratuità- a favorire il miglioramento delle esigenze abitative dei nuclei familiari (Tar Marche, sezione I, sentenza 10.05.2012, n. 310; Tar Campania sezione I, sentenza 08.01.2013, n. 25).
Sono gratuite, poi, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici. Nell'ambito delle opere di urbanizzazione, la Legge Tognoli (legge 122/1989) fa rientrare i parcheggi che, pertanto, non sono soggetti a contributo concessorio (Tar Campania, Sezione II, sentenza 24.05.2013, n. 2745).
Sono gratuiti anche gli interventi da realizzare in attuazione di norme speciali a seguito di pubbliche calamità nonché gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili o comunque volti alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia.
Sempre l'articolo 17 del Dpr 380 prevede, poi, due ipotesi di riduzione del contributo di costruzione:
- edilizia abitativa convenzionata;
- realizzazione della prima abitazione.
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La mappa
LE ECCEZIONI - I casi di esenzione o riduzione parziale dal contributo di costruzione
CONTRIBUTO RIDOTTO
01 | EDILIZIA CONVENZIONATA
Contributo limitato alla sola quota degli oneri di urbanizzazione per affitti calmierati
02 | PRIMA CASA
Contributo equivalente a quanto previsto per l'edilizia residenziale pubblica
ESENTI DA CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
01 | INTERVENTI IN ZONA AGRICOLA
Il contributo non è dovuto solo se gli interventi sono funzionali:
- alla conduzione del fondo, e
- alle esigenze dell'imprenditore agricolo
02 | RISTRUTTURAZIONE E AMPLIAMENTO DI EDIFICI UNIFAMILIARI
Il contributo non è dovuto per gli ampliamenti in misura inferiore al 20% dell'edificio
03 | OPERE PUBBLICHE
Realizzate da enti istituzionalmente competenti
04 | OPERE DI URBANIZZAZIONE
Niente contributo per le opere eseguite, anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici
05 | FONTI RINNOVABILI
«Gratuita» anche l'installazione di strumenti volti alla produzione di energia o all'uso razionale dell'energia
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La determinazione. Per Dia e Scia autoliquidazione del privato. Dieci anni di tempo per opporsi ai conteggi.
LA RINUNCIA/ Si ha diritto alla restituzione delle somme versate quando si cambia idea e il progetto autorizzato resta sulla carta.

Il contributo di costruzione viene calcolato dal Comune prima di rilasciare il permesso di costruire. Sono i Comuni a determinare l'ammontare della quota di oneri di urbanizzazione (sulla base delle tabelle parametriche definite dalla Regione) mentre la quota di costo di costruzione è fissata dalle Regioni.
Per gli interventi edilizi autorizzabili tramite titoli autocertificati (Scia e Dia) il contributo è calcolato dal soggetto che richiede il titolo, il quale tramite modelli di calcolo predisposti dal Comune, si autoliquida gli oneri dovuti. Resta fermo, poi, il potere del Comune di valutare la congruità dell'autoliquidazione effettuata dal privato e, eventualmente, richiedere integrazioni.
La determinazione degli oneri dovuti per il singolo intervento può essere contestata da parte del privato. Il soggetto si può opporre ai calcoli aritmetici eseguiti dall'amministrazione: il ricorso, in tal caso, riguarda il diritto soggettivo alla corretta quantificazione degli oneri dovuti e può essere proposto nel termine di prescrizione decennale (Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 24.09.2012, n. 5080).
Viceversa, se si contesta la ragione del credito il termine di decadenza torna ad essere quello ordinario di 60 giorni. Se ad esempio è in discussione la legittimità di una tabella parametrica di un Comune che assoggetta al pagamento degli oneri gli spostamenti interni di pareti, il rapporto tra le parti non può essere considerato paritetico (ci si oppone, infatti, l'esercizio di un potere) con la conseguenza che il ricorso contro la determinazione dell'onere dovrà essere proposto nell'ordinario termine decadenziale di 60 giorni.
Cosa succede se, dopo aver versato il contributo, il privato non realizzi più (o realizzi solo parzialmente) l'opera assentita? Ciò può accadere sia per mutamento di decisione da parte del titolare del permesso sia per intervenuto decorso dei termini di inizio o fine lavori, sia infine per il sopravvenire di previsioni urbanistiche contrastanti con le opere autorizzate e non ancora realizzate. In tal caso, sorge in capo all'interessato il diritto alla restituzione di quanto versato all'amministrazione. Il contributo, infatti, è connesso all'incremento del carico urbanistico nell'area: se l'intervento non viene realizzato non si realizza il presupposto del contributo, con la conseguenza che quanto versato è stato indebitamente percepito dall'amministrazione comunale e di tale somma il privato può richiederne la restituzione (Tar Lombardia - Brescia, Sezione I, 30.01.2011, n. 188).
L'obbligo giuridico di corrispondere il contributo sorge, infatti, con il rilascio della concessione edilizia, non venendo in rilievo né la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 22.02.2011, n. 1108), né la mancata realizzazione delle opere assentite(Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 30.07.2012 n. 4320).
Il termine di prescrizione del diritto alla restituzione inizia a decorrere dal momento in cui il privato comunica la propria intenzione di non procedere con l'edificazione (Tar Lombardia, Sezione II, 24.03.2010, n. 728) o a partire dalla data in cui sia intervenuta la decadenza della concessione per la mancata realizzazione delle opere (Tar Campania-Salerno, Sezione II, sentenza 05.05.2013, n. 513).
Parimenti, anche il diritto dell'amministrazione a sollecitare il pagamento non versato o a richiedere eventuali maggiorazioni degli importi dovuti, soggiace allo stesso termine decennale di impugnazione, decorso il quale scatta la prescrizione (Tar Campania, Sezione IV, sentenza 22.05.2013, n. 2634).
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Senza opere. A decidere sono i piani comunali. Il cambio d'uso può far scattare il pagamento.
Il mutamento di destinazione d'uso di un immobile può risultare oneroso. La quantificazione dipende da una serie di fattori di natura urbanistica.
La disciplina del mutamento d'uso, a livello nazionale, è principalmente contenuta nell'articolo 10 del Dpr 380/2001 (Testo unico edilizia), che tuttavia affida alle Regioni il compito di stabilire quali mutamenti d'uso, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche dei fabbricati, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività. Le Regioni, a loro volta, normalmente demandano l'identificazione delle specifiche ricadute delle singole tipologie di mutamento d'uso agli strumenti urbanistici comunali.
In materia, interviene, anche, l'articolo 19 dello stesso Dpr che, con riguardo alle opere non destinate alla residenza, specifica che, qualora la loro destinazione d'uso venga modificata nei dieci anni successivi alla fine dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, calcolata al momento della variazione.
La materia non ha, dunque, una disciplina unitaria sull'intero territorio nazionale. Comunque,l'evoluzione giurisprudenziale consente di individuare alcuni principi consolidati.
Innanzitutto, il mutamento d'uso di un fabbricato in favore di una determinata destinazione è ammesso solo se questa rientra in quelle consentite per l'area dallo strumento urbanistico generale: prima di procedere ad un cambio d'uso occorre, quindi, verificare la compatibilità della funzione rispetto alla regolamentazione comunale.
Per quanto attiene al profilo economico, il mutamento sarà oneroso se c'è passaggio tra categorie urbanistiche funzionalmente autonome, sia che si tratti di mutamenti d'uso con opere, sia che si tratti di mutamenti senza opere.
Come recentemente ribadito dalla giurisprudenza, infatti, il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione su quanti ne beneficiano, con la conseguenza che, nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto per il pagamento della differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione (Consiglio di Stato, sentenza 30.08.2013, n. 4326).
Alla luce di questo principio, un cambio d'uso, ancorché senza opere, che determina un maggior carico urbanistico, può configurare il presupposto per il pagamento del contributo con conseguente necessità di pagare la differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione.
Il mutamento d'uso può, inoltre, implicare l'adeguamento della dotazione di aree a standard. La giurisprudenza ha ritenuto legittima la disposizione di uno strumento urbanistico che condiziona i cambi d'uso con opere alla cessione o alla monetizzazione delle aree a standard aggiuntive (Tar Lombardia, sentenza 22.07.2010, n. 3256) (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013).

LAVORI PUBBLICI: Opere pubbliche, il programma arriva al rush finale. Lavori. Approvazione entro domani.
IL DEBUTTO/ Dall'esercizio 2013 la pianificazione facoltativa si estende anche ai servizi e alle forniture su base annuale.

Entro domani, 15 ottobre le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare lo schema di programma triennale degli aggiornamenti e dell'elenco annuale delle opere pubbliche.
La scadenza è stabilita dal decreto del ministero delle Infrastrutture 09.06.2005, con cui sono stati approvati anche gli schemi tipo che dovranno essere affissi per almeno sessanta giorni consecutivi nella sede dell'amministrazione. Il successivo Dm 11.11.2011, che si applica a partire dall'esercizio 2013, ha dettato nuove regole sulla programmazione, estesa anche all'acquisto di beni e servizi. Per questi ultimi, però, il programma è facoltativo e ha cadenza soltanto annuale.
Nel programma triennale dei lavori, che costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei bisogni della collettività, devono trovare distinta indicazione anche eventuali immobili pubblici da cedere a titolo di corrispettivo del contratto di appalto (articolo 53, comma 6, Dlgs 163/2006).
L'elenco annuale deve poi essere approvato unitamente al bilancio di previsione, di cui costituisce parte integrante, e deve contenere l'indicazione dei mezzi finanziari stanziati, ovvero disponibili in base a contributi o risorse di soggetti pubblici o privati.
Le esigenze di coerenza del sistema programmatorio degli enti locali impongono la verifica della corrispondenza fra le previsioni di bilancio e quelle di realizzazione delle opere pubbliche.
Il bilancio annuale e pluriennale, nonché la relazione previsionale e programmatica, devono trovare piena corrispondenza nelle previsioni del programma triennale dei lavori pubblici e negli altri documenti di pianificazione strategica che l'ente è tenuto ad approvare, tra i quali il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari.
Per gli enti sperimentatori che adottano un bilancio armonizzato ai sensi del Dlgs 118/2011 la programmazione delle opere pubbliche deve andare oltre. È necessaria anche la formulazione del cronoprogramma (previsione degli importi degli stati avanzamento lavori) per ogni intervento programmato.
Ai fini della programmazione nel bilancio armonizzato, infatti, il principio della competenza finanziaria potenziato richiede che le spese di investimento siano impegnate negli esercizi in cui scadono le singole obbligazioni passive sulla base del relativo cronoprogramma.
Sempre sulla base del piano di realizzazione dei lavori l'ente sperimentatore prevede il fondo pluriennale vincolato, definito come il saldo finanziario costituito da risorse già accertate destinate al finanziamento di obbligazioni passive dell'ente già impegnate, ma esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l'entrata.
Con il fondo pluriennale vincolato in sostanza sono rappresentati in bilancio i tempi di impiego (ultrannuale) delle risorse già acquisite.
La stessa fotografia dovrà essere recepita anche dal programma delle opere pubbliche, che dovrà essere "armonizzato" con i nuovi principi e le nuove regole contabili.
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In sintesi
01|LA SCADENZA
Il 15 ottobre è il termine ultimo per tutti gli enti pubblici per approvare il programma triennale delle opere pubbliche, l'aggiornamento e l'elenco annuale delle opere pubbliche
02|IL PROGRAMMA
Il programma triennale valuta i fabbisogni infrastrutturali della collettività e individua i finanziamenti
03|I SERVIZI
Da quest'anno l'ente potrà adottare un modello di programmazione, solo annuale, anche per servizi e forniture (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013).

CONDOMINIOLa trasparenza batte la privacy. È obbligatoria l'affissione dei dati dell'amministratore. Le linee guida del garante sugli adempimenti a seguito della riforma del condominio.
La privacy non stoppa la trasparenza condominiale. I dati sul sito web dello stabile devono, però, essere appannaggio dei soli condomini. Attenzione, inoltre, ai videocitofoni: se sono come le telecamere della videosorveglianza, sono necessari cartelli e le immagini devono essere eliminate in tempi brevi.

Sono queste alcune delle indicazioni del manuale "Il condominio e la privacy", predisposto dal garante della privacy e aggiornato alla riforma del condominio (legge 220/2012).
Dati dell'amministratore. La reperibilità dell'amministratore non contrasta con la privacy. Il vademecum del garante richiama la riforma del condominio, nella parte in cui prevede che l'amministratore sia tenuto a comunicare ai condomini anche i propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale o, se si tratta di società, la denominazione e la sede legale. Le generalità, il domicilio e i recapiti, inclusi quelli telefonici, dell'amministratore (o della persona che svolge funzioni analoghe a quelle dell'amministratore) devono essere anche affissi all'ingresso del condominio o nei luoghi di maggior transito. Si tratta di informazioni funzionali all'adempimento degli obblighi contrattuali dell'amministratore, il quale non può invocare il velo della privacy per non farsi rintracciare dai condomini.
Rendicontazione trasparente. La legge di riforma ha rafforzato la trasparenza condominiale. Il garante prende atto che l'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi e anche quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente postale o bancario, intestato al condominio stesso. Nessun ostacolo dal fronte privacy all'accesso alla rendicontazione: ogni condomino ha diritto di chiedere, per il tramite dell'amministratore, di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica.
Videocitofoni. Di regola l'installazione del videocitofono non pone problemi di privacy. Diverso è, però, il discorso per i videocitofoni di ultima generazione e, anche, per altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione. Questi strumenti possono talvolta essere equiparati ai sistemi di videosorveglianza. E allora scattano le stesse regole previste dal Codice della privacy e dal provvedimento generale del garante in tema di videosorveglianza. A meno che non si tratti di sistemi installati da persone fisiche per fini esclusivamente personali e le immagini non siano destinate alla comunicazione sistematica o alla diffusione (per esempio su Internet). Se il videocitofono, quindi, è installato da un singolo o da una famiglia per finalità esclusivamente personali, non occorre mettere il cartello per segnalare la presenza dell'apparecchio di ripresa.
Maggiorazione per la videosorveglianza. La riforma del condominio ha precisato il quorum richiesto per poter installare un sistema di videosorveglianza condominiale. L'assemblea può deliberare l'installazione di un sistema di videosorveglianza sulle parti comuni solo con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Sito web del condominio. La riforma della normativa condominiale ha sancito che il condominio può avere il suo sito internet: può essere una piattaforma per rendere disponibili i documenti relativi alla gestione dell'edificio. Lo stesso garante sottolinea che, attraverso il sito web, le persone che ne hanno diritto possono consultare ed estrarre copia dei documenti condominiali. La prerogativa non riguarda tutti coloro che accedono al sito internet dello stabile: devono quindi essere previste delle procedure, per esempio l'autenticazione tramite password individuale, che consentano l'accesso sicuro a tali documenti digitali. Le cautele devono essere maggiori nel caso in cui siano trattati dati sensibili, come quelli che si riferiscono alle condizioni di salute di una persona o quelli giudiziari.
Affittuario. L'affittuario non può accedere ai dati sulla gestione del condominio. Beninteso può esercitare il diritto di accesso ai propri dati personali e gli altri diritti garantiti dal codice della privacy. In riferimento alla normativa sulla privacy, non può però chiedere l'accesso ai dati sulla gestione del condominio (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Zone di pregio, addio ai tavolini. Lo ha stabilito il decreto legge Cultura.
Stop a tavolini, sedie e ombrelloni, nelle zone di pregio; ma soltanto dove decidono regione e soprintendenza. Maggiori vincoli, in pratica, per le attività commerciali, in senso lato, che si svolgono nei centri storici e comunque nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico.

Lo ha stabilito il decreto legge Cultura 91/2013 nel testo modificato dalla legge di conversione 07.10.2013, n. 112, pubblicata nella G.U. di martedì scorso, 8 ottobre.
La scelta del legislatore è stata quella di aggiungere un comma all'articolo 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (dlgs 42/2004) di cui tra l'altro viene anche modificata la rubrica, che già imponeva ai comuni di richiedere alla sopraintendenza il parere in merito alla individuazione delle aree da sottoporre a particolari vincoli per lo svolgimento dell'attività di commercio. Evidentemente il sistema non ha funzionato se oggi la competenza a intervenire viene assegnata direttamente alle direzioni regionali e alle soprintendenze che, sentiti gli enti locali, provvederanno in merito adottando apposite determinazioni.
Lo scopo è quello di vietare l'uso del territorio non compatibile con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale. I settori interessati, oltre alle aree mercatali, sono quelli del commercio itinerante ma anche le concessioni di occupazione di suolo pubblico. Quelle, per intenderci, che interessano l'area esterna a bar e ristoranti per la collocazione di tavolini e ombrelloni e che non beneficiano del posteggio pluriennale come avviene per il tradizionale commercio ambulante.
Insomma, il problema non è più soltanto quello sollevato nelle varie direttive decoro che si sono succedute nel tempo (Rutelli e Ornaghi) del contrasto al commercio abusivo, bensì quello di impedire l'esercizio sia di attività commerciali che artigianali sia qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale.
Il messaggio è chiaro: va assicurato decoro ai complessi monumentali e gli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, comprese le aree adiacenti (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOUna speranza per i precari p.a.. Prorogata al 2016 la corsia preferenziale nei concorsi. Il senato ha dato l'ok al decreto sul pubblico impiego. Salta la mobilità nelle partecipate.
Assunzioni più vicine per i precari del pubblico impiego: fino al 2016 a chi ha avuto un contratto a tempo determinato per tre anni (nell'ultimo quinquennio) viene riservata la metà dei posti messi a concorso. Nessun salvataggio (finora), invece, per dipendenti di aziende pubbliche in crisi che non potranno essere assorbiti in società della stessa natura, tema su cui si esprimerà, però, palazzo Chigi nell'imminente manovra finanziaria.
L'aula del senato ha dato il via libera, con 137 voti favorevoli, 57 contrari e un astenuto, al decreto 101/2013 sulla stabilizzazione del personale che opera nelle amministrazioni pubbliche, che passa adesso al vaglio dei deputati, che dovranno convertirlo in legge entro il 31 ottobre.
Un provvedimento che da un lato si pone come obiettivo la stabilizzazione degli occupati a termine nella p.a. e, dall'altro, la lotta agli sprechi, tagliando i costi della politica e imponendo una sforbiciata alle auto blu (nel 2014 si scende dall'80 al 60% della spesa effettuata quest'anno) e alle consulenze (dal 90 all'80% sempre con riferimento a quanto investito nel 2013); oltre, poi, alla citata «corsia preferenziale» destinata a chi ha già lavorato per tre anni negli enti, la validità delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici con assunzioni a tempo indeterminato viene prorogata di un anno, ossia fino al 2016 (quando, cioè, terminerà il blocco del turnover).
E, nell'ambito del processo di riforma delle province, si «recuperano» fino al 31.12.2014 gli incarichi dirigenziali che avevano esse stesse conferito. Semaforo verde a due proposte (una del governo, l'altra di Scelta civica) che sopprimono quasi tutto l'articolo 3: cadono le misure sulla mobilità degli addetti fra società partecipate direttamente, o indirettamente, dalle amministrazioni (Stato, Regioni, Enti locali e Asl) in «default» o in dismissione, ritenute troppo onerose dalla commissione Bilancio, ma il tema non finisce nel dimenticatoio, perché passa l'ordine del giorno della maggioranza che impegna l'esecutivo ad «affrontare il tema a partire dalla prossima legge di stabilità». Restano in piedi le norme sugli uffici giudiziari «caratterizzati da una grave carenza di» dipendenti, dunque si permette «un più rapido assorbimento di personale soprannumerario, attraverso procedure di mobilità».
A seguire, palazzo Madama licenzia il passaggio degli oneri delle visite mediche dalle aziende sanitarie all'Inps: le liste speciali (costituite con legge 463/1983) dei «camici bianchi» fiscali vengono trasformate in elenchi «ad esaurimento», in cui si confermano i professionisti «inseriti nelle suddette liste alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e che vi risultavano già iscritti alla data del 31.12.2007». Nasce l'Agenzia per la coesione territoriale per aiutare le amministrazioni nella gestione e programmazione dei fondi strutturali europei, tuttavia non sarà dotata (come previsto inizialmente) di «120 unità altamente qualificate».
Agli ex collaboratori di giustizia si aprono le porte della p.a. e nella Dia (Direzione investigativa antimafia) opereranno i forestali. Confermate le misure per tutelare l'attività dell'Ilva varate in commissione (si veda ItaliaOggi del 2/10/2013), nonché la partenza «soft» del Sistri (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOStretta sui manager condannati. Non possono ricevere incarichi e poteri gestionali. È l'effetto del decreto sulle incompatibilità (dlgs 39/2013) e della legge anticorruzione.
I dirigenti pubblici e i titolari di posizione organizzativa condannati, anche solo in primo grado, per reati contro la pubblica amministrazione non possono ricevere dallo scorso mese di aprile nuovi incarichi e, dal novembre del 2012, non possono svolgere le più rilevanti attività gestionali.

Sono questi gli effetti derivanti dalle rigide disposizioni, sulle quali pende un sospetto di illegittimità costituzionale per violazione della presunzione d'innocenza, dettate, rispettivamente, dal dlgs n. 39/2013 (il decreto sulle inconferibilità, sulle incompatibilità e sugli incarichi nelle p.a.) e dalla legge n. 190/2012 (c.d. anticorruzione).
Queste norme stanno determinando in molti comuni numerosi problemi applicativi e meritano alcuni chiarimenti applicativi. Si deve evidenziare in premessa che, per la Civit, la prescrizione del reato dopo la condanna di primo grado, non costituisce una esimente dall'applicazione di queste limitazioni.
L'articolo 3 del decreto n. 39/2013 vieta il conferimento dei seguenti incarichi a coloro che hanno avuto una condanna di primo grado per reati contro la p.a.: amministrativi di vertice (negli enti locali possono essere considerati tali quelli di segretario generale e di direttore generale); di amministratore di ente pubblico o di ente privato controllato da una pubblica amministrazione (il riferimento va agli incarichi di presidente con delega e di amministratore delegato); di direttore generale, sanitario o amministrativo di Asl e agli incarichi dirigenziali interni ed esterni. Ricordiamo che gli incarichi dirigenziali interni sono definiti dal legislatore come quelli che comportano in via esclusiva l'attribuzione di competenze di gestione e amministrazione, nonché quelli negli uffici di diretta collaborazione, mentre sono esterni quelli comunque denominati che comportano in via esclusiva l'attribuzione di competenze di gestione e amministrazione conferiti a soggetti non muniti della qualifica di dirigente pubblico o comunque non dipendenti di p.a..
Occorre aggiungere che, sulla base delle disposizioni dettate dall'articolo 2, comma 2, le norme dettate dal decreto sugli incarichi dirigenziali si estendono espressamente ai titolari di posizioni organizzative e a coloro che hanno avuto assegnato incarichi ex articolo 110 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. Ai fini dell'applicazione della disposizione le sentenze di applicazione della pena sono equiparate a quelle di condanna. Vietando la disposizione il conferimento di tali incarichi, la conseguenza è che essa si applica solamente a quelli conferiti a partire dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dallo scorso mese di aprile.
La legge n. 190/2012, al comma 46, introduce l'articolo 35-bis del dlgs n. 165/2001. Esso stabilisce che coloro che sono stati condannati per reati commessi da pubblici ufficiali contro una p.a., anche solamente in primo grado, non possono svolgere i seguenti compiti:
1) far parte, anche solo come segretari, di commissioni di concorso;
2) non possono essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, alle acquisizioni di beni, forniture e servizi, alla concessione o all'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati;
3) non possono fare parte di commissioni per la scelta di contraenti per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, attribuzioni di vantaggi economici di qualunque genere,
È evidente che, soprattutto la seconda sanzione, priva questi soggetti della parte più rilevante delle competenze dirigenziali, quali la gestione delle risorse finanziarie, la stipula di contratti e l'erogazione di benefici. Per cui di fatto a questi dirigenti possono essere conferiti incarichi dimezzati sul terreno gestionale e/o di studio. La disposizione, essendo dettata nella forma del divieto di svolgimento di queste attività, opera dalla data di sua entrata in vigore, quindi produce gli effetti anche sugli incarichi già attribuiti (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

LAVORI PUBBLICIFondi ai mini-enti, si parte. I 100 milioni stanziati saranno disponibili dal 24/10. Pubblicati in G.U. la convenzione tra ministero e Anci e il successivo atto aggiuntivo.
I 100 milioni di euro del Programma «6000 campanili» saranno ufficialmente in gioco a partire dal 24.10.2013, giorno di apertura dello sportello per presentare domanda. Sono stati infatti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 9 ottobre scorso la Convenzione sottoscritta il 29.08.2013 tra il ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Anci e il successivo Atto Aggiuntivo del 25.09.2013.
La pubblicazione fa quindi scattare i 15 giorni previsti per l'avvio dello sportello di presentazione. Sui siti internet del ministero di riferimento www.mit.gov.it e di Anci www.anci.it sono state inoltre pubblicate le prime Faq relative al programma.
Beneficiari i comuni fino a 5 mila abitanti. Possono presentare domanda di contributo finanziario i comuni che, sulla base dei dati anagrafici risultanti dal censimento della popolazione 2011, avevano una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti, anche in associazione tra di loro.
Finanziati interventi infrastrutturali e messa in sicurezza. Sono finanziabili interventi infrastrutturali di adeguamento, ristrutturazione e nuova costruzione di edifici pubblici ivi compresi gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche. Inoltre, sono finanziabili interventi per la realizzazione e manutenzione di reti viarie e infrastrutture accessorie e funzionali alle stesse o reti telematiche di Ngn e Wi-fi, nonché interventi sulle reti viarie di competenza comunale ivi compresi gli eventuali lavori connessi a sottostanti sottoservizi. Infine, rientrano interventi per la salvaguardia e messa in sicurezza del territorio.
Finanziamento fino a un milione di euro. Ogni comune interessato potrà presentare un solo progetto anche comprendente più opere connesse funzionalmente. L'importo del finanziamento richiesto non potrà essere inferiore a 500 mila e superiore a 1 milione di euro.
Istanza via Pec. L'istanza di finanziamento, firmata digitalmente, dovrà essere inoltrata esclusivamente per Posta elettronica certificata (Pec), all'indirizzo pec@6000campanili.anci.it a partire dalle ore 9,00 del giorno 24.10.2013. Lo sportello rimarrà aperto per 60 giorni. È prevista una riserva di progetti finalizzata a finanziare almeno un progetto per regione/provincia autonoma tenendo sempre conto dell'ordine cronologico di ricezione delle richieste.
Necessaria una delibera di giunta successiva al 9 ottobre. All'istanza dovrà essere allegata una delibera di giunta di approvazione della richiesta di contributo finanziario, nomina del responsabile del procedimento, approvazione della relazione illustrativa dell'intervento e del approvazione del disciplinare. Oltre alla delibera di giunta, dovrà essere inviata una relazione illustrativa del Rup, apposita per la richiesta di finanziamento, nella quale saranno indicati la natura e le caratteristiche principali dell'intervento, lo stato di avanzamento delle attività procedurali, l'elenco dei pareri e permessi, la delibera, il cronoprogramma dei lavori e il Quadro economico dell'intervento.
Il richiedente dovrà inoltre produrre gli elaborati grafici idonei a consentire l'inquadramento generale dell' intervento. Infine, dovranno essere allegati una dichiarazione con indicazione del codice Iban e lo «Schema di disciplinare» compilato (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

TRIBUTIPer i rifiuti rispunta la Tarsu. Possibile applicare anche nel 2013 tasse e tariffe dell'anno scorso. Ambiente. Via libera da un emendamento al decreto «Imu-2» - Resta in campo la maggiorazione statale.
PER LA TARES/ Confermato l'obbligo di inviare il modello precompilato ai contribuenti e di utilizzare per i pagamenti il bollettino postale o l'F24.
Indietro tutta sulla Tares, che dopo mesi di contorcimenti normativi rischia di sparire ancora prima di essere applicata. Con l'emendamento al decreto «Imu-2» (Dl 102/2013) approvato alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera (primo firmatario Luca Pastorino) che riesuma le vecchie Tarsu e Tia si apre un'autostrada per i Comuni che intendono buttare a mare tutti i problemi del nuovo tributo e tornare al prelievo utilizzato fino all'anno scorso, nell'attesa che esca dalle nebbie la service tax prevista nel 2014.
Nei 6.700 enti che applicavano la Tarsu, questo significa rinunciare anche alla copertura integrale dei costi del servizio, imposti dalla Tares, per tornare alle vecchie forme di finanziamento. Con un unico vincolo: la Tarsu o la Tia riesumate dall'emendamento dovranno essere accompagnate dalla maggiorazione da 30 centesimi al metro quadrato, perché vale un miliardo, va allo Stato e da questo punto di vista la condizione del bilancio centrale non ammette ripensamenti.
Per artigiani, ristoratori e in genere per le attività commerciali più colpite dagli aumenti imposti dal nuovo tributo è un'ottima notizia, naturalmente. Per le amministrazioni locali si tratta invece di rifare per l'ennesima volta i calcoli, su un tributo che sta contendendo con successo all'Imu il record delle modifiche in corso d'opera. «Siamo esterrefatti e ammutoliti, ci arrendiamo», spiegano le aziende pubbliche del settore riunite in Federambiente in una nota che la butta sull'ironia (amara).
Proprio la confusione costante che circonda il tributo spingerà moltissimi Comuni a tornare sulla vecchia strada di Tarsu o Tia. Un altro emendamento al decreto «Imu-2», che nella sua versione originaria impone agli enti di spedire ai contribuenti modelli (F24 o bollettino postale) precompilati con l'importo da pagare, ha appena stabilito che in caso di mancato invio del modello non si applicano le sanzioni per «insufficiente versamento». Una regola di favore per venire incontro ai contribuenti disorientati, che però rischia di "sanare" ex ante tutti i versamenti insufficienti e aprire buchi nei conti di Comuni e aziende.
Le amministrazioni infatti hanno parecchi problemi già con la prima rata, assai meno complicata rispetto al saldo, come mostrano i casi di città che non sono ancora riuscite ad avvertire tutti i contribuenti sull'importo da pagare: è accaduto per esempio a Milano, dove il Comune ha avvertito che in questi casi non ci saranno sanzioni per i versamenti in ritardo (la scadenza era al 30 settembre), senza ovviamente parlare di quelli insufficienti.
I tanti correttivi piovuti sulla Tares, inoltre, non si sono occupati di altri problemi ancora aperti sul tributo. È il caso, per esempio, delle forme di pagamento: l'ultima rata rimane ancora vincolata a F24 e bollettino postale, e quindi non permette di utilizzare Mav, Rid e le altre modalità automatiche impiegate finora. Restano tutti da chiarire anche i criteri di calcolo "alternativi" al metodo normalizzato introdotti dallo stesso decreto «Imu-2». Tra nodi applicativi irrisolti e rischi di aumenti a grappolo, saranno quindi moltissimi i Comuni che torneranno alla Tarsu, anche se la sua mancata armonizzazione con i principi Ue (prima di tutto quello del «chi inquina paga») ne richiedono l'abolizione dal lontano 1997 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri senza sanzioni per due mesi in più.
ESTENSIONE/ Il ministero potrà ampliare l'elenco dei soggetti che effettuano il trattamento e obbligati al nuovo sistema.

Slitta di due mesi l'applicazione delle sanzioni del Sistri. Questo uno degli effetti del via libera del Senato, ieri sera, alla conversione del decreto legge 101/2013.
L'aula ha confermato quasi tutti gli emendamenti già votati in commissione Affari costituzionali il 2 ottobre. Di conseguenza viene sostituito il comma 1 dell'articolo 11 del Dl che ora prevede l'obbligo di adesione al Sistri per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi e per quelli che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale o, ancora, per quelli che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti urbani e speciali pericolosi, inclusi i nuovi produttori che trattano o producono rifiuti pericolosi.
Rispetto al testo del Dl viene specificato che i rifiuti pericolosi sono "speciali". Viene ribadita la possibilità di iscrizione volontaria per i produttori, i gestori ma ora anche gli intermediari e i commercianti di rifiuti non inclusi nel comma 1.
L'emendamento 11.22 estende l'obbligo di iscrizione ai vettori esteri che operano sul territorio nazionale o di tipo transfrontaliero a titolo professionale.
Quale effetto del nuovo comma 3-bis, le sanzioni relative al Sistri si applicano a decorrere dalla scadenza dei novanta giorni successivi alla data di operatività del sistema. Ciò significa che, per chi è tenuto ad applicare il sistema di tracciabilità dal 1° ottobre, le sanzioni slittano al 31.12.2014, mentre per quelli obbligati al Sistri dal 03.03.2014 l'applicazione delle sanzioni avverrà dal 2 giugno.
In questo modo vengono concessi due mesi in più agli operatori per familiarizzare con il nuovo sistema dato che, come precisato anche nella circolare ministeriale diffusa il 30 settembre, in base a quanto previsto dal Dl, le sanzioni dovrebbero scattare il 1° novembre e il 03.04.2014. Nel frattempo, comunque, imprese ed enti dovranno continuare a tenere registri e formulari previsti dagli articoli 190 e 193 del Dlgs 152/2006 con l'applicazione delle relative sanzioni.
In base al comunicato di fine seduta non è stato invece approvato l'emendamento 11.501 che aveva avuto il via libera della commissione Affari costituzionali e che esentava dall'iscrizione all'Albo gestori ambientali gli agricoltori soggetti all'articolo 2135 del Codice civile, produttori iniziali di rifiuti, per il trasporto di tali rifiuti all'interno del territorio provinciale o regionale in cui hanno sede. Venivano anche fornite indicazioni sulle modalità di tenuta del registro di carico e scarico.
È stato invece votato l'emendamento 11.1000 presentato dal relatore Giorgio Pagliari del Pd, in base al quale il versamento alla società concessionaria del Sistri di un contributo per i costi di produzione a consuntivo al 30.06.2013 non deve determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Il provvedimento passa ora all'esame della Camera (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

CONDOMINIOPrivacy in casa. Sul web accesso limitato ai condòmini.
LE REGOLE DEL GARANTE/ L'Authority ha rinnovato le disposizioni da seguire per rispettare i limiti alla diffusione dei dati personali.

Il garante della Privacy detta le nuove regole dopo la riforma del condominio. Con il vademecum pubblicato ieri sul sito (www.garanteprivacy.it) si sono aggiunte parecchie precisazioni sul corretto comportamento da tenere (specialmente da parte dell'amministratore).
Anzitutto i numeri telefonici: l'amministratore può usarli solo se pubblici (cioè negli elenchi pubblici) o con il consenso espresso e non possono essere comunicati a terzi. Peggio ancora per i dati sanitari, il cui uso è permesso solo in caso di delibere o lavori su barriere architettoniche o per danni subiti negli spazi comuni. Mentre al contrario deve comunicare ai condomini i suoi recapiti (anche telefonici), che vanno anche affissi sull'edificio.
In assemblea, invece, non può partecipare un esterno tranne i delegati o i tecnici chiamati a illustrare un problema (ma solo per il tempo necessario). E anche la videoregistrazione è lecita solo con il consenso di tutti gli interessati. Viene confermato che in bacheca non si possono affiggere comunicazioni personali né riguardanti le morosità (sui morosi, però, i condomini possono avere notizie direttamente dall'amministratore). I dati sui morosi vanno invece comunicati ai creditori, come previsto dalla riforma del condominio (legge 220/2012). Il rendiconto del c/c bancario, come prescrive la riforma, è accessibile a ogni condomino.
Sulla videosorveglianza non ci sono grandi novità: lecita quella per fini personali effettuata da persone fisiche (sulla porta dell'appartamento) e anche sulle aree comuni, segnalandola e conservando le registrazioni per non oltre 48 ore.
Nuove, invece, le regole sul condominio digitale, dato che è la riforma a prevedere la possibilità dei siti web condominiali: potranno essere messi online solo i documenti adottati con delibera e l'accesso è riservato ai condomini, tramite password individuale.
Ogni condomino ha poi il "diritto di accesso" per conoscere i suoi dati custoditi dall'amministratore ma non quelli riferiti all'intero condominio (per esempio i dati relativi al contratto di locazione di un'unità immobiliare di proprietà condominiale) a meno che non sia stato incaricato espressamente dall'assemblea. Gli inquilini non possono accedere ai dati sulla gestione condominiale, ma solo ai propri.
In ogni caso anche il singolo condomino che ne venga a conoscenza non può comunicare a terzi i dati personali degli altri condomini senza il loro consenso. Escluse dalla disciplina della privacy sono invece le normali comunicazioni tra vicini, tranne che vengano diffuse sul web o su cartelli affissi nell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIL'ispezione comincia in ufficio. Prima di accedere in azienda la raccolta dei dati utili. Nel nuovo codice di comportamento del ministero del lavoro entra la fase di preparazione.
L'ispezione comincia con le indagini d'ufficio. Infatti prima dell'accesso vero e proprio gli ispettori devono raccogliere tutte le informazioni e documentazioni sul soggetto da sottoporre a controllo, ricorrendo alle banche dati. Obbligatoriamente devono acquisire le informazioni sull'organigramma aziendale, sulla forza lavoro denunciata e sulla situazione contributiva e assicurativa.

A stabilirlo è lo schema di codice di comportamento a uso degli ispettori del lavoro, messo a punto dal ministero guidato da Enrico Giovannini, e pubblicato ieri sul sito internet al fine di una consultazione pubblica sui contenuti.
Codice comportamento. Il nuovo codice, che andrà a sostituire quello attualmente vigente del 2006, scaturisce dalla nuova disciplina dettata dal dpr n. 62/2013, il regolamento di comportamento per i dipendenti pubblici. A differenza di quello vigente, il nuovo codice si presenta arricchito tra l'altro dell'art. 5 che reca la cosiddetta fase di «preparazione dell'ispezione».
La fase di preparazione. In pratica, tale fase prevede che, in base al tipo di intervento da effettuare, l'ispezione sia preceduta da un'attività di preparazione a cura degli stessi ispettori e del personale amministrativo, al fine di raccogliere le informazioni e la documentazione relative al soggetto da controllare, con ricorso alle banche dati. Tale attività di preparazione costituisce addirittura un obbligo per l'ispettore che, prima del primo accesso ispettivo, deve acquisire ogni informazione relativa all'organigramma aziendale, alla forza lavoro denunciata e alla situazione contributiva e assicurativa.
In particolare, a eccezione dei casi di vigilanza a vista (si tratta delle ispezioni programmate per settori di attività o per ambiti territoriali) e degli accessi brevi, il codice stabilisce che gli elementi necessari per dare avvio alle indagini riguardano:
a) la tipologia e le motivazioni dell'intervento, con allegata l'eventuale richiesta di intervento;
b) l'attività svolta dal soggetto ispezionato, con indicazione di eventuali appalti pubblici affidati e del contratto collettivo applicabile;
c) il «comportamento contributivo», incluse le informazioni sulla regolarità contributiva e assicurativa e alle eventuali procedure di riscossione coattiva in corso;
d) le denunce obbligatorie effettuate, le autorizzazioni rilasciate e gli eventuali contratti certificati;
e) ogni ulteriore informazione messa a disposizione dall'amministrazione funzionale all'ispezione.
In campo i consulenti del lavoro. Il codice ancora ribadisce la centralità del ruolo dei consulenti del lavoro, cui il soggetto ispezionato può rivolgersi per farsi assistere. A tal fine, l'ispettore è tenuto a verificare che il professionista sia abilitato, annotando gli estremi dell'iscrizione al relativo Albo. In presenza di esercizio abusivo della professione, l'ispettore deve procedere all'immediata comunicazione alle autorità competenti vietando, inoltre, al soggetto non abilitato di assistere all'ispezione in corso.
Consultazione pubblica. Come accennato, sullo schema di codice di comportamento il ministero del lavoro ha aperto una consultazione pubblica. Chi intenda fornire indicazioni e suggerimenti può farlo entro e non oltre il 28 ottobre, scrivendo all'indirizzo di posta elettronica divIsegrgen@lavoro.gov.it (articolo ItaliaOggi del 10.10.2013).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione al 65% se c'è risparmio energetico. Immobili. La detrazione sale anche se si tratta di lavori edili.
Quando una ristrutturazione mette in gioco più interventi, è necessario prevedere preventivi e consuntivi separati, da parte dell'impresa, per una stessa riqualificazione e decidere poi a posteriori su cosa chiedere la detrazione del 50% e su cosa quella del 65%? Questa suddivisione, qualora possibile, può essere operata anche sulle spese che riguardano la "direzione lavori"?

È questo uno dei tanti quesiti che sono arrivati, in questi ultimi giorni, al Forum online dedicato al «Bonus lavori in casa» (www.ilsole24ore.com/bonuslavori).
Se in uno stesso stabile (già esistente) vengono effettuati più interventi di recupero e tutti concorrono al raggiungimento di un indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale, inferiore rispetto ai valori definiti nel Dm dello Sviluppo economico dell'11.03.2008, allegato A, allora è superfluo distinguere fra lavori edili e per la riqualificazione energetica. L'intero complesso dei lavori può infatti rientrare nella tipologia prevista dal ecobonus al 65% per la riqualificazione energetica globale di edifici esistenti. Con un valore massimo di detrazione di 100mila euro e un importo limite nel valore delle opere che dal 06.06.2013 è di 153.846,15 euro. In questa categoria, infatti, lo Stato non ha definito nel dettaglio quali siano le opere o impianti che occorre realizzare per raggiungere le prestazioni energetiche richieste. Ne risulta che tutte possono concorrere, purché riescano a determinare come conseguenza l'abbattimento del fabbisogno annuo di energia primaria.
Laddove comunque il titolare del recupero decida di utilizzare entrambe le detrazioni per porzioni diverse di lavori, è bene sottolineare che una medesima spesa non può godere di entrambe le agevolazioni. Ma è necessario scegliere.
Ci sono, infine, una serie di casi in cui –pur essendo l'ecobonus la misura che “concede” di più sul recupero delle tasse– è meglio utilizzare il 50%. Ad esempio quando, oltre alla ristrutturazione, il cittadino intenda fruire anche del bonus mobili ed elettrodomestici al 50%. Quest'ultima possibilità non è associata al 65%. Pertanto, esistono situazioni in cui il beneficio che si otterrebbe con la riqualificazione energetica è inferiore a quello ottenuto sommando il 50% per opere al 50% per arredamento.
Inoltre, la pratica per l'utilizzo dell'ecobonus richiede –oltre all'attenzione nell'effettuare i bonifici con le modalità corrette– anche l'asseverazione di un tecnico sul rispetto dei requisiti stabiliti dalla normativa e l'invio telematico di una serie di documenti all'Enea. Disbrigo burocratico che, nel caso degli infissi, è gestibile anche in fai-da-te, ma per interventi più corposi può costringere il cittadino a rivolgersi a un professionista, sborsando un compenso aggiuntivo.
Per quanto riguarda, infine, la questione della direzione lavori è necessario tenere presente che, in caso di utilizzo di bonus differenti per diverse parti di edificio, questa però non è "scomputabile" e va imputata all'intervento più significativo (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2013).

LAVORI PUBBLICIAvvalimento plurimo, divieto a rischio. Sul tavolo della Corte di giustizia europea la previsione del Codice dei contratti. Il tribunale amministrativo regionale delle marche solleva la questione.
È a rischio di illegittimità comunitaria il divieto di avvalimento plurimo previsto dall'art. 49 del Codice dei contratti pubblici. Sarà infatti la Corte di giustizia europea, alla quale il Tar Marche ha posto la questione, a dovere verificare se il limite imposto dal decreto legislativo 163/2006 all'articolo 49, comma 6, sia conforme al diritto comunitario.
Nel nostro ordinamento, infatti, la possibilità, per il concorrente, di dimostrare il possesso dei requisiti richiesti dalla lex specialis di gara facendo riferimento a quelli posseduti da altre imprese, dette ausiliarie, viene limitato nel settore dei lavori all'«utilizzo» di «una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione». Nel caso posto all'attenzione dei giudici marchigiani invece una impresa aveva utilizzato lo strumento dell'avvalimento rispetto a più imprese, risultando prima ammessa e successivamente esclusa dalla gara. Da ciò il ricorso al Tar e la trasmissione della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla compatibilità della norma nazionale con le direttive europee.
Nella direttiva 2004/18 e nella 2004/17 per i settori speciali, infatti, si prevede che «un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi». Nessun limite viene quindi previsto nella normativa comunitaria all'istituto dell'avvalimento, considerato dal legislatore europeo, anche nelle proposte di nuove direttive che dovrebbero essere approvate definitivamente all'inizio del prossimo anno, come strumento essenziale a tutela delle piccole e medie imprese.
La giurisprudenza italiana non aveva ancora approfondito l'argomento specifico, essendosi limitato il Consiglio di stato a escludere l'utilizzo di più imprese ausiliarie per ciascuna categoria di qualificazione, ma non già il cumulo tra avvalimento e associazione di una mandante per la medesima categoria, situazione che non genera cumulo tra requisiti ma si configura quale modalità partecipativa alla gara (sezione V, 15.11.2010, n. 8043). La Corte europea si dovrà pronunciare nei prossimi mesi (articolo ItaliaOggi del 09.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo a ore inattuato.
Nel settore del lavoro pubblico, fino a quando i contratti collettivi di comparto o la contrattazione quadro non recepiranno la possibilità di fruire del congedo parentale in modalità oraria anziché esclusivamente giornaliera, questa particolare modalità di fruizione resterà solo un miraggio.

È quanto ha dovuto riconoscere il dipartimento della funzione pubblica, nella nota 07.10.2013 n. 45298 di prot., in risposta a un quesito dell'università dell'Insubria in merito alla possibilità, prevista dalla legge di stabilità 2013, di usufruire del congedo parentale ex articolo 32 del Testo unico sulla maternità e paternità (il dlgs n. 151/2001) in forma oraria anziché esclusivamente giornaliera.
La norma sopra evidenziata prevede che per ogni bambino nei primi suoi otto anni di vita, i genitori hanno diritto di astenersi dal lavoro per un periodo che non ecceda, complessivamente, il limite di dieci mesi. In dettaglio, alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, la norma concede che possa assentarsi facoltativamente per un ulteriore periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi.
Stessa previsione per il padre lavoratore, che può assentarsi per il predetto periodo, decorrente dalla nascita del figlio. Il legislatore, con l'articolo 1, comma 339, della legge di stabilità 2013, ha operato un'aggiunta (inserendo il comma 1-bis del citato articolo 32 del dlgs n. 151 del 2001), stabilendo che la contrattazione collettiva di settore dovrà mettere nero su bianco le modalità di fruizione del congedo su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.
Tuttavia, rileva la funzione pubblica, per quanto riguarda il settore del lavoro pubblico, i contratti ad oggi non hanno ancora provveduto al recepimento di quanto previsto dal legislatore. Pertanto, secondo Palazzo Vidoni, il decollo della particolare fruizione del congedo parentale dovrà attendere il via libera ufficiale attraverso la contrattazione collettiva di comparto o quella «quadro» (articolo ItaliaOggi del 09.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAAgevolazioni. La detrazione Irpef e Ires del 65% è condizionata al «bonifico parlante»: il presupposto si applica anche alle Srl e alle Spa.
Spese antisismiche con criterio di cassa. Per le Entrate il tetto di 96mila euro agli interventi «premiati» comprende le pertinenze.

La nuova detrazione Irpef e Ires del 65% sulle misure antisismiche dell'abitazione principale o delle costruzioni adibite ad attività produttive va ripartita in 10 anni, anche se la norma non lo prevede, in quanto è questa l'interpretazione delle Entrate nella circolare 29/E/2013.
Seguendo ancora le indicazioni dell'Agenzia per casi simili, poi, il limite massimo di spesa per l'intervento, pari a «96mila euro per unità immobiliare», dovrebbe essere riferito non solo all'immobile principale, ma anche alla relativa pertinenza. La circolare 29/E/2013, poi, ha fatto rientrare anche i soggetti Ires tra quelli agevolati, senza approfondire quando questi debbano considerare "sostenuta" la spesa (con bonifico "parlante" o in base al principio di competenza?). Il documento di prassi, infine, non tratta il caso delle spese sostenute dopo il 04.08.2013, ma prima dell'attivazione della procedura autorizzativa, le quali dovrebbero essere comunque agevolate, almeno in base al dettato normativo. Sono queste alcune delle tematiche richieste dai lettori al Forum sui lavori in casa.
In base alla norma, le spese "sostenute" dal 04.08.2013 al 31.12.2013 per l'adozione di misure antisismiche, sono detraibili dall'Irpef o dall'Ires al 65%, a patto che le «procedure autorizzatorie» siano "attivate" dal 04.08.2013 e che gli interventi siano eseguiti su «edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità» e siano riferiti «a costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive». La normativa, quindi, non lega il periodo in cui fare i pagamenti (che parte dal 4 agosto) al fatto che la procedura autorizzativa comunale sia attivata dal 4 agosto. Quest'ultima è solo una condizione per accedere al bonus; quindi, si ritiene che l'attivazione possa avvenire anche a dicembre 2013 ed il bonifico detraibile (per esempio, l'acconto al professionista) possa essere effettuato anche il 04.08.2013.
Per individuare la disciplina applicabile al nuovo bonus (modalità di pagamento o fruizione della detrazione), «in assenza di indicazioni» nella norma, le Entrate hanno chiarito che «si debba fare riferimento alle disposizioni applicabili per gli interventi» detraibili al 36-50% dell'articolo 16-bis, comma 1, lettera i, Tuir, quindi, è obbligatorio il pagamento con bonifico "parlante". Il momento di "sostenimento" della spesa coincide con la data del pagamento, non solo per le persone fisiche e i professionisti, ma anche per le ditte, le Snc e le Sas. Ciò non è mai stato chiarito dalle Entrate, ma nella prassi, per prudenza, è sempre prevalso il bonifico "parlante" rispetto al principio di competenza (concetto mai usato nelle circolari e nelle Guide delle Entrate sul 36-50%).
Per coerenza, ora il principio di cassa (con relativo bonifico "parlante") dovrebbe rilevare anche per i soggetti Ires che vogliono agevolare gli interventi antisismici. Le Entrate dovranno chiarire se è realmente così, considerando che, se sarà questa la soluzione, l'intervento potrebbe terminare anche dopo il 31.12.2013 e sarebbe comunque agevolato al 65% con il semplice pagamento entro l'anno.
In base alla norma, la spesa massima agevolabile è di «96mila euro per unità immobiliare», quindi, la detrazione massima è di 62.400 euro. Anche se non previsto dalla norma, per l'agenzia delle Entrate «la detrazione deve essere ripartita in dieci quote annuali costanti e di pari importo nell'anno di sostenimento delle spese e in quelli successivi» (circolare 29/E/2013).
Anche se la circolare 29/E/2013 non lo dice, si ritiene che per l'Agenzia il limite di spesa dei 96mila euro debba essere riferito non solo all'immobile principale, ma anche alla relativa pertinenza. Si arriva a questa conclusione, basandosi sulle risoluzioni 124/E/2007, 167/E/2007 e 181/E/2008, relative alla detrazione del 36-50% sulle ristrutturazioni edilizie, dove l'agenzia delle Entrate ha sempre sostenuto una tesi difforme dalla norma, in quanto ha ritenuto che il massimo della spesa detraibile (48mila o 96mila euro «per unità immobiliare») vada riferito all'abitazione e alle sue pertinenze unitariamente considerate, anche se autonomamente accatastate (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIncentivi ai tecnici a metà. Rilievi avcp.
Sugli incentivi ai tecnici delle amministrazioni per la redazione degli atti di programmazione è necessario un intervento del governo e del parlamento che chiarisca se siano incentivabili anche gli atti di pianificazione generale.

È quanto chiede L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la segnalazione 25.09.2013 n. 4 relativa all'applicazione dell'articolo 92, comma 6, del decreto 163/2006 che incentiva i tecnici delle pubbliche amministrazioni nella loro attività di pianificazione e programmazione.
La norma in particolare stabilisce che «il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto». Su questa disposizione l'Autorità e la Corte dei conti negli ultimi anni hanno reso pronunce assolutamente divergenti in ordine alla tipologia di atti di pianificazione per i quali l'amministrazione può riconoscere i compensi incentivanti, ivi previsti, al personale interno che li ha redatti.
Secondo l'Autorità infatti, l'ambito di applicazione della norma è particolarmente ampio al punto che si possano ritenere assoggettati alla categoria di «atti di pianificazione comunque denominati» i piani di lottizzazione, i piani per insediamenti produttivi, i piani di zona, i piani particolareggiati, i piani regolatori, i piani urbani del traffico, e tutti quegli atti aventi contenuto normativo e connessi alla pianificazione, quali i regolamenti edilizi, le convenzioni, purché completi per essere approvati dagli organi competenti. Tale interpretazione viene motivata dal fatto che «tali atti afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l'ubicazione nel tessuto urbano».
Viceversa la Corte dei conti, negli anni, ha seguito una linea più restrittiva tesa in particolare a negare l'applicazione dell'incentivo alla redazione di atti di pianificazione generale, quali possono essere il piano regolatore o una variante generale. Da qui la richiesta di un urgente intervento normativo (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013).

APPALTIIl Durc negativo taglia i fondi. Debito Inail trattenuto dalla p.a. che eroga i contributi. Una circolare dell'Istituto assicuratore illustra le novità introdotte dal decreto Fare.
Contributi pubblici ridotti alle imprese con Durc negativo per debiti nei confronti dell'Inail. In tal caso infatti, la pubblica amministrazione è tenuta a trattenere dal contributo l'importo dei debiti e a versarlo alla sede Inail competente.
Lo spiega lo stesso istituto di assicurazione nella nota prot. n. 5992/2013, illustrando le novità del decreto Fare (dl n. 69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013) relative all'estensione della disciplina dell'«intervento sostitutivo».
L'intervento sostitutivo. L'art. 4 del dpr n. 207/2010 (regolamento del dlgs n. 163/2006) prevede che in presenza di un Durc negativo, ossia con irregolarità nei versamenti dovuti all'Inail, all'Inps o alle casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito contributivo all'Inps, all'Inail o alle casse edili trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza dell'appalto. Il dl n. 69/2013, tra le innovazioni introdotte al Durc, ha rimodulato ed esteso questa disciplina (che va sotto il nome di «intervento sostitutivo»). Infatti, spiega l'Inail, ha previsto che la procedura:
- sia attivata direttamente da tutti i soggetti di cui all'art. 3, comma 1, lett. b, del dpr n. 207/2010 (vale a dire amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti);
- si applica «in quanto compatibile» anche alle amministrazioni pubbliche che erogano contributi, sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere per i quali sia prevista l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Le istruzioni operative. Relativamente ai debiti per premi assicurativi, l'Inail spiega che la p.a., una volta ricevuto un Durc attestante l'irregolarità nei confronti dell'Inail del soggetto beneficiario dell'erogazione (sussidio o altro), deve segnalare la situazione alla sede dell'Inail competente indicata sul Durc.
La sede Inail verifica l'attualità dell'inadempienza contributiva e trasmette via Pec alla p.a. i dati necessari per il pagamento, con indicazione dell'importo e delle modalità di compilazione dei modelli F24 o F24 EP. Nel caso in cui la p.a. non possa utilizzare i predetti modelli, la sede Inail indica l'Iban sul quale effettuare il bonifico di pagamento e la relativa causale.
Durc anche per i cofinanziamenti europei. Sempre il dl Fare, inoltre, all'art. 31, comma 8-quater, ha previsto specifiche norme in relazione alle imprese beneficiarie di agevolazioni oggetto di cofinanziamento Ue finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi. Tali norme stabiliscono che le p.a. procedenti, in sede di concessione delle agevolazioni, sono tenute a verificare «anche per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati dell'intervento interessato» la regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo d'ufficio il Durc.
Pertanto, spiega l'Inail, le p.a. e gli altri gestori pubblici e privati tenuti ad acquisire d'ufficio il Durc, qualora non già in possesso dell'utenza per accedere al servizio di richiesta dei certificati in www.sportellounicoprevidenziale.it, devono richiedere l'abilitazione tramite Pec a una sede Inail, Inps o cassa edile, allegando copia della convenzione o contratto con l'amministrazione pubblica procedente nel caso di gestori. In tal caso, il Durc ha validità di 120 giorni dalla data di rilascio (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013).

VARILA RIFORMA FORENSE/ Dalle società all'assicurazione. Per gli avvocati tutto congelato. Dopo otto mesi la legge n. 247/2012 è ancora inattuata. E la professione è in declino.
La riforma forense ha fermato le lancette dell'orologio per gli avvocati. Dalle società tra professionisti fino all'assicurazione obbligatoria, infatti, le nuove regole che hanno riformato tutte le professioni, non hanno scalfito quella legale, protetta dalla legge n. 247/2012. Risultato: l'attuazione della riforma, a otto mesi dalla sua entrata in vigore, è ancora ferma al palo.
Dei quasi 40 regolamenti attuativi, infatti, ne sono stati approvati cinque, tutti dal Consiglio nazionale forense: lo sportello del cittadino, l'elenco delle associazioni specialistiche e, da ultimo, l'osservatorio permanente sull'esercizio della giurisdizione e i consigli distrettuali di disciplina. Insomma, tutti interventi che di certo non risolvono i problemi di una professione in costante crescita esponenziale e con redditi ancorati al 1990 (si veda inchiesta di ItaliaOggi Sette del 23 settembre scorso).
In stand-by ci sono materie come tirocinio, esame di stato, assicurazione obbligatoria, società professionali, specializzazioni. Tutte di competenza del ministero della giustizia, è vero, ma che almeno in parte sarebbero potute entrare in vigore un anno fa e ad agosto scorso, attraverso il dpr n. 137/2012. Insomma, l'unico effetto pratico della riforma forense, fino adesso, è stato di fatto quello di bloccare lo sviluppo della professione.
Emblematico il caso del decreto parametri, che è stato appena inviato dal ministero della giustizia al Consiglio di stato e al Cnf per i relativi pareri e che, con tutta probabilità, entrerà in vigore con un anno di ritardo rispetto ai correttivi approvati per tutte le altre professioni. Con ulteriori perdite per gli avvocati ai quali da un anno a questa parte vengono liquidate le parcelle del dm 140/2012, che lo stesso ministero della giustizia ha riconosciuto essere troppo basse.
L'attuazione della riforma forense. I regolamenti di attuazione della legge n. 247/2012, entrata in vigore il 02.02.2012, sono in tutto 39: 16 di potestà normativa del Cnf, 5 dei Coa, 15 demandati a decreti ministeriali e 3 deleghe al governo. Il Cnf, come detto, ne ha approvati cinque, mentre il decreto parametri è a metà del guado. Per il resto, è tutto fermo. A partire dalla delega legislativa per la disciplina dell'esercizio in forma societaria della professione forense, scaduta ad agosto. A oggi, quindi gli avvocati, a differenza di tutte le altre professioni, non hanno una disciplina aggiornata per lo sviluppo della forma associativa, che, in tempi di crisi, è l'unica molla per sopravvivere sul mercato.
Altro punto nodale, per lo sviluppo della professione, è quello delle specializzazioni. Il Cnf ha emanato il regolamento per l'elenco delle associazioni specialistiche. Ma manca quello sulle specializzazioni, demandato al governo. Al palo anche il nuovo tirocinio, i corsi di formazione per l'accesso alla professione, l'esame di stato. E quello sulla contribuzione dei 56 mila avvocati confluiti in Cassa forense dopo l'approvazione della riforma forense. Al Cnf, invece, è demandata l'approvazione del codice deontologico entro febbraio 2014, il regolamento sulla formazione continua, l'istituzione e l'organizzazione delle scuole forensi.
Il parere dei giovani. Secondo Dario Greco, presidente dei giovani avvocati dell'Aiga, l'unica vera novità portata dalla riforma forense è «la vessazione dei giovani avvocati, che sono gli unici sottoposti a formazione permanente obbligatoria mentre i colleghi più anziani sono esonerati. Per il resto, è cambiato poco, siamo in attesa dei nuovi parametri e speriamo vengano rapidamente approvati. Certo, a novembre 2012 avevamo ottenuto un impegno da parte del ministro Severino, che poi non si è tradotto in decreto ministeriale per volere del Cnf».
«Da sottolineare poi che è stato approvato il regolamento sulle associazioni specialistiche ma non quello sulle specializzazioni da parte del ministero. A suo tempo, però, eravamo già convinti che questa legge non avrebbe risolto i problemi della categoria. Per rilanciarsi, gli avvocati hanno bisogno delle nuove norme sulle specializzazioni, purché non vengano intese come rendite di posizione per gli avvocati anziani. Non parlo dei titoli di specialista, amministrativista e via dicendo, ma della necessità, per i giovani di specializzarsi in qualcosa di nuovo, come può essere il diritto europeo o le materie interdisciplinari».
I regolamenti approvati. Da ultimo, il Cnf ha approvato le bozze di due regolamenti: quello che istituisce l'Osservatorio permanente sull'esercizio della giurisdizione e quello che disciplina il nuovo procedimento disciplinare. L'Osservatorio è uno strumento a disposizione dell'avvocatura per la raccolta di dati e informazioni, attinenti il sistema giustizia. Alla raccolta dei dati seguirà la predisposizione di indagini, analisi ed elaborazioni dei risultati, obiettivi e completi, trasparenti e affidabili.
La bozza di regolamento sul procedimento disciplinare si aggiunge invece a quella attinente alle norme per la elezione dei componenti dei consigli distrettuali di disciplina, approvata a fine luglio e inviata agli ordini che dovranno esprimersi entro il 15 novembre (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, ecco la platea del Sistri. Doppi oneri per chi tratta gli scarti generandone di nuovi. Con circolare del ministero dell'ambiente chiariti diversi aspetti del dl 101/2013.
Fuori dal Sistri i produttori iniziali di rifiuti pericolosi non organizzati in enti o imprese. Ma doppio obbligo di iscrizione (e di pagamento dei relativi contributi) per i nuovi produttori, ossia le imprese di gestione dei beni a fine vita che trattando rifiuti pericolosi ne creano di nuovi e diversi.
Con circolare 01.10.2013, diramata nella sua versione definitiva solo il giorno della partenza operativa del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti, il minambiente ha offerto i primi chiarimenti sulla platea dei soggetti interessati dai nuovi adempimenti alla luce delle ultime novità in materia recate dal dl 101/2013 (in corso di conversione in legge) mediante la riformulazione del dlgs 152/2006 (Codice ambientale).
L'atto interpretativo cerca di fare luce sia sul primo scaglione dei soggetti coinvolti dal Sistri (sostanzialmente trasportatori e gestori di impianti, obbligati dal 01.10.2013) sia su quello che dovrà attivarsi nella seconda fase (produttori di rifiuti e operatori della regione Campania, in pista dal 03.03.2014).
Produttori iniziali di rifiuti pericolosi. In base al dlgs 152/2006 (come riformulato dal dl 101/2013) sono obbligati ad aderire al Sistri i «produttori iniziali di rifiuti pericolosi». Per il ministero sono tali i soggetti che producono esclusivamente rifiuti speciali (dunque, non urbani) pericolosi come conseguenza della loro «primaria attività professionale», comprese le imprese che trasportano quelli da loro stesse prodotti ex articolo 212, comma 8, del dlgs 152/2006 (ossia, in piccole quantità) iscritte all'Albo gestori ambientali. Per tali soggetti, l'obbligo di adesione scatta solo il 03.03.2014, anche in relazione alle operazioni di deposito temporaneo e stoccaggio nel luogo di produzione così come per il citato trasporto dei propri rifiuti.
A parere del ministero, sono invece da considerarsi esclusi dall'obbligo Sistri i produttori di rifiuti che non sono organizzati in enti o imprese. Ciò in quanto in base all'articolo 190, comma 8, del dlgs 152/2006 (nella versione modificata dal 205/2010, in vigore solo dal 02.11.2013, ndr) «i produttori di rifiuti pericolosi che non sono inquadrati in un'organizzazione di ente o impresa sono soggetti all'obbligo della tenuta del registro di carico e scarico e vi adempiono attraverso la conservazione in ordine cronologico delle copie delle schede del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri)».
Dunque, basterà loro conservare le copie loro rilasciate dal trasportatore cui conferiscono i rifiuti. Ancora per il minambiente, salve le eccezioni stabilite per la regione Campania, sono altresì fuori dall'obbligo Sistri i produttori di rifiuti urbani, ancorché pericolosi. Ciò in quanto, avverte l'ufficio, l'articolo 11, comma 3, del dl 101/2013 in relazione ai rifiuti urbani limita l'obbligo Sistri ai comuni e imprese di trasporto del territorio della regione Campania.
Raccoglitori e trasportatori. Sempre in base al Codice ambientale sono tenuti al Sistri (dallo scorso 01.10.2013) gli enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale. Per il dicastero sono tali i soggetti che, salve le eccezioni previste per la regione Campania, raccolgono o trasportano soli rifiuti speciali (quindi, ancora una volta, non urbani).
In relazione al trasporto, sottolinea l'Ambiente, sono tenuti al Sistri i soli soggetti che movimentano rifiuti pericolosi prodotti da terzi; e ciò indifferentemente se vettori nazionali e stranieri: l'obbligo scatta comunque per chi effettua, a titolo professionale, trasporti all'interno del territorio nazionale o in partenza da questo verso stati esteri (trasporto transfrontaliero).
Gestori di rifiuti. Ancora in base al dlgs 152/2006 (come riformulato dal dl 101/2013) sono obbligati al Sistri gli enti o le imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi. Il dicastero sottolinea che l'attività di commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi è qui riferita sia ai rifiuti speciali che agli urbani.
Nuovi produttori di rifiuti pericolosi. Per il ministero sono tali i soggetti che sottopongono i rifiuti pericolosi ad attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti diversi da quelli trattati, per natura o composizione. Tali soggetti (e qui si comprende la logica di tale lettura) sono di conseguenza tenuti ad iscriversi al Sistri sia nella categoria «gestori» che in quella dei «produttori» ed a versare il contributo per ciascuna categoria di appartenenza in virtù di quanto disposto dal dm 52/2011 (T.u. Sistri emanato in attuazione del dlgs 152/2006).
Regione Campania. Sono obbligati al Sistri comuni e imprese di trasporto dei rifiuti urbani del territorio della regione Campania. Per il minambiente il tenore della disposizione (articolo 11, comma 3, del dl 101/2013) è tale da circoscrivere l'obbligo ai soli soggetti così territorialmente individuati.
Coordinamento tra soggetti Sistri e soggetti non Sistri. Fino al 03.03.2014, data di partenza del Sistri anche per i produttori iniziali di rifiuti pericolosi, si verificherà inevitabilmente un disallineamento di gestione del flusso di informazioni tra questi e gli altri soggetti della filiera che già utilizzano il Sistri (dal 01.10.2013). Perciò, chiarisce il ministero con la circolare in parola, nei rapporti tra produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che non aderiscono preventivamente (su base volontaria) al Sistri e i trasportatori e gestori di rifiuti «già Sistri» si devono applicare le regole di coordinamento generali ex articolo 14, dm 52/2011.
Ciò comporta che: i citati produttori di rifiuti (non Sistri) devono comunicare ai trasportatori (Sistri) i dati necessari per la compilazione della scheda di movimentazione (la versione Sistri dello storico formulario di trasporto), firmarne le copie stampate e conservarne una controfirmata per cinque anni; i trasportatori di rifiuti non Sistri (evidentemente quelli che movimentano propri rifiuti) devono comunque utilizzare il tradizionale formulario di trasporto ex dlgs 152/2006; i gestori (Sistri) degli impianti che ricevono i rifiuti devono stampare e trasmettere ai produttori di cui sopra la scheda di movimentazione completa (al fine di attestare l'assolvimento degli obblighi di corretta gestione dei rifiuti), e se ricevono i rifiuti da trasportatori con formulario devono riportarne il codice nel campo «Annotazioni» della propria registrazione cronologica.
L'adesione volontaria. Il ministero ricorda che nella logica del dlgs 152/2006 (come riscritto dal citato dl 101/13) non sono obbligati ad aderire al Sistri: i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi; gli enti e le imprese che effettuano attività di gestione dei rifiuti non pericolosi; i trasportatori di rifiuti urbani del territorio di regioni diverse dalla Campania. Tali soggetti, avverte l'ufficio, possono aderire su base volontaria in qualsiasi momento, così come poi tornare in qualsiasi momento al sistema cartaceo.
Le novità in arrivo. A pronunciare le prossime parole sul Sistri sarà la legge di conversione del dl 101/2013, attesa entro la fine del mese di ottobre. Legge con la quale, annuncia il minambiente nella circolare 01.10.2013, potrà arrivare un ampliamento del periodo «doppio binario» (attualmente della durata di un mese dallo scattare dei termini di operatività del Sistri), periodo nel corso del quale si deve adempiere anche agli obblighi di tracciamento tradizionale dei rifiuti (con registri e formulario) e non trovano applicazione le sanzioni per la violazione dei nuovi obblighi (periodo in scadenza, in relazione alle diverse platee dei soggetti obbligati, rispettivamente il 01.11.2013 ed il 03.04.2014).
A tutela degli operatori impegnati nell'uso di chiavette usb e black box (per comunicare i dati dei rifiuti gestiti al server dello Stato e tracciarne con il satellite il trasporto), lo ricordiamo, vige comunque l'istituto del ravvedimento operoso previsto dall'articolo 260-bis del Dlgs 152/2006, istituto in base al quale «non risponde delle violazioni amministrative (ndr: relative al Sistri) chi, entro 30 giorni dalla commissione del fatto, adempie agli obblighi previsti dalla normativa relativa al sistema informatico di controllo (_)» (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

CONDOMINIOImpianti termici, rischio caos. L'adeguamento può essere bloccato dall'assemblea. Gli effetti del dpr n. 74/2013: il soggetto responsabile è comunque l'amministratore.
Adeguamento degli impianti termici: rischio paralisi per il condominio con responsabilità a carico dell'amministratore. Secondo le nuove regole introdotte dal dpr n. 74/2013, in vigore dal 12 luglio scorso, ove l'assemblea condominiale non deliberi di stanziare i fondi per gli interventi necessari all'efficienza dell'impianto di riscaldamento, non potrà essere fornita alcuna delega all'esterno e l'eventuale soggetto terzo responsabile già nominato decadrà automaticamente dall'incarico, essendo altresì tenuto a darne pronta comunicazione alla regione, provocando l'avvio della relativa attività di controllo.
In casi del genere l'amministratore condominiale rischia quindi di rimanere con il cerino in mano, in quanto soggetto per legge responsabile della gestione dell'impianto comune. La situazione appena descritta potrebbe poi risultare ulteriormente aggravata ove si dovesse interpretare in maniera restrittiva la nuova disposizione in tema di opere di manutenzione straordinaria introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio, essendo a quel punto necessario addirittura precostituire un fondo speciale prima di avviare i lavori.
Chi è onerato della responsabilità. In ambito condominiale il responsabile dell'impianto termico è per legge l'amministratore, trattandosi di uno dei beni comuni dei quali si compone il condominio. All'amministratore spetta quindi ordinariamente l'esercizio, la conduzione, il controllo, la manutenzione e il rispetto delle disposizioni di legge. Ciò significa che quest'ultimo deve adoperarsi affinché l'impianto termico centralizzato sia sempre ben funzionante, garantendone il corretto esercizio e la doverosa manutenzione. Tuttavia, sul piano pratico, si deve rilevare come la complessità tecnica delle operazioni necessarie per intervenire sull'impianto comune costringa l'assemblea a delegarne l'esercizio e la manutenzione a un soggetto terzo responsabile dotato delle necessarie competenze tecniche.
Il dpr n. 74/2013 prevede che in caso di impianti non conformi alle disposizioni di legge la delega non possa essere rilasciata, salvo che sia contestualmente conferito al terzo responsabile l'incarico di procedere alla messa a norma dell'impianto. Il delegante deve inoltre porre in essere ogni atto, fatto o comportamento necessario a che il terzo responsabile possa adempiere agli obblighi previsti dalla legge e garantire la copertura finanziaria per l'esecuzione dei necessari interventi nei tempi concordati. Negli edifici in condominio il decreto prevede che detta garanzia debba essere fornita con apposita delibera dell'assemblea dei condomini. In tale ipotesi, sempre secondo quanto disposto dal dpr, la responsabilità degli impianti resta in carico all'amministratore, fino alla comunicazione dell'avvenuto completamento degli interventi necessari, da inviarsi per iscritto da parte del delegato entro e non oltre cinque giorni dal termine dei lavori.
Nel caso in cui la necessità di intervenire sull'impianto sorga soltanto una volta rilasciata la delega, il terzo responsabile è tenuto a farne tempestivamente comunicazione in forma scritta al delegante e, in ambito condominiale, l'amministratore deve espressamente autorizzare il terzo responsabile, previa apposita delibera condominiale, a effettuare i predetti interventi entro il termine davvero brevissimo di dieci giorni dalla comunicazione di cui sopra, facendosi carico dei relativi costi. In assenza della delibera condominiale, la delega del terzo responsabile decade automaticamente e quest'ultimo è tenuto a farne pronta segnalazione alla regione o alla provincia autonoma competente per territorio.
La situazione potrebbe poi diventare letteralmente esplosiva ove si ritenesse di interpretare la disposizione di cui all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. come obbligo di precostituire un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori.
Chi è il soggetto terzo responsabile dell'impianto. Il terzo responsabile è il soggetto che, in possesso dei requisiti previsti dalle normative vigenti e comunque di capacità tecnica, economica e organizzativa adeguata al numero, alla potenza e alla complessità degli impianti gestiti, può essere delegato dal soggetto che per legge è responsabile dell'impianto termico (nel caso del condominio, come detto, l'amministratore) ad assumere la responsabilità dell'esercizio, della conduzione, del controllo, della manutenzione e dell'adozione delle misure necessarie al contenimento dei consumi energetici.
Bisogna precisare che, come previsto dalla nuova normativa, per l'atto di assunzione di responsabilità da parte del terzo è richiesto un contratto scritto che gli impone per legge di non delegare ad altri le responsabilità assunte, potendo ricorrere solo occasionalmente al subappalto o all'affidamento di alcune attività di sua competenza. Quanto sopra dovrebbe porre un freno a situazioni di subappalto diffuso da parte di grandi imprese di servizi di manutenzione che delegavano a terzi le attività di manutenzione ordinaria e, talvolta, anche il ruolo di terzo responsabile, con conseguente elusione dell'obbligo vigente per il manutentore di possedere le certificazioni di qualità previste dalla legge. In ogni caso non può essere conferito tale incarico a colui che sia anche venditore di energia per il medesimo impianto o a società a qualsiasi titolo legate alla vendita (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOSpese di lite compensate, niente incentivi al legale. Ragioneria generale. Se l'avvocato interno vince la causa.
La Ragioneria generale dello Stato (par. 04.09.2013) fornisce importanti chiarimenti sul rapporto tra limiti di finanza pubblica e compensi professionali per i legali interni, prevedendo l'erogazione di questi ultimi solo in caso di cause vinte con spese a carico della controparte.
Il quesito rivolto alla Ragioneria (Rgs) concerne l'assoggettamento o meno degli incentivi professionali ex articolo 27 del Ccnl 14.09.2000 al tetto di spesa di personale e di contenimento degli oneri derivanti dalla contrattazione integrativa ex articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 (e successive modifiche e integrazioni), anche riguardo alla parte finanziata direttamente con risorse di bilancio dell'ente, tenuto conto che questi compensi risultano esclusi dal blocco ex articolo 9, comma 2-bis, del 78/2010.
Il dubbio posto all'attenzione della Rgs riguarda la possibilità di erogare, in deroga ai limiti di finanza pubblica in materia di spesa di personale, gli incentivi ai legali interni anche in caso di sentenze favorevoli con compensazione di spese. In caso di vittoria con condanna alle spese, difatti, il problema non si pone, poiché il finanziamento degli incentivi è a carico della controparte soccombente.
Regolamento necessario
Si ricorda che l'articolo 27 del Ccnl 14.09.2000 prevede, per gli enti locali, l'adozione di discipline specifiche sia per i compensi professionali per l'avvocatura (con regolamento e secondo i principi di cui al Rd 1578/1933) sia per la correlazione tra questi e la retribuzione di risultato (materia di contrattazione decentrata). La regolamentazione da parte dell'ente è condizione necessaria per il riconoscimento degli incentivi, in analogia con quanto accade per l'Avvocatura dello Stato, riguardo alla quale l'articolo 21, comma 2, del Rd 1611/1933 dispone che «nei casi di pronunciata compensazione di spese in cause nelle quali le Amministrazioni stesse non siano rimaste soccombenti, sarà corrisposta dall'Erario all'Avvocatura dello Stato, con le modalità stabilite dal regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del soccombente».
Richiamando la circolare Rgs 9/2006 e alcune pronunce della Corte dei conti (sezione Umbria 2/2012 e sezioni riunite 56/contr/2011), e rimarcando che l'articolo 1, comma 208 della legge 266/2005 prevede che le somme destinate alla corresponsione di questi compensi sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro, la Ragioneria generale dello Stato chiarisce che solo gli emolumenti derivanti da cause con vittoria e spese a carico della controparte risultano esclusi dai tetti, poiché si tratta di spese di personale totalmente a carico di finanziamenti esterni, senza alcun aggravio per il bilancio dell'ente e per i relativi equilibri.
Viceversa, i compensi dovuti a seguito di sentenze favorevoli con spese compensate, trovando copertura nelle risorse proprie dell'ente e costituendo, perciò, un effettivo aggravio di spesa, non rispettano la condizione essenziale per l'esclusione, vale a dire il cosiddetto etero-finanziamento, rientrando dunque fra le componenti rilevanti ai fini dei limiti ex comma 557 e articolo 9, comma 2-bis. In questo caso, difatti, la fonte di finanziamento non può che incidere direttamente sugli equilibri di bilancio dell'ente (articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Non v’è dubbio come la pensilina per cui è causa, per le sue caratteristiche e la sua notevole consistenza (50 mq. di superficie - 0,70 mt. di spessore - 4,50 mt. di altezza – posizionata a mt. 1,20 dal fabbricato retrostante), determini oggettivamente una significativa alterazione del territorio, tale da escluderne la natura pertinenziale in senso edilizio.
Ne consegue che la pensilina per cui è causa deve essere considerata una “nuova opera”, come tale certamente sottoposta al regime delle distanze tra fabbricati, di cui alla richiamata disciplina urbanistico-edilizia comunale.

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Perché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale, invero, non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato.
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la Sezione a ribadire, anche di recente, che laddove una tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi tale ex se da alterare in modo significativo l'assetto del territorio, essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro bene (c.d. principale) e sia in potenza facilmente smontabile, si sottrae per ciò solo ad una definizione in termini di pertinenza, restando di conseguenza soggetta al regime concessorio proprio delle nuove costruzioni.

Deduce il Comune appellante l’erroneità della gravata sentenza in quanto:
- la classificazione della pensilina quale “pertinenza” sarebbe del tutto irrilevante, posto che la riconduzione della fattispecie al regime autorizzatorio, piuttosto che a quello concessorio, avrebbe conseguenze solo sul regime sanzionatorio dell’abuso edilizio e non sul provvedimento di diniego di sanatoria del manufatto, emesso a causa della sua difformità dal regime delle distanze fissato dalla disciplina urbanistica di zona;
- in ogni caso, per le sue rilevanti dimensioni (50 mq di superficie - 4,50 mt. di altezza - 0,70 mt. di spessore), la pensilina non avrebbe potuto considerarsi pertinenza, bensì una nuova costruzione a tutti gli effetti soggetta, come tale, al regime giuridico proprio di tali interventi edilizi;
- erroneamente, quindi, il Tar avrebbe accolto il primo ricorso non ritenendo nella specie applicabile il regime delle distanze, ed accolto il secondo relativo all’ordine di demolizione in ragione dei vizi dedotti in via derivata.
I rilievi sono fondati.
Osserva, preliminarmente, il Collegio come la riconduzione dell’opera nell’ambito del regime concessorio o autorizzatorio (quale nuova costruzione o pertinenza) non sia essenziale ai fini della decisione, quantomeno con riferimento al primo dei ricorsi (diniego di sanatoria).
Infatti, come correttamente dedotto dal Comune appellante, la declaratoria di rigetto dell’istanza di sanatoria si fonda sul mancato rispetto della disciplina urbanistica della zona 14 H in tema di distanze tra manufatti che, in linea di principio, deve essere osservata indipendentemente dalla natura pertinenziale o meno dell’intervento edilizio.
Ciò premesso, va comunque rilevato come nella specie la pensilina per cui è causa rientri oggettivamente, in ragione delle sue caratteristiche e dimensioni, nel novero delle “nuove costruzioni” e non in quello delle “pertinenze”, con conseguente necessaria applicazione ad essa della disciplina in materia di distanze.
Infatti, come costantemente affermato dalla giurisprudenza anche della Sezione, perché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale, invero, non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3221).
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la Sezione a ribadire, anche di recente, che laddove una tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi tale ex se da alterare in modo significativo l'assetto del territorio, essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro bene (c.d. principale) e sia in potenza facilmente smontabile, si sottrae per ciò solo ad una definizione in termini di pertinenza, restando di conseguenza soggetta al regime concessorio proprio delle nuove costruzioni (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19.07.2013 n. 3939).
Ciò posto, non v’è dubbio come la pensilina per cui è causa, per le sue caratteristiche e la sua notevole consistenza (50 mq. di superficie - 0,70 mt. di spessore - 4,50 mt. di altezza – posizionata a mt. 1,20 dal fabbricato retrostante), determini oggettivamente una significativa alterazione del territorio, tale da escluderne la natura pertinenziale in senso edilizio.
E ciò ancor più, se la si rapporta con il bene c.d. principale (il distributore di carburanti cui accede), rispetto al quale assume una consistenza tutt’altro che marginale, se non pressoché paritaria.
Ne consegue, in definitiva, che la pensilina per cui è causa, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, deve essere considerata una “nuova opera”, come tale certamente sottoposta al regime delle distanze tra fabbricati, di cui alla richiamata disciplina urbanistico-edilizia comunale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2013 n. 4997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha significato più circoscritto.
I giudici del Consiglio di Stato confermano nella sentenza in commento che, perché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale, invero, non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia. In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato.
Del resto, proprio tale regime differenziato ha indotto la quinta Sezione del Consiglio di Stato a ribadire, anche di recente, che laddove una tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi tale ex se da alterare in modo significativo l'assetto del territorio, essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro bene (c.d. principale) e sia in potenza facilmente smontabile, si sottrae per ciò solo ad una definizione in termini di pertinenza, restando di conseguenza soggetta al regime concessorio proprio delle nuove costruzioni (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19.07.2013 n. 3939).
Ciò premesso, in questa occasione i giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che la pensilina di cui si discuteva rientri oggettivamente, in ragione delle sue caratteristiche e dimensioni, nel novero delle “nuove costruzioni” e non in quello delle “pertinenze”, con conseguente necessaria applicazione ad essa della disciplina in materia di distanze (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2013 n. 4997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto.
1. La consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto
2. Nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere la determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il compratore ad effettuare l’acquisto.
Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari

2.1. – Il motivo è fondato.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che la consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto (così, Cass. n. 16216/2008, la quale, applicando detto principio, ha confermato la sentenza dei giudici di merito che, tenuto conto che non era stato stipulato l’atto definitivo di compravendita, non essendo stato ancora ottenuto dal costruttore il certificato di abitabilità, avevano ritenuto giustificata la sospensione da parte del promittente acquirente del pagamento dei ratei di mutuo, quale legittimo esercizio della facoltà di autotutela di cui all’art. 1460 c.c.).
Ne deriva che nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere la determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il compratore ad effettuare l’acquisto. Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari (cfr. Cass. n. 9253/2006).
2.1.1. – La Corte territoriale ha disatteso tale indirizzo, e nell’escludere il danno emergente per la conformità del costruito al consentito, non ha tenuto conto che sul venditore-costruttore incombe l’obbligo non solo di trasferire all’acquirente un fabbricato conforme all’atto amministrativo d’assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l’agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato. I giudici d’appello, in altri termini, non hanno considerato che il venditore-costruttore deve curare la richiesta e sostenere le spese necessarie a conseguire il certificato di agibilità, e che il non averlo fatto costituisce un inadempimento ex se foriero di danno emergente, perché costringe l’acquirente a provvedere in proprio ovvero a ritenere l’immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all’alienazione a terzi.
3. – Per quanto sopra, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “il venditore-costruttore di un bene immobile ha l’obbligo non solo di trasferire all’acquirente un fabbricato conforme all’atto amministrativo d’assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l’agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio. L’inadempimento di quest’ultima obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l’acquirente a provvedere in proprio ovvero a ritenere l’immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all’alienazione a terzi” (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.10.2013 n. 23157 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Venditore-costruttore di un immobile - Assenza del certificato di agibilità - Inadempimento - Risarcimento del danno emergente.
Il venditore-costruttore di un bene immobile ha l'obbligo non solo di trasferire all'acquirente un fabbricato conforme all'atto amministrativo d'assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio.
L'inadempimento di quest'ultima obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi".
Vendita di immobile destinato ad abitazione - Mancanza del certificato di agibilità - Risarcimento del danno.
Nel caso di vendita di immobile destinato ad abitazione, la mancanza del certificato di agibilità configura un'ipotesi di vendita aliud pro alio, che incide sull'attitudine del bene ad assolvere la sua funzione economico-sociale e sulla relativa commerciabilità, di guisa che anche nel caso in cui il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune, il venditore è tenuto al risarcimento del danno.
Certificato di abitabilità - Assenza - Inadempimento - Sospensione da parte del promittente acquirente del pagamento - Artt. 1460 e 1477 c.c..
La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto (Cass. n. 16216/2008, la quale, applicando detto principio, ha confermato la sentenza dei giudici di merito che, tenuto conto che non era stato stipulato l'atto definitivo di compravendita, non essendo stato ancora ottenuto dal costruttore il certificato di abitabilità, avevano ritenuto giustificata la sospensione da parte del promittente acquirente del pagamento dei ratei di mutuo, quale legittimo esercizio della facoltà di autotutela di cui all'art. 1460 c.c.).
Ne deriva che nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere la determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il compratore ad effettuare l'acquisto. Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari (Cass. n. 9253/2006) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.10.2013 n. 23157 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARITransazioni. Quando manca il documento di agibilità possibile sospendere i pagamenti.
Indennizzo se non c'è il certificato. Venditori e acquirenti si fronteggiano quando manca il certificato di agibilità, ma prevalgono questi ultimi.

È la conclusione cui giunge la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 11.10.2013 n. 23157, che ha esaminato il caso di un'abitazione carente del certificato di agibilità. La consegna del certificato, pur non costituendo una condizione di validità della compravendita, è un obbligo del venditore, perché dimostra un requisito essenziale della cosa venduta. Per questo motivo, se il contratto non è stato ancora concluso, chi ha promesso di comprare può sospendere il pagamento.
Se invece la vendita è avvenuta, il certificato di agibilità è un elemento che dimostra la capacità del bene di soddisfare l'esigenza abitativa. Da ciò deriva che la mancata consegna del certificato genera un inadempimento che può essere fonte di un danno risarcibile. Se infatti l'unità immobiliare può ottenere l'agibilità ma, per vari motivi (inerzia del Comune, lieve difformità) il certificato manca, non necessariamente vi è risoluzione del contratto perché il venditore può dimostrare l'agevole ottenimento del certificato stesso.
Tuttavia, anche se il contratto di compravendita non si risolve, c'è comunque un danno risarcibile perché sussistono problemi di commerciabilità e si costringe l'acquirente a provvedere in proprio a tutte le spese necessarie a conseguire il certificato predetto. In ogni caso, l'unità priva di certificato di agibilità ha un valore di scambio inferiore a quello che avrebbe se fosse corredato dal documento specifico. Sul venditore grava quindi l'onere non solo di trasferire un fabbricato conforme all'atto amministrativo e quindi idoneo a ottenere l'agibilità, ma anche di consegnare il relativo documento.
Questo principio mantiene validità anche all'indomani delle norme del decreto del fare, che snelliscono il rilascio del certificato: l'articolo 30 del decreto legge 69/2013 prevede che l'agibilità possa essere ottenuta per singoli edifici purché vi sia l'urbanizzazione primaria e i collaudi degli impianti relativi alle parti comuni; anche singole unità possono ottenere l'agibilità se hanno opere strutturali completate e collaudate, impianti certificati e urbanizzazione primaria funzionale all'edificio già completata.
Il principio espresso dalla Cassazione resta comunque valido in quanto riguarda l'agibilità finale, cioè quella successiva e globale rispetto all'agibilità parziale, che è agevolata dal decreto legge 69/2013 ma non sostituisce l'agibilità complessiva finale (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAImmobili abusivi, sì all'asta. Ma la regolarizzazione può avvenire solo con doppia conformità. Cassazione. La vendita può avvenire e chi acquista avrà l'onere di procedere a sanatoria entro 120 giorni
IL PROBLEMA/ Necessario avvisare i possibili acquirenti In caso contrario c'è spazio per chiedere l'annullamento
Anche un immobile abusivo può essere trasferito, qualora vi sia una procedura di vendita forzata per debiti (espropriazione immobiliare).

Lo sottolinea la Corte di Cassazione con la sentenza 11.10.2013 n. 23140, precisando che chi compra all'asta avrà l'onere di provvedere alla sanatoria entro 120 giorni dal decreto di aggiudicazione.
Il caso esaminato riguardava un appartamento posto all'asta per soddisfare i creditori, bene che, per una migliore liquidazione, era stato suddiviso in più unità. Secondo i debitori, la vendita all'asta era nulla, perché le norme urbanistiche non consentivano tale frazionamento, ma la Cassazione ha escluso che il frazionamento incidesse sulla possibilità di trasferire il bene.
La norma applicabile è l'articolo 46 del Testo unico edilizia (Dpr 380/2001), che definisce “nulli” tutti i trasferimenti aventi a oggetto immobili abusivi costruiti dopo il 17.03.1985. Questo limite alla commercializzazione si somma alle sanzioni amministrative (demolizione) e penali (multa, reclusione), ma presuppone un trasferimento di tipo commerciale. Per tale motivo la nullità del trasferimento non opera quando vi è una vendita attraverso un'asta giudiziaria, cioè quando si trasferisce il bene nell'ambito di una procedura esecutiva.
Poiché occorre soddisfare le esigenze dei creditori, il bene diventa commercializzabile e spetterà poi all'acquirente chiedere, entro 120 giorni dal decreto di assegnazione, la sanatoria (comma 5, articolo 46). Sanatoria che sarà rilasciata secondo le norme vigenti all'epoca dell'asta (non secondo le norme dei vari condoni) e quindi solo se vi è una doppia conformità (articolo 38 del Dpr 380/2001).
Chi ha perso l'immobile a causa dei debiti, non può quindi eccepire nulla, perché l'immobile sarà dichiarato abusivo nel bando di vendita giudiziaria, e come tale valutato in perizia.
Se nel bando non vi è questa precisazione circa l'abusività dell'immobile, l'alienazione tramite asta giudiziaria può generare un errore essenziale sulla qualità del bene (aliud pro alio: una cosa per l'altra), con possibilità, per l'ignaro acquirente all'asta, di chiedere l'annullamento della vendita. Tutto ciò, peraltro, non interessa il debitore che ha perso il bene, il quale può avere voce in capitolo solo in tema di formazione dei lotti da vendere (qualora una vendita sia illogica e per tale motivo possa essere meno vantaggiosa). Ma se il giudice dell'esecuzione ritiene di vendere in modo frazionato un bene che urbanisticamente non può essere diviso in più unità (ad esempio, un albergo venduto in più parti), il venditore non può intervenire.
In sintesi, in caso di vendita all'asta disposta per soddisfare i creditori, il bene immobile e' stimato e offerto secondo le sue caratteristiche, cui si aggiunge quella di una sanabilità relativa. Se nel bando e nella perizia che lo precede viene specificata l'irregolarità urbanistica, l'acquirente non può eccepire nulla e nemmeno il debitore può interloquire (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati. Parcella contestata, sospesi gli interessi.
Non scattano gli interessi moratori sulla parcella che l'avvocato invia al cliente, se quest'ultimo la contesta.

Lo afferma la Corte di Cassazione (sentenza n. 22982/2013) decidendo su una lite tra professionista e un Comune sulla congruità del compenso la cui contestazione è iniziata nel 2005.
La Suprema Corte afferma che quando il compenso professionale viene contestato dal cliente, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo, non decorrono gli interessi moratori di cui all'articolo 1224 del Codice civile. Ciò in quanto in queste ipotesi è il giudice a liquidare con ordinanza l'onorario per la prestazione professionale (legge 794/1942). Liquidazione che avviene in base alla natura e al valore della controversia, alla complessità delle questione trattate, all'attività prestata e all'esito del giudizio.
Ne consegue che prima della quantificazione giudiziale del compenso per il professionista non scattano gli interessi moratori poiché il credito non è «certo nel suo ammontare». Ciò è coerente all'allegato 2 del decreto ministeriale 22.06.1982 che fa decorrere gli interessi di mora e la svalutazione monetaria sugli onorari dell'avvocato dopo tre mesi dall'invio della parcella al cliente, sempre se l'importo non venga contestato. Ciò va coordinato con l'articolo 4 del Dlgs 231/2002, modificato dal Dlgs 192/2012, che fa scattare gli interessi di mora dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento del debito in tutte le transazioni commerciali in cui una parte non è un privato.
Se il cliente è un imprenditore o altro professionista, per l'avvocato gli interessi moratori lievitano in modo automatico dopo la scadenza del termine per provvedere, senza che sia necessaria la "costituzione in mora" (cioè la raccomandata). Se invece il cliente è un privato, il professionista deve attendere che il giudice liquidi il suo onorario e solo da quel momento e nei limiti di quell'importo può chiedere anche gli interessi al cliente moroso (oggi l'8,75%).
Per le controversie sorte dal febbraio 2012 occorre considerare le disposizioni della legge 247/2012 sul compenso e sui meccanismi di conciliazione per avvocati. L'articolo 13 prevede che il compenso dell'avvocato va pattuito per iscritto al conferimento dell'incarico. In mancanza di accordo sia il professionista che il cliente possono rivolgersi al Consiglio dell'ordine al fine di raggiungere un'intesa.
Se il contrasto non si compone il professionista può comunque chiedere all'Ordine di appartenenza di rilasciare un parere di congruità della parcella richiesta e contestata dal cliente. Le novità legislative prevedono anche un rito accelerato (articolo 702-bis del Codice di procedura civile) per la liquidazione giudiziale del compenso (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

APPALTI: Ai sensi dell’art. 120, comma 5, cod. proc. amm., il termine decadenziale di impugnazione, pari a 30 giorni, decorre “dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 79” del d.lgs. n. 163/2006 (ndr: Art. 79 - Informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni), “ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto”.
Invero, come osservato da Cons. Stato, sez. VI, n. 6531/2011:
-- l’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 è stato novellato dal d.lgs. n. 53/2010, al fine di garantire, attraverso forme puntuali di comunicazione, piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di gara (segnatamente, esclusioni e aggiudicazioni);
-- la norma, tuttavia, da un lato, non prevede le elencate forme di comunicazione come ‘esclusive’ e ‘tassative’ e, d’altro lato, non incide sulle regole generali del processo amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di impugnazione dalla data di notificazione, comunicazione o comunque piena conoscenza dell’atto; sicché lascia in vita la possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi la eccepisce;
-- essa neppure ha inteso incidere sulla consolidata giurisprudenza in tema di decorrenza del termine di impugnazione dalla data della seduta pubblica in cui vengono adottati i provvedimenti di esclusione, se alla seduta è presente il rappresentante del concorrente e purché la conoscenza abbia i requisiti di ‘pienezza’;
-- a sua volta, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. si riferisce all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure di affidamento, e fissa plurime decorrenze dei termini, o dalla ricezione della comunicazione ex art. 79, o, per i bandi, dalla pubblicazione ex art. 66, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto;
-- l’espressione “in ogni altro caso”, non va riferita ad ‘atti diversi’ da quelli delle procedure di affidamento, e specificamente da quelli di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, ma va riferita a ‘diverse forme’ di conoscenza dell’atto, diverse, cioè, da quelle dell’art. 79 e dell’art. 66, comma 8;
-- così interpretato, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. è coerente con la regola generale dettata dal precedente art. 41, comma 2, secondo cui il termine di impugnazione del provvedimento amministrativo decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell’atto;
-- pertanto, esso non ha inteso fissare forme tassative di comunicazione degli atti di gara al fine della decorrenza del termine di impugnazione, ma ha inteso ribadire la regola generale secondo cui il termine decadenziale di impugnazione decorre o dalla comunicazione nelle forme di legge, o comunque dalla piena conoscenza dell’atto;
-- così, a prescindere dalla comunicazione nelle forme dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, detto termine decorre, comunque, dalla piena conoscenza altrimenti acquisita.
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Se l’impresa assiste, tramite proprio rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate le determinazioni sulle offerte anomale, è in detta seduta che essa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento, ed è dalla data di detta seduta che decorre il termine per impugnare il provvedimento medesimo: la presenza di un rappresentante della ditta concorrente nella riunione nella quale la commissione giudicatrice ha escluso la ditta stessa dalla competizione non comporta, infatti, ex se, piena conoscenza dell’atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, solo qualora non risulti che il rappresentante stesso era all’uopo incaricato oppure rivestiva una specifica carica sociale, onde potersi riferire la conoscenza avuta dal medesimo all’impresa concorrente.

Considerato, in rito, che:
- il ricorso introduttivo del presente giudizio risulta notificato (in data 22.08.2013) oltre il termine perentorio di 30 giorni ex art. 120, comma 5, cod. proc. amm., decorrente dalla piena conoscenza –perfezionatasi non oltre la seduta pubblica del 29.06.2013– dell’atto impugnato nei suoi contenuti essenziali e nella sua portata lesiva;
- in questo senso, giova rammentare che, già nella seduta pubblica del 28.06.2013, alla quale aveva assistito assistito il soggetto (Votino Giuseppe) all’uopo delegato dalla Irpinia Global Service, il presidente del seggio di gara aveva comunicato la motivata esclusione della ricorrente (“il presidente dà lettura delle motivazioni per le quali la ditta Irpinia Global Service va esclusa (allegato A)”: “la società Irpinia Global Service –recita l’allegato A al verbale di gara n. 2 del 28.06.2013– si è avvalsa di una ditta ausiliaria per il requisito di ordine economico-finanziario del fatturato globale, cumulando a quello proprio parte di quello posseduto dall’impresa ausiliaria (avvalimento parziale) … tale possibilità è esclusa dall’art. 49, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006”; “il contratto di avvalimento non rispetta le prescrizioni del disciplinare di gara di cui al paragrafo 16, punto 9, ove prevede che il contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico nonché la durata del contratto”);
- inoltre, nella successiva seduta pubblica del 29.06.2013, alla quale pure aveva assistito il soggetto (Iazzetta Ferdinando) all’uopo delegato dalla Irpinia Global Service, il presidente del seggio di gara aveva comunicato che, “anche in presenza delle osservazioni formulate nella seduta del 28.06.2013, si conferma l’esclusione dalla gara della ditta Irpinia Global Service per le motivazioni di cui all’allegato A al verbale del 28.06.2013”;
- ciò posto, occorre, a questo punto, rimarcare che, ai sensi dell’art. 120, comma 5, cod. proc. amm., il termine decadenziale di impugnazione, pari a 30 giorni, decorre “dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 79” del d.lgs. n. 163/2006, “ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto”;
- ora, non è ipotizzabile che tale disposizione ancori la decorrenza del termine decadenziale di impugnazione degli atti contemplati dal comma 5 dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (tra cui l’esclusione, sub lett. b) alle sole forme di comunicazione scritta previste dal successivo comma 5-bis (raccomandata con avviso di ricevimento, fax, posta elettronica certificata, notificazione) –come quella impiegata con la nota del 02.07.2013, prot. n. 3059– e non anche a modalità diverse di conoscenza –quale, appunto, quella attuata nella seduta pubblica del 29.06.2013–;
- ed invero, come osservato da Cons. Stato, sez. VI, n. 6531/2011:
     -- l’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 è stato novellato dal d.lgs. n. 53/2010, al fine di garantire, attraverso forme puntuali di comunicazione, piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di gara (segnatamente, esclusioni e aggiudicazioni);
     -- la norma, tuttavia, da un lato, non prevede le elencate forme di comunicazione come ‘esclusive’ e ‘tassative’ e, d’altro lato, non incide sulle regole generali del processo amministrativo, in tema di decorrenza dei termini di impugnazione dalla data di notificazione, comunicazione o comunque piena conoscenza dell’atto; sicché lascia in vita la possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi la eccepisce;
     -- essa neppure ha inteso incidere sulla consolidata giurisprudenza in tema di decorrenza del termine di impugnazione dalla data della seduta pubblica in cui vengono adottati i provvedimenti di esclusione, se alla seduta è presente il rappresentante del concorrente e purché la conoscenza abbia i requisiti di ‘pienezza’;
     -- a sua volta, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. si riferisce all’impugnazione di tutti gli atti delle procedure di affidamento, e fissa plurime decorrenze dei termini, o dalla ricezione della comunicazione ex art. 79, o, per i bandi, dalla pubblicazione ex art. 66, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006, ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto;
     -- l’espressione “in ogni altro caso”, non va riferita ad ‘atti diversi’ da quelli delle procedure di affidamento, e specificamente da quelli di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, ma va riferita a ‘diverse forme’ di conoscenza dell’atto, diverse, cioè, da quelle dell’art. 79 e dell’art. 66, comma 8;
     -- così interpretato, l’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. è coerente con la regola generale dettata dal precedente art. 41, comma 2, secondo cui il termine di impugnazione del provvedimento amministrativo decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell’atto;
     -- pertanto, esso non ha inteso fissare forme tassative di comunicazione degli atti di gara al fine della decorrenza del termine di impugnazione, ma ha inteso ribadire la regola generale secondo cui il termine decadenziale di impugnazione decorre o dalla comunicazione nelle forme di legge, o comunque dalla piena conoscenza dell’atto;
     -- così, a prescindere dalla comunicazione nelle forme dell’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, detto termine decorre, comunque, dalla piena conoscenza altrimenti acquisita;
- nella specie, sussistono –come accennato– gli estremi della piena conoscenza dell’atto da impugnare sia nei suoi contenuti essenziali sia nella sua portata lesiva;
- in particolare, già nelle sedute pubbliche del 28.06.2013 e del 29.06.2013, sono stati comunicati e confermati sia il provvedimento di esclusione sia i motivi a suo fondamento ed era presente il soggetto all’uopo delegato dall’impresa esclusa, identificato nominativamente nel verbale di gara;
- a tale ultimo riguardo, la giurisprudenza afferma che, se l’impresa assiste, tramite proprio rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate le determinazioni sulle offerte anomale, è in detta seduta che essa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento, ed è dalla data di detta seduta che decorre il termine per impugnare il provvedimento medesimo: la presenza di un rappresentante della ditta concorrente nella riunione nella quale la commissione giudicatrice ha escluso la ditta stessa dalla competizione non comporta, infatti, ex se, piena conoscenza dell’atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, solo qualora non risulti che il rappresentante stesso era all’uopo incaricato oppure rivestiva una specifica carica sociale, onde potersi riferire la conoscenza avuta dal medesimo all’impresa concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1217/1999; sez. V, n. 6319/2004; n. 5728/2006; n. 2883/2008) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.10.2013 n. 4556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una domanda di sanatoria determina per l’amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione o di accoglimento dell'istanza stessa cui deve far seguito l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori, che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive.
Ciò comporta che, dopo la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, le procedure per l'esecuzione di una sanzione amministrativa (a maggior ragione la potestà di emanare la sanzione stessa) devono ritenersi sospese in attesa della determinazione dell'Amministrazione sulla domanda di sanatoria.

Deve quindi ritenersi violato il principio generale secondo cui “la presentazione di una domanda di sanatoria determina per l’amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione o di accoglimento dell'istanza stessa cui deve far seguito l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori, che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive; ciò comporta che, dopo la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, le procedure per l'esecuzione di una sanzione amministrativa (a maggior ragione la potestà di emanare la sanzione stessa) devono ritenersi sospese in attesa della determinazione dell'Amministrazione sulla domanda di sanatoria" (Consiglio di Stato IV Sezione 15.06.2012 n. 3534; Consiglio di Stato, Sezione IV, 26.01.2009 n. 437, TAR Lazio, Roma, sez. I, 01.04.2005 n. 2381, TAR Lazio, Roma, sez. I, 02.12.2010 n. 35024) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.10.2013 n. 4542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività istruttoria da svolgersi ad opera dell’Amministrazione comunale deve essere rivolta non già a risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area stessa, bensì ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente, sia per la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti, sia per evitare il grave contenzioso che deriverebbe dall'incauto rilascio di quest'ultima a soggetti non idoneamente legittimati.
... l’attività istruttoria da svolgersi ad opera dell’Amministrazione deve essere rivolta non già a risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area stessa, bensì ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente, sia per la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti, sia per evitare il grave contenzioso che deriverebbe dall'incauto rilascio di quest'ultima a soggetti non idoneamente legittimati (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. III, 23.01.2009, n. 315) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2013 n. 4538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario.
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L’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione.
L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale.

Infondati sono i motivi primo e terzo con cui si deduce violazione dell’art. 7, della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo dell’abuso, nonché dell’art. 3, stessa legge per motivazione generica erronea e fuorviante.
Rammenta al riguardo il Collegio, quanto alla prima censura che per giurisprudenza costante l’ordine di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357).
La Sezione si è di recente pronunciata negli stessi sensi, escludendo l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza di demolizione, stante il contenuto vincolato del provvedimento e l’inutilità della partecipazione del destinatario (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302) più di recente ribadendo tale posizione (TAR Campania Napoli, Sez. III, sentenza 03.04.2013, n. 1729; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 22.02.2013 n. 1069)
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Infondata è anche la seconda censura concernente le dedotte suindicate carenze motivazionali.
In disparte il rilievo che l’ordinanza impugnata motiva adeguatamente l’abusività delle opere de quibus in quanto “prive di permesso di costruire”, la doglianza è, comunque infondata in diritto poiché contraddetta da pacifica giurisprudenza che predica che l’unico presupposto dell’ordinanza di demolizione è l’accertata abusività delle opere, la loro descrizione e l’indicazione del perché del loro carattere abusivo, senza alcuna necessità di ulteriore motivazione. L’ordinanza di demolizione è pertanto sufficientemente motivata con la descrizione delle opere abusive e delle ragioni dell’abusività, non occorrendo ulteriore sviluppo motivazionale: TAR Lazio, Sez. I, 08.06.2011, n. 5082.
Anche la Sezione ha sposato siffatta opzione interpretativa (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.07.2012, n. 3302) ribadendola più di recente (TAR Campania–Napoli, III Sez. 15.01.2013. n. 301; TAR Campania Napoli, III Sez. 28.01.2013, n. 651)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2013 n. 4533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni.
Si è infatti in presenza di provvedimento c.d. plurimotivato, discendendone che “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005, n. 2767; in termini anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006, n. 252; TAR Basilicata, Sez. I, 28.06.2010, n. 456) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2013 n. 4533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' la valutazione di incongruità, ovvero di anomalia dell’offerta a soggiacere ad un serrato e stingente onere di motivazione, che deve possedere i caratteri della analiticità e completezza, laddove il giudizio positivo di congruità non richiede, di regola, l’espressione di una motivazione parimenti dettagliata, potendo essere formulato per relationem con riferimento alle giustificazioni e agli elementi integrativi di giudizio forniti dall’impresa in sede di espletamento del sub procedimento di valutazione dell’offerta anomala.
Invero, “nelle gare di appalto, mentre il provvedimento amministrativo che ritiene l’offerta anomala deve essere puntualmente motivato, quello che ritiene l’offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che ha formulato l’offerta sottoposta a verifica con esito positivo”.
Più specificamente si è più di recente chiarito affermato che “Nelle gare pubbliche d'appalto il giudizio positivo di congruità dell' offerta anomala non richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed adeguate” e che “In materia di gare di appalto nel caso in cui la valutazione sull' offerta sospetta di anomalia si traduca in un giudizio di congruità , non è necessario che il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione articolata che descriva le singole giustificazioni corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni”.
Su tale scia si era già precisato che “il giudizio di positiva attendibilità sull'offerta non richiede una analitica motivazione e può essere anche avvalorato per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dall'interessato che, si ripete, rilevano nel loro complesso, poiché l'attendibilità è questione complessiva e l'inattendibilità non discende ex se dall'errore in una singola argomentazione”.
Rimarca peraltro il Collegio che il naturale limite consustanziale al delineato indirizzo ermeneutico va ravvisato nell’adeguatezza e congruità, che si traduce poi nell’attendibilità, delle giustificazioni fornite dall’impresa scrutinata, carattere che solo può conferire alle stesse l’attitudine a fungere da elemento di riferimento su cui misurare per relationem il giudizio di congruità.
E’ infatti evidente che ove le giustificazioni prodotte dall’impresa a suffragio della pretesa congruità dell’offerta non siano munite del pregio della persuasività ed analiticità, le stesse non possono assurgere ad elemento sul quale la stazione appaltante può motivare per relationem la bontà della proposta contrattuale.
Invero il Consiglio di Stato ha efficacemente puntualizzato l’assunto in parola avendo precisato “in termini generali, che il giudizio positivo di congruità dell'offerta non richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed adeguate”.

Non sfugge alla Sezione l’approdo cui è pervenuta la giurisprudenza amministrativa in subiecta materia, avendo attinto e più volte ribadito il principio di diritto in ossequio al quale è la valutazione di incongruità, ovvero di anomalia dell’offerta a soggiacere ad un serrato e stingente onere di motivazione, che deve possedere i caratteri della analiticità e completezza, laddove il giudizio positivo di congruità non richiede, di regola, l’espressione di una motivazione parimenti dettagliata, potendo essere formulato per relationem con riferimento alle giustificazioni e agli elementi integrativi di giudizio forniti dall’impresa in sede di espletamento del sub procedimento di valutazione dell’offerta anomala.
Si rammenta che si è precisato che “nelle gare di appalto, mentre il provvedimento amministrativo che ritiene l’offerta anomala deve essere puntualmente motivato, quello che ritiene l’offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che ha formulato l’offerta sottoposta a verifica con esito positivo” (Cons. Stato, Sez. VI, 03.04.2002 n. 1853; Cons. Stato, Sez. VI, 08.03.2004 n. 1080, C.G.A., 29.01.2007 n. 5).
Più specificamente si è più di recente chiarito affermato che “Nelle gare pubbliche d'appalto il giudizio positivo di congruità dell' offerta anomala non richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed adeguate” (TAR Toscana Firenze Sez. I, 28.01.2013, n. 141) e che “In materia di gare di appalto nel caso in cui la valutazione sull' offerta sospetta di anomalia si traduca in un giudizio di congruità , non è necessario che il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione articolata che descriva le singole giustificazioni corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni” (TAR Lombardia Milano Sez. I, 23.02.2012, n. 593).
Su tale scia si era già precisato che “il giudizio di positiva attendibilità sull'offerta non richiede una analitica motivazione e può essere anche avvalorato per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dall'interessato che, si ripete, rilevano nel loro complesso, poiché l'attendibilità è questione complessiva e l'inattendibilità non discende ex se dall'errore in una singola argomentazione” (TAR Piemonte Torino Sez. I, 27.01.2011, n. 115).
Rimarca peraltro il Collegio che il naturale limite consustanziale al delineato indirizzo ermeneutico va ravvisato nell’adeguatezza e congruità, che si traduce poi nell’attendibilità, delle giustificazioni fornite dall’impresa scrutinata, carattere che solo può conferire alle stesse l’attitudine a fungere da elemento di riferimento su cui misurare per relationem il giudizio di congruità.
E’ infatti evidente che ove le giustificazioni prodotte dall’impresa a suffragio della pretesa congruità dell’offerta non siano munite del pregio della persuasività ed analiticità, le stesse non possono assurgere ad elemento sul quale la stazione appaltante può motivare per relationem la bontà della proposta contrattuale.
Invero il Consiglio di Stato ha efficacemente puntualizzato l’assunto in parola avendo precisato “in termini generali, che il giudizio positivo di congruità dell'offerta non richiede un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni stesse, purché a loro volta queste siano state congrue ed adeguate (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 10.09.2012, n. 4785)” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.10.2013 n. 4532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICICorte europea. Avvalimento plurimo ammesso.
Va ammesso l'avvalimento plurimo per qualificarsi negli appalti di lavori; è quindi illegittimo l'articolo 49, comma 6 del Codice dei contratti pubblici.

È quanto afferma la sentenza 10.10.2013 n. C-94/12 della Corte di giustizia europea, che si è espresso sulla pregiudiziale del Tar Marche per una gara bandita dalla provincia di Fermo.
In particolare una impresa, violando il divieto di avvalimento plurimo previsto per i lavori dall'art. 49, comma 6 del Codice dei contratti, aveva dimostrato i requisiti di qualificazione in una categoria avvalendosi di più imprese, per dimostrare i requisiti di una specifica categoria. I giudici europei bocciano la norma italiana preliminarmente ricordando che la direttiva europea autorizza i raggruppamenti di operatori economici a partecipare a procedure di appalti pubblici senza limitazioni relative al cumulo di capacità e a subappaltatori.
Inoltre la precedente la giurisprudenza della stessa Corte aveva già ammesso la facoltà, per un operatore economico, di avvalersi, per eseguire un appalto, di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi. Così facendo infatti si persegue l'obiettivo dell'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, obiettivo perseguito dalle direttive a vantaggio non soltanto degli operatori economici, ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici, facilitando l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
In relazione a tali presupposti la Corte afferma che la norma del Codice, prevedendo un divieto di carattere generale, non risulta conforme alla direttiva 2004/18 e quindi implicitamente costringerà il legislatore italiano ad una dovuta modifica per evitare una procedura di infrazione.
La pronuncia, in realtà ammette che, per lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori, si possa limitare l'avvalimento ma ciò deve rappresentare una eccezione, connessa e proporzionata all'oggetto dell'appalto singolo e non una regola generale (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2013).

LAVORI PUBBLICILavori pubblici. Le imprese potranno qualificarsi con le caratteristiche di aziende nella stessa categoria di opere.
In gara con più requisiti in prestito. La Corte Ue cancella il divieto di «avvalimento plurimo» dal Codice dei contratti.
IL VANTAGGIO/ Sono soprattutto le Pmi ad «appoggiarsi» ad altre società per conquistare l'ammissione agli appalti.

Via libera all'avvalimento «plurimo» nel settore dei lavori pubblici. In nome dei principi di concorrenza, libertà di organizzazione dell'impresa e massima apertura del mercato degli appalti alle Pmi,
la Corte di Giustizia dell’Ue, con sentenza 10.10.2013 n. C-94/12, cancella la norma che impone a chi partecipa a una gara pubblica di avvalersi dei requisiti posseduti da una sola impresa per ciascuna categoria di lavori.
Il paletto imposto dal codice dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006, articolo 49, comma 6) contrasta con la direttiva europea sugli appalti (2004/18/Ce). D'ora in avanti, dunque, un costruttore potrà partecipare a una gara di lavori dimostrando di poter contare sui requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi facendo leva su più imprese per la stessa tipologia di lavoro.
In sintesi è questo il principio stabilito dalla Corte di Giustizia europea, arrivata rapidamente a sentenza sul caso sottoposto la settimana scorsa dal Tar Marche in relazione al ricorso di una società esclusa da una gara d'appalto perché "accompagnata" in gara da più di un impresa ausiliaria.
Cade dunque il paletto secondo cui «un solo avvalimento deve essere sufficiente ad integrare i requisiti che il concorrente non possiede», come ricordava anche l'Autorità nella determinazione numero 2/2012, dedicata proprio a fornire le linee guida a stazioni appaltanti e imprese sull'utilizzo dell'avvalimento nelle procedure di gara.
Si tratta di una questione molto dibattuta in Italia, che ha dato adito anche a orientamenti ondivaghi della giurisprudenza. Rispetto alle indicazioni molto rigorose previste dal codice dei contratti che vietano esplicitamente di ricorrere ai mezzi di più di un'impresa "garante" per eseguire le lavorazioni previste da un appalto, le norme europee (articoli 47 e 48 della direttiva 2004/18/Ce), mantengono un'impostazione molto più "aperta". E infatti, ricorda ora la Corte Ue, «la direttiva non vieta ai candidati di fare riferimento alle capacità di più soggetti terzi per comprovare che soddisfano un livello minimo di capacità o i criteri fissati da un'amministrazione aggiudicatrice». Anzi, la giurisprudenza europea, ricorda la Corte, «ha indicato la facoltà, per un operatore economico, di avvalersi, per eseguire un appalto, di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi».
Secondo i giudici Ue, «un'interpretazione del genere è conforme all'obiettivo dell'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, obiettivo perseguito dalle direttive a vantaggio non soltanto degli operatori economici, ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici, facilitando l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici».
La Corte non esclude «l'esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori». In un'ipotesi del genere, continua la Corte «l'amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o da un numero limitato di operatori economici». Il punto è che deve trattarsi di «una situazione eccezionale» è non di «una regola generale».
Conclusione: il no all'avvalimento plurimo imposto dal codice contrasta con le norme europee e da ora in poi va disapplicato. Restano invece ancora in piedi gli altri due paletti previsti dal codice: quello che impone all'impresa ausiliaria (la società che presta i requisiti) di partecipare alla medesima gara in proprio e il divieto per la stessa impresa ausiliaria di prestare i requisiti a più di un concorrente in gara (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2013).

LAVORI PUBBLICI: Appalti, illegittime le norme italiane che vietano attestazioni di più soggetti per lavori della stessa categoria.
Ancora una volta la Corte di Giustizia bacchetta l'Italia, stavolta in materia di appalti pubblici. Secondo gli eurogiudici, infatti,
è contrario al diritto dell'Unione il divieto generale di avvalimento plurimo all'interno della medesima categoria di qualificazione previsto dal nostro ordinamento. Si tratta, più precisamente, del divieto imposto ad una impresa di avvalersi di mezzi appartenenti ad uno o a più soggetti, nell'eventualità in aggiunta ai propri, secondo quanto disposto dal Codice dei Contratti pubblici.
Il caso
Davanti al TAR per le Marche pende una controversia che vede contrapposti, da un lato, la Swm Costruzioni 2 SpA e la Mannocchi Luigino DI, che hanno costituito un Raggruppamento Temporaneo di Imprese (RTI), e, dall’altro, la Provincia di Fermo, a seguito della decisione di quest’ultima di escludere il citato RTI dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori.
In pratica, le due imprese di costruzioni sono state escluse dall’appalto dalla Provincia di Fermo per aver costituito un raggruppamento temporaneo d’impresa.
L’atto impugnato dinanzi al TAR è, per l’appunto, la decisione della Provincia di Fermo.
Il giudice amministrativo italiano, a sua volta, ha ritenuto opportuno proporre alla Corte di Giustizia dell’Ue una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’art. 47, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.
In particolare, il giudice del rinvio chiede se gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18 debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale che vieta agli operatori economici partecipanti ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di fare valere, per una medesima categoria di qualificazione, le capacità di più imprese.
La decisione della Corte
La Corte di Giustizia dell’Ue, con sentenza 10.10.2013 n. C-94/12, ha ribadito che alla luce del combinato disposto degli articoli 47, par. 2, 48, par. 3 e 44, par. 2 della direttiva 2004/18 sugli appalti pubblici, una normativa nazionale non può vietare agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese.
L’articolo 47, al paragrafo 1, lettera c), della direttiva sugli appalti pubblici prevede che l’amministrazione aggiudicatrice possa chiedere ai candidati o agli offerenti di provare la loro capacità economica e finanziaria mediante una dichiarazione concernente il fatturato globale nonché il fatturato del settore di attività oggetto dell’appalto, così come la prova delle loro capacità tecniche attraverso la presentazione dell’elenco dei lavori eseguiti negli ultimi cinque anni (art. 48, direttiva 2004/18).
Ciò posto –come rilevato anche dall’Avvocato generale al paragrafo 18 delle sue conclusioni– tali disposizioni non vietano, in via di principio, ai candidati o agli offerenti di fare riferimento alle capacità di più soggetti terzi per comprovare che soddisfano un livello minimo di capacità richiesta da un’amministrazione aggiudicatrice.
Tra l’altro, la Corte richiamando la giurisprudenza, afferma che un operatore economico può avvalersi, per eseguire un appalto, di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi.
Pertanto, deve considerarsi ammesso il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla stessa si dimostri che il candidato o l’offerente che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto.
In definitiva, la Corte, con la sentenza in commento, ha dichiarato che la normativa europea in materia di appalti (in particolare, gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE, letti in combinato disposto con l’art. 44, paragrafo 2) non ammette che una disposizione di uno Stato Membro –nella specie, l’Italia con l’art. 49, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei Contratti pubblici)– vieti, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori, di avvalersi delle capacità di più imprese, per una stessa categoria di qualificazione.
I possibili impatti pratico-operativi
Ancora una volta, dunque, la Corte di Giustizia ha bacchettato l’Italia, stavolta in materia di appalti pubblici.
A livello comunitario, la direttiva 2004/18/CE, che ha provveduto ad unificare tutte le norme comunitarie in materia di appalti pubblici (a parte i c.d. “settore speciali”, cioè quelli relativi agli enti erogatori di acqua e di energia e agli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, per i quali è stata contestualmente emanata la direttiva 2004/17/CE), ha come scopo l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, al fine di avvantaggiare non soltanto gli operatori economici, ma anche le amministrazioni aggiudicatrici.
Come rilevato dall’avvocato generale, la direttiva sugli appalti tende anche a facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
Pertanto, una disposizione nazionale –come quella italiana– non può vietare agli operatori economici partecipanti ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di fare valere le capacità di più imprese.
Gli eurogiudici hanno dimostrato di non gradire l’interpretazione restrittiva che il nostro legislatore –con la norma del Codice dei contratti– ha fornito sugli RTI e sull’avvalimento nelle attestazioni SOA, ritenendola perciò contraria al diritto dell’Unione.
Nella normativa europea, piuttosto, si rinviene chiaramente, un atteggiamento di “favore” volto a “favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici”, che ben possono, pertanto, mettersi insieme (in una RTI) per poter soddisfare i requisiti minimi di partecipazione contemplati dalle procedure di gara (CGUE, V Sez., sentenza 10.10.2013 n. C-94/12 - commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligazione di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ha per oggetto una prestazione pecuniaria, da eseguire al domicilio del creditore, senza che su quest’ultimo gravi alcun onere di preventiva sollecitazione o avvertenza.
In assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame.
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L'applicazione della sanzione pecuniaria non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento, trattandosi dell’applicazione ex lege di una sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo dovuto per il rilascio della concessione edilizia.

L’appello è infondato e va rigettato.
Con l’appello in esame la società ricorrente ha chiesto la riforma della sentenza del Tar Abruzzo che ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento con cui il comune di L’Aquila ha applicato nei suoi confronti la sanzione prevista dall'art. 3 della L. n. 47/1985, per il ritardato pagamento degli oneri relativi al rilascio di una concessione edilizia.
I dedotti motivi d’appello vanno respinti, alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della sezione.
Con decisioni C.S. n. 1250/2005, n. 6345/2005, n. 4025/2007 e n. 5395/2011 è stato, infatti, precisato che:
- l’obbligazione di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ha per oggetto una prestazione pecuniaria, da eseguire al domicilio del creditore, senza che su quest’ultimo gravi alcun onere di preventiva sollecitazione o avvertenza;
- in assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame.
L'applicazione della sanzione pecuniaria poi non doveva essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento, trattandosi dell’applicazione ex lege di una sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo dovuto per il rilascio della concessione edilizia.
Per il principio tempus regit actum, va disattesa la istanza dell’appellante in ordine all’applicazione dell’art. 27, comma 17, della legge 448/2001 che prevede una riduzione della sanzione irrogata dal Comune ai sensi dell’art. 3 della legge 47/1985.
Per quanto considerato, l'appello deve essere respinto, perché infondato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.10.2013 n. 4966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve ritenersi ormai superato l’orientamento secondo il quale la convalida dell’atto amministrativo viziato non possa legittimamente intervenire dopo l’impugnazione per via giurisdizionale dell’atto medesimo e comunque non per sanare vizi di natura sostanziale.
E’ stato infatti osservato, sotto il primo aspetto, che la sanatoria di un atto annullabile mediante convalida non contrasta con i principi di effettività della tutela giurisdizionale “nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento dei vizi portati all’esame del giudice amministrativo e nel contempo emendando l’azione amministrativa, senza attendere le more del giudizio e la successiva riedizione conformata del potere amministrativo all’esito di un giudicato amministrativo, sempreché ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l’eventuale successivo esercizio della funzione”.
Inoltre, per quanto attiene alla tipologia dei vizi emendabili, è stato sottolineato che “il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato sulla disposizione dell’art. 6 l. 18.03.1968 n. 249, può ritenersi superato dall’art. 21-nonies, l. 07.08.990 n. 241, che non pone limitazioni in materia riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile”.

Proprio a questo proposito il Collegio rileva subito che deve ritenersi ormai superato l’orientamento secondo il quale la convalida dell’atto amministrativo viziato non possa legittimamente intervenire dopo l’impugnazione per via giurisdizionale dell’atto medesimo e comunque non per sanare vizi di natura sostanziale.
E’ stato infatti osservato, sotto il primo aspetto, che la sanatoria di un atto annullabile mediante convalida non contrasta con i principi di effettività della tutela giurisdizionale “nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento dei vizi portati all’esame del giudice amministrativo e nel contempo emendando l’azione amministrativa, senza attendere le more del giudizio e la successiva riedizione conformata del potere amministrativo all’esito di un giudicato amministrativo, sempreché ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l’eventuale successivo esercizio della funzione” (TAR Campania-Napoli, sez. I, n. 3350 dell’11.07.2012); inoltre, per quanto attiene alla tipologia dei vizi emendabili, è stato sottolineato che “il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato sulla disposizione dell’art. 6 l. 18.03.1968 n. 249, può ritenersi superato dall’art. 21-nonies, l. 07.08.990 n. 241, che non pone limitazioni in materia riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile” (TAR Lazio-Latina, sez. I, n. 415 del 30.05.2012) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Quanto al fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto che la rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata di efficacia ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida dichiarazione di pubblica utilità.
Quanto al fatto che a seguito della convalida il procedimento non sia stato rinnovato o quantomeno retrocesso alla fase delle osservazioni da parte dei privati, va detto che la rinnovazione integrale di un procedimento espropriativo si impone quando si renda necessaria la rinnovazione di una dichiarazione di pubblica utilità scaduta o comunque privata di efficacia (C.d.S. Sez. IV n. 39 del 13.01.2010) ovvero quando sopravvengano modifiche tali da stravolgere la fisionomia e la natura dell’opera stessa, anche perché in tal caso l’opera non potrebbe più dirsi assistita da una valida dichiarazione di pubblica utilità (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima l’ordinanza di demolizione di una canna fumaria esterna (in parete da terra) laddove  “restringe il passaggio pedonale tra le proprietà riducendolo da 2,00 mt. a 1,55 mt.”.
Peraltro quale sia la misura esatta poco importa al fine di determinare la legittimità -o meno- della nuova canna fumaria, essendo rilevante solo il fatto che la distanza preesistente è stata ridotta per effetto della realizzazione della canna fumaria esterna.
Tale riduzione della distanza preesistente deve ritenersi illegittima per i motivi indicati nella ordinanza di demolizione, e cioè per la ragione che l’art. 9 del D.M. 1444/1968 prescrive, nelle zone A, che le distanze tra gli edifici “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico, ambientale”.
E’ noto, infatti, che la giurisprudenza è consolidata nel qualificare le distanze tra fabbricati indicate dal D.M. 1444/1968 come inderogabili, in quanto poste a presidio di interessi aventi carattere pubblicistico, e nell’affermare che le Amministrazioni sono tenute a disapplicare le eventuali norme urbanistiche ed edilizie che prevedano distanze inferiori, le quali debbono intendersi automaticamente sostituite nei rapporti tra privati ed Amministrazioni.
Alcuna rilevanza possono quindi esplicare eventuali accordi tra privati che consentano la deroga di tali distanze.
E’ poi da escludersi che la canna fumaria in argomento, che si riferisce avere dimensioni di circa 45 cm x 65 cm e si eleva da terra sino al tetto, possa qualificarsi quale mero sporto, per tale dovendosi intendere solo le sporgenze quali mensole, lesene, canalizzazioni di gronde e loro sostegni o altre sporgenze aventi funzione decorativa, purché di modeste dimensioni. Tali elementi debbono invece computarsi ai fini del rispetto delle distanze legali quando di fatto siano destinati ad ampliare il fronte abitativo: nel caso di specie è evidente che la realizzazione della canna fumaria esterna ha evitato di perdere superficie e volumetria utile all’interno dell’edificio, ed in tal senso ha contribuito ad espandere la zona di godimento.
Quanto alla canna fumaria, realizzata verso la proprietà A. esternamente al muro di fabbrica, emerge evidente dai documenti acquisiti agli atti del giudizio sia la illegittimità per violazione del D.M. 1444/1968 sia la abusività perché eseguita in difformità dal titolo edilizio.
La parete perimetrale interessata dalla canna fumaria di che trattasi è quella prospiciente il balcone di proprietà A., cioè la facciata che nei disegni prodotti da parte ricorrente è indicata come prospetto nord-ovest, riconoscibile dalla porticina collocata nell’angolo in basso a sinistra trasformata, a seguito dei lavori, in finestra munita di inferiate. I disegni depositati da parte ricorrente in data 12.12.2008 evidenziano che prima dei lavori (“stato attuale”) sulla parete non esisteva nulla, se non la porticina in basso, e neppure veniva evidenziato alcun comignolo. Il disegno del prospetto nord-ovest ad opere ultimate riproduce, invece, un vistoso comignolo. L’attento esame dei disegni relativi al prospetto sud, che ritrae la parete nord-ovest in sezione, conferma che un tempo il comignolo, ben evidente invece nello stato di progetto e nel disegno delle opere ultimate, non esisteva. Tali elaborati non consentono, tuttavia, di apprezzare la fuoriuscita della canna fumaria dal muro perimetrale, essendo state riportate solo delle quote altimetriche. La canna fumaria esterna al muro perimetrale costituisce quindi un’opera nuova che non si può ritenere assentita con il permesso di costruire 68/08, da cui il suo essere abusiva. Peraltro, ove pure risultasse che essa era compresa tra le opere assentite, non si potrebbe non considerare che la ricorrente non ha dedotto tale circostanza quale motivo di illegittimità, in parte qua, della ordinanza di demolizione.
Ciò chiarito va detto che la nota del Responsabile del Servizio del 23.02.2009 non appare affatto inattendibile laddove riferisce che la distanza tra la canna fumaria ed il fabbricato A. è di circa 150 cm.: in particolare elementi in segno contrario non possono rinvenirsi nella nota del 12.08.2008 della signora A., ove la controinteressata ha scritto che la canna fumaria “restringe il passaggio pedonale tra le proprietà riducendolo da 2,00 mt. a 1,55 mt., ed è stata realizzata prima del rilascio della concessione edilizia. Il camino sbocca all’altezza del balcone della mia proprietà ad una distanza di circa 2 metri….”.
Nella missiva in esame, dunque, si trova un diretto riscontro alla misura indicata dal Responsabile del Servizio, e si riferisce la distanza di 2 metri solo all’altezza del balcone: tale circostanza si spiega chiaramente con il fatto che il primo piano del fabbricato A. è notevolmente arretrato rispetto al piano terreno, ciò che si apprezza esaminando il disegno acquisito dal Comune che reca la dicitura “realizzazione di camino a distanza non regolamentare”, disegno che riproduce il balcone, visibile anche nelle fotografie recanti la dicitura “aumento eccessivo dello sporto del tetto”. La lettera del 12.08.2008 proveniente dalla signora A. è dunque coerente laddove riferisce distanze diverse dalla canna fumaria a livello del passaggio ed a livello del balcone, e rende attendibili le misure riferite dal responsabile del Servizio.
Peraltro quale sia la misura esatta poco importa al fine di determinare la legittimità della nuova canna fumaria, essendo rilevante solo il fatto che la distanza preesistente è stata ridotta per effetto della realizzazione della canna fumaria esterna. Tale riduzione della distanza preesistente deve ritenersi illegittima per i motivi indicati nella ordinanza di demolizione, e cioè per la ragione che l’art. 9 del D.M. 1444/1968 prescrive, nelle zone A, che le distanze tra gli edifici “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico, ambientale”.
E’ noto, infatti, che la giurisprudenza è consolidata nel qualificare le distanze tra fabbricati indicate dal D.M. 1444/1968 come inderogabili, in quanto poste a presidio di interessi aventi carattere pubblicistico, e nell’affermare che le Amministrazioni sono tenute a disapplicare le eventuali norme urbanistiche ed edilizie che prevedano distanze inferiori, le quali debbono intendersi automaticamente sostituite nei rapporti tra privati ed Amministrazioni (C.d.S. sez. IV nn. 6909/2005 e 7731/2010).
Alcuna rilevanza possono quindi esplicare eventuali accordi tra privati che consentano la deroga di tali distanze.
E’ poi da escludersi che la canna fumaria in argomento, che si riferisce avere dimensioni di circa 45 cm x 65 cm e si eleva da terra sino al tetto del fabbricato C., possa qualificarsi quale mero sporto, per tale dovendosi intendere solo le sporgenze quali mensole, lesene, canalizzazioni di gronde e loro sostegni o altre sporgenze aventi funzione decorativa, purché di modeste dimensioni. Tali elementi debbono invece computarsi ai fini del rispetto delle distanze legali quando di fatto siano destinati ad ampliare il fronte abitativo (C.d.S. sez. IV n. 6909/2005 cit.): nel caso di specie è evidente che la realizzazione della canna fumaria esterna ha evitato di perdere superficie e volumetria utile all’interno dell’edificio, ed in tal senso ha contribuito ad espandere la zona di godimento.
L’ordinanza di demolizione è dunque esente da vizi laddove indica le ragioni della illegittimità della canna fumaria esterna di cui è stata ordinata la rimozione (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 1052 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia prima inesistente non può certo rientrare nel concetto di opera di manutenzione ordinaria, che può compendiarsi solo in interventi che abbiano ad oggetto le mere “finiture” o impianti tecnologici di edifici già esistenti.
Le opere di manutenzione straordinaria possono avere ad oggetto non solo finiture e non solo impianti tecnologici, potendo avere ad oggetto anche parti strutturali di edifici o potendo implicare la realizzazione ex novo di nuovi servizi igienici o di locali tecnici: tuttavia anche in questo caso è evidente che si deve trattare di opere che incidono direttamente su edifici o parti di edificio già esistenti.
La realizzazione di una nuova tettoia non può quindi mai essere ricondotta al concetto di manutenzione ordinaria o straordinaria, compendiandosi nella realizzazione di nuove costruzioni, quantunque di dimensioni modestissime.

La realizzazione di una tettoia prima inesistente non può certo rientrare nel concetto di opera di manutenzione ordinaria, che può compendiarsi solo in interventi che abbiano ad oggetto le mere “finiture” o impianti tecnologici di edifici già esistenti.
Le opere di manutenzione straordinaria possono avere ad oggetto non solo finiture e non solo impianti tecnologici, potendo avere ad oggetto anche parti strutturali di edifici o potendo implicare la realizzazione ex novo di nuovi servizi igienici o di locali tecnici: tuttavia anche in questo caso è evidente che si deve trattare di opere che incidono direttamente su edifici o parti di edificio già esistenti.
La realizzazione di una nuova tettoia non può quindi mai essere ricondotta al concetto di manutenzione ordinaria o straordinaria, compendiandosi nella realizzazione di nuove costruzioni, quantunque di dimensioni modestissime, e certamente tale assunto vale nel caso di specie, laddove la ricorrente ha chiesto di poter realizzare due tettoie di rilevanti dimensioni, saldamente ancorate al suolo, destinate al ricovero di mezzi meccanici, strutturalmente autonome rispetto ai capannoni già esistenti (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 1050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAI camper allacciati alla fognatura portano lottizzazione abusiva
L'EVOLUZIONE/ In base alla legge 98/2013 roulotte e case mobili possono essere ancorate al suolo purché destinate al turismo, anche stanziale.

Un campeggio può esser considerato destinato ad esigenze temporanee di turisti, ma se si trasforma in un villaggio diventa una lottizzazione abusiva.
Questo è l'orientamento della Corte di Cassazione penale, sentenza 08.10.2013 n. 41479, resa nei confronti di un intervento in provincia di Latina.
La materia è in divenire, perché la legge 09.08.2013 n. 98 accorda un trattamento di favore a roulotte, camper, case mobili e imbarcazioni che siano utilizzate come abitazioni.
La norma del 2013 consente il temporaneo ancoraggio al suolo, purché le strutture siano collocate in spazi ricettivi all'aperto, siano conformi alle norme regionali di settore (turistico) e siano destinate alla sosta e al soggiorno dei turisti. In sintesi, il legislatore del 2013 consente di fare a meno delle ruote, ammettendo l'ancoraggio al suolo, e appare permissivo verso tutte quelle iniziative che hanno una durata coerente al turismo, anche di tipo molto stanziale.
La sentenza della Cassazione distingue tuttavia tra gli insediamenti residenziali e quelli turistici, sulla base di dimensioni quantitative e della tipologia delle strutture. Nel caso specifico si discuteva di oltre 300 piazzole occupate da strutture fisse con allacci e scarichi, cucinini, recinzioni, intelaiature in ferro: anche quando c'erano roulotte, i timoni erano tagliati e le ruote mancanti o sgonfie.
Sulla base di tali elementi, e di una nozione di turista come colui che viaggia e soggiorna in località diverse dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato, per piacere o affari, i giudici penali hanno bollato l'intervento come abusivo, superando la normativa sul turismo (Dlgs 79/2011), che ammette nei campeggi anche mobilhome, maxicaravan, autocaravan e anche unità abitative fisse, mentre la legge regionale del Lazio (59/1985) prevede che vi possano essere abbonamenti alle strutture per periodo prolungati, non superiori ad un anno, richiedibili entro la fine dell'anno precedente.
La differenza tra turismo e residenze stabili, sottolineano i giudici, non è tanto nella tipologia, bensì nell'urbanizzazione che è indotta da insediamenti non precari. Di sicuro la precarietà va esclusa se, come e' accaduto a Latina, le roulotte avevano inferriate alle finestre, termosifoni ed erano inglobate in strutture in legno (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

CONDOMINIO: In condominio nulla osta al bar. Contro il rumore c'è la chanche di ottenere il risarcimento dei danni. Cassazione. Il regolamento non può imporre limiti nei locali privati senza il consenso scritto del proprietario.
LA CONDIZIONE/ La tutela penale è possibile se il disturbo coinvolge un numero intedeterminato di persone oltre al condomino del piano di sopra
Non si può vietare a un condomino di adibire i locali di sua proprietà a bar, cornetteria e circolo ricreativo. Ciò vale anche quando il regolamento di condominio e una delibera condominiale vietano ai condomini di installare nei locali dell'edificio attività idonee ad arrecare disturbo alla quiete pubblica e incompatibili con il decoro e la tranquillità dell'edificio stesso.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sentenza 08.10.2013 n. 22892, decidendo una lite che vedeva contrapposti due condomini: il primo si lamentava del rumore e delle immissioni intollerabili fino a tarda notte provenienti dall'attività di intrattenimento e vendita di alcolici svolta in un locale di proprietà di altro condomino, nello stesso fabbricato.
Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte parte dal presupposto che i limiti all'utilizzazione delle proprietà esclusive previste da una delibera condominiale possono comportare un restringimento dei poteri di godimento dell'immobile da parte del proprietario, ma solo se il consenso a tali limitazioni è espresso in forma scritta dal soggetto delegato dal condomino (articolo 1350 del Codice civile).
La delibera assunta da tutti i condomini, anche delegati, è valida, ma non può imporre limitazioni alla proprietà se il delegato non ha una specifica delega ad accettare tale limite.
Se invece alla delibera fosse intervenuto il condomino in proprio, la limitazione sarebbe operante.
La Corte di cassazione, tuttavia, non nega tutela al condomino che deve sopportare schiamazzi e rumori fino a tarda notte in quanto è possibile chiedere il risarcimento dei danni, come ad esempio il deprezzamento del valore del proprio immobile.
Possono inoltre essere risarciti danni morali, biologici (stress, insonnia, disagi) provocati dalle immissioni superiori alla soglia di normale tollerabilità derivanti da bar e locali aperti fino a tarda notte.
Oltre alla tutela risarcitoria, per chi risiede ai piani superiori di esercizi aperti al pubblico o di circoli ricreativi, vi è anche una tutela penale (articolo 659 del Codice penale): ma quest'ultima, sottolinea la Corte di cassazione 28874/2013, opera solo se i rumori disturbano un numero indeterminato di persone e non il solo condomino del piano di sopra (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'ordinanza di demolizione circa la costruzione di una scala esterna in c.a. delle dimensioni di ml 1,20 di larghezza e ml 4,20 di lunghezza, che insiste su area pubblica di proprietà comunale, realizzata in forza di un titolo edilizio formatosi per silenzio-assenso.
Se l'opera realizzata non poteva comunque essere assentita, nel caso di specie l’ordine di demolizione della scala avrebbe dovuto essere preceduto da un procedimento in autotutela (con le correlate garanzie partecipative per il privato interessato) diretto all’annullamento d’ufficio del titolo edilizio tacitamente formatosi.
Al contrario, l’Amministrazione comunale, senza fare previo, necessario ricorso al potere di annullamento d’ufficio, si è avvalsa direttamente dei poteri repressivi e sanzionatori previsti dall’art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Ne discende l’illegittimità dell’ordine di demolizione impugnato in primo grado per difetto di un atto presupposto.

Viene in decisione l’appello con il quale G.G. chiede la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata che, in primo grado, in accoglimento del ricorso proposto da V.M.G., ha annullato l’ordinanza 23.04.2010, n. 2408, con la quale il Comune di Baragiano (PZ) ha ordinato la demolizione di una “scala esterna in c.a. delle dimensioni di ml 1,20 di larghezza e ml 4,20 di lunghezza, che insiste su area pubblica di proprietà comunale, di accesso alla unità abitativa in via Immacolata Concezione di proprietà dei coniugi signori G.A. e V.M.G.”.
...
Risulta chiaramente dagli atti di causa (cfr. in particolare la nota dell’Ufficio di Polizia Municipale del Comune di Baragiano prot. n. 9 P.M:/08 del 17.01.2008) che la scala in contestazione è stata realizzata sulla base di uno straordinario silenzio-assenso comunale formatosi ai sensi dell’art. 14, ottavo comma, della legge 14.05.1981, n. 219 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19.03.1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti).
Non si tratta, quindi, di un’opera abusiva, ma di un intervento edilizio assentito così legittimato.
È evidente, allora, che l’ordine di demolizione della scala avrebbe dovuto essere preceduto da un procedimento in autotutela (con le correlate garanzie partecipative per il privato interessato) diretto all’annullamento d’ufficio del titolo edilizio tacitamente formatosi.
Al contrario, l’Amministrazione comunale, senza fare previo, necessario ricorso al potere di annullamento d’ufficio, si è avvalsa direttamente dei poteri repressivi e sanzionatori previsti dall’art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380. Ne discende l’illegittimità dell’ordine di demolizione impugnato in primo grado per difetto di un atto presupposto.
L’appello, pertanto, deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.10.2013 n. 4946 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOPartendo dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), anche in materia di azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente.
Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche in campo processuale.

Deve richiamarsi in questa sede l’indirizzo giurisprudenziale più volte espresso dalla Corte di Cassazione e recentemente avallato dalle Sezioni Unite (cfr. Cass., SS.UU., 06.08.2010, n, 18331) che, partendo dalla premessa secondo cui l’amministratore di condominio non ha autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le deliberazioni dell’assemblea ovvero a compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (art. 1130 Cod. civ.), giunge alla conclusione che, anche in materia di azioni processuali, il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio. Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso dell'assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
Non vi è dubbio, quindi, che, in base a questo orientamento, che la Sezione condivide, l’amministratore può proporre ricorso giurisdizionale nell’interesse del condominio che rappresenta solo in presenza di una specifica autorizzazione assembleare, la sola a poter esprimere il relativo potere decisionale, anche in campo processuale.
Nel caso di specie, tale autorizzazione deve ritenersi mancante (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.10.2013 n. 4944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIIl diritto di accesso agli atti apre anche ai subappaltatori. Tar Lazio. A garanzia dei pagamenti.
L'INDICAZIONE/ Per i giudici amministrativi l'opportunità si estende a catena per poter «valutare» la situazione dei fornitori.

Non è necessario avere un rapporto diretto con un ente di natura pubblicistica per poter esercitare il diritto di accesso agli atti necessario a passare sotto esame la capacità dell'ente di effettuare i pagamenti nei confronti dei fornitori. Questo diritto si estende a catena, e riguarda anche chi ha stipulato un contratto con una società privata che, a sua volta, si è vista affidare un appalto dall'ente pubblico in questione: in particolare, se il privato appaltatore non onora i contratti con la società "a valle", quest'ultima può bussare direttamente alle porte dell'ente pubblico, e mettere gli occhi sul contratto di appalto, sugli stati di avanzamento lavori, sui certificati e sui mandati di pagamento emessi in favore dell'appaltatore.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III, nella sentenza 07.10.2013 n. 8639, che sulla base di questo ragionamento ha dato ragione a una Srl impegnata senza successo nella richiesta degli atti a un'università.
La Srl, infatti, aveva firmato un contratto con un'altra società privata, titolare di un appalto bandito dall'ateneo per una serie di interventi sulle strutture. Il lavoro era stato eseguito, ma i pagamenti previsti dal contratto (500mila euro) non erano mai arrivati.
Il Codice degli appalti (Dlgs 163/2006, articolo 118) tutela il subappaltatore, imponendo fra l'altro all'ente pubblico di bloccare i versamenti se l'affidatario non certifica puntualmente i pagamenti effettuati nei confronti dei privati che lavorano per lui; per esercitare questo diritto, dal momento che l'affidatario era finito nella procedura di concordato preventivo, la Srl ha chiesto all'ateneo di accedere ai documenti, ma non ha ricevuto risposta (in questi casi, in base all'articolo 25, comma 4, della legge 241/1990, il silenzio equivale a un rifiuto).
Da qui la lite, a cui il Tar Lazio ha offerto la prima soluzione.
Per i giudici amministrativi, la condizione di subappaltatore determina un «interesse concreto e attuale» all'accesso agli atti, perché con la documentazione in mano può chiedere il blocco dei pagamenti all'ente pubblico e decidere come agire in via giurisdizionale. Contratti e mandati di pagamento, specifica il Tar, hanno natura privatistica, ma rientrano nel novero dei «documenti amministrativi» se adottati da un ente pubblico (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIP.a. aperta ai subappaltatori. Crediti verso appaltatori? Stato dei lavori senza segreti. Sancito dal Tar del Lazio il diritto di accesso a tutela degli interessi delle imprese.
Il subappaltatore che vanta un credito verso l'impresa subappaltante può esercitare il diritto di accesso nei confronti dell'ente pubblico che ha commissionato i lavori. Quest'ultimo, quindi, è tenuto a rendere disponibile tutta la documentazione relativa al contratto di appalto e alla sua esecuzione.

L'importante chiarimento arriva dal TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 07.10.2013 n. 8639, che ha ordinato a una persona giuridica di diritto pubblico (rientrante nella categoria degli enti pubblici non economici) di esibire al subappaltatore, oltre al contratto di appalto, anche tutti gli stati avanzamento lavori (Sal), i certificati e i mandati di pagamento da essa emessi in favore dell'impresa appaltatrice.
Secondo i giudici laziali, la conoscenza di tale documentazione, dando riscontro sullo stato dei pagamenti effettuati dall'ente pubblico, consente al creditore di decidere sulle iniziative più adeguate al recupero delle somme che formano oggetto del suo credito.
La rilevanza pronuncia, peraltro, va al di là del caso specifico, in quanto essa afferma che i predetti documenti, sebbene abbiano natura privatistica, rientrano comunque nella nozione di «documento amministrativo» ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. d), della l 241/1990, in quanto sono stati adottati da un ente pubblico che persegue le proprie finalità pubblicistiche anche attraverso strumenti di diritto privato. Essi, pertanto, sono soggetti all'accesso e, quindi, ostensibili al privato (cfr, Consiglio di Stato IV sezione, sentenza 04.02.1997, n. 82).
Non solo, ma la sussistenza del diritto di accesso non è subordinato alla sussistenza di un subappalto ai sensi dell'art. 118 del Codice dei contratti: ciò che conta, infatti, è che vi sia un rapporto, seppure indiretto, tra il soggetto pubblico e una delle due imprese e che l'altra possa vantare un interesse concreto e attuale alla conoscenza del relativo fascicolo. In tal caso, l'ente pubblico non può negare l'accesso (articolo ItaliaOggi del 09.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIRicostruzione L'Aquila, operazione trasparenza. Fuori le carte sugli appalti, pubblici i consorzi obbligatori.
Operazione-trasparenza nella ricostruzione post sisma all'Aquila. Hanno natura pubblica i consorzi obbligatori costituiti con l'ordinanza della presidenza del consiglio dei ministri per gestire gli interventi edilizi necessari dopo il terremoto che devastò l'Abruzzo il 06.04.2009. Dunque? L'azienda risultata non affidataria dei lavori ha ben diritto ad accedere al verbale dell'assemblea in cui il consorzio ha valutato le offerte proposte dagli operatori economici invitati a partecipare alla procedura per le opere di rifacimento dell'aggregato edilizio di competenza.
Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 07.10.2013 n. 4923.
Riscontri oggettivi
Accolto il ricorso della società cooperativa per azioni difesa dagli avvocati Angelo Maleddu e Sergio Fiorenzano. È vero: il consorzio obbligatorio costituito in base all'Opcm 3820/09 può dirsi senz'altro un organismo di natura privata. Ma non c'è dubbio che esso svolga nel contempo un'attività d'interesse pubblico. La ricostruzione dell'Aquila, osservano infatti i giudici di Palazzo Spada, non è una circostanza che sta a cuore soltanto ai singoli proprietari immobiliari rimasti colpiti dal sisma di quattro anni fa: è un'intera città che rinasce e la circostanza mostra profili rilevanti sul piano strutturale, igienico-sanitario, architettonico, estetico e monumentale.
Ecco perché, dunque, deve essere rovesciato il verdetto del Tar Abruzzo: dal momento che il consorzio sul piano oggettivo svolge un'attività di pubblico interesse, esso assume la veste di pubblica amministrazione e, dunque, risulta soggetto all'art. 22 della legge sulla trasparenza amministrativa (la 241/1990), con il relativo diritto del privato ad accedere agli atti. Sono infatti tenuti alla trasparenza «i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario».
Risultato: entro venti giorni dalla notifica della sentenza il consorzio deve tirare fuori il verbale dell'assemblea che valutò la congruità delle offerte proposte per la realizzazione dei lavori in palio. Compensate le spese dei due gradi di giudizio, probabilmente per la novità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONelle partecipate comunali assunzione solo per concorso. Lavoro. Il Tribunale di Salerno respinge la richiesta di alcuni interinali.
LA REGOLA/ La somministrazione illegittima non fa titolo per il riconoscimento del rapporto subordinato nella società «in house».
L'assunzione in una società in house del Comune può avvenire solo con pubblico concorso. Deve respingersi, quindi, l'istanza proposta da un gruppo di lavoratori interinali che, evidenziando l'irregolarità del rapporto fra l'agenzia di lavoro temporaneo e la partecipata pubblica, avevano richiesto di vedersi riconoscere un rapporto di lavoro subordinato in capo a quest'ultima.

A sancire il principio di diritto è stato il TRIBUNALE del lavoro di Salerno (sentenza 07.10.2013 n. 3847), con cui il giudice unico ha rigettato il ricorso presentato dai lavoratori.
Si tratta di un intervento apprezzabile, stante il clima di incertezza che spesso regna fra enti locali ed operatori dei servizi pubblici circa la corretta applicazione delle disposizioni in materia di personale delle società pubbliche.
Il Tribunale ha esaminato le richieste di alcuni interinali in forza alla partecipata del Comune di Salerno (a totale partecipazione pubblica), costituita per la gestione del servizio d'igiene urbana. Le istanze dei lavoratori traevano spunto dalla presunta illegittimità del termine apposto ai singoli contratti (più volte prorogati), nonché dall'irregolarità della somministrazione intercorsa fra le singole agenzie e i ricorrenti. La partecipata si è opposta all'assunzione, lamentando che la stessa sarebbe avvenuta in spregio alle disposizioni di cui alle leggi 133/08 e 102/09, relativamente alle limitazioni imposte agli enti locali in tema di assunzioni. Il Tribunale, dunque, si è dovuto pronunciare sull'applicabilità dei limiti non solo agli enti locali ma, di riflesso, anche a tutte le società –benché di diritto privato– interamente partecipate dai medesimi enti.
Ebbene, il Giudice ha evidenziato che, in base all'ordinamento vigente, «… le società interamente partecipate o controllate da un ente pubblico locale e che sono titolari di un affidamento diretto (senza gara) di servizi pubblici locali di rilevanza economica: a) devono rispettare i divieti e le limitazioni alle assunzioni di personale eventualmente previste dalla normativa vigente in relazione all'ente controllante; b)devono adeguare le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per l'ente controllante».
A ciò si aggiunge, continua la sentenza, l'obbligo di adottare, da parte della partecipata, un provvedimento di carattere organizzativo che definisca i criteri e le modalità per il reclutamento del personale, nel rispetto dei principi fissati dall'articolo 35, comma 3 del Dlgs 165/2001. Proprio in ossequio a tale disposizione, il Tribunale ha concluso che anche le società partecipate –come l'ente locale che le controlla– sono tenute a garantire gli stessi criteri di imparzialità, economicità e trasparenza delle procedure di selezione del personale. Pertanto, l'assunzione in capo alla partecipata non potrebbe aver luogo se non attraverso un pubblico concorso (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi personali top secret. Il dirigente non può indagare i motivi dell'assenza. Una nuova sentenza rafforza l'orientamento giurisprudenziale e indica i paletti.
La fruizione del diritto ai permessi per motivi personali e familiari è insindacabile. E dunque, i dirigenti scolastici, una volta ricevuta la domanda da parte del dipendente interessato, non possono fare altro che prenderne atto e disporre le relative sostituzioni.

É quanto si evince da una sentenza 04.10.2013 n. 544/2013 del giudice del lavoro di Potenza.
La fruizione dei permessi, infatti, è «condizionata dalla sussistenza di due soli presupposti: la richiesta preventiva e la autocertificazione della motivazione, personale o familiare.». E quindi, recita la sentenza, «il diritto ai tre giorni di permesso retribuito non è soggetto ad alcun potere -discrezionale  di diniego» da parte del dirigente scolastico al quale viene indirizzata l'istanza.
La pronuncia si inquadra in un vero e proprio orientamento giurisprudenziale, che vede l'amministrazione scolastica sistematicamente soccombente. E aggiunge un tassello importante. Il giudice del lavoro di Potenza, infatti, ha chiarito che il diritto insorge anche nel caso di mero motivo personale o familiare. E che in ogni caso, la scelta del tempo e del modo di fruizione spettano in via esclusiva al dipendente che ne fa domanda. Il caso riguardava una docente di lingua straniera, che aveva chiesto un permesso a ridosso delle vacanze di Pasqua per effettuare un viaggio all'estero ed esercitarsi nell'uso delle lingue. Ritenendo che il permesso fosse un suo diritto (escludendo, dunque, la possibilità che tale diritto le venisse precluso) aveva anche acquistato il biglietto dell'aereo. Il dirigente, però, aveva opposto un netto rifiuto, frapponendo ostacoli di carattere organizzativo e valutazioni di merito circa l'opportunità di differire la data del viaggio.
La docente, però, non si era data per vinta e, pur rinunciando al viaggio, aveva presentato ricorso. E il giudice del lavoro le ha dato ragione su tutta la linea, censurando le argomentazioni del dirigente scolastico (dichiarandole inammissibili) e condannando l'ufficio scolastico, in solido con il dirigente, a pagare 1800 euro di spese legali, più Iva e cassa degli avvocati. Il giudice monocratico ha condannato l'amministrazione e il dirigente scolastico anche a risarcire alla docente il prezzo del biglietto, pari a 46.08 euro. Il tutto aggiungendo che: «Sulla predetta somma dovranno essere calcolati gli interessi legali, dal dovuto al saldo, trattandosi di crediti risarcitori, legati alla violazione di diritti derivanti da un rapporto di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione.».
L'istituto dei permessi per motivi personali o familiari ha subito nel corso degli anni diverse trasformazioni. E solo nell'ultima tornata contrattuale è stato qualificato espressamente come diritto. Quando questo genere di assenze tipiche fecero il loro ingresso nel contratto di lavoro, nel 1995, la clausola negoziale di riferimento prevedeva che la fruizione fosse subordinata ad una previa concessione del dirigente scolastico «per particolari motivi personali o familiari debitamente documentati anche al rientro». Nella tornata successiva, nel 1999, le parti cancellarono le locuzioni «particolari» e «debitamente». Ma bisognerà attendere fino al 2002 per ottenere la cancellazione della previa concessione.
Nella nuova formulazione i permessi venivano attribuiti e non più concessi. Infine nel 2003 i permessi sono stati qualificati come diritti. E ciò ha sgombrato definitivamente il campo dagli equivoci. Sebbene anche oggi vi siano dirigenti scolastici convinti che i permessi personali siano ancora soggetti a concessione. Tant'è che negli ultimi due anni si stanno accumulando le sentenze di condanna dell'amministrazione scolastica. La sentenza apripista, dopo l'ultima tornata negoziale, è del Tribunale di Monza: la 288 del 12.05.2011. Dopo di che è intervenuto il Tribunale di Lagonegro (04.04.2012, n. 309). Successivamente il Tribunale di Campobasso (n. 749 del 27.11.2012). E infine Potenza (articolo ItaliaOggi del 15.10.2013).

CONDOMINIOLe deliberazioni del condominio non ledano i diritti individuali. La Cassazione sull'attribuzione delle spese che ricadono tra quelle comuni.
Le deliberazioni dell'assemblea condominiale, sebbene adottate a maggioranza, non possono ledere diritti individuali attribuendo ad alcuni dei condomini parti di spese circa l'impianto di riscaldamento che non ricadono, per espressa previsione del regolamento contrattuale, tra quelle comuni.

Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 03.10.2013 n. 22634.
Il caso su cui si è espressa la Suprema corte riguardava alcuni condomini che non erano comproprietari in virtù dell'esistenza di un regolamento contrattuale che, superando la c.d. presunzione di condominialità, li aveva esclusi dal condominio su quel bene. In questo contesto, pertanto, era giusta la conclusione di considerare nulla la deliberazione di approvazione della ripartizione delle spese.
Circa la presunzione di condominialità appare opportuno, in questa sede, osservare che la giurisprudenza afferma che i beni indicati nell'art. 1117 c.c., si intendono comuni per presunzione derivante sia dall'attitudine oggettiva che dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune (si veda Cass. 13.03.2009, n. 6175). E una recentissima sentenza della Cassazione (sez. II civ., 26.07.2012, n. 13262) ha sottolineato tale principio affermando che l'art. 1117 c.c. (nuova formulazione aggiornato dall'art. 1, legge 11.12.2012, n. 220, in vigore dal 17.06.2013) pone una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati, la cui elencazione non è tassativa. In parole povere, i beni indicati nell'art. 1117 c.c. si presumono comuni sino a prova contraria.
Gli Ermellini hanno, quindi sottolineato che «i condomini debitori, a fronte della contestazione delle spese di riscaldamento, hanno legittimamente esercitato la facoltà di imputazioni riconosciuta dall'art. 1193 c.c. con riferimento alle spese di gestione ordinaria, non intendendo invece estinguere, perché ritenute non dovute, quelle di riscaldamento oggetto di causa». Aggiungendo, poi, che si era dinanzi ad un caso «di delibera incidente sui diritti individuali dei condomini (...), vertendosi sulla sussistenza del diritto e non sulla mera determinazione quantitativa del riparto spese per avere il condominio addebitato a detti condomini importi relativi all'impianto di riscaldamento che la sentenza impugnata ha escluso riguardasse i locali siti ai piani sottotetto appartenenti ai resistenti, per espressa disposizione del regolamento condominiale (non contestata dall'appellante condominio), costituente titolo contrario idoneo a vincere la presunzione di comproprietà dell'impianto di riscaldamento, ex art. 1117 c.c.» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti nulli, Pa tutelata. Sul principio di conversione prevale quello dell'assunzione per concorso. Lavoro. Sentenza del Tribunale di Roma ribadisce l'intrasformabilità della somministrazione a termine.
NEL DISPOSITIVO/ Il lavoratore non può ottenere neppure l'indennità risarcitoria forfetaria Danno risarcibile solo se provato in maniera rigorosa.

La nullità del contratto di somministrazione di manodopera stipulato con la pubblica amministrazione non comporta né la conversione a tempo indeterminato del rapporto alle dipendenze dell'utilizzatore, né il diritto al godimento di un'indennità risarcitoria forfetaria. Il danno può essere riconosciuto solo se viene provato in maniera rigorosa dal lavoratore: in mancanza di tale prova, il dipendente, pur avendo ottenuto una sentenza favorevole sul tema della invalidità del rapporto, non matura alcun credito economico.
Questi concetti, coerenti con l'assetto complessivo delle regole che governano il lavoro flessibile presso la Pa, sono ricostruiti nell'interessante sentenza 01.10.2013 del TRIBUNALE di Roma, Sez. III lavoro, con la quale è stata decisa la causa promossa da alcuni ex lavoratori somministrati che avevano prestato servizio, sulla base di diversi contratti commerciali di somministrazione, alle dipendenze di un ente pubblico.
Dopo la cessazione dell'ultimo di questi contratti, i lavoratori avevano avviato un giudizio per ottenere l'accertamento dell'invalidità dei contratti, lamentando la genericità della causale, che era in effetto molto problematica (nei contratti era scritto che si ricorreva alla somministrazione «per far fronte a ragioni di carattere organizzativo relative a esigenze di lavoro aggiuntivo».) Il Tribunale ha accolto la doglianza dei lavoratori, richiamando quell'orientamento giurisprudenziale che considera l'indicazione specifica della causale come condizione di validità del contratto commerciale di somministrazione.
Una volta accertata l'invalidità del contratto, il giudice ha analizzato le conseguenze di questa situazione. A tal fine, viene richiamato l'articolo 86 del Dlgs 276/2003, nella parte in cui chiarisce che l'effetto tipico della somministrazione irregolare –la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore– non si verifica quando le prestazioni lavorative sono state rese nei confronti della pubblica amministrazione.
Questa norma, ribadita per tutti i contratti flessibili anche dal Testo Unico Pubblico Impiego, serve a difendere il principio costituzionale del pubblico concorso, che sarebbe violato qualora si accedesse al lavoro presso la Pa con forme diverse. In mancanza di una conversione del rapporto, osserva la sentenza, il lavoratore può solo chiedere un risarcimento del danno. Sul punto la pronuncia afferma un concetto molto netto: tale danno deve essere valutato alla stregua delle forme tipiche del codice civile (danno emergente o lucro cessante), in quanto non esiste nel nostro sistema giuridico l'istituto del danno punitivo.
Considerato che i lavoratori non hanno fornito elementi validi per dimostrare l'esistenza di nessuna delle due voci di danno, il giudice conclude per il rigetto della domanda risarcitoria: esclude, infine, che possa essere concessa l'indennità risarcitoria prevista dal collegato lavoro per i casi di conversione dei rapporti a termine, in quanto nei confronti della Pa la conversione, come già ricordato, non può mai verificarsi (articolo Il Sole 24 Ore del 09.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: L'esuberanza extra lavoro costa cara.
L'operatore della Guardia di finanza fuori servizio che intimorisce il cittadino per una questione di parcheggio inseguendolo e costringendolo ad arrestare il proprio veicolo mostrandogli il tesserino rischia la condanna per violenza privata.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V penale con la sentenza 30.09.2013 n. 40346.
Una banale lite stradale per motivi di viabilità ha innescato un inseguimento tra due veicoli che si è concluso con la denuncia dell'inseguitore in divisa e la sua condanna definitiva per violenza privata. In pratica un agente di polizia tributaria libero dal servizio ha parcheggiato male il proprio veicolo ostruendo la viabilità di altri utenti.
A seguito di una accesa discussione tra gli autisti l'operatore di polizia fuori turno ha esibito il proprio tesserino inseguendo l'altro conducente animato fino ad obbligarlo ad arrestarsi. Per questo comportamento inadeguato dell'operatore di polizia a parere del collegio scatta il reato di violenza privata che si concretizza nell'arresto ingiustificato del veicolo dell'altro soggetto (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2013).

CONDOMINIO: Assemblea, avviso anticipato. La convocazione deve pervenire cinque giorni prima. Le indicazioni operative sulla riforma del condominio in una sentenza della Cassazione.
L'avviso di convocazione dell'assemblea deve pervenire ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per la riunione in prima convocazione.
È questo il primo interessante chiarimento fornito dalla Cassazione in applicazione della nuova legge n. 220/2012 di riforma del condominio.
Nella recente sentenza 26.09.2013 n. 22047 la Corte di cassazione, Sez. VI civile, si è così pronunciata sulla questione del termine di legge da rispettare per la convocazione dell'assemblea condominiale, anche alla luce del nuovo disposto di cui all'art. 66 delle disposizioni di attuazione del codice civile.
Il caso in questione. La vicenda portata all'attenzione della Suprema corte nasceva dall'impugnazione di due deliberazioni condominiali ritenute invalide perché adottate nel corso di una riunione assembleare irregolarmente convocata. In particolare la condomina che si era rivolta al tribunale aveva eccepito il fatto che, dopo un primo tentativo di recapito dell'avviso di convocazione non andato a buon fine, aveva ricevuto detta comunicazione solo un giorno prima della data fissata per l'assemblea condominiale in prima convocazione e due giorni prima della seconda convocazione della stessa. Nella specie il tribunale aveva però dato ragione al condominio, osservando come la convocazione assembleare fosse stata inviata dall'amministratore nei termini previsti dalla legge, senza invece prendere in considerazione la data in cui la condomina aveva potuto prendere effettivamente visione del contenuto dell'avviso.
La Corte d'appello interpellata in secondo grado, che pure aveva confermato la decisione del tribunale, aveva quindi affermato come, in assenza di particolari prescrizioni di legge per la comunicazione ai condomini della convocazione assembleare, il termine di cinque giorni dovesse essere interpretato con riguardo alla seconda convocazione dell'adunanza condominiale, «essendo prassi comune, da parte dei condomini, quella di non presentarsi alla prima, ma solo alla seconda convocazione». A riprova di quanto sopra i giudici di appello avevano evidenziato la circostanza che nella specie la delibera impugnata era stata adottata in seconda convocazione, a riprova del fatto che la prima riunione fosse andata deserta.
La decisione della Suprema corte. Come ci si poteva aspettare, vista la singolarità del contenuto delle decisioni di merito, la condomina aveva quindi portato la questione dinanzi alla Cassazione che, ribaltando le precedenti sentenze, ne ha dunque accolto i motivi di impugnazione.
I supremi giudici hanno in primo luogo ricordato come ogni condomino abbia il diritto di intervenire all'assemblea, con la conseguente necessità che l'avviso di convocazione sia non solo inviato ma anche ricevuto entro il termine previsto dalla legge. In particolare, il predetto avviso deve essere ricevuto da ogni condomino nel termine di almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione. Infatti secondo la Corte di cassazione, contrariamente a quanto affermato nella specie dalla Corte d'appello, è decisamente errato sostenere che, considerata la normale partecipazione dei condomini alla seconda convocazione assembleare più che alla prima, il giorno da considerare per accertare il rispetto del termine di legge debba essere quello della seconda convocazione. Al contrario, ai fini del conteggio di tale termine, occorre considerare esclusivamente la data dell'assemblea fissata in prima convocazione.
Del resto questa conclusione è sempre stata ritenuta corretta dalla giurisprudenza anche prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina del condominio. E attualmente, come sottolineato dai supremi giudici, questa interpretazione risulta pienamente confermata dall'intervento del legislatore, che, al nuovo art. 66, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile, ha espressamente stabilito che il termine di cinque giorni debba essere riferito alla prima convocazione dell'assemblea, a nulla rilevando la data di svolgimento dell'assemblea in seconda convocazione, né che tale data sia stata eventualmente già fissata nel medesimo avviso di convocazione.
Sempre secondo la Cassazione, la comunicazione dell'avviso di convocazione si considera avvenuta nel momento in cui la stessa giunga a conoscenza del condomino e da tale momento comincia a decorrere, a ritroso, il predetto termine di cinque giorni, prendendo a riferimento la data di prima convocazione dell'assemblea. Nella specie i giudici di legittimità hanno quindi evidenziato come la Corte d'appello non avesse minimamente preso in considerazione il dato temporale relativo alla conoscenza, da parte della condomina, della data di svolgimento dell'assemblea condominiale.
Infatti, dopo avere appurato documentalmente come la stessa fosse stata messa effettivamente in condizione di partecipare all'assemblea condominiale un solo giorno prima della prima convocazione e due giorni prima della seconda convocazione, i giudici di merito avrebbero dovuto rilevare la tardività della convocazione dell'assemblea e conseguentemente annullare le delibere adottate. Infatti la mancata conoscenza, da parte del condomino, della data dell'assemblea condominiale costituisce motivo di annullabilità delle delibere assembleari per contrarietà alla legge, come ora espressamente disposto dall'art. 66 disp. att. c.c.
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Da indicare ordine del giorno, luogo e ora della riunione.
L'avviso di convocazione, che deve essere predisposto dall'amministratore e inviato a tutti i condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio, come risultante dall'anagrafe condominiale (che è specifico obbligo dell'amministratore provvedere a mantenere aggiornata), è finalizzato a consentire la partecipazione dei condomini all'assemblea. Il nuovo terzo comma dell'art. 66 disp. att. c.c., facendo tesoro dei più recenti approdi giurisprudenziali, specifica che lo stesso deve contenere l'indicazione dell'ordine del giorno, oltre al luogo e all'ora della riunione.
L'avviso deve essere comunicato ai condomini almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza. Si tratta di una disposizione introdotta e confermata dal legislatore per meglio tutelare la posizione dei condomini, in modo da dare agli stessi la possibilità di organizzare i propri impegni e poter così presenziare alla riunione, preparandosi in modo adeguato alla discussione dei singoli argomenti posti all'ordine del giorno.
Il computo del termine in questione si effettua a partire dalla data fissata per l'assemblea (che non deve essere conteggiata) e procedendo a ritroso nel tempo. Se, tanto per fare un esempio, l'assemblea è stata convocata per il 27 marzo, la comunicazione ai condomini dovrà essere effettuata entro e non oltre il 22 marzo. In caso di avviso che contenga la data sia della prima che della seconda convocazione, il termine in questione, come confermato dalla Suprema corte, dovrà essere calcolato sulla prima, anche se sia già certo che la stessa andrà deserta. I cinque giorni che il legislatore ha voluto concedere ai condomini per prepararsi alla riunione assembleare devono inoltre essere intesi come pieni. Ne consegue, per riprendere l'esempio precedente, che l'avviso di convocazione dovrà arrivare ai condomini entro e non oltre il 21 marzo, rimanendo imputabili all'amministratore eventuali ritardi dovuti a disservizi postali.
Il nuovo art. 66 disp. att. c.c. disciplina quindi in modo specifico le modalità per l'inoltro dell'avviso di convocazione, richiedendo alternativamente l'utilizzo della posta raccomandata, della posta elettronica certificata, del fax oppure la consegna a mano (con consigliabile ricevuta cartacea del ritiro dell'avviso da parte del condomino).
La giurisprudenza più recente ha sempre ritenuto che il mancato rispetto del termine di invio dell'avviso di convocazione fosse da ritenere causa di annullabilità e non di nullità della deliberazione assembleare. Alla luce delle novità introdotte dalla riforma della disciplina condominiale in merito alle modalità di impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari (art. 1337 c.c.), non stupisce che il nuovo art. 66 disp. att. c.c. abbia chiarito in modo espresso che qualsivoglia vizio relativo all'omissione, alla tardività o all'incompletezza della convocazione legittima il condomino alla mera richiesta di annullamento della conseguente delibera assembleare (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIEquitalia di vetro. Accesso alle cartelle esattoriali. A contenzioso concluso.
Equitalia non può negare l'accesso alle cartelle esattoriali se la richiesta riguarda atti di un procedimento tributario concluso.

Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 26.09.2013 n. 4821.
La controversia verte sulla richiesta di accesso proposta da un contribuente nei confronti del concessionario della riscossione, avente ad oggetto l'integrale produzione di ciascuna cartella esattoriale per consentire all'interessato di conoscere il complessivo ammontare e le relative causali delle pretese fiscali o tributarie a suo nome.
L'istanza era stata rigettata dal momento che si trattava di procedimenti tributari e che la richiesta del contribuente riguardava ben 55 cartelle di pagamento.
Il Consiglio di stato ritiene il diniego illegittimo.
Infatti, sebbene l'art. 24, legge n. 241 del 1990 escluda il diritto d'accesso, tra l'altro, nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano, è da ritenere che questa norma debba essere intesa, secondo una lettura della disposizione costituzionalmente orientata, nel senso che «l'inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo».
Deve, quindi, riconoscersi il diritto di accesso qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale e quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.
Secondo il Collegio, dal momento che la cartella esattoriale costituisce presupposto di procedure esecutive, la richiesta di accesso è strumentale alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più rispondenti e opportune. Ritenere diversamente implicherebbe, sostanzialmente, introdurre una limitazione all'esercizio della difesa in giudizio del contribuente, o, in ogni caso, rendere estremamente difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe impegnarsi in una faticosa ricerca delle copie delle cartelle. Questa limitazione colliderebbe con i principi costituzionale che garantiscono la tutela giurisdizionale, e con il principio, di rango costituzionale, di razionalità (articolo ItaliaOggi Sette del 14.10.2013).

APPALTI: Revoca della gara per mancanza fondi: nessun limite per la PA.
Nelle procedure ad evidenza pubblica l'intervenuta aggiudicazione provvisoria (o definitiva) non osta alla revoca in autotutela dell'intera gara per sopravvenuta mancanza di copertura finanziaria, dovendo sempre prevalere il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i suoi impegni di spesa, e ciò senza che possano prospettarsi profili di responsabilità precontrattuali volte ad avanzare pretese risarcitorie da parte dei partecipanti alla gara revocata.
Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 26.09.2013 n. 4809.
Nel caso di specie una Azienda sanitaria locale ha indetto un appalto concorso per la realizzazione di un parcheggio con sistemazione del verde e della viabilità presso un polo ospedaliero. La gara ha registrato il suo corso fino all'aggiudicazione provvisoria. Dopodiché, rilevata l'anomalia dell'offerta presentata dall'aggiudicataria in sede di controllo, la stazione appaltante ha bruscamente interrotto la selezione.
Avverso il provvedimento con cui si dichiarava l'inaffidabilità dell'offerta della provvisoria aggiudicataria è stato proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale; e tuttavia, nelle more del giudizio, l'intera gara è stata revocata per mancanza di adeguata copertura finanziaria come anche della rispondenza dell'appalto alle effettive esigenze dell’amministrazione.
All'esito del sindacato di prime cure il giudice amministrativo ha rigettato tutte le richieste dell'impresa ricorrente, ritenendo il provvedimento congruamente motivato e la richiesta di risarcimento danno per responsabilità precontrattuale parimenti infondata sul presupposto dell'impossibilità di individuare l'asserita lezione della posizione soggettiva dell'impresa in presenza di un'aggiudicazione, allo stato, solamente provvisoria.
La lite è stata sottoposta all'attenzione dei giudici romani di Palazzo Spada, innanzi ai quali l'aggiudicataria ha reiterato le proprie censure nei confronti del comportamento serbato dall'amministrazione nei suoi confronti, giudicato lesivo del legittimo affidamento riposto sull'esito della procedura. Più precisamente, l'impresa appellante ha rimarcato l'erroneità della decisione del Tar nella parte in cui quest'ultimo ha negato che la posizione dell'impresa si fosse consolidata per effetto dell'intervenuta aggiudicazione provvisoria, per l'effetto negando qualsivoglia risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale dell'amministrazione connessa alla decisione di revocare l'intera procedura di gara.
Ebbene, nel pronunciarsi sulla questione, il Consiglio di Stato ha sposato l'orientamento secondo cui nelle gare di appalto, l'aggiudicazione provvisoria rappresenta un mero “atto endoprocedimentale” inidoneo ad assumere valenza di decisione definitiva in ordine al soggetto aggiudicatario della gara: i giudici capitolini hanno, invero, spiegato come la possibilità che ad un'aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva sia un “evento del tutto fisiologico”, la cui disciplina è rinvenibile agli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici). Si esclude, dunque, che l'aggiudicazione provvisoria possa, di per sé, essere in grado di ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, sempre che non sussista nessuna illegittimità nell'operato dell’Amministrazione.
Si è poi rimarcato come detta conclusione debba essere accolta a prescindere dall’inserimento, nel bando, di apposita clausola volta a prevedere l’eventualità di non dar luogo alla gara o di revocarla. Ed in ogni caso, ha soggiunto il Supremo Consesso di giustizia amministrativa, la revoca della gara in autotutela per il venir meno delle risorse finanziarie deve assumersi legittima, purché una tale decisione sia accompagnata da una adeguata motivazione, come peraltro accaduto nel caso di specie.
Infine, quanto ai profili di responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, è stato precisato come la correttezza o meno del comportamento della stazione appaltante debba essere valutata complessivamente, tenuto conto dell'intero corso dello svolgimento della gara che sia pervenuta alla conclusione ed alla individuazione del contraente, nonché nella fase della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1337 del codice civile. Ciò premesso, è un principio generale quello per cui, anche laddove sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva, non è precluso alla stazione appaltante di revocare l’aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, che ben può consistere nella mancanza di risorse economiche idonee a sostenere la realizzazione dell’opera, posto che, anche in questo caso, “rimane integro il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i suoi impegni di spesa in ragione delle mutate condizioni delle risorse finanziarie disponibili” (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIImpossibile il passaggio dalla Tarsu alla Tia-1. Decisione a forte rischio di contenzioso per i Comuni. Consiglio di Stato. Ammessi in via transitoria gli atti deliberativi già assunti.
Dopo l'entrata in vigore del codice ambientale è possibile effettuare il passaggio solamente alla Tia2, non più alla Tia1.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 26.09.2013 n. 4756, che ha dichiarato l'illegittimità di un regolamento comunale istitutivo della Tia1, approvato a giugno 2011.
All'origine della controversia una norma regolamentare che imponeva di applicare la quota fissa della Tia anche alle superfici produttive di rifiuti speciali (non smaltiti dal Comune), che invece avrebbero dovuto essere totalmente escluse dalla tassazione. Disposizione ritenuta in contrasto con il principio comunitario "chi inquina paga", di immediata e diretta applicazione nella legislazione nazionale.
Ma i giudici di Palazzo Spada vanno oltre, affermando che dal 29.04.2006 –data di entrata in vigore del Dlgs 152/2006– non è più ammissibile il passaggio alla tariffa Ronchi, in quanto soppressa. In via transitoria è invece tollerata la vigenza degli atti deliberativi già assunti, mentre è possibile istituire solamente la Tia2, di cui all'articolo 238 del Dlgs 152/2006. Niente passaggio, quindi, dalla Tarsu alla Tia1.
Il blocco
La conclusione, tuttavia, non tiene conto del blocco di regime durato quattro anni (dal 2007 al 2010), periodo durante il quale non era comunque possibile cambiare prelievo, ad eccezione dei Comuni della provincia di Trento, in quanto a legislazione speciale. Quindi il principio affermato dal Consiglio di Stato riguarderebbe un breve periodo del 2006 (dal 29 aprile al 31 maggio) e le ultime due annualità di vigenza della Tarsu, cioè il 2011 e il 2012. Il Dl 208/08 consentiva infatti di effettuare il passaggio alla "tariffa integrata ambientale (Tia)" solo in caso di mancata approvazione, entro il 30.06.2010, dell'apposito regolamento statale previsto dal Dlgs 152/2006.
Inoltre, nella sentenza 4756/2013 non c'è alcun riferimento al Dlgs 23/2011, che consente ai Comuni di continuare ad applicare i regolamenti comunali approvati in base alla normativa concernente la Tarsu e la Tia, ferma restando la possibilità di adottare la "tariffa integrata ambientale". Stessa definizione utilizzata nel 2008, che non trova tuttavia riscontro nell'articolo 238 del Dlgs 152/2006 (Tia2), riferito alla "tariffa per la gestione dei rifiuti".
Insomma, la lettura offerta dal Consiglio di Stato non è del tutto scontata, anche perché il passaggio obbligato alla Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura extratributaria (così definita dal Dl 78/2010), con rilevanti problemi di natura applicativa per mancanza di sanzioni, di poteri di accertamento eccetera.
Lo scenario
Si apre, peraltro, uno scenario a forte rischio di contenzioso per i Comuni, pur escludendo la possibilità di impugnativa davanti ai Tar per scadenza dei termini. I contribuenti potrebbero comunque contestare le richieste di pagamento, chiedendo alle commissioni tributarie la disapplicazione dei regolamenti istitutivi della Tia1, ancorché con una efficacia limitata al singolo caso.
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Sotto la lente
01 | Il principio
Secondo il Consiglio di Stato, dopo l'entrata in vigore del Codice ambientale, Dlgs 152/2006, avvenuta il 29.04.2006, si poteva effettuare soltanto il passaggio dalla Tarsu alla Tia2
02 | Il problema
La conclusione non tiene conto del fatto che per quattro anni (dal 2007 al 2010) c'è stato un blocco di regime, ragion per cui il principio riguarderebbe solo un mese del 2006 e gli ultimi due anni di vigenza della Tarsu (2011 e 2012).
Considerando anche che il passaggio obbligato alla Tia2 avrebbe imposto l'istituzione di un prelievo di natura extratributaria, si prefigura la possibilità che i contribuenti contestino le richieste di pagamento e chiedano di disapplicare i regolamenti istitutivi della Tia1
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ripetitori di telefonia cellulare: le modifiche necessitano di autorizzazione espressa.
L'autorizzazione per l'installazione di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili GSM/UMTS (art. 87, d.Lgs. n. 259/2003) in quanto espressamente prevista anche per "la modifica delle caratteristiche di emissione", è necessaria per la realizzazione di lavori di installazione di ulteriori ripetitori, intervento che - per le sue connotazioni innovative concrete - non può considerarsi di mera manutenzione straordinaria dell'esistente.
Il caso
Il G.I.P. del Tribunale sottoponeva a sequestro preventivo l'antenna e gli apparati di una stazione per la telefonia cellulare della "Vodafone Omnitel N.V.", ipotizzando la violazione dell'art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001, poiché sull'antenna in oggetto,della quale era già stata prevista la delocalizzazione in altra area del territorio comunale, erano stati realizzati lavori di installazione di ulteriori ripetitori in difetto di permesso di costruire ed anzi in presenza di un diniego espresso opposto dall'amministrazione comunale. La società "Vodafone" proponeva istanza di riesame, deducendo di avere inoltrato al Comune una SCIA in data antecedente all’accertamento di polizia, in relazione alla quale doveva ritenersi formato il silenzio-assenso mentre quell'amministrazione aveva adottato la misura della sospensione dei lavori ben oltre il termine di 90 giorni previsto per il formarsi dell'assentimento tacito.
Il Tribunale aveva respinto l'istanza di riesame, evidenziando che il piano di localizzazione delle stazioni radio base (SRB)approvato dal Comune escludeva che l'installazione in oggetto potesse essere realizzata, tanto che la società proprietaria dell'impianto (Telecom s.p.a.) ne aveva concordato con l'amministrazione locale la delocalizzazione in altro sito. Esistendo una specifica previsione di allocazione non trova applicazione il principio secondo il quale le SRB possono essere installate in qualsiasi zona del territorio comunale attesa la sostanziale compatibilità dell'impianto con qualsiasi destinazione urbanistica.
I motivi di ricorso
Contro l'ordinanza proponeva ricorso la società "Vodafone Omnitel N.V.", censurandola sotto diversi profili. Per quanto qui di interesse, sosteneva, da un lato, l'erronea applicazione del d.Lgs. n. 259/2003 e del T.U. n. 380/2001, in quanto non si sarebbe tenuto conto del carattere omnicomprensivo dell'autorizzazione prevista dal d.Lgs. n. 259/2003, esteso anche ai profili urbanistici ed edilizi connessi alla realizzazione ed all'attivazione degli impianti di telefonia cellulare; dall’altro, l’irrilevanza, sotto il profilo urbanistico, dell'intervento in concreto realizzato, che -essendo consistito nel montaggio, sul palo già posizionato, di nuovi apparati in tecnologia UMTS e nella sostituzione di alcune antenne di Telecom –avrebbe dovuto essere assimilato ad un intervento di manutenzione straordinaria del sito esistente, non assoggettato a permesso di costruire.
La soluzione
La Cassazione ha disatteso i motivi di ricorso.
In particolare, in risposta alle due doglianze prima evidenziate, la Corte ha affermato che:
a) doveva considerarsi legittima la previsione di spostamento dell'impianto de quo inserita nel piano di localizzazione delle stazioni radio base del Comune (e già concordata dalla Telecom con l'amministrazione locale), integrando essa una prescrizione non generalizzata attinente all'urbanistica ed alla pianificazione del territorio che ha natura consentita dalla legge quadro n. 36/2001;
b) che l'autorizzazione di cui all'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 era necessaria, perché espressamente prevista anche per "la modifica delle caratteristiche di emissione" e l'intervento eseguito, per le sue connotazioni innovative concrete, non poteva considerarsi di mera manutenzione dell'esistente ma (essendo anche assimilato in via normativa ad un incremento dell'urbanizzazione primaria) non può ritenersi sottratto ad una doverosa valutazione pure sotto il profilo urbanistico;
c) infine, il silenzio-assenso di cui al comma 9 dell'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 non poteva ritenersi formato per la mancanza di conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni contenute nell'anzidetto piano di localizzazione.
I precedenti ed il panorama complessivo
La sentenza della Suprema Corte si muove nel solco di una giurisprudenza che, sulla questione, è andata progressivamente consolidandosi.
l'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa -che ha ricevuto l'avallo della Corte Costituzionale con la sentenza 28.03.2006, n. 129- riconosce carattere omnicomprensivo all'autorizzazione prevista dal D.Lgs. n. 259/2003, esteso a tutti i profili connessi alla realizzazione ed all'attivazione degli impianti di telefonia cellulare,inclusi quelli urbanistici ed edilizi [vedi, ad esempio, Tar Puglia, Bari, sez. III, 13.05.2005, n. 2143; Tar Veneto, sez. II, 13.09.2004, n. 3295; Tar Veneto, sez. II, 30.07.2004, n. 2579; Tar Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004, n. 3217; Tar Piemonte,sez. I, 23.06.2004, n. 1176].
Tale orientamento -fatto proprio dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con le decisioni 11.01.2005, n. 100 e 22.10.2004, n. 6910- è stato condiviso dalla giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. pen., Sez. III: 16.09.2005, n. 33735, Vodafone Omnitel; 21.03.2006, n. 9631, Vodafone Omnitel), ove sono stati affermati i principi secondo i quali:
- il provvedimento autorizzatorio e la procedura di denunzia di inizio dell'attività (oggi SCIA) previsti dall'art. 87 del d.Lgs. 01.08.2003, n. 259, per l'autorizzazione all'installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici,hanno come contenuto imprescindibile anche la verifica della compatibilità urbanistico-edilizia dell'intervento e non è richiesta, pertanto, la necessità di un distinto titolo abilitativo a fini edilizi;
- l'installazione e la modifica delle caratteristiche di emissione delle infrastrutture di comunicazione elettronica costituiscono pur sempre interventi di nuova costruzione [ex art. 3, lettere e.2) ed e.4), del T.U. n. 380/2001] soggetti al regime sostanziale del permesso di costruire (anche se tale titolo non deve essere formalmente rilasciato in aggiunta all'autorizzazione prevista dalla legge speciale).
Ne consegue che la denunzia di inizio dell'attività, prevista dall'art. 87, 3° comma - ultima parte, del D.Lgs. n. 259/2003 per la realizzazione di impianti "con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt", non è quella disciplinata dagli artt. 22 e 23 del T.U. n. 380/2001,ma va ricondotta al modello generale di cui all'art. 19 della legge n. 241/1990, come sostituito dall'art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010 [sicché deve ritenersi attualmente sostituita dalla disciplina della SCIA posta dall'anzidetto art. 19]. Nel relativo procedimento, pertanto, dovranno essere comunque valutati i profili urbanistico-edilizi del realizzando intervento, tenendo conto che la semplificazione è soltanto procedurale.
- Non resta influenzato, in ogni caso, il regime sanzionatorio penale di cui all'art. 44del T.U. n. 380/2001 e le infrastrutture di comunicazione elettronica specificate al comma 1 dell'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003 restano sottoposte, pur sempre, alle sanzioni penali specifiche delle opere soggette a permesso di costruire.
Le disposizioni dell'art. 44 del T.U. n. 380/2001 si applicano altresì agli impianti "con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt" (di cui al comma 3, ultima parte, del medesimo art. 87) -suscettibili di realizzazione mediante denunzia di inizio attività (oggi SCIA) ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241/1990, come successivamente sostituito- allorché questi siano eseguiti in assenza o in difformità dalla denunzia medesima. Il mutamento della disciplina per l'abilitazione all'intervento edilizio non incide, infatti,sulla disciplina sanzionatoria penale, che non viene correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell'intervento.
Questione dibattuta in dottrina e giurisprudenza è quella relativa all'eventuale consumazione del potere della pubblica amministrazione di intervenire sul provvedimento formatosi per silenzio-assenso una volta decorso il termine di 90 giorni dalla ricezione della domanda (ai sensi del comma 9 dell'art. 87 del d.Lgs. n. 259/2003).
Un potere siffatto è stato riconosciuto, ad esempio, dal Tar Lazio, Roma, Sez. ll-bis, con la sentenza n. 2690 del 16.03.2009, in seguito all'accertamento della insussistenza dei requisiti e presupposti di legge già dichiarati dagli interessati nella loro domanda di autorizzazione.
In senso contrario, invece, appare orientata la giurisprudenza amministrativa prevalente, secondo la quale, ammettendosi ad libitum l'intervento dell'autorità locale anche dopo la formazione della fattispecie assentiva per silentium, si provocherebbe un'ingiustificata anomalia, sul piano dell'aggravamento procedi mentale, al principio fondamentale di semplificazione, fermo restando comunque l'eventuale accesso all'autotutela sul provvedimento abilitativo in tal modo formatosi.
A giudizio della Cassazione, nel caso in esame, per quanto rileva ai fini penali, il contrasto può essere superato allorché si consideri che costituisce condizione per la formazione del silenzio assenso la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. [In materia urbanistica, ad esempio, è stata ritenuta condizione indefettibile per il formarsi del silenzio-assenso la conformità dell'intervento che si intende realizzare agli strumenti urbanistici vigenti - vedi Cass.: Sez. Unite, 23.04.1993, n. 3, Totaro, nonché Sez. III, 09.02.1998, Svara].
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Esito del ricorso
Rigetta
Riferimenti
Tribunale del riesame di Macerata, ordinanza 05.10.2012
Decisioni conformi
Cassazione penale, Sez. III, 01.09.2010, n. 32527; Cassazione penale, Sez. III, 21.03.2006, n. 9631; Cassazione penale, Sez. III, 18.11.2005, n. 41598; Cassazione penale, Sez. III, 16.09.2005, n. 33735
Note esplicative
Ai fini della installazione di ripetitori telefonici è insufficiente la presentazione di d.i.a., essendo invece necessario il rilascio delle autorizzazioni previste al termine della specifica procedura disciplinata dagli artt. 87 e ss. del d.lgs. n. 259 del 2003 il cui mancato rispetto rende le opere abusive e suscettibili delle sanzioni di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001. Secondo la sentenza qui commentata, ciò è necessario anche per la realizzazione di lavori di installazione di ulteriori ripetitori, non costituendo interventi di “manutenzione straordinaria”
Riferimenti normativi:

D.Lgs. 01.8.2003, n. 259, art. 87 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b)
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 24.09.2013 n. 39415).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chiusura dei bar solo con le prove. Senza l'ordine del sindaco è illegittima.
È illegittima l'ordinanza del sindaco con la quale è stato coattivamente fissato l'orario massimo di apertura di un bar-bistrot. In quanto tale ordinanza pur richiamando le problematiche di disturbo alla quiete ed al riposo delle persone è stata adottata senza alcuna istruttoria in merito alla ricorrenza di un'effettiva situazione di «grave pericolo» tale da minacciare l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana. E in assenza di specifiche risultanze istruttorie atte a dimostrare il superamento dei valori limite delle emissioni sonore.

Questo è quanto espresso dal TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 24.09.2013 n. 1041.
Il fatto in sintesi: alcuni cittadini residenti nelle abitazioni circostanti a un bar-bistrot presentavano numerosi esposti per la rumorosità del locale.
I giudici del Tar Piemonte, ricordano che la motivazione dell'impugnata ordinanza, adottata ai sensi dell'art. 54 dlgs 18/08/2000, n. 267, pur richiamando le problematiche di disturbo alla quiete e al riposo delle persone, non dà atto di alcuna istruttoria in merito alla ricorrenza di un'effettiva situazione di «grave pericolo» tale da minacciare l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana, così da giustificare l'adozione di un provvedimento extra ordinem ai sensi dell'art. 54, comma 4, dlgs n. 267 del 2000. Né, analogamente, è stata dovutamente documentata alcuna situazione di «emergenza» connessa con l'inquinamento acustico, tale da giustificare l'attivazione del potere sindacale (pur sempre straordinario) di modifica degli orari degli esercizi commerciali.
Una simile carenza, peraltro, nel certificare la fuoriuscita dell'azione amministrativa dai rigidi confini segnati dalla legge per l'adozione dei provvedimenti contingibili e urgenti, ha al contempo determinato un'evidente discriminazione commessa ai danni del locale, la cui situazione in punto di immissioni rumorose (in assenza di specifiche risultanze istruttorie atte a dimostrare il superamento dei valori limite delle emissioni sonore) non appare in nulla differenziarsi, con riferimento all'interesse pubblico alla salubrità acustica, da quella di tutti gli altri locali notturni sul territorio (articolo ItaliaOggi del 12.10.2013).

APPALTIIn tema di gara d’appalto per l’aggiudicazione dei contratti, va escluso che debbano essere immediatamente impugnate le clausole del bando o della lettera di invito che non incidano direttamente ed immediatamente sull’interesse del soggetto a partecipare alla gara, e, dunque, non determinino, per lo stesso, un immediato arresto procedimentale; pertanto, non sono suscettibili di impugnazione immediata le clausole relative alle modalità di valutazione delle offerte ed attribuzione dei punteggi e, in generale, alle modalità di svolgimento della gara, nonché alla composizione della commissione giudicatrice.
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Qualora la sottocommissione preposta alla valutazione delle offerte si sia limitata a svolgere attività strumentale, ossia di supporto alla valutazione della commissione di gara, mentre la fissazione dei criteri di assegnazione dei punteggi e la valutazione finale delle offerte sono state effettuate dalla commissione al completo, il principio di collegialità non può dirsi violato.
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Allorché la concorrente che si duole delle modalità di svolgimento della gara semplicemente alleghi il pericolo che, nella fattispecie concreta, si siano determinate conoscenze indebite delle valutazioni tecniche –pur riservate– già compiute dalla commissione giudicatrice, spetta alle controparti provare in giudizio che quel pericolo di inquinamento non si è, nei fatti, tradotto in realtà. Solo in tal modo –ossia, solo con l’assoluta certezza che il principio della segretezza degli atti di gara non sia stato intaccato– potrà essere salvato il segmento procedurale fino a quel momento compiuto, in base alla regola generale “utile per inutile non vitiatur”.
Quando invece non venga neanche allegato un pericolo concreto di inquinamento della gara, limitandosi la ricorrente a mere asserzioni teoriche in punto di violazione del principio di segretezza (come nel caso oggetto dell’odierno giudizio), non potrebbe evidentemente ritenersi che quella violazione, nei fatti, sia avvenuta.
In tal caso, allora, non può che riespandersi la contrapposta istanza che riposa nell’economicità dell’azione amministrativa, con necessità di riconoscere prevalenza alla salvezza del segmento di gara già compiuto. Detto altrimenti: qualora possa con certezza escludersi che il principio della segretezza non sia stato violato –o perché la ricorrente non ha nemmeno allegato l’esistenza di un concreto pericolo per esso, o perché le controparti sono riuscite a provare che nessun pericolo si era, nella specie, verificato– troverà applicazione la regola generale “utile per inutile non vitiatur” e potrà essere salvato il segmento procedurale già compiuto.
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L’obbligo di comunicare al partecipante ad una gara di appalto l’avvenuta esclusione dalla procedura selettiva entro un termine non superiore a cinque giorni, ai sensi dell'art. 79, comma 5, lett. b, d.lgs. n. 163 del 2006, non contiene alcuna espressa sanzione: pertanto, da un’omissione che non abbia arrecato alcun nocumento alla parte interessata non può dedursi l’esistenza di un vizio tale da rendere annullabile il provvedimento recante l’esclusione, con la precisazione che la tardività di tale comunicazione non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma solamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione anche in ragione della natura ordinatoria del termine previsto dalla detta norma.

Deve, quindi, richiamarsi il costante insegnamento della giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in tema di gara d’appalto per l’aggiudicazione dei contratti, va escluso che debbano essere immediatamente impugnate le clausole del bando o della lettera di invito che non incidano direttamente ed immediatamente sull’interesse del soggetto a partecipare alla gara, e, dunque, non determinino, per lo stesso, un immediato arresto procedimentale; pertanto, non sono suscettibili di impugnazione immediata le clausole relative alle modalità di valutazione delle offerte ed attribuzione dei punteggi e, in generale, alle modalità di svolgimento della gara, nonché alla composizione della commissione giudicatrice (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 4699 del 2008).
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Come statuito in giurisprudenza, qualora la sottocommissione preposta alla valutazione delle offerte si sia limitata a svolgere attività strumentale, ossia di supporto alla valutazione della commissione di gara, mentre la fissazione dei criteri di assegnazione dei punteggi e la valutazione finale delle offerte sono state effettuate dalla commissione al completo, il principio di collegialità non può dirsi violato (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1902 del 2005; TAR Toscana, sez. I, n. 269 del 2009; TAR Campania, Napoli, sez. I, n. 4735 del 2007; TAR Marche, n. 1146 del 2006).
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Come già statuito da questo TAR (sez. II, sent. n. 2363 del 2010, peraltro invocata dalla stessa ricorrente), allorché la concorrente che si duole delle modalità di svolgimento della gara semplicemente alleghi il pericolo che, nella fattispecie concreta, si siano determinate conoscenze indebite delle valutazioni tecniche –pur riservate– già compiute dalla commissione giudicatrice, spetta alle controparti provare in giudizio che quel pericolo di inquinamento non si è, nei fatti, tradotto in realtà. Solo in tal modo –ossia, solo con l’assoluta certezza che il principio della segretezza degli atti di gara non sia stato intaccato– potrà essere salvato il segmento procedurale fino a quel momento compiuto, in base alla regola generale “utile per inutile non vitiatur”.
Quando invece non venga neanche allegato un pericolo concreto di inquinamento della gara, limitandosi la ricorrente a mere asserzioni teoriche in punto di violazione del principio di segretezza (come nel caso oggetto dell’odierno giudizio), non potrebbe evidentemente ritenersi che quella violazione, nei fatti, sia avvenuta. In tal caso, allora, non può che riespandersi la contrapposta istanza che riposa nell’economicità dell’azione amministrativa, con necessità di riconoscere prevalenza alla salvezza del segmento di gara già compiuto. Detto altrimenti: qualora possa con certezza escludersi che il principio della segretezza non sia stato violato –o perché la ricorrente non ha nemmeno allegato l’esistenza di un concreto pericolo per esso, o perché le controparti sono riuscite a provare che nessun pericolo si era, nella specie, verificato– troverà applicazione la regola generale “utile per inutile non vitiatur” e potrà essere salvato il segmento procedurale già compiuto.
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In ordine al ritardo con cui la stazione appaltante ha comunicato alla ricorrente l’avvenuta esclusione dalla gara (ottavo dei motivi aggiunti), si deve rilevare –in aderenza al costante orientamento della giurisprudenza– che l’obbligo di comunicare al partecipante ad una gara di appalto l’avvenuta esclusione dalla procedura selettiva entro un termine non superiore a cinque giorni, ai sensi dell'art. 79, comma 5, lett. b, d.lgs. n. 163 del 2006, non contiene alcuna espressa sanzione: pertanto, da un’omissione che non abbia arrecato alcun nocumento alla parte interessata non può dedursi l’esistenza di un vizio tale da rendere annullabile il provvedimento recante l’esclusione, con la precisazione che la tardività di tale comunicazione non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione ma solamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione anche in ragione della natura ordinatoria del termine previsto dalla detta norma (cfr., di recente, ex multis: TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 706 del 2012; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 2204 del 2012)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 24.09.2013 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse.
Il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta infatti la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.

Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del 2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt. n. 813 del 2012 e n. 758 del 2013), la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta infatti la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
Di conseguenza, come correttamente argomentato da entrambe le parti, il presente gravame va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 24.09.2013 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La società in house partecipa alla gara. Servizi pubblici. Dal Tar Lombardia.
Le società affidatarie dirette possono partecipare a gare indette dalle amministrazioni locali per l'affidamento di servizi pubblici, ma se la loro attività prevalente risulta dai nuovi affidamenti, perdono uno dei requisiti dell'in house.

Il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 23.09.2013 780 ribadisce il quadro di riferimento comunitario, per il quale il modello in house viene rispettato se sussiste il requisito del controllo analogo, e se la parte più importante dell'attività viene svolta con gli enti che detengono il controllo.
L'organo di giustizia amministrativa afferma inoltre che in base alla giurisprudenza comunitaria i soggetti che beneficiano di sovvenzioni pubbliche, e quindi anche i soggetti in house, possono certamente partecipare alle gare (come del resto possono partecipare in qualità di imprenditori gli stessi enti pubblici), come pure possono svolgere attività a favore di terzi, ma questa situazione espone al rischio di fuoriuscire dallo schema comunitario, qualora la parte più importante dell'attività non sia più svolta con gli enti che detengono il controllo.
Queste possibilità di espansione industriale trovano tuttavia un limite di tipo quantitativo nei principi comunitari, poiché le società in house, per mantenere tale caratteristica, dovranno sempre svolgere la loro attività prevalente (misurabile in termini di fatturato) a favore dell'ente locale socio.
Qualora la società perda tale requisito non potrà più risultare affidataria diretta di servizi pubblici locali da parte degli enti soci e gli stessi affidamenti in essere risulterebbero privi di una delle due condizioni essenziali per il loro mantenimento.
Il Tar Brescia ha anche analizzato la problematica del passaggio diretto del personale del gestore uscente alla società in house vincitrice della gara, riconoscendo che norme come l'articolo 202, comma 6, del Dlgs 152/2006 (servizio rifiuti) facciano gravare sul nuovo gestore un costo aggiuntivo che può poi tradursi in incrementi tariffari per gli utenti o in minore qualità del servizio, oppure può costituire ex ante un disincentivo alla partecipazione a eventuali gare.
La sentenza richiama pertanto l'applicazione dell'articolo 3-bis, comma 2, della legge 148/2011, il quale prevede che nelle procedure a evidenza pubblica l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione dell'offerta e non condizione per il subentro nel servizio (articolo Il Sole 24 Ore del 14.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive - Estinzione dei reati per prescrizione - Ordine giudiziale di demolizione dell'opera - Effetti - Integrale attuazione - Fattispecie.
La demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto l'immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito successivamente che, per la sua accessorietà all'opera abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo consentirsi che un qualunque intervento additivo, abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse, si finirebbe per incentivare le più diverse forme di abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo indefinito la demolizione di opere in precedenza illegalmente realizzate (Cass. Sez. III n. 21797, 31/05/2011; Sez. III n. 2872, 22/01/2009. Conf. Sez. III n. 16349, 10/04/2002; Sez. III n. 10348, 13/03/2001).
Nella specie, l'intervento abusivo realizzato in zona sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico, difettava del requisito della condonabilità, l'opera nel suo complesso era oggetto dell'ordine di demolizione impartito, a nulla rilevando la circostanza che, per le opere abusivamente aggiunte in sopraelevazione, sia stato revocato l'ordine di demolizione in conseguenza dell'estinzione dei reati per prescrizione, non avendo tale evenienza determinato alcuna modificazione delle condizioni del manufatto, che era ed è ancora abusivo nella sua interezza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, ordinanza 20.09.2013 n. 38947 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Le scelte compiute dall'amministrazione in sede di formazione del piano urbanistico (o di variante dello stesso) sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia, da cui discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità, arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti.
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Non é configurabile alcuna pretesa alla non reformatio in pejus della precedente disciplina urbanistica, in quanto la titolarità di una posizione giuridica qualificata va esclusa quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una precedente previsione urbanistica, che consentiva l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che, in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del privato, avente ad oggetto la non reformatio in pejus della destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla natura discrezionale del potere di pianificazione urbanistica.
Nel caso di specie, in particolare, sono del tutto assenti le specifiche situazioni enucleate dalla giurisprudenza per configurare in capo alla p.a. un obbligo di motivazione più incisivo delle proprie scelte discrezionali riguardo alla destinazione di singole aree (scelte che, di regola, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano e ricavabili dalla relazione di accompagnamento al piano stesso).
In effetti, le evenienze ritenute idonee a creare aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni sono state ravvisate:
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia etc.;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati, atteso che queste ultime sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.

Anche qui, infatti, s’impone il richiamo al prevalente orientamento della giurisprudenza, incline a ritenere che le scelte compiute dall'amministrazione in sede di formazione del piano urbanistico (o di variante dello stesso) sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia, da cui discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità, arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti (cfr. ex multis, Cons. Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656; id. 27.12.2007, n. 6686).
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Al riguardo, giova rammentare che la giurisprudenza ha ripetutamente chiarito che non é configurabile alcuna pretesa alla non reformatio in pejus della precedente disciplina urbanistica, in quanto la titolarità di una posizione giuridica qualificata va esclusa quando l'interesse coinvolto concerna esclusivamente una precedente previsione urbanistica, che consentiva l'utilizzazione dell'area in modo più proficuo, visto che, in tale ipotesi, si tratta di un'aspettativa generica del privato, avente ad oggetto la non reformatio in pejus della destinazione di zona, suscettibile di recedere dinanzi alla natura discrezionale del potere di pianificazione urbanistica (così, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, Sent. 03.03.2011, n. 619; id. 18.10.2010, n. 6989).
Nel caso di specie, in particolare, sono del tutto assenti le specifiche situazioni enucleate dalla giurisprudenza per configurare in capo alla p.a. un obbligo di motivazione più incisivo delle proprie scelte discrezionali riguardo alla destinazione di singole aree (scelte che, di regola, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano e ricavabili dalla relazione di accompagnamento al piano stesso. Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 24/1999; id. Sez. IV, n. 6656/2012; id., sez. VI., n. 173/2002; id. Sez. IV, n. 6917/2002; id. n. 2899/2002).
In effetti, le evenienze ritenute idonee a creare aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni sono state ravvisate:
a) nel superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia etc. (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.);
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 594/1999; Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.; Cons. Stato, Sez. IV, 2369/2000 cit.).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la quale vanta, come già detto, una generica aspettativa alla non modificazione in pejus della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in questione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.; Sez. IV, 25.07.2001 n. 4077; TAR Catania, sez. I, 13.02.2012 n. 386; TAR Salerno, 17.12.2002, n. 2358).
La ricorrente, a ben vedere, allega ma non dimostra quali sarebbero stati gli “ostacoli amministrativi …ai progetti edilizi” da lei stessa presentati, di cui agli atti non v’è traccia alcuna. In tal senso, si deve ritenere che la fattispecie in esame si presenti senz’altro diversa da quella decisa da questo Tribunale, con la sentenza n. 122/2007 (allegata sub doc. n. 8 da parte ricorrente).
Il caso ivi esaminato, infatti, concerneva l’impugnazione di un’inibitoria di una dia presentata al Comune di Monza, sempre dall’odierna ricorrente, per un’area posta in fregio alla Via Impastato; nel caso all’odierno esame del Collegio, invece, la società non risulta aver presentato alcun titolo edilizio nelle more della zonizzazione urbanistica precedente a quella per cui è causa.
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati, atteso che queste ultime sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2007, n. 5357; id. 30.06.2004, n. 4804; TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2012 n. 1440; TAR Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010, n. 15)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di “lotto intercluso” ha una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
Né appare condivisibile la lettura della propria area come lotto intercluso fornita dalla società, attesa la funzione eccezionale di tale concetto (su cui cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2010 n. 3699) e la tipologia dell’area de qua (che, essendo contermine a fondi inedificati, come meglio risultante dai documenti allegati sub lett. A e ss. all’osservazione di parte ricorrente depositata sub n. 3, nonché dal doc. n. 9 non pare affatto riconducibile a tale ambito).
In ogni caso, va ricordato come la nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lotto edificabile e volumetria realizzabile: vicende dei terreni ininfluenti sulla concessione iniziale.
Un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di un permesso di costruire, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni o successivi frazionamenti. La volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata.
Il caso riguarda un diniego di un permesso di costruire per un edificio da adibire ad abitazione del custode di una villa situata in prossimità.
Il Comune nega il permesso ritenendo che la particella dove sarebbe dovuta essere ubicata l’abitazione del custode (part. 274) e quelle adiacenti su cui insiste la villa (part. 266 e 270) devono considerarsi unitariamente ai fini del calcolo della volumetria realizzabile.
Dovrebbero, in sostanza, considerarsi come un unico lotto edificabile, la cui volumetria è già stata a suo tempo esaurita dalla costruzione della villa sulle due particelle adiacenti (266 e 270), a cui la restante particella (274) risulta asservita ai fini volumetrici.
Il Consiglio di Stato si pronuncia per la legittimità del diniego dando utili indicazioni in materia di individuazione del lotto edificabile ai fini della volumetria disponibile.
Il lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità edificatorie del fondo, unitariamente considerato, e determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica.
È, quindi, irrilevante che l'area coincidente con il lotto edificabile delimitato dalla concessione edilizia sia successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, in quanto la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata.
Pertanto un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
Più specificatamente, nella ipotesi della realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l'intera estensione interessata, con l'effetto che anche l'area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti.
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LA DECISIONE IN SINTESI
Esiti del ricorso
Conferma TAR Toscana, Sezione III, n. 775/2001
Precedenti giurisprudenziali

Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2000, n. 749; Cons. Stato, Sez. V, 07.11.2002 n. 6128, cit.; Sez. IV, 06.08.2012, n. 4482; TAR Puglia Bari Sez. III, 09.01.2013, n. 11
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2013 n. 4531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Tar Lazio: gli elenchi ISTAT delle P.A. hanno natura normativa.
Nella sentenza in commento i giudici del Tar Lazio certificano la natura normativa degli elenchi ISTAT delle amministrazioni pubbliche.
Secondo i giudici amministrativi capitolini, infatti, con l'art. 5, c. 7, d.l., 16/2012, conv. ex l. 44/2012, di modifica dell'art. 1, c. 2, l. 196/2009, i due elenchi ISTAT del 24.07.2010 e del 30.09.2011 sono stati "cristallizzati" in legge, con ciò perdendo la loro connotazione provvedimentale ed assurgendo a norma di rango primario.
L'eventuale esclusione di alcuni enti inseriti in tali elenchi (del 2010 e del 2011) dall'applicazione delle misure di finanza pubblica introdotte a regime nell'anno 2012 non potrà che avvenire attraverso una espressa esclusione contenuta in una norma di rango legislativo ovvero attraverso la tecnica della "delegificazione" ai sensi dell'art. 17 l. 400/1988. Dubbi sulla natura normativa o amministrativa permangono sull'aggiornamento ISTAT del 28 settembre 2012, in quanto adottato successivamente al d.l. 16/2012.
Poiché, spiegano gli stessi giudici, tale aggiornamento non sostituisce, ma integra l'elenco delle amministrazioni pubbliche già inserite nei due elenchi precedenti, la verifica sulla natura dell'ultimo comunicato va limitata alla parte relativa agli aggiornamenti ovvero a quelle integrazioni che hanno incluso ulteriori enti oltre a quelli già indicati, sancendone la loro connotazione pubblicistica ai fini dell'applicazione delle misure di finanza pubblica (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 11.09.2013 n. 8227 - commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIPregiudizio spa pubbliche. Corte dei conti bloccata.
Esulano dall'ambito della giurisdizione della Corte dei conti le azioni di responsabilità nei confronti di amministratori delle società pubbliche quando il pregiudizio è risentito dal patrimonio di queste.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione, Sez. unite civili con la sentenza 02.09.2013 n. 20075.
Secondo il Collegio la più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso i confini tra giurisdizione contabile e giurisdizione ordinaria meno chiari, «da un lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall'altro affidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici».
Al fine di evitare il rischio di un sostanziale svuotamento della giurisdizione della Corte contabile in punto di responsabilità, si è voluto privilegiare un approccio più «sostanzialistico», sostituendo a un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l'elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell'atto di investitura né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte ha affermato che conseguentemente spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti (articolo ItaliaOggi Sette del 07.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Anas obbligata alla pulizia dei rifiuti abbandonati sulle pertinenze.
Anas s.p.a., in quanto concessionaria della gestione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade e autostrade di proprietà dello Stato, è obbligata alla pulizia delle sede stradale e delle sue pertinenze e, quindi, alla rimozione non solo dei rifiuti abbandonati direttamente sulla sede stradale, ma anche di quelli abbandonati sulle pertinenze o sulle altre strutture annesse alla strada, atteso che la loro pulizia interferisce direttamente con la stessa funzionalità dell’infrastruttura e con la sicurezza della viabilità e non può quindi non fare capo direttamente al soggetto gestore, sia esso proprietario, concessionario o comunque affidatario del bene.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1, dlgs n. 285/1992 (codice della strada) “Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; …”. Il comma 3 del citato art. 14 dlgs n. 285/1992 prevede che “Per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito.”. Pertanto, può certamente affermarsi che la pulizia delle aree in questione compete ad Anas, essendo il soggetto concessionario.
Come sottolineato da TAR Puglia, Bari, Sez. I, 09.02.2012, n. 299 (decisione relativa ad una ordinanza sindacale adottata nei confronti di Anas, la quale contestava l’asserita violazione dell’art. 192, comma 3, dlgs n. 152/2006), alle cui conclusioni questo Collegio ritiene di aderire: “… L’applicazione della disposizione invocata, che richiama il parametro soggettivo del dolo o della colpa (e dunque anche della colposa inosservanza del dovere di vigilanza e custodia), va però effettuata in concreto, distinguendo la situazione del proprietario che adottando le normali cautele non ha potuto impedire l’altrui attività illecita, da quella di un ente avente per oggetto sociale, e per dovere istituzionale, la custodia e la cura di una rete viaria sulla quale si verificano gli episodi che qui vengono in considerazione. …”.
Pertanto, ai sensi dell’art. 14 dlgs n. 285/1992 gli enti proprietari e concessionari delle strade (come Anas, avente per oggetto sociale e per dovere istituzionale, la custodia e la cura della rete viaria [cfr. sentenza del TAR Puglia, Bari n. 299/2012]) devono provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade e delle loro pertinenze e arredo (a prescindere dalle dimensioni della infrastruttura su cui esercitano la vigilanza). Sulla stessa linea si colloca Cons. Stato, Sez. V, 31.05.2012, n. 3256 (che a sua volta richiama Cass. civ., Sez. Un., 25.02.2009, n. 4472) secondo cui “… il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere indebitamente depositati rifiuti nocivi. …”.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 3256/2012 rileva che il dovere di adottare tutte le misure e cautele opportune e necessarie per eliminare tali rifiuti deriva “… direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla previsione dell’art. 14 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti proprietari delle strade devono provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi.”.
La controversia era sorta in seguito a un’ordinanza n. 4 del 14.02.2011 del Sindaco di un Comune pugliese che ordinava ai proprietari e possessori (tra cui evidentemente la stessa Anas) di suoli, giardini, spazi, strutture e siti di ogni tipo nel centro abitato e nella periferia di dello stesso Ente di provvedere alla pulizia, disinfezione e disinfestazione degli stessi con rimozione dei rifiuti e trasporto presso discariche autorizzate con obbligo di tenerli costantemente puliti nel tempo (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 13.08.2013 n. 1242 - commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione onnicomprensiva di area boscata - Legge n. 353/2000 - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
Nell’impostazione "omnicomprensiva" della nozione di bosco quel che rileva, in ultima analisi, è l'identità di ratio che accomuna la tutela dei terreni coperti da foreste di alto fusto a quella delle aree inserite in un contesto di vegetazione anche di tipo arbustivo ( Cons. Stato, sez. IV, 12/03/2013 n. 1481).
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione di bosco o territorio boschivo - Giurisprudenza - L. n. 353/2000 - Art. 181, c.1, d.lgs. n. 42/2004.
La nozione di bosco o territorio boschivo (di cui al d.lgs. 18.05.2001 n. 227, penalmente tutelato dall'articolo 181 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, norma annoverata tra quelle dei capi d'imputazione) deve intendersi in senso normativo e non naturalistico, essendo il senso normativo un concetto estensivo che include anche la macchia mediterranea, qualora (Cass. sez. III, 15/12/2004 n. 48118), comprenda alberi di medio fusto o essenze arbustive ad elevato sviluppo (macchia alta) o in un'accezione ancora più estensiva (Cass. sez. III, 16/11/2006 – 23/01/2007 n. 1874, per cui "deve qualificarsi come bosco, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 18.05.2001 n. 227, ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un'estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento") di recente pervenuta anche a ritenere tutelata quale area boschiva pure la macchia mediterranea caratterizzata dall'assenza di alberi d'alto fusto (Cass. sez. III, 20/07/2011 n. 28928).
INCENDI BOSCHIVI – Strumenti urbanistici vigenti prima dell'incendio - Concetto di prevedibilità Art. 4, c. 173, L. n. 350/2003 – L. n. 353/2000 Legge quadro in materia di incendi boschivi - Art. 44, c. 1, lett. c), d.p.r. n. 380/2001.
L’articolo 4, comma 173, L. n. 350/2003, (che modifica la L. n. 353/2000 - Legge quadro in materia di incendi boschivi) ha escluso che sia sufficiente la compatibilità delle opere (che, seppur con una intensità semantica minore, può assimilarsi al concetto di prevedibilità) con gli strumenti urbanistici vigenti prima dell'incendio per integrare l'eccezione all'inedificabilità dettata dall'articolo 10, occorrendo che l'area sia già stata riservata dallo strumento urbanistico alla realizzazione delle opere stesse (Cass. sez. III, 28.03.2011 n. 16592) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2013 n. 32807 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico”).
Tuttavia è doveroso farsi carico anche della persistente obiezione, articolata nel mezzo di gravame, secondo la quale sarebbe errato affermare che il detto Fosso, pur costituendo diramazione del Canale Palocco, sarebbe vincolato: ciò in quanto soltanto il secondo sarebbe iscritto nell’elenco dei canali sottoposti a vincolo ex RD n. 1775/1993.
L’unico elemento a suffragio di tale tesi riposa in una interpretazione deduttiva secondo cui, posto che il corso del Canale Palocco assumeva tre denominazioni, sebbene il vincolo fosse stato imposto sull’intero Canale(tale circostanza non è contestata) esso non poteva essere esteso -in assenza di specifica apposizione sul Fosso allacciante Palocco– a quest’ultimo.
La detta tesi appare apodittica e priva di spessore probatorio, anche allorché si spinge a negare che il Fosso allacciante Palocco costituisca diramazione del Canale Palocco in quanto è quest’ultimo che origina dal primo.
Di certo v’è che il Canale Palocco è stato sempre unitariamente considerato, ed è il tratto di maggiore importanza: che poi i singoli corsi d’acqua assumano, diverse denominazioni non può rilevare in punto di sussistenza del vincolo stesso: peraltro il PTP ha sottoposto a vincolo il Canale Palocco con tutte le sue diramazioni (termine atecnico per individuare un corso d’acqua che comunque si mantiene “unico” e che, quindi, non esclude ma semmai ricomprende il punto di origine dello stesso) di guisa che la censura appare priva di spessore.
Peraltro neppure appare chiaro il motivo per cui soltanto tale parte del corso del Canale avrebbe dovuto essere sottratta al vincolo imposto sull’intero corso d’acqua.
Assume natura troncante, poi, ai fini della reiezione della censura la circostanza –già espressa dal primo giudice- secondo la quale nella deliberazione della G.R. del Lazio del 22/02/2002 n. 211, contenente la “Ricognizione e graficizzazione, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della L.R. 24/1998 del vincolo paesistico delle fasce di protezione dei corsi d’acqua pubblica di cui all’art. 146, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 490/1999 e art. 7, commi 1 e 2, della L.R. 24/1998”, il Canale Palocco era ricompreso nell’elenco delle acque pubbliche (pag. 242 del Supplemento ordinario n. 1 al Bollettino Ufficiale n. 18 in data 29/06/2002) e, soprattutto, era individuato nelle cartografie con un unico codice che copre l’intero tracciato dal canale comprensivo anche della parte in contestazione.
La unicità del codice utilizzato per descrivere l’intero corso d’acqua, e la circostanza che tale cartografia faccia riferimento anche al Fosso allacciante Palocco esclude la fondatezza della censura; la circostanza rappresentata nella perizia giurata datata 20.12.2012 depositata nell’ambito dell’appello n. 5896/2009, limitandosi a ribadire che nell’area insistono numerose costruzioni a distanza di meno di 50 metri dal Fosso e che la predetta area nella planimetria allegata al PTPR non è tratteggiata obliquamente non apporta elementi decisivi a smentire il vincolo insistente sul Fosso medesimo (qual parte del Canale Palocco).
Come segnalato infine dalla difesa dell’appellata amministrazione comunale nella propria memoria, le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico” -Trib. Sup. Acque, 02-07-2003, n. 97).
In carenza di alcun provvedimento specifico ed espresso di esclusione del vincolo, poi, non possono trovare ingresso le obiezioni (in relazione al disposto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale del Lazio n. 24/1998) fondate sulla asserita urbanizzazione dell’area che peraltro risulta classificata quale zona agricola l’esclusione dal vincolo riguarda le sole zone urbane perimetrate –e quindi non certamente quella in questione, classificata come zona agricola– mentre le asserzioni relative a supposte concessioni in sanatoria in passato rilasciate sull’area per costruzioni realizzate in spregio della fascia di rispetto nulla provano, non potendo neppure la riscontrata sussistenza di un provvedimento illegittimo eventualmente in passato emesso costituire il presupposto per la reiterazione dell’errore ma, semmai, occasione per la eventuale revoca proprio di quelli illegittimamente rilasciati (si veda sul punto la consolidata produzione giurisprudenziale in punto di assenza del vizio di disparità di trattamento quanto al diniego di condono sebbene in presenza di concessioni in sanatoria in passato illegittimamente rilasciate nella stessa area ove insisteva l’immobile oggetto di diniego)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La proroga di un atto può essere legittimamente disposta solo quando il termine di efficacia dello stesso non sia ancora scaduto, e non abbia diversamente inciso in maniera determinante e sostanziale sulle posizioni soggettive dei destinatari.
Il Collegio, pur non potendo fare a meno di rilevare che effettivamente il percorso seguito dall’Amministrazione presti il fianco a critiche, non ritiene che le doglianze di parte appellante possano spiegare rilievo decisivo per affermare la illegittimità degli atti gravati.
Esse, sostanzialmente, muovono da un punto di partenza (esposto nell’ultimo motivo del gravame) che coincide con la risalente e condivisa affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui “la proroga di un atto può essere legittimamente disposta solo quando il termine di efficacia dello stesso non sia ancora scaduto, e non abbia diversamente inciso in maniera determinante e sostanziale sulle posizioni soggettive dei destinatari” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 29.07.2008, n. 3768)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: L'Accordo Programma ex art. 34 T.U. n. 267 del 2000, come è noto, rappresenta un duttile strumento di azione amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario svolgimento richiederebbe l'espletamento di più subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti.
Quanto al caso specifico, l'accordo di programma è una ipotesi di urbanistica negoziata, un tipo specifico di accordo tra Pubbliche Amministrazioni, quale istituto finalizzato alla definizione, attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o altri soggetti pubblici.
La duttilità dello strumento implica, ad avviso della giurisprudenza, che lo stesso possa essere utilizzato anche in ipotesi diverse: si è detto in proposito infatti che “il ricorso al procedimento in oggetto, conosciuto come una delle ipotesi di urbanistica contrattata, non può ritenersi illegittimo qualora si pervenga all'approvazione di una variante per realizzare, non già un'opera pubblica, bensì un'opera richiesta da soggetti privati, su aree di proprietà privata e per finalità private“.
Secondo la pacifica giurisprudenza della Sezione, dalla quale il Collegio non intende discostarsi “quando il perseguimento dell'interesse pubblico inerente al recupero urbano sia realizzato non attraverso l'adozione di singoli provvedimenti autoritativi da parte delle diverse amministrazioni che hanno attribuzione nella materia, ma avvalendosi dello strumento dell'accordo di programma, trovano applicazione i principi enunciati dall'art. 11, comma secondo, della legge n. 241 del 1990, che prevedono l'applicazione agli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento dei principi del codice civile in materia di obbligazioni in quanto compatibili".
Si è detto più di recente, in particolare, che “nell'ambito dell'accordo di programma trovano applicazione i principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, sicché l'interpretazione delle clausole dubbie va fatta facendo applicazione dei principi ermeneutici contenuti nell'art. 1362 e segg. c.c.“.
Ovviamente il richiamo ai principi del codice civile in materia di obbligazioni non può intendersi limitato alle disposizioni in materia di interpretazione del negozio giuridico (artt. 1362-1371 cc) ma coincidono con tutte quelle disposizioni che possono ritenersi espressive di principi più generali che permeano di sé il rapporto obbligatorio.
Tra esse, si rinviene certamente la disposizione di cui all’art. 1457del codice civile (“Termine essenziale per una delle parti. Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni.
In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”) in quanto precetto di portata contenutistica ampia che trasla il proprio contenuto su molteplici ulteriori previsioni codicistiche (cc 1184, 1326, 1174, 1322, 1379, 1464, 1454, 1456, 1458, 1901).
Da tale disposizione secondo avveduta giurisprudenza civilistica deve trarsi il principio generale della concedibilità della proroga anche nell’ipotesi di clausola che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso di mancata prestazione entro il termine pattuito purché la proroga stessa venga concessa dalla parte nel cui interesse il termine era stato pattuito.
Addirittura, è stato a più riprese affermato che la reiterata concessione di una proroga può financo valere ad escludere, in via ermeneutica, la essenzialità del termine stabilito negozialmente, a dispetto delle espressioni perentorie contenute nel negozio (“entro e non oltre” etc.).

Sennonché, la prospettiva da cui avrebbe dovuto muovere parte appellante non è quella (o meglio, non è esclusivamente quella) della possibile patologia attingente l’atto amministrativo.
Invero la tesi appellatoria oblia che ci si trova al cospetto di un Accordo di Programma disciplinato in ambito statale dall'art. 34 T.U. n. 267 del 2000; quest’ultimo, come è noto rappresenta un duttile strumento di azione amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario svolgimento richiederebbe l'espletamento di più subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti. Quanto al caso specifico, l'accordo di programma è una ipotesi di urbanistica negoziata, un tipo specifico di accordo tra Pubbliche Amministrazioni, quale istituto finalizzato alla definizione, attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o altri soggetti pubblici.
La duttilità dello strumento implica, ad avviso della giurisprudenza, che lo stesso possa essere utilizzato anche in ipotesi diverse: si è detto in proposito infatti che “il ricorso al procedimento in oggetto, conosciuto come una delle ipotesi di urbanistica contrattata, non può ritenersi illegittimo qualora si pervenga all'approvazione di una variante per realizzare, non già un'opera pubblica, bensì un'opera richiesta da soggetti privati, su aree di proprietà privata e per finalità private“ (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 3757 del 29.07.2008).
Secondo la pacifica giurisprudenza della Sezione, dalla quale il Collegio non intende discostarsi “quando il perseguimento dell'interesse pubblico inerente al recupero urbano sia realizzato non attraverso l'adozione di singoli provvedimenti autoritativi da parte delle diverse amministrazioni che hanno attribuzione nella materia, ma avvalendosi dello strumento dell'accordo di programma, trovano applicazione i principi enunciati dall'art. 11, comma secondo, della legge n. 241 del 1990, che prevedono l'applicazione agli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento dei principi del codice civile in materia di obbligazioni in quanto compatibili" (Cons. Stato Sez. IV, 17.05.2010, n. 3129).
Si è detto più di recente, in particolare, che “nell'ambito dell'accordo di programma trovano applicazione i principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, sicché l'interpretazione delle clausole dubbie va fatta facendo applicazione dei principi ermeneutici contenuti nell'art. 1362 e segg. c.c.“ (Cons. Stato Sez. V, 19.10.2011, n. 5627).
Ovviamente il richiamo ai principi del codice civile in materia di obbligazioni non può intendersi limitato alle disposizioni in materia di interpretazione del negozio giuridico (artt. 1362-1371 cc) ma coincidono con tutte quelle disposizioni che possono ritenersi espressive di principi più generali che permeano di sé il rapporto obbligatorio.
Tra esse, si rinviene certamente la disposizione di cui all’art. 1457del codice civile (“Termine essenziale per una delle parti. Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni.
In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione
”) in quanto precetto di portata contenutistica ampia che trasla il proprio contenuto su molteplici ulteriori previsioni codicistiche (cc 1184, 1326, 1174, 1322, 1379, 1464, 1454, 1456, 1458, 1901).
Da tale disposizione secondo avveduta giurisprudenza civilistica deve trarsi il principio generale della concedibilità della proroga anche nell’ipotesi di clausola che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso di mancata prestazione entro il termine pattuito (Cassazione Civile, Sez. II, sent. n. 4226 del 07.05.1987) purché la proroga stessa venga concessa dalla parte nel cui interesse il termine era stato pattuito.
Addirittura, è stato a più riprese affermato (Cassazione civile Sez. II, sent. n. 1674 del 16.02.1995, Cassazione civile Sez. II, sent. n. 3293 del 14.07.1989) che la reiterata concessione di una proroga può financo valere ad escludere, in via ermeneutica, la essenzialità del termine stabilito negozialmente, a dispetto delle espressioni perentorie contenute nel negozio (“entro e non oltre” etc.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti. Infatti, l’assunzione a carico del proprietario degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria -cui a norma del comma 5 n. 2 dell’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765, è subordinata l’autorizzazione per la lottizzazione– costituisce, secondo il comma 7 dell’art. 8, una obbligazione propter rem.
La Sezione ha evidenziato che “La Corte di cassazione ha sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario. La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa”.
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L’art. 16 della legge 28.1.1977 n. 10, ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame, prevedeva che: “I ricorsi giurisdizionali contro il provvedimento con il quale la concessione viene data o negata nonché contro la determinazione e la liquidazione del contributo e delle sanzioni previste dagli artt. 15 e 18 sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali…”.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha da tempo precisato che tale disposizione, affidando alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale non soltanto i ricorsi contro il provvedimento che accorda o nega la concessione edilizia, ma anche quelli che investono la determinazione e liquidazione del contributo a carico del beneficiario della concessione stessa, nonché l'irrogazione delle sanzioni, introduce un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del predetto giudice amministrativo che, pertanto, pure in materia di quantificazione del contributo, non può trovare deroghe in favore della giurisdizione del giudice ordinario.
Tale orientamento è stato recentemente ribadito dal giudice del riparto il quale, dopo aver confermato che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia, nella quale sono compresi la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, inclusa, altresì, la materia relativa alla determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione e relative sanzioni, ha precisato che la cognizione della controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva di quest’ultimo anche quando attiene alla richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni.
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Nel sistema risultante dal combinato disposto dell’art. 28, quarto comma n. 1), della legge 17.08.1942, n. 1150 e dagli artt. 3 e 5 della legge 28.01.1977, n. 10, non è rinvenibile un principio che dia titolo al soggetto che ha stipulato una convenzione urbanistica con il Comune di non corrispondere al medesimo (in denaro, in aree cedute o in opere di urbanizzazione realizzate), beni di valore complessivamente superiore a quanto dovuto per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi dell’art. 10 della legge n. 10 del 1977 e, conseguentemente, in virtù della convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che queste possano eccedere originariamente o successivamente gli oneri di urbanizzazione.
Le convenzioni hanno infatti lo scopo di precisare gli obblighi che il privato si assume unilateralmente, in adempimento di un precetto di legge ed in conformità agli strumenti urbanistici, senza che si instauri alcun vincolo di sinallagmaticità.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- (quanto al ric. originario) dell’ordinanza-ingiunzione n. 10675 del 04.08.2000, con cui il Responsabile del Servizio tecnico del Comune di Asola ha richiesto il pagamento di £. 15.181.974 in relazione all’esecuzione dei lavori di completamento delle opere di urbanizzazione in via Bellini, nonché degli atti tutti comunque collegati e non noti e in particolare della delibera 218/98 del consiglio e del piano di riparto spese in data non nota;
...
Il ricorso non è fondato.
L’art. 28 della L. 17.08.1942 n. 1150, in tema di lottizzazione, prevede -al quinto comma (come modificato dall’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765)- l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi.
Come s’è visto, la convenzione di lottizzazione stipulata dai danti causa del ricorrente, al p. 5, prevedeva l’obbligo, per i lottizzanti e per i loro “aventi diritto a qualsiasi titolo” di “assumere gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria…”.
Invero, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (cfr. già Cons. St., Sez. V, 17.11.1997 n. 1471). Infatti, l’assunzione a carico del proprietario degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria -cui a norma del comma 5 n. 2 dell’art. 8 della L. 06.08.1967 n. 765, è subordinata l’autorizzazione per la lottizzazione– costituisce, secondo il comma 7 dell’art. 8, una obbligazione propter rem (cfr. Cass. Sez. 1° 20.12.1994 n. 10947).
La Sezione (cfr. la sentenza n. 1157 del 13.08.2003) ha evidenziato che “La Corte di cassazione ha sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia (Cfr. Cass. Civ. Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. Civ., Sez. II, 26.11.1988 n. 6382); ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario (Cfr. Cass. civile Sez. III, 17.06.1996, n. 5541).
La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (da ultimo Cass. civile, Sez. II, 27.08.2002, n. 12571)
”.
Per quanto riguarda la doglianza, introdotta in via subordinata dal ricorrente, di mancato scomputo dalla somma richiesta dell’importo relativo alle opere realizzate dai lottizzanti, va osservato quanto segue.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa del Comune, per l’omessa tempestiva impugnativa della nota n. 4066 del 23.03.2000 del Responsabile del Servizio, con la quale venne respinta la richiesta in tal senso avanzata dal Rossi, non versandosi in un’ipotesi di giudizio impugnatorio, ma sul rapporto.
Invero, ancorché il ricorso risulti proposto nella forma impugnatoria, è stato nella sostanza introdotto un giudizio di accertamento riguardo alla debenza della somma richiesta dal Comune in relazione alla realizzazione di opere di urbanizzazione afferenti a PL, come tale riconducibile alla giurisdizione esclusiva del G.A.
Va ricordato (cfr. TAR Sardegna Sez. 2° 17.06.2008 n. 1212) che l’art. 16 della legge 28.1.1977 n. 10, ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame, prevedeva che: “I ricorsi giurisdizionali contro il provvedimento con il quale la concessione viene data o negata nonché contro la determinazione e la liquidazione del contributo e delle sanzioni previste dagli artt. 15 e 18 sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali…”. La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha da tempo precisato che tale disposizione, affidando alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale non soltanto i ricorsi contro il provvedimento che accorda o nega la concessione edilizia, ma anche quelli che investono la determinazione e liquidazione del contributo a carico del beneficiario della concessione stessa, nonché l'irrogazione delle sanzioni, introduce un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del predetto giudice amministrativo che, pertanto, pure in materia di quantificazione del contributo, non può trovare deroghe in favore della giurisdizione del giudice ordinario.
Tale orientamento è stato recentemente ribadito dal giudice del riparto il quale, dopo aver confermato che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia, nella quale sono compresi la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, inclusa, altresì, la materia relativa alla determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione e relative sanzioni, ha precisato che la cognizione della controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva di quest’ultimo anche quando attiene alla richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni (cfr: Cass. Civ., SS.UU., 20.10.2006 n. 22514).
Nel merito la richiesta non è però fondata.
Innanzi tutto va rilevato che, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, gli originari lottizzanti non hanno versato somme per oneri di urbanizzazione, essendosi impegnati nei confronti del Comune alla realizzazione diretta delle stesse.
In ogni caso va rilevato (cfr. TAR Brescia 25.07.2005 n. 784) che nel sistema risultante dal combinato disposto dell’art. 28, quarto comma n. 1), della legge 17.08.1942, n. 1150 e dagli artt. 3 e 5 della legge 28.01.1977, n. 10, non è rinvenibile un principio che dia titolo al soggetto che ha stipulato una convenzione urbanistica con il Comune di non corrispondere al medesimo (in denaro, in aree cedute o in opere di urbanizzazione realizzate), beni di valore complessivamente superiore a quanto dovuto per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi dell’art. 10 della legge n. 10 del 1977 (cfr. Cons. St., Sez. V, 10.06.1998 n. 807, con riferimento a convenzione di lottizzazione; Tar Lombardia, Milano, 10.5.2000 n. 3180; id. 25.01.2001 n. 4523) e, conseguentemente, in virtù della convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che queste possano eccedere originariamente o successivamente gli oneri di urbanizzazione (cfr. Cons. St., Sez. V, 10.01.2003 n. 33). Le convenzioni hanno infatti lo scopo di precisare gli obblighi che il privato si assume unilateralmente, in adempimento di un precetto di legge ed in conformità agli strumenti urbanistici, senza che si instauri alcun vincolo di sinallagmaticità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.01.2010 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa cartella esattoriale costituisce uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale e non possiede alcuna autonomia. Pertanto deve essere impugnata dinanzi al giudice competente a decidere in ordine al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a nulla valendo che l'atto non contenga una puntuale indicazione della fonte del credito fatto valere.
In particolare, la cognizione della controversia attinente la richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 16 l. 28.01.1977 n. 10.

Può quindi passarsi alla disamina del ricorso per motivi aggiunti con il quale il ricorrente ha impugnato la cartella esattoriale notificatagli da Equitalia Nomos in data 10.07.2009, con la quale viene richiesto il pagamento di € 10.088,10.
Va respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevato, con la memoria depositata in data 03.12.2009, dalla difesa dell’Amministrazione.
Invero, la cartella esattoriale costituisce uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale e non possiede alcuna autonomia. Pertanto deve essere impugnata dinanzi al giudice competente a decidere in ordine al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a nulla valendo che l'atto non contenga una puntuale indicazione della fonte del credito fatto valere (cfr. Cons. giust. amm. 14.09.2009 n. 790, TAR Lazio sez. II 26.06.2009 n. 6253 e Cass. SS. UU. 08.02.2008 n. 3001).
In particolare, la cognizione della controversia attinente la richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 16 l. 28.01.1977 n. 10 (cfr. Cass. Civ., SS. UU., 20.10.2006 n. 22514) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.01.2010 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 15.10.2013

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Parere del Ministero dell'Interno. Diritto di accesso da parte dei Consiglieri comunali (Prefettura di Napoli, nota 24.09.2013 n. 57193 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: BADIA POLESINE (Rovigo) Cimitero monumentale, sito in via Migliorini snc catastalmente distinto al C.T. foglio BP 9, particella A e Cimitero di Crocetta, sito in via Ca' Giovanelli snc, catastalmente distinto al foglio 3, particella A, di proprietà del Comune di Badia Polesine (Rovigo) - Decreti dirigenziali generali 20.09.2010 e 16.03.2011) - QUESITO (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 23.09.2013 n. 16515 di prot.).
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Le questioni sottoposte all'attenzione di questa Direzione regionale, come esposte ai punti da 1 a 6 del succitato quesito, possono essere riassunte come segue:
se le attività di scavo necessarie all'inumazione o all'esumazione di cui al vigente regolamento di polizia mortuaria, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1990, n. 285, soggiacciano o meno alle disposizioni di cui agli articoli 20, comma 1, e 21, commi 1, lettera a), e 4 del succitato decreto legislativo 42/2004 (1), concernenti, rispettivamente, gli Interventi vietati e gli Interventi soggetti ad autorizzazione. In proposito codesto Comune assume che i campi di inumazione dei siti cimiteriali in oggetto, ancorché ricompresi nel perimetro dell'immobile identificato dal provvedimento dichiarativo, non siano sottoposti alla tutela codicistica di cui alle nonne sopraccitate, "trattandosi di pura terra" (2), e che, nella generalità dei casi, le predette attività di scavo, ad effettuarsi nei campi di inumazione di cui al capo XIV del citato DPR 285/1990, debbano ritenersi comunque sottratte all'obbligo della previa autorizzazione di cui al citato art. 21 del decreto legislativo 42/2004, "in quanto vi è l'obbligo legale di alternare le inumazioni e le  esumazioni con cadenza decennale" (3), rilevando altresì, a sostegno di tale affermazione, che tali campi non sarebbero menzionati, unitamente agli arredi votivi delle sepolture, nei citati provvedimenti dichiarativi del loro interesse culturale (4);
se gli arredi votivi di cui al precedente punto f, laddove rivestano interesse culturale ed appartengano a soggetti diversi da quelli indicati all'art. 10, comma 1, del decreto legislativo n. 4212004, debbano essere destinatari, ai fini del loro assoggettamento alla tutela codicistica, di un provvedimento dichiarativo espresso, da emanarsi ai sensi del combinato disposto dall'art. 10, comma 3, lettera a) e 13, comma 1, del medesimo decreto legislativo (5 e 6). ...

ENTI LOCALI: Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 14, commi da 25 a 31-quater, della legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012 (Prefettura di Avellino, nota 11.09.2013 n. 1256 di prot.).

TRIBUTI: OGGETTO: Conegliano (Treviso) - Immobili dichiarati di interesse culturale ai sensi della legge 20.06.1909 n. 364 - Richieste di rimborso ICI ovvero IMU - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 31.07.2013 n. 13764 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Art. 13 del CCNL  del 09.05.2006. Attribuzione del buono pasto al personale di polizia municipale. Circolare (Prefettura di Napoli, nota 11.07.2013 n. 42911 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: possibilità assunzionali (Prefettura di Napoli, nota 05.07.2013 n. 42257 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Tutela paesaggistica - Autorizzazione alla realizzazione di un parco eolico. Sentenza del Consiglio di Stato, sezione VI, 15.01.2013 n. 220 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 04.07.2013 n. 23/2013).

ENTI LOCALI: Oggetto: D.M. 13.12.2012. Modifiche e integrazioni al D.M. 18.05.2007 recante "norme di sicurezza per le attività di spettacolo viaggiante". Chiarimenti e indirizzi applicativi (Prefettura di Napoli, nota 20.06.2013 n. 38459 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Procedimento per il rilascio dell'autorizzazione unica alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili di cui all'art. 12, comma 3, del d.lgs. 29.12.2003 n. 387 - Partecipazione del Ministero per i beni e le attività culturali di cui al paragrafo 14 delle "Linee guida" emanate dal Ministero dello sviluppo economico con decreto 10.09.2010 - Istanza di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 31.05.2013 n. 9911 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Parere dell'Ufficio legislativo prot. 5097 del 20.03.2012 e circolare della Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee n. 11 (prot. 11533) del 18.04.2012 - Rinvenimenti di cose mobili o immobili nel sottosuolo - D.lgs. 22.01.2004, n. 42 - Verifica dell'interesse culturale di cui all'articolo 12 - Circolare della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto n. 46/2012 del 14.11.2012 (prot. 21007) - PRECISAZIONI (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 10.04.2013 n. 14/2013).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 25.03.2013 n. 10/2013).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: San Martino Buon Albergo (Verona) - Titoli abilitativi adottati in carenza di presupposta autorizzazione paesaggistica - errata interpretazione di un vincolo paesaggistico di natura provvedimentale - quesito (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 13.03.2013 n. 4157 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: competenza delle commissioni di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo. Verifiche sui locali con capienza pari o superiore a 200 persone - Intervenuta abrogazione dell'art. 124, c. 2, Reg. TULPS - Quesito (Prefettura di Napoli, nota 12.03.2013 n. 14848 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: D.P.R. 09.07.2010, n. 139, "Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma del'art. 146, comma 9, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, e successive modificazioni" - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 24.01.2013 n. 1754 di prot.).
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... codesta Provincia chiedeva alla scrivente di esprimere il proprio parere sulla corretta interpretazione di alcune delle disposizioni recate dal regolamento in oggetto, con particolare riferimento a quelle relative ai punti dell'unito allegato I, che escludono l'applicabilità del procedimento semplificato per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ai beni di cui all'art. 136, comma 1, lettere a), b) e c), del d.lgs. 42/2004 ogniqualvolta il provvedimento dichiarativo del loro notevole interesse pubblico non rechi riferimento ad una o più delle lettere suddette. ...

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Validità temporale (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 22.01.2013 n. 3/2013).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: JESOLO (Venezia) - Titoli abilitativi adottati in carenza di presupposta autorizzazione paesaggistica per errata applicazione dell'art. 142, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 27.11.2012 n. 21812 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Parere dell'Ufficio legislativo prot. 5097 del 20.03.2012 e circolare della Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee n. 11 (prot. 11533) del 18.04.2012 - Rinvenimenti di cose mobili o immobili nel sottosuolo - D.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Verifica dell'interesse culturale di cui all'articolo 12 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare  14.11.2012 n. 46/2012).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 167, comma 4 - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 06.09.2012 n. 16464 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, art. 142, comma 1, lett. g) - Quesito (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 23.08.2012 n. 15642 di prot.).

URBANISTICAOggetto: Valutazione Ambientale Strategica (VAS) di competenza regionale di cui al d.lgs. 03.04.2006 n. 152 - Indicazioni procedurali (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 14.05.2012 n. 26/2012).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: D.lgs. 22.01.2004 n. 42 - Interventi vietati ai sensi dell'art. 20, comma 1 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza n. 42065/2011 del 29.09.2011 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 08.05.2012 n. 25/2012).

COMPETENZE PROGETTUALIOGGETTO: Competenze professionali Affidamento di incarichi tecnici ad ingegneri e architetti su beni sottoposti alla tutela di cui al Codice dei beni culturali (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 17.04.2012 n. 22/2012).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: Affidamento incarichi tecnici per ingegneri e architetti su beni sottoposti a tutela - Richiesta parere di cui alla nota 2019/07.04.00/4 del 28.02.2012 - Parere di competenza (MIBAC, nota 03.04.2012 n. 9974 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, circolare 20.02.2012 n. 11/2012).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.P.C.M. 12.12.2005 recante "Individuazione della documentazione necessaria alla verifica di compatibilità paesaggistica degli interventi proposti, ai sensi dell'art. 146, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42 - QUESITO" (MIBAC, nota 12.01.2012 n. 1123 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: OGGETTO: COMPETENZE PROFESSIONALI - TAR Veneto, Sez. II, sentenza 31.10.2007 n. 3630 - DIRETTIVA (MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto, nota 29.04.2008 n. 5407 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Agenzia delle Entrate - richiesta di pagamento per le stime rese ai sensi del D.P.R. 380/2001 - legittimità richiesta compenso e riflessi contabili – semplici riflessioni in merito (13.10.2013 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

APPALTI: E. Gregoraci, La (ir)rilevanza di precedenti esperienze analoghe nell’aggiudicazione di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture - Nota a sentenza del Consiglio di Stato, n. 4405 del 04.09.2013 (10.10.2013 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. G. Fumarola, Diritto di accesso agli atti e interesse alla richiesta (09.10.2013 - link a www.filodiritto.com).

APPALTI: F. Manganaro, Esclusione dalle gare di appalto per violazioni tributarie definitivamente accertate (Urbanistica e appalti n. 10/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

SICUREZZA LAVORO: P. Gremigni, FOCUS decreto del "fare" - Le nuove norme su lavoro e sicurezza (Consulente Immobiliare n. 937/2013).

APPALTI: B. De Rosa, FOCUS decreto del "fare" - Le novità per gli appalti pubblici (Consulente Immobiliare n. 937/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: C. Colombo, FOCUS decreto del "fare" - Il ritorno della mediazione obbligatoria (Consulente Immobiliare n. 937/2013).

EDILIZIA PRIVATA: I. Meo e A. Pesce, FOCUS decreto del "fare" - Al via nuove norme di semplificazione edilizia (Consulente Immobiliare n. 937/2013).

APPALTI: E. Mariotti, Transazioni commerciali: i ritardi nei pagamenti (Consulente Immobiliare n. 936/2013).

APPALTI: M. G. Vivarelli, L'avvalimento (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G. Musolino, La progettazione nell'appalto pubblico e nell'appalto privato (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 2/2013).

CORTE DEI CONTI

URBANISTICA: Convenzioni. Condannata la Giunta. I costi dei privati non vanno trasferiti.
I Comuni devono porre grande attenzione alla puntuale esecuzione degli obblighi previsti nelle convenzioni urbanistiche.

La Corte dei conti della Lombardia (sentenza 25.07.2013 n. 198) ha duramente sanzionato il trasferimento sulle finanze comunali del costo di opere in origine a carico di operatori privati nell'ambito delle convenzioni.
Con delibere di giunta, previo parere positivo del responsabile del servizio, è stata posta a carico del bilancio comunale la spesa per l'esecuzione di plessi scolastici che, in base a precedenti convenzioni stipulate in attuazione di due programmi integrati di intervento (Pii), andavano eseguite dai privati senza oneri per l'ente. I Pii sono uno strumento urbanistico con cui i Comuni riqualificano il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale (articolo 87 l.r. Lombardia 12/2005). I privati possono proporre i Piani e, con le convenzioni attuative, possono essere posti a loro carico oneri come l'esecuzione di opere pubbliche. Nel caso, le convenzioni utilizzavano in modo esplicito l'espressione «chiavi in mano», che descrive un contratto in cui una parte si obbliga a fornire all'altra un'opera completa e pronta per l'uso (obbligazione di risultato), restando a carico del fornitore dell'opera il rischio che il costo sia superiore a quello preventivato.
Dopo l'approvazione dei progetti esecutivi, alcune delibere hanno trasferito sul Comune la realizzazione di alcune opere, con assunzione di mutui. La Giunta ha manifestato l'impegno a eseguire le opere di completamento dei plessi scolastici, approvando le spese, affermando che le opere non rientravano negli obblighi convenzionali. Le delibere hanno costituito la base per la contrazione dei mutui e l'affidamento dei lavori, avendo un ruolo decisivo nella produzione del danno
Le modifiche introdotte dall'ente al rapporto con i privati sono state ritenute dalla Corte del tutto illegittime e fonte di danno erariale e responsabilità amministrativa, poiché produttive di spese non dovute quali il costo delle opere e gli interessi pagati sui mutui contratti. I soggetti chiamati a risponderne, in quote uguali, sono stati il sindaco, i componenti della giunta e il responsabile del servizio che ha espresso parere favorevole, previa diminuzione del danno della parte (20%) teoricamente da porre in capo al segretario comunale (non citato dalla Procura), che sarebbe dovuto intervenire per segnalare l'illegittimità dei provvedimenti, data la natura essenzialmente giuridica della questione (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2013).

QUESITI & PARERI

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Tso, decide il commissario. Se l'amministrazione comunale è stata sciolta. Nelle regioni autonome può essere prevista una normativa ad hoc.
Qual è l'organo competente ad adottare l'ordinanza relativa al procedimento amministrativo di trattamento sanitario obbligatorio, in assenza del Commissario straordinario incaricato della temporanea gestione di un comune ricompreso nel territorio di una regione a statuto speciale?
L'art. 34 della legge 23.12.1978, n. 833, attribuisce al sindaco la competenza ad adottare le ordinanze in materia di trattamento sanitario obbligatorio, entro 48 ore dalla convalida della proposta da parte di un medico della unità sanitaria locale.
Nel caso di specie, poiché il comune è sottoposto a gestione commissariale e non è prevista dalla specifica normativa della regione autonoma, in materia di scioglimento degli organi, la nomina di vice o sub commissari, la competenza all'adozione del provvedimento in argomento, spetta in via esclusiva al commissario straordinario incaricato della gestione dell'ente (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi consiliari.
Se le disposizioni regolamentari di un comune consentono la costituzione di gruppi consiliari unipersonali, il sindaco, eletto in una lista, può costituire e fare parte di un nuovo gruppo consiliare?

La disciplina della materia relativa alla costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa riconosciuta, in particolare, dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica delle predette norme.
Tuttavia, l'attività interpretativa non può essere disgiunta dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere utilizzate, a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Nel caso di specie, occorre tenere presente che la candidatura del sindaco, per espressa previsione contenuta nell'art. 71 del Tuel n. 267/2000, non è compresa ma «è collegata alla lista di candidati alla carica di consigliere comunale», unitamente alla quale è presentato il relativo nominativo del candidato.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 Tuel, ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Infatti, va ricordato che nel sistema delle autonomie il sindaco e il consiglio comunale, di cui i gruppi consiliari sono organismi strumentali e funzionali, svolgono ruoli distinti; il primo, di organo responsabile dell'amministrazione dell'ente, il secondo, di organo di indirizzo e controllo dell'operato del sindaco e della giunta, con le specifiche competenze declinate dall'art. 42 del Tuel.
Per lo svolgimento di tali attribuzioni il consiglio si avvale dei gruppi consiliari che rappresentano la proiezione dei partiti politici all'interno dell'ente e supportano e sviluppano quell'azione di indirizzo e controllo svolta dall'organo consiliare.
Ne deriva che l'iscrizione del sindaco a un gruppo, e a maggior ragione la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco, può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell'ente.
Tale sbilanciamento può influire anche sull'esercizio del fondamentale diritto di iniziativa, nonché sull'attività di sindacato ispettivo dei consiglieri, ovvero, in casi estremi, venendo meno il rapporto fiduciario, sulla presentazione della mozione di sfiducia del sindaco (art. 52 del dlgs n. 267/2000) (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

NEWS

VARIAssicurazioni, vicino l'addio al constrassegno.
Via libera alla progressiva sostituzione o integrazione entro due anni del contrassegno assicurativo rc auto cartaceo con un sistema elettronico dotato di microchip. E per i trasgressori saranno guai grossi anche con l'ausilio di vigili elettronici ad hoc.

Sono queste alcune delle novità in materia stradale che diventeranno operative nei prossimi mesi a seguito dell'attesa divulgazione del decreto del ministro per lo sviluppo economico 09.08.2013, n. 110, pubblicato sulla gazzetta ufficiale di ieri.
La legge di conversione 27/2012 ha confermato le norme del decreto legge n. 1/2012 che prevedono la progressiva messa in soffitta del contrassegno assicurativo cartaceo sostituendolo o integrandolo con un microchip da applicare nel veicolo. Il ministro dello sviluppo economico, di concerto con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentito l'Isvap, ha finalmente emanato l'atteso regolamento per la progressiva dematerializzazione dei contrassegni, prevedendo la loro sostituzione con sistemi elettronici o telematici (entro due anni dall'entrata in vigore del regolamento) e la possibilità di utilizzare per i controlli i dispositivi o mezzi tecnici in dotazione alla polizia stradale per il rilevamento a distanza delle violazioni del codice della strada.
Il provvedimento approdato ieri in gazzetta (G.U. n. 232 del 03/10/2013) in pratica dà il via libera a un efficace contrasto dei furbetti del tagliandino assicurativo e permetterà, a regime, di avviare controlli elettronici automatici a distanza sul diffuso fenomeno della mancata copertura assicurativa. In buona sostanza i dispositivi omologati per il controllo del traffico potranno essere abilitati anche a verificare la regolarità della copertura assicurativa degli automobilisti interfacciandosi con la banda dati creata ad hoc dal ministero dei trasporti. Tutti queste innovazioni entreranno a regime progressivamente.
In particolare entro 18 mesi dall'entrata in vigore del regolamento la motorizzazione renderà operativa la banca dati collegata ai vigili elettronici per le multe. Mentre per la messa a regime dell'intero processo di dematerializzazione sono previsti 24 mesi (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

EDILIZIA PRIVATABonus 65%, conta la sismicità. Sì all'agevolazione a prescindere dall'evento calamitoso. Pochi limiti alla detrazione per le ristrutturazioni: irrilevante la presenza effettiva di danni
Sì alla detrazione del 65% per gli interventi di ristrutturazione, che il terremoto ci sia stato oppure no, purché le costruzioni, abitative o produttive, si trovino in aree sismiche.

Con la conversione in legge del dl n. 63/2013 (legge n. 90/2013) è stato inserito il comma 1-bis, all'art. 16, in base al quale è possibile fruire della detrazione del 65% delle spese sostenute, fino al prossimo 31 dicembre, per l'adozione di misure antisismiche (solo per quelle riferibili alle autorizzazioni avviate dopo il 04/08/2013) su edifici adibiti ad abitazione principale o ad attività produttive ricadenti nelle aree sismiche ad alta pericolosità, di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n. 3274 del 20/03/2003 (codici 1 e 2, allegato «A»).
Come indicato dalla stessa Agenzia delle entrate (circ. 29/E/2013 § 2.2) «per tipo di utilizzo, rileva la circostanza che la costruzione sia adibita ad abitazione principale o ad attività produttiva, con ciò privilegiando gli immobili in cui è maggiormente probabile che si svolga la vita familiare e lavorativa delle persone» tenendo conto, ulteriormente, che «per costruzione adibita ad abitazione principale s'intende l'abitazione nella quale la persona fisica o i suoi familiari dimorano abitualmente» secondo la nozione «
rilevante» ai fini dell'imposizione diretta (Irpef).
Di conseguenza, per quanto concerne le costruzioni adibite ad attività produttive si deve far riferimento a quelle unità in cui vengono esercitate attività agricole, professionali, produttive, commerciali e non commerciali.
Con riferimento all'ambito di applicazione l'Agenzia delle entrate ha fornito i relativi chiarimenti (circ. n. 29/E/2013) confermando che l'agevolazione spetta per tutti quegli interventi destinati alla messa in sicurezza statica (parti strutturali), nonché alla redazione della documentazione obbligatoria di convalida della raggiunta sicurezza statica e per la realizzazione degli interventi necessari per il rilascio della detta documentazione.
La detrazione è pari al 65% delle spese sostenute fino a un massimo di 96 mila euro (62.400 euro) per ciascuna unità immobiliare facente parte dell'edificio, da spalmare in dieci quote annuali di pari importo, per un ammontare annuale massimo di 6.240 euro, stante il rinvio alle disposizioni contenute nella lett. i), comma 1, dell'art. 16-bis, dpr n. 917/1986 (Tuir).
Per quanto si evince anche dal documento di prassi citato (circ. 29/E/2013) la detrazione può essere fruita anche dai soggetti Ires con questa differenziazione: se si tratta di opere eseguite su abitazioni principali o su immobili produttivi (capannoni, negozi, depositi e quant'altro) la detrazione spetta fino alla fine dell'anno nella percentuale del 65%, mentre se si tratta di unità abitative residenziali diverse (seconde case, in particolare) o unità collocate in altre aree (codici 3 e 4, allegato «A») la detrazione si applica nella misura più ridotta del 50%.
Non risultano rilevanti, ai fini della fruibilità, la categoria catastale dell'unità immobiliare, la presenza effettiva di danni da eventi sismici e la dichiarazione di area sismica, ma soltanto il tipo di utilizzo (abitazione principale o unità produttiva) e la collocazione territoriale all'interno delle zone ad alta pericolosità.
Di conseguenza, gli interventi indicati beneficiano della detrazione maggiorata del 65% se l'unità abitativa risulta collocata in area individuata ad alta pericolosità, senza la necessità che gli enti territoriali o lo stato abbiano individuato tale area come zona colpita da tali eventi.
Nel caso in cui l'abitazione, pur essendo di fatto collocata in area sismica, non risulti inserita nelle zone di cui ai codici «1» e «2» del citato allegato «A», il contribuente potrà comunque fruire della detrazione del 50% (o, a regime, del 36%). Come detto, beneficiari della detrazione sono tutti i contribuenti Irpef e Ires a condizione che abbiano sostenuto le spese per gli interventi agevolabili indicati in precedenza, che le dette spese siano rimaste a loro carico e che possiedano o detengano l'immobile in conformità a un titolo idoneo (proprietà, diritto reale, locazione, comodato o altro).
Per la fruizione del bonus, in assenza di disposizioni specifiche, si rendono applicabili quelle riferite agli interventi indicati nella lett. i), comma 1, art. 16-bis del Tuir ovvero pagamento con modalità tracciate (bonifici parlanti) e conservazione della documentazione indicata dal provvedimento 02/11/2011 (abilitazioni amministrative, ricevute Ici/Imu, fatture e ricevute fiscali, bonifici e quant'altro) (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

APPALTI: Appalti, solidarietà caso per caso. Se c'è avvalimento conta quanto scritto nel contratto. Sul rapporto tra i due istituti continua a esserci incertezza in giurisprudenza e tra gli operatori.
Le incertezze della giurisprudenza e i dubbi degli operatori di settore sono lo spunto per tornare a occuparsi brevemente di un tema ampiamente dibattuto nel settore dei contratti pubblici: l'istituto dell'avvalimento.
Sulla scorta delle indicazioni comunitarie e delle poche disposizioni di legge che riguardano l'argomento, la giurisprudenza ha nel tempo maturato il convincimento circa una massima possibilità di utilizzo dell'istituto. Da iniziali posizioni di maggiore rigidità si è, infatti, passati a una estensione e più corretta definizione dei limiti operativi dell'istituto, ammettendo che questo possa oggi riguardare anche requisiti all'inizio ritenuti incedibili, quale, ad esempio, l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali.
In tale opera di sempre migliore definizione dei contorni dell'istituto rimane esclusa, invece, la possibilità dell'avvalimento per i requisiti totalmente soggettivi (es. dichiarazioni ex art. 38 del dlgs n. 163/2006), mentre ancora dibattuta appare la possibilità di avvalersi di sistemi di qualità Iso riconosciuti ad altri soggetti (Tar Lazio – Roma, n. 4130/2013; Avcp, delibera n. 2/2012; in senso contrario Consiglio di stato, n. 2344/2011). Rispetto a tali profili, comunque fonte di ampio dibattito, appare viceversa non sufficientemente esplorato lo specifico ruolo che l'ausiliario va ad assumere nell'ambito della procedura di gara, nel rapporto plurilaterale che si viene a instaurare con aggiudicatario e stazione appaltante.
Al riguardo è, infatti, facile osservare che l'ausiliario non è un semplice soggetto terzo rispetto alla gara poiché in seno a essa assume un puntuale impegno, non solo verso l'impresa concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante, a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui questi è carente, diventando così titolare passivo di un'obbligazione accessoria a quella principale (del concorrente) e che si perfeziona con l'aggiudicazione a favore del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti (Tar Lazio - Roma, n. 10990/2007). Ed ancora non va dimenticato che, ai sensi di quanto disposto all'art. 49, comma 4, del dlgs n. 163/2006, concorrente e impresa ausiliaria sono responsabili in solido, nei confronti della stazione appaltante, in relazione alle prestazioni oggetto del contratto.
Ma proprio alla luce di tale ultimo profilo sorge spontaneo domandarsi se esistano o meno dei limiti entro i quali l'ausiliario è responsabile in solido con il soggetto ausiliato e ciò soprattutto allorché il requisito oggetto di avvalimento non attenga alla vera e propria prestazione dell'appalto ma -si supponga- sia funzionale alla mera ammissione alla gara (ad esempio, avvalimento di un requisito di fatturato, generale o specifico, ovvero avvalimento di un requisito di esperienza per lo svolgimento di determinati servizi/attività analoghi).
Quanto detto anche perché in ipotesi di avvalimento «immateriale», ovvero in un caso in cui l'ausiliario aveva «prestato» al concorrente la propria solidità economica e finanziaria, in modo del tutto disancorato dalla messa a disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali, è stato ritenuto che l'avvalimento, di fatto, ampliando lo spettro della responsabilità per la corretta esecuzione dell'appalto, estendesse la base patrimoniale della responsabilità da esecuzione dell'appalto.
Con la conseguenza di poter ritenere che, con riferimento all'avvalimento dei requisiti economici e finanziari (volume di affari o del fatturato) ovvero il c.d. avvalimento di garanzia (ammesso in taluni casi addirittura con riguardo alle referenze bancarie), l'istituto dispiegherebbe la sua funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale che goda di una (complessiva) solidità patrimoniale proporzionata ai rischi dell'inadempimento o inesatto adempimento della prestazione dedotta nel contratto di appalto.
Peraltro, solo per tali motivi, e, dunque, solo per la possibilità di avere a disposizione risorse o capacità economiche maggiori e quindi un assoluto grado di responsabilità solidale delle imprese coinvolte in relazione all'intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare, sarebbe ammissibile una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione alla gara. Infatti, al di fuori di tale ipotesi, la messa a disposizione di requisiti (soggettivi e) astratti, cioè svincolati da qualsivoglia collegamento con risorse materiali o immateriali, snaturerebbe e stravolgerebbe l'istituto dell'avvalimento per piegarlo a una logica di elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara (cfr. Tar Campania, Napoli, n. 644 del 02/02/2011).
La pur pregevole ricostruzione, tuttavia, non sembra cogliere nel segno o quantomeno non pare applicabile alla complessiva categoria di contratti di avvalimento aventi ad oggetto requisiti (immateriali) di «esperienza» che non esplicano alcun effetto con riferimento specifico alla prestazione oggetto del contratto pubblico e che, invece, riguardano i requisiti di ammissione del soggetto alla gara.
In altre parole occorrerà tenere ben separati i casi di avvalimento che attestino una reale solidità economico/finanziaria del soggetto, dai casi in cui il fatturato (specifico), oggetto di avvalimento, è indice esclusivo di aver maturato una puntuale esperienza in un dato settore di mercato. Infatti, mentre nel primo caso potrebbero venire in rilievo le osservazioni anzidette in merito ad una assoluta solidarietà tra avvalente e ausiliato, nel secondo caso non potrà che rilevare, solo ed esclusivamente, quanto dedotto nel contratto di avvalimento.
I dubbi maggiori attengono alla necessità di dover contemperare all'interno del medesimo contratto: (I) da un lato, il prestito di un requisito immateriale di «esperienza» con la necessità (e diremo anche l'evidente difficoltà) di far corrispondere tale prestito immateriale ad una corretta definizione delle risorse e dei mezzi prestati in modo che l'assetto contrattuale risulti coerente alle previsioni del Regolamento e alle indicazioni giurisprudenziali relative ai contenuti minimi del contratto di avvalimento; (II) dall'altro, una corretta perimetrazione delle risorse messe a disposizione allo scopo di non far assumere all'ausiliario responsabilità eccessive (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

ENTI LOCALI:  Lo scatto dell'Iva. Le risposte degli esperti del Sole 24 Ore ai dubbi dei lettori sull'applicazione dell'imposta dopo il passaggio al 22 per cento.
Effetto boomerang sugli enti locali. L'aumento dell'aliquota peserà sui Comuni dal punto di vista finanziario e operativo.

L'aumento dell'Iva dal 21 al 22% dal 1° ottobre scorso ha pesanti conseguenze sull'operatività degli enti locali, sia dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista operativo.
Dal punto di vista del fabbisogno finanziario l'aggravio di costo colpisce gli acquisti posti in essere nella sfera istituzionale dell'ente, in quanto nell'esercizio di attività commerciale l'Iva pagata sugli acquisti può essere recuperata. L'aumento riguarda in ogni caso voci di spesa che hanno un peso percentuale rilevante sul totale delle spese degli enti.
Per quanto riguarda le prestazioni di servizio, gli enti subiranno l'aumento di aliquota anche se la prestazione è già avvenuta ma non è stata ancora fatturata, in quanto l'articolo 6 del Dpr 633/1972 dispone che le prestazioni di servizio si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo o all'emissione della corrispondente fattura, se questo avviene prima. Nel caso ad esempio delle prestazioni legali, l'ente si potrebbe trovare ad avere una fattura pro-forma con Iva 21% emessa prima del 1° ottobre e una fattura definitiva con Iva 22% emessa dopo tale data.
Dal punto di vista operativo, risulterà che gli impegni contabili già assunti dagli uffici non saranno capienti, e dovranno essere adeguati con provvedimenti dirigenziali di integrazione che satureranno gli uffici finanziari. Dal lato dell'entrata le tariffe dei servizi a domanda individuale, approvate con delibera di Giunta, sono normalmente valorizzate Iva compresa. Per le tariffe soggette a Iva ordinaria l'ente dovrà, con una nuova delibera di Giunta, scegliere se aumentarle, scaricando l'onere sul cittadino, oppure mantenerle inalterate, riducendo conseguentemente l'imponibile e quindi le entrate dell'ente.
Inoltre, nel caso in cui il Comune si fosse rivolto alla Cassa depositi e prestiti per finanziare un'opera soggetta a Iva 21%, l'ente dovrà produrre una nuova richiesta di finanziamento, per il maggior costo rappresentato dall'incremento Iva, con conseguenti nuovi adempimenti.
La variazione dell'aliquota Iva rischia insomma di causare, a livello di singole amministrazioni, un incremento del fabbisogno finanziario che dovrà essere finanziato con trasferimenti o nuove imposte (articolo Il Sole 24 Ore del 04.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori in casa. Le regole da seguire nel caso di acquisto di stufe a pellet e di generatori di calore ad alimentazione vegetale
Doppio vantaggio per le caldaie. All'agevolazione del 65% si aggiunge l'Iva con le regole sui beni significativi.
VALORE AGGIUNTO/ Per gli strumenti imposta più bassa per i costi della manodopera e per parte del valore dell'apparecchiatura.

La spesa sostenuta per l'acquisto di una stufa a pellet rientra nell'ambito delle detrazioni fiscali per interventi finalizzati al conseguimento del risparmio energetico, che permettono una detrazione pari al 65% del costo dell'intervento. Dopodiché, se non ci saranno proroghe, dal 01.01.2014 anche questa tipologia di interventi rientrerà tra quelli presenti nell'articolo 16-bis del Tuir, che prevedono una detrazione dell'Irpef del 36% per il recupero del patrimonio edilizio. Fanno eccezione gli impianti al servizio di edifici condominiali, per i quali il 65% si potrà applicare alle spese sostenute entro il 30.06.2014.
Il caso dell'acquisto della stufa a pellets è uno di quelli che si sono presentati nell'ambito del Forum tematico abbinato al Focus «I lavori in casa», pubblicato mercoledì scorso con Il Sole 24 Ore (e ancora disponibile, per chi l'avesse perso, su www.ilsole24ore.com/store24). Il Forum rimarrà aperto fino a mercoledì 9 ottobre e i quesiti possono essere inviati collegandosi all'indirzzo www.ilsole24ore.com/bonuslavori.
Tra gli interventi finalizzati al raggiungimento del risparmio energetico dell'unità immobiliare rientrano infatti i «generatori di calore che utilizzano come fonte energetica prodotti vegetali e che, in condizione di regime, presentano un rendimento, misurato con metodo diretto, non inferiore al 70%», Dm 15.02.1992. Il rispetto dei requisiti deve essere attestato dalla casa produttrice.
Con la pubblicazione del Dm 11.03.2008 lo Sviluppo Economico ha fatto chiarezza circa la possibilità di ottenere l'agevolazione fiscale in oggetto in caso di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, quali ad esempio impianti dotati di stufe e caminetti a legna o pellet. Quindi un impianto a biomassa (legna o pellet) rientra nei possibili interventi per una riqualificazione energetica ai fini dell'ottenimento delle agevolazioni in esame. Occorre tenere presente che tali prodotti (caminetti e stufe a legna o pellet) devono avere tuttavia un rendimento utile nominale minimo conforme alla classe 3 di cui alla norma europea 303-5.
Peraltro, anche prima della scadenza del 65%, l'acquisto di una stufa a pellet può rientrare tra gli interventi che danno diritto alla detrazione fiscale sulle ristrutturazioni edilizie, pari al 36% della spesa sostenuta e –sino al 31.12.2013– al 50%, nel caso in cui non siano raggiunti i requisiti di rendimento previsti dalla normativa per il risparmio energetico. Tale agevolazione spetta quando il contribuente effettua opere di manutenzione straordinaria, restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia su una unità immobiliare residenziale (qualsiasi sia la categoria catastale di appartenenza). In tali casi, anche le spese sostenute per l'acquisto e l'installazione di una stufa a pellet per la realizzazione e/o il rifacimento della canna fumaria sono ammesse a godere dell'Iva agevolata e del beneficio fiscale.
Dal punto di vista dell'Iva la stufa a pellet è considerata un «bene finito di valore significativo» a cui si può applicare -su parte dell'importo totale- l'aliquota Iva agevolata del 10 per cento. Ad esempio, se per l'acquisto di una caldaia in caso di manutenzione straordinaria –con fornitura e posa in opera– il costo è di 4mila euro, di cui 3mila per la caldaia e 1.000 per la manodopera, l'Iva si delinea come segue: Iva al 10% su 2mila euro (cioè sul valore della manodopera e su una parte di valore del bene pari all'importo della manodopera) e al 22% su altri 2mila euro.
Se invece, l'acquisto della caldaia è effettuato direttamente, senza l'intermediazione di un installatore, l'aliquota Iva agevolata si applica esclusivamente in presenza di lavori di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia di cui alle lettere c), d) oppure f), articolo 3, del Dpr 380/2001.
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Le risposte ai quesiti dei lettori. Estensione possibile solo con annotazione sulla fattura.
La detrazione premia chi spende.

Continua la pubblicazione delle risposte ai quesiti dei lettori. Hanno risposto gli esperti Laura Ambrosi, Stefano
Vietato il cumulo sullo stesso intervento
Nel caso di lavori di ristrutturazione eseguiti su un unico immobile è possibile cumulare il bonus ristrutturazioni edilizie 50% e il bonus risparmio energetico 65%?
R. La cumulabilità è esclusa per la stessa fattura o per lo stesso intervento. Nell'ambito di una ristrutturazione complessa (ad esempio rifacimento del bagno, tramezzature interne, sostituzione delle finestre e porte, ecc) è possibile scegliere quale opera far concorrere al 50% e quale al 65%, in relazione ai requisiti previsti.
Obbligo di dettaglio per la fattura a saldo
Per abitazioni private tutte le fatture dell'impresa costruttrice devono essere dettagliate sui lavori svolti o è sufficiente dettagliare l'ultima (e le altre nominarle come acconti), oppure non c'è bisogno di dettagliare niente e basta fare riferimento alla licenza edilizia?
R. Le fatture, se riferite ad acconti, possono contenere una descrizione generica, ma è necessario che la fattura a saldo specifichi tutte le opere eseguite con il dettaglio dei costi riferiti ad ogni singolo intervento. Si ritiene, comunque, che sarebbe opportuno specificare anche nelle fatture emesse in acconto il dettagli dei lavori svolti, e ciò a garanzia del committente.
La porta blindata ha il bonus del 50%
L'installazione di una porta blindata dà diritto alla detrazione del 50%? Ed è considerata ristrutturazione edilizia valida per la detrazione del 50% nell'acquisto di mobilia?
R. Sì. La sostituzione della porta blindata fruisce della detrazione del 50% sia in quanto intervento di manutenzione straordinaria, sia in quanto intervento idoneo a prevenire atti illeciti. L'esecuzione dell'intervento consente poi l'accesso alla detrazione per l'acquisto dei mobili.
Per la spesa condivisa una nota sulla fattura
Ho ristrutturato un immobile cointestato a mia sorella e a me al 50% ed entrambe intendiamo usufruire delle detrazioni fiscali. Abbiamo acquistato dei mobili, effettuato il bonifico con i due nominativi e ora l'azienda ci comunica che non è possibile emettere una fattura cointestata in quanto non consentito, ma deve intestarla ad un solo nominativo. È corretta la loro argomentazione? Se proprio non si può ovviare, con il bonifico già effettuato a nome di due nominativi e la fattura intestata ad uno solo, come avverrà la detrazione fiscale?
R. La detrazione compete a chi ha effettivamente sostenuto la spesa. Per poter usufruire della detrazione è sufficiente che il soggetto non intestatario della fattura annoti sulla stessa di avere sostenuto parte della spesa stessa. In questo caso la detrazione si estende anche al soggetto non intestatario della fattura in quanto la spesa viene comprovata dal bonifico bancario (articolo Il Sole 24 Ore del 04.10.2013).

VARIVia dal parabrezza il contrassegno dell'assicurazione. Codice della strada. Ma solo tra due anni.
DECRETO IN «GAZZETTA»/ Parte il conto alla rovescia per la creazione della banca dati centralizzata delle polizze Rc-auto.

Tra due anni niente più contrassegno dell'assicurazione Rc auto. Non si dovrà più esporre: durante i controlli su strada le forze di polizia faranno riferimento a una banca dati centralizzata delle polizze, aggiornata finalmente in tempo reale. Un aggiornamento che, oltre a mettere fuori gioco chi falsifica i contrassegni, dovrebbe consentire anche di effettuare controlli automatici, con apparecchi (di cui proprio in queste settimane vengono presentati alla stampa alcuni modelli) che leggono la targa e verificano se i veicoli in circolazione su un determinato tratto sono tutti in regola con l'assicurazione obbligatoria.
È lo scenario disegnato nel gennaio 2012 dal decreto liberalizzazioni (Dl 1/2012) e ora reso più vicino, col varo della norma attuativa: il decreto del ministero dello Sviluppo economico n. 110 del 9 agosto scorso, pubblicato ieri sera sulla Gazzetta Ufficiale e destinato ad entrare in vigore il 18 ottobre prossimo. Da quel giorno scatterà il conto dei due anni dopo i quali i contrassegni cartacei usciranno di scena e di alcune tappe intermedie:
- 30 giorni perché la Motorizzazione renda operativa la struttura informatica del database;
- 60 per popolare il database con le informazioni già presenti nella banca dati dell'Ania (l'associazione delle compagnie);
- un anno per avviare le connessioni informatiche con cittadini e compagnie;
- 18 mesi per predisporre il database a collegarsi in tempo reale con le apparecchiature per i controlli automatici che dovrebbero essere utilizzate dalle forze dell'ordine.
Il Dm arriva con oltre un anno di ritardo rispetto a quanto prevedeva il Dl. La causa principale è stata proprio la difficoltà di organizzare una banca dati delle polizze più affidabile di quella attuale, già attiva da anni presso l'Ania, l'associazione delle compagnie.
In sostanza, ora il Dm 110 dà alle compagnie la responsabilità di aggiornare in tempo reale la situazione di ciascuna polizza Rc auto, dalla sua accensione fino alla scadenza. Compito non facile: le reti delle compagnie sono piuttosto ramificate, perché le agenzie presenti nei principali centri operano sul territorio anche attraverso subagenzie che operano nei piccoli centri.
Le compagnie risponderanno sempre della «veridicità, tempestività e validità» delle informazioni presenti in banca dati. Ferma restando questa loro responsabilità, potranno affidare il materiale aggiornamento del database anche agli intermediari «che ne hanno rappresentanza», quindi agli agenti cui conferiscono il mandato agenziale.
Le informazioni sulla copertura Rc auto dei singoli veicoli saranno consultabili gratuitamente online «da parte di chiunque ne abbia interesse» (articolo Il Sole 24 Ore del 04.10.2013).

VARIRinnovo, spetta al medico autorizzare la guida.
Al superamento della visita medica per il rinnovo della patente di guida d'ora in poi spetterà al sanitario consegnare all'interessato una ricevuta valida per la circolazione stradale. Questo documento abiliterà alla guida al massimo 60 giorni ovvero fino al momento del ricevimento del duplicato della licenza vera e propria.

Lo ha stabilito il decreto del ministero dei trasporti 09.08.2013 (pubblicato sulla G.U. n. 231 del 02/10/2013).
La riforma della patente europea ha introdotto definitivamente nel codice stradale l'innovativo principio formulato inizialmente nella legge 120/2010 per cui alla scadenza della patente di guida non verranno più apposti timbri e adesivi ma verrà rilasciato ogni volta un duplicato del prezioso documento recante la nuova data di scadenza dello stesso. Per organizzare amministrativamente tutta la procedura sono stati però necessari complessi passaggi tecnici dedicati soprattutto all'allineamento dei medici coinvolti nei rinnovi delle licenze in una filiera certificata delle pratiche automobilistiche.
Con questo decreto, che entrerà in vigore decorsi 30 giorni dalla sua pubblicazione, viene finalmente stabilito il dettaglio della significativa riforma, nello spirito della progressiva digitalizzazione anche delle procedure stradali. All'esito di ciascuna visita di controllo i medici e le strutture abilitate alle verifiche trasmetteranno telematicamente al ced della motorizzazione una comunicazione di avvenuto rinnovo completa con tutti i dati dell'interessato. Unitamente a questa importante comunicazione il sanitario trasmetterà al ced della motorizzazione anche la foto e la firma dell'interessato. Al ricevimento di tutti questi dati il sistema informatico centrale della motorizzazione genererà automaticamente una ricevuta recante tutti i dati della patente di guida appena scaduta.
Questo documento verrà immediatamente consegnato dal sanitario al titolare della licenza scaduta e ammetterà alla regolare circolazione l'intestatario per un periodo massimo di 60 giorni. Ovvero fino al momento del ricevimento postale della nuova patente di guida nel formato card, senza più adesivi, timbri e diciture facilmente alterabili (articolo ItaliaOggi del 03.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIATempi più lunghi per le sanzioni del Sistri.
Il Sistri si conferma limitato ai rifiuti pericolosi, ma si conforma meglio al nuovo scenario applicativo tracciato con il Dl 101/2013 che, nel percorso verso la conversione in legge, precisa le disposizioni dell'articolo 11, anche in ordine agli obbligati alla tenuta di registri e formulari.

Gli emendamenti al Dl approvati dalla commissione Affari costituzionali del Senato, infatti, contribuiscono a fugare una serie di dubbi che la nota del ministero dell'Ambiente del 30 settembre aveva cercato di mitigare. Inoltre si amplia, come accennato più volte dal ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, il periodo di non applicazione delle sanzioni, affinché tutti i soggetti obbligati familiarizzino con la complessità del Sistri e, soprattutto, l'architettura di sistema che gli sottende possa essere modificata nei molti punti caldi che necessitano di intervento.
Gli emendamenti all'articolo 11 che andranno all'esame dell'aula martedì prossimo prevedono l'obbligo di adesione al Sistri per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi; per enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale compresi i vettori esteri che operano in Italia; per enti o imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazioni di rifiuti urbani e speciali pericolosi (però non è specificata la mancanza di detenzione). Sono compresi i nuovi produttori che trattano o producono rifiuti pericolosi.
Tutti i non obbligati hanno facoltà di adesione. Il ministro dell'Ambiente si riserva un decreto per individuare ulteriori categorie. Obbligati al Sistri dal 1° ottobre 2013 figurano anche i vettori esteri che trasportano rifiuti all'interno del territorio nazionali o effettuano trasporti transfrontalieri in partenza dall'Italia. Altra novità è costituita dal fatto che le sanzioni si applicano dal 31.12.2013 per la partenza del 1° ottobre e dal 02.06.2014 per quella del 3 marzo del prossimo anno. Nel frattempo, tutti dovranno continuare a tenere registri e formulari degli articoli 190 e 193 del decreto legislativo 152/2006 con l'applicazione delle relative sanzioni, sulle quali tuttavia è opportuno che venga fatta chiarezza poiché non è così scontato che siano ancora vigenti per tutte le categorie obbligate a tali scritture. Le sanzioni Sistri, però, saranno modificate e integrate con decreto del ministro dell'Ambiente entro il 03.03.2014.
Gli agricoltori disciplinati all'articolo 2135 del Codice civile, produttori iniziali di rifiuti pericolosi (per esempio batterie e olio dei mezzi agricoli), non devono iscriversi all'Albo gestori ambientali per il trasporto in conto proprio di tali rifiuti all'interno della provincia o regione ove ha sede l'impresa per conferirli nel circuito di raccolta. Nuove le modalità alternative per la tenuta del registro di carico e scarico: conservazione per tre anni del formulario o della scheda Sistri o del documento di conferimento dei rifiuti agricoli pericolosi nell'ambito del circuito organizzato di raccolta.
Viene anche ridisegnata la platea degli obbligati ai registri e il sistema si "ricalibra" dopo le modifiche dei soggetti obbligati al Sistri. La logica è quella secondo cui chi non è nel Sistri, neanche volontariamente, è nel sistema cartaceo. Comunque il Dl decreta l'obbligo per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi; per i produttori di rifiuti non pericolosi da lavorazioni industriali e artigianali e per quelli da potabilizzazione e altri trattamenti di acque (non per il trasporto in conto proprio).
Si aggiungono enti e imprese che raccolgono e trasportano rifiuti o che li preparano al riutilizzo, li trattano, recuperano e smaltiscono, compresi i nuovi produttori. Commercianti e intermediari dovranno annotare il registro 24 ore prima dell'operazione ed entro 48 ore dalla sua conclusione. Ma, se tutti questi soggetti aderiscono obbligatoriamente o volontariamente al Sistri, non sono tenuti ai registri. Infine il formulario resta per enti e imprese che non sono obbligati o che non aderiscono volontariamente al Sistri (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2013).

ENTI LOCALI: L'anagrafe dai comuni allo stato. Dpcm in g.u. centralizzazione entro il 31.12.2014.
Al via il passaggio dall'anagrafe comunale a un'unica anagrafe nazionale. La centralizzazione dell'anagrafe dovrà completarsi entro il 31.12.2014, ma il primo atto della complessa procedura tecnica (che prevede svariati regolamenti e dpcm di attuazione) è giunto in porto.

Si tratta del dpcm 23.08.2013, n. 109, regolamento recante disposizioni per la prima attuazione dell'articolo 62 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, come modificato dall'articolo 2, comma 1, del decreto legge 18.10.2012, n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n. 221, che istituisce l'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), pubblicato ieri sulla G.U. n. 230 (si veda quanto anticipato su ItaliaOggi del 14 agosto scorso).
Si è avviata dunque la macchina organizzativa che porterà alla costituzione dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) nella quale confluiranno l'Indice nazionale dell'anagrafe (Ina) e l'Anagrafe della popolazione residente all'estero (Aire).
Nel parere n. 03579/2013 emesso il 5 agosto, il Consiglio di stato aveva promosso, seppure con qualche rilievo critico, il testo del regolamento in quattro articoli. I giudici non sembravano infatti essere convinti del fatto che la riforma dell'anagrafe sarà a costo zero. Il regolamento esaminato dai giudici non prevede oneri a carico del bilancio dello stato e per questo non indica nessuna forma di copertura. Tuttavia, sottolinea palazzo Spada, «si intravedono passaggi innovativi che potrebbero comportare oneri».
A parte questi rilievi, il giudizio complessivo sul regolamento è positivo. Per i giudici lo schema «è coerente con le finalità e i criteri ispiratori della norma primaria». La nuova anagrafe centralizzata subentrerà a quelle comunali e ciò potrà creare qualche problema ai municipi che dovranno gestire la transizione al nuovo sistema. Timori, questi, già espressi dall'Anci in sede di Conferenza unificata soprattutto con riferimento all'introduzione del «domicilio digitale», la chance, prevista dal decreto crescita 2.0 che prevede la possibilità per il cittadino di attivare un indirizzo di posta elettronica certificata a cui ricevere le comunicazioni da parte della p.a.
Il provvedimento è completato da un allegato che indica le fasi in cui si articola l'attuazione dell'Anpr, dedicando particolare attenzione alla sicurezza delle informazioni. In particolare, il modello di scambio dei dati tra le anagrafe comunali e l'Anpr e tra quest'ultima e gli enti della pubblica amministrazione centrale dovrà garantire l'integrità e la riservatezza delle informazioni condivise, ma anche la sicurezza dell'accesso ai servizi e il tracciamento delle operazioni effettuate.
Una volta disposto il subentro dell'Anpr all'Ina e all'Aire, saranno successivi dpcm a disciplinare il passaggio di consegne, nonché le modalità di integrazione dei dati relativi alle carte di identità. Ai sindaci resteranno le attribuzioni previste dal Tuel (art. 54, comma 3): tenuta dei registri di stato civile e di popolazione oltre agli adempimenti previsti dalle leggi in materia elettorale e di statistica (articolo ItaliaOggi del 02.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. La nota del ministero prevede anche il rinvio dell'obbligo per chi trasporta propri «scarti» pericolosi.
Rifiuti urbani esclusi dal Sistri. I professionisti non hanno l'obbligo di adesione al sistema di tracciabilità.

Esclusi i trasportatori di rifiuti urbani e i liberi professionisti, rinvio dell'obbligo per i trasportatori di propri rifiuti pericolosi, Sistri anche per i trasportatori stranieri in partenza dall'Italia, rigetto delle proposte volte a semplificare la procedura di trasporto e ad escludere dal primo scaglione gli impianti che impiegano anche rifiuti per generare prodotti.
Queste, insieme alla conferma dell'inapplicabilità delle sanzioni Sistri per il primo mese di avvio dell'operatività dei due scaglioni, le principali novità contenute nella circolare esplicativa del ministero del'ambiente, pubblicata due giorni fa sui siti istituzionali quattro ore prima del riavvio del sistema per la tracciabilità dei rifiuti.
Rifiuti urbani
Secondo l'interpretazione ministeriale non sono sottoposti all'obbligo di iscrizione al Sistri le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti urbani che operano in regioni diverse dalla Campania. Tenuti a impiegare il sistema per la tracciabilità, invece, gli intermediari di rifiuti urbani pericolosi. Questi ultimi, però, a differenza degli intermediari e commercianti di rifiuti speciali pericolosi, non sono citati tra i soggetti obbligati a usare il Sistri dal 1° ottobre.
Ancora indeterminata, infine, la posizione dei gestori di impianti che trattano rifiuti urbani pericolosi: da un lato la circolare afferma il principio generale secondo il quale dal 1° ottobre il sistema è diventato operativo «per tutti i soggetti che, nell'ambito della loro attività, detengono rifiuti pericolosi», dall'altro si limita a richiamare la prescrizione secondo la quale tra i soggetti obbligati sono compresi gli enti e le imprese che «effettuano operazioni di trattamento, recupero o smaltimento di rifiuti pericolosi».
L'esclusione dei trasportatori di rifiuti urbani è senz'altro una semplificazione di grande rilievo, ma dal punto di vista dell'ermeneutica giuridica è curioso che il medesimo termine -"rifiuti pericolosi"- quando riferito alla raccolta e al trasporto escluda i rifiuti urbani pericolosi, nel caso dell'intermediazione li includa e nel caso del trattamento resti indeterminato in proposito.
Liberi professionisti
La circolare li esclude dall'obbligo di iscrizione al sistema richiamando l'articolo 190, comma 8, Dlgs 152/2006: adempieranno all'obbligo di tracciabilità conservando in ordine cronologico le schede di movimentazione Sistri.
Finalità produttive
Per le operazioni di «messa in riserva», stoccaggio prima del recupero, di «deposito temporaneo», stoccaggio prima dello smaltimento, e di «deposito temporaneo» messe in atto da produttori iniziali di rifiuti pericolosi il riavvio del sistema è posticipato al 03.03.2014. È anomala, la scelta di accumulare le prime due, attività per le quali è indispensabile un'autorizzazione, alla terza, operazione preliminare e distinta dalla gestione di rifiuti. Manca, in questo caso, qualsiasi argomentazione a sostegno della scelta.
Rifiutata, infine, la proposta di Confindustria di circoscrivere l'ambito di applicazione del Sistri ai veri e propri impianti di trattamento dei rifiuti. Cartiere, fonderie, acciaierie, cementifici e vetrerie che impiegano rifiuti per alimentare i loro processi produttivi, sono quindi tenuti a usare il sistema dal 1° ottobre.
Procedure di trasporto
Rigettata anche la proposta di impiegare la procedura di «comunicazione per microraccolta», per tutti i trasporti, anche quelli che prevedono il carico dei rifiuti presso un unico produttore. La conseguenza della scelta ministeriale è la necessità di tracciare in anticipo, strada per strada, su una cartografia digitale il percorso del mezzo di trasporto che, in ogni caso, sarà monitorato dalla black box installata sul mezzo.
Nuovi produttori di rifiuti
L'obbligo di impiego del sistema per documentare la produzione di rifiuti che decadono da attività di trattamento dei medesimi è stato confermato, ma non si chiarisce né che cosa significhi che questa attività deve mutare la composizione o la natura del rifiuto, né se l'obbligo sia previsto per i «soggetti che sottopongono i rifiuti pericolosi a trattamento» o, molto più ragionevolmente, per quanti dal trattamento di qualsiasi genere di rifiuti ottengono scarti classificati come pericolosi.
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Chiarita la procedura per i non iscritti.
LA REGOLA/ In caso di temporanea indisponibilità del sistema da parte del trasportatore sarà il gestore a compilare la scheda.

La nota esplicativa sul Sistri diramata dal ministero dell'Ambiente in occasione del varo operativo del sistema contiene una serie di importanti precisazioni. Si ricordano l'esclusione dei rifiuti urbani pericolosi dal campo di incidenza del Sistri con riferimento alla produzione, alla raccolta e al trasporto, la conferma dell'esclusione dal Sistri per i professionisti singoli ai sensi dell'articolo 190, comma 8, Dlgs 152/2006 e quella per i raccoglitori/trasportatori di rifiuti pericolosi da sé stessi prodotti.
Sul fronte del coordinamento dell'azione tra soggetti iscritti e non iscritti a Sistri, la nota fornisce importanti chiarimenti e ricorda che l'articolo 14 del decreto ministeriale 52/2011 (Testo unico Sistri) disciplina le procedure per i non iscritti al sistema di tracciabilità. Pertanto «nella prima fase operativa» i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che non aderiscono volontariamente al Sistri prima del 03.03.2014 (data in cui scatterà l'obbligo) dovranno conformarsi a tali procedure.
In particolare il produttore iniziale comunica i propri dati al delegato dell'impresa di trasporto che li usa per compilare anche la sezione del produttore della scheda movimentazione. Una copia della scheda firmata dal produttore del rifiuto è consegnata al conducente dell'automezzo. Un'altra copia resta al produttore che la conserva per cinque anni.
Il gestore dell'impianto di recupero o smaltimento deve stampare e trasmettere al produttore la copia della scheda movimentazione completa.
In caso di temporanea indisponibilità del sistema da parte del trasportatore, la scheda (area trasportatore e area produttore) è compilata dal gestore.
Se i rifiuti sono conferiti dal trasportatore che li ha prodotti ("conto proprio"), il destinatario riporta il codice del formulario (se previsto) nel campo "annotazioni" della propria registrazione cronologica.
Dal canto loro i produttori e i gestori di rifiuti non pericolosi dovranno continuare a tenere il registro e il formulario. Il Dl 101/2013 ha completamente ridisegnato la platea dei destinatari del Sistri. Quindi, gli articoli 190 (registro) e 193 (formulario) del Dlgs 152/2006 nella versione che entrerà in vigore il 02.11.2013 (ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del Dlgs 205/2010) non sono più tarati rispetto alla nuova realtà delle cose. Si spera siano rivisitati in sede di conversione in legge del Dl.
Invece, le imprese partite ieri dovranno continuare a compilare e tenere registri e formulari fino al 31 ottobre (doppio binario). In ogni caso, dopo tale data, trasportatori e impianti dovranno continuare a gestire il formulario del produttore non iscritto al Sistri. Quindi, i vecchi documenti non spariscono.
Il Sistri è sicuramente un sistema complesso ma adesso tutto dipenderà dalla capacità del Ministero di reagire prontamente e con efficacia alle difficoltà che verranno di volta in volta denunciate e rese evidenti dalle imprese e dalle loro associazioni (articolo Il Sole 24 Ore del 02.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, parte la tracciabilità. Sistri al via. Ma senza le scorie urbane pericolose. Una circolare del Minambiente illustra tutte le novità del sistema di controllo.
Oggi parte il Sistri. Ma il sistema telematico di tracciabilità dei rifiuti scatta solo per chi tratta rifiuti pericolosi, con la sola esclusione dei rifiuti urbani pericolosi che restano fuori dal sistema. Dovranno, dunque, rispettare gli obblighi di adesione:
- i produttori iniziali di rifiuti pericolosi, tra cui come detto «non rientrano i rifiuti urbani ancorché pericolosi»;
- gli enti e le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale. E anche in questo caso la norma «si riferisce ai soli rifiuti speciali pericolosi» e a nient'altro;
- gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi. Inclusi i nuovi produttori di rifiuti.
Tutti gli altri produttori e gestori dei rifiuti classificati diversamente da quelli suddetti potranno, invece, usare il sistema di tracciabilità su base volontaria. Ma, in questo caso, l'impresa che intende aderire al Sistri dovrà «comunicare espressamente questa volontà al concessionario secondo la modulistica resa disponibile sul sito www.sistri.it».
I chiarimenti sono contenuti in una circolare applicativa dell'ultim'ora, che il dicastero dell'Ambiente ha diffuso ieri in serata sul proprio sito internet. A poche ore dall'entrata in vigore del sistema. Circolare che prende in esame anche la problematica delle attività di trasporto transfrontaliero di rifiuti. A riguardo i tecnici Minambiente ricordano che, in base all'art. 194, comma 3 del dlgs 152/2006, «le imprese che effettuano il trasporto transfrontaliero nel territorio italiano» devono iscriversi all'Albo nazionale gestori ambientali. Mentre l'articolo 188-ter del medesimo decreto dispone «un obbligo di adesione al Sistri di tutti gli enti o le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale». Di conseguenza, scrivono, «i vettori nazionali e stranieri che, a titolo professionale, effettuano trasporti esclusivamente all'interno del territorio nazionale, ovvero in partenza dal territorio nazionale e verso Stati esteri, sono soggetti all'obbligo di iscrizione al Sistri». E la stessa cosa vale per:
- gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento di rifiuti special pericolosi. Categoria in cui ricadono anche «i nuovi produttori, cioè i soggetti che sottopongono i rifiuti ad attività di trattamento ed ottengono nuovi rifiuti, diversi per natura o composizione rispetto a quelli trattati»;
- i soggetti che svolgono intermediazione e commercio, senza detenzione, dei rifiuti speciali pericolosi.
Ma il Sistri ha anche uno scaglione successivo: il 03.03.2014. Da quella data il sistema sarà obbligatorio per:
- i cosiddetti produttori iniziali di rifiuti pericolosi e, attenzione a questa specifica, «le imprese che trasportano i rifiuti da loro stessi prodotti e iscritte all'Albo nazionale ai sensi dell'art. 212, comma 8, del dlgs 152/2006»;
- i comuni e le imprese che trasportano rifiuti urbani in Campania. Per costoro potrebbe anche essere possibile uno slittamento di ulteriori sei mesi, in caso di messa in opera di semplificazioni operative nel frattempo raggiunte. Infatti, il governo, nei giorni scorsi, non ha escluso di ampliare ulteriormente, in sede di emendamenti al decreto-legge (il n. 101 del 31.08.2013, atteso alla conversione in legge), la soglia di non punibilità, purché si tratti di illeciti colposi.
Sistema transitorio e sanzioni. Nella circolare, i tecnici dell'Ambiente comunicano che, per il primo mese di avvio dell'operatività del Sistri, per entrambi gli scaglioni, i soggetti obbligati al sistema saranno chiamati a compilare anche i registri di carico e scarico ed i formulari di trasporto, oltre che a rispettare gli adempimenti del Sistri. Di conseguenza, le sanzioni relative al sistema scatteranno un mese dopo la sua entrata in vigore: si applicheranno cioè dal 31 giorno successivo alla data di avvio dell'operatività.
E, ovviamente, in base alla rispettiva categoria di appartenenza dell'operatore. Mentre, per il primo mese di operatività del Sistri, verranno applicate ancora le vecchie sanzioni legate alla mancata tenuta del registro carico e scarico e del formulario di trasporto (in base agli articoli 190 e193 del dlgs 152/2006, ma nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010).
Mud. Infine, il ministero dell'ambiente avverte che le imprese sono comunque tenute alla presentazione del Modello unico di dichiarazione per i rifiuti prodotti e gestiti nel 2013 (ex art. 189 del dlgs 152/2006) (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Il sistema è obbligatorio da oggi per 17mila operatori - Chiarimenti in una nota del ministero.
Sistri al via con platea ridotta. Arriva l'esclusione delle disposizioni per i soggetti che trasportano rifiuti propri
ESENZIONE/ I rifiuti urbani pericolosi sono esclusi dalla definizione di rifiuti per cui scatta l'obbligo della tracciabilità.

A tempo quasi scaduto ieri sera è stata pubblicata la circolare del ministero dell'Ambiente contenente alcune indicazioni importanti per l'applicazione obbligatoria del Sistri che per molti operatori scatta oggi.
Il provvedimento chiarisce una serie di punti. Tra questi, esclude decisamente dal Sistri i rifiuti urbani pericolosi, siano essi prodotti o raccolti e trasportati. L'esclusione, scrive il ministero, «si desume» dall'articolo 11, comma 3, del Dl 101/2013 che per i rifiuti urbani limita l'iscrizione per i Comuni e le imprese di trasporto degli urbani della Regione Campania. Inoltre, la nota conferma che dall'obbligo di Sistri sono esclusi i produttori non organizzati in enti o imprese (in pratica i professionisti singoli in genere).
I nuovi produttori di rifiuti, cioè i soggetti che trattano i rifiuti pericolosi e ottengono nuovi rifiuti diversi da quelli trattati, per natura o composizione, devono iscriversi sia nella categoria gestori che in quella dei produttori e devono versare il contributo per ogni categoria di appartenenza secondo l'allegato 2 del decreto ministeriale 52/2011.
Secondo la nota ministeriale, con riferimento al trasporto dei rifiuti, la locuzione «enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale», è riferita a enti e imprese che trasportano rifiuti pericolosi prodotti da terzi. Quindi il cosiddetto "conto proprio" è salvo dal Sistri.
In questa prima fase il sistema il sistema di tracciabilità riguarderà circa 17mila imprese invece delle 50mila che sarebbero state obbligate se avesse prevalso una lettura estensiva della norma. A questo proposito il ministero ha recepito le richieste giunte dalle associazioni imprenditoriali che più volte erano intervenute su questo fronte per limitare il fronte di applicazione del sistema di tracciabilità.
Per il trasporto transfrontaliero, invece, si conferma l'obbligo di adesione al Sistri per i vettori nazionali e stranieri che, a titolo professionale, effettuano trasporti esclusivamente in Italia, oppure partono dall'Italia.
La nota ricorda che l'articolo 14 del Dm 52/2011 disciplina le procedure per i soggetti non iscritti al Sistri. Sono queste le procedure che i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi dovranno usare fino al 03.03.2014 se non aderiscono volontariamente prima di tale data.
La nota, sui termini di operatività delle sanzioni e della fine dell'obbligo di tracciamento cartaceo parte con il computo del mese di tempo e poi si esprime con trenta e trentuno giorni e ritiene che le sanzioni si applicheranno dal 1° novembre (per chi parte oggi) e dal 03.04.2014 (per chi parte dal 03.03.2014). Registri e formulari dovranno continuare ad essere tenuti fino al 30 ottobre (per le partenze del 1° ottobre) e fino al 02.04.2014 (per le partenze del 03.03.2014). Inoltre ritorna il Mud per i rifiuti prodotti e gestiti nel 2013.
Tuttavia, la nota segnala che, tra gli emendamenti presentati in sede di conversione del Dl 101/2013, ed attualmente all'esame del Senato, ve ne sono alcuni che prevedono un ampliamento del periodo di inizio dell'operatività, durante il quale avranno vigore sia gli adempimenti previsti dagli articoli 190 e 193, Dlgs 152/2006, sia gli adempimenti previsti dal Sistri, e che durante tale periodo non si applichino le sanzioni relative al Sistri.
Sul fronte delle sanzioni, inoltre, ulteriori novità potrebbero arrivare da alcuni emendamenti al Dl 101/2013 in fase di conversione in legge. Secondo fonti parlamentari, infatti, nell'ambito dei lavori svolti dalle Commissioni del Senato si sarebbe vicini a un accordo in base al quale per i primi tre mesi Sistri e registro di carico conviveranno ma le sanzioni scatteranno solo per le violazioni riguardanti il registro. Dal quarto mese, invece, ci saranno solo sanzioni riguardanti il Sistri, ma a partire dalla terza violazione.
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I nodi irrisolti. I depositi temporanei possono diventare sanzionabili. A rischio anche i produttori.
MIGLIORAMENTO/ Il fatto che data e ora di inizio trasporto vadano indicati sulla scheda cartacea costituisce un passo avanti ma è ancora troppo poco.

Dopo tre anni di rinvii, oggi il Sistri si presenta al primo appuntamento con l'operatività per i gestori di rifiuti pericolosi. I rinvii, però, non sono stati usati per risolvere i problemi. Per questo non è difficile prevedere che quello di oggi non sarà un debutto indolore.
I problemi che affliggono la tracciabilità informatica dei rifiuti sono ormai noti ma oggi emergeranno in modo inevitabilmente pesante. Sotto il profilo informatico, quelli più macroscopici e che, in tre anni, avrebbero potuto essere risolti si ripropongono con tutto il loro carico di complicazioni, come l'inadeguatezza delle chiavette Usb che devono al più presto essere sostituite con sistemi operativi più semplici, affidabili e non soggetti a perdita, alterazione e danneggiamento.
Insoluto è rimasto anche il problema dell'assenza di interoperabilità del Sistri con i gestionali delle aziende al pari di quello dato dalla lunghezza dei tempi per i collegamenti informatici e la doppia contabilità.
Tutto questo avrà i suoi riflessi anche sui produttori di rifiuti pericolosi che, sebbene obbligati al Sistri solo dal 03.03.2014, subiranno ritiri più lenti. Se l'operatività di un trasportatore si bloccasse, il deposito temporaneo perfettamente legale di un produttore, in assenza del ritiro, potrebbe anche trasformarsi in poche ore in uno stoccaggio non autorizzato, punito penalmente. Le difficoltà saranno tante anche sotto il profilo gestionale, grazie alla incompatibilità e ai disallineamenti ricorrenti tra normativa di riferimento (Dlgs 152/2006, parte IV e Dm 52/2011) e il manuale operativo, ripubblicato in www.sistri.it il 12.08.2013.
Questa situazione è ora più complessa perché il Dl 101/2013 prevede la partenza differita dei produttori (03.03.2014) rispetto a quella dei gestori (oggi). Infatti il manuale non contempla questa discrasia e non reca le relative procedure. Il che non giova alla speditezza delle transazioni. In questi anni non sarebbe stato difficile ripristinare almeno l'annotazione automatica dello scarico del produttore, senza associare la scheda di movimentazione al registro. Neanche questo.
I pochissimi casi di intervento sul manuale non hanno dato esito risolutivo. Si pensi alla quantità che nella scheda movimentazione può essere espressa in metri cubi, con possibilità di verificarla a destino. Lo stesso, però, non accade per la registrazione in carico. Quindi, è inutile. Non solo: se cambia l'impresa titolare dell'azienda o del ramo di azienda, l'impresa subentrante accede all'area riservata di www.sistri.it e trasmette copia degli atti di variazione «prima che tali cambiamenti acquisiscano efficacia». Però, se il subentrante non è ancora iscritto al Sistri, non può accedere all'area "gestione azienda" di www.sistri.it.
Inoltre non è ancora chiaro come conservare i dati «in formato elettronico». Ma questo, poiché previsto dall'articolo 188-bis, è un obbligo che entrerà in vigore il prossimo 2 novembre. Forse prima di allora la soluzione sarà trovata. Da oggi, stando al manuale (capitolo 7.3), i gestori avrebbero dovuto tracciare anche i passaggi interni all'impianto con il Sistri, ma questo non è previsto dal Dm 52/2001. La circolare di ieri lo sospende.
Una cosa è risolta: il manuale prevede la consegna dei rifiuti al trasportatore senza inserire la chiavetta Usb del mezzo nel Pc del produttore. Data e ora di inizio del trasporto sono indicate sulla scheda movimentazione cartacea; al loro inserimento nel sistema informatico provvede in seguito il trasportatore. Questo è positivo ma è troppo poco per garantire la serena partenza di oggi che, peraltro, non riguarda i produttori (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2013).

VARI: Bonus arredi a maglie larghe. Esteso ai beni destinati ad arredare le parti comuni. Come fruire delle detrazioni per il risparmio energetico dopo i chiarimenti delle Entrate.
Bonus arredi esteso ai beni utilizzabili dal condominio. I condòmini, infatti, hanno la possibilità di fruire della detrazione (pro quota) esclusivamente per i beni destinati ad arredare dette parti a comune, se l'intervento di ristrutturazione è eseguito sulle parti condominiali.
Con la circolare 18.09.2013 n. 29/E (si veda ItaliaOggi del 19/09/2013), le Entrate hanno fornito una serie di chiarimenti finalizzati alla corretta fruizione delle detrazioni per il risparmio energetico, la ristrutturazione edilizia e l'acquisto di mobili ed elettrodomestici, sviluppando anche una miniguida («Bonus mobili ed elettrodomestici») scaricabile dal sito all'indirizzo www.agenziaentrate.gov.it.
Il documento di prassi ricorda, in apertura, che i contribuenti possono usufruire di una detrazione Irpef pari al 50% del costo sostenuto (tetto a 10 mila euro) per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla «A+» («A» per i forni), destinati alle unità immobiliari oggetto di ristrutturazione.
La detrazione si ottiene, però, solo in presenza di una ristrutturazione edilizia relativa alle singole unità residenziali o alle parti a comune degli edifici e solo se le spese, per detti interventi, sono sostenute nel periodo compreso tra il 26/06/2012 e il 31/12/2013. Inoltre, il bonus è fruibile sulle spese per l'acquisto, di mobili ed elettrodomestici nuovi, sostenute dal 06 giugno al 31.12.2013 ed è necessario che la data di inizio dei lavori di ristrutturazione risulti anteriore a quella di acquisto dei detti beni, mentre non risulta necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle per l'acquisto degli arredi. Come indicato nel documento di prassi in commento (§ 3.3), la data di avvio della ristrutturazione potrà essere dimostrata dal contribuente dalle eventuali autorizzazioni o comunicazioni amministrative ottenute, in presenza di lavori soggetti a tali obblighi, ovvero da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, di cui all'art. 47, dpr 445/2000, come indicato dal provvedimento del 02/11/2011 delle Entrate.
L'importo massimo su cui calcolare la detrazione è stato fissato in euro 10 mila, con la conseguenza che il contribuente potrà portare in detrazione, a prescindere dall'età posseduta (anche se ultrasettantacinquenne), un bonus di 500 euro, stante la necessità di eseguire la ripartizione in dieci quote annuali. Con riferimento specifico agli adempimenti, il documento di prassi precisa che, posta la necessità che i lavori di ristrutturazione siano pagati mediante il bonifico (bancario o postale) tracciabile, fatte salve alcune eccezioni, per l'acquisto degli arredi è possibile, per esigenze evidenti di semplificazione, eseguire il pagamento attraverso l'utilizzo di carte di credito o di debito, con esclusione dell'utilizzo di assegni bancari, contanti o altre tipologie di pagamento (ricevute bancarie, cambiali o altro).
Sul punto due importanti indicazioni: la prima è che la data di sostenimento valida per l'ottenimento della detrazione corrisponda a quella della ricevuta telematica di avvenuta transazione (in sintesi, quella in cui la carta viene «strisciata») e non quella di addebito sul conto corrente di appoggio, la seconda è che, in aggiunta alla documentazione richiesta per la fruizione della detrazione sul recupero edilizio, il beneficiario deve conservare la documentazione di addebito sul conto corrente ovvero l'estratto conto, ancorché tale obbligo non sia sancito da nessuna legge o provvedimento direttoriale.
Come indicato nella guida e nella circolare per avere la detrazione sugli acquisti di mobili e di grandi elettrodomestici «occorre effettuare i pagamenti con bonifici bancari o postali» (tracciabili) indicando la causale del pagamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato.
La doppia modalità di pagamento indicata, pagamento a mezzo bonifico o con carte di credito, crea una disparità soprattutto nei confronti dei cedenti dei beni, taluni dei quali, sistemati con bonifico, si vedranno accreditare quanto spettante decurtato della ritenuta del 4%, giacché la banca destinataria vedrà solo la causale utilizzata per la ristrutturazione.
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Agevolata anche la manutenzione.
La detrazione è ottenibile anche in presenza di ristrutturazione edilizia avente a oggetto la manutenzione ordinaria, se eseguita su parti comuni degli edifici residenziali. Come indicato nella circolare 29/E del 18 settembre scorso, la detrazione del 50% per l'acquisto dei mobili e degli elettrodomestici è ancorata alla presenza di lavori di ristrutturazione edilizia, avviati in data anteriore rispetto alla data di sostenimento della spese per gli arredi, come individuati dall'art. 16-bis, dpr 917/1986.
Pertanto, il contribuente dovrà eseguire interventi di manutenzione straordinaria, restauro, risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia sulle singole unità immobiliari residenziali o sulle parti a comune degli edifici, di manutenzione ordinaria sulle parti a comune, di ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato da eventi calamitosi e lavori di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia concernente interi edifici, oltre che la ristrutturazione immobiliare avente a oggetto immobili delle cooperative edilizie che entro sei mesi dal termine dei lavori cedono o assegnano l'unità immobiliare.
Se il contribuente esegue un intervento, anche con gli altri condomini, nelle parti a comune, lo stesso avrà la possibilità di fruire del bonus, naturalmente pro quota, esclusivamente per i beni acquistati per l'arredamento di dette parti condominiali, senza poter duplicare il bonus per l'acquisto dell'arredo della propria unità immobiliare. Come detto è necessario che le spese per gli arredi siano posteriori all'inizio dei lavori, tenendo conto di quanto indicato nella stessa circolare per «sostenimento» della spesa; di conseguenza, per una persona fisica, cui si rende applicabile il «principio di cassa», se ha iniziato i lavori di ristrutturazione a gennaio 2013 e deve ancora eseguire i pagamenti della ristrutturazione ma, nel contempo, acquista la cucina e la paga a settembre 2013, il bonus sarà ampiamente fruibile (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, il restyling a fine 2013. A dicembre novità anche per legno illegale ed emissioni. Il calendario di scadenze imposto dall'Ue. Paletti a tutte le apparecchiature elettriche.
È una vera e propria valanga di eco-novità quella che dovrebbe arrivare dal governo nelle prime due settimane del dicembre 2013.
In base al calendario che risulta dal combinato disposto della legge di «delegazione europea 2013» (la 96/2013) e dalla relativa legge istitutiva (la 234/2012) tra il 4 e il 14 dell'ultimo mese dell'anno il Consiglio dei ministri ha il compito di adottare ben cinque decreti legislativi per tradurre sul piano nazionale altrettanti provvedimenti ambientali targati Ue in materia di: apparecchiature elettriche elettroniche (cd. Aee) e relativi rifiuti (cd. Raee); riduzione integrata dell'inquinamento industriale (cd. disciplina Ippc), lotta al commercio del legno illegale; prevenzione degli incidenti industriali rilevanti (cd. normativa Seveso).
Nella nuova «Legge di delegazione europea» (che insieme alla parallela «Legge europea» costituisce l'attuale strumento per l'adeguamento alle norme Ue) si trovano infatti a convivere sia le deleghe per l'attuazione di provvedimenti europei con termini originari di recepimento già scaduti (come quelli su Aee, Ippc e legno, contemplati dalla vecchia «Comunitaria 2012», mai approvata) sia deleghe per l'attuazione di più fresche direttive (come quella su Raee e Seveso) di prossima scadenza.
E la fitta concentrazione dei termini finali proprio nel mese di dicembre è dovuta all'articolo 30 della legge 234/2012, che impone il recepimento dei provvedimenti già scaduti entro 3 mesi dall'entrata in vigore della legge di delegazione europea (operativa dal 04.09.2013) e la traduzione nazionale degli altri entro i 2 mesi precedenti i termini di attuazione imposti dall'Ue (termini tutti coincidenti nel 14.02.2014). Da qui le due citate deadline, rispettivamente, del 4 e del 14.12.2013. Ma vediamo le novità in arrivo.
Aee e Raee. Con il recepimento delle direttive 2011/65/Ce e 2012/19/Ue dovranno essere tradotte sul piano nazionale le ultime novità comunitarie sugli aspetti ambientali legati all'intera filiera delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, ossia: (ulteriore) limitazione dell'utilizzo di sostanze pericolose nella fabbricazione delle nuove apparecchiature; spinta su raccolta differenziata e recupero a valle dei relativi rifiuti.
In particolare sulle Aee, la direttiva 2011/65/Ce (il cui termine originario di recepimento, scaduto lo scorso 2 gennaio, è stato rifissato dal Legislatore nazionale nel 04.12.2013) chiede l'estensione delle già stringenti regole sulla loro fabbricazione a qualsiasi apparecchiatura che dipende da correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno una» delle funzioni previste, «pezzi di ricambio» compresi. Il tutto imponendo ai costruttori l'identificazione dei prodotti tramite numero seriale e propri dati. Sul fronte «Raee», invece, la parallela direttiva 2012/19/Ue sollecita sia l'allargamento del vigente obbligo di ritiro gratuito delle apparecchiature a fine vita da parte dei distributori di nuove Aee sia un innalzamento delle percentuali nazionali di recupero dei Raee.
Sotto il primo profilo si dovrà infatti passare dal già noto «one on one» (obbligo di ritiro gratuito del vecchio dietro acquisto di nuovo prodotto) al «one on zero», ossia all'obbligo di ritiro gratuito delle Aee conferite dagli utenti finali anche senza contestuale acquisto di nuovo prodotto. Nel tenore della direttiva l'obbligo di raccolta dovrebbe però essere circoscritto da due parametri, ossia: imposto ai distributori solo in relazione a negozi al dettaglio con superficie di vendita di Aee
400 metri quadrati o «in prossimità immediata di Raee di piccolissime dimensioni» (lato più lungo di massimo 25 cm); avere ad oggetto esclusivamente Raee provenienti da nuclei domestici (e non da professionisti, dunque).
Sotto il secondo profilo, invece, la stessa direttiva impone di far salire fino all'85% (dall'attuale volume del 70/80%) la percentuale nazionale di raccolta differenziata e recupero delle stesse apparecchiature una volta giunte a fine vita.
Emissioni industriali. Con il recepimento della direttiva 2010/75/Ue (termine originario di attuazione scaduto il 7 gennaio scorso, ora fissato nel 04.12.2013) dovrà invece essere ampliato il novero degli impianti industriali sottoposti alla severa disciplina autorizzatoria Ippc (acronimo di «Integrated pollution prevention and control», ossia «prevenzione e riduzione integrata dell'inquinamento», sul piano nazionale meglio nota come «Aia»: autorizzazione integrata ambientale).
Il rispetto delle cd. «migliori tecniche disponibili» necessario a ottenere l'autorizzazione alle emissioni dovrà infatti essere dimostrato anche dagli impianti di combustione di potenza termica compresa tra 20 e 50 Mw, dagli impianti industriali per la conservazione del legno e dei prodotti di legno, dalle imprese di produzione dei pannelli a base di legno.
Lotta contro legno illegale. Con il decreto attuativo del regolamento 995/2010/Ue dovrà poi arrivare il sistema sanzionatorio nazionale per le violazioni della disciplina comunitaria contro il disboscamento illegale in vigore dallo scorso 03.03.2013.
Le sanzioni (da adottarsi entro il nuovo termine nazionale del 04.12.2013, rispetto all'originaria e scaduta deadline Ue del 03.03.2013) dovranno colpire il mancato rispetto delle tre principali prescrizioni imposte dal citato regolamento comunitario a carico degli operatori del settore, ossia: divieto di immissione nell'Ue di legno tagliato illegalmente in altri Paesi; obbligo di verifica della provenienza; tracciamento del materiale lungo l'interna catena di approvvigionamento. E ciò con misure (secondo quanto chiede lo stesso provvedimento Ue) effettive, proporzionali e dissuasive, sia economiche che interdittive.
Controllo incidenti industriali. L'adeguamento alla direttiva 2012/18/Ue sul «controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose» (cd. «disciplina Seveso») comporterà l'inclusione di 14 nuove sostanze (mediate dal regolamento Ce n. 1272/2008 sull'ultima «classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze pericolose») nell'elenco di quelle nazionali che fanno scattare gli obblighi di prevenzione e protezione previsti dalla nota disciplina.
Meno stretti, in questo caso, i termini di attuazione: secondo il calendario guidato dalla stessa direttiva le prime novità (come la valutazione dei rischi legati alla presenza di «oli combustibili densi») dovranno essere recepite entro il 14.12.2014, le altre entro il 31.03.2015. Seppur in modo progressivo, anche in questo caso (come per la disciplina «Ippc») si assisterà dunque a un allargamento del novero delle industrie nazionali obbligate a nuovi adempimenti (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

ESPROPRIAZIONE: Per i terzi creditori difficile intervenire nell'espropriazione. Uno studio del Notariato con precisazioni in tema di diritto di abitazione.
Una serie di precisazioni in tema di diritto di abitazione sono state proposte dal Consiglio nazionale del notariato con lo studio 16.09.2013 n. 21-2013/E. In particolare ci si è soffermati su quello costituito per contratto e dei suoi rapporti con l'espropriazione forzata del bene che ne è oggetto.
Le considerazioni offerte dallo studio sono, come viene sottolineato dai notai stessi, l'esito anche di una riflessione che tiene conto delle esigenze sollevate dall'esperienza pratica.
Il Cnn osserva, innanzitutto, che il diritto di abitazione è insuscettibile di autonoma espropriazione, pertanto consequenziale alla sua insuscettibilità di ipoteca è l'opinione secondo cui il diritto di abitazione non può essere oggetto di sequestro o di pignoramento.
Si può, quindi, affermare, sottolinea il Consiglio, che il creditore del titolare del diritto di abitazione non può sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di abitazione spettante al proprio debitore.
È stato inoltre osservato che il titolare del diritto di abitazione deve, in ogni caso, essere messo in condizione di partecipare al procedimento. Se non gli sia stato notificato un pignoramento dovrà, quanto meno, essere chiamato a partecipare all'espropriazione ai sensi dell'art. 498 c.p.c., per far valere le proprie ragioni sul ricavato della vendita.
Per quanto poi riguarda la pubblicità immobiliare, secondo il Cnn: «Se si esclude che sia il pignoramento a dover dar conto della libertà della proprietà dei beni sottoposti ad esecuzione forzata (ricollegando la vendita forzata all'ipoteca anteriore), risulta evidente che l'unico atto, destinato alla pubblicità nei Registri Immobiliari (ex art. 2643 n. 6 c.c.) in cui poter dar conto della richiesta da parte del creditore ipotecario anteriore di far vendere il bene come libero e ricollegare la vendita forzata all'ipoteca anteriore, è il decreto di trasferimento dei beni in esito al procedimento di vendita».
Circa il momento in cui possa intendersi verificata l'estinzione del diritto di abitazione, i notai hanno sottolineato che non può essere altro che l'emissione del decreto di trasferimento se si ritiene, con la giurisprudenza consolidata ed uniforme, che il trasferimento (appunto) dei diritti pignorati all'aggiudicatario si perfezioni con il provvedimento finale in esito al sub procedimento di vendita forzata e dell'estinzione è certamente opportuno dar conto nel decreto di trasferimento.
Interessante è la nota di chiusura dello studio, in cui si osserva che i terzi creditori del titolare del diritto di abitazione che non abbiano iscritto un'ipoteca in data anteriore alla trascrizione del trasferimento della proprietà o non abbiano ottenuto una revocatoria dell'atto traslativo della proprietà «non sembra (...) abbiano alcun titolo per intervenire nell'espropriazione forzata promossa contro un soggetto terzo nei cui confronti non siano dotati di un diverso titolo esecutivo» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Si parte dalle aziende che trattano, trasportano o commercializzano materiali pericolosi: perimetro ancora incerto.
Per il Sistri primo banco di prova. Da domani al via la tracciabilità informatica dei rifiuti ma resta il registro cartaceo.

È domani, martedì 01.10.2013, la data chiave per iniziare la tracciabilità informatica dei rifiuti mediante il Sistri, inserendo le chiavette Usb nei computer e accendendo le black boxes degli automezzi. Da domani, infatti, secondo l'articolo 11 del Dl 101/2013, l'obbligo del Sistri decorre per enti o imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale, o che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi, compresi i nuovi produttori (cioè i produttori di rifiuti derivanti da operazioni di trattamento di rifiuti).
Mentre i produttori iniziali di rifiuti pericolosi e –nella sola Campania– i Comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani (salvo una possibile proroga annunciata nelle pieghe dell'articolo 11, commi 3 e 8) partiranno il 03.03.2014.
La dizione legislativa ha sollevato una serie di dubbi ai quali Confindustria –con il documento del 16.09.2013, pubblicato sul sito confederale il giorno dopo (si veda il Sole 24 Ore del 19 settembre)– ha cercato di offrire indicazioni il più possibile conformi alle intenzioni di semplificazione dichiarate dal ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, nel rispetto della normativa.
Nel documento si legge che relativamente ai soggetti che devono operare con il Sistri dal 01.10.2013, si devono intendere:
- per «trasportatori di rifiuti pericolosi»: le aziende iscritte al Registro delle imprese con codice Ateco 49 (trasporto terrestre e trasporto mediante condotte), iscritte all'Albo gestori ambientali alla categoria 5. Restano esclusi, in particolare, i trasportatori di rifiuti pericolosi iscritti all'Albo gestori ambientali ai sensi dell'articolo 212, comma 8, Dlgs 152/2006 (produttori iniziali, trasportatori in conto proprio di rifiuti pericolosi per non oltre 30 Kg o litri al giorno);
- per «gestori di rifiuti pericolosi»: le imprese che trattano rifiuti pericolosi prodotti da terzi, individuate al Registro imprese con codici Ateco 38 e 39 (in particolare, codice 38: attività di raccolta, trattamento e smaltimento rifiuti; recupero dei materiali; codice 39: attività di risanamento e altri servizi di gestione rifiuti);
- per «nuovi produttori»: i produttori di rifiuti pericolosi derivanti da operazioni di trattamento di rifiuti sia pericolosi che non pericolosi, svolte in impianti individuati con codici Ateco 38 e 39;
- gli intermediari e i commercianti di rifiuti pericolosi.
Del resto, è mediante i codici Ateco che l'Istat codifica le attività economiche, ed è questa la classificazione usata dall'agenzia delle Entrate. Né potrebbe essere diversamente se, per contenere il più possibile l'impatto del primo avvio del Sistri, la tracciabilità informatica è stata dichiarata da parte del ministro Orlando come relativa a 17mila imprese anziché alle 70mila iniziali. Un'interpretazione inutilmente restrittiva dell'articolo 11, invece, potrebbe includere quasi tutti, anche il settore del «trasporto in conto proprio»: in questo caso si può stimare che l'obbligo riguarderebbe quasi 50mila imprese.
I produttori iniziali di rifiuti pericolosi cominceranno a usare il Sistri dal 03.03.2014. Quindi, trasportatore e recuperatore/smaltitore (almeno fino al 03.04.2014) subiranno sia la complessità informatica del Sistri sia quella cartacea delle scritture tradizionali, poiché i produttori, per limitare la propria responsabilità, devono ricevere la quarta copia del formulario di trasporto. In base all'articolo 12, comma 2, Dm 17.12.2009, per il mese successivo alle diverse date di partenza, le imprese dovranno usare il cosiddetto "doppio binario", cioè chiavette Usb, black boxes, registri e formulari cartacei.
La platea degli obbligati, tuttavia, resta dinamica; infatti, il comma 4 dell'articolo 11 prevede un Dm che individui altre categorie di obbligati da ricercare, sembra, tra i produttori di rifiuti non pericolosi.
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L'attuazione. Multe crescenti dopo tre violazioni.
Un mese di «test» prima delle sanzioni.

Il 2 novembre prossimo e il 04.04.2014 partiranno le sanzioni per i soggetti obbligati al sistema Sistri, rispettivamente, dal 1° ottobre e dal 03.03.2014.
Lo prevede l'articolo 39, comma 1, del Dlgs 205/2010. Le sanzioni, infatti, «si applicano a partire dal giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'articolo 12, comma 2, del Dm 17.12.2009». Cioè dal giorno successivo alla fine del "doppio binario" (registri, più formulario, più Sistri).
Le sanzioni previste dall'articolo 260-bis, Dlgs 152/2006 per il Sistri saranno applicabili, quindi, dal 02.11.2013 o dal 04.04.2014.
Si pone ora il problema di capire da quale data, in base all'articolo 16, comma 2, del Dlgs 205/2010, decorra l'entrata in vigore di una serie di norme del Codice ambientale modificate o introdotte dall'articolo 16, comma 1, del Dlgs 205.
Anche in questo caso, l'entrata in vigore decorre «dal giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'articolo 12, comma 2» del Dm 17.12.2009, cioè dal giorno successivo alla fine del "doppio binario". Gli articoli che debutteranno (ferme restando le incongruenze) sono:
1- responsabilità del produttore dei rifiuti (articolo 188);
2- catasto rifiuti (articolo 189);
3- registro di carico e scarico (articolo 190);
4- trasporto e formulario (articolo 193).
Gli articoli nuovi, invece, sono il 188-bis (tracciabilità dei rifiuti) e il 188-ter (Sistri). Poiché l'articolo 16, comma 2, del Dlgs 205/2010 rappresenta una condizione di applicabilità del più generale regime di responsabilità e di gestione relativo ai rifiuti, si ritiene che tutta la nuova disciplina gestionale delle norme citate entri in vigore nei confronti di tutti i suoi destinatari a decorrere dal 02.11.2013, a prescindere dal fatto che il Sistri diventi operativo da domani o dal 03.03.2014 oppure non lo diventi mai per le categorie non comprese.
Le sanzioni previste dall'articolo 260-bis, Dlgs 152/2006 per l'invio di informazioni incomplete o inesatte (comma 3), la non osservanza degli ulteriori obblighi previsti dal Sistri (comma 5) e la mancata tenuta durante il trasporto della copia cartacea della scheda Sistri «area movimentazione» (comma 7) saranno irrogate solo in caso di più di tre violazioni commesse fino al 31.03.2014 (per gli obbligati al Sistri dal primo ottobre) o fino al 30.09.2014 (per gli obbligati dal 03.03.2014). Questa però è una semplificazione quasi inutile per i gestori che, effettuando centinaia di operazioni al giorno, rischiano di sbagliare molte volte nel corso della stessa giornata.
Gli operatori del settore e i professionisti che li assistono, quindi, dovranno fare i conti con la partenza differita del Sistri, delle sanzioni che sdoppiano la partenza e delle nuove norme del Codice ambientale (Dlgs 152/2006) introdotte dal Dlgs 205/2010 che entrano in vigore tutte dallo stesso giorno.
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Le procedure. La versione 3.1 pubblicata il 12 agosto.
Semplificazioni a metà nel manuale.

La versione 3.1 del Manuale operativo del 07.08.2013 apparsa lo scorso 12 agosto in www.sistri.it prova alcune innovazioni, ma resta un prodotto estremamente simile al precedente.
Su alcuni problemi operativi, Confindustria ha proposto possibili soluzioni e –con le prime indicazioni operative del 16.09.2013– ha suggerito ai trasportatori di rifiuti pericolosi di applicare la procedura prevista per la microraccolta, di cui al paragrafo 6.5.6 del Manuale operativo (si veda Il Sole 24 Ore del 24 settembre).
Il Manuale interviene tutto sommato su pochi casi e con esito talora non risolutivo:
- quantità: nella scheda Sistri «area movimentazione», la quantità dei rifiuti può essere espressa in metri cubi, con possibilità di verificarla a destinazione. Lo stesso, però, non accade per la registrazione in carico;
- dati anagrafici: se cambia la titolarità dell'azienda o del ramo, chi subentra accede all'area riservata di www.sistri.it e trasmette copia degli atti di variazione «prima che tali cambiamenti acquisiscano efficacia». Se il subentrante, però, non è ancora iscritto al Sistri, non può accedere all'area «gestione azienda» del sito istituzionale;
- conservazione dei dati: l'articolo 188-bis del Dlgs 152/2006 entra in vigore dal 02.11.2013 (si veda l'altro articolo in pagina) e richiede la conservazione «in formato elettronico» del registro e della scheda movimentazione. Il manuale, anche se la norma non lo prevede, indica la conservazione «presso la sede legale dell'azienda». Il problema è informatico, ed è legato alla difficoltà di scaricare questi documenti.
Mancano invece le semplificazioni procedurali che –senza modifiche della norma– avrebbero potuto essere presenti nel Manuale per semplificare le transazioni, come la creazione automatica del database per conservare i dati trasmessi oppure, quando il rifiuto è accettato dal destinatario, il ripristino dell'annotazione automatica dello scarico del produttore, senza associare la scheda di movimentazione al registro.
Tra gli aspetti operativi presenti nel Manuale operativo, c'è la possibilità di consegnare il carico di rifiuti al trasportatore senza inserire la chiavetta Usb del mezzo nel computer del produttore. Data e ora di inizio del trasporto sono indicate sulla Scheda Sistri Area movimentazione stampata su carta; al loro inserimento nel sistema informatico provvede in seguito il trasportatore (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo autostradale ha senza dubbio carattere di vincolo di inedificabilità assoluta.
Tuttavia, nel caso di vincoli di inedificabilità assoluta sopravvenuti alla realizzazione dell’opera, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che gli stessi assumono certamente rilevanza, seppure non quali elementi di preclusione assoluta al condono, bensì costituendo vincoli relativi, ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985, che impongono una concreta valutazione di compatibilità.

Nel merito il ricorso merita accoglimento, per le ragioni che seguono.

In primo luogo, appare incontestato –in quanto ammesso anche da ASPI, cfr. il doc. 2 della ricorrente, ultimo “considerato”– che le opere abusive di cui è causa sono state realizzate negli anni 1962-1963, mentre l’attuale disciplina legislativa del vincolo autostradale –che prevede nei centri abitati una fascia di rispetto di 30 metri– è contenuta nel D.Lgs. 285/1992 e nel DPR 495/1992, vale a dire il Nuovo Codice della Strada ed il suo regolamento di attuazione (cfr. in particolare l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 285/1992 e l’art. 28, comma 1, lett. a, del DPR 495/1992).
In precedenza, l’art. 9 della legge 24.07.1961 n. 729 (oggi abrogato), prevedeva una fascia di rispetto di 25 metri, da osservarsi dal momento di pubblicazione sul Foglio degli annunzi legali della Provincia (FAL) dell’avviso di avvenuta approvazione del progetto della strada.
Il vincolo autostradale ha senza dubbio carattere di vincolo di inedificabilità assoluta; tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto nel parere di ASPI ivi impugnato (cfr. ancora il doc. 2 della ricorrente), non sussistono nel caso di specie i presupposti per l’applicazione dell’art. 33, comma 1, della legge 47/1985 (come richiamato dall’art. 32 della legge 326/2003), in quanto tale norma prevede espressamente che i vincoli siano anteriori alla realizzazione dell’opera abusiva (<<…siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse>>).
Nel caso di vincoli di inedificabilità assoluta sopravvenuti alla realizzazione dell’opera, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che gli stessi assumono certamente rilevanza, seppure non quali elementi di preclusione assoluta al condono, bensì costituendo vincoli relativi, ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985, che impongono una concreta valutazione di compatibilità (si veda sul punto, quale precedente specifico, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n. 2576, che ha confermato la pronuncia del TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 3150/2004).
Nel caso di specie, il parere negativo non effettua alcuna concreta verifica della compatibilità dell’opera con il vincolo autostradale, limitandosi ad un apodittico richiamo all’art. 33 della legge 47/1985 ed al vincolo dei 30 metri introdotto dal Nuovo Codice della Strada.
Preme ancora evidenziare che il parere non contiene neppure alcun eventuale richiamo al vincolo di 25 metri previsto dalla legge 729/1961, la cui applicabilità al caso di specie (soprattutto in ordine alla pubblicazione sul FAL dell’avviso di approvazione del progetto), non viene concretamente provata dalle parti resistenti.
Per effetto dell’accoglimento del presente ricorso, devono essere annullati gli atti impugnati, con conseguente obbligo di riavvio del procedimento di condono e di rilascio, da parte dell’Ente preposto alla tutela del vincolo autostradale, di un nuovo parere sulla compatibilità o meno - in concreto - dell’opera abusiva con le esigenze della sicurezza del traffico e con gli altri interessi pubblici sottesi al vincolo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2013 n. 2285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In merito alla sussistenza dei presupposti fattuali che rivelano l’esistenza di un uso pubblico del passaggio, i presupposti che possono così identificarsi: passaggio esercitato da una collettività di persone, idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, protrazione del diritto di uso pubblico da tempo immemorabile ed eventuale inserimento del sentiero in un elenco istituito presso il Comune.
Sui requisiti rivelatori dell’uso pubblico di un bene, recentemente il CdS ha così statuito: <<La giurisprudenza, con orientamento costante cui la Sezione aderisce, ritiene che affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della pubblica amministrazione
>>.
Con provvedimento prot. 5317 del 27.11.2012, il Responsabile del Servizio Edilizia Privata del Comune di Chiesa in Valmalenco (SO), diffidava il Condominio “Chalet La Genziana”, a rimuovere i cancelli e a ripristinare il pubblico transito di un sentiero asserito di collegamento fra due strade comunali, ritenuto dal Comune medesimo di uso pubblico.
...
La questione fondamentale della presente controversia riguarda l’esistenza o meno di una servitù di pubblico passaggio sul sentiero adiacente il Condominio ove risiedono gli esponenti.
Sul punto, attese le opposte posizioni delle parti, il Collegio ha disposto istruttoria mediante verificazione, per l’accertamento della sussistenza dei presupposti fattuali che rivelano l’esistenza di un uso pubblico del passaggio, presupposti che possono così identificarsi: passaggio esercitato da una collettività di persone, idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, protrazione del diritto di uso pubblico da tempo immemorabile ed eventuale inserimento del sentiero in un elenco istituito presso il Comune [sui requisiti rivelatori dell’uso pubblico di un bene, si veda –fra le più recenti– Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2544, nella quale si legge che: <<La giurisprudenza, con orientamento costante cui la Sezione aderisce, ritiene che affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su una strada occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della pubblica amministrazione (ex multis, Cons. Stato, IV, 24.02.2011, n. 1240; IV, n. 2760 del 2012, cit.)>>; oltre a Cassazione civile, sez. II, 05.07.2013, n. 16864].
Ciò premesso, dalla lettura della relazione depositata in giudizio dal verificatore risulta chiaramente che:
- mancano elementi certi per affermare che sul sentiero vi sia un passaggio esercitato iure servitutis publicae;
- il sentiero soddisfa esigenze di collegamento con altri sentieri e non con le pubbliche vie;
- non vi sono elementi certi per avvalorare la tesi di un uso pubblico protratto nel tempo;
- il Comune, con propria nota allegata dal verificatore alla sua relazione, ha dichiarato di non avere accertato se il sentiero sia inserito in elenchi tenuti dall’Amministrazione.
Viste le risultanze della verificazione, è giocoforza concludere che non vi è idonea prova dell’uso pubblico del sentiero, sicché risulta priva di fondamento la pretesa del Comune stesso di rimozione dei cancelli collocati dal privato per la salvaguardia del Condominio e dei residenti nel medesimo.
A diversa conclusione non induce la documentazione prodotta da parte resistente in data 24.06.2013, la quale attesta semplicemente l’acquisto della segnaletica da parte della Giunta Comunale nel 1990 e l’avvenuta pulizia del sentiero, sempre nel 1990, ma che non appare idonea a scalfire le conclusioni raggiunte dall’incaricato della verificazione.
Il ricorso deve quindi accogliersi, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.10.2013 n. 2283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante ha effettuato una approfondita disamina di tutte le componenti di costo indicate nelle giustificazioni riportate dall’impresa aggiudicatrice, specificando, in particolare, le ragioni per le quali ciascuna di esse risulti congrua con l’offerta presentata e, pertanto, idonea ad assicurare prestazioni conformi al servizio richiesto.
Altresì, nelle procedure di evidenza pubblica un’offerta non può ritenersi senz’altro anomala e comportante l’automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori non perfettamente corrispondenti a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali; invero tali valori rappresentano non parametri inderogabili, ma indici del giudizio di congruità, conseguentemente affinché possa propendersi per l’anomalia dell’offerta, occorre (ma non è il caso di specie) che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.

Osserva, invero, il Collegio, che in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante ha effettuato una approfondita disamina di tutte le componenti di costo indicate nelle giustificazioni riportate dall’impresa aggiudicatrice, specificando, in particolare, le ragioni per le quali ciascuna di esse risulti congrua con l’offerta presentata e, pertanto, idonea ad assicurare prestazioni conformi al servizio richiesto.
Sotto altro profilo, si deve, nondimeno, rilevare che nelle procedure di evidenza pubblica un’offerta non può ritenersi senz’altro anomala e comportante l’automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori non perfettamente corrispondenti a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali; invero tali valori rappresentano non parametri inderogabili, ma indici del giudizio di congruità, conseguentemente affinché possa propendersi per l’anomalia dell’offerta, occorre (ma non è il caso di specie) che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 23.07.2012, n. 4206) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 11.10.2013 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: A differenza della tassa di occupazione (costituente espressione della potestà impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui la legge attribuisce il valore di indice di capacità contributiva), il canone in questione (ndr: canone patrimoniale per la concessione di spazi e aree pubbliche previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992) ha natura di corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di un bene comune.
Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso la discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata dalla suddivisione degli stessi in cinque classi per numero di abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i principi relativi al canone di concessione dettati dall’art. 27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di discrezionalità.
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Reputa il Collegio che il criterio adottato dal Comune di fare riferimento, in metri lineari, alla proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della struttura, sia del tutto aderente alla norma attributiva del potere, nella parte in cui essa indirizza l’amministrazione ad incorporare nel corrispettivo il “valore economico risultante dal provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio che l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata (la quale non è indice affidabile della potenzialità di ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.

Il primo motivo si appunta sulla previsione di regolamento comunale che, nel disciplinare l’applicazione del canone patrimoniale per la concessione di spazi e aree pubbliche previsto dall’art. 27 del d.lgs. 285 del 1992, individua quale criterio per la determinazione delle tariffe, sia per i cartelloni pubblicitari che per le pensiline: “la proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della porzione di struttura predisposta per l’installazione dei messaggi pubblicitari al metro lineare”.
All’uopo, si lamenta che il nuovo metodo di calcolo sarebbe in contrasto con i parametri fissati dall’art. 27 citato, dal momento che esso non potrebbe certo considerarsi riferito all’effettiva insistenza sul suolo, considerato che, se un’area può occupare dello spazio e incidere sul suolo, lo stesso non potrebbe dirsi di una linea (ovvero, della base dell’impianto, espressa in metri lineari). Né potrebbe rilevare, in senso contrario, la presunta remuneratività di un impianto di maggior superficie espositiva, posto che la ratio dell’imposizione sull’occupazione di suolo pubblico non sarebbe la pubblica partecipazione al reddito degli impianti, bensì il corrispettivo per l’utilizzo di una porzione di suolo pubblico.
Per contro, il criterio previsto dal regolamento del 2003, che fissava il canone in considerazione dei metri quadrati risultanti dall’area ottenuta con la proiezione ortogonale sul suolo del mezzo istallato, sarebbe stato effettivamente parametrato sull’insistenza sul suolo, poiché, considerando sia la lunghezza della base che lo spessore dell’impianto, veniva identificata una specifica porzione di spazio sottratta dal cartello all’uso pubblico del suolo.
Per gli stessi motivi (ovvero, per violazione del parametro dell’effettiva soggezione sul suolo posto dall’art. 27 del d.lgs. 285/1992), sarebbe, altresì, illegittima anche l’introduzione della differenziazione tariffaria per l’ipotesi della pubblicità mono e bifacciale (sia sulle pensiline che sui poster): la doppia esposizione, infatti, non implicherebbe occupazione di una porzione di strada maggiore rispetto a quella singola.
Il motivo non può essere accolto.
Occorre premettere che, a differenza della tassa di occupazione (costituente espressione della potestà impositiva dell’ente pubblico in relazione ad un fatto cui la legge attribuisce il valore di indice di capacità contributiva), il canone in questione ha natura di corrispettivo dovuto all’ente locale in relazione al monopolio (relativo) accordato in favore del privato su di un bene comune. Ciò giustifica perché (mentre nel primo caso la discrezionalità dei comuni risulta fortemente limitata dalla suddivisione degli stessi in cinque classi per numero di abitanti e dalla fissazione di un minimo e un massimo), i principi relativi al canone di concessione dettati dall’art. 27, comma 8, del D.lgs. n. 285 del 1992 (codice della strada) assegnano all’ente concedente un’ampia area di discrezionalità.
La norma da ultimo citata, nel dettaglio, statuisce che: “Nel determinare la misura della somma si ha riguardo alle soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la concessione costituisce l’oggetto principale dell’impresa, al valore economico risultante dal provvedimento di autorizzazione o concessione e al vantaggio che l’utente ne ricava". Orbene, richiamata la natura del canone in questione, reputa il Collegio che il criterio adottato dal Comune di fare riferimento, in metri lineari, alla proiezione ortogonale sul suolo del lato maggiore della struttura, sia del tutto aderente alla norma attributiva del potere, nella parte in cui essa indirizza l’amministrazione ad incorporare nel corrispettivo il “valore economico risultante dal provvedimento di concessione” nonché il “vantaggio che l’utente ne ricava”.
Difatti, al fine di computare il valore economico in questione, appare adeguato e ragionevole un criterio di commisurazione fondato, non sulla mera superficie occupata (la quale non è indice affidabile della potenzialità di ricavo), bensì sulle caratteristiche dimensionali dell’impianto, elemento oggettivo che contempera non arbitrariamente l’interesse particolare del concessionario con le molteplici esigenze connesse all’uso pubblico.
Parimenti deve dirsi quanto al rilievo accordato dal regolamento all’utilizzo mono -facciale o bifacciale della struttura, poiché è finanche intuitivo che tale doppia proiezione porta seco un maggiore valore di realizzo economico (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATAPer effetto dell'introduzione del principio della separazione tra i compiti di indirizzo politico e i compiti gestionali, devono ritenersi trasferite dagli organi di direzione politico-amministrativa al personale burocratico (alla stregua del vigente art. 107 del T.U. n. 267/2000) tutte le competenze in materia di repressione degli abusi edilizi.
Né può, in diversa direzione, ritenersi che il provvedimento impugnato sia stato adottato dal Sindaco nella qualità di Ufficiale di Governo ex art. 38 l. n. 142/1990 (ora trasfuso nell’art. 54 del T.U. cit.), non constando (fuori del richiamo, di per sé del tutto irrilevante, alla ridetta disposizione normativa, oltretutto contrastante con il contestuale richiamo alla normativa in tema di repressione degli abusi edilizi) della concreta ricorrenza dei relativi presupposti e, segnatamente, degli interessi suscettibili di attivare i relativi poteri extra ordinem.

... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n. 21 del 12.12.2000, notificata il 19 dicembre successivo, con al quale al ricorrente è stato ingiunto di demolire il fabbricato di sua proprietà sito alla località “Olivella”;
...
Il ricorso è fondato, nei sensi di cui alle considerazioni che seguono.
S’impone, in via preliminare ed assorbente, l’esame del terzo motivo di gravame, in quanto preordinato alla denuncia della incompetenza alla adozione del provvedimento impugnato.
La censura è palesemente fondata, non essendo dubbio che, per effetto dell'introduzione del principio della separazione tra i compiti di indirizzo politico e i compiti gestionali, devono ritenersi trasferite dagli organi di direzione politico-amministrativa al personale burocratico (alla stregua del vigente art. 107 del T.U. n. 267/2000) tutte le competenze in materia di repressione degli abusi edilizi.
Né può, in diversa direzione, ritenersi che il provvedimento impugnato sia stato adottato dal Sindaco nella qualità di Ufficiale di Governo ex art. 38 l. n. 142/1990 (ora trasfuso nell’art. 54 del T.U. cit.), non constando (fuori del richiamo, di per sé del tutto irrilevante, alla ridetta disposizione normativa, oltretutto contrastante con il contestuale richiamo alla normativa in tema di repressione degli abusi edilizi) della concreta ricorrenza dei relativi presupposti e, segnatamente, degli interessi suscettibili di attivare i relativi poteri extra ordinem (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2037 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’opera contestata al privato, consistita, si ripete, nella realizzazione di una strada di accesso all’abitazione e di un piazzale di parcheggio con poderosi sbancamenti di roccia, costituisce, sotto il profilo edilizio, un intervento di nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, lett. f), D.P.R. n. 380/2001, soggetto a permesso di costruire, sanzionabile, in mancanza di titolo abilitativo, con l’ordine di ripristino ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
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La sanzione amministrativa irrogata nel caso di specie ha funzione non afflittiva (come le sanzioni penali) ma ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato ed ha natura non personale ma reale, sicché segue oggettivamente la cosa abusiva e il suo rapporto proprietario indipendentemente dall’addebitabilità della condotta abusiva su di essa realizzata, con la conseguenza che la misura repressiva è applicabile nei confronti del proprietario attuale dell’immobile anche se estraneo all’abuso stesso.
Costituisce eccezione alla regola la sola ipotesi della non applicabilità al proprietario dell’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita da parte del Comune, in conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione. Tale ipotesi si verifica però solo qualora, “risulti in modo inequivocabile la completa estraneità del proprietario al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirla con gli strumenti offertigli dall’ordinamento”.
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Quanto alla lamentata inesatta individuazione dell'area di sedime attinta dalle opere abusive in questione, tale elemento non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
Il collegamento dell’acquisizione gratuita non direttamente al mancato ripristino entro il termine di 90 giorni previsto dalla legge, bensì al mancato rispetto della scansione temporale degli adempimenti fissata nell’ordine di demolizione, oltre che ragionevole, dovendo i lavori di ripristino essere previamente autorizzati, è posto al fine di favorire il ricorrente nel tempestivo adempimento dell’ordine di ripristino, e ciò nell’ottica di una leale collaborazione tra amministrazione e cittadino, con la conseguenza che egli non ha ragione di lamentarsi di tale specifica determinazione.

Osservato che:
- dall’esame della documentazione depositata in giudizio dalle parti, in modo particolare dal verbale del Corpo Forestale, dalla rilevazione tecnica effettuata dal professionista incaricato dal Comune e dalle fotografie, emerge come l’abuso contestato a N.B. riguardi la difformità dell’intervento di escavazione e sbancamento effettuato rispetto a quanto previsto come necessario per tutelare la pubblica incolumità dall’amministrazione comunale, ovvero la realizzazione di lavori estranei rispetto all’intervento approvato dal Comune di Soave e relativo alla messa in sicurezza delle sede stradale;
- detto intervento di maggiori dimensioni e quindi di maggior impatto negativo per l’area tutelata è consistito, in particolare, nella realizzazione di una nuova strada di accesso alla proprietà e nella creazione di un’area di sosta a monte dell’abitazione, opere queste che vanno a diretto vantaggio del proprietario dell’area, Nello Busacchi; con la conseguenza che quest’ultimo non può dirsi estraneo ai maggiori interventi eseguiti e che, quanto meno per tali difformità, ne è stata correttamente accertata la responsabilità in qualità di proprietario che si è avvantaggiato di tali lavori;
- tali considerazioni non risultano inficiate dalla responsabilità, da accertare in capo all’amministrazione comunale, circa la legittimità dei lavori specificatamente previsti per la messa in sicurezza della strada;
- in particolare, l’opera contestata al privato, consistita, si ripete, nella realizzazione di una strada di accesso all’abitazione e di un piazzale di parcheggio con poderosi sbancamenti di roccia, costituisce, sotto il profilo edilizio, un intervento di nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, lett. f), D.P.R. n. 380/2001, soggetto a permesso di costruire, sanzionabile, in mancanza di titolo abilitativo, con l’ordine di ripristino ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001;
- pertanto, i denunciati vizi di eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza dei presupposti, sviamento di potere e conflitto d’interesse, non sono predicabili nei confronti del provvedimento sanzionatorio impugnato, attesa la sua vincolatezza, una volta stabilito che l’intervento di sbancamento è stato eseguito, all’interno della proprietà dell’attuale ricorrente, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, senza alcun titolo abilitativo e senza previa autorizzazione paesaggistica;
- peraltro, la sanzione amministrativa irrogata nel caso di specie ha funzione non afflittiva (come le sanzioni penali) ma ripristinatoria dell’ordine urbanistico violato ed ha natura non personale ma reale, sicché segue oggettivamente la cosa abusiva e il suo rapporto proprietario indipendentemente dall’addebitabilità della condotta abusiva su di essa realizzata, con la conseguenza che la misura repressiva è applicabile nei confronti del proprietario attuale dell’immobile anche se estraneo all’abuso stesso. Costituisce eccezione alla regola la sola ipotesi della non applicabilità al proprietario dell’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita da parte del Comune, in conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione. Tale ipotesi si verifica però solo qualora, “risulti in modo inequivocabile la completa estraneità del proprietario al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirla con gli strumenti offertigli dall’ordinamento” (Corte Cost. n. 345/1991).
Viceversa, nel caso di specie, come già detto, dagli atti depositati ed in particolare, dal verbale del Corpo Forestale in atti, risulta come l’attuale ricorrente non possa non aver contribuito alla realizzazione delle opere abusive oggetto di sanzione, essendo stata contestualmente realizzata una nuova strada di accesso alla sua proprietà ed una nuova piazzola di sosta (opere che, evidentemente, non possono essere state commissionate dall’amministrazione comunale);
- quanto alla lamentata inesatta individuazione dell'area di sedime attinta dalle opere abusive in questione, tale elemento non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale;
- il collegamento dell’acquisizione gratuita non direttamente al mancato ripristino entro il termine di novanta giorni previsto dalla legge, bensì al mancato rispetto della scansione temporale degli adempimenti fissata nell’ordine di demolizione (denunciato con il sesto motivo), oltre che ragionevole, dovendo i lavori di ripristino essere previamente autorizzati, è posto al fine di favorire il ricorrente nel tempestivo adempimento dell’ordine di ripristino, e ciò nell’ottica di una leale collaborazione tra amministrazione e cittadino, con la conseguenza che egli non ha ragione di lamentarsi di tale specifica determinazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.10.2013 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della legittimità della ratifica di un atto amministrativo (viziato per incompetenza del sottoscrittore), da intendersi correttamente come ratifica propria e non per convalidare un atto assunto in via d’urgenza, è richiesto che l’organo competente dia contezza del vizio da rimuovere, della propria volontà di volerlo emendare (cd. “animus convalidandi”) e della condivisione delle ragioni che hanno sostenuto l’iniziale rigetto dell’istanza e con esse dei motivi di pubblico interesse ad esse sottese.
Nel caso di specie l’organo competente ha fatto proprie, espressamente condividendole, le ragioni che avevano portato il Sindaco a respingere l’istanza di riesame presentata dalla ricorrente, palesemente riconoscendo la presenza del vizio di incompetenza e la volontà di rimozione dello stesso, ferme restando le conclusioni di merito.

- atteso altresì che, con riguardo al vizio di incompetenza dedotto con il ricorso introduttivo, è intervenuta nelle more la ratifica da parte del Responsabile del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica del provvedimento di rigetto dell’istanza di riesame in precedenza assunto dal Sindaco;
- visti i motivi aggiunti rivolti a censurare la legittimità della disposta ratifica;
- ritenuto che le doglianze dedotte a tale riguardo non colgono nel segno, in quanto ai fini della legittimità della stessa, da intendersi correttamente come ratifica propria e non per convalidare un atto assunto in via d’urgenza, è richiesto che l’organo competente dia contezza del vizio da rimuovere, della propria volontà di volerlo emendare (cd. “animus convalidandi”) e della condivisione delle ragioni che hanno sostenuto l’iniziale rigetto dell’istanza e con esse dei motivi di pubblico interesse ad esse sottese (cfr. C.d.S., V, n. 3809/2013; TAR Lazio, III, n. 5299/2011);
- considerato che nel caso di specie l’organo competente ha fatto proprie, espressamente condividendole, le ragioni che avevano portato il Sindaco a respingere l’istanza di riesame presentata dalla ricorrente, palesemente riconoscendo la presenza del vizio di incompetenza e la volontà di rimozione dello stesso, ferme restando le conclusioni di merito;
- per detti motivi sia il ricorso principale che i motivi aggiunti successivamente proposti vanno respinti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.10.2013 n. 1152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In caso di impugnazione giurisdizionale di determinazioni amministrative di segno negativo fondate su una pluralità di ragioni (ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento), è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne dalle censure articolate ed il ricorso venga dichiarato infondato, o meglio inammissibile in parte qua, per carenza di interesse alla coltivazione dell'impugnativa avverso l'ulteriore ragione ostativa, il cui esito resta assorbito dalla pronuncia negativa in ordine alla prima ragione ostativa.
Osserva in proposito la Sezione che, in caso di impugnazione giurisdizionale di determinazioni amministrative di segno negativo fondate su una pluralità di ragioni (ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento), è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti indenne dalle censure articolate ed il ricorso venga dichiarato infondato, o meglio inammissibile in parte qua, per carenza di interesse alla coltivazione dell'impugnativa avverso l'ulteriore ragione ostativa, il cui esito resta assorbito dalla pronuncia negativa in ordine alla prima ragione ostativa (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2013, n. 1323) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.10.2013 n. 4969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In termini astratti, si concorda con quanto ritenuto dal Comune nelle ordinanze impugnate, e dalla giurisprudenza ivi citata, ovvero sulla possibilità che sia necessario munirsi di titolo edilizio per qualsiasi intervento di modifica del suolo, e quindi al limite anche per la posa di un cartello pubblicitario come quelli che qui rilevano.
Tale astratta possibilità deve però essere valutata alla luce delle normative regionali in concreto di volta in volta vigenti, emanate nell’esercizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio di cui all’art. 117, comma 2, Cost. Nel caso presente, rileva l’art. 33, comma 1, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, che assoggetta a permesso di costruire solo gli interventi di “trasformazione urbanistica ed edilizia”, ovvero impattanti in maniera in qualche modo significativa sul territorio.
Tale non è la posa di un cartello pubblicitario come quelli per cui è causa ovverosia cartello cd. bifacciale, ovvero da un pannello rettangolare, sostenuto da un plinto di cemento infisso al suolo e idoneo a recare su ogni faccia il messaggio promozionale desiderato dal cliente, delle dimensioni di 2 metri per 2 metri.

...
per l’annullamento, previa adozione della misura cautelare:
dell’ordinanza 15.02.2010 n. 21, conosciuta il successivo 18 febbraio, con la quale il Responsabile del settore tecnico del Comune di Trescore Balneario ha ingiunto alla Carminati Allestimenti S.r.l. di rimuovere in quanto abusivo un impianto pubblicitario collocato in territorio comunale, sulla S.S. n. 42 al Km 33 + 855 lato destro;
dell’ordinanza 15.02.2010 n. 23, conosciuta il successivo 18 febbraio, con la quale il medesimo Responsabile del settore tecnico ha ingiunto alla Carminati Allestimenti S.r.l. di rimuovere in quanto abusivo un impianto pubblicitario collocato in territorio comunale, sulla S.S. n. 42 al Km 33 + 950 lato destro;
...
La Carminati Allestimenti S.r.l., odierna ricorrente, nota azienda attiva nel settore della cartellonistica pubblicitaria, ha ricevuto le due ordinanze meglio indicate in epigrafe, che le prescrivono di rimuovere in quanto asseritamente abusivi, due impianti pubblicitari siti in Comune di Trescore Balneario, lungo il tracciato della S.S. 42 sul lato destro, alle progressive 33+855 e 33+950, e costituiti entrambi da un cd. cartello bifacciale, ovvero da un pannello rettangolare, sostenuto da un plinto di cemento infisso al suolo e idoneo a recare su ogni faccia il messaggio promozionale desiderato dal cliente.
Le ordinanze in questione, di identico tenore, ritengono che i manufatti in parola si trovino nella zona indicata come “zona 2” dall’art. 122 del regolamento edilizio comunale, in cui sono ammesse le affissioni pubblicitarie le quali rispettino quanto previsto dal codice della strada e dal regolamento edilizio in questione; ritengono poi che nella specie i manufatti tali prescrizioni non rispettino, perché assistiti soltanto da una autorizzazione dell’ANAS in scadenza al 31.12.2010 per il primo e scaduta il 31.12.2009 per il secondo, e privi invece sia di autorizzazione comunale ad occupare il suolo pubblico, sia di permesso di costruire, titoli ritenuti entrambi necessari (doc. ti ricorrente 1 e 2, copie ordinanze impugnate; doc.ti ricorrente 3 e 4, estratti regolamento edilizio Comune Trescore).
Avverso tali ordinanze e attraverso le presupposte norme regolamentari, di cui pure meglio in epigrafe, propone ora impugnazione la Carminati, con ricorso articolato in tre motivi:
- con il primo di essi, rubricato come terzo a p.14 dell’atto, deduce violazione dell’art. 7 della l. 07.08.1990 n. 241, per avere il Comune omesso di inviarle l’avviso di inizio del procedimento;
- con il secondo motivo, rubricato come primo a p.5 dell’atto, deduce violazione dell’art. 23 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285 e dell’art. 53, comma 1, lettera a), del DPR 16.12.1992 n. 495, cd. Codice della strada e relativo regolamento di esecuzione, poiché per cartelli come quelli per cui è causa, siti all’esterno del centro abitato, la competenza a rilasciare l’autorizzazione necessaria alla posa è dell’ANAS, ente proprietario della strada, non già del Comune, non essendo dovuta una distinta ed ulteriore autorizzazione comunale ad occupare il suolo pubblico;
- con il terzo motivo, rubricato come secondo a p.10 dell’atto, deduce violazione delle medesime norme, poiché impianti come quelli per cui è causa, delle dimensioni di 2 metri per 2 metri, non richiedono nemmeno il permesso di costruire.
...
E’ poi fondato anche il terzo motivo di ricorso, fondato sulla non necessità di titolo edilizio per i manufatti per i quali è processo. In termini astratti, si concorda con quanto ritenuto dal Comune nelle ordinanze impugnate, e dalla giurisprudenza ivi citata, ovvero sulla possibilità che sia necessario munirsi di titolo edilizio per qualsiasi intervento di modifica del suolo, e quindi al limite anche per la posa di un cartello pubblicitario come quelli che qui rilevano.
Tale astratta possibilità deve però essere valutata alla luce delle normative regionali in concreto di volta in volta vigenti, emanate nell’esercizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio di cui all’art. 117, comma 2, Cost. Nel caso presente, rileva l’art. 33, comma 1, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, che assoggetta a permesso di costruire solo gli interventi di “trasformazione urbanistica ed edilizia”, ovvero impattanti in maniera in qualche modo significativa sul territorio. Tale non è la posa di un cartello pubblicitario come quelli per cui è causa, così come ritenuto su un caso identico da TAR Lombardia Milano 13.02.2008 n. 2948, correttamente citata dalla ricorrente.
Devono essere quindi annullate sia le ordinanze impugnate sia le previsioni regolamentari illegittime da esse presupposte, così come in dispositivo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.10.2013 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’impugnata deliberazione di classificazione della strada in questione come strada comunale deve ritenersi illegittima sulla base dell’assorbente rilievo dell’insussistenza del presupposto della proprietà pubblica o di una servitù di uso pubblico sulle aree interessate dal tracciato stradale, alla luce dell’ivi richiamato consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui per l’attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all’uso pubblico concorra l’intervenuto acquisto, da parte dell’ente locale, della proprietà del suolo relativo o di altro diritto reale immobiliare (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d’esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell’appartenenza della sede viaria al Comune, l’iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima.
In reiezione del secondo, complesso motivo d’appello, è sufficiente rilevare che:
- la natura di strada forestale, propria di lunghi tratti della strada in questione, non incide sull’assetto dominicale dei fondi attraversati dal tracciato stradale, nel caso di specie in parte di proprietà di soggetti privati;
- come accertato con la sentenza, che definisce il giudizio parallelo trattenuto in decisione all’udienza del 04.06.2013 (ricorso in appello n. 3282 del 2013), l’impugnata deliberazione di classificazione della strada in questione come strada comunale deve ritenersi illegittima sulla base dell’assorbente rilievo dell’insussistenza del presupposto della proprietà pubblica o di una servitù di uso pubblico sulle aree interessate dal tracciato stradale, alla luce dell’ivi richiamato consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui per l’attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all’uso pubblico concorra l’intervenuto acquisto, da parte dell’ente locale, della proprietà del suolo relativo o di altro diritto reale immobiliare (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d’esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell’appartenenza della sede viaria al Comune, l’iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima (v. sul punto, per tutte, Cass. civ., sez. II, 28.09.2010, n. 20405; Cass. civ., sez. I, 26.08.2002, n. 12540; Cass. civ., Sez. II, 07.04.2006, n. 8204);
- la contestazione dell’illegittimità ab imis dell’impugnata deliberazione di classificazione, per difetto del presupposto di una strada di uso pubblico, deve ritenersi insita nell’impianto difensivo della Provincia, ricavabile da un’interpretazione sistematica del ricorso di primo grado, nonché riproposta in appello nei relativi atti difensivi (v. anche le difese svolte dall’appellata Provincia in replica al primo motivo d’appello), con la conseguenza che, sotto un profilo processuale, la questione in esame rientra nei limiti dell’oggetto del presente giudizio.
La rilevata insussistenza della presupposta situazione giuridica reale impone la conferma dell’appellata statuizione annullatoria dell’impugnata delibera di classificazione stradale, con sequela di caducazione dell’ordinanza sindacale recante la disciplina della circolazione sulla strada medesima, sul presupposto (insussistente) della sua natura comunale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.10.2013 n. 4953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Dell’abbandono e deposito di rifiuti sui fondi risponde -in solido con l'autore materiale, anche- il proprietario dell'area, o il titolare di diritto reale o personale di godimento, al quale l'azione sia addebitabile a titolo di dolo o colpa.
Per cui l'accertamento della condotta asseritamente colposa va eseguito dall'amministrazione e qualora non sia stata né accertata, né tantomeno dimostrata la sussistenza dell'elemento psicologico (ossia almeno la colpa), in difetto quindi di accertato concorso con il terzo autore dell'illecito di una condotta colpevole del proprietario del fondo, non è dato ricavare alcuna sua responsabilità per la rimozione da effettuare, per cui è illegittima la relativa ordinanza sindacale emessa unicamente sul rilievo della proprietà del fondo su cui si trovano i beni depositati.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 233 del 23/12/2004, con la quale il comune di Alfonsine ingiunge alla società ricorrente lo sgombero di materiale plastico depositato nell'area sita in via ... di Alfonsine e di tutti gli atti connessi, presupposti o conseguenti a quello sopra individuato ed, in particolare, dell'ordinanza sindacale n. 13 del 21/02/2005, per la parte in cui, concedendo una proroga del termine per lo sgombero dell'area, conferma l’ordinanza precedente.
...
Il Tribunale ritiene che il ricorso meriti accoglimento, risultando fondata la censura rilevante eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto sui quali è fondata l’ordinanza di sgombero principalmente impugnata, nonché per difetto di adeguata istruttoria e di carenza motivazione.
La ricorrente ha infatti comprovato di non essere né la proprietaria del materiale da sgomberare, avendo essa acquisito il capannone e la relativa area cortiliva dal Fallimento CEDAL (v. doc. n. 4 della ricorrente) in cui detto materiale era già ivi giacente, né la depositaria dello stesso, in quanto l’effettiva proprietaria era Fermach s.a.s., che aveva comprato lo stesso dal Fallimento CEDAL, con obbligo di asporto (v. doc. n. 4 della ricorrente). La ricorrente ha più volte ha invitato e poi sollecitato la proprietaria del materiale plastico a ritirarlo, stante l’ingombro dell’area cortiliva e la completa estraneità del materiale rispetto all’attività commerciale svolta dalla ricorrente.
Successivamente intervenivano in loco i Vigili del Fuoco i quali, con nota in data 15/09/2013 comunicavano al Comune e al curatore del Fallimento CEDAL che dal sopralluogo effettuato era emerso il suddetto deposito di materiale plastico, pericoloso in caso di incendio, del quale chiedeva la rimozione per salvaguardare l’incolumità pubblica.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che il Comune, mediante una più attenta istruttoria, avrebbe potuto appurare l’estraneità della ricorrente rispetto a detto materiale ed individuare l’effettiva proprietaria dello stesso (anche a seguito di ulteriore vendita del materiale depositato da Sermach s.a.s. ad altra impresa: ditta GRAEL, con successivo ritiro, da parte di quest’ultima, di una parte del materiale depositato), nonché, infine il vincolo di asporto espressamente pattuito alla compravendita del bene tra Fallimento CEDAL e Sarmach s.a.s..
Di conseguenza, nella specie, l’ordinanza di sgombero ex art. 54 T.U. n. 267 del 2000 del Comune avrebbe dovuto essere inviata agli effettivi proprietari dei beni depositati, in quanto soggetti già chiaramente individuati (o comunque facilmente individuabili a seguito di attività istruttoria) che, in tale loro qualità dovevano provvedere (anche in forza di espressa obbligazione contrattuale) alla rimozione degli stessi. Risulta pertanto illegittima l’ingiunzione alla società proprietaria dell’area, la cui responsabilità per il deposito avrebbe potuto ricorrere nell’ipotesi –come si è visto qui insussistente– di impossibilità di individuare i soggetti responsabili del deposito abusivo o, comunque, della mancata rimozione di propri beni dalla proprietà di terzi.
Si ritiene, pertanto, non persuasiva l’argomentazione della resistente amministrazione comunale facente leva sulla asserita esistenza, in capo alla proprietaria dell’area, di un rapporto giuridico qualificabile come detenzione di cosa altrui, con correlato obbligo di custodia, in quanto trattasi di mera affermazione che non risulta suffragata da alcun elemento probatorio. Né a tale riguardo, può essere considerato rilevante lo strumento utilizzato dal Sindaco del comune di Alfonsine per ordinare la rimozione dei materiali, vale a dire l’ordinanza contingibile ed urgente, poiché anche detti provvedimenti extra ordinem devono avere quali destinatari –in caso di loro facile individuazione– i soggetti responsabili della situazione di pericolo che si intende fronteggiare e rimuovere.
In applicazione di tale principio, è stato affermato in giurisprudenza, che dell’abbandono e deposito di rifiuti sui fondi risponde -in solido con l'autore materiale, anche- il proprietario dell'area, o il titolare di diritto reale o personale di godimento, al quale l'azione sia addebitabile a titolo di dolo o colpa; per cui l'accertamento della condotta asseritamente colposa va eseguito dall'amministrazione e qualora non sia stata né accertata, né tantomeno dimostrata la sussistenza dell'elemento psicologico (ossia almeno la colpa), in difetto quindi di accertato concorso con il terzo autore dell'illecito di una condotta colpevole del proprietario del fondo, non è dato ricavare alcuna sua responsabilità per la rimozione da effettuare, per cui è illegittima la relativa ordinanza sindacale emessa unicamente sul rilievo della proprietà del fondo su cui si trovano i beni depositati (v. TAR Catania-Sicilia sez. I, 30.12.2011, n. 3235) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 08.10.2013 n. 622 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pretesa azionata da ENEL Distribuzione s.p.a. consiste, in concreto, in un azione di accertamento della sussistenza di posizione creditoria nei confronti dell’amministrazione comunale riferita alla restituzione delle spese a suo tempo asseritamente sostenute dalla ricorrente per lo spostamento di un palo di sostegno della linea elettrica sito a margine di una via; spostamento, questo, resosi necessario per potere realizzare il marciapiede, in un tratto della strada che ne era sprovvisto.
Trattasi, in definitiva, di verificare su quale soggetto (ENEL o Comune) gravino gli oneri relativi allo spostamento dell’impianto, e, quindi, trattasi di accertare l’esistenza o meno di un obbligazione in capo all’ente proprietario della strada di pagare le spese asseritamente sostenute dal gestore del servizio per eseguire la suddetta operazione, con la conseguenza che detta controversia deve essere decisa dal giudice ordinario, quale giudice dei diritti.
Sicché, il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo questo TAR che la relativa controversia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario.
Sono fatti comunque salvi gli effetti della translatio iudicii ai sensi e nei limiti di cui all’art. 11, comma 2, cod. proc. amm..

Il Collegio ritiene, condividendo sul punto la relativa eccezione del resistente comune di Bologna, che il proposto ricorso sia inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito.
La pretesa azionata da ENEL Distribuzione s.p.a., pur attraverso una formale azione impugnatoria di atti comunali, consiste, in concreto, in un azione di accertamento della sussistenza di posizione creditoria nei confronti dell’amministrazione comunale bolognese, riferita alla restituzione delle spese a suo tempo asseritamente sostenute dalla ricorrente per lo spostamento di un palo di sostegno della linea elettrica sito a margine di via Siepelunga a Bologna; spostamento, questo, resosi necessario per potere realizzare il marciapiede, in un tratto della strada che ne era sprovvisto.
La presente controversia deve essere qualificata, pertanto, quale ordinaria azione di accertamento di un diritto di credito, con conseguente qualificazione del ricorso quale azione di condanna del debitore al pagamento di una determinata somma in favore del creditore.
La fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 28 del Codice della Strada, norma che riconosce all’ente proprietario della strada (nella specie il Comune) un vero e proprio diritto soggettivo nei confronti dei concessionari esercenti un servizio pubblico sulla strada (nella specie ENEL riguardo al palo di sostegno della linea elettrica sito in via Siepelunga) ad ottenere –in caso di comprovate esigenze della viabilità (nella specie: realizzazione del marciapiede in tratto di strada che ne è sprovvista) lo spostamento degli impianti in altre sedi messe a disposizione del proprietario della strada.
Trattasi, in definitiva, di verificare su quale soggetto (ENEL o Comune) gravino gli oneri relativi allo spostamento dell’impianto, e, quindi, trattasi di accertare l’esistenza o meno di un obbligazione in capo all’ente proprietario della strada di pagare le spese asseritamente sostenute dal gestore del servizio per eseguire la suddetta operazione, con la conseguenza che detta controversia deve essere decisa dal giudice ordinario, quale giudice dei diritti.
Per i suesposti motivi, il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo questo TAR che la relativa controversia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario.
Sono fatti comunque salvi gli effetti della translatio iudicii ai sensi e nei limiti di cui all’art. 11, comma 2, cod. proc. amm. (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 08.10.2013 n. 621 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 22 della L. 241/1990 dispone espressamente che: “Ai fini del presente capo si intende: (…) e) per <<pubblica amministrazione>> tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Per i particolari fini considerati dalla norma, quindi, la nozione di “pubblica amministrazione” risulta di ben più ampia portata rispetto a quella contenuta in altri settori ordinamentali (quale ad esempio quello della contrattualistica pubblica), estendendosi anche, per quanto di interesse in questa sede, ai soggetti privati tout court, laddove l’attività da questi posta in essere risulti genericamente di pubblico interesse.
Ne consegue che, in tema di accesso ai documenti amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto privato ponga in essere una attività che corrisponda ad un pubblico interesse, perché lo stesso assuma la veste di “pubblica amministrazione” e come tale sia assoggettato alla specifica normativa di settore.
In altri termini, è sufficiente che il soggetto presso cui si pratica l’accesso, ancorché di diritto privato, svolga un’attività che sia riconducibile sul piano oggettivo ad un pubblico interesse inteso in senso lato, perché a quest’ultimo sia applicabile la disciplina fissata dalla legge n. 241 del 1990 in materia in accesso.

Ed invero, l’art. 22 della L. 241/1990 sopra menzionato dispone espressamente che: “Ai fini del presente capo si intende: (…) e) per <<pubblica amministrazione>> tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Per i particolari fini considerati dalla norma, quindi, la nozione di “pubblica amministrazione” risulta di ben più ampia portata rispetto a quella contenuta in altri settori ordinamentali (quale ad esempio quello della contrattualistica pubblica), estendendosi anche, per quanto di interesse in questa sede, ai soggetti privati tout court, laddove l’attività da questi posta in essere risulti genericamente di pubblico interesse.
Ne consegue che, in tema di accesso ai documenti amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto privato ponga in essere una attività che corrisponda ad un pubblico interesse, perché lo stesso assuma la veste di “pubblica amministrazione” e come tale sia assoggettato alla specifica normativa di settore.
In altri termini, è sufficiente che il soggetto presso cui si pratica l’accesso, ancorché di diritto privato, svolga un’attività che sia riconducibile sul piano oggettivo ad un pubblico interesse inteso in senso lato, perché a quest’ultimo sia applicabile la disciplina fissata dalla legge n. 241 del 1990 in materia in accesso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.10.2013 n. 4923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: La controversia si incentra nel chiarire se l’emissione di una sentenza secondo il rito del patteggiamento, in cui manca un giudizio formale di accertamento del fatto di reato, possa costituire o meno presupposto per l’irrogazione, da parte della P.A., del divieto all’esercizio dell’attività commerciale.
Osserva al riguardo il Collegio che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., “la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Dal tenore letterale della citata disposizione, quindi, emerge chiaramente la volontà del legislatore di escludere l’efficacia della sentenza patteggiata solo nell’ambito dei giudizi civili ed amministrativi, restando, per converso, ferma la sua equiparazione alla pronuncia di condanna ad ogni altro fine.
In altri termini, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non può essere posta dal giudice civile o amministrativo a fondamento di pronunce che postulino l’accertamento del fatto, né può spiegare effetti penali che siano subordinati a detto accertamento, in quanto priva dell’autorità propria del giudicato sostanziale, ma è “del tutto equivalente alla condanna ordinaria, in mancanza di una disposizione che lo escluda espressamente, rispetto a quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente ricollega al fatto giuridico della condanna, indipendentemente dai presupposti e dalle modalità procedimentali con cui sia stata adottata”.
Ed una siffatta espressa esclusione non è rinvenibile nell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998.
Il Collegio, pertanto, non ha, motivo di discostarsi dall’insegnamento giurisprudenziale ormai consolidato e coerente al citato dato normativo, secondo cui “quando una norma assume l’esistenza di una condanna penale come presupposto (più o meno vincolante) per l’adozione di un provvedimento amministrativo, ovvero quale preclusione all’esercizio di determinate facoltà o diritti, a questi fini vale come sentenza di condanna anche quella emessa a seguito di patteggiamento”.

È pacifico in causa che l’originario legale rappresentante della R. abbia subito una condanna, con sentenza passata in giudicato, per il reato di bancarotta fraudolenta.
La controversia si incentra, quindi, nel chiarire se l’emissione di una sentenza secondo il rito del patteggiamento, in cui manca un giudizio formale di accertamento del fatto di reato, possa costituire o meno presupposto per l’irrogazione, da parte della P.A., del divieto all’esercizio dell’attività commerciale.
Osserva al riguardo il Collegio che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., “la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Dal tenore letterale della citata disposizione, quindi, emerge chiaramente la volontà del legislatore di escludere l’efficacia della sentenza patteggiata solo nell’ambito dei giudizi civili ed amministrativi, restando, per converso, ferma la sua equiparazione alla pronuncia di condanna ad ogni altro fine.
In altri termini, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non può essere posta dal giudice civile o amministrativo a fondamento di pronunce che postulino l’accertamento del fatto (cfr. Corte Cost., 11.12.1995, n. 499), né può spiegare effetti penali che siano subordinati a detto accertamento, in quanto priva dell’autorità propria del giudicato sostanziale, ma è “del tutto equivalente alla condanna ordinaria, in mancanza di una disposizione che lo escluda espressamente, rispetto a quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente ricollega al fatto giuridico della condanna, indipendentemente dai presupposti e dalle modalità procedimentali con cui sia stata adottata” (Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009, n. 4006).
Ed una siffatta espressa esclusione non è rinvenibile nell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998.
Il Collegio, pertanto, non ha, motivo di discostarsi dall’insegnamento giurisprudenziale ormai consolidato e coerente al citato dato normativo , secondo cui “quando una norma assume l’esistenza di una condanna penale come presupposto (più o meno vincolante) per l’adozione di un provvedimento amministrativo, ovvero quale preclusione all’esercizio di determinate facoltà o diritti, a questi fini vale come sentenza di condanna anche quella emessa a seguito di patteggiamento” (cfr. da ultimo e per tutte: Cons. Stato, Sez. III, 27.03.2012, n. 1781).
Ne consegue la fondatezza dell’appello principale interposto dal Comune di Padova,atteso che erroneamente il Tar, per l’applicazione dell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998, non ha ritenuto la piena equiparabilità tra la sentenza di condanna e quella emessa su richiesta delle parti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.10.2013 n. 4921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di gare di appalto (D.Lgs. n. 163/2006 - Codice degli appalti) in una situazione di obiettiva incertezza (quando cioè le clausole della lex specialis risultino imprecisamente formulate o si prestino comunque ad incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui l'amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis.
Si rammenta in proposito che, per consolidata giurisprudenza "in materia di gare di appalto (D.Lgs. n. 163/2006 - Codice degli appalti) in una situazione di obiettiva incertezza (quando cioè le clausole della lex specialis risultino imprecisamente formulate o si prestino comunque ad incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui l'amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis" (Cons. Stato Sez. V, 17/10/2012, n. 5296) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 07.10.2013 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune non può fissare limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato e altresì non può, attraverso l'utilizzo di atti di natura edilizia ed urbanistica, adottare misure che in buona sostanza costituiscono una deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato.
Più in particolare, i Comuni, non possono adottare misure che ostacolino o impediscano in modo irragionevole l'insediamento degli impianti di telefonia, e comunque non posso prevedere il divieto d'installazione delle stazioni radio base per intere zone territoriali omogenee ovvero introdurre misure che nella veste urbanistica sono dirette alla tutela dei rischi dell'elettromagnetismo.
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L'art. 86, comma terzo, del codice delle comunicazioni elettromagnetiche, ha equiparato le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, e come tali, devono ritenersi poste al servizio dell'insediamento abitativo.
In altre parole gli atti impugnati non tengono conto del fatto che tali opere hanno carattere infrastrutturale ex articoli 86 e 90 del decreto legislativo 259 del 2003 e quindi devono ritenersi assimilate, ad ogni effetto, a quelle di urbanizzazione primaria con caratteri di pubblica utilità, con la conseguenza che, in via di principio, devono ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.

 Ed infatti come correttamente rilevato dalla ricorrente, con la legge 22.02.2001 n. 36, è stata riservata allo Stato la competenza in materia di fissazione dei limiti alle esposizioni elettromagnetiche mentre alla Regioni e agli Enti Locali è stato affidato il compito di individuare i criteri localizzativi di detti impianti di telecomunicazioni;
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale chiarendo che “la fissazione a livello nazionale dei valori soglia, non derogabili da parte delle Regioni nemmeno il senso più restrittivo, rappresenta il punto di equilibrio tra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l'impatto delle emissioni elettromagnetiche e di realizzare impianti necessari al paese, nella logica per cui le competenze delle Regioni in materia di trasporto dell'energia e di ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente, vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. Tutt'altro discorso è da farsi circa le discipline localizzative territoriali. A questo proposito è logico che riprenda pieno vigore l'autonoma capacità delle Regioni e degli Enti Locali di regolare l'uso del proprio territorio, purché, ovviamente, criteri localizzativi è standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l'insediamento degli stessi" (corte costituzionale 07.10.2003 n. 307);
Pertanto, alla luce di tale principio, il Comune non può fissare limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato, e d'altro lato, non può, attraverso l'utilizzo di atti di natura edilizia ed urbanistica, adottare misure che in buona sostanza costituiscono una deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato. Più in particolare, i Comuni, non possono adottare misure che ostacolino o impediscano in modo irragionevole l'insediamento degli impianti di telefonia, e comunque non posso prevedere il divieto d'installazione delle stazioni radio base per intere zone territoriali omogenee ovvero introdurre misure che nella veste urbanistica sono dirette alla tutela dei rischi dell'elettromagnetismo.
Nella specie, l'amministrazione comunale ha limitato la possibilità di installazione degli impianti per la telefonia nelle sole zone agricole e F4 e pertanto ha di fatto introdotto una misura cautelativa che va a sovrapporsi a quella fissata dallo Stato;
A ciò va aggiunto che l'articolo 86, comma terzo, del codice delle comunicazioni elettromagnetiche, ha equiparato le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, e come tali, devono ritenersi poste al servizio dell'insediamento abitativo. In altre parole gli atti impugnati non tengono conto del fatto che tali opere hanno carattere infrastrutturale ex articoli 86 e 90 del decreto legislativo 259 del 2003 e quindi devono ritenersi assimilate, ad ogni effetto, a quelle di urbanizzazione primaria con caratteri di pubblica utilità, con la conseguenza che, in via di principio, devono ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.
Essendo al contrario i provvedimenti impugnati fondati sulla non compatibilità degli impianti con la zonizzazione vigente, gli stessi anche per tale ragione, devono ritenersi illegittimi (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.10.2013 n. 837 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'obbligo di predisporre adeguate cautele a tutela dell'integrità delle buste contenenti le offerte delle imprese partecipanti a gare pubbliche, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l'individuazione del contraente, in quanto l'integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità, consacrati dall'articolo 97 della Costituzione, ai quali deve uniformarsi l'azione amministrativa.
Sicché la mera circostanza che il plico sia pervenuto aperto alla commissione di gara implica l'esclusione della partecipante, indipendentemente dal soggetto cui sia addebitabile l'erronea apertura, stante l'esigenza di assicurare la garanzia dei principi di par condicio e di segretezza delle offerte.

... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. d19/53 del 02/10/2012, con la quale si è disposto "di non ammettere l'istanza presentata da polo per l'innovazione - cooperazione- sostenibilità soc.cons.coop. al pos fasr abruzzo 2007-20013 -attività di sostegno alla creazione dei polo di innovazione".
...
- Considerato che essendo il ricorso manifestamente infondato può essere emanata nella specie sentenza in forma semplificata ex art. 74 C.P.A..
- Che invero in primo luogo va precisato che l'avviso pubblico de quo all'articolo 2 ha previsto espressamente che avrebbero trovato applicazione le norme sugli appalti pubblici di cui al decreto legislativo 12.04.2006 numero 163;
- Che della normativa sugli appalti non si è fatta, pertanto, nella specie, applicazione analogica, bensì diretta, in quanto richiamata dalla legge speciale di gara;
- Che ciò stante, nella specie, non può non trovare applicazione l'articolo 46, comma 1-bis, (come aggiunto dall'articolo 4 del decreto-legge 13.05.2011 numero 70 convertito in legge 12.07.2011 numero 106) del decreto legislativo numero 163 del 2006, il quale, nel prevedere in via generale l'esclusione del concorrente per mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice, dal regolamento ed da altre disposizioni di legge vigenti, precisa che l'esclusione va comunque disposta "in caso di non integrità del plico contenente l'offerta";
- Che la giurisprudenza amministrativa ha affermato il principio secondo cui "l'obbligo di predisporre adeguate cautele a tutela dell'integrità delle buste contenenti le offerte delle imprese partecipanti a gare pubbliche, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l'individuazione del contraente, in quanto l'integrità dei plichi contenenti le offerte dei partecipanti è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità, consacrati dall'articolo 97 della Costituzione, ai quali deve uniformarsi l'azione amministrativa" (confronta Consiglio di Stato, sezione quinta, 28.03.2012, numero 1862);
- Che nella specie il principio della segretezza delle offerte risulta palesemente violato, posto che, è pacifico il fatto che nella specie il plico spedito dalla ricorrente è arrivato aperto presso la Direzione Sviluppo Economico e Turismo (l'accertamento è stato effettuato e dichiarato dal dipendente addetto al protocollo);
- Che ciò stante, nella specie, deve trovare necessariamente applicazione il principio giurisprudenziale secondo cui "la mera circostanza che il plico sia pervenuto aperto alla commissione di gara implica l'esclusione della partecipante, indipendentemente dal soggetto cui sia addebitabile l'erronea apertura, stante l'esigenza di assicurare la garanzia dei principi di par condicio e di segretezza delle offerte” (confronta Tar Veneto, prima sezione, 19.07.2005, numero 2867) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.10.2013 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: In materia di contributi pubblici, la giurisprudenza ha oramai chiarito che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie sugli atti di ritiro del finanziamento, anche susseguente alla relativa erogazione, ove costituiscano manifestazione di autotutela amministrativa in vista della tutela dell’interesse pubblico, con ponderazione dell’interesse pubblico sottostante all’erogazione del contributo, mentre spettano alla giurisdizione ordinaria le controversie su provvedimenti di ritiro, comunque denominati, assunti in funzione della negativa verifica in ordine al raggiungimento dello scopo che si è voluto agevolare, ossia a situazione riconducibili alla fase esecutiva del rapporto ed attinenti alle modalità di utilizzazione del contributo e al rispetto degli impegni assunti dal beneficiario.
Più di recente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato tale indirizzo, tuttora saldamente fondato sugli ordinari criteri di riparto fondati sulla natura delle posizioni soggettive azionate, ritenendo la sussistenza della giurisdizione amministrativa in un caso vertente su finanziamenti concessi in via provvisoria e disciplinato dalla L. n. 488/1992, ossia in fattispecie nelle quali l’attribuzione finanziaria in favore dei beneficiari non è ancora consolidata (definitiva) e la loro situazione soggettiva è tuttora inquadrabile come interesse legittimo giacché soggetta al potere discrezionale dell’Amministrazione in una fase procedimentale ancora precedente alla definitiva attribuzione del beneficio, caratterizzata da valutazioni discrezionali in un contesto concorsuale e comparativo di distribuzione di risorse scarse.
Al contrario, nella fase successiva all’attribuzione del contributo, il beneficiario risulta titolare di un diritto soggettivo relativamente alla conservazione dell’erogazione disposta di fronte alla contraria posizione assunta dall’amministrazione, con provvedimenti variamente denominati (revoca, decadenza, risoluzione), significanti la posizione paritetica dell’Amministrazione in relazione ad assunti inadempimenti del beneficiario, che non avrebbe utilizzato i fondi concessi secondo le finalità individuate ovvero nei termini stabiliti, tutte circostanze di fatto da valutare innanzi al giudice delle situazioni soggettive paritetiche che è l’AGO.

In materia di contributi pubblici, la giurisprudenza ha oramai chiarito che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie sugli atti di ritiro del finanziamento, anche susseguente alla relativa erogazione, ove costituiscano manifestazione di autotutela amministrativa in vista della tutela dell’interesse pubblico, con ponderazione dell’interesse pubblico sottostante all’erogazione del contributo, mentre spettano alla giurisdizione ordinaria le controversie su provvedimenti di ritiro, comunque denominati, assunti in funzione della negativa verifica in ordine al raggiungimento dello scopo che si è voluto agevolare, ossia a situazione riconducibili alla fase esecutiva del rapporto ed attinenti alle modalità di utilizzazione del contributo e al rispetto degli impegni assunti dal beneficiario (cfr. ex pluris, con giurisprudenza costante e consolidata, Cass. Sezz. Un. 16.12.2010, n. 25398, 09.09.2008, n. 22651, Cass. Civ., Sezz. UU., 13.10.2006, n. 22099; Cons. di Stato, sez. VI, 26.11.2004, n. 5649 e 09.05.2002, n. 2539; Cons. di Stato, sez. V, 27.03.2000, n. 1765; Cass. Civ., SS.UU., 09.08.2000, n. 554; Cons. di Stato, sez. VI, 05.11.2007, n. 5700).
Più di recente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 17/2013) ha confermato tale indirizzo, tuttora saldamente fondato sugli ordinari criteri di riparto fondati sulla natura delle posizioni soggettive azionate, ritenendo la sussistenza della giurisdizione amministrativa in un caso vertente su finanziamenti concessi in via provvisoria e disciplinato dalla L. n. 488/1992, ossia in fattispecie nelle quali l’attribuzione finanziaria in favore dei beneficiari non è ancora consolidata (definitiva) e la loro situazione soggettiva è tuttora inquadrabile come interesse legittimo giacché soggetta al potere discrezionale dell’Amministrazione in una fase procedimentale ancora precedente alla definitiva attribuzione del beneficio, caratterizzata da valutazioni discrezionali in un contesto concorsuale e comparativo di distribuzione di risorse scarse.
Al contrario, nella fase successiva all’attribuzione del contributo, il beneficiario risulta titolare di un diritto soggettivo relativamente alla conservazione dell’erogazione disposta di fronte alla contraria posizione assunta dall’amministrazione, con provvedimenti variamente denominati (revoca, decadenza, risoluzione), significanti la posizione paritetica dell’Amministrazione in relazione ad assunti inadempimenti del beneficiario, che non avrebbe utilizzato i fondi concessi secondo le finalità individuate ovvero nei termini stabiliti, tutte circostanze di fatto da valutare innanzi al giudice delle situazioni soggettive paritetiche che è l’AGO (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.10.2013 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte in ordine alla destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale in relazioni a situazioni soggettive di affidamento qualificato del privato in ordine a una precipua destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di annullamento di diniego di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di permesso di costruire, oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Come già anticipato nella narrativa in fatto, il P.R.G. di Pinzolo, adottato con deliberazioni del Commissario ad acta n. 1 del 31.07.2000 (in via provvisoria) e n. 1 del 30.05.2001 (in via definitiva) e approvato con modifiche con deliberazione della Giunta Provinciale di Trento n. 3345 del 23.12.2002, ha impresso, inter alios, destinazione agricola di "zona a pascolo" alle particelle fondiarie n. 3117/4 e n. 3135/1, appartenenti alla società ... S.a.s., ubicate in S. Antonio di Mavignola, già tipizzate, almeno in parte, a zona B di completamento estensivo.
Orbene, come già osservato in modo esatto e condivisibile dal giudice amministrativo trentino la nuova destinazione urbanistica rispecchia le linee generali ispiratrici del nuovo P.R.G., intese a salvaguardare il territorio libero da edificazione in relazione a un previo sostanziale sovradimensionamento delle zone di completamento estensive, anche con finalità di tutela e recupero ambientale e paesaggistico.
Tale orientamento pianificatorio si ricollega, peraltro, alle peculiarità della località, poiché, come noto, il Comune di Pinzolo, sito nell'ambito di comprensorio montano di particolare pregio, è costituito dai centri abitati di Pinzolo, Madonna di Campiglio e S. Antonio di Mavignola, e quindi a pregnanti profili di natura ambientale, naturalistica e paesistica.
Ciò posto deve rammentarsi che, secondo pacifico orientamento giurisprudenziale, le scelte in ordine alla destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale in relazioni a situazioni soggettive di affidamento qualificato del privato in ordine a una precipua destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di annullamento di diniego di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di permesso di costruire, oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. tra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2012, n. 5665, 16.11.2011, n. 6049, 09.12.2010, n. 8682, 22.06.2006, n. 3880, 14.10.2005, n. 5716; vedi anche Sez. III, 06.10.2009, n. 1610).
Nel caso di specie non risulta, né è stato dimostrato, che i suoli di cui alle ricordate particelle costituiscano lotto intercluso, né che fossero ricorrenti altre situazioni idonee a fondare il riconoscimento di un'aspettativa qualificata alla conservazione della destinazione edilizia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.10.2013 n. 4917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario dell’area, «fino a prova contraria», deve ritenersi corresponsabile dell’abuso edilizio.
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L’ordinanza di demolizione, con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio temporale l’opera non viene demolita dal responsabile dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa, rappresenta requisito di validità del successivo provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario, al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire l’ordine.

Il Consiglio di Stato ha avuto più volte occasione di affermare che il proprietario dell’area, «fino a prova contraria», deve ritenersi corresponsabile dell’abuso (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 26.02.2013, n. 1179).
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L’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001 (disposizioni analoghe sono contenute nell’art. 15 della legge regionale n. 15 del 2008) prevede, tra l’altro, che:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso di costruire, «ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso» la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3 (comma 2);
- se il «responsabile dell'abuso» non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi «nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione», il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune; si specifica che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita (comma 3);
- l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, «previa notifica all’interessato», costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
Da quanto esposto risulta che l’ordinanza di demolizione, con assegnazione del termine di novanta giorni per la sua esecuzione, deve essere notificata sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario. Se entro questo spazio temporale l’opera non viene demolita dal responsabile dell’abuso, può essere adottato il provvedimento di acquisizione.
Ne consegue che la notificazione dell’ordinanza di demolizione, con assegnazione del predetto termine, pur non costituendo requisito di validità dell’ordinanza stessa, rappresenta requisito di validità del successivo provvedimento di acquisizione.
Più chiaramente, il termine di novanta giorni deve essere concesso sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario, al fine di permettere a quest’ultimo di assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire l’ordine
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.10.2013 n. 4913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La tesi della ricorrente secondo cui la parziale inattuazione del P.I.P. comporterebbe, così come avviene per i piani particolareggiati, l'obbligo del Comune di provvedere alla formazione di un nuovo piano per il necessario assetto della parte non realizzata nei termini è destituita di fondamento.
Invero, la sussistenza di un obbligo del Comune volto alla formazione di un nuovo piano nel caso all’esame, non si desume né dall'art. 17, comma 2, né dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
La prima disposizione prevede infatti che: "Le aree da comprendere nel piano sono delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di fabbricazione vigenti, con deliberazione del consiglio comunale, la quale, previa pubblicazione, insieme agli elaborati, a mezzo di deposito presso la segreteria del comune per la durata di venti giorni, è approvata con decreto del presidente della giunta"; mentre l'art. 27 L. 865/1971, ai fini che ne occupano, si limita a stabilire l'inefficacia del piano particolareggiato per la parte in cui lo stesso non abbia avuto attuazione decorso il termine stabilito per la sua esecuzione.
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Il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall'art. 27 della legge n. 865/1971, è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione: “come tale, trascorsi i dieci anni, l'Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l'opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata”.
Da quanto esposto si deduce, quindi, che, alla scadenza del termine di dieci anni legislativamente previsto, la inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che, segnando il venir meno dei presupposti per il perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca dell’assegnazione previamente disposta (nella specie, in favore del ricorrente), di tal che la stessa revoca non presenta profili di discrezionalità.
Il contestato provvedimento (comunale) di revoca è dunque privo dei dedotti profili di discrezionalità mentre, per converso, non è configurabile alcun obbligo dell’Amministrazione di procedere alla ripianificazione delle aree ricadenti nella porzione di P.I. non attuata; quest’ultima attività soltanto, secondo la giurisprudenza, sarebbe il risultato eventuale di una valutazione discrezionale della p.a..

... per l'annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, del provvedimento del Comune di Roma, in data 15.12.1992, n. 56, prot. Rip. XIII 6937, del 14.12.1992, con cui viene revocata l’assegnazione in diritto di superficie di alcuni lotti siti nel p.i.p. 9/ L. Tor Cervara, di cui uno assegnato al ricorrente;
...
Secondo la prospettazione del ricorrente, la parziale inattuazione del P.I.P. comporterebbe, così come avviene per i piani particolareggiati, l'obbligo del Comune di provvedere alla formazione di un nuovo piano per il necessario assetto della parte non realizzata nei termini; intorno a questa tesi, che non risulta, tuttavia, suffragata né da fonti normative né da pronunce giurisprudenziali, vengono costruiti i quattro motivi di gravame, che debbono dunque ritenersi privi di fondamento giuridico per le ragioni che si vengono ad esporre.
Osserva in proposito il Collegio che, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, la sussistenza di un obbligo del Comune volto alla formazione di un nuovo piano nel caso all’esame, non si desume né dall'art. 17, comma 2, né dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
La prima disposizione prevede infatti che: "Le aree da comprendere nel piano sono delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di fabbricazione vigenti, con deliberazione del consiglio comunale, la quale, previa pubblicazione, insieme agli elaborati, a mezzo di deposito presso la segreteria del comune per la durata di venti giorni, è approvata con decreto del presidente della giunta"; mentre l'art. 27 L. 865/1971, ai fini che ne occupano, si limita a stabilire l'inefficacia del piano particolareggiato per la parte in cui lo stesso non abbia avuto attuazione decorso il termine stabilito per la sua esecuzione.
Risultano pertanto prive di pregio le deduzioni di parte ricorrente, svolte nei primi due motivi di ricorso, volte ad affermare la sussistenza di un obbligo per l’intimata Amministrazione di procedere alla ripianificazione delle aree ricadenti nella porzione di P.I. non attuata.
Come la giurisprudenza ha chiarito, il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall'art. 27 della legge n. 865/1971, è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione: “come tale, trascorsi i dieci anni, l'Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l'opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata” (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 6363/2011; Tar Campania-Napoli, sez. II, n. 1503/2002 (ud. del 15.11.2011).
Da quanto esposto si deduce, quindi, che, alla scadenza del termine di dieci anni legislativamente previsto, la inefficacia del piano è un effetto automatico di legge che, segnando il venir meno dei presupposti per il perfezionamento dell’espropriazione, rende dovuta la revoca dell’assegnazione previamente disposta (nella specie, in favore del ricorrente), di tal che la stessa revoca non presenta profili di discrezionalità.
Il contestato provvedimento di revoca è dunque privo dei dedotti profili di discrezionalità mentre, per converso, non è configurabile alcun obbligo dell’Amministrazione di procedere alla ripianificazione delle aree ricadenti nella porzione di P.I. non attuata; quest’ultima attività soltanto, secondo la giurisprudenza, sarebbe il risultato eventuale di una valutazione discrezionale della p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 02.10.2013 n. 8551 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Trattandosi di terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
... per l'annullamento della Determinazione n. 304 del 29.8.2012 (pubblicata nell’Albo Pretorio on-line il 31.08.2012), nella parte in cui il Dirigente dell’Unità di Direzione Gestione Patrimonio del Comune di Potenza ha dato in concessione, per la durata di 5 anni con scadenza il 29.06.2015 ed esclusivamente per l’installazione di impianti di radiodiffusione sonora in ambito locale, il terreno di proprietà comunale, sito nella Località Poggio Cavallo, alla Festula 2000;
...
La Determinazione n. 304 del 29.8.2012 è stata impugnata con il presente ricorso (notificato il 12.07.2013), deducendo:
2) violazione dei principi in materia di evidenza pubblica, cioè dei principi comunitari e nazionali di trasparenza, concorrenza e par condicio, in quanto il concessionario di un bene di proprietà comunale va individuato mediante l’indizione di un apposito procedimento di evidenza pubblica;
...
Invece, risulta fondato il secondo motivo di impugnazione.
Infatti, trattandosi di terreni di proprietà comunale, l’Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi dell’art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione il Comune ricava un’entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un’occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali marittime (cfr. C.d.S. Sez. VI n. 168 del 25.01.2005) e quello recentissimo in tema impianti pubblicitari (cfr. C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 5 del 25.02.2013), oltre a quello relativo alle cave di proprietà comunale (cfr. da ultimo TAR Basilicata Sent. n. 406 del 30.08.2012) (TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 02.10.2013 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTISconti senza paletti. Niente condizioni sui bonus Ici. Ctr: agevolazioni svincolate da obblighi dichiarativi.
Un comune non può subordinare un'agevolazione Ici a un obbligo dichiarativo non previsto dalla legge statale. In ogni caso, non può dichiararsi la decadenza dal beneficio del soggetto che non abbia adempiuto a tale onere supplementare. Gli avvisi di accertamento emessi dall'ente locale sulla base di tale disposizione regolamentare risultano quindi viziati da eccesso di potere.
È quanto ha stabilito la Ctp di Campobasso con la sentenza 01.10.2013 n. 144/1/13.
Il caso in questione vedeva due fratelli ricorrere contro una serie di rettifiche operate dall'ufficio tributi comunale in materia di Ici.
I ricorrenti avevano adibito gratuitamente un immobile ad abitazione principale dei propri genitori. Tuttavia, il comune aveva proceduto alla contestazione fiscale, in quanto il regolamento Ici adottato dall'amministrazione prevedeva l'obbligo della presentazione di apposita preventiva dichiarazione ai fini dell'applicazione dell'esenzione sulla prima casa concessa in uso gratuito a parenti e/o affini entro il 1° grado.
Una tesi che non trova però concorde i giudici molisani. Il dl n. 223/2006, in un'ottica di semplificazione degli adempimenti, aveva infatti soppresso l'obbligo di presentare la dichiarazione Ici. «La pretesa del comune di Campobasso di sottoporre il riconoscimento dell'agevolazione prima casa per parenti e affini alla presentazione di una dichiarazione preventiva», spiega la sentenza, «risulta assai poco coerente con il complesso sistema impositivo dell'Ici». Anche la Cassazione, con la pronuncia n. 13151 del 28.05.2010, si era espressa in tal senso.
Peraltro, secondo la Ctp, il comune ha anche violato il principio di collaborazione tra cittadini ed ente impositore previsto dall'articolo 10 della legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente). «Il rispetto di tale principio e della regola del preventivo contraddittorio», osservano i magistrati tributari, «avrebbe consentito una rapida chiarificazione della posizione dei due contribuenti ed evitato i costi (in termini di lavoro, tempo e denaro) connessi agli accertamenti e ai procedimenti giudiziari in corso». Da qui l'annullamento degli avvisi impugnati e la condanna dell'ente alle spese di lite (articolo ItaliaOggi del 04.10.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Mal di mobbing? Non si licenzia. La Cassazione sul periodo di comporto.
Il dipendente si ammala perché vittima di «mobbing»? Impossibile licenziarlo, anche se la somma delle sue assenze dal luogo in cui svolge l'attività supera il periodo di comporto (l'arco temporale stabilito dalla legge).

È quanto sancisce la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 22568/2013, ha respinto il ricorso con cui una società di Brugherio (Monza e Brianza), proprietaria di un supermercato, chiedeva l'interruzione del rapporto lavorativo di un addetto del reparto macelleria, sostenendo che le troppe giornate in cui non si era presentato in ditta fossero sufficienti a giustificarne la perdita del diritto al posto.
Opinione rigettata dalla Suprema corte che ha, invece, confermato, come già stabilito prima dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d'appello nel 2010, che erano «imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia» dell'uomo e, di conseguenza, i giorni di assenza erano irrilevanti «ai fini del calcolo del periodo di comporto».
La vicenda parte nel 2002, quando l'impiegato inizia a ricevere, si legge nel pronunciamento, «una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione». E, soprattutto, nel corso dell'inverno (da dicembre a febbraio 2003), ammalatosi, viene sottoposto ad una raffica di «ben 15 visite fiscali di controllo». Pratica proseguita anche nei mesi successivi, quando cioè il dipendente, ricevuto un richiamo particolarmente duro da parte di un suo superiore, ne ricava «una crisi psicologica»; in estate, precisamente a luglio, la società usa il pugno di ferro, e fa scattare la procedura di licenziamento, in virtù del superamento del periodo di comporto.
Tuttavia, i magistrati, in seguito ad una perizia medica, appurano che le assenze per malattia sono diretta «conseguenza dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale» posta in essere ai suoi danni, ravvisando il reato di «mobbing» (vessazioni perpetrate laddove si esercita una funzione) suffragato dalle «numerose sanzioni disciplinari, poi accertate come illegittime».
Pertanto, la Cassazione, oltre a disporre il reintegro dell'uomo, ha condannato l'impresa a risarcirgli i danni per l'ingiusto licenziamento che gli era stato inflitto (articolo ItaliaOggi del 03.10.2013).

APPALTIAppalti, meno carte per le ditte. Documenti sui requisiti acquisiti direttamente dalle p.a.. Per il Consiglio di stato norma sull'acquisizione d'ufficio prevalente sul Codice contratti.
Meno scartoffie e adempimenti burocratici per chi partecipa agli appalti. I documenti a comprova dei requisiti devono infatti essere acquisiti direttamente dalle stazioni appaltanti e non richiesti ai concorrenti. E ciò perché prevale la disciplina generale sulla cosiddetta «acquisizione d'ufficio» rispetto al Codice dei contratti.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, con la sentenza 26.09.2013 n. 4785 della III Sez., che affronta il tema dei rapporti fra il dpr 445/2000 e l'art. 48 del Codice dei contratti pubblici, dopo l'entrata in vigore (01.01.2012) delle modifiche apportate dalla legge di stabilità per il 2012 (legge 183/2011).
In particolare la legge 183, nel rafforzare il principio della inutilizzabilità dei certificati nei rapporti con la pubblica amministrazione, ha affermato l'obbligo, per quest'ultima, di acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 del dpr n. 445/2000.
La sentenza del Consiglio di stato precisa che gli accertamenti d'ufficio riguardano tutte le ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso dpr 445, dichiarazioni sostitutive che, per le gare di appalto pubblico, attengono ai requisiti di partecipazione alle gare disciplinati dagli artt. 41 e 42 del codice dei contratti.
Lo stesso codice dei contratti stabilisce però (art. 48) che la richiesta della documentazione probatoria sia rivolta direttamente all'interessato anziché acquisita d'ufficio dall'amministrazione o dall'ente pubblico certificante. Al riguardo l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la determina 4/2012 (sul cosiddetto «bando tipo»), ha precisato che la norma del Codice ha natura di «norma speciale» rispetto alla disciplina generale del dpr n. 445/2000 e soddisfa «l'esigenza di assicurare la serietà dell'offerta, unitamente alla celerità della conclusione del procedimento di verifica». Secondo l'Autorità, quindi, rimangono in vigore le modalità di comprova del possesso dei requisiti previste dall'art. 48, con richiesta ai concorrenti.
Di tutt'altro avviso è invece il Consiglio di stato, il quale afferma che nelle gare di appalto non rileva la «specialità» della disciplina dei contratti pubblici. Il principio affermato viene dedotto anche dalla norma transitoria introdotta dalla legge di stabilità per il 2012 per la quale, fino alla data di avvio della Banca dati nazionale sui contratti pubblici, le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori verificano il possesso dei requisiti secondo le modalità previste dalla «normativa vigente» che non può che comprendere anche gli artt. 43 e 47 del dpr 445/2000, in vigore dal 01.01.2012.
Per i giudici, quindi, fino all'attivazione della banca dati, le stazioni appaltanti dovranno procedere d'ufficio tramite contatti con le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti auto dichiarati dai concorrenti. Dopo tale data i controlli d'ufficio diventeranno centralizzati attraverso il riferimento diretto alla Bdncp, «strumento pubblicistico di coordinamento e raccolta dati.» Implementato dal cosiddetto Avcpass, che costituisce un ausilio informatico per l'esercizio dei poteri-doveri di accertamento d'ufficio (articolo ItaliaOggi del 02.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Cds: fotovoltaico nei campi anche senza leggi ad hoc
Sì alla realizzazione di un impianto fotovoltaico in area agricola anche quando la normativa urbanistica regionale non ne preveda la realizzazione. Questo in virtù dell'attuazione del principio Ue di sviluppo delle rinnovabili (direttiva 2001/77/Ue). Deve essere ribadito che la collocazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile in zona urbanistica agricola è ammessa in linea generale dall'art. 12, settimo comma, del dlgs 29.12.2003, n. 387. Deve inoltre essere osservato che la realizzazione di tali impianti risponde a un interesse la cui rilevanza è stata consacrata dallo stesso legislatore nazionale, sulla base degli impegni internazionali assunti, con l'articolo 12 del dlgs n. 387 del 2003.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 26.09.2013, n. 4755.
Con la sentenza in commento i giudici di palazzo Spada respingevano le richieste dei ricorrenti proprietari di alcuni terreni confinanti con quello che aveva ottenuto l'autorizzazione a realizzare l'impianto fotovoltaico.
I giudici del Consiglio di stato hanno riconosciuto che la legge urbanistica regionale veneta n. 11/2004 non prevede l'ammissibilità degli impianti fotovoltaici in area agricola (bensì, solo interventi funzionali all'attività agricola) a differenza di quanto statuisce l'articolo 12, comma 7, dlgs 387/2003.
Ma continuano i giudici considerare la legge regionale del Veneto 23.04.2004, n. 44 nel senso di una implicita abrogazione di quella statale del 2003 non è esatto. Il dlgs 387/2003 è attuativo dell'obbligo verso l'Unione europea di sviluppo delle rinnovabili ex direttiva 2001/77/Ue (ora sostituita dalla direttiva 2009/28/Ce) consentendone la realizzazione anche in area agricola, e vincola, quindi, l'interpretazione della norma regionale che deve «cedere» rispetto all'osservanza degli obblighi europei (articolo ItaliaOggi del 03.10.2013).

APPALTI: Annullamento dell’atto presupposto: inefficacia del contratto dichiarabile in autotutela?
L’amministrazione vincolata da un rapporto negoziale non può dichiarare in autotutela l’inefficacia del contratto, incidendo unilateralmente sul rapporto contrattuale stipulato con la controparte, essendo tale misura rimessa solo al giudice.La domanda di declaratoria di inefficacia del contratto può essere proposta per la prima volta anche nel giudizio di ottemperanza, a patto però che sussistano i presupposti di fatto e di diritto e l’interesse della parte.
Il Consiglio di Stato si pronuncia, in sede di giudizio di ottemperanza, ancora una volta sulla vexata questio della caducazione del contratto come conseguenza della sentenza di annullamento dell’atto presupposto e, in particolare, sul potere di autotutela della p.a..
Nello specifico, in accoglimento di un ricorso straordinario al Capo dello Stato era stata annullata la deliberazione di un Comune di approvazione di un progetto di realizzazione di un parcheggio interrato (per la precisione dell’ampliamento del parcheggio) e di concessione del diritto di superficie sull’area, cui aveva fatto seguito la stipula del relativo contratto.
Il Comune, con apposita delibera, prendeva atto della decisione di annullamento, indicando però nel contempo che il relativo contrato “rimane efficace tra le parti”.
La parte che ha ottenuto l’annullamento proponeva un giudizio di ottemperanza, lamentando che l’Amministrazione, nel mantenere l’efficacia del contratto, non avesse dato corretta esecuzione alla pronuncia resa in accoglimento del ricorso straordinario.
La sentenza in esame dichiara infondata la domanda di ottemperanza per due ordini di motivi.
In primo luogo, la pronuncia del Capo dello Stato di cui si chiede l’esecuzione, nell’annullare la delibera comunale che ha approvato il progetto di ampliamento dei parcheggi nulla ha statuito in ordine al relativo contratto.
Nell’ordinamento vigente, la caducazione del contratto non è una conseguenza automatica ed ineluttabile della sentenza di annullamento dell’atto presupposto, essendo rimessi al giudice l’accertamento e la relativa dichiarazione (art. 245-bis del codice dei contratti pubblici, introdotto dal d.lgs. n. 53/2010, e art. 121 del codice del processo amministrativo).
In assenza di una statuizione sul punto, l’amministrazione non avrebbe potuto dichiarare autonomamente il contratto inefficace.
Non è ipotizzabile, infatti, che la p.a. decida la sorte del contratto in assenza di una decisione giurisdizionale.
L’amministrazione vincolata da un rapporto negoziale non può dichiarare in autotutela l’inefficacia del contratto, incidendo unilateralmente sul rapporto contrattuale stipulato con la controparte, essendo tale misura rimessa solo al giudice (Cass. sezioni unite, 18.01.2012, n. 17842).
In secondo luogo, è vero che la domanda di declaratoria di inefficacia del contratto può essere proposta anche nel giudizio di ottemperanza, in quanto deve essere intesa quale una delle possibili modalità di attuazione del giudicato, anche se non vi sia stata alcuna domanda in tal senso nel giudizio di cognizione.
Tuttavia tale domanda presuppone pur sempre la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto e l’interesse della parte, essendo la declaratoria di inefficacia sempre strumentale all’interesse del ricorrente di poter subentrare nel contratto o partecipare ad una nuova procedura di affidamento.
Questa situazione non ricorre nel caso in esame, atteso che il contratto è stato integralmente eseguito ed eventuali residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore originario, così che l’impresa ricorrente non ha nessuna possibilità di subentrare nel contratto o di vedersi affidare i lavori, avendo il contratto esaurito ogni effetto.
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Esito
Rigetta il ricorso
Precedenti giurisprudenziali sul potere di dichiarare in autotutela l’inefficacia del contratto

in senso conforme Cass. sezioni unite, 18.01.2012, n. 17842; in senso difforme: Cons. Stato Sez. V, 04.01.2011, n. 11; in senso sostanzialmente difforme, ancorché su diverso oggetto, anche Cons. Stato Sez. III, 23.05.2013, n. 2802, secondo cui l'annullamento in via di autotutela dell'aggiudicazione da parte dell'Amministrazione comporta l'automatica inefficacia del contratto medio tempore stipulato, tenendo presente che ciò che rileva è il collegamento sostanziale tra i due atti, l'aggiudicazione e il contratto, i quali simul stabunt, simul cadent, qualunque sia la sede dell'annullamento.
Precedenti giurisprudenziali sull’ammissibilità della domanda di declaratoria di inefficacia del contratto ottemperanza
Cons. Stato Sez. III, 19.12.2011, n. 6638
Riferimenti normativi

Art. 245-bis del D.Lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici); art. 121 del codice del processo amministrativo
(commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Firma digitale semplice. Non va allegata copia della carta d'identità. Il chiarimento in una sentenza depositata dal Consiglio di stato.
L'apposizione della firma digitale non necessita dell'allegazione di copia del documento di identità del dichiarante.
A stabilirlo è la VI Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 20.09.2013 n. 4676.
I giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato come ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera s) del «Codice dell'amministrazione digitale» la firma digitale si distingue dall'ordinaria firma elettronica per il particolare grado di certezza e attendibilità che la caratterizza (ai sensi della disposizione appena richiamata, infatti, la «firma digitale» viene definita come «un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici»).
In tal modo, l'apposizione della firma digitale conferisce un grado di certezza ed attendibilità in ordine alla provenienza del documento certamente non inferiore a quello conseguibile attraverso le particolari modalità di cui agli articoli 38 e 47 del dpr 445 del 2000 (e, in particolare, attraverso l'allegazione di copia del documento di identità del dichiarante).
Inoltre, secondo la lettera del comma 1, lettera a), dell'articolo 65 del «Codice dell'amministrazione digitale», la sottoscrizione di un documento con firma digitale rilasciata da un certificatore accreditato rende valida sotto ogni aspetto la presentazione di una dichiarazione di cui al comma 3 dell'articolo 38 del dpr 445 del 2000.
Osserva poi il collegio, a sostegno di tale tesi, che il comma 6, lettera b), del dlgs 82 del 2005 stabilisce che: «Le offerte presentate per via elettronica possono essere effettuate solo utilizzando la firma elettronica digitale, anche in questo caso non richiamando in alcun modo le ulteriori prescrizioni e formalità (invero, in tali ipotesi, non necessarie) richieste in via ordinaria per rendere dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà di cui al comma 3 dell'articolo 38 del dpr 445 del 2000».
Pertanto l'apposizione della firma digitale, per via del particolare grado di sicurezza e di certezza nell'imputabilità soggettiva che la caratterizza, è di per sé idoneo a soddisfare i requisiti dichiarativi anche in assenza dell'allegazione in atti di copia del documento di identità del dichiarante (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso per abbattere le barriere architettoniche non occorre.
A stabilirlo è la III Sez. penale della Corte di Cassazione con sentenza 18.09.2013 n. 38360.
La Suprema corte ha, poi, sottolineato che per quanto concerne la definizione di «barriere architettoniche» per i soggetti disabili, deve ricordarsi che: «le opere funzionali all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla maggior comodità dei residenti» (si veda anche Tar Campania, Salerno, sez. 2, 19.04.2013, n. 952; Tar Abruzzo, Pescara, sez. 1, 24/02/2012, n. 87; Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. 1, 08.11.2011, n. 526).
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del dpr n. 380 del 2001, tali opere rientrano nell'attività edilizia libera qualora «consistano in interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio». Qualora vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non ricomprese nell'art. 10 trova applicazione l'art. 22 dello stesso dpr, a norma del quale sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6.
I giudici osservano, poi, che a tale disposizione si sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come modificato dal dl n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale consente che, per le opere soggette a Dia ordinaria, si proceda, in via semplificata, con Scia (Segnalazione certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del dl n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, il quale prevede che: «Le disposizioni di cui all'articolo 19 della legge 07/08/1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal dpr 06/06/2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Contributo per il rilascio del permesso di costruire, Poste Italiane SpA esenti.
Non è dovuto il pagamento del contributo per il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione da parte di Poste Italiane S.p.A. dell’ampliamento di un edificio adibito a Centro Postale Meccanizzato. Ricorrono entrambi i requisiti previsti per la gratuità del permesso ovverosia che l'opera sia realizzata da un "ente istituzionalmente competente" (requisito soggettivo) e che gli impianti, le attrezzature e le opere siano "pubbliche o di interesse generale" (requisito oggettivo).
Nel caso in esame Poste Italiane S.p.A., proprietaria di edificio adibito a Centro Postale Meccanizzato, chiedeva un permesso di costruire per il suo ampliamento e il TAR milanese è chiamato a risolvere la questione se sia dovuto il pagamento del contributo per il rilascio del permesso edificatorio o se si ricada in una ipotesi di concessione gratuita.
L'art. 9, lett. f), della legge 28.01.977 n. 10 (“Norme per la edificabilità dei suoli”), dispone che il contributo per il rilascio della concessione edilizia non sia dovuto in presenza di due requisiti:
a) che l'opera sia realizzata da un "ente istituzionalmente competente" (requisito soggettivo);
b) che gli impianti, le attrezzature e le opere siano "pubbliche o di interesse generale" (requisito oggettivo).
L’organo giudicante ritiene che sussistano entrambi i presupposti per la gratuità.
Quanto al requisito soggettivo, Poste Italiane S.p.A., quale società a totale partecipazione dello Stato derivante dalla trasformazione dell'Ente Poste Italiane - conserva la connotazione propria della sua originaria natura pubblicistica e continua ad essere affidataria della cura di rilevanti interessi pubblici.
Poste Italiane S.p.A., è concessionaria del servizio postale che costituisce un servizio pubblico di preminente interesse generale (Cons. Stato, VI, sentenza 02.10.2009 n. 5987).
Secondo giurisprudenza il requisito c.d. soggettivo, necessario onde accordare l’esenzione dal contributo previsto dall’art. 3 della l. 10 del 1977, sussiste non solo nel caso in cui l’opera sia realizzata direttamente da un ente pubblico nell’esercizio delle proprie competenze istituzionali, ma anche nel caso in cui l’opus venga realizzato da un soggetto privato, purché per conto di un ente pubblico, come nel caso della concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie, in cui l’opera sia realizzata da soggetti che non agiscano per scopo di lucro, o che accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione volta alla cura di interessi pubblici (Cons. Stato, Sez. VI, 09.09.2008 n. 4296; Cons. Stato, Sez. VI, 12.07.2005, n. 3744; Cons. Stato, Sez. VI, 10.05.2005, n. 2226; Cons. Stato, Sez. V, 02.12.2002, n. 6618; TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 16.07.2013 n. 1872).
Quanto al requisito oggettivo, l’opera oggetto della concessione edilizia, cui inerisce il contributo in questione, si qualifica quale opera "necessaria" per l'espletamento del pubblico servizio, risultando direttamente collegata all’attività istituzionale di prestazione del servizio postale (il Centro Postale Meccanizzato, infatti, risulta progettato e costruito per ospitare l'attività di smistamento degli effetti postali, sicché esso assume un ruolo centrale e preminente nell'ambito dell'intera rete del servizio postale).
Si rientra pertanto nell’ipotesi di non debenza del contributo.
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Esito
Accoglie il ricorso
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato, Sez. VI, 09.09.2008 n. 4296; Cons. Stato, 12.07.2005, n. 3744; Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; Cons. Stato, Sez. V, sent. 02.12.2002, n. 6618; TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 16.07.2013 n. 1872
Riferimenti normativi

Artt. 3 e 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisdizione del g.a. non viene meno ancorché gli venga richiesto di accertare, in via incidentale, la sussistenza o meno del diritto della collettività sul suolo pubblico o soggetto ad uso pubblico.
Se è vero, infatti, che non rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo l'accertamento in via principale di una servitù pubblica di passaggio, essendo detta questione devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario, è altrettanto vero che ricorre la giurisdizione del Giudice Amministrativo qualora l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente impugnato, cosicché la valutazione della sua sussistenza si ponga come questione da valutare, incidenter tantum, al limitato fine di verificare la legittimità degli atti gravati, non ravvisandosi alcuna pregiudiziale obbligatoria, in siffatte questioni, a favore del Giudice Ordinario.
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Infondato si appalesa, poi, il secondo motivo, atteso che, la presenza di una doppia sottoscrizione (del Sindaco e del Dirigente) non fa di certo venire meno l’assunzione della paternità dell’ordinanza al soggetto ex lege legittimato alla sua adozione (nel caso di specie, il Sindaco, ex art. 15 cit.), così rendendo l’atto in questione soggettivamente perfetto e immune dalle dedotte censure.
Da ciò si ricava anche l’infondatezza del terzo motivo, atteso che l’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000 non ha inteso privare il Sindaco delle competenze ad esso specificamente attribuite dalle previgenti previsioni normative, laddove si resti comunque al di fuori dei compiti di gestione (cfr. artt. 107, co. 5 e 50, co. 4 d.lgs. n. 267/2000). Infatti, in disparte la circostanza che l’ordinanza in esame non rientra tra i “compiti” espressamente attribuiti, ai sensi del comma 3 dell’art. 107 cit. alla competenza dirigenziale, in ogni caso essa non è riconducibile fra i “compiti di attuazione degli obiettivi o dei programmi definiti con gli atti di indirizzo”.
Ne consegue che, legittimamente l’ordinanza in esame reca la firma del Sindaco, in conformità del chiaro disposto di cui all’art. 15 d.l.lgt. cit..
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Le funzioni di vigilanza e polizia sulle strade vicinali sono esercitate dal sindaco, a cui spetta ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate.
Per le strade soggette ad uso pubblico, il sindaco dispone l'esecuzione dei lavori occorrenti a spese degli interessati, quando vi sia urgenza o non si adempia entro il termine prefisso agli ordini ricevuti. La nota di spese è resa esecutoria dal prefetto, sentiti gli interessati, ed è riscossa nelle forme e con i privilegi fiscali. Sono altresì applicabili per queste strade gli artt. 374 a 377 della legge sulle opere pubbliche.
Per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può solo provvedere quando ne sia richiesto, e può autorizzare il Consorzio ad eseguire i lavori di ripristino anche in pendenza di ricorsi.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza, i presupposti che legittimano l'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali, attribuito al Sindaco ai sensi della su riportata norma, sono:
a) la preesistenza di fatto dell'uso pubblico della strada, anche se questa sia del tutto privata;
b) la sopravvenienza di un'alterazione del preesistente stato di fatto, che abbia frapposto impedimenti all'uso pubblico della strada medesima.
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L’iscrizione della strada nell’elenco delle strade vicinali soggette ad uso pubblico, comporta, per la sua natura dichiarativa, in adesione a consolidata giurisprudenza, una presunzione della sussistenza del diritto di pubblico transito sulla strada, che può essere vinta solo con l’esperimento dell’actio negatoria servitutis di fronte al giudice ordinario, ai sensi del disposto dell’art. 20, II comma, dell’all. “F” alla legge n. 2248 del 1865.
Al contempo, quindi, alla stregua del medesimo indirizzo giurisprudenziale, la sussistenza di tale iscrizione costituisce il presupposto che fonda la legittimazione del Comune all’esercizio del potere di ripristino dell’uso pubblico stesso, estrinsecazione del potere di autotutela possessoria, di cui all’art. 15 copra richiamato.
Non si può dire, infatti, che la parte ricorrente abbia adempiuto all’onere probatorio conseguentemente ravvisabile a suo carico, in ordine alla prova della mancanza di un uso pubblico della strada de qua, essendosi la difesa attorea limitata a richiamare, al riguardo, l’attuale stato di inservibilità della strada.
Sennonché, giova osservare al riguardo come, sempre per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865 n. 2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche quando da tempo la strada non è stata utilizzata dalla collettività ed anche quando sia diventata impraticabile al carreggio.
Per completezza, è utile richiamare anche quanto recentemente affermato dal Consiglio di Stato, secondo cui: “La circostanza che il Comune non sia intervenuto tempestivamente nell'assumere iniziative per il ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969), ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono l'esistenza di una strada vicinale iscritta come tale nell'elenco delle strade comunali, l'uso da parte della collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse per il collegamento con la pubblica via del santuario dell'acqua nera e l'interruzione e trasformazione da parte del ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo della realizzazione sull'area stradale di opere edilizie abusive.

Si è costituito il Comune di Garlasco, controdeducendo con separata memoria alle censure avversarie e sollevando, altresì, eccezioni pregiudiziali di inammissibilità del gravame.
In particolare, il Comune ha rilevato come la pretesa sostanziale azionata con l’odierna impugnazione verta sull’accertamento della natura privata della strada vicinale Milano, sicché essa è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo e riconducibile a quella dell’A.G.O., alla stregua dell’actio negatoria servitutis, finalizzata ad accertare che la strada non è soggetta all’uso pubblico.
La difesa civica ha, altresì, rilevato come il ricorso sia inammissibile per mancata impugnazione di atto presupposto, autonomamente lesivo, consistente nella delibera del Consiglio comunale n. 78/1981 di classificazione della strada de qua come vicinale d’uso pubblico.
Con ordinanza n. 1179 del 24.08.2012 è stata accolta la formulata domanda cautelare.
In prossimità dell’udienza fissata per la discussione del merito entrambe le parti hanno depositato memorie e repliche.
All’udienza pubblica del 02.05.2013 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
Il Collegio rileva, in via preliminare, la pacifica sussistenza della propria giurisdizione sulla fattispecie, poiché l'impugnata ordinanza, qualificabile ai sensi dell'art. 15 del d.l.lgt. n. 1446/1918, integra una fattispecie di autotutela possessoria in via amministrativa o "iure publico" - finalizzata all'immediato ripristino dello stato di fatto preesistente di una strada, volto a reintegrare la collettività nel godimento del bene (cfr. Cons. St., Sez. V, sent. 08.01.2009, n. 25; TAR Piemonte, Torino, Sez. I, Sent. 20.03.2013, n. 341; TAR Salerno, Sez. I, sent. 29.05.2012, n. 1058; TAR Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, sent. 08.04.2011, n. 184).
La giurisdizione del g.a. non viene meno ancorché gli venga richiesto di accertare, in via incidentale, la sussistenza o meno del diritto della collettività sul suolo pubblico o soggetto ad uso pubblico. Se è vero, infatti, che non rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo l'accertamento in via principale di una servitù pubblica di passaggio, essendo detta questione devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario, è altrettanto vero che ricorre la giurisdizione del Giudice Amministrativo qualora l'esistenza della servitù pubblica risulti costituire un presupposto dell'atto eventualmente impugnato, cosicché la valutazione della sua sussistenza si ponga come questione da valutare, incidenter tantum, al limitato fine di verificare la legittimità degli atti gravati, non ravvisandosi alcuna pregiudiziale obbligatoria, in siffatte questioni, a favore del Giudice Ordinario (cfr. in tal senso, sempre TAR Piemonte, Torino Sez. I, Sent., n. 341/2013; TAR Friuli-Venezia Giulia Sez. I, n. 184/2011; Cass. SS.UU. 02.10.1989, n. 3950, 23.01.1991, n. 596, 07.11.1994, n. 9206).
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Si può, a questo punto, prescindere dall’esame della residua questione preliminare, essendo il ricorso infondato nel merito.
In tal senso, re melius perpensa rispetto a quanto deciso in sede di cognizione sommaria, preme al Collegio evidenziare come l’ordinanza di cui trattasi, pur richiamando nelle proprie premesse almeno un duplice ordine di presupposti normativi (da un lato, il d.P.R. n. 380/2001, la l.reg. n. 12/2005 e il d.lgs. n. 42/2004 e, dall’altro, l’art. 15 del d.l.lgt. n. 1446/1918), radichi, di fatto, la disposta ingiunzione sull’esercizio del potere di autotutela possessoria, spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 15 del d.l.lgt. n. 1446/1918.
In effetti, è proprio sul potere in esame che risulta calibrata la motivazione del provvedimento, che, dopo avere descritto lo stato della strada interessata dal cumulo di materiale inerte, richiama, nelle premesse, nell’ordine, la delibera del Consiglio comunale recante l’elenco delle strade vicinali ad uso pubblico, i presupposti applicativi dell’art. 15 cit. e, quindi, il prevalente interesse pubblico al ripristino della preesistente viabilità. In siffatte circostanze, reputa il Collegio che il provvedimento in questione costituisca esplicazione del predetto potere di autotutela e come tale debba essere valutato, tenendo conto della normativa ad esso applicabile.
Non va dimenticato, infatti, che l’esatta qualificazione giuridica del provvedimento amministrativo impugnato, fondandosi sull'analisi del suo contenuto effettivo e della sua causa reale, spetta al giudice investito dalla controversia, il quale può, addirittura, legittimamente prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione all'atto adottato (cfr. ex multis, da ultimo, TAR Lazio Roma Sez. II, Sent., 22.05.2013, n. 5144).
Su tali premesse, il primo motivo di ricorso appare inammissibile, prima ancora che infondato, poiché non riferibile all’ordinanza che qui ci occupa, così come correttamente intesa alla stregua di provvedimento adottato nell’esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali, potere di spettanza sindacale. Esso, a ben vedere, appare riferito ad un ipotetico provvedimento, conclusivo del procedimento avviato con la comunicazione del 29.09.2011, per l’abusiva trasformazione permanente del suolo in edificato, non ravvisabile -a parere del Collegio- nell’ordinanza per cui è causa. Quest’ultima, proprio in virtù della sua specifica connotazione, non necessita di previa comunicazione di avvio, rivestendo natura tipicamente cautelare e urgente, diretta a recuperare nell’immediato l’uso pubblico della strada di cui trattasi (cfr. Cons. di Stato, sent. 01.12.2006 n. 7081).
Analogamente infondato si appalesa, poi, il secondo motivo, atteso che, la presenza di una doppia sottoscrizione (del Sindaco e del Dirigente) non fa di certo venire meno l’assunzione della paternità dell’ordinanza al soggetto ex lege legittimato alla sua adozione (nel caso di specie, il Sindaco, ex art. 15 cit.), così rendendo l’atto in questione soggettivamente perfetto e immune dalle dedotte censure.
Da ciò si ricava anche l’infondatezza del terzo motivo, atteso che l’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000 non ha inteso privare il Sindaco delle competenze ad esso specificamente attribuite dalle previgenti previsioni normative, laddove si resti comunque al di fuori dei compiti di gestione (cfr. artt. 107, co. 5 e 50, co. 4 d.lgs. n. 267/2000). Infatti, in disparte la circostanza che l’ordinanza in esame non rientra tra i “compiti” espressamente attribuiti, ai sensi del comma 3 dell’art. 107 cit. alla competenza dirigenziale, in ogni caso essa non è riconducibile fra i “compiti di attuazione degli obiettivi o dei programmi definiti con gli atti di indirizzo”.
Ne consegue che, legittimamente l’ordinanza in esame reca la firma del Sindaco, in conformità del chiaro disposto di cui all’art. 15 d.l.lgt. cit..
Si può, così, passare all’esame del quarto motivo, con cui si lamenta, in sostanza, il difetto dei presupposti di cui all’art. 15 richiamato.
Ebbene, tale norma (introdotta con il d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446, convertito in legge dalla L. 17.04.1925, n. 473, le cui disposizioni -delle quali l'art. 2, d.l. 22.12.2008, n. 200, aveva previsto l’abrogazione a decorrere dal 16.12.2009- sono state sottratte all’effetto abrogativo in base al comma 2 dell’art. 1, d.lgs. 01.12.2009, n. 179), così dispone: “Le funzioni di vigilanza e polizia sulle strade vicinali sono esercitate dal sindaco, a cui spetta ordinare che siano rimossi gli impedimenti all'uso delle strade e all'esecuzione delle opere definitivamente approvate e che siano ridotte nel pristino stato le cose abusivamente alterate.
Per le strade soggette ad uso pubblico, il sindaco dispone l'esecuzione dei lavori occorrenti a spese degli interessati, quando vi sia urgenza o non si adempia entro il termine prefisso agli ordini ricevuti. La nota di spese è resa esecutoria dal prefetto, sentiti gli interessati, ed è riscossa nelle forme e con i privilegi fiscali. Sono altresì applicabili per queste strade gli artt. 374 a 377 della legge sulle opere pubbliche.
Per le strade non soggette ad uso pubblico il sindaco può solo provvedere quando ne sia richiesto, e può autorizzare il Consorzio ad eseguire i lavori di ripristino anche in pendenza di ricorsi
”.
Come chiarito da tempo dalla giurisprudenza, i presupposti che legittimano l'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali, attribuito al Sindaco ai sensi della su riportata norma, sono:
a) la preesistenza di fatto dell'uso pubblico della strada, anche se questa sia del tutto privata;
b) la sopravvenienza di un'alterazione del preesistente stato di fatto, che abbia frapposto impedimenti all'uso pubblico della strada medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 151 del 09.05.1983; di recente, TAR Emilia-Romagna Parma Sez. I, Sent., 21.01.2013, n. 20).
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Come correttamente rilevato dalla difesa comunale, infatti, l’iscrizione della strada nel tratto che qui interessa nell’elenco delle strade vicinali soggette ad uso pubblico, comporta, per la sua natura dichiarativa, in adesione a consolidata giurisprudenza (cfr. Cons. di Stato sez. V, sent. 22.06.2010 n. 3891), una presunzione della sussistenza del diritto di pubblico transito sulla strada, che può essere vinta solo con l’esperimento dell’actio negatoria servitutis di fronte al giudice ordinario, ai sensi del disposto dell’art. 20, II comma, dell’all. “F” alla legge n. 2248 del 1865.
Al contempo, quindi, alla stregua del medesimo indirizzo giurisprudenziale, la sussistenza di tale iscrizione costituisce il presupposto che fonda la legittimazione del Comune all’esercizio del potere di ripristino dell’uso pubblico stesso, estrinsecazione del potere di autotutela possessoria, di cui all’art. 15 copra richiamato.
Non si può dire, infatti, che la parte ricorrente abbia adempiuto all’onere probatorio conseguentemente ravvisabile a suo carico, in ordine alla prova della mancanza di un uso pubblico della strada de qua, essendosi la difesa attorea limitata a richiamare, al riguardo, l’attuale stato di inservibilità della strada.
Sennonché, giova osservare al riguardo come, sempre per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti sindacali di autotutela possessoria delle strade (emanati ai sensi dell'articolo 378 dell'allegato F della legge 20.03.1865 n. 2248, ovvero ai sensi degli articoli 15 e 17 del d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446) ben possono essere emanati anche quando da tempo la strada non è stata utilizzata dalla collettività ed anche quando sia diventata impraticabile al carreggio (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 522 del 07.04.1995).
Per completezza, è utile richiamare anche quanto recentemente affermato dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. V, Sent., 14.05.2013, n. 2611), secondo cui: “La circostanza che il Comune non sia intervenuto tempestivamente nell'assumere iniziative per il ripristino della viabilità interrotta o nel provvedere alla demolizione delle opere abusive realizzate in loco, non solo non può ribaltare la presunzione iuris tantum di uso pubblico della strada discendente dalla sua iscrizione nell'elenco delle strade pubbliche (giusta delibera comunale n. 57 del 1969), ma, secondo i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, non è in grado di assumere alcun significato nella vicenda in esame, i cui elementi significativi sono l'esistenza di una strada vicinale iscritta come tale nell'elenco delle strade comunali, l'uso da parte della collettività uti cives, la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse per il collegamento con la pubblica via del santuario dell'acqua nera e l'interruzione e trasformazione da parte del ricorrente, proprietario di suolo confinante, a mezzo della realizzazione sull'area stradale di opere edilizie abusive (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2012, n. 3531; sez. V, 04.02.2004, n. 373; sez. V, 24.10.2002, n. 5692; Cass. civ., sez. II , 10.10.2000, n. 13485; 07.04.2000, n. 4345; Sez. I, 03.10.2000, n. 13087, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d) c.p.a.)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Piano regionale per le attività estrattive: sulle osservazioni dei Comuni valutazione obbligatoria.
La partecipazione dei Comuni al procedimento di formazione del Piano regionale per le attività estrattive (PRAE) non può ridursi alla mera facoltà collaborativa di presentare proprie osservazioni (alla stregua delle osservazioni formulate dai privati nel procedimento di formazione di uno strumento urbanistico). Nel procedimento di approvazione del PRAE, l’Autorità regionale procedente, acquisite le osservazioni dei Comuni coinvolti dalle previsioni del piano, è tenuta a ponderare, con una motivazione esplicita, gli interessi pubblici o collettivi articolati dagli enti comunali.
Il Consiglio di Stato si è espresso su una sentenza del TAR Napoli che aveva dichiarato illegittimo il Piano regionale per le attività estrattive (PRAE) della Regione Campania.
Tra i motivi della decisione di primo grado vi era la violazione delle garanzie partecipative del Comune ricorrente nella procedura di adozione del medesimo piano.
La decisione in esame conferma il profilo di illegittimità rilevato, indicando come la partecipazione dei Comuni al procedimento pianificatorio di formazione del PRAE non può ridursi alla mera facoltà collaborativa di presentare proprie osservazioni (alla stregua delle osservazioni che possono essere formulate dai privati nel procedimento di formazione di uno strumento urbanistico).
La pronuncia indicata la necessità di interpretare la disciplina legislativa regionale (art. 2 L.R. 13.12.1985, n. 54) in un’ottica costituzionalmente orientata, alla luce dei vari interessi coinvolti tra cui quelli di rango costituzionale di tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini (artt. 9 e 32 Cost.) e del principio di sussidiarietà tra i diversi livelli di governo investiti di competenze in materia di pianificazione territoriale, in conformità alle previsioni dell’art. 118 Cost., che impone la cooperazione tra Enti nei processi di pianificazione territoriale.
Si pone, difatti, un’esigenza di coordinamento tra potestà pianificatoria regionale in materia di cave e potestà pianificatoria comunale in materia urbanistica e di assetto del territorio.
Il principio di leale cooperazione che deve informare i rapporti tra gli enti territoriali e i vari livelli di governo nell’azione pianificatoria in settori che si intersecano reciprocamente e coinvolgono una pluralità di interessi (pubblici, collettivi e privati), anche di rango costituzionale, impone nel procedimento di approvazione del PRAE che l’Autorità regionale procedente, nell’acquisizione delle osservazioni dei Comuni coinvolti dalle previsioni del piano, sia tenuta a ponderare, con una motivazione esplicita, gli interessi pubblici o collettivi articolati dagli enti comunali e, dunque, a prenderli in debita considerazione.
Diversamente opinando sarebbe precluso ogni sindacato, anche giurisdizionale, delle scelte pianificatorie (per il resto non sindacabili nel merito) sotto i profili del rispetto dei principi di logicità, proporzionalità e congruità motivazionali, in relazione alle osservazioni formulate dai Comuni quali enti esponenziali degli interessi della comunità locale.
Un altro punto degno di nota della sentenza è che da tale illegittimità procedimentale il Consiglio di Stato, muovendosi in una ottica conservativa, non ha fatto discendere, come aveva invece fatto il TAR Campano, la caducazione del PRAE nel suo complesso ma solo nella parte relativa agli interessi del Comune ricorrente, (che lamenta la mancata valutate di alcune osservazioni) e, in ogni caso, limitatamente alla parte del piano concernente il territorio comunale.
Da ciò deriva che l’effetto conformativo della decisione si risolva nell’obbligo di rinnovazione procedimentale, limitato alla valutazione delle menzionate osservazioni da parte dell’Autorità procedente.
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Esito
Riforma parzialmente TAR Campania Napoli, Sez. I, n. 452/2008
Precedenti giurisprudenziali
Cons. Stato Sez. VI, 06.06.2008, n. 2743
Riferimenti normativi

Art. 2 legge Regione Campania 13.12.1985, n. 54; art. 8 l. reg. 22.12.2004, n. 16; art. 118 Cost.
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.09.2013 n. 4548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppalti. Insufficiente la richiesta di indennizzo. Lavori non contestati da pagare.
Se il committente di un appalto, rilevati i difetti dell'opera realizzata, non pretende che l'esecutore li elimini ma chiede solo il risarcimento del danno, resta invariato il credito dell'appaltatore per il corrispettivo.

È questo il principio ricordato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 10.09.2013 n. 20707.
L'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell'opera. Ma la garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l'opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché non siano stati in mala fede taciuti dall'appaltatore. Il committente può chiedere, in alternativa, la riparazione dell'opera a spese dell'appaltatore o la riduzione del prezzo e, nei casi più gravi, la risoluzione del contratto. Se però il committente chiede solo il risarcimento del danno, l'appaltatore ha diritto al compenso pattuito.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il committente non ha chiesto di eliminare i difetti né ha pagato l'appaltatore, che ha quindi fatto ricorso per decreto ingiuntivo. L'opposizione del committente è stata accolta dai giudici di merito. Ma il verdetto è stato ribaltato dalla Cassazione. Questo perché la domanda proposta dal committente per il risarcimento dei danni è autonoma rispetto alla domanda che punta a eliminare i vizi. Non è pertanto consentito al committente, nel caso di colpa dell'appaltatore, ottenere con la domanda di risarcimento dei danni gli effetti dell'azione per eliminare i vizi.
Nei lavori per il condominio, la decisione di non pretendere l'eliminazione dei vizi dell'opera ma di chiedere solo il risarcimento del danno compete all'assemblea e non all'amministratore poiché ciò implica, comunque il pagamento del corrispettivo. L'amministratore che omettesse di informare l'assemblea rischierebbe di dover poi lui risarcire i danni al condominio se il suo operato non venisse ratificato (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2013).

TRIBUTI: Il casone rurale non è di lusso. Metri quadri insufficienti a definirlo tale.
In un'abitazione di tipo agricolo, la sola superficie maggiore di 240 metri quadrati non è sufficiente a renderla «abitazione di lusso»; il solo riferimento alla superficie della casa, infatti, non può far rientrare un immobile agricolo tra quelli di lusso.

Sono le conclusioni raggiunte dalla Commissione tributaria provinciale di Cremona, che si leggono nella sentenza 19.07.2013 n. 62/2/13.
Gli immobili adibiti ad abitazione principale di un nucleo familiare godono di diversi benefici fiscali, sia per quello che riguarda il loro acquisto sia per l'imposizione fiscale relativa ai tributi locali e sui redditi. Tra questi immobili, che costituiscono abitazione principale, sono escluse, tuttavia, le abitazioni che, presentando determinate caratteristiche, possano essere ritenute di lusso e non rientrano tra le categorie agevolate. Sono, quindi, ritenute tali (di lusso) quelle abitazioni che abbiano almeno quattro caratteristiche tra quelle indicate nella tabella allegata al decreto ministeriale 02.08.1969.
Sono, inoltre, ritenute sempre di lusso, tra le altre, le singole unità abitative di superficie superiore a 240 metri quadrati, computate con l'esclusione di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale e posto macchina. Nel caso trattato dai giudici lombardi, le Entrate di Cremona, dopo aver rilevato che l'immobile indicato dai contribuenti in successione aveva una superficie di 270 mq, con la liquidazione impugnata revocavano le agevolazioni fiscali per la prima casa.
In sede di ricorso avverso la stessa liquidazione erariale, i ricorrenti palesavano che, sia pure di superficie superiore ai 240 metri quadri, l'immobile non aveva le caratteristiche di lusso che potevano giustificare la pretesa fiscale; dai documenti allegati al ricorso si poteva agevolmente rilevare che si trattava di una abitazione rurale. Gli stessi giudici, dopo aver verificato la consistenza dell'immobile, di tipo agricolo, hanno annullato la liquidazione e stabilito «che il solo riferimento alla metratura della casa (mq 270) non possa far rientrare la stessa nelle abitazioni di lusso» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La normativa di settore ha previsto i piani di secondo livello, in attuazione dei piani generali, al fine di garantire un equilibrato sviluppo urbanistico del territorio (cfr. artt. 13 e 28 della L. 17.08.1942 n. 1150).
La suddetta funzione viene assolta dai piani particolareggiati di iniziativa pubblica e dai piani di lottizzazione di iniziativa privata, non solo quando trattasi di asservire per la prima volta una zona non ancora urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere residenziale o produttivo, ma anche quando l’intervento su aree libere esiga il raccordo armonico con il preesistente aggregato abitativo.
Al fine dunque di riscontrare la permanente necessità della previa adozione del piano attuativo occorre, tra l’altro, verificare lo stato di edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il suo grado di urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime, a fronte della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente.
Orbene, nel caso in trattazione, in disparte il fatto che il lotto in questione non può definirsi intercluso, confinando a nord con zona inedificata e tenuto conto che l’area in esame è sprovvista di opere di urbanizzazione primaria quali la rete idrica e fognaria nonché del gas, è necessario porre in rilievo la totale mancanza di opere di urbanizzazione secondaria; e tale carenza risulta di particolare rilievo, anche a fronte della consistenza del progettato intervento edilizio e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente.
Correttamente pertanto ha operato l’Amministrazione nel respingere la richiesta di permesso di costruire de qua, in assenza del piano attuativo, secondo quanto previsto nelle N.T.A. del P.R.G. per la zona in esame.

Ciò posto, a tale riguardo il giudice di primo grado ha evidenziato che, “invero la normativa di settore ha previsto i piani di secondo livello, in attuazione dei piani generali, al fine di garantire un equilibrato sviluppo urbanistico del territorio (cfr. artt. 13 e 28 della L. 17.08.1942 n. 1150).
La suddetta funzione viene assolta dai piani particolareggiati di iniziativa pubblica e dai piani di lottizzazione di iniziativa privata, non solo quando trattasi di asservire per la prima volta una zona non ancora urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere residenziale o produttivo, ma anche quando l’intervento su aree libere esiga il raccordo armonico con il preesistente aggregato abitativo (Cons. Stato, A.P., 06.10.1992 n. 12).
Al fine dunque di riscontrare la permanente necessità della previa adozione del piano attuativo occorre, tra l’altro, verificare lo stato di edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il suo grado di urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione medesime, a fronte della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente (cfr. in ultimo TAR Puglia-Lecce, III, 17.11.2008 n. 3317 e la giurisprudenza ivi citata).
Orbene, nel caso in trattazione, in disparte il fatto che il lotto in questione non può definirsi intercluso (cfr. TAR Puglia-Lecce, III, 01.04.2008 n. 961), confinando a nord con zona inedificata (cfr., tra l’altra documentazione, lo stralcio aerofotogrammetrico, all. 2 al ricorso) e tenuto conto che l’area in esame è sprovvista di opere di urbanizzazione primaria quali la rete idrica e fognaria (per stessa ammissione del ricorrente -cfr. pag. 12 dei motivi aggiunti depositati in data 21.04.2008-, alla cui mancanza si porrebbe peraltro rimedio, sempre a detta del ricorrente, rispettivamente con cisterne e fosse ecologiche) nonché del gas, è necessario porre in rilievo la totale mancanza di opere di urbanizzazione secondaria (come del resto parimenti ammesso dall’interessato -cfr. pag. 13 dei motivi aggiunti depositati il 21.04.2008-); e tale carenza risulta di particolare rilievo, anche a fronte della consistenza del progettato intervento edilizio e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente (cfr. ancora Cons. Stato Ad. Pl. n. 12 del 1992).
Correttamente pertanto ha operato l’Amministrazione nel respingere la richiesta di permesso di costruire de qua, in assenza del piano attuativo, secondo quanto previsto nelle N.T.A. del P.R.G. per la zona in esame (cfr. all. 3 agli atti depositati dal Comune in data 26.02.2008). Ne discende pertanto anche l’infondatezza della domanda di condanna del Comune al risarcimento del danno che va pertanto parimenti respinta
”.
Il Collegio, a sua volta, non può che confermare la correttezza degli assunti del giudice di primo grado ...
(così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 05.12.2012 n. 6229) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.07.2013 n. 3880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di pianificazione urbanistica, la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto, con la conseguenza che il titolo edilizio può essere rilasciato in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione Comunale abbia accertato che il lotto del richiedente è l’unico a non essere stato ancora edificato, come nell’ipotesi –per l’appunto- del lotto residuale ed intercluso, e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti.

Né risultava possibile configurare l’area in questione –interessata, oltre a tutto, da un progetto di rilevante carico urbanistico, ancorché limitato ai soli mesi estivi, stante il non indifferente rilievo costituito dall’insediamento di 15 appartamenti e della conseguente presenza dei loro occupanti e dei mezzi di trasporto a loro disposizione– come “lotto intercluso”, posto che in tema di pianificazione urbanistica la nozione di lotto intercluso ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (così Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2012 n. 6656), con la conseguenza che il titolo edilizio può essere rilasciato in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione Comunale abbia accertato che il lotto del richiedente è l’unico a non essere stato ancora edificato, come nell’ipotesi –per l’appunto- del lotto residuale ed intercluso, e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 05.12.2012 n. 6229) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.07.2013 n. 3880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento, al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente provvedimento demolitorio.
Invero, come la giurisprudenza ha pure posto in luce, non appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli di logicità e razionalità consentire, senza la previa valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in caso di conformità del manufatto alle previsioni urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua distruzione.
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In materia edilizia l’attività sanzionatoria è vincolata e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può mai legittimare.
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Il comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 prevedente la sanzione demolitoria-ripristinatoria -a differenza del successivo comma 3 che indica il solo responsabile dell’abuso a riguardo dell’acquisizione dei beni abusivi al patrimonio comunale se non portati al pristino stato– individua anche il proprietario come destinatario e legittimato passivo del provvedimento di demolizione anche se non autore dell’abuso edilizio commesso nella sua proprietà.
Al riguardo, dunque, la legittimazione passiva del proprietario è prevista espressamente dal suddetto comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 che trova, evidentemente, la sua ratio nell’attenzione che il proprietario, proprio in forza del suo diritto dominicale, ha (o può e/o deve avere) di ciò che avviene nella sua proprietà e nella consapevolezza avuta di ciò che prende dal suo dante causa, per cui pure ad esso è imposto l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi con l’eliminazione dell’abuso edilizio, fatti salvi i rapporti interni con il responsabile dell’abuso in ordine al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute.
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Discorso diverso va fatto per il provvedimento di acquisizione dei manufatti abusivi e della relativa area di sedime al patrimonio comunale nelle ipotesi di mancata demolizione ad opera dell’autore dell’illecito o del proprietario.
In proposito l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, al comma 3, dispone la menzionata acquisizione “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione” ed, al comma 5, stabilisce che “L’opera acquisita è demolita" a cura del Comune ed a spese “dei responsabili dell’abuso”, salvo che non si decida di conservarla se non contrasti con gli interessi urbanistici o ambientali; e, dunque, al riguardo viene richiamato il solo responsabile dell’abuso e non anche il proprietario.
E, come ricorda la ricorrente, la Corte Costituzionale ha posto in luce che l'acquisizione in parola non è “una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando poi il sindaco (recte: Comune) ad una scelta fra la demolizione di ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici”; che “Da quanto precede deve dedursi che, essendo l'acquisizione gratuita una sanzione prevista per il caso dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolire, essa, come risulta dalla stessa formulazione del terzo comma dell'art. 7 della legge in questione (ora art. 31 del D.P.R. n. 380/2001), si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento”; e che “Di conseguenza appare evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l'acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l'area sia di proprietà del terzo, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dall'abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d'ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell'area che, se di proprietà del terzo estraneo all'abuso, deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d'ufficio la demolizione.”

Al riguardo il consolidato orientamento giurisprudenziale, anche di questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che in pendenza del procedimento di sanatoria, il ricorso giurisdizionale avverso l’ordinanza di demolizione è improcedibile, atteso che, se la domanda di sanatoria viene favorevolmente definita, l’ingiunzione di demolizione perde efficacia, mentre, se viene respinta, l’Amministrazione dovrà necessariamente procedere, con autonomo procedimento, al riesame dell’intera fattispecie ed emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio con assegnazione in tal caso di un nuovo termine per eseguirlo, con la conseguenza, anche in quest’ultimo caso, dell’inefficacia del precedente provvedimento demolitorio (Cfr. Cons. di Stato – Sez. IV –03/12/2010 n. 8502; TAR Piemonte-TO – Sez. I – 07/04/2011 n. 358; TAR Liguria Genova - sez. I - 28.01.2011 n. 169; TAR Lazio Roma - sez. II - 22.12.2010 n. 38234; TAR Campania Napoli - sez. VI - 25.10.2010 n. 21366; TAR Lombardia Milano - sez. IV – 08.09.2010 n. 5159; TAR Campania – SA – 22/02/2011 n. 350).
Invero, come la giurisprudenza ha pure posto in luce, non appare coerente con i principi dell’ordinamento e di quelli di logicità e razionalità consentire, senza la previa valutazione della domanda di sanatoria dell’abuso, la distruzione di un bene di valenza economica che potrebbe, in caso di conformità del manufatto alle previsioni urbanistico-edilizie, essere assentito dopo la sua distruzione.
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Al riguardo è sufficiente ricordare che la giurisprudenza, condivisa da questo Tribunale, ha avuto modo di affermare che in materia edilizia l’attività sanzionatoria è vincolata e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può mai legittimare (ex multis: Cons. di Stato - sez. VI – 04/03/2013 n. 1268).
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Si deve osservare che il comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 prevedente la sanzione demolitoria-ripristinatoria -a differenza del successivo comma 3 che indica il solo responsabile dell’abuso a riguardo dell’acquisizione dei beni abusivi al patrimonio comunale se non portati al pristino stato– individua anche il proprietario come destinatario e legittimato passivo del provvedimento di demolizione anche se non autore dell’abuso edilizio commesso nella sua proprietà.
Al riguardo, dunque, la legittimazione passiva del proprietario è prevista espressamente dal suddetto comma 2 dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 che trova, evidentemente, la sua ratio nell’attenzione che il proprietario, proprio in forza del suo diritto dominicale, ha (o può e/o deve avere) di ciò che avviene nella sua proprietà e nella consapevolezza avuta di ciò che prende dal suo dante causa, per cui pure ad esso è imposto l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi con l’eliminazione dell’abuso edilizio, fatti salvi i rapporti interni con il responsabile dell’abuso in ordine al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute (Cfr. anche TAR Campania – NA – Sez. VII – 13/02/2013 n. 873; id. 22/3/2012 n. 1445; id. Sez. VI – 05/03/2012 n. 1099; id. TAR Calabria – CZ – Sez. I – 12/04/2012 n. 369)
Discorso diverso va fatto per il provvedimento di acquisizione dei manufatti abusivi e della relativa area di sedime al patrimonio comunale nelle ipotesi di mancata demolizione ad opera dell’autore dell’illecito o del proprietario.
In proposito l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, al comma 3, come innanzi si è accennato, dispone la menzionata acquisizione “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione” ed, al comma 5, stabilisce che “L’opera acquisita è demolita" a cura del Comune ed a spese “dei responsabili dell’abuso”, salvo che non si decida di conservarla se non contrasti con gli interessi urbanistici o ambientali; e, dunque, al riguardo viene richiamato il solo responsabile dell’abuso e non anche il proprietario.
E, come ricorda la ricorrente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 345/1991, ha posto in luce che l'acquisizione in parola non è “una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando poi il sindaco (recte: Comune) ad una scelta fra la demolizione di ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici”; che “Da quanto precede deve dedursi che, essendo l'acquisizione gratuita una sanzione prevista per il caso dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolire, essa, come risulta dalla stessa formulazione del terzo comma dell'art. 7 della legge in questione (ora art. 31 del D.P.R. n. 380/2001), si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento”; e che “Di conseguenza appare evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l'acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l'area sia di proprietà del terzo, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dall'abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d'ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell'area che, se di proprietà del terzo estraneo all'abuso, deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d'ufficio la demolizione.”
Alla luce, dunque, dei suesposti parametri legislativi e giurisprudenziali, nel caso in esame, nel quale la ricorrente non risulta autrice dell’abuso perché presumibilmente risalente al suo dante causa e pertanto senza possibilità di opporvisi e nel quale essa è comproprietaria e pertanto non avente la piena disponibilità dei beni, il motivo di gravame esaminato appare fondato nella parte volto avverso il provvedimento di acquisizione dei manufatti al patrimonio comunale, ferma restando la sanzione della demolizione da eseguirsi a cura di parte ovvero, provenendo questa da provvedimento autoritativo con valenza esecutoria, d’ufficio ed a spese della parte privata (Cfr. anche TAR Sicilia – PA – Sez. III – 21/01/2013 n. 153; id. Campania - NA – Sez. II – 26/05/2004 n. 8998)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2013 n. 1592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 11, comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Quindi, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
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Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce, due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1, del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari che compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono, singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell’assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art. 1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere autorizzatorio; sicché deve ritenersi che questi fosse privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.

Decisivo, ai fini della soluzione della controversia, è il primo motivo, avente carattere assorbente, con il quale la ricorrente lamenta che il sig. L.L., odierno controinteressato, sarebbe stato privo della legittimazione a richiedere il permesso di costruire poi rilasciato, atteso che le opere che si intendono realizzare investono parti comuni dell’edificio (nella specie il tetto), e che quindi la richiesta avrebbe dovuto essere preceduta da una delibera condominiale di contenuto autorizzatorio.
In proposito, va osservato che, in base all’art. 11, comma primo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 980, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
Nel caso di specie è pacifico che gli interventi per i quali è stato richiesto il titolo edilizio riguardano, non solo le unità immobiliari poste all’ultimo piano dell’edificio, ma anche il tetto di quest’ultimo: in particolare riguardano anche la creazione di cinque abbaini e tre prese di luce, due delle quali apribili.
Ciò premesso va osservato che, in base all’art. 1117, n. 1, del codice civile, il tetto è oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari che compongono l'edificio.
Ne consegue che i singoli proprietari non possono, singolarmente, apportare modificazioni allo stesso, essendo invece necessaria, ai sensi dell’art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell’assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall’art. 1136 dello stesso codice.
Nel caso concreto la richiesta del controinteressato non è stata preceduta da alcuna deliberazione avente carattere autorizzatorio; sicché deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente, che questi fosse privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.07.2013 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto alla doglianza che investe la mancata liquidazione delle spese del giudizio a fronte della soccombenza, deve ribadirsi, come da concorde giurisprudenza, la più ampia discrezionalità del giudice del merito di ripartire fra le parti l’onere delle spese sostenute per la partecipazione al giudizio, salvo un controllo estrinseco in sede di appello in ordine alla corretta applicazione dei canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, che nella specie, in relazione all’effettivo svolgimento del giudizio e della peculiarità della materia oggetto del contendere, non si configurano violati.
Quanto alla doglianza che investe la mancata liquidazione delle spese del giudizio a fronte della soccombenza dell’a.t.i. ricorrente in prime cure deve ribadirsi, come da concorde giurisprudenza, la più ampia discrezionalità del giudice del merito di ripartire fra le parti l’onere delle spese sostenute per la partecipazione al giudizio, salvo un controllo estrinseco in sede di appello in ordine alla corretta applicazione dei canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, che nella specie, in relazione all’effettivo svolgimento del giudizio e della peculiarità della materia oggetto del contendere, non si configurano violati (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.07.2013 n. 3568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’indicazione in sede di offerta degli oneri aziendali di sicurezza, non soggetti a ribasso, costituisce –sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- un adempimento imposto dagli artt. 86, co. 3-bis, e 87, co. 4, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii. all’evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura da affidare.
Stante la natura di obbligo legale rivestita dall’indicazione, resta irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia legis.
Poiché la medesima indicazione riguarda l’offerta, non può ritenersene consentita l’integrazione mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante (ex art. 46, co. 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006), pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.

Nel merito, il primo, articolato motivo di gravame è infondato alla stregua dei principi affermati dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 23.07.2010 n. 4849, 08.02.2011 n. 846 e 29.02.2012 n. 1172, nonché sez. III, 03.10.2011 n. 5421), pienamente condivisi dal Collegio, secondo cui:
- l’indicazione in sede di offerta degli oneri aziendali di sicurezza, non soggetti a ribasso, costituisce –sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture- un adempimento imposto dagli artt. 86, co. 3-bis, e 87, co. 4, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii. all’evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura da affidare;
- stante la natura di obbligo legale rivestita dall’indicazione, resta irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia legis;
- poiché la medesima indicazione riguarda l’offerta, non può ritenersene consentita l’integrazione mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante (ex art. 46, co. 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006), pena la violazione della par condicio tra i concorrenti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.07.2013 n. 3565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione.
In particolare, la conoscenza effettiva e completa del titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non solo con il loro inizio; ai fini della tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce.

In punto di diritto, si osserva che (così, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 19.12.2012, n. 6557), in base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione; in particolare, la conoscenza effettiva e completa del titolo edilizio da parte del terzo si verifica di regola con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile, e non solo con il loro inizio; ai fini della tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce (Consiglio di Stato sez. IV, 07.11.2012, n. 5657).
Nella specie, il termine non poteva che decorrere dalla ultimazione dei lavori, potendosi desumere soltanto a quella data la significativa alterazione planivolumetrica delle caratteristiche dell’edificio costruito rispetto al preesistente.
Né ha senso limitarsi a valutare le censure di non edificabilità per rispetto della fascia cimiteriale, sia perché anche esse non escludono del tutto la edificabilità (come deduce nei riproposti motivi l’appellato) vietando certamente la ipotesi di notevole aumento di volume, sia perché tale valutazione in senso limitativo riguarderebbe, evidentemente, solo una parte delle censure proposte nel ricorso originario.
E’ evidente che la percezione del superamento dei limiti di altezza e volume nella consistenza lamentata non poteva che avvenire a costruzione pressoché ultimata e non ad inizio dei lavori (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2013 n. 2974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La consulenza tecnica di ufficio non è un mezzo di prova vero e proprio, ma uno strumento istruttorio per la soluzione, sulla scorta delle acquisizioni di causa, di questioni di carattere non strettamente giuridico con l'ausilio di un soggetto tecnicamente qualificato.
Al pari di ogni altro mezzo istruttorio il giudice di merito dispone di un'ampia sfera di apprezzamento discrezionale sull'opportunità di disporre o non la consulenza tecnica di ufficio e la scelta se avvalersene o non è sindacabile solo entro limiti molto ristretti.

Deve anche richiamarsi il principio pacifico di giurisprudenza secondo cui la consulenza tecnica di ufficio (da ultimo, tra tante, Consiglio di Stato sez. III, 30.10.2012, n. 5542) non è un mezzo di prova vero e proprio, ma uno strumento istruttorio per la soluzione, sulla scorta delle acquisizioni di causa, di questioni di carattere non strettamente giuridico con l'ausilio di un soggetto tecnicamente qualificato; al pari di ogni altro mezzo istruttorio il giudice di merito dispone di un'ampia sfera di apprezzamento discrezionale sull'opportunità di disporre o non la consulenza tecnica di ufficio e la scelta se avvalersene o non è sindacabile solo entro limiti molto ristretti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2013 n. 2974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
Il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno con l’effettuazione di opere edilizie.
La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area.
Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un organismo in tutto o in parte nuovo.
La nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee.
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Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò, comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con l’effettuazione di opere edilizie.

E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del provvedimento con il quale la resistente amministrazione comunale di Avellino ha sanzionato, con l’ingiunzione del ripristino dello stato dei luoghi, il mutamento di destinazione d’uso dell’appartamento di proprietà del ricorrente, sito al secondo piano di via ..., siccome adibito, senza preventiva autorizzazione, a studio commerciale in luogo dell’originaria destinazione residenziale.
L’ordinanza è contestata dal ricorrente che oppone l’esistenza di un mero mutamento funzionale dell’immobile, realizzato senza opere edilizie, in conformità alla normativa urbanistica vigente nel 1997, epoca dell’avvenuto mutamento.
In sostanza, i ricorrenti invocano la costante giurisprudenza del Giudice Amministrativo (sin da Cons. Stato, sez. IV, 27.07.1982, n. 525) secondo cui «il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade» (così TAR Lazio-Roma, sez. I-quater, 24.05.2011, n. 4622);
Sostengono che, all'epoca dell'indicato cambiamento di destinazione d'uso (da residenziale a studio professionale) la Regione Campania non aveva ancora legiferato in materia e, comunque, l’attività di studio professionale impressa all’immobile fin dal 1977 era conforme alle previsioni dell'allora vigente Piano Regolatore Generale di Avellino, siccome ricadente in zona “B - residenziale”.
La tesi attorea, pur finemente esposta e doviziosamente argomentata, non ha pregio atteso che la giurisprudenza ha chiarito che:
- il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Cons. St. Sez. I 25.05.2012 n. 759; Cons. St. Sez. V 10.07.2003 n. 4102; 03.01.1998 n. 24; 28.05.2010 n. 3420);
- il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno con l’effettuazione di opere edilizie. La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area. Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un organismo in tutto o in parte nuovo (cfr. Cass. Pen., sez. III, 15.03.2002, n. 19378);
- la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee (cfr. Cons. St., sez. V, 07.09.2004, n. 5867);
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò, comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Quanto, infine, alla dedotta violazione dell’indefettibile modulo partecipativo ex art. l. n. 47/1985, è appena il caso di osservare che, per giurisprudenza consolidata, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento perché trattasi di atti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime (ex multis Tar Lombradia–Brescia, Sez. I, 25.11.2011 n. 1632) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’edificazione di aree è condizionata quantitativamente, nello strumento urbanistico, dagli indici di densità. Tra questi, la densità territoriale indica la quantità massima di volumi realizzabili in una zona territoriale omogenea, ovvero un comprensorio di terreno caratterizzato da una medesima qualità urbanistica, mentre la densità fondiaria indica il volume massimo realizzabile su uno specifico lotto, in funzione della prima.
Ogni lotto di terreno edificabile esprime, o meglio possiede, dunque, una propria caratteristica “vocazione” o possibilità edificatoria che si esprime in termini di cubatura ammissibile o consentita.
Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza, la cubatura che un terreno esprime o possiede può essere alienata o ceduta indipendentemente dalla alienazione o dalla cessione del terreno medesimo, a determinate condizioni. Questo perché dovrebbe riconoscersi che la cubatura (ossia, lo si ripete, la possibilità di edificare un determinato volume edilizio) pur se intrinsecamente collegata al terreno che la esprime, costituisce una utilità separata da questo, autonomamente valutabile e con una propria commerciabilità e patrimonialità.
La cubatura espressa dal terreno può dunque essere oggetto di un contratto di trasferimento con il quale il proprietario di un’area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue possibilità edificatorie ad altro soggetto allo scopo di consentire a quest’ultimo di realizzare, nell’area di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel rispetto dell’indice di densità fondiaria.
L’area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene, per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al trasferimento di questa, opponibile, dunque, anche ai terzi, sebbene la sua sussistenza non sia evincibile secondo il sistema della trascrizione immobiliare, non richiesta per la cessione in sé (fermo restando che, laddove necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla trascrizione). Tuttavia, l’esistenza dell’asservimento deve risultare dal certificato di destinazione urbanistica dell’area, ex art. art. 30, comma 2, d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Per la giurisprudenza amministrativa, la legittimità della cessione di cubatura, ai fini dello sfruttamento della cubatura ceduta in un progetto edilizio da parte dell’acquirente, è legata a due condizioni e cioè la omogeneità dell’area territoriale entro la quale si trovano i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del contratto) e la contiguità dei due fondi.
Il primo requisito è volto ad assicurare che non si stravolgano le previsioni di piano, che sono legate alla rilevazione della volumetria esistente, in modo da determinare, secondo gli standard del d.m. 1444/1968, a quale tipologia di comparto edificabile appartiene l’area; se fosse ammessa la cessione di cubatura tra fondi aventi qualificazione urbanistica di ZTO differenti si otterrebbe che l’indice di densità territoriale potrebbe essere alterato o superato nei limiti massimi.
Il secondo requisito non è inteso dalla giurisprudenza come una condizione fisica (ossia contiguità territoriale) ma giuridica, e viene a mancare quando tra i fondi sussistano una o più aree aventi destinazioni urbanistiche incompatibili con l’edificazione.
In altri termini, è necessario che le stesse aree siano se non contigue almeno significativamente vicine, non potendosi accomunare sotto un regime urbanistico unitario aree ricadenti in zone urbanistiche non omogenee.
In altri termini, come la giurisprudenza del Giudice di seconde cure ha condivisibilmente ritenuto in fattispecie di distanza pari a 35 ml, la contiguità dei fondi non deve intendersi nel senso della adiacenza, ossia della continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate, bensì come effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura.

Con riguardo al tema della cessione di cubatura, tuttavia, va posto in rilievo come la giurisprudenza abbia precisato che <<l’edificazione di aree è condizionata quantitativamente, nello strumento urbanistico, dagli indici di densità. Tra questi, la densità territoriale indica la quantità massima di volumi realizzabili in una zona territoriale omogenea, ovvero un comprensorio di terreno caratterizzato da una medesima qualità urbanistica, mentre la densità fondiaria indica il volume massimo realizzabile su uno specifico lotto, in funzione della prima.
Ogni lotto di terreno edificabile esprime, o meglio possiede, dunque, una propria caratteristica “vocazione” o possibilità edificatoria che si esprime in termini di cubatura ammissibile o consentita.
Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza, la cubatura che un terreno esprime o possiede può essere alienata o ceduta indipendentemente dalla alienazione o dalla cessione del terreno medesimo, a determinate condizioni.
Questo perché dovrebbe riconoscersi che la cubatura (ossia, lo si ripete, la possibilità di edificare un determinato volume edilizio) pur se intrinsecamente collegata al terreno che la esprime, costituisce una utilità separata da questo, autonomamente valutabile e con una propria commerciabilità e patrimonialità.
La cubatura espressa dal terreno può dunque essere oggetto di un contratto di trasferimento con il quale il proprietario di un’area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue possibilità edificatorie ad altro soggetto allo scopo di consentire a quest’ultimo di realizzare, nell’area di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel rispetto dell’indice di densità fondiaria.
L’area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene, per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al trasferimento di questa, opponibile, dunque, anche ai terzi, sebbene la sua sussistenza non sia evincibile secondo il sistema della trascrizione immobiliare, non richiesta per la cessione in sé (fermo restando che, laddove necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla trascrizione). Tuttavia, l’esistenza dell’asservimento deve risultare dal certificato di destinazione urbanistica dell’area, ex art. art. 30, comma 2, d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
Per la giurisprudenza amministrativa, la legittimità della cessione di cubatura, ai fini dello sfruttamento della cubatura ceduta in un progetto edilizio da parte dell’acquirente, è legata a due condizioni e cioè la omogeneità dell’area territoriale entro la quale si trovano i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del contratto) e la contiguità dei due fondi.
Il primo requisito è volto ad assicurare che non si stravolgano le previsioni di piano, che sono legate alla rilevazione della volumetria esistente, in modo da determinare, secondo gli standard del d.m. 1444/1968, a quale tipologia di comparto edificabile appartiene l’area; se fosse ammessa la cessione di cubatura tra fondi aventi qualificazione urbanistica di ZTO differenti si otterrebbe che l’indice di densità territoriale potrebbe essere alterato o superato nei limiti massimi.
Il secondo requisito non è inteso dalla giurisprudenza come una condizione fisica (ossia contiguità territoriale) ma giuridica, e viene a mancare quando tra i fondi sussistano una o più aree aventi destinazioni urbanistiche incompatibili con l’edificazione.
In altri termini, è necessario che le stesse aree siano se non contigue almeno significativamente vicine, non potendosi accomunare sotto un regime urbanistico unitario aree ricadenti in zone urbanistiche non omogenee (Tar Campania Napoli, VIII, 15.05.2008, n. 4549).
In altri termini, come la giurisprudenza del Giudice di seconde cure ha condivisibilmente ritenuto in fattispecie di distanza pari a 35 ml, la contiguità dei fondi non deve intendersi nel senso della adiacenza, ossia della continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate, bensì come effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura (cfr. Consiglio Stato, V, 30.10.2003, n. 6734).
Facendo applicazione dei predetti principi, il concetto di vicinanza, invero relativo, appare rispettato nel caso di specie, trattandosi di fondi, per altro di proprietà della ricorrente, distanti dai 21 ai 40 ml.
>> (Tar Sicilia Catania, I, 12.10.2010, n. 4113) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.05.2012 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento d’uso di cui è causa è avvenuto senza esecuzione di alcuna opera edilizia e, all’epoca dei fatti, non era ancora stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a concessione e quali ad autorizzazione.
Ciò premesso, dopo le sentenze della Corte Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto, incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa.
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente, non può che essere registrata la presa di posizione, applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa, secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione e, neppure, ad autorizzazione edilizia.
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Va chiarito come, se da un lato, la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione, dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro, ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico”.

Rileva il Collegio che:
a) in punto di fatto, risulta incontroverso tra le parti che il mutamento d’uso di cui è causa, sia avvenuto senza esecuzione di alcuna opera edilizia;
b) in punto di diritto, all’epoca dei fatti non era ancora stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a concessione e quali ad autorizzazione;
c) sempre in punto di diritto, dopo le sentenze della Corte Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto, incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365; sez. V 18.01.1988 n. 8).
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente, non può che essere registrata la presa di posizione, applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa, secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione e, neppure, ad autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n. 341; id., 01.10.1993, n. 818; nonché, di recente, TAR Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699; TAR Lazio, sez. II, 03.03.2008 n.1973).
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Quanto ai pretesi oneri di urbanizzazione, il Collegio osserva quanto segue.
Nel caso di modificazione della destinazione d'uso senza opere edilizie, cui sia ascrivibile un maggior carico urbanistico, sarebbe senz’altro integrato il presupposto che giustifica l'imposizione, al titolare del bene, del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa. E, tuttavia, rileva il Collegio come occorra, da parte pubblica, fornire un adeguato riscontro di tale maggior carico urbanistico ascrivibile alla nuova destinazione.
In altri termini, riepilogando sul punto, va chiarito come, se da un lato, la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione, dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (cfr., in tal senso, TAR Lombardia Brescia, 07.11.2005 , n. 1115).
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro, ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico” (così TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005 , n. 3844)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 04.05.2009 n. 3604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2013

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NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier DEBITI FUORI BILANCIO

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, Incarichi fiduciari a dirigenti precari negli EE.LL.: chi è che sosteneva che erano sempre e comunque illegittimi? (09.10.2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 32 del d.lgs. n. 151 del 2001 - art. 1, comma 339, della l. n. 228 del 2012 - fruizione ad ore del congedo parentale (nota 07.10.2013 n. 45298 di prot.).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.L. 19.06.2013, n. 69, convertito in legge 09.08.2013, n. 98. Terre e rocce da scavo, articoli 41 e 41-bis. Indirizzi operativi (Regione Veneto, Segreteria Regionale per l'Ambiente, Direzione Tutela Ambiente, nota 23.09.2013 n. 397711 di prot.).
Si vedano anche:
MODELLO 1 - DA UTILIZZARE PER LA COMUNICAZIONE ALL’ARPAV AI SENSI DELL’ART. 41-BIS, COMMA 1, DELLA LEGGE N. 98/2013 E PER LE EVENTUALI MODIFICHE
MODELLO 2DA UTILIZZARE PER LA COMUNICAZIONE ALLE AUTORITA’ COMPETENTI AI SENSI DELL’ART. 41BIS, COMMA 3, DELLA LEGGE N. 98/2013, DELLA CONFERMA DEL COMPLETO UTILIZZO DEI MATERIALI DA SCAVO: - ARPAV - COMUNE DI PRODUZIONE - COMUNE/I DI UTILIZZO

PUBBLICO IMPIEGO: Abc dei Diritti: il Dizionario on-line.
La Funzione Pubblica CGIL mette a disposizione questo dizionario on-line dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che raccoglie oltre 600 voci: maternità, malattia, infortunio, tipologie di rapporto di lavoro, pensioni, licenziamenti, dimissioni, ferie, permessi e congedi, diritti di cittadinanza, diritti sociali, diritti sindacali, ecc..
Per le singole voci sono indicate le principali fonti di riferimento a cui è possibile accedere direttamente.
Questo sito mette a disposizione informazioni e chiarimenti sui diritti dei lavoratori in modo rigoroso e con un linguaggio accessibile a tutti.
Ogni voce è affrontata con diversi livelli di approfondimento, con schede sintetiche destinate ad un utente in cerca di informazioni e chiarimenti di carattere generale e con schede di approfondimento orientate ad un pubblico con conoscenze più specifiche (Delegati, Dirigenti sindacali, ecc).
Uno strumento di consultazione accessibile a tutte e a tutti per orientarsi nel mondo del lavoro e dei diritti, nel sistema di welfare.
Innovativo, unico nella rete, si rivolge a tutte le lavoratrici e i lavoratori, le delegate e i delegati sindacali nei luoghi di lavoro, i componenti dei comitati degli iscritti, i dirigenti sindacali (link a www.fpcgil.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, settembre 2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: istruzioni operative (ANCE Bergamo, circolare 04.10.2013 n. 223)

ENTI LOCALI: OGGETTO: Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente. Pubblicazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, n. 109 in data 23.08.2013, recante disposizioni per la prima attuazione dell' articolo 62 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, come modificato dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n. 221, che istituisce l'Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) (Ministero dell'Interno, circolare 03.10.2013 n. 19/2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Tosiani, Delega di funzioni nell’amministrazione pubblica e nelle scuole (09.10.2013 - link a www.diritto.it).

APPALTI: PRIME INDICAZIONI PER L’APPLICAZIONE DELLE MODIFICAZIONI INTRODOTTE ALL’ART. 82 DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI DALLA LEGGE 09.08.2013 N. 98 DI CONVERSIONE DEL DL 69/2013 (ITACA, 19.09.2013).
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L’art. 32, comma 7-bis della legge 09.08.2013, n.98 di conversione del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), entrato in vigore lo scorso 21 agosto, ha introdotto il nuovo comma 3-bis all’art. 82 del D.Lgs. 163/2006.
Tale nuova disposizione normativa inerente al criterio del prezzo più basso valutato anche sulla base del costo del personale e degli adempimenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sta producendo delle importanti ripercussioni nel settore degli appalti pubblici.
La norma, volta a migliorare le condizioni di lavoro nel mercato dei contratti pubblici, non prevedendo un periodo transitorio, è in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale (21/08/2013).
Il Gruppo di lavoro interregionale “Contratti pubblici” presso ITACA, ha realizzato un primo contributo operativo a supporto dell’attività delle stazioni appaltanti nella delicata applicazione della nuova disciplina normativa, soprattutto per quanto riguarda le modifiche e integrazioni da apportare ai documenti costituenti i bandi e la gestione delle gare.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 09.10.2013 n. 237 "Approvazione dell’Atto aggiuntivo alla Convenzione 29.08.2013 disciplinante i criteri per l’accesso all’utilizzo delle risorse degli interventi che fanno parte del primo Programma «6000 Campanili»" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 26.09.2013).
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Sulla materia, si legga tutta la normativa aggiornata ad oggi -e relativa modulistica- reperibile cliccando qui circa la pagina web opportunamente dedicata da parte del Ministero.

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 08.10.2013 n. 236 "Testo del decreto-legge 08.08.2013, n. 91, coordinato con la legge di conversione 07.10.2013, n. 112, recante: «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo»".
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Di particolare interesse, si leggano i seguenti articoli:
● Art. 2-bis - Modifiche all’articolo 52 del codice dei beni culturali e del paesaggio
● Art. 3-quater - Autorizzazione paesaggistica
● Art. 4-bis - Decoro dei complessi monumentali ed altri immobili
● Art. 6 - Disposizioni urgenti per la realizzazione di centri di produzione artistica, nonché di musica, danza e teatro contemporanei

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'08.10.2013, "Differimento dei termini di consegna delle informazioni geografiche relative alle reti e alle infrastrutture del sottosuolo previsti dalla d.g.r. 02.07.2012 n. 3692" (deliberazione G.R. 04.10.2013 n. 754).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 07.10.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.09.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.10.2013 n. 116).

TRIBUTI: G.U. 04.10.2013 n. 233 "Ripartizione del contributo ai comuni per il ristoro del minor gettito IMU 2013" (Ministero dell'Interno, decreto 27.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 04.10.2013, "Sesto aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 02.10.2013 n. 8765).

VARI: G.U. 03.10.2013 n. 232 "Regolamento recante norme per la progressiva dematerializzazione dei contrassegni di assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi per danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore su strada, attraverso la sostituzione degli stessi con sistemi elettronici o telematici, di cui all’articolo 31 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 09.08.2013 n. 110).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 01.10.2013 n. 230 "Regolamento recante disposizioni per la prima attuazione dell’articolo 62 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, come modificato dall’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n. 221, che istituisce l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR)" (D.P.C.M. 23.08.2013 n. 109).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 01.10.2013 n. 230 "Regolamento sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione" (Commissione di Garanzia dell'Attuazione della Legge sullo Sciopero nei Servizi Pubblici essenziali, regolamento 09.09.2013).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 30.09.2013 n. 229 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Domanda
In quali casi un Giudice può legittimare un'Associazione locale all'impugnazione degli atti amministrativi a tutela dell'ambiente?
Risposta
Ad esempio quando non si denunci la diretta lesione di un bene ambientale in senso stretto, ma ci si limiti a contestare alcune scelte gestionali degli enti coinvolti, la giurisprudenza (TAR Piemonte Torino Sez. I, 04.09.2009, n. 2258) ha ritenuto che l'incidenza sull'ambiente sia del tutto ipotetica e indiretta e non ha attenga con le ragioni di tutela per cui è riconosciuta ex lege la legittimazione delle associazioni di protezione ambientale.
Altra giurisprudenza (TAR Veneto Venezia Sez. II Sent., 11.07.2008, n. 1993) ha chiarito che la legittimazione attribuita alle associazioni ambientaliste non può, dunque, giustificare l'impugnazione di atti aventi valenza meramente urbanistica, senza che ne sia dimostrata, in concreto, la contestuale incidenza negativa su valori ambientali, cosa che nella specie è avvenuta, in quanto si agisce contro una supposta minaccia al bene ambientale nella sua integralità.
Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni sono individuate con decreto del Ministro dell'ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell'ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell'azione e della sua rilevanza esterna, previo parere del Consiglio nazionale per l'ambiente (L. 08.07.1986, n. 349, art. 13).
L'elenco è pubblicato sul sito istituzionale del Ministero (http://www.minambiente.it) (08.10.2013 - tratto da www.ispoa.it).

URBANISTICA: Piani regolatori particolareggiati.
Domanda
Per i piani regolatori particolareggiati è necessaria la valutazione ambientale strategica (Vas).
Risposta
Nel settore ambientale, «piani» e «programmi» hanno lo scopo di enucleare la funzione programmatica dell'azione della Pubblica amministrazione. Con essi, la Pubblica amministrazione viene a organizzare una serie di condotte e di decisioni degli organi pubblici in modo coordinato e convergente.
L'articolo 3 della direttiva 2001/41/CE dispone che gli Stati membri, per «piani» e «programmi» che possono incidere in modo significativo sull'ambiente, devono sottoporre detti «piani» e «programmi» alla valutazione ambientale strategica (Vas).
L'articolo 3 della citata direttiva 2001/41/CE dispone al riguardo che, fatto salvo il paragrafo 3, «viene effettuata una valutazione ambientale per tutti i piani e i programmi che sono elaborati per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli e che definiscono il quadro di riferimento per l'autorizzazione dei progetti elencati negli allegati I e II della direttiva 85/337/CEE o, per i quali, in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene necessaria una valutazione ai sensi degli articoli 6 o 7 della direttiva 92/43/CEE».
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione IV, con la sentenza del 22.03.2012, (causa C-567/10) ha affermato che la nozione di «piani» e «programmi» previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, di cui all'articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE, si applica ai piani regolatori particolareggiati, per cui essi sono sottoposti alla valutazione ambientale strategica (Vas).
La valutazione ambientale strategica (Vas), per i citati Giudici, è, infatti, un processo a supporto dell'attività di gestione del territorio e delle connesse scelte di programmazione e di pianificazione e si radica con lo strumento del piano o del programma urbanistico-territoriale.
Essa, pertanto, per la suddetta Corte di giustizia delle Comunità europee, trova applicazione anche in caso di modifica o abrogazione, totale o parziale dello strumento di pianificazione: modifica o abrogazione che può comportare effetti significativi sull'ambiente, per cui è sempre necessaria una nuova valutazione ambientale strategica (Vas), che per la sua connotazione duttile e plasmabile si differenzia dalla valutazione di impatto ambientale (Via), che va riferita a singoli progetti per i quali è richiesto un approccio più circoscritto e unidirezionale (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Attività ambulante.
Domanda
In qualità di ambulante per la raccolta ed il trasporto di rifiuti ferrosi sono soggetto alla normativa di cui al decreto legislativo numero 152 del 2006?
Risposta
L'articolo 28 del decreto legislativo numero 114 del 1998 prevede che: «Il commercio su aree pubbliche può essere svolto (_) su qualsiasi area purché in forma itinerante. L'esercizio dell'attività di cui al comma 1 è soggetta ad apposita autorizzazione rilasciata a persone fisiche o a società di persona regolarmente costituite secondo le norme vigenti. L'autorizzazione all'esercizio dell'attività di vendita sulle aree pubbliche esclusivamente in forma itinerante è rilasciata in base alla normativa emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente ha la residenza, se persona fisica, o la sede legale».
La Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza del 27.06.2012, numero 25370, ha affermato che l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi effettuata in forma ambulante non configura il reato di gestione di rifiuti non autorizzata, di cui all'articolo 266, comma 5, del decreto legislativo numero 152, del 2006, sempre che il soggetto sia abilitato all'esercizio dell'attività in forma ambulante e che si tratti di rifiuti che formino oggetto del suo commercio.
La norma citata dai Supremi Giudici prevede, come eccezione alla regola generale, che alle attività di raccolta e trasporto in forma ambulante non si applichi la disciplina dei rifiuti di cui agli articoli 189, 190, 193, 212 del citato decreto legislativo numero 152, del 2006, relative alla compilazione del modello unico di dichiarazione ambientale, alla tenuta del registro di carico e scarico, alla compilazione dei formulari di trasporto dei rifiuti e all'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali, sempre che il soggetto, come su detto, sia abilitato all'esercizio dell'attività in forma ambulante e che si tratti di rifiuti che formino oggetto del suo commercio.
Con detta pronuncia, la Corte di cassazione viene a confermare un costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale non sussiste il reato per gli ambulanti muniti dei titoli abilitativi all'esercizio del commercio, atteso che per essi non sussistono quegli obblighi che il decreto legislativo numero 152 del 2006, pone a carico di coloro che esercitano professionalmente il trasporto per conto terzi dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Sportello unico per l'edilizia.
Domanda
Con lo Sportello unico per l'edilizia, l'autorizzazione paesaggistica deve essere richiesta dal Comune o dal privato cittadino?
Risposta
L'articolo 5, comma 1, del decreto Presidente della Repubblica del 06.06.2001, numero 380, prevede che le Amministrazioni comunali, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, provvedono a costituire un ufficio denominato Sportello unico per l'edilizia che ha l'onere di curare tutti i rapporti tra il privato e l'Amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività.
Il Consiglio di Stato, sezione quarta, con la sentenza del 30.07.2012, numero 4312, ha affermato che il Comune è tenuto ad acquisire soltanto tutti i pareri e nulla osta di carattere endoprocedimentale tesi al rilascio del permesso edilizio. Fra questi pareri, per il Consiglio di Stato, non può essere inclusa l'autorizzazione paesaggistica.
Però, di recente, il legislatore, con il decreto legge 22.06.2012, numero 83, convertito con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, numero 134, rafforzando il ruolo dello Sportello Unico, prevede espressamente che detto Ufficio debba acquisire tutti gli atti di assenso, comunque denominati, delle Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e del patrimonio storico artistico, nonché degli atti di assenso previsti per immobili vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo numero 42, del 2004, anche mediante l'istituto della Conferenza di servizi, prevista dalla legge numero 241, del 1990 .
È da dire, per chiarezza, che l'autorizzazione paesaggistica, volta alla tutela, conservazione preservazione dell'ambiente e dei beni culturali, è distinta dal permesso di costruire, che è preposto alla tutela e al governo dello sviluppo del territorio e del corretto estrinsecarsi dell'ius aedificandi (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - “Redazione degli atti di pianificazione e riconoscimento dell’incentivo ex art. 92, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163”.
...
Considerazioni finali.
Come illustrato nelle premesse, gli operatori del settore (incluse Associazioni di categoria) hanno rappresentato all’Autorità le difficoltà applicative della disposizione di cui all’art. 92, comma 6, del Codice, stante il generico riferimento agli “atti di pianificazione comunque denominati” ivi contenuto e la non conformità degli indirizzi sopra illustrati in ordine alla relativa interpretazione.
Si tratta di un tema di diffuso interesse, sia in relazione alla necessità che le amministrazioni interessate redigano atti regolamentari ex art. 92, comma 5, del Codice omogenei e conformi allo spirito della norma, sia in relazione al corretto riconoscimento del compenso incentivante in favore del personale incarico della redazione degli atti di pianificazione.
Si segnala, dunque, l’opportunità di procedere ad una modifica o ad una integrazione dell’art. 92, comma 6, del Codice, volta ad individuare in maniera chiara la tipologia di atti di pianificazione in relazione ai quali è possibile riconoscere l’incentivo ivi contemplato in favore dei tecnici interni che li hanno redatti, in modo da contemplare espressamente anche il riferimento a quegli atti che afferiscono, sia pure mediatamente, alla progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico (atto di segnalazione 25.09.2013 n. 4 - link a www.avcp.it).

LAVORI PUBBLICI: Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Qualificazione lavori.
...
Sommario
Premessa
A. Problematiche connesse con il sistema di qualificazione per i lavori
1. La vigilanza sul sistema di qualificazione delle imprese esecutrici di lavori pubblici
2. Interventi normativi da realizzare
2.1 Azionariato delle SOA
2.2 Organico delle SOA e attività di attestazione.
2.3 Cessione/affitto di azienda o di ramo di azienda.
2.4 CEL privati.
B. Problematiche connesse all’attuazione del Parere consultivo del Consiglio di Stato n. 3014, del 26.06.2013
3. Qualificazione ai fini dell’esecuzione
4. Qualificazione acquisita attraverso l’esecuzione
Allegato: Proposte di emendamenti al Regolamento ...
(atto di segnalazione 25.09.2013 n. 3 - link a www.avcp.it).

APPALTI: Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - Osservazioni e proposte di intervento in materia di appalti pubblici.
...
Sommario
Premessa
1. Misure per il contenimento della spesa e la semplificazione delle procedure
1.1 Misure in materia di concessioni previste dal DL 69/2013
1.2 Eliminazione della proroga dell’esclusione automatica delle offerte anomale
2. Misure per ridurre il rischio di opere incompiute
3. Le competenze dell’Autorità
4. Misure per favorire la partecipazione alle gare
4.1 La revisione della normativa in materia di qualificazione per i lavori
4.2 Il potenziamento dell’istituto del soccorso istruttorio di cui all’art. 46 del Codice
5. Misure per la deflazione del contenzioso
6. Alcune ulteriori considerazioni ...
(atto di segnalazione 04.07.2013 n. 2 - link a www.avcp.it).

APPALTI: Segnalazione ai sensi dell’art. 6, comma 7, lettera f), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - “Pubblicazione cartacea degli avvisi e dei bandi ex art. 66, comma 7, secondo periodo, del Codice”.
...
2. L’opportunità di un chiarimento normativo.
L’applicazione delle norme in materia di pubblicità di avvisi e bandi per l’affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è materia che reca con sé importanti implicazioni sulla regolarità delle procedure di gara. La frammentarietà e la mancanza di chiarezza del quadro normativo esposto possono essere all’origine di un ingente contenzioso amministrativo, soprattutto in considerazione dell’obbligo di rimborso delle spese di pubblicazione introdotto ex lege a carico dell’aggiudicatario.
Alla luce delle osservazioni sin qui svolte,
l’Autorità ritiene auspicabile un intervento normativo, atto a coordinare le diverse disposizioni succedutesi nel tempo, in linea con le misure di modernizzazione, semplificazione e digitalizzazione dell’attività amministrativa, introdotte con i recenti interventi normativi, in tema di spending review e di sviluppo (atto di segnalazione 27.03.2013 n. 1 - link a www.avcp.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi interamente riservati agli interni.
Dalla sentenza 07.10.2013 n. 4919 del Consiglio di Stato, Sez. V, si evince:
- anche in presenza di norma regolamentare che preveda una quota riservata al personale interno nelle procedure concorsuali (per conformità ai principi sanciti dalla Corte Costituzionale, non superiore al 50%; vedasi sentenza n. 373/2002), la stessa non può essere legittimamente applicata nelle procedure bandite per un solo posto, così vanificando il doveroso rispetto dell'adeguato accesso dall'esterno; a maggior ragione se la programmazione dei fabbisogni dell'ente non prevede ulteriori procedure di reclutamento rivolte all'esterno;
- in relazione a quanto sopra non ha alcun pregio il riferimento all'articolo 91, comma 3, del TUEL (concorsi unicamente riservati al personale interno, in presenza di necessità di preservare particolari profili o figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all'interno dell'ente);
- infine, riguardo alla fattispecie decisa che riguardava la copertura di un posto di vigile urbano, l'Alto Consesso precisa "... quanto all'invocata applicabilità dell'art. 91 del D.Lgs. n. 267/2000, osserva il Collegio come la figura professionale messa a concorso (vigile urbano) non sia oggettivamente sussumibile tra quelle per cui è possibile derogare al regime ordinario, in ragione della necessità di garantire particolari profili o figure professionali con esperienza all'interno dell'ente. Anzi, a ben vedere, con riferimento alle mansioni di agente di p.s. proprio l'effettuazione di una selezione concorrenziale risulta lo strumento più idoneo all'individuazione del soggetto più qualificato" (tratto da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: In tema di contratto di locazione e principi di evidenza pubblica.
Ai servizi di cui all’Allegato II-B, d.lgs. n. 163 del 2006, si applicano ex art. 20, comma 1, solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque applicabili ex ante i principi del trattato, sia che si tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di concessione.
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L’art. 27, d.lgs. n. 163 del 2006, estende l’applicazione dei principi del Trattato europeo anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti. Sicché detta disposizione deve dirsi applicabile anche quando il contratto da stipulare abbia ad oggetto la prestazione di un servizio funzionalmente connesso ovvero integrativo di servizio pubblico.

La controversia riguarda un contratto stipulato da FES in ordine al quale l’odierna appellante, prioritariamente ripropone le censure di violazione delle regole dell’evidenza pubblica e, in particolare, dell’art. 27 d.lgs. n. 163 del 2006.
La sentenza di primo grado ha affermato che FSE rientra nella categoria degli organismi di diritto pubblico e in tale parte essa non è stata impugnata. Posto, dunque, che si rientra nell’ambito di applicazione soggettiva del codice e del diritto comunitario, occorre esaminare i contenuti del contratto per valutare se la fattispecie sia soggetta ai principi in materia di evidenza pubblica nonché alla disposizione in particolare segnalata.
La natura non strettamente privatistica di mera locazione si desume chiaramente dal tenore del contratto stipulato in data 04.11.2009 tra FSE e la ditta Caniglia Francesco (cfr. doc. 1 della produzione di primo grado, depositata il 22.06.2010, di FSE), il cui art. 1, intitolato “oggetto del contratto” indica che “FSE mette a disposizione della ditta il complesso dei locali … per la produzione del servizio di ristorazione per l’esigenza dei viaggiatori, nonché della rivendita di generi di privativa e pubblicazioni editoriali nella stazione di Campi Salentina. La struttura e le destinazione dei locali, i tipi di servizi da fornire alla clientela, le attrezzature e gli arredi dovranno essere predisposti e organizzati sotto la direttiva di FSE allo scopo del miglior soddisfacimento delle esigenze dei viaggiatori”; il contratto prevede inoltre che “la ditta è obbligata a mantenere in condizioni di pulizia il pavimento dell’intero atrio biglietteria, sala d’attesa e quant’altro adibito a luogo di accesso al pubblico interno ed esterno della stazione” (art. 4), l’obbligo della ditta ad attenersi, nella conduzione dell’esercizio, alle “prescrizioni che al riguardo FES potesse impartire”, la necessità di autorizzazione di FSE per consentire alla ditta di “essere coadiuvata nella conduzione dell’esercizio da persona di Sua fiducia in possesso dei requisiti richiesti”, il controllo di FSE sugli introiti di esercizio e sulla gestione contabile (art. 5), il diritto di FSE “di controllare i prezzi di vendita al pubblico e di richiedere tutte quelle modificazioni che, a proprio discrezionale giudizio, ritenesse giusto” (art. 7), gli orari di apertura e chiusura in funzione degli orari dei treni (apertura almeno mezz’ora prima del primo treno e fino a mezz’ora dopo l’ultimo), con facoltà di FSE di “modificare insindacabilmente tale orario in funzione delle esigenze del servizio” (art. 11), l’interferenza di FSE in ordine ai generi di consumo in funzione delle “necessità dell’utenza” (art. 13), riduzioni di prezzo per il personale FSE ed altri specificati (art. 16), la non ammissione del passaggio del pubblico non munito di biglietto dall’esterno della stazione alla parte dei locali del bar comunicanti con il piazzale interno e viceversa (art. 24), il mantenimento nei locali del quadro orari dei treni (art. 25), la riserva a FSE della pubblicità per conto terzi sulle pareti dei locali del bar (art. 26).
I contenuti specifici del contratto, che vanno ben oltre la cessione della mera detenzione dell’immobile e prevedono un’ingerenza delle FSE non giustificata dal un mero rapporto di locazione, evidenziano che il contratto stipulato è caratterizzato dalla volontà di garantire un servizio attinente ai viaggiatori.
La stessa appellata, del resto, puntualizza che era “interessata esclusivamente ad offrire celermente un servizio, in parte indispensabile, volto alla commercializzazione dei biglietti di trasporto dell’azienda, in parte utile e più volte richiesto dall’utenza”.
Non vi è, quindi, una mera connessione logistica dovuta alla collocazione in locali destinati al servizio pubblico ma una chiara connessione funzionale, ponendosi il servizio di ristorazione come integrativo del servizio ai viaggiatori
Il servizio di ristorazione è incluso nell’Allegato II –B (cat. 17) cui si riferisce il primo comma dell’art. 20 d.lgs. 16.04.2006, n. 163 (inserito nel Titolo II “Contratti esclusi in tutto o in parte”), comma secondo cui si applicano solo le specificate norme del codice (artt. 65, 68 e 225); il successivo art. 27 (“Principi relativi ai contratti esclusi”) stabilisce che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture esclusi, in tutto o in parte dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto”; ai principi di matrice comunitaria si riferisce anche il terzo comma dell’art. 30 (“Concessione di servizi”) secondo cui “La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, in particolare dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità,previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tal numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Ne deriva, in una lettura coordinata, che ai servizi di cui all’Allegato II –B, si applicano ex art. 20, comma 1, solo gli artt. 65,68 e 225 del codice ma sono comunque applicabili ex ante i principi del trattato (sia che si tratti di rapporto di appalto sia che si tratti di concessione).
La giurisprudenza (cfr., in particolare, Cons. Stato Ad. plen. 01.08.2001, n. 16), sulla premessa che tanto gli appalti “sotto soglia”, che fruiscono di una temporanea esenzione, che gli appalti e le concessioni di servizi “esclusi”, che fruiscono di un regime di parziale esenzione, rientrano negli scopi del diritto comunitario, è orientata nel senso di ritenere che l’art. 27 d.lgs. citato estende l’applicazione dei principi del Trattato anche ai contratti esclusi, per ragioni di soglia o di oggetto, intendendo porre un principio di rispetto delle regole minimali di evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e del mercato, da parte dei soggetti tenuti al rispetto del codice degli appalti.
Nella specie, dunque, non si poteva addivenire alla stipula del contratto in questione in spregio ai principi di trasparenza ed imparzialità, omettendo una comparazione tra le offerte presentate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.10.2013 n. 4902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza di demolizione di un'opera pertinenziale (tettoia a protezione di una pompa di irrigazione) realizzata senza licenza edilizia negli anni ’50 al di fuori del centro abitato, tanto più che il comune era sprovvisto di disciplina urbanistica.
La doglianza non può essere condivisa.
Vero è, infatti, che nella vigenza dell’art. 7 del D.L. n. 9/1982 (e della L. n. 10/1977) la realizzazione di opere pertinenziali o di impianti tecnologici in aree sottoposte a vincolo paesaggistico necessitava comunque di specifica concessione edilizia, come dedotto dall’amministrazione appellante.
Tuttavia, nella specie, è del tutto ragionevole ritenere che le opere oggetto dell’ordinanza per cui è causa (ossia la platea in cemento armato, delimitata su tre lati da un muretto con funzione di contenimento della scarpata e la sovrastante tettoia), siano state edificate in contestualità o comunque in un momento prossimo alla installazione della pompa irrigua e, quindi, negli anni cinquanta, nella vigenza della L. n. 1550/1942.
Invero, del fatto che la pompa de qua sia in loco sin dal 1950, si ha contezza dall’analisi dell’atto di costituzione di servitù a rogito Notaio Francesco Tei in data 01.06.1950, rep. n. 4209/1946 e, segnatamente, dalla parte dedicata alla descrizione della servitù, in cui si riferisce della sua già avvenuta installazione “su piazzuola di cemento”.
Dalla natura delle opere in esame emerge, poi, che le stesse hanno oggettivamente lo scopo di proteggere lo strumento irriguo dalla caduta di materiale dalla scarpata e dagli agenti atmosferici, sicché, in assenza di prova contraria, non può che ritenersi che le stesse siano state realizzate, proprio per soddisfare detta esigenza, in contestualità o comunque in un momento prossimo alla installazione della pompa e non già a distanza di oltre venti o, ancor più, anni.
Del resto, il Comune di Perugia non ha fornito alcun elemento per far emergere il contrario, neppure a fronte delle allegazioni del privato in corso di causa, mancando così la prova che il presunto abuso sia stato perpetrato nella vigenza dell’invocato art. 7 del D.L. 9/1982 (e della L. 10/1977).
Pertanto, a prescindere dalla natura pertinenziale o meno delle opere e dalla loro qualificazione come volume tecnico, correttamente il primo giudice ha accolto il ricorso proposto dalla Signora R. sul presupposto che l’opera contestata fosse stata realizzata “in uno con l’installazione della pompa”, avvenuta “quantomeno dal primo giugno 1950”, allorquando la disciplina invocata dal Comune appellante non era ancora stata approvata, essendo viceversa vigente la L. 1150/1942 .
Ed ai sensi di detta legge, è appena il caso di evidenziarlo, non occorreva uno specifico titolo edilizio (in allora licenza edilizia) per la realizzazione di manufatti (come quelli per cui è causa) al di fuori dei centri abitati.
L’appello principale proposto dal Comune di Perugia si appalesa quindi privo di fondamento e, come tale, da respingere (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.10.2013 n. 4889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il corpo di disposizioni dettate dal d.lgs. n. 157 del 1995 in tema di appalti pubblici di servizi, vigente nel periodo di svolgimento della gara, non reca specifiche previsioni sulla fissazione di termini perentori per la conclusione delle gare.
Lo stesso r.d. n. 827 del 1924, di approvazione del regolamento di esecuzione della legge di contabilità di Stato, codifica all’art. 71 la regola di conclusione della gara in un sol giorno con riguardo al solo metodo di scelta del contraente con asta pubblica.
Diverse esigenze presiedono, invece, l’andamento del procedimento nel caso in cui la selezione del contraente avvenga -come nella fattispecie di cui è causa- secondo il criterio dell’offerta più vantaggiosa, trattandosi di metodo che impone più articolate cadenze procedimentali ed una più complessa valutazione del merito delle offerte tecniche in più sedute del collegio giudicante.

Ed invero -quanto ai profili di violazione di legge- il corpo di disposizioni dettate dal d.lgs. n. 157 del 1995 in tema di appalti pubblici di servizi, vigente nel periodo di svolgimento della gara, non reca specifiche previsioni sulla fissazione di termini perentori per la conclusione delle gare.
Lo stesso r.d. n. 827 del 1924, di approvazione del regolamento di esecuzione della legge di contabilità di Stato, codifica all’art. 71 la regola di conclusione della gara in un sol giorno con riguardo al solo metodo di scelta del contraente con asta pubblica.
Diverse esigenze presiedono, invece, l’andamento del procedimento nel caso in cui la selezione del contraente avvenga -come nella fattispecie di cui è causa- secondo il criterio dell’offerta più vantaggiosa, trattandosi di metodo che impone più articolate cadenze procedimentali ed una più complessa valutazione del merito delle offerte tecniche in più sedute del collegio giudicante.
Non può, inoltre, ricondursi effetto viziante al superamento del termine di 180 giorni per la validità dell’offerte, stabilito al punto 14, lett. b), del capitolato di appalto.
Detto termine, fissato nell’interesse dell’ Amministrazione, è infatti disponibile da parte di quest’ultima. L’ente aggiudicatore, una volta scaduto, si è attivato, con scelta discrezionale non sindacabile nel merito, per ottenere la dichiarazione delle ditte partecipanti di mantenere ferma l’offerta come originariamente articolata
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.10.2013 n. 4884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 21, comma 5, della legge n. 109 del 1994 fissa la regola del numero dispari dei compenti della commissione con specifico riferimento agli appalti di opere pubbliche. Analoga disposizione non si rinviene nel d.lgs. n. 157 del 1995 in materia di appalti pubblici. L’organica e specifica regolamentazione di detto settore dei appalti pubblici, successiva alla legge n. 109 del 1994, preclude quindi ogni applicazione in via analogico/estensiva della norma invocata.
E’ stato del resto affermato in giurisprudenza con riferimento all'art. 84, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che la regola ivi detta sulla composizione della commissione di gara con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, non è espressione di un principio generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano (o che occasionalmente possono operare) in composizione paritaria.

Q
uanto al primo profilo di doglianza, l’art. 21, comma 5, della legge n. 109 del 1994 fissa la regola del numero dispari dei compenti della commissione con specifico riferimento agli appalti di opere pubbliche. Analoga disposizione non si rinviene nel d.lgs. n. 157 del 1995 in materia di appalti pubblici. L’organica e specifica regolamentazione di detto settore dei appalti pubblici, successiva alla legge n. 109 del 1994, preclude quindi ogni applicazione in via analogico/estensiva della norma invocata.
E’ stato del resto affermato in giurisprudenza con riferimento all'art. 84, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che la regola ivi detta sulla composizione della commissione di gara con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, non è espressione di un principio generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano (o che occasionalmente possono operare) in composizione paritaria (cfr. Cons. St. Sez. III, n. 3730 dell’11.07.2013)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.10.2013 n. 4884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il mutamento in prosieguo di gara del legale rappresentante della società che ha sottoscritto l’offerta non incide sulla regolarità delle precedente fase di qualificazione ed ammissione delle imprese che, in base al principio tempus regit actum, ha necessariamente assunto a riferimento, ai fini della verifica dei requisiti di moralità, l’assetto societario in atto alla data di scadenza del termine per la proposizione dell’offerta e, tantomeno, sulla capacità del nuovo rappresentante p.t. a confermare l’offerta.
Ogni successiva verifica in ordine alla permanenza dei requisiti morali rifluisce al momento dell’aggiudicazione e della stessa esecuzione del contratto, che presuppongono la permanenza dei requisiti di moralità e di affidabilità delle imprese affidatarie del servizio.

Ed invero:
- il mutamento in prosieguo di gara del legale rappresentante della società che ha sottoscritto l’offerta non incide sulla regolarità delle precedente fase di qualificazione ed ammissione delle imprese che, in base al principio tempus regit actum, ha necessariamente assunto a riferimento, ai fini della verifica dei requisiti di moralità, l’assetto societario in atto alla data di scadenza del termine per la proposizione dell’offerta e, tantomeno, sulla capacità del nuovo rappresentante p.t. a confermare l’offerta.
Ogni successiva verifica in ordine alla permanenza dei requisiti morali rifluisce al momento dell’aggiudicazione e della stessa esecuzione del contratto, che presuppongono la permanenza dei requisiti di moralità e di affidabilità delle imprese affidatarie del servizio.
Né, sul piano sostanziale, sono state sollevate mende in capo al nuovo rappresentante legale idonee a inficiare la capacità di confermare l’offerta
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.10.2013 n. 4884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAGli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree costituiscono una forma di responsabilità oggettiva dell’autore dell’inquinamento, in quanto l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all’autore dell’inquinamento, sempre che sussista il rapporto di causalità tra l’azione (o l’omissione) dell’autore dell’inquinamento ed il superamento (o pericolo concreto ed attuale di superamento) dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario “chi inquina paga”.
L’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 (ora art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006), pure vigente ratione temporis, prevedeva, poi, la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove erano stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, ma solo in quanto la violazione fosse imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa (la giurisprudenza, sul punto, ha però precisato che, per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche demaniale o di mero fatto, tale da consentirgli e per ciò stesso imporgli di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; e, per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi).
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Mentre spettano alla cognizione del giudice amministrativo le controversie in materia di sanzioni di tipo ripristinatorio, destinate a realizzare il medesimo interesse pubblico al cui soddisfacimento è preordinata la funzione amministrativa assistita dalla sanzione amministrativa di tale natura (nei confronti della quale la posizione giuridica del privato ha natura di interesse legittimo), l’accertamento dei presupposti per la ripetizione dei costi necessari alla bonifica ed al ripristino della area in questione, sia che si qualifichi la relativa azione in termini di regresso conseguente all’esecuzione in danno, sia che si prediliga una sua lettura in termini risarcitori, radica comunque la risoluzione di una questione meramente patrimoniale che esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo (il quale, in tale materia, non è fornito di giurisdizione esclusiva).
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A questo punto, declinata la giurisdizione, occorre dar seguito alle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, da ultimo fatte proprie anche dal Legislatore (art. 59 della L. 69/2009 ed ora art. 11 c.p.a.), secondo cui, allorquando un giudice declini al propria giurisdizione affermando quella di un altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice incompetente in punto di giurisdizione, così evitando l’inaccettabile conseguenza di un processo che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza decidere sull’esistenza o meno della pretesa.

In termini generali, la responsabilità dell’utilizzatore di un sito contaminato, una volta accertato il nesso di causalità tra la sua attività produttiva e l’avvenuta contaminazione dei luoghi, era disciplinata, per le fattispecie antecedenti l’entrata in vigore del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, dall’art. 17 del d.lgs. 22.04.1997, n. 22, il cui comma 2 disponeva che: “Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento” (per il periodo precedente alla entrata in vigore di tale provvedimento legislativo, era comunque l’art. 2050 c.c. ad imporre al responsabile di attivarsi al fine di porre in essere atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale del sito).
Secondo la giurisprudenza, gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree costituiscono una forma di responsabilità oggettiva dell’autore dell’inquinamento, in quanto l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all’autore dell’inquinamento, sempre che sussista il rapporto di causalità tra l’azione (o l’omissione) dell’autore dell’inquinamento ed il superamento (o pericolo concreto ed attuale di superamento) dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario “chi inquina paga”.
L’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 (ora art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006), pure vigente ratione temporis, prevedeva, poi, la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove erano stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, ma solo in quanto la violazione fosse imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa (la giurisprudenza, sul punto, ha però precisato che, per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche demaniale o di mero fatto, tale da consentirgli e per ciò stesso imporgli di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; e, per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi: cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. II, 05.12.2011, n. 2990).
Ciò premesso, mentre spettano alla cognizione del giudice amministrativo le controversie in materia di sanzioni di tipo ripristinatorio, destinate a realizzare il medesimo interesse pubblico al cui soddisfacimento è preordinata la funzione amministrativa assistita dalla sanzione amministrativa di tale natura (nei confronti della quale la posizione giuridica del privato ha natura di interesse legittimo), l’accertamento dei presupposti per la ripetizione dei costi necessari alla bonifica ed al ripristino della area in questione, sia che si qualifichi la relativa azione in termini di regresso conseguente all’esecuzione in danno, sia che si prediliga una sua lettura in termini risarcitori, radica comunque la risoluzione di una questione meramente patrimoniale che esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo (il quale, in tale materia, non è fornito di giurisdizione esclusiva).
Non a caso, il parallelo giudizio pendente innanzi al giudice civile presenta sia identità di causa petendi (difatti, anche qui, da una parte, si argomenta la responsabilità omissiva della proprietaria; dall’altra, si oppone il carattere assorbente del comportamento colposo della stessa amministrazione comunale, per non essersi attivata per quasi dieci anni per provvedere alla bonifica dell’area sequestrata), sia di petitum (ovviamente a parte invertite, in quanto, per ovvi motivi, nel giudizio civile, è l’amministrazione ad agire per la condanna della società ricorrente alla somma di € 989.908,45 per l’intervento di bonifica dell’intera area colpita dall’esondazione del fiume Olona); identità di petitum sostanziale, dunque, e non (come pure è stato sostenuto in giudizio) relazione di pregiudizialità (che non figura qui né in termini tecnici, né logici).
A questo punto, declinata la giurisdizione, occorre dar seguito alle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (22.02.2007, n. 4109) e della Corte costituzionale (12.03.2007, n. 77), da ultimo fatte proprie anche dal Legislatore (art. 59 della L. 69/2009 ed ora art. 11 c.p.a.), secondo cui, allorquando un giudice declini al propria giurisdizione affermando quella di un altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice incompetente in punto di giurisdizione, così evitando l’inaccettabile conseguenza di un processo che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza decidere sull’esistenza o meno della pretesa.
In definitiva, il Tribunale amministrativo dichiara il proprio difetto di giurisdizione in favore del Giudice ordinario. Per la riassunzione davanti a questi è fissato per legge il termine perentorio, fino alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, di tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato della presente sentenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.10.2013 n. 2222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea di principio, l’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera.
E’ stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova.
E’ stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l’unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore –ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi.
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Gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente.

Come esplicitato nella recente pronuncia della Sezione 18/05/2012 n. 838, in linea di principio l’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/01/2012 n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera (Consiglio di Stato, sez. IV – 27/11/2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/07/2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I – 08/04/2010 n. 1506).
E’ stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova (TAR Liguria, sez. I – 08/03/2012 n. 367). E’ stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l’unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore –ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.– da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi (TAR Lombardia Milano, sez. II – 24/02/2012 n. 617).
Nel caso di specie, il ricorrente ha allegato la dichiarazione sostitutiva di un altro soggetto senza accompagnarla con riscontri probatori di data certa, mentre al contrario l’interveniente ha fornito elementi i quali lasciano presumere che la costruzione risalga ad epoca ben più recente: dall’esame della fotografia allegata si notano materiali di costruzione il cui utilizzo in epoca remota non appare plausibile (cfr. foto doc. 1), e inoltre nell’estratto aerofotogrammetrico del 1985 e nell’estratto del P.R.G. del 1955 detto manufatto non compare. Il quadro fattuale vede dunque la prevalenza di dati incompatibili con la tesi propugnata dal Sig. Sangalli circa l’ultimazione delle opere in data anteriore al 1967.
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... il Collegio richiama il consolidato orientamento ai sensi del quale gli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, che si protraggono nel tempo e vengono meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni: pertanto il potere amministrativo repressivo può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere. In altri termini, l'autorità non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. sentenze sez. I – 21/05/2012 n. 848; 16/01/2012 n. 59 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Peraltro nel caso di specie non necessita diffondersi sull’indirizzo minoritario che valorizza il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza (che potrebbero ingenerare un affidamento del privato) dato che la dedotta ampia soluzione di continuità temporale è sfornita di prova (cfr. supra par. 1)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
Come sottolineato da questo Tribunale “la giurisprudenza richiede che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono".
La Sezione ha sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”.
La nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
Come sottolineato da questo Tribunale (cfr. sez. I – 30/10/2012 n. 1747) “la giurisprudenza richiede (cfr. Cons. St. Sez. IV, 17.05.2010 n. 3127 e precedenti ivi richiamati) che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono".
La Sezione (cfr. TAR Brescia 11.01.2006 n. 32) ha sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”.
Venendo ora a fare applicazione dei suddetti principi alla fattispecie all’esame occorre rilevare che si è effettivamente in presenza di una struttura avente una superficie non eccessiva (mq. 16,40) utilizzata per il ricovero della legna
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici; cioè, esso è teso a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto.
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E' legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto, trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.

E’ decisivo a questo punto l’elemento ostativo ulteriore rimarcato nel provvedimento impugnato, ossia la mancata osservanza della distanza minima dal Fiume Oglio stabilita dall’art. 96 del R.D. 523/1904 per ragioni di sicurezza idraulica. Sul punto non sono condivisibili i rilievi di parte ricorrente sulle circostanze che il manufatto non impedisce il corretto deflusso delle acque né le opere di manutenzione, e che in oltre 50 anni non si sono mai verificati pericoli.
Come osservato da questa Sezione nella sentenza 01/08/2011 n. 1231, l’indirizzo assolutamente costante della giurisprudenza civile e amministrativa si attesta sul canone per il quale <<in linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale, assoluto e inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784, citata dalla Regione nella propria memoria conclusiva); cioè, esso è teso a garantire le normali operazioni di ripulitura/manutenzione e a impedire le esondazioni delle acque>>.
La norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto (TAR Toscana, sez. III – 08/03/2012 n. 439).
In assenza di elementi a suffragio dell’applicazione della deroga contenuta nella lett. F del citato art. 96, ne consegue tra l’altro che nessuna opera realizzata in violazione della norma de qua può essere sanata e altresì –come affermato nella già citata sentenza di questo TAR n. 1231/2011- “che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto, trova applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (da ultimo: TAR Roma-Latina, Sez. I, sentenza 15.12.2010 n. 1981)”.
L’accertata operatività del vincolo di inedificabilità assoluta, nel caso di specie, è idonea di per sé a sorreggere il provvedimento impugnato, e determina, pertanto, l’infondatezza del ricorso, senza necessità di approfondire l’ulteriore profilo –invocato dall’interveniente e non menzionato nell’atto impugnato– afferente alla sussistenza del concorrente vincolo paesaggistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.10.2013 n. 814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di mancata presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 entro 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione e/o in caso di inottemperanza a tale provvedimento sempre entro il termine perentorio di 90 giorni, si verifica automaticamente ope legis l’effetto ablatorio dell’acquisizione gratuita dell’immobile abusivo al patrimonio comunale, in quanto la notifica dell’accertamento formale dell’inottemperanza si configura solo quale titolo necessario per l’immissione in possesso e per al trascrizione nei registri immobiliari.
Inoltre, anche l’annullamento dell’ordinanza di demolizione da parte del Giudice Amministrativo non incide sul trasferimento della proprietà dell’immobile, già verificatosi in favore del Comune, mentre l’effetto ripristinatorio della restituzione al proprietario dell’immobile, se non è stata presentata entro 90 giorni l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001, può verificarsi soltanto nel caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento di demolizione, ottenuto non soltanto sotto il profilo formale, ma sotto il profilo sostanziale, cioè quando non è stata violata alcuna norma in materia di edilizia e/o urbanistica.
Pertanto, anche l’esercizio del potere di autotutela dell’annullamento dell’ordinanza di demolizione non risulta ostativo al già avvenuto trasferimento della proprietà al patrimonio comunale, in quanto, come sopra detto, nonostante l’impugnazione giurisdizionale del predetto provvedimento di demolizione, va sempre presentata, entro 90 giorni, l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001.

In via preliminare, va rilevato che, in caso di mancata presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 entro 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione e/o in caso di inottemperanza a tale provvedimento sempre entro il termine perentorio di 90 giorni, si verifica automaticamente ope legis l’effetto ablatorio dell’acquisizione gratuita dell’immobile abusivo al patrimonio comunale, in quanto la notifica dell’accertamento formale dell’inottemperanza si configura solo quale titolo necessario per l’immissione in possesso e per al trascrizione nei registri immobiliari.
Al riguardo, va richiamata la recente Sentenza Cass. Pen. Sez. III n. 14868 del 18.04.2012, con la quale viene pure puntualizzato che anche l’annullamento dell’ordinanza di demolizione da parte del Giudice Amministrativo non incide sul trasferimento della proprietà dell’immobile, già verificatosi in favore del Comune, mentre l’effetto ripristinatorio della restituzione al proprietario dell’immobile, se non è stata presentata entro 90 giorni l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001, può verificarsi soltanto nel caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento di demolizione, ottenuto non soltanto sotto il profilo formale, ma sotto il profilo sostanziale, cioè quando non è stata violata alcuna norma in materia di edilizia e/o urbanistica.
Pertanto, anche l’esercizio del potere di autotutela dell’annullamento dell’ordinanza di demolizione non risulta ostativo al già avvenuto trasferimento della proprietà al patrimonio comunale, in quanto, come sopra detto, nonostante l’impugnazione giurisdizionale del predetto provvedimento di demolizione, va sempre presentata, entro 90 giorni, l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001
(TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, può essere emanata soltanto la sanzione pecuniaria “pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi” abusivi “e comunque in misura non inferiore a 516,00 €”, ma non la sanzione della demolizione.
Infatti, in caso di interventi edilizi, soggetti a SCIA e non a permesso di costruire, risulta comunque necessaria la presentazione della relativa istanza di sanatoria ex art. 37 DPR n. 380/2001, per la regolarizzazione di tali abusi minori, ma tale domanda di sanatoria può essere presentata fino alla materiale esecuzione dell’eventuale sanzione di demolizione, irrogata dal Comune, a prescindere dall’impugnazione giurisdizionale entro il termine decadenziale di 60 giorni ex art. 29 Cod. Proc. Amm. dell’eventuale provvedimento di demolizione.

Parimenti, la divisione interna del fabbricato rurale di cui è causa, difforme dalla concessione edilizia in sanatoria del 15.05.2000, risulta assoggettata a SCIA e non a permesso di costruire.
Conseguentemente, deve ritenersi che, nella specie, il trasferimento al patrimonio comunale non si è verificato atteso che, tenuto conto del principio, secondo cui spetta al Giudice Amministrativo qualificare la fattispecie, oggetto del giudizio, e di interpretare il potere esercitato dall’Amministrazione, prescindendo dalle parole e/o termini usati sia dai soggetti privati che dall’Amministrazione, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, può essere emanata soltanto la sanzione pecuniaria “pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi” abusivi “e comunque in misura non inferiore a 516,00 €”, ma non la sanzione della demolizione.
Infatti, in caso di interventi edilizi, soggetti a SCIA e non a permesso di costruire, risulta comunque necessaria la presentazione della relativa istanza di sanatoria ex art. 37 DPR n. 380/2001, per la regolarizzazione di tali abusi minori, ma tale domanda di sanatoria può essere presentata fino alla materiale esecuzione dell’eventuale sanzione di demolizione, irrogata dal Comune, a prescindere dall’impugnazione giurisdizionale entro il termine decadenziale di 60 giorni ex art. 29 Cod. Proc. Amm. dell’eventuale provvedimento di demolizione
(TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare d’appalto l’obbligo di motivare in modo completo e approfondito sussiste solo nel caso in cui la stazione appaltante esprime un giudizio di non congruità sull’offerta anomala, mentre non sussiste uguale obbligo in caso di esito positivo della verifica di anomalia, risultando esaustiva la motivazione per relationem con le giustificazioni presentate dal concorrente aggiudicatario, se ritenute congrue ed adeguate.
Perciò, incombe su chi contesta l’aggiudicazione l’onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice Amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell’Amministrazione sia stata irragionevole o basata su fatti erronei o travisati.

Anche il terzo motivo di impugnazione non merita di essere accolto, atteso che, secondo un condivisibile e prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. da ultimo C.d.S. Sez. V Sent. n. 6061 del 29.11.2012; idem n. 5703 del 12.11.2012; idem n. 4785 del 10.09.2012; idem n. 3934 del 5.7.2012; idem n. 2552 del 3.5.2012; idem n. 1183 del 29.02.2012; C.d.S. Sez. III Sent. n. 4322 del 15.07.2011; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 2055 dell’01.04.2011; C.d.S. Sez. V Sent. n. 1925 del 29.03.2011) nelle gare d’appalto l’obbligo di motivare in modo completo e approfondito sussiste solo nel caso in cui la stazione appaltante esprime un giudizio di non congruità sull’offerta anomala, mentre non sussiste uguale obbligo in caso di esito positivo della verifica di anomalia, risultando esaustiva la motivazione per relationem con le giustificazioni presentate dal concorrente aggiudicatario, se ritenute congrue ed adeguate.
Perciò, incombe su chi contesta l’aggiudicazione l’onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice Amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell’Amministrazione sia stata irragionevole o basata su fatti erronei o travisati (TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di sopra del livello del suolo.
Al riguardo, va statuito che nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di sopra del livello del suolo (cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 1966 del 30.1.2007; TAR Bari Sez. III Sent. n. 1219 del 21.06.2012; CONTRA TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 505 del 25.03.2008, che richiama le Sentenze Cass. Civ. Sez. II n. 14379 del 21.12.1999 e n. 5467 dell’08.09.1986).
Il vigente art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. non contraddice il suddetto principio giurisprudenziale, quando stabilisce che la distanza degli edifici dai confini e dalle strade va “misurata nel punto di massima sporgenza della parete delle edificio, di logge, balconi, etc.”, atteso che, anche se non vengono citate espressamente le scale esterne scoperte, dalla parola abbreviata “etc.” si desume agevolmente che la predetta norma urbanistica, al fine di evitare un lungo elenco, intende riferirsi a tutti i corpi aggettanti e perciò anche alle scale esterne scoperte, che sono materialmente unite alla parete dell’edificio, come le logge ed i balconi.
Ma, poiché dalla documentazione acquisita in giudizio non risulta che il progetto, assentito con l’impugnato permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed in variante (al permesso di costruire del 16.12.2005), prevedeva che le predette scale esterne scoperte erano posizionate ad una distanza dal confine inferiore a quella prescritta di minimo 5 m. ed ad una distanza dai fabbricati inferiore a quella prescritta di minimo 10 m., deve ritenersi che la violazione delle N.T.A. del P.d.L., approvato con Del. C.C. n. 220 del 06.01.1983, assume la configurazione di un abuso edilizio, in quanto non autorizzata dall’impugnato permesso di costruire.
Comunque, nella specie, il Comune di Matera ha l’obbligo di ordinare la demolizione delle scale esterne, già realizzate, ed il loro arretramento fino a 5 m. dal confine e 10 m. dalle adiacenti costruzioni compreso quella dei ricorrenti
(TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di interventi edilizi eseguiti in parziale difformità, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre la sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34, comma 2, DPR n. 380/2001, può essere adottata soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
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La disposizione di cui al comma 2-ter dell’art. 34 DPR n. 380/2001 (introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 5, D.L. n. 70/20011 conv. nella L. n. 106/2011), secondo cui “non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali”, non è sempre applicabile atteso che tale eccedenza nella misura massima del 2% non può comunque violare i parametri urbanistici stabiliti dagli strumenti urbanistici, come il rapporto di superficie massima coperta del lotto edificabile.

Secondo questo Tribunale (cfr. per es. TAR Basilicata Sentenze n. 340 del 27.06.2008 e n. 779 del 14.09.2005) “in caso di interventi edilizi eseguiti in parziale difformità, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso”, mentre la sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34, comma 2, DPR n. 380/2001, può essere adottata “soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione” ed il Comune ha accertato che “la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”.
Pertanto, il Comune di Matera dovrà ordinare la demolizione di 2,11 mq. di superficie occupata in più dall’edificio di cui è causa, al fine di ripristinare il citato parametro urbanistico della superficie coperta di 1/5 dell’area del lotto, e soltanto, se la demolizione non può essere eseguita senza danneggiare restanti 331,60 mq. di superficie coperta, può essere sostituita con la sanzione pecuniaria di cui all’art. 34, comma 2, DPR n. 380/2001.

Mentre, nella specie, non può trovare applicazione il comma 2-ter dell’art. 34 DPR n. 380/2001 (introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 5, D.L. n. 70/20011 conv. nella L. n. 106/2011), il quale prevede che “non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali”, atteso che tale eccedenza nella misura massima del 2% non può comunque violare i parametri urbanistici stabiliti dagli strumenti urbanistici, come il rapporto di superficie massima coperta del lotto edificabile
(TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Termine di prescrizione del diritto al pagamento delle ferie non godute.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 01.10.2013 n. 4878, si occupa del compenso per ferie non godute da parte di un Segretario comunale negli anni 1982-1987; in particolare, del termine prescrizionale del diritto all'ottenimento del pagamento sostitutivo.
Il giudice di primo grado aveva respinto la richiesta dell'interessato, in quanto (nonostante avesse dimostrato la non fruizione delle ferie) non aveva intentato l'azione entro il termine di cinque anni dalla maturazione del credito.
In sede di gravame, invece, viene riformata la pronuncia, per le seguenti motivazioni: "Il prestatore che non abbia goduto delle ferie per esigenze di servizio ha diritto al compenso sostitutivo; e il credito relativo, avendo natura non retributiva ma risarcitoria, ha termine di prescrizione decennale (v. C.d.S., Sez. V, 22.10.2007, n. 5531; 19.10.2009, n. 6415)".
Nella fattispecie, poi, il deducente aveva anche interrotto (con nota scritta) il precitato termine decennale di prescrizione (tratto da www.publika.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di localizzazione delle aree preordinate all’esproprio sono indefettibilmente contenute in un regolamento urbanistico che, come da consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, risponde a scelte dell’amministrazione connotate da un’ampissima discrezionalità, costituendo apprezzamenti di merito che sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da irrazionalità od irragionevolezza, ovvero dal travisamento dei fatti in relazione alle esigenze che si intendono in concreto soddisfare.
Esse, inoltre, non abbisognano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti nell’impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni.
Pacifica, dunque, è l’ampia discrezionalità che connota le decisioni dell’amministrazione in sede di pianificazione generale del territorio, tali da non richiedere una particolare motivazione se non quella ricavabile dai principi generali che informano lo strumento urbanistico.

Con riferimento alle censure, anch’esse riproposte, mosse alla delibera n. 470/2004, occorre rilevarne l’infondatezza, atteso che le scelte di localizzazione delle aree preordinate all’esproprio sono indefettibilmente contenute in un regolamento urbanistico che, come da consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, risponde a scelte dell’amministrazione connotate da un’ampissima discrezionalità, costituendo apprezzamenti di merito che sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da irrazionalità od irragionevolezza, ovvero dal travisamento dei fatti in relazione alle esigenze che si intendono in concreto soddisfare; esse, inoltre, non abbisognano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti nell’impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. IV, 07.04.2008, n. 1476; id., 13.03.2008, n. 1095; id. 27.12.2007, n. 6686; id., 10.12.2007, n. 6326; id., 11.10.2007, n. 5357; id., 08.10.2007, n. 5210; id., 12.06.2007, n. 3072).
Pacifica, dunque, è l’ampia discrezionalità che connota le decisioni dell’amministrazione in sede di pianificazione generale del territorio, tali da non richiedere una particolare motivazione se non quella ricavabile dai principi generali che informano lo strumento urbanistico (cfr., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 24.02.2011, n. 1222; id., 18.10.2010, n. 7554; id., 26.01.2012, n. 119; id., 31.07.2009, n. 4847) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale, l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio, l'inapplicabilità del v.a.m. (valore agricolo medio), ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria".
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica.

E' fondato il primo motivo d'appello, relativo alla commisurazione del risarcimento del danno al criterio del valore agricolo medio.
Il giudice amministrativo pugliese ha osservato al riguardo che: "...trattandosi di terreno a destinazione puramente agricola (e di cui non risulta acquisita la prova della sussistenza di <<possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio>>), devono poi trovare applicazione, ai fini della quantificazione dell’obbligazione risarcitoria, <<le norme di cui al titolo II della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni>> richiamate dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. 11.07.1992, n. 333, conv. in l. 08.08.1992, n. 359 (il necessario riferimento al criterio dell’effettivo valore venale dell’area reintrodotto da Corte cost., 24.10.2007, n. 349 trova, infatti, applicazione con riferimento ai suoli forniti di suscettibilità edificatoria e non ai suoli a destinazione puramente agricola, come nel caso di specie)".
Sennonché, come esattamente evidenziato dagli appellanti nella memoria difensiva depositata il 09.10.2012, il combinato disposto dell'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992 e dell'art. 16, commi 5 e 6, della legge 22.10.1971 n. 865 (ossia delle norme di cui al titolo II della predetta legge cui il primo rinviava) sono ormai definitivamente espunte dall'ordinamento per effetto della declaratoria d'incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10.06.2011.
La Consulta ha infatti considerato l'illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con l'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 1 del primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, nonché con l'art. 42, comma 3, cost., perché il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) "...prescinde dall'area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l'acqua, l'energia elettrica, l'esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant'altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato e che non sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale, l'esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell'indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest'ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Ne consegue che, sempre in tema d'indennità di esproprio, l'inapplicabilità del v.a.m., ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario riferimento "... al valore venale pieno, potendo l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo , pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria" (Cass. Civ., Sez. I, 17.10.2011, n. 21386).
Orbene, è evidente che se ai fini dell'indennità d'esproprio, che deve rappresentare comunque un serio ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica (tipizzata in gran parte come E1 fascia di rispetto stradale e per piccola porzione come E2 aree per attrezzature esistenti e di progetto) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa differenza tra restauro e risanamento conservativo, da un lato, e ristrutturazione edilizia, dall'altro, risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio che connota il primo rispetto alla seconda.
Ne consegue che è consentita, negli interventi di restauro e risanamento conservativo, la sostituzione di parti anche strutturali e in generale di elementi costitutivi degli edifici (strutture portanti, pareti perimetrali, e quindi anche un rinnovo sistematico e globale purché nel rispetto degli elementi essenziali tipologici, formali e strutturali.

Com'é noto, ai sensi dell'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 (recante "Norme per l'edilizia residenziale"), applicabile ratione temporis, sono rispettivamente:
- "interventi di restauro e risanamento conservativo quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio" (art. 31, comma 1, lettera c);
- "interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" (art. 31, comma 1, lettera d).
Tali definizioni tipologiche prevalgono e si impongono sulle previsioni e prescrizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi, secondo l'inequivoca disposizione del comma 2 dell'art. 31.
In effetti, anche l'art. 3, comma 1, lettere c) e d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (recante "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia") ripropone le suddette definizioni, salvo l'ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia alla "...demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
Orbene, la differenza tra restauro e risanamento conservativo, da un lato, e ristrutturazione edilizia, dall'altro, risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio che connota il primo rispetto alla seconda.
Ne consegue che è consentita, negli interventi di restauro e risanamento conservativo, la sostituzione di parti anche strutturali e in generale di elementi costitutivi degli edifici (strutture portanti, pareti perimetrali: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2012, n. 5818, vedi anche Sez. VI, 30.09.2008, n. 4694), e quindi anche un rinnovo sistematico e globale purché nel rispetto degli elementi essenziali tipologici, formali e strutturali (Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008, n. 2981) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio delle concessioni edilizie, la volumetria necessaria per la realizzazione di sale cinematografiche non concorre alla determinazione della volumetria complessiva in base alla quale sono calcolati gli oneri di concessione.
E "per sala cinematografica si intende qualunque spazio, al chiuso o all'aperto, adibito a pubblico spettacolo cinematografico".
Poi, l'art. 22 d.lgs. 28/2004 ha demandato alle Regioni l'onere di disciplinare "...le modalità di autorizzazione alla realizzazione, trasformazione ed adattamento di immobili da destinare a sale ed arene cinematografiche, nonché alla ristrutturazione o all'ampliamento di sale e arene già in attività, anche al fine di razionalizzare la distribuzione sul territorio delle diverse tipologie di strutture cinematografiche...", ed il comma 2 ha dettagliato la descrizione tipologica delle aree destinate a pubblici spettacoli cinematografici, tra le quali, per quanto qui interessa, alla lettera c) ha incluso anche le "... multisala, (ossia) l'insieme di due o più sale cinematografiche adibite a programmazioni multiple accorpate in uno stesso immobile sotto il profilo strutturale, e tra loro comunicanti".

L'art. 20 del d.l. 14.01.1994, n. 26, convertito con modificazioni nella legge 01.03.1994, n. 153 (recante "Interventi urgenti in favore del cinema") -nel quadro di disposizioni tese ad agevolare "...la trasformazione, la ristrutturazione e l'adeguamento strutturale e tecnologico delle sale esistenti anche ai fini del rispetto della normativa sulla sicurezza dei locali di pubblico spettacolo e di quella sull'abolizione delle barriere architettoniche, nonché per l'installazione e la ristrutturazione di impianti e di servizi accessori alle sale, per l'installazione di casse automatiche computerizzate, per la realizzazione di nuove sale, per il ripristino di sale non più in attività e per l'acquisto dei locali per l'esercizio cinematografico e per i servizi connessi..." (comma 1)-, ha previsto, al comma 7, che: "Ai fini del rilascio delle concessioni edilizie, la volumetria necessaria per la realizzazione di sale cinematografiche non concorre alla determinazione della volumetria complessiva in base alla quale sono calcolati gli oneri di concessione".
L'ambito della fattispecie agevolativa deve essere, pertanto, raccordato all'identificazione tipologica del suo oggetto, come enucleabile anzitutto dall'art. 2, comma 8, del d.lgs. 22.01.2004 n. 28 (recante "Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137"), a tenore del quale: "Per sala cinematografica si intende qualunque spazio, al chiuso o all'aperto, adibito a pubblico spettacolo cinematografico".
Peraltro, il successivo art. 22, nel demandare alle Regioni di disciplinare "...le modalità di autorizzazione alla realizzazione, trasformazione ed adattamento di immobili da destinare a sale ed arene cinematografiche, nonché alla ristrutturazione o all'ampliamento di sale e arene già in attività, anche al fine di razionalizzare la distribuzione sul territorio delle diverse tipologie di strutture cinematografiche...", al comma 2 ha dettagliato la descrizione tipologica delle aree destinate a pubblici spettacoli cinematografici, tra le quali, per quanto qui interessa, alla lettera c) ha incluso anche le "... multisala, (ossia) l'insieme di due o più sale cinematografiche adibite a programmazioni multiple accorpate in uno stesso immobile sotto il profilo strutturale, e tra loro comunicanti" (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza del titolo edilizio di cui all’art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10 e –ora– dell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione.
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L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione; ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione, con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni.
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Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento recante la pronuncia di decadenza della concessione si configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in ordine al quale la regola generale di per sé impone l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo destinatario originate da un provvedimento precedentemente adottato in suo favore; ma anche in tale evenienza l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa informazione.

... il Collegio rileva che ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza del titolo edilizio di cui all’art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10 e –ora– dell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615 e, ancor più recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2012 n. 2915).
Sempre in tal senso, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242), con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” (Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006) o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni (Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535): circostanze, queste ultime, non sussistenti nel caso di specie.
Dalla lettura del verbale del sopralluogo effettuato in data 21.03.2002 dal personale dell’Ufficio tecnico comunale, nonché dall’esame dell’annessa documentazione fotografica, si evince incontrovertibilmente che a quella data, ossia a quattro anni dal rilascio della concessione edilizia n. 1650/98 dd. 18.03.1998 era stato eseguito soltanto “un modesto scavo recintato, delle dimensioni di circa due metri”.
La circostanza -allegata da Ste.Ros.- che siano stati anche abbattuti due alberi d’alto fusto per realizzare tale scavo, nonché la parimenti allegata presenza di una recinzione e di macchinari edili nell’area nulla aggiungono a tale oggettiva realtà, dalla quale pertanto inoppugnabilmente si ricava che il titolo edilizio non è stato nella sostanza fruito dal soggetto a favore del quale esso era stato rilasciato, e che pertanto la pronuncia della decadenza dallo stesso era atto dovuto per l’Amministrazione Comunale.
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Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento recante la pronuncia di decadenza della concessione si configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in ordine al quale la regola generale di per sé impone l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo destinatario originate da un provvedimento precedentemente adottato in suo favore (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 29.07.2003 n. 3169); ma anche in tale evenienza l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa informazione (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; Sez. V, 18.11.2004,n. 7553 e 22.01.2003 n. 243)   (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe norme dettate in tema di partecipazione al procedimento amministrativo non devono essere applicate in via del tutto meccanica e a fini meramente strumentali, essendo esse deputate non solo ad una funzione difensiva a favore del destinatario dell’atto conclusivo del procedimento, ma anche a formare nell’Amministrazione procedente una più completa e meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio derivante dall’omissione di comunicazione non sussista nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o manchi l’utilità della comunicazione all’azione amministrativa.
Segue dunque ciò, anche in dipendenza dei principi stabiliti dall’art. 21-octies della L. 241 del 1990, che non può configurarsi la violazione di tale obbligo di comunicazione nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente da un provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione procedente dell’azione amministrativa.
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Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento recante la pronuncia di decadenza della concessione si configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in ordine al quale la regola generale di per sé impone l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo destinatario originate da un provvedimento precedentemente adottato in suo favore; ma anche in tale evenienza l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa informazione.

Innanzitutto, per quanto attiene ai motivi dedotti da Ste.Ros. in ordine all’asseritamente avvenuta violazione degli artt. 7 e 8 della L. 241 del 1990 sia con riguardo al difetto di motivazione della sentenza impugnata per quanto attiene alla valutazione delle relative censure formulate nel primo grado di giudizio, sia sotto il profilo della violazione dei principi di diritto che assistono l’annullamento degli atti di secondo grado, il Collegio ribadisce –concordando sul punto con il contenuto della sentenza impugnata– che le norme dettate in tema di partecipazione al procedimento amministrativo non devono essere applicate in via del tutto meccanica e a fini meramente strumentali, essendo esse deputate non solo ad una funzione difensiva a favore del destinatario dell’atto conclusivo del procedimento, ma anche a formare nell’Amministrazione procedente una più completa e meditata volontà e dovendosi, comunque, ritenere che il vizio derivante dall’omissione di comunicazione non sussista nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o manchi l’utilità della comunicazione all’azione amministrativa (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 20.06.2012 n. 3595).
Segue dunque ciò, anche in dipendenza dei principi stabiliti dall’art. 21-octies della L. 241 del 1990, che non può configurarsi la violazione di tale obbligo di comunicazione nel caso in cui il soggetto inciso sfavorevolmente da un provvedimento non dimostri che, ove fosse stato reso edotto dell’avvio del procedimento, sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e di giudizio tali da far determinare in modo diverso le scelte dell’Amministrazione procedente dell’azione amministrativa (cfr. ibidem).
Nel caso di specie assume pertanto valore dirimente la circostanza che Ste.Ros. non dimostra che l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento conclusosi con l’adozione del provvedimento n. 13120 dd. 05.11.2002 di decadenza della concessione edilizia n. 1650/98 dd. 18.03.1998 le ha precluso di dedurre nel procedimento medesimo a propria difesa elementi decisivi e tali dunque da indurre l’Amministrazione Comunale ad un diverso apprezzamento della fattispecie; né va sottaciuto che parimenti non sussiste la violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 se l’interessato ha comunque avuto aliunde informazione dell’avvio del procedimento (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, 07.09.2011 n. 5032), come nell’ipotesi –qui, per l’appunto, sussistente– nella quale la relativa conoscenza proviene all’interessato medesimo dalla sussistenza di un contenzioso con l’amministrazione sul punto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2001 n. 2884).
Il Collegio non sottace che l’anzidetto provvedimento recante la pronuncia di decadenza della concessione si configura come provvedimento c.d. “di secondo grado”, in ordine al quale la regola generale di per sé impone l’inoltro dell’avviso dell’avvio del relativo procedimento in quanto incidente su posizioni giuridiche del suo destinatario originate da un provvedimento precedentemente adottato in suo favore (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 29.07.2003 n. 3169); ma anche in tale evenienza l’inoltro medesimo non è ritenuto necessario se risulta che l’interessato ha comunque avuto aliunde la relativa informazione (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; Sez. V, 18.11.2004,n. 7553 e 22.01.2003 n. 243) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4855 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIGli Ordini professionali hanno legittimazione a difendere in sede giurisdizionale gli interessi della categoria di soggetti di cui abbiano la rappresentanza istituzionale qualora si tratti della violazione di norme poste a tutela della professione stessa, o allorché si tratti comunque di conseguire determinati vantaggi -sia pure di carattere strumentale- giuridicamente riferibili alla intera categoria, con il limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà degli Ordini medesimi.
Ossia, detto altrimenti, sussiste nel nostro ordinamento la legittimazione di un Ordine professionale a tutelare anche in via contenziosa l’interesse collettivo dei professionisti suoi iscritti in modo generale e indistinto.
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L’art. 2, lett. d), della L. 07.01.1976 n. 3, recante l’ordinamento della professione di dottore agronomo, riconduce testualmente alla relativa competenza professionale anche “la progettazione... ed il collaudo dei lavori relativi alle costruzioni rurali e di quelli attinenti alle industrie agrarie e forestali”.
A suo tempo questo stesso giudice ha già avuto modo di affermare la legittimità di un titolo edilizio per la realizzazione di un complesso industriale per la lavorazione di carni suine e di pollame su progetto redatto da un dottore agronomo, posto che la disposizione testé riportata consente la prestazione professionale di quest’ultimo relativamente alle industrie, tra le quali devono essere annoverate le “industrie agrarie” e, quindi, il complesso in questione, essendo indubitabile che nella disposizione medesima il termine “industria” è sempre usato nel senso tecnico-giuridico di attività diretta alla produzione di beni o di servizi di cui all’art. 2195, n. 1 c.c. e che l’opera in questione è –per l’appunto- relativa ad industria agraria.
Lo stesso ragionamento non può -quindi- non valere anche per la realizzazione di un frantoio, trattandosi parimenti di “industria agraria” nel senso ora descritto.
Va comunque precisato che se il progetto eventualmente fuoriesce dai caratteri propri della semplice edilità e richiede, ad esempio, opere di “conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare la incolumità delle persone”, la competenza professionale spetta inderogabilmente, a’ sensi del tuttora vigente art. 1, primo comma, del R.D.L. 16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti ai relativi albi, “nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della L. 24.06.1923 n. 1395 e del R.D. 23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto, e delle successive modificazioni”.

Nella sentenza resa in primo grado si afferma “che il diniego fu comunicato il 21 e 22.12.1998, sia al presidente della Cooperativa istante, che al progettista, dott. M.C., ma avverso di esso non fu proposto ricorso e la Cantina Cooperativa richiedente curò, invece, la redazione di un nuovo progetto, a firma questa volta di un ingegnere, che fu approvato in forza di atto di concessione rilasciato il 16.07.1999. … (Gli) effetti del gravato diniego ebbero come loro destinataria immediata e diretta la Cantina Cooperativa, titolare della facoltà di costruire incisa negativamente dal diniego stesso. Al riguardo, il redattore del progetto assume la posizione di terzo rispetto alla relazione giuridica, intercorrente tra concedente e l’aspirante concessionario; lo stesso, per effetto del contratto d’opera intercorso con il committente proprietario dell’area, al più avrebbe avuto titolo ad intervenire nel giudizio eventualmente promosso da quest’ultimo contro il rifiuto, ma non mai a porsi come ricorrente in via principale (cfr. TAR Veneto, 22.01.1982 n. 101).
Peraltro, -e sul punto il Tribunale non ritiene di doversi discostare dall’insegnamento del giudice amministrativo, da ultimo confermato con le sentenze del Consiglio di Stato (Sez. V) 20.08.1996, n. 929, e 23.05.1997 n. 527, e del Csi n. 254 del 14.06.1999- gli Ordini professionali non sono persone giuridiche di diritto pubblico aventi, tra l'altro, anche la finalità di tutelare gli interessi della categoria; ma sono, invece, soggetti pubblici che, per le professioni, per l’esercizio delle quali occorre una speciale abilitazione dello Stato, hanno, in base alle disposizioni degli artt. 2229 e 2233 del Codice civile e delle varie leggi istitutive dei singoli Ordini, le specifiche competenze della tenuta degli albi, dell'esercizio della funzione disciplinare, nonché, della redazione e proposta delle tariffe e della liquidazione dei compensi a richiesta del professionista o del privato. Le predette funzioni -ha sottolineato il giudice amministrativo- sono assegnate dalla legge agli Ordini essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l’obbligo dell'appartenenza all'Ordine stesso, e non già per una tutela degli interessi della categoria professionale, che farebbe degli Ordini un'abnorme figura d'associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali.
In particolare, poi, l’interesse azionato dall’Ordine ricorrente fa capo ad ognuno dei soggetti abilitati all’esercizio della professione di agronomo e non può definirsi, quindi, come interesse collettivo, poiché di quest’ultimo è, invece, connotato essenziale l’essere l’ente esponenziale in veste di ente collettivo il legittimo, esclusivo portatore della situazione di vantaggio a carattere metaindividuale, perché l’anzidetta condizione, pur astrattamente riferibile a ciascuno degli individui facenti parte del gruppo sociale che si riconosce nel soggetto collettivo, tuttavia, non è “frazionabile” e non è, dunque, tutelabile singolarmente. Il difetto di legittimazione dell’Ordine ricorrente (e la conforme eccezione sollevata dall’amministrazione resistente risulta, perciò, fondata) deve pertanto essere affermato, alla luce di quanto appena detto, pure sotto il profilo sostanziale, poiché si è agito a difesa, in realtà, della posizione giuridica nella titolarità del redattore del progetto respinto e ciò in violazione dell’art. 81 c.p.c. in base al quale, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge di sostituzione processuale o di rappresentanza, nessuno può far valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio. In definitiva, alla stregua delle su esposte considerazioni, il ricorso in esame è inammissibile
".
La giurisprudenza di questo Consiglio citata dal giudice di primo grado a supporto della statuizione da lui assunta non è stata infatti da quest’ultimo ben intesa, e ciò in quanto le predette decisioni n. 929 dd. 20.08.1996 e n. 527 dd. 23.05.1997 non relegano –come sembrerebbe– gli Ordini professionali allo svolgimento delle mere competenze della tenuta degli albi, dell’esercizio delle azioni disciplinari, della redazione e della proposta delle tariffe e della liquidazione dei compensi a richiesta del professionista o del privato, ossia ad attività preordinate “essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l’obbligo dell'appartenenza all'Ordine stesso, e non già per una tutela degli interessi della categoria professionale” (così a pag. 4 la sentenza impugnata).
Nelle predette due decisioni si afferma infatti che l’attività degli Ordini professionali comunque concerne -ancorché in vista dell’interesse della collettività e, solo di riflesso, anche degli stessi professionisti– gli iscritti agli ordini medesimi, ossia coloro che esercitano la libera professione mediante contratti d’opera direttamente con il pubblico dei clienti o, in alcuni casi, pure alle dipendenze di privati, mentre sfugge al controllo degli Ordini la posizione dei pubblici dipendenti che, svolgendo una prestazione di lavoro subordinato presso una pubblica amministrazione, effettuino compiti il cui contenuto corrispondente a quello di una libera professione, posto che costoro sono retribuiti in base a stipendi prefissati e soggiacciono alle regole disciplinari stabilite dalla p.a. datrice di lavoro e non dall'ordine professionale (cfr., negli stessi termini, le due sentenze dianzi citate).
E’ evidente, quindi, l’inconferenza di tali due richiami giurisprudenziali contenuti nella sentenza impugnata, posto che nelle due decisioni non si affronta in linea di principio la tematica della legittimazione processuale degli Ordini professionali.
Solo la decisione n. 254 dd. 14.06.1999 resa dalla Sezione consultiva del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, parimenti riferita nella sentenza impugnata, in effetti afferma –tra l’altro– che “per le attività e per l'esercizio gli ordini e i collegi professionali sono enti pubblici, per i quali serve un tipo di abilitazione dello Stato, in base agli art. 2229 e 2233 c.c. e secondo le diverse leggi istitutive dei singoli ordini, sono provvisti delle precise competenze della tenuta degli albi, dell’esercizio della funzione disciplinare, tanto più della redazione e proposta delle tariffe e dei pagamenti dei compensi secondo il privato o il professionista; perciò, queste funzioni si considerano elargite a difesa della collettività nei confronti degli esercenti la professione e non ormai a difesa dei vantaggi della classe professionale”.
Tali ultimi enunciati sono invero parzialmente conformi a quelli del giudice di primo grado: ma da essi comunque non è dato di ricavare la conseguenza da quest’ultimo affermata, ossia il difetto, per il caso di specie, della legittimazione processuale dell’Ordine professionale.
Tale affermazione si configura, pertanto, come del tutto autonomamente elaborata dal giudice di primo grado senza alcun previo supporto giurisprudenziale, avendo in particolar modo riguardo alla paventata ipotesi che l’Ordine professionale divenga –come detto innanzi– “un’abnorme figura d'associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali”, e posto che l’interesse azionato dall’Ordine, facendo capo a ciascuno dei soggetti abilitati all’esercizio della relativa professione comunque non potrebbe definirsi secondo lo stesso giudice come “collettivo”, né sarebbe “frazionabile” e, quindi, tutelabile dall’Ordine medesimo in vece del singolo suo iscritto.
La tesi del giudice di primo grado è –viceversa– smentita da esplicita e del tutto unanime giurisprudenza formatasi sul punto in discussione, secondo la quale gli Ordini professionali hanno legittimazione a difendere in sede giurisdizionale gli interessi della categoria di soggetti di cui abbiano la rappresentanza istituzionale qualora si tratti della violazione di norme poste a tutela della professione stessa, o allorché si tratti comunque di conseguire determinati vantaggi -sia pure di carattere strumentale- giuridicamente riferibili alla intera categoria, con il limite (che qui non rileva) derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà degli Ordini medesimi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10.11.2010 n. 8006; cfr., altresì, la decisione n. 8404 resa sempre dalla Sez. V); ossia, detto altrimenti, sussiste nel nostro ordinamento la legittimazione di un Ordine professionale a tutelare anche in via contenziosa l’interesse collettivo dei professionisti suoi iscritti in modo generale e indistinto (così Cons. Stato, Sez. II, 24.01.2011 n. 2783).
Nel caso in esame, quindi, non è ravvisabile –a differenza di quanto affermato dal giudice di primo grado– una sostituzione processuale da parte dell’Ordine nei riguardi della posizione del singolo professionista, per certo preclusa a’ sensi dell’art. 81 c.p.c., ma è sussistente –anche al di là della lesione arrecata sia alla sfera dell’interesse individuale del progettista, sia alla sfera del committente dell’opera, i quali peraltro liberamente non hanno ritenuto di tutelarsi in sede giudiziale– un concomitante e del tutto autonomo interesse dell’Ordine a veder assicurata l’applicazione delle disposizioni normative che disciplinano la competenza professionale dei suoi iscritti -anche se materialmente non coinvolti nel presente procedimento giudiziale– proprio in quanto soggetto ex lege esponenziale di tutti gli iscritti medesimi.
Tale interesse alla decisione del ricorso perdura anche allorquando –come, per l’appunto, nel caso di specie– l’annullamento dell’atto impugnato non può dispiegare effetti concreti ma è apprezzabile comunque la perdurante lesività dell’atto stesso per il credito, il prestigio e l’estimazione sociale della parte ricorrente, ossia allorquando comunque persistano come fatti storici valutazioni e giudizi negativi su qualità e capacità della parte medesima (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 30.07.2002 n. 4076 e Sez. V, 05.03.2001 n. 1250).
Nel caso di specie, è indiscutibile la permanenza a tutt’oggi dell’interesse dell’Ordine a rimuovere ope iudicis un provvedimento che, se considerato nel suo intrinseco contenuto, si pone come non corretta valutazione dell’idoneità professionale non solo –contingentemente- del dott. Cassandro ma di qualsivoglia iscritto all’Ordine professionale degli agronomi se chiamato a progettare un frantoio, configurandosi quindi come un precedente ostativo –anche perché reiterabile dallo stesso Comune, nonché da altre pubbliche amministrazioni- per le opportunità professionali di tutti i suoi iscritti.
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Il ricorso proposto in primo grado va accolto, in quanto –come detto innanzi- l’art. 2, lett. d), della L. 07.01.1976 n. 3, recante l’ordinamento della professione di dottore agronomo, riconduce testualmente alla relativa competenza professionale anche “la progettazione... ed il collaudo dei lavori relativi alle costruzioni rurali e di quelli attinenti alle industrie agrarie e forestali”.
A suo tempo questo stesso giudice ha già avuto modo di affermare la legittimità di un titolo edilizio per la realizzazione di un complesso industriale per la lavorazione di carni suine e di pollame su progetto redatto da un dottore agronomo, posto che la disposizione testé riportata consente la prestazione professionale di quest’ultimo relativamente alle industrie, tra le quali devono essere annoverate le “industrie agrarie” e, quindi, il complesso in questione, essendo indubitabile che nella disposizione medesima il termine “industria” è sempre usato nel senso tecnico-giuridico di attività diretta alla produzione di beni o di servizi di cui all’art. 2195, n. 1 c.c. e che l’opera in questione è –per l’appunto- relativa ad industria agraria (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 29.10.1992 n. 1078).
Lo stesso ragionamento non può -quindi- non valere anche per la realizzazione di un frantoio, trattandosi parimenti di “industria agraria” nel senso ora descritto.
Va comunque precisato che se il progetto eventualmente fuoriesce dai caratteri propri della semplice edilità e richiede, ad esempio, opere di “conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare la incolumità delle persone”, la competenza professionale spetta inderogabilmente, a’ sensi del tuttora vigente art. 1, primo comma, del R.D.L. 16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti ai relativi albi, “nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della L. 24.06.1923 n. 1395 e del R.D. 23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto, e delle successive modificazioni” (cfr. ivi; cfr., altresì, sul punto, ad es., Cassazione civ., Sez. II, 02.09.2011 n. 18038)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAffinché un intervento edilizio possa essere qualificato come restauro e risanamento conservativo occorre che siano rispettati gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio senza modifiche dell’identità, della struttura e della fisionomia dello stesso, né ampliamento dei volumi e delle superfici , essendo esso diretto alla mera conservazione, mediante consolidamento, ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi, dell’organismo edilizio esistente, ed alla restituzione della sua funzionalità.
L’aumento di superficie o di volumetria comporta, al contrario, una trasformazione dell’edificio che necessita di permesso di costruire.

Affinché un intervento edilizio possa essere qualificato come restauro e risanamento conservativo occorre che siano rispettati gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio senza modifiche dell’identità, della struttura e della fisionomia dello stesso, né ampliamento dei volumi e delle superfici , essendo esso diretto alla mera conservazione, mediante consolidamento, ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi, dell’organismo edilizio esistente, ed alla restituzione della sua funzionalità.
L’aumento di superficie o di volumetria comporta, al contrario, una trasformazione dell’edificio che necessita di permesso di costruire (Cons. St. Sez. V, 02.02.2010, n. 431; Sez. IV, 21.05.2004, n. 3295) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONel caso di indebita erogazione di denaro ad un pubblico dipendente l'affidamento di quest'ultimo e la stessa buona fede non sono di ostacolo all'esercizio da parte dell'Amministrazione del potere-dovere di recupero, e la medesima non è tenuta a fornire alcuna ulteriore motivazione sull'elemento soggettivo riconducibile all'interessato.
Come pure va ricordato, rispetto all’unica problematica concreta opposta in questa sede alla compensazione, quella attinente all’invocata buona fede del percipiente, che la giurisprudenza amministrativa si è da tempo consolidata nel senso che nel caso di indebita erogazione di denaro ad un pubblico dipendente l'affidamento di quest'ultimo e la stessa buona fede non sono di ostacolo all'esercizio da parte dell'Amministrazione del potere-dovere di recupero, e la medesima non è tenuta a fornire alcuna ulteriore motivazione sull'elemento soggettivo riconducibile all'interessato (in tal senso v., di recente, C.d.S., V, 18.12.2012, n. 6505; III, 10.12.2012, n. 6287; IV, 20.09.2012, n. 5043; VI, 06.08.2012, n. 4505) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.09.2013 n. 4849 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa l.r. lombarda n. 93/1980, nel disciplinare in modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole, con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti soggettivi è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa sostenersi che, sia pure con specifica e congrua motivazione, essi non possano, invece, introdurre limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r. 07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo parco".
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di igiene comunali che risultino in contrasto con esse", intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
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La legge regionale lombarda n. 12/2005, a differenza della legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la "conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente individuati dagli artt. 59 e 60.

Il giudice amministrativo lombardo muove, in effetti, da una erronea interpretazione dell'art. 4 della l.r. n. 93/1980 e più in generale sul rapporto tra le previsioni della predetta legge regionale e i poteri pianificatori comunali in assenza di strumenti di pianificazione intermedia con valenza anche paesistico-ambientale.
La legge regionale 07.06.1980, n. 93, nel disciplinare in modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole, con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti soggettivi (riconosciuto pienamente legittimo dalla nota sentenza della Corte Costituzionale, 16.05.1995, n. 167) è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa sostenersi che, sia pure con specifica e congrua motivazione, essi non possano, invece, introdurre limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r. 07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo parco" (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007, n. 860).
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di igiene comunali che risultino in contrasto con esse", intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
In tale chiave interpretativa si comprende anche la previsione contenuta nell'art. 2, comma 7, della legge, a tenore della quale "Le disposizioni di cui al comma 2°, 3°, 4°, 5° e 6° del presente articolo si applicano fino all'approvazione del piano territoriale comprensoriale di cui alla sezione II, titolo II, della legge regionale 15.04.1975, n. 51", che ha inteso evidentemente demandare l'individuazione di una più articolata e specifica disciplina dell'utilizzazione delle zone agricole allo strumento di pianificazione intermedio di livello comprensoriale, al quale rimane affidata la funzione di dettare una normativa rapportata agli ambiti territoriali di riferimento, e quindi in grado di valutare e valorizzare le loro precipue caratteristiche.
In altri termini, se il piano territoriale comprensoriale (strumento rimasto inattuato, come pure riconosciuto dal giudice amministrativo lombardo, salvo che per la provincia di Lodi) avrebbe potuto introdurre nuovi, diversi, anche più ampliativi, limiti e parametri, non per questo ai comuni era precluso, nell'esercizio del potere di pianificazione, l'enucleazione di limiti e parametri più restrittivi, e ciò anche in vista di esigenze di tutela lato sensu ambientale e paesistica.
Non può infatti obliterarsi che l'art. 18, comma 1, n. 1) della stessa della legge regionale 15.04.1975, n. 51 (recante "Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia del patrimonio naturale e paesistico") demandava ai piani regolatori comunali, tra l'altro, di individuare "le aree agricole, di riserva naturale e di tutela dei beni paesaggistici", e che nella diversa forma del territorio possono essere e sono normalmente compresenti in una stessa area valenze produttive e connotazioni naturalistiche, ambientali e paesistiche.
Né ai fini della corretta interpretazione dell'art. 4 della l.r. n. 93/1980 può soccorrere, al contrario di quanto opinato dal giudice amministrativo bresciano, la disposizione dell'art. 61 della l.r. 11.03.2005, n. 12 (recante "Legge per il governo del territorio"), ossia la successiva legge urbanistica regionale, poiché la inderogabilità delle previsioni e prescrizioni di cui agli artt. 59 e 60 della medesima ivi si ricollega alla vincolante e specifica indicazione di cui al precedente art. 10, comma 4, lettera a), n. 1), secondo cui "Il piano delle regole: a) per le aree destinate all'agricoltura: 1) detta la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia, in conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte seconda".
In altri termini, la legge regionale n. 12/2005, a differenza della legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la "conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente individuati dagli artt. 59 e 60 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIVa da un lato evidenziato che secondo l’unanime giurisprudenza il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento non consuma il potere della amministrazione di provvedere, sia in senso satisfattivo per il destinatario dell’atto finale del procedimento medesimo, sia in senso a lui negativo, sia –ancora– mediante un atto interlocutorio, il quale ultimo comunque sostanzia l’esercizio di una potestà decisoria dell’Amministrazione medesima; e, dall’altro, che per altrettanto costante giurisprudenza, avuto riguardo alla generalità del principio affermato dall’art. 152, comma 2, cod. proc. civ., traslabile in via analogica anche ai procedimenti amministrativi, il termine per la conclusione di questi ultimi assume natura meramente acceleratoria (e, quindi, intrinsecamente ordinatoria) in difetto di una espressa previsione in ordine alla loro perentorietà.
A tale riguardo va da un lato evidenziato che secondo l’unanime giurisprudenza il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento non consuma il potere della amministrazione di provvedere, sia in senso satisfattivo per il destinatario dell’atto finale del procedimento medesimo, sia in senso a lui negativo, sia –ancora– mediante un atto interlocutorio, il quale ultimo comunque sostanzia l’esercizio di una potestà decisoria dell’Amministrazione medesima (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 10.08.2011 n. 4768 e 15.01.2009 n. 179); e, dall’altro, che per altrettanto costante giurisprudenza, avuto riguardo alla generalità del principio affermato dall’art. 152, comma 2, cod. proc. civ., traslabile in via analogica anche ai procedimenti amministrativi, il termine per la conclusione di questi ultimi assume natura meramente acceleratoria (e, quindi, intrinsecamente ordinatoria) in difetto di una espressa previsione in ordine alla loro perentorietà (cfr., sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 15.12.2010 n. 8931, 14.01.2009 n. 140 e 25.06.2008 n. 3215) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’eventuale iscrizione di una strada nell’elenco delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso che è superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di servitù e che, conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata è comunque devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa investe l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo; né diversamente accade per l’accertamento dei presupposti dell’anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti rientrante nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario.
Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere la questione del carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché la sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada privata –eventualmente costituita anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di risolverla non già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale -e all’evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente la legittimità di un provvedimento del tipo di quello qui impugnato.
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Il titolo idoneo ad affermare il diritto di uso pubblico deve infatti essere rigorosamente provato; e a tal fine in giudizio deve essere fornita la prova specifica di un effettivo e pacifico uso dell’area da parte della generalità dei cittadini e dell’acquiescenza del proprietario, non essendo sufficiente che le singole utilizzazioni dedotte a prova dell’esistenza della servitù si risolvano in sporadici episodi svoltisi in maniera discontinua ovvero per mera tolleranza dei legittimi proprietari.
Il pubblico transito iure servitutis publicae sussiste infatti soltanto se esercitato da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale, e la circostanza (qui comunque non comprovata per un lasso di tempo almeno ventennale) del pregresso parcheggio nell’area in questione da parte di terzi non significa -di per sé- che costoro abbiano intenzionalmente agito quali componenti della collettività usando il bene in modo continuativo uti cives con contestuale disconoscimento del diritto del proprietario.
Va anche soggiunto che l’avvenuta installazione della predetta cabina telefonica su di un’evidentemente ristretta porzione dell’area di cui trattasi non significa per certo che l’eventualmente intervenuta acquisizione di un qualsivoglia diritto al riguardo da parte del gestore del servizio telefonico dell’epoca possa riguardare la sorte dell’intera area per la quale è causa, e che l’avvenuta installazione di segnali stradali da parte del Comune non può essere considerata -avendo propriamente riguardo ai limiti dell’incidentalità dell’accertamento richiesto a questo giudice- come piena dimostrazione circa la sussistenza di un diritto reale del Comune sull’area di cui trattasi.

Ciò posto, va premesso che l’eventuale iscrizione di una strada nell’elenco delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso che è superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di servitù e che, conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata è comunque devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa investe l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., SS.UU., 17.03.2010 n. 6406); né –per quanto qui segnatamente interessa- diversamente accade per l’accertamento dei presupposti dell’anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti rientrante nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario (cfr. sul punto Cass. Civ., SS.UU., 18.03.1999 n. 158)
Il giudice amministrativo, invece, può e deve risolvere la questione del carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché la sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada privata –eventualmente costituita anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di risolverla non già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale -e all’evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente la legittimità di un provvedimento del tipo di quello qui impugnato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2006 n. 5209).
Se così è, dall’analisi della documentazione versata in atti risulta che, in effetti, le tavole di viabilità e della zonizzazione del P.R.G. del 1968 riportano l’area in questione assoggettandola ad allargamento della sede stradale (cfr. doc. 14 di parte resistente in primo grado): ma, all’evidenza, tale elaborato grafico assume al più valenza programmatoria dell’allargamento medesimo, non sostanziando alcuna imposizione di vincoli servili sull’area di cui trattasi; né l’apposizione sull’area medesima di cartelli stradali e la realizzazione sullo stesso sedime di una cabina telefonica, ovvero di recinzioni (cfr. ibidem, doc. ti 7 e 11), o anche la tolleranza prestata al parcheggio da parte di terzi (cfr. ibidem, doc.ti 9 e 10) possono a tale fine costituire idonea comprova del sopravvenuto asservimento pubblico.
Il titolo idoneo ad affermare il diritto di uso pubblico deve infatti essere rigorosamente provato; e a tal fine in giudizio deve essere fornita la prova specifica di un effettivo e pacifico uso dell’area da parte della generalità dei cittadini e dell’acquiescenza del proprietario, non essendo sufficiente che le singole utilizzazioni dedotte a prova dell’esistenza della servitù si risolvano in sporadici episodi svoltisi in maniera discontinua ovvero per mera tolleranza dei legittimi proprietari (così, ad es., (Cass. Civ., Sez. II, 09.12.1989 n. 5452).
Il pubblico transito iure servitutis publicae sussiste infatti soltanto se esercitato da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale, e la circostanza (qui comunque non comprovata per un lasso di tempo almeno ventennale) del pregresso parcheggio nell’area in questione da parte di terzi non significa -di per sé- che costoro abbiano intenzionalmente agito quali componenti della collettività usando il bene in modo continuativo uti cives con contestuale disconoscimento del diritto del proprietario (cfr. sul punto, ad es., Cass. Civ., Sez. II, 17.06.2004 n. 11346).
Va anche soggiunto che l’avvenuta installazione della predetta cabina telefonica su di un’evidentemente ristretta porzione dell’area di cui trattasi non significa per certo che l’eventualmente intervenuta acquisizione di un qualsivoglia diritto al riguardo da parte del gestore del servizio telefonico dell’epoca possa riguardare la sorte dell’intera area per la quale è causa, e che l’avvenuta installazione di segnali stradali da parte del Comune non può essere considerata -avendo propriamente riguardo ai limiti dell’incidentalità dell’accertamento richiesto a questo giudice- come piena dimostrazione circa la sussistenza di un diritto reale del Comune sull’area di cui trattasi.
Semmai –come rettamente considerato dal giudice di primo grado– dall’esame della documentazione complessivamente versata in atti, ed in ispecie della nota di trascrizione di vincolo a favore del Comune da parte della S.I.C.E.A. , incontrovertibilmente emerge la sussistenza di un vincolo di non ulteriore edificabilità dell’area in questione, da asservire a verde a vantaggio delle erigende costruzioni, ossia a beneficio degli attuali appellati.
Tale ulteriore circostanza conforta quindi ancor di più -a ben vedere- l’insussistenza di una destinazione dell’area in questione a pubblico transito o al pubblico parcheggio, e quindi la carenza del presupposto invocato dal Comune a fondamento dell’ordinanza da esso emessa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' noto quanto consolidato l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali.
E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.

In particolare, è noto quanto consolidato l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali.
E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara (cfr., tra le tante: C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5084; 02.02.2010, n. 428; 15.01.2008, n. 36) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.09.2013 n. 4842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ vero che il Consiglio di Stato con decisione n. 525/1982 ha affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non necessità di concessione o autorizzazione.
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima zona territoriale omogenea.
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n. 380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di regolazione.

E’ vero che, come sostengono gli appellanti, il Consiglio di Stato con decisione 525/1982 del 28.07.1982 ha affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non necessità di concessione o autorizzazione; ed è altresì vero che, sulla base di tale affermazione, il Consiglio di Stato ha annullato la variante al PRG di Roma approvata nel ’79 nella parte in cui conteneva prescrizioni concernenti la zona B che imponevano limiti al cambiamento di destinazione d’uso (da residenziale a non residenziale).
Non v’è quindi dubbio che all’indomani della decisione demolitoria, il mutamento di destinazione d’uso senza opere fosse da considerare attività dal punto di vista urbanistico/edilizio non necessitante di alcun titolo, salvi i controlli in ordine all’abitabilità, o al legittimo esercizio dell’attività (cfr. pagg. 45 e 46 della decisione).
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima zona territoriale omogenea (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24).
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n. 380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di regolazione (al riguardo Cons. St., sez. IV, 29.05.2008, n. 2561) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo legale, ma, in tal caso, deve essere accompagnata -per asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte di soggetto interessato- da copia di apposito mandato o incarico professionale ovvero da sottoscrizione congiunta dell'interessato stesso.
La sottoscrizione diretta sulla nota inviata dal legale o copia del mandato da parte del diretto interessato a favore di legale stesso integrano, infatti, elementi di certezza essenziali ai fini della imputabilità della richiesta e assunzione delle eventuali relative responsabilità (sia da parte del richiedente che del funzionario chiamato all'estensione di quanto richiesto), nonché ai fini della verifica di sussistenza di un concreto interesse alla richiesta medesima; in mancanza di che deve escludersi che il silenzio serbato dall'Amministrazione possa essere configurato come illegittimo e che possa, quindi, essersi consolidato il diritto all'accesso.
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L’impostazione appena delineata vale anche, in linea di principio, per l’ipotesi in cui l’interessato abbia già precedentemente rilasciato al proprio legale un mandato professionale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale.
In tal caso, tuttavia, non sussiste la necessità, per il legale che debba richiedere l’accesso ad un documento connesso al contenzioso per il quale è stato officiato, di munirsi di un ulteriore ed apposito mandato, sufficiente essendo quello già ottenuto.
L’avvocato che sia già munito di mandato difensivo conferito con le forme d’uso (nella specie, attributivo di “ogni più ampio potere di legge”), invero, così come può senz’altro rivolgere al Giudice adìto un’istanza istruttoria diretta all’acquisizione di documenti, allo stesso modo deve reputarsi abilitato a perseguire tale risultato presentando direttamente, nella propria qualità, un’istanza di accesso all’Amministrazione controparte del giudizio già pendente. Questo, naturalmente, sempre che si tratti dell’acquisizione di atti che siano obiettivamente connessi all’oggetto dell’impugnativa precedentemente proposta, condizione che peraltro nella fattispecie ricorre con evidenza.
Risulta quindi corretta la tesi di fondo dell’odierna appellante che nel caso concreto il suo legale, già officiato mediante un pieno mandato difensivo, non abbisognava di ulteriori mandati a supporto della richiesta di accesso da lui presentata per conto della società.

E’ noto che il Regolamento in materia di accesso ai documenti (d.P.R. 12.04.2006, n. 184), dopo avere confermato il principio di origine legislativa (art. 22, comma 1, legge n. 241/1990) per cui l’accesso compete a chiunque abbia un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto, stabilisce che il richiedente l’ostensione debba dimostrare la propria identità e, “ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato” (art. 5, comma 2, d.P.R. cit.): il che comporta la conseguenza che, se già in caso di semplici dubbi sull’effettività dei poteri rappresentativi del richiedente, non potrà avere luogo l’accoglimento della richiesta di ostensione presentata in via informale, ove il richiedente risulti, invece, del tutto carente di legittimazione anche la sua richiesta di accesso formale dovrà essere disattesa (cfr. gli artt. 6, commi 1 e 3, d.P.R. cit.).
Per quanto precede, non vi è dubbio che anche le richieste di accesso presentate, per conto di un interessato, dal suo legale, debbano in via di principio soddisfare la regola -appena vista- della necessità di una dimostrazione dei poteri di rappresentanza vantati dal richiedente.
In coerenza con i relativi principi, la giurisprudenza di questa Sezione ha del resto già osservato da tempo (sentenza 05.09.2006, n. 5116) quanto segue: “La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo legale, ma, in tal caso, deve essere accompagnata -per asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte di soggetto interessato- da copia di apposito mandato o incarico professionale ovvero da sottoscrizione congiunta dell'interessato stesso.
La sottoscrizione diretta sulla nota inviata dal legale o copia del mandato da parte del diretto interessato a favore di legale stesso integrano, infatti, elementi di certezza essenziali ai fini della imputabilità della richiesta e assunzione delle eventuali relative responsabilità (sia da parte del richiedente che del funzionario chiamato all'estensione di quanto richiesto), nonché ai fini della verifica di sussistenza di un concreto interesse alla richiesta medesima; in mancanza di che, come nella specie, deve escludersi che il silenzio serbato dall'Amministrazione possa essere configurato come illegittimo e che possa, quindi, essersi consolidato il diritto all'accesso
” (così la sentenza n. 5116/2006 cit.; nello stesso senso è orientata anche la giurisprudenza di primo grado: v. ad es. TAR Lazio, III, 02.07.2008, n. 6365; TAR Toscana, I, 15.07.2009, n. 1282; TAR Campania, Napoli, V, 09.03.2009, n. 1331).
L’impostazione appena delineata vale anche, in linea di principio, per l’ipotesi in cui l’interessato abbia già precedentemente rilasciato al proprio legale un mandato professionale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale.
In tal caso, tuttavia, non sussiste la necessità, per il legale che debba richiedere l’accesso ad un documento connesso al contenzioso per il quale è stato officiato, di munirsi di un ulteriore ed apposito mandato, sufficiente essendo quello già ottenuto.
L’avvocato che sia già munito di mandato difensivo conferito con le forme d’uso (nella specie, attributivo di “ogni più ampio potere di legge”), invero, così come può senz’altro rivolgere al Giudice adìto un’istanza istruttoria diretta all’acquisizione di documenti, allo stesso modo deve reputarsi abilitato a perseguire tale risultato presentando direttamente, nella propria qualità, un’istanza di accesso all’Amministrazione controparte del giudizio già pendente. Questo, naturalmente, sempre che si tratti dell’acquisizione di atti che siano obiettivamente connessi all’oggetto dell’impugnativa precedentemente proposta, condizione che peraltro nella fattispecie ricorre con evidenza.
Risulta quindi corretta la tesi di fondo dell’odierna appellante che nel caso concreto il suo legale, già officiato mediante un pieno mandato difensivo, non abbisognava di ulteriori mandati a supporto della richiesta di accesso da lui presentata per conto della società.
Tale soluzione tanto più si impone se si considera che un ulteriore mandato professionale non occorrerebbe neppure ai fini della proposizione dell’impugnazione mediante motivi aggiunti del provvedimento sopravvenuto che nella specie si tratterebbe di acquisire. Come la Sezione ha recentemente avuto già modo di puntualizzare (decisione n. 1219 del 28.02.2013), infatti, “… benché si tratti di motivi aggiunti proposti avverso un provvedimento sopravvenuto, e non contro gli stessi atti gravati con il ricorso introduttivo, la relativa iniziativa impugnatoria non richiede(va) il rilascio di un nuovo ed apposito mandato difensivo. Come ha ricordato l’appellata, l’art. 24 C.P.A. stabilisce che la procura rilasciata per il ricorso sia valida anche per i motivi aggiunti: e questo senza che l’articolo contempli distinzioni a seconda che si profilino motivi aggiunti c.d. propri o impropri.” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.09.2013 n. 4839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base alla disciplina normativa applicabile “ratione temporis” e cioè la l. n. 10/1977, la concessione ad edificare poteva essere rilasciata “al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla” (art. 4, comma 1, sostanzialmente corrispondente all'art. 11, del testo unico dell’edilizia di cui al d.p.r. n. 380/2001 attualmente in vigore).
Il riferimento operato dalla citata disposizione al “titolo” era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base ad un diritto personale (come ad esempio il promissario acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il proprietario).
Pertanto, è solo un legame qualificato con l’area da sfruttare a fini edificatori che fonda l’interesse legittimo ad ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo. In mancanza, si è rispetto a quest’ultimo nella posizione di “quisque de populo”.

In base alla disciplina normativa applicabile “ratione temporis” e cioè la l. n. 10/1977, la concessione ad edificare poteva essere rilasciata “al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla” (art. 4, comma 1, sostanzialmente corrispondente all'art. 11, del testo unico dell’edilizia di cui al d.p.r. n. 380/2001 attualmente in vigore). Il riferimento operato dalla citata disposizione al “titolo” era comunemente riferito alla titolarità di un diritto reale di godimento, o, secondo un indirizzo più aperto, anche a chi avesse la materiale disponibilità del suolo in base ad un diritto personale (come ad esempio il promissario acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il proprietario: C. di S., V, 24.08.2007, n. 4485).
Pertanto, è solo un legame qualificato con l’area da sfruttare a fini edificatori che fonda l’interesse legittimo ad ottenere il necessario titolo amministrativo ampliativo. In mancanza, si è rispetto a quest’ultimo nella posizione di “quisque de populo” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.09.2013 n. 4827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASussiste la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nell’ipotesi in cui vi sia una evidente discrasia fra il preavviso di diniego e il diniego definitivo, quando il primo non fa menzione di contrasto di legge poi riportati nel secondo.
È illegittimo il diniego di concessione in sanatoria qualora fondato su motivi ulteriori e diversi rispetto a quelli genericamente indicati nel preavviso di rigetto –nella specie il superamento dei limiti volumetrici del fabbricato– e riguardanti istanze istruttorie acquisite successivamente alla comunicazione di detto preavviso.
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Ove nel preavviso di provvedimento negativo non siano contenuti tutti i motivi del diniego va rilevato che, ai sensi dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, comunque non è annullabile un provvedimento per omessa comunicazione di avvio del procedimento, cui vanno assimilati l’omesso preavviso di provvedimento negativo e l’omissione di uno dei motivi su cui il provvedimento negativo si fonda, quando la p. a. abbia dimostrato in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Va, quindi, fatta applicazione dell’orientamento giurisprudenziale, compendiato, tra le altre, nelle massime che seguono: “Sussiste la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, nell’ipotesi in cui vi sia una evidente discrasia fra il preavviso di diniego e il diniego definitivo, quando il primo non fa menzione di contrasto di legge poi riportati nel secondo” (TAR Lombardia–Milano – Sez. II, 04.01.2013, n. 21); “È illegittimo il diniego di concessione in sanatoria qualora fondato su motivi ulteriori e diversi rispetto a quelli genericamente indicati nel preavviso di rigetto –nella specie il superamento dei limiti volumetrici del fabbricato– e riguardanti istanze istruttorie acquisite successivamente alla comunicazione di detto preavviso” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 27.11.2009, n. 11946).
Se è vero, poi, che, secondo altra giurisprudenza: “Ove nel preavviso di provvedimento negativo non siano contenuti tutti i motivi del diniego va rilevato che, ai sensi dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, comunque non è annullabile un provvedimento per omessa comunicazione di avvio del procedimento, cui vanno assimilati l’omesso preavviso di provvedimento negativo e l’omissione di uno dei motivi su cui il provvedimento negativo si fonda, quando la p. a. abbia dimostrato in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (TAR Veneto – Sez. III, 04.06.2007, n. 1752), di tale orientamento –in disparte ogni considerazione, circa la sua validità generale– non potrebbe comunque tenersi conto nella specie, stante la mancata costituzione in giudizio del Comune di Centola
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l’abuso accertato in sede di impugnazione dell’ordine di demolizione, atteso che quest’ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto.
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L’ingiunzione di demolizione, che ha a proprio presupposto il diniego di condono e la realizzazione di un’opera in assenza di concessione, non trova ostacolo nell’avvenuto versamento di acconti per un condono poi denegato né tanto meno nel rilascio di autorizzazioni commerciali che nulla hanno a che vedere con la regolarità delle strutture edilizie, le quali richiedono un titolo autonomo.

In giurisprudenza, per l’affermazione del nesso di presupposizione, esistente tra i due provvedimenti in questione, si tengano presenti le seguenti massime: “L’autore di un abuso edilizio, che abbia prestato acquiescenza al diniego di concessione di costruzione in sanatoria, decade dalla possibilità di rimettere in discussione l’abuso accertato in sede di impugnazione dell’ordine di demolizione, atteso che quest’ultimo rinviene nel diniego di sanatoria il suo presupposto” (TAR Puglia–Bari – Sez. II, 05.01.2011, n. 8); “L’ingiunzione di demolizione, che ha a proprio presupposto il diniego di condono e la realizzazione di un’opera in assenza di concessione, non trova ostacolo nell’avvenuto versamento di acconti per un condono poi denegato né tanto meno nel rilascio di autorizzazioni commerciali che nulla hanno a che vedere con la regolarità delle strutture edilizie, le quali richiedono un titolo autonomo” (TAR Lombardia–Milano – Sez. II, 15.02.2007, n. 267) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 22, comma 3, all. f), l. n. 2248/1865 stabilisce espressamente che “nell’interno delle città e villaggi fanno parte delle strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti sul suolo pubblico, restando però ferme le consuetudini, le convenzioni ed i diritti acquisiti”.
Con questa disposizione, il legislatore ha introdotto una presunzione di uso pubblico delle aree adiacenti il suolo pubblico, presunzione che può trovare conferma in un formale provvedimento classificatorio dell’amministrazione ovvero nella destinazione urbanistica dell’area.
Qualora questi elementi siano assenti, l’uso pubblico di un’area può ugualmente ricavarsi da indici rilevatori, individuati, secondo l’elaborazione giurisprudenziale sul tema, tra l’altro nelle seguenti circostanze:
- passaggio continuativo esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
- concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche con il collegamento ad una via pubblica;
- presenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico.
Viene anche affermato che l’onere della prova della esistenza di tali elementi grava sul Comune.
In sintesi, come chiarito dalla giurisprudenza, dunque, la destinazione ad uso pubblico di una strada è desumibile in particolare dall' uso pubblico effettivo della stessa.

Oggetto della controversia è l’asserito diritto della ricorrente di delimitare ed acquisire ad uso esclusivo privato una strada che il comune asserisce essere pacificamente adibita, da oltre trent’anni, ad uso pubblico.
Sul punto, si rammenta che l’art. 22, comma 3, all. f), l. n. 2248/1865 stabilisce espressamente che “nell’interno delle città e villaggi fanno parte delle strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti sul suolo pubblico, restando però ferme le consuetudini, le convenzioni ed i diritti acquisiti”.
Con questa disposizione, il legislatore ha introdotto una presunzione di uso pubblico delle aree adiacenti il suolo pubblico, presunzione che può trovare conferma in un formale provvedimento classificatorio dell’amministrazione ovvero nella destinazione urbanistica dell’area.
Qualora questi elementi siano assenti, l’uso pubblico di un’area può ugualmente ricavarsi da indici rilevatori, individuati, secondo l’elaborazione giurisprudenziale sul tema, tra l’altro nelle seguenti circostanze:
- passaggio continuativo esercitato da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale;
- concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche con il collegamento ad una via pubblica;
- presenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico (cfr. TAR Marche, Ancona, I, 15.04.2009, n. 217; TAR Abruzzo, Pescara, I, 10.12.2008, n. 955; TAR Lazio, Roma, II; 03.11.2009, n. 10781 e I, 06.08.2009, n. 7932; TAR Campania, Salerno, sez. II, 11.04.2011, n. 660).
Viene anche affermato che l’onere della prova della esistenza di tali elementi grava sul Comune (cfr. TAR Marche n. 217/2009 cit.).
In sintesi, come chiarito dalla giurisprudenza, dunque, la destinazione ad uso pubblico di una strada è desumibile in particolare dall' uso pubblico effettivo della stessa (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 23.06.2003, n. 3716).
Nella fattispecie in esame, non mancano indici rivelatori della destinazione pubblica della strada, in particolare per quanto riguarda l’uso continuativo e frequente della strada da parte della collettività.
La sussistenza di questo elemento di fatto è infatti confermato dalla nota della polizia municipale prot. n. 121/A2 del 25.05.2010, nella quale si dichiara espressamente che la via oggetto di disputa è in uso pacifico ed ininterrotto, da oltre trent’anni, da parte della cittadinanza.
La strada è peraltro usata con frequenza, attesa la sua utilità nell’accorciare le distanze dai fabbricati con il pubblico parcheggio delle scuole elementari nonché la postazione del deposito dei rifiuti solidi urbani.
Proprio in relazione all’uso pubblico, l’amministrazione ha realizzato nel corso degli anni la pubblica illuminazione, la condotta idrica e quella fognaria, tutte opere di utilità collettiva che forniscono un’ulteriore conferma della destinazione pubblica della strada in questione.
Per quanto sopra il ricorso è infondato e va quindi respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARisulta incontestato, in fatto, che gli abusi oggetto di controversia rimontino a modifiche all’originario fabbricato risalenti ad oltre cinquanta anni prima della adozione delle contestate misure demolitorie.
Orbene, alla luce di tale peculiare circostanza di fatto, il Collegio è dell’avviso che il proprietario sanzionato avesse maturato un legittimo affidamento sulla regolarità dell'immobile, e che la prolungatissima inerzia dell'Amministrazione avesse determinato la ragionevole presunzione che eventuali irregolarità sarebbero state ormai tollerate, rendendosi, per tal via, fondata la doglianza di difetto di motivazione, mossa sul rilievo di fondo che nella fattispecie la sanzione inflitta avrebbe potuto essere adottata solo sulla base di un interesse pubblico specifico e concreto, idoneo a giustificare l'intervento dell'Amministrazione su un assetto da lungo tempo ormai consolidato, motivazione di cui non vi è traccia nel provvedimento impugnato.
Sul punto, vale ripetere principi da ultimo elaborati e riassunti, in fattispecie non dissimile, da Cons. Stato, in base ai quali la regola di fondo in subiecta materia è senz'altro quella che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o per lo meno dei loro effetti).
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo, puntualizzando che "... vale il principio dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso".
E anche di recente è stato ricordato che "la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi".
Il criterio dell'indifferenza dell'epoca di commissione dell'abuso non può essere però applicato con un meccanicismo indiscriminato ed illimitato. Quando, infatti, la costruzione in rilievo sia munita di un titolo edificatorio (venendo in questione delle semplici difformità dal medesimo), e siano passati svariati decenni dalla commissione della presunta violazione, la sottoposizione dei privati cittadini a procedimento sanzionatorio scuote per ciò stesso il valore della certezza delle situazioni giuridiche. Tanto più sono destinate a sorgere delle criticità, inoltre, quando l'azione sanzionatoria dell'Amministrazione si indirizzi, come nella specie, nei confronti di semplici aventi causa dal responsabile della presunta violazione (o, addirittura, di acquirenti dai suddetti aventi causa), i quali fino a prova contraria hanno acquistato i rispettivi immobili, a suo tempo, ad un prezzo di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva.
L'attivazione del potere repressivo a tale distanza di tempo rende, fra l'altro, oltremodo difficoltoso l'esercizio del diritto di difesa da parte degli attuale proprietari, e, soprattutto, improba ogni iniziativa di rivalsa, da parte loro, nei riguardi degli effettivi responsabili dell'abuso.
In siffatti casi estremi non si può non notare, dunque, che l'onere della motivazione dell'iniziativa sanzionatoria si impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di prescrizione/decadenza per l'esercizio del potere repressivo.
L'esistenza, in casi eccezionali, di possibili deroghe al principio esposto è del resto a sua volta acquisita al panorama giurisprudenziale.
In particolare, il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare che "rappresenta, invero, orientamento consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale, pur confermandosi che l'ingiunzione demolitoria, come atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, si fa salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato".
Analogamente, altro pronunciamento ha espresso la necessità che il potere sanzionatorio della P.A. venisse esercitato in ragionevole collegamento logico e causale con la situazione illegittima da rimuovere e con l'interesse pubblico alla sua eliminazione.
Poco prima, inoltre, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, pur osservando che, nella dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 l. 06.08.1967 n. 765, la constatazione dell'abusività dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a condizionarne la concreta operatività, senza necessità di alcuna ulteriore attività di intermediazione amministrativa volta ad apprezzare altri aspetti della vicenda, aveva avvertito che tale principio poteva però subire un'attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia dell'Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata "un lasso di tempo molto rilevante".
Un onere di motivazione si può quindi eccezionalmente configurare ove il decorso di un lasso di tempo davvero notevole (nella specie, oltre 50 anni) fra la realizzazione dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino (specialmente, ma non necessariamente, ove si tratti di un terzo acquirente).
E tale onere di motivazione non potrebbe non chiamare in causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la condizione di possibile buona fede dei soggetti che si vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ritratto dall'illecito.

Vale, nel merito, osservare come risulti incontestato, in fatto, che gli abusi oggetto di controversia rimontino a modifiche all’originario fabbricato risalenti ad oltre cinquanta anni prima della adozione delle contestate misure demolitorie.
Orbene, alla luce di tale peculiare circostanza di fatto, il Collegio è dell’avviso che il proprietario sanzionato avesse maturato un legittimo affidamento sulla regolarità dell'immobile, e che la prolungatissima inerzia dell'Amministrazione avesse determinato la ragionevole presunzione che eventuali irregolarità sarebbero state ormai tollerate, rendendosi, per tal via, fondata la doglianza di difetto di motivazione, mossa sul rilievo di fondo che nella fattispecie la sanzione inflitta avrebbe potuto essere adottata solo sulla base di un interesse pubblico specifico e concreto, idoneo a giustificare l'intervento dell'Amministrazione su un assetto da lungo tempo ormai consolidato, motivazione di cui non vi è traccia nel provvedimento impugnato.
Sul punto, vale ripetere principi da ultimo elaborati e riassunti, in fattispecie non dissimile, da Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3847, in base ai quali la regola di fondo in subiecta materia è senz'altro quella che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o per lo meno dei loro effetti).
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare" (C.d.S., VI, 05.04.2012, n. 2038).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo (cfr. da ultimo C.d.S., IV, 31/08/2010, n. 3955; V, 27/04/2011, n. 2497; VI, 11/05/2011, n. 2781; I, 30/06/2011, n. 4160), puntualizzando che "... vale il principio dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso" (IV, 04.05.2012, n. 2592).
E anche di recente è stato ricordato che "la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781)" (VI, 28.01.2013, n. 496).
Il criterio dell'indifferenza dell'epoca di commissione dell'abuso non può essere però applicato con un meccanicismo indiscriminato ed illimitato. Quando, infatti, la costruzione in rilievo sia munita di un titolo edificatorio (venendo in questione delle semplici difformità dal medesimo), e siano passati svariati decenni dalla commissione della presunta violazione, la sottoposizione dei privati cittadini a procedimento sanzionatorio scuote per ciò stesso il valore della certezza delle situazioni giuridiche. Tanto più sono destinate a sorgere delle criticità, inoltre, quando l'azione sanzionatoria dell'Amministrazione si indirizzi, come nella specie, nei confronti di semplici aventi causa dal responsabile della presunta violazione (o, addirittura, di acquirenti dai suddetti aventi causa), i quali fino a prova contraria hanno acquistato i rispettivi immobili, a suo tempo, ad un prezzo di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva.
L'attivazione del potere repressivo a tale distanza di tempo rende, fra l'altro, oltremodo difficoltoso l'esercizio del diritto di difesa da parte degli attuale proprietari, e, soprattutto, improba ogni iniziativa di rivalsa, da parte loro, nei riguardi degli effettivi responsabili dell'abuso.
In siffatti casi estremi non si può non notare, dunque, che l'onere della motivazione dell'iniziativa sanzionatoria si impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di prescrizione/decadenza per l'esercizio del potere repressivo.
L'esistenza, in casi eccezionali, di possibili deroghe al principio esposto è del resto a sua volta acquisita al panorama giurisprudenziale.
In particolare, con la decisione 29.05.2006 n. 3270, il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare che "rappresenta, invero, orientamento consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale, pur confermandosi che l'ingiunzione demolitoria, come atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso), è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, si fa salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. Ipotesi, in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (cfr. Cons. Stato, V, 25.06.2002 n. 3443; C.G.A.R.S. 23.04.2001 n. 183; Cons. Stato, V, 19.03.1999 n. 286; id., 11.02.1999 n. 143; id., 14.10.1998 n. 1483; id., 12.03.1996 n. 247; Cons. Stato sez. IV, 03.02.1996 n. 95)." (così C.d.S., V, n. 3270/2006 cit.).
Nello stesso ordine di idee anche altre decisioni possono essere richiamate: Sez. V, 30.05.2006, n. 3283; VI, 24.02.1994, n. 192; IV, 27.02.1989, n. 127.
Analogamente, Cons. Stato, Sez. V, 29.10.1985, n. 353, ha espresso la necessità che il potere sanzionatorio della P.A. venisse esercitato in ragionevole collegamento logico e causale con la situazione illegittima da rimuovere e con l'interesse pubblico alla sua eliminazione.
Poco prima, inoltre, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 19.05.1983, n. 12, pur osservando che, nella dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 l. 06.08.1967 n. 765, la constatazione dell'abusività dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a condizionarne la concreta operatività, senza necessità di alcuna ulteriore attività di intermediazione amministrativa volta ad apprezzare altri aspetti della vicenda, aveva avvertito che tale principio poteva però subire un'attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia dell'Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata "un lasso di tempo molto rilevante".
Un onere di motivazione si può quindi eccezionalmente configurare ove il decorso di un lasso di tempo davvero notevole (nella specie, oltre 50 anni) fra la realizzazione dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino (specialmente, ma non necessariamente, ove si tratti di un terzo acquirente).
E tale onere di motivazione non potrebbe non chiamare in causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la condizione di possibile buona fede dei soggetti che si vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ritratto dall'illecito.
Alla luce degli esposti principi, da cui il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi, il ricorso deve essere, con assorbimento di ogni altro dei dedotti profili, accolto, posto che il provvedimento impugnato, che merita per tal via di essere annullato, non ha dato conto delle ragioni di attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse che giustificasse il ripristino della violata legalità pur in presenza di un consistente affidamento rinveniente dal decorso di un notevole lasso di tempo dalla contestazione degli abusi, non accompagnato da alcuna iniziativa ispettiva (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parametro valutativo dell'attività edilizia svolta dai privati consiste nell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina urbanistica, lasciando sempre salvi i diritti dei terzi; perciò la legittimità di un'autorizzazione edilizia non può comunque condizionare la regolazione dei rapporti tra parti private.
Conseguentemente non sussiste un obbligo generalizzato per l'Amministrazione di verificare che non sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia; tuttavia, essa ha il potere-dovere di verificare in capo al richiedente un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, al fine di accertare il requisito della sua legittimazione.
Circa l'ampiezza dei poteri istruttori, a ciò finalizzati, è stato, peraltro, precisato che non si tratta di obbligare la P.A. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non aggravare il procedimento.

Il ricorso è fondato e va accolto.
Il parametro valutativo dell'attività edilizia svolta dai privati consiste nell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina urbanistica, lasciando sempre salvi i diritti dei terzi; perciò la legittimità di un'autorizzazione edilizia non può comunque condizionare la regolazione dei rapporti tra parti private. Conseguentemente non sussiste un obbligo generalizzato per l'Amministrazione di verificare che non sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia; tuttavia, essa ha il potere-dovere di verificare in capo al richiedente un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, al fine di accertare il requisito della sua legittimazione. Circa l'ampiezza dei poteri istruttori, a ciò finalizzati, è stato, peraltro, precisato che non si tratta di obbligare la P.A. a complessi e laboriosi accertamenti anche per non aggravare il procedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIONon si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio nell'ambito di intervento edilizio riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Ciò premesso, nella specie non si ravvisano limiti sostanziali a richiedere e conseguire il titolo edilizio, in quanto si tratta di intervento riconducibile all'art. 1102 c.c., il quale consente le modificazioni apportate dal singolo condomino, senza necessità del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tese a trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (cfr., in relazione ad analoga fattispecie concernente l’installazione di canna fumaria, TAR Toscana, 29.04.2009, n. 724, nonché Id. 27.09.2012, n. 1569.
In sostanza, non può dubitarsi della riconducibilità all'ambito degli interventi contemplati dall'art. 1102 c.c. di tutte le modificazioni -apportabili dal singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione- che consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compresa l'installazione sul muro di elementi ad esso estranei posti al servizio esclusivo della singola unità immobiliare, purché non precluda agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità (ferme restando, beninteso, le iniziative di tutela giurisdizionale esperibili dai condomini in sede civile).
Le esposte ragioni militano nel senso della fondatezza del gravame, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, nella parte in cui subordina l’efficacia della autorizzazione al conseguimento del previo consenso della compagine condominiale (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione all’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, ex art. 151 D.Lgs. n. 490/1999, l'Amministrazione dei beni culturali è obbligata a comunicare al destinatario dell'autorizzazione l'avvio del procedimento, allo scopo di consentire a quest'ultimo di avvalersi concretamente degli strumenti di partecipazione e di accesso previsti dalla L. n. 241/1990.
La giurisprudenza ha anche evidenziato che l'onere di comunicare l'avvio del procedimento non può essere soddisfatto dalla semplice indicazione della soggezione al potere ministeriale contenuta nell'autorizzazione paesaggistica, né dall'indicazione del Ministero tra i destinatari dell'atto medesimo, in quanto siffatte indicazioni non garantiscono né che la pratica sia stata effettivamente trasmessa all'autorità statale, né che questa l'abbia ricevuta, di modo che l'interessato dovrebbe esercitare la propria pretesa partecipativa senza sapere se l'autorizzazione rilasciatagli ed il relativo incartamento siano pervenuti a destinazione, con il rischio di porre in essere un'attività che potrebbe, poi, rivelarsi prematura e inutile.
Né può ritenersi irrilevante il vizio, ai sensi dell'art. 21-octies l. n. 241/1990, perché, presentando la valutazione di compatibilità paesaggistica un margine di opinabilità, la partecipazione dell'interessato al procedimento avrebbe potuto fornire un apporto per una soluzione favorevole, anche mediante l'indicazione di marginali modifiche del progetto di ristrutturazione.

Il ricorso è fondato.
Con l’ultimo dei motivi il ricorrente deduce l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
In relazione all’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, ex art. 151 D.Lgs. n. 490/1999, l'Amministrazione dei beni culturali è obbligata a comunicare al destinatario dell'autorizzazione l'avvio del procedimento, allo scopo di consentire a quest'ultimo di avvalersi concretamente degli strumenti di partecipazione e di accesso previsti dalla L. n. 241/1990 (così, CdS, Sez. VI, n. 5247 del 11.09.2006).
La giurisprudenza ha anche evidenziato che l'onere di comunicare l'avvio del procedimento non può essere soddisfatto dalla semplice indicazione della soggezione al potere ministeriale contenuta nell'autorizzazione paesaggistica, né dall'indicazione del Ministero tra i destinatari dell'atto medesimo, in quanto siffatte indicazioni non garantiscono né che la pratica sia stata effettivamente trasmessa all'autorità statale, né che questa l'abbia ricevuta, di modo che l'interessato dovrebbe esercitare la propria pretesa partecipativa senza sapere se l'autorizzazione rilasciatagli ed il relativo incartamento siano pervenuti a destinazione, con il rischio di porre in essere un'attività che potrebbe, poi, rivelarsi prematura e inutile.
Né può ritenersi irrilevante il vizio, ai sensi dell'art. 21-octies l. n. 241/1990, perché, presentando la valutazione di compatibilità paesaggistica un margine di opinabilità, la partecipazione dell'interessato al procedimento avrebbe potuto fornire un apporto per una soluzione favorevole, anche mediante l'indicazione di marginali modifiche del progetto di ristrutturazione.
La vicenda all’esame del Collegio ha, infatti, ad oggetto lavori di ristrutturazione di un fabbricato in stato di evidente degrado, come si evince dalla relazione peritale di parte, e dalla documentazione fotografica.
Ciò premesso, l’avere omesso la comunicazione di avvio del procedimento ha impedito quella necessaria partecipazione dell’interessato che poteva portare ad un diverso esito valutativo (cfr., da ultimo, in fattispecie simile, TAR Salerno, sez. II, 22.02.2013, n. 488).
A ciò si aggiunga il fatto che il vincolo non riguarda l’edificio, bensì il paesaggio circostante e che la quasi totalità degli interventi contenuti nel progetto, oltre a non incidere sul bene interessato dal vincolo, mirano a risanarne gli interni e a riqualificarlo.
Alla luce di quanto sopra osservato, dato il carattere assorbente della censura scrutinata, il ricorso va accolto e, per l’effetto, annullato il decreto adottato dalla Soprintendenza (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'autore di un esposto, anche se proprietario confinante del destinatario di un provvedimento di annullamento d'ufficio del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di controinteressato perché il potere di autotutela è esercitato per il conseguimento dell'interesse pubblico al quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come nella specie, l'intervento ad opponendum a norma dell'art. 28, comma 2, c.p.a..
In via preliminare, vale comunque respingere la spiegata eccezione di inammissibilità, sul rilievo per cui l'autore di un esposto, anche se proprietario confinante del destinatario di un provvedimento di annullamento d'ufficio del titolo ad aedificandum, non assume la veste giuridica di controinteressato perché il potere di autotutela è esercitato per il conseguimento dell'interesse pubblico al quale è estraneo il privato che, se vanta un interesse di mero fatto, ricorrendone i presupposti, può svolgere, come nella specie, l'intervento ad opponendum a norma dell'art. 28, comma 2, c.p.a. (in termini, da ultimo, TAR Salerno, sez. II, 04.10.2012, n. 1794 e Cons. Stato, sez. V, 11.11.2011, n. 6074)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
Parimenti destituito di fondamento è l’ultimo motivo di doglianza, alla luce del principio, che costituisce jus receptum, per cui l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 24.05.2013, n. 2873) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1981 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza che esprime non un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, se non comporta un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati.

Al riguardo, è noto, alla luce del costante orientamento giurisprudenziale nella materia che ne occupa, che il potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza che esprime non un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, se non comporta un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
Ciò posto, osserva il Collegio che il decreto impugnato ha evidenziato una serie di elementi che non sono stati presi in considerazione dall’Ente locale ovvero sono stati fatti oggetto di una valutazione erronea, consistenti:
a) nella mancata considerazione del tipo d materiali impiegati che risultano del tutto avulsi “non solo dall’architettura tradizionale locale, ma anche dal patrimonio urbano”;
b) nei sistemi costruttivi adoperati, considerati inadeguati per luoghi sottoposti a tutela paesaggistica;
c) nei caratteri dei manufatti abusivi —consistenti in due locali a pianoterra— del tutto avulsi dai tratti caratteristici dell’architettura tradizionale locale, sicché realizzano delle vere e proprie “superfetazioni”.
L’omessa motivazione su tali decisivi profili ridonda, obiettivamente, in ragione di illegittimità della autorizzazione paesaggistica rilasciata, di cui appare, per tal via, legittimo il disposto annullamento. Il quale si sottrae, per il medesimo ordine di ragioni, alla censura di non essere supportato da idonea motivazione.
Risulta, infine, destituita di fondamento la censura di incompetenza, alla luce del pacifico rilievo per cui, a seguito della entrata in vigore dell'art. 3 d.lgs. 03.02.1993, n. 29, gli atti di amministrazione attiva dei singoli Ministeri sono stati direttamente assegnati alla competenza dei dirigenti e non più del Ministro, e ciò alla stregua del generale principio di separazione tra le funzioni di indirizzo (in capo al Ministro) e le funzioni di gestione (in capo ai dirigenti): cfr. da, ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5977) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1977 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame complessivo, come tale in grado di consentire la sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute dall'ente locale.
Detto potere è, peraltro, necessariamente ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo: ne consegue che l'Amministrazione statale può verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli espressi dall'ente locale.
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Il ridetto potere di annullamento esprime non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati.

Premette il Collegio come costituisca jus receptum nella materia in esame quello per cui il potere statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame complessivo, come tale in grado di consentire la sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute dall'ente locale; detto potere è, peraltro, necessariamente ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo: ne consegue che l'Amministrazione statale può verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli espressi dall'ente locale (in termini, ex permultis e da ultimo, TAR Salerno, 03.06.2013, n. 1218).
È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati (cfr. di recente Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1976 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine fissato alla Soprintendenza competente per l'eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall'ente subdelegato), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell'adozione dell'eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati.
In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l'atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l'attività successiva di partecipazione di conoscenza dell'atto ai suoi destinatari. Ciò in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell'arco temporale fissato dalla legge per l'adozione del provvedimento.
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Il potere statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame complessivo, come tale in grado di consentire la sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute dall'ente locale; detto potere è, peraltro, necessariamente ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo.
Ne consegue che l'Amministrazione statale può verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli espressi dall'ente locale.
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È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere.
Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati.
In particolare, la giurisprudenza ha individuato il vizio di eccesso di potere dell'autorizzazione regionale o sindacale allorquando questa contraddica, esplicitamente o implicitamente, valutazioni sottese all'imposizione del regime vincolistico, con conseguente sviamento, ovvero si fondi sull'apprezzamento di elementi di fatto insussistenti o palesemente erronei, con conseguente travisamento.

Costituisce, invero, jus receptum quello per cui il termine fissato alla Soprintendenza competente per l'eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall'ente subdelegato), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell'adozione dell'eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati.
In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l'atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l'attività successiva di partecipazione di conoscenza dell'atto ai suoi destinatari. Ciò in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell'arco temporale fissato dalla legge per l'adozione del provvedimento (per tutti ed ex permultis, tra le più recenti, Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2013, n. 2410, nonché TAR Salerno, sez. I, 10.05.2013, n. 1072).
Quanto al distinto motivo di gravame con il quale il ricorrente lamenta che la Soprintendenza avrebbe effettuato una valutazione di merito, sovrapponendo il proprio giudizio a quello espresso dal Comune, osserva il Collegio come costituisca jus receptum nella materia in esame quello per cui il potere statale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica deve ritenersi circoscritto a vizi di legittimità; la natura del potere di annullamento esercitato dalla Soprintendenza non comporta, infatti, un riesame complessivo, come tale in grado di consentire la sovrapposizione o sostituzione di un suo apprezzamento di merito alle valutazioni tecniche discrezionali compiute dall'ente locale; detto potere è, peraltro, necessariamente ancorato ad un riesame meramente estrinseco, teso a verificare l'eventuale presenza di vizi di legittimità comprendenti l'eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche, che non può tradursi in un ripetuto giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico ambientale dell'intervento, giudizio che è riservato all'autorità comunale preposta alla tutela del vincolo: ne consegue che l'Amministrazione statale può verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'amministrazione emanante, senza con ciò sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale con quelli espressi dall'ente locale (in termini, ex permultis e da ultimo, TAR Salerno, 03.06.2013, n. 1218).
È altresì noto che il ridetto potere di annullamento esprime non già un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, la quale, se non comporta nei sensi chiariti un riesame di merito delle valutazioni dell'ente competente, nondimeno impone la valutazione dell'atto di base anche in tutti i profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, un eccesso di potere. Tra queste, rileva in particolare il difetto di motivazione, che si ha quando l'ente che rilascia l'atto di base non abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In questo caso gli organi ministeriali annullano l'atto locale per difetto di motivazione e possono indicare -anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere- le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità dell'intervento edilizio con i valori tutelati (cfr. di recente Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
In particolare, la giurisprudenza ha individuato il vizio di eccesso di potere dell'autorizzazione regionale o sindacale allorquando questa contraddica, esplicitamente o implicitamente, valutazioni sottese all'imposizione del regime vincolistico, con conseguente sviamento, ovvero si fondi sull'apprezzamento di elementi di fatto insussistenti o palesemente erronei, con conseguente travisamento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 27.09.2013 n. 1973 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara; la possibilità che ad un'aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell'operato dell’Amministrazione, a prescindere dall’inserimento nel bando di apposita clausola che preveda l’eventualità di non dare luogo alla gara o di revocarla.
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Nei contratti pubblici, anche dopo l’intervento dell’aggiudicazione definitiva, non è precluso all’amministrazione appaltante di revocare l’aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, che ben può consistere nella mancanza di risorse economiche idonee a sostenere la realizzazione dell’opera.
E ciò senza che vi sia contraddittorietà con gli atti di indizione della gara nei quali la stazione appaltante ha indicato la copertura finanziaria, perché, comunque, rimane integro il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i suoi impegni di spesa in ragione delle mutate condizioni delle risorse finanziarie disponibili.
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L’aggiudicazione provvisoria non determina l’insorgere di affidamento nella conclusione del contratto, e che, pertanto, non è configurabile la responsabilità precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente, fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla gara.
Ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della P.A., difatti, rileva la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso dello svolgimento della gara che sia pervenuta alla conclusione ed alla individuazione del contraente, nonché nella fase della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1337 c.c..

Nelle gare di appalto, l'aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara; la possibilità che ad un'aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lgs. 163/2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile e obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell'operato dell’Amministrazione, a prescindere dall’inserimento nel bando di apposita clausola che preveda l’eventualità di non dare luogo alla gara o di revocarla (questione pure sollevata dall’appellante) (Consiglio di Stato Sez. III - sentenza 24.05.2013, n. 2838).
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Deve essere ribadito, inoltre, il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale nei contratti pubblici, anche dopo l’intervento dell’aggiudicazione definitiva, non è precluso all’amministrazione appaltante di revocare l’aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, che ben può consistere nella mancanza di risorse economiche idonee a sostenere la realizzazione dell’opera (C.d.S., Sez. III, 11.07.2012, n. 4116; Adunanza Plenaria, 05.09.2005, n. 6; C.d.S., sez. IV, 19.03.2003, n. 1457).
E ciò senza che vi sia contraddittorietà con gli atti di indizione della gara nei quali la stazione appaltante ha indicato la copertura finanziaria, perché, comunque, rimane integro il potere/dovere dell'amministrazione di rivedere i suoi impegni di spesa in ragione delle mutate condizioni delle risorse finanziarie disponibili (C.G.A., Sez. giurisdizionale, 25.01.2013, n. 47).
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Quanto al terzo motivo di appello, secondo cui a fronte della revoca legittima il primo giudice avrebbe però erroneamente ritenuto insussistente la responsabilità precontrattuale, si ribadisce che l’aggiudicazione provvisoria non determina l’insorgere di affidamento nella conclusione del contratto, e che, pertanto, non è configurabile la responsabilità precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente, fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla gara.
Ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della P.A., difatti, rileva la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso dello svolgimento della gara che sia pervenuta alla conclusione ed alla individuazione del contraente, nonché nella fase della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1337 c.c. (C.d.S., Sez. IV, 07.02.2012, n. 662; Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2013 n. 4809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAEx art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997 la responsabilità dell'inquinatore ha carattere oggettivo e che il proprietario di un'area inquinata, ove non sia responsabile del medesimo inquinamento, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla messa in sicurezza e bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio immobiliare per le spese per la realizzazione d'ufficio dei relativi interventi.
E’ stato affermato in giurisprudenza che ex art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997 la responsabilità dell'inquinatore ha carattere oggettivo (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 21.02.2012 n. 282; Consiglio di Stato, sez. VI, 15.07.2010, n. 4561) e che il proprietario di un'area inquinata, ove non sia responsabile del medesimo inquinamento, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla messa in sicurezza e bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio immobiliare per le spese per la realizzazione d'ufficio dei relativi interventi (Cons. St. VI, 05.09.2005, n. 4525) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le pubbliche amministrazioni sono tenute ad acquisire d’ufficio anche i documenti che comprovano i requisiti dei partecipanti ad una gara d’appalto, risultando irrilevante la presenza di una diversa disciplina speciale all’interno del codice dei contratti pubblici.
Il DPR n. 445/2000, in materia di documentazione amministrativa, pacificamente trova applicazione nella materia degli appalti pubblici, essendo lo stesso codice a legittimarne l’uso.
Sicché non può che trovare applicazione anche l’innovazione introdotta con l’art. 15 della legge 183/2011, che, per quanto qui interessa, ha introdotto il seguente comma all’art. 40: <<01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47>> ed all'articolo 43 ha sostituito il comma 1 col seguente: <<1. Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall'interessato>>.
E’ evidente, ad una lettura unitaria delle norme in questione, che gli accertamenti d’ufficio disciplinati dall’art. 43, comma 1, D.P.R. 445/2000, come novellato dal citato art. 15 della l. 183/2011, riguardano tutte le ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso D.P.R., dichiarazioni sostitutive che gli artt. 41 e 42 del codice dei contratti pubblici consentono ai concorrenti di utilizzare per comprovare i requisiti tecnico-organizzativi ed economico-professionale, salvo verifica successiva da parte della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 48 commi 1 e 3, senza che possa in alcun modo rilevare la “specialità” della disciplina dei contratti pubblici.

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Neppure l’art. 6-bis del codice degli appalti, introdotto dal d.l. 09.02.2012, n. 5, consente di rinviare, a partire dal 01.01.2013, l’applicazione della nuova disciplina alla istituzione di una banca dati nazionale dei contratti pubblici, cui le stazioni appaltanti dovranno attingere per verificare il possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati in gara dai concorrenti.
La norma contiene una disciplina transitoria secondo cui, fino alla data di avvio della Banca dati, le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori verificano il possesso dei requisiti secondo le modalità previste dalla normativa vigente (comma 5).
Il riferimento alla “normativa vigente” include anche la novella disciplina degli artt. 43 e 47 del D.P.R. 445/2000, in vigore dal 01.01.2012.
La banca dati è uno strumento di semplificazione e di accelerazione dei procedimenti di accertamento, che costituisce un ausilio informatico per l’esercizio dei poteri-doveri di accertamento d’ufficio; ne consegue che il coordinamento tra le norme appare logicamente condurre alla conclusione che:
1) fino all’attivazione della Banca Dati, le stazioni appaltanti dovranno procedere d’ufficio tramite contatti con le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti auto dichiarati dai concorrenti, secondo quanto dispongono gli artt. 43 e 47 DPR 445/2000;
2) dopo l’attivazione della Banca Dati, i controlli d’ufficio diventano centralizzati attraverso il riferimento diretto a tale strumento pubblicistico di coordinamento e raccolta dati.

Quanto all’obiezione che solleva Lombardia Informatica, ovvero al carattere di specialità della disciplina dei contratti pubblici che impedirebbe l’applicazione della norma di carattere generale dettata dall’art. 15 della l. 183/2011 (in particolare, l’art. 41, comma 1, lett. “b” e “c”, in relazione al comma 4, del D.lgs. n. 163/2006, il quale prescrive che i servizi prestati ad amministrazioni pubbliche siano comprovati dall’aggiudicataria con certificazioni delle stesse, e l’art. 42, comma 1, lett. “a”, il quale prevede che i servizi e le prestazioni in favore di amministrazioni ed enti pubblici siano provati da certificati rilasciati o vistati delle amministrazioni o enti destinatari), il Collegio osserva che il DPR n. 445/2000, in materia di documentazione amministrativa, pacificamente trova applicazione nella materia degli appalti pubblici, essendo lo stesso codice a legittimarne l’uso.
Sicché non può che trovare applicazione anche l’innovazione introdotta con l’art. 15 della legge 183/2011, che, per quanto qui interessa, ha introdotto il seguente comma all’art. 40: <<01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47>> ed all'articolo 43 ha sostituito il comma 1 col seguente: <<1. Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall'interessato>>.
E’ evidente, ad una lettura unitaria delle norme in questione, che gli accertamenti d’ufficio disciplinati dall’art. 43, comma 1, D.P.R. 445/2000, come novellato dal citato art. 15 della l. 183/2011, riguardano tutte le ipotesi di informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 dello stesso D.P.R., dichiarazioni sostitutive che gli artt. 41 e 42 del codice dei contratti pubblici consentono ai concorrenti di utilizzare per comprovare i requisiti tecnico-organizzativi ed economico-professionale, salvo verifica successiva da parte della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 48 commi 1 e 3, senza che possa in alcun modo rilevare la “specialità” della disciplina dei contratti pubblici.
Inoltre, ad avviso di questo Collegio, neppure l’art. 6-bis del codice degli appalti, introdotto dal d.l. 09.02.2012, n. 5, consente di rinviare, a partire dal 01.01.2013, l’applicazione della nuova disciplina alla istituzione di una banca dati nazionale dei contratti pubblici, cui le stazioni appaltanti dovranno attingere per verificare il possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati in gara dai concorrenti.
La norma contiene una disciplina transitoria secondo cui, fino alla data di avvio della Banca dati, le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori verificano il possesso dei requisiti secondo le modalità previste dalla normativa vigente (comma 5).
Il riferimento alla “normativa vigente” include anche la novella disciplina degli artt. 43 e 47 del D.P.R. 445/2000, in vigore dal 01.01.2012.
La banca dati è uno strumento di semplificazione e di accelerazione dei procedimenti di accertamento, che costituisce un ausilio informatico per l’esercizio dei poteri-doveri di accertamento d’ufficio; ne consegue che il coordinamento tra le norme appare logicamente condurre alla conclusione che:
1) fino all’attivazione della Banca Dati, le stazioni appaltanti dovranno procedere d’ufficio tramite contatti con le amministrazioni interessate alla verifica dei requisiti auto dichiarati dai concorrenti, secondo quanto dispongono gli artt. 43 e 47 DPR 445/2000;
2) dopo l’attivazione della Banca Dati, i controlli d’ufficio diventano centralizzati attraverso il riferimento diretto a tale strumento pubblicistico di coordinamento e raccolta dati
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2013 n. 4785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da quella del proprietario non inquinatore, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. Dalla natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997, in connessione con una condotta «anche accidentale», ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/o il suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario «chi inquina paga», principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15, direttiva n. 91/156, di cui il d.lgs. del 1997 costituisce recepimento.

E’ stato affermato in giurisprudenza che la responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da quella del proprietario non inquinatore, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. Dalla natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, d.lgs. n. 22 del 1997, in connessione con una condotta «anche accidentale», ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/o il suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario «chi inquina paga», principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15, direttiva n. 91/156, di cui il d.lgs. del 1997 costituisce recepimento (Consiglio di Stato sez. II 21.02.2012 n. 282; Consiglio di Stato sez. VI 15.07.2010, n. 4561) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'indennità prevista dall'art. 15 della l. n. 1497/1939 è una sanzione amministrativa da irrogare per abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico e non una forma di risarcimento del danno; come tale, si concreta in un atto dovuto che prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, il quale, unitamente al profitto conseguito, rileva solo come parametro alternativo per la commisurazione del “quantum” della sanzione, che deve essere effettuata in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale.
Detta sanzione è pari alla maggior somma tra danno ambientale causato e profitto conseguito con la trasgressione. Quest'ultimo deve essere rapportato all'effettivo vantaggio economico ottenuto dal trasgressore, ovvero va identificato nell'incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione; incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale e il valore dell'immobile prima dell'esecuzione delle opere abusive, in quanto l'arricchimento ottenuto dalla realizzazione dell'abuso non può coincidere con il valore venale attuale del medesimo senza detrazione del costo sostenuto per la sua costruzione. Occorre cioè apprezzare il valore dell'immobile prima e dopo la realizzazione del manufatto abusivo e portare in detrazione dal valore venale dell'opera abusiva il costo sostenuto per la sua esecuzione.
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Poiché la commisurazione del “quantum” della sanzione deve avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, essa è insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica, sfuggendo il danno paesistico, per la sua intrinseca natura, ad una indagine dettagliata e minuta, a prescindere dalla sua entità, tanto che è stato considerato legittimo il provvedimento con il quale viene irrogata la sanzione pecuniaria di cui trattasi per il caso di violazione degli obblighi in materia di tutela del paesaggio anche qualora sia accertata la mancanza di danno ambientale.

Osserva la Sezione che l'indennità prevista dall'art. 15 della l. n. 1497/1939 è una sanzione amministrativa da irrogare per abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico e non una forma di risarcimento del danno; come tale, si concreta in un atto dovuto che prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, il quale, unitamente al profitto conseguito, rileva solo come parametro alternativo per la commisurazione del “quantum” della sanzione, che deve essere effettuata in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale.
Detta sanzione è pari alla maggior somma tra danno ambientale causato e profitto conseguito con la trasgressione. Quest'ultimo deve essere rapportato all'effettivo vantaggio economico ottenuto dal trasgressore, ovvero va identificato nell'incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione; incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale e il valore dell'immobile prima dell'esecuzione delle opere abusive, in quanto l'arricchimento ottenuto dalla realizzazione dell'abuso non può coincidere con il valore venale attuale del medesimo senza detrazione del costo sostenuto per la sua costruzione. Occorre cioè apprezzare il valore dell'immobile prima e dopo la realizzazione del manufatto abusivo e portare in detrazione dal valore venale dell'opera abusiva il costo sostenuto per la sua esecuzione.
Tanto è stato effettuato nel caso che occupa, in cui l’Amministrazione, dopo aver calcolato in £ 184.583.404, corrispondente al costo dei lavori di realizzazione del muro di cui trattasi e del movimento terra effettuato in base a perizia prodotta dalla appellante, il danno arrecato, nonché in £ 627.450.000 il profitto conseguito (pari al valore di mercato dei realizzati garage detratti i costi di costruzione), ha determinato la sanzione in tale ultima entità, perché costituente maggior somma tra le due sopra indicate.
Poiché la commisurazione del “quantum” della sanzione deve avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, essa è insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica, sfuggendo il danno paesistico, per la sua intrinseca natura, ad una indagine dettagliata e minuta, a prescindere dalla sua entità, tanto che è stato considerato legittimo il provvedimento con il quale viene irrogata la sanzione pecuniaria di cui trattasi per il caso di violazione degli obblighi in materia di tutela del paesaggio anche qualora sia accertata la mancanza di danno ambientale (Consiglio Stato, sez. IV, 14.04.2010 n. 2083) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIIl principio contenuto negli articoli 51 della l. n. 142 del 1990 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, circa il riparto tra compiti di governo, di indirizzo e di controllo, spettanti agli organi politici elettivi, e compiti di gestione, spettanti ai dirigenti, costituisce “struttura fondante dell’intera riforma delle autonomie locali”, di per sé immediatamente applicabile senza la necessità dell’interposizione di fonti secondarie, cui spetta soltanto la determinazione delle modalità di esercizio della competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare impedimenti e soluzioni di continuità.
Su un piano più generale è stato sottolineato che, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di indirizzo politico, aggiungendosi che, con specifico riferimento agli enti locali, proprio l’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000 dispone che gli statuti ed i regolamenti si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e controllo politico–amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica compete in via esclusiva ai dirigenti, con la precisazione che l’attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del comune, si risolve nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione.
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Sulla scorta di tale substrato normativo (e giurisprudenziale) il sindaco non può adottare un proprio atto di annullamento, in autotutela, della determinazione dirigenziale riguardante la procedura del concorso pubblico per titoli ed esami per l’assunzione di un istruttore contabile, trattandosi di un’attività di gestione, non appartenente come tale ai compiti di governo, indirizzo e controllo propri di un organo politico, quale appunto è il sindaco.
Questi invero, proprio nell’esercizio dei predetti poteri di indirizzo e controllo, può -e deve- sollecitare il responsabile del servizio ovvero il dirigente competente all’adozione degli atti opportuni e necessari a rimuovere la pretesa illegittimità verificatasi nella procedura concorsuale in esame, così rispettando il fondamentale ed insuperabile principio di distinzione tra attività di governo ed attività di gestione (potendo del resto eventualmente utilizzare nei confronti del funzionario o del dirigente, riottoso o inadempiente, gli ordinari poteri disciplinari fino a giungere anche alla rimozione dall’incarico o dalla funzione).
Né, a fondamento della sussistenza del potere esercitato nel caso in esame, possono invocarsi, l’articolo 50, comma 3, del D.Lgs. n. 267 del 2000 e l’art. 44, ultimo comma, del Regolamento recante l’ordinamento degli uffici e dei servizi (quest’ultimo nella parte in cui autorizza il sindaco ad annullare, di propria iniziativa o su istanza di parte, per motivi di legittimità gli atti dei responsabili dei servizi degli organi dell’amministrazione).
Sotto un primo profilo deve infatti osservarsi che, se è vero che il ricordato terzo comma dell’art. 50 del D.Lgs. n. 267 del 2000 stabilisce che il sindaco esercita le funzioni attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti, è altrettanto vero che tale norma fa espressamente salvo quanto stabilito dall’articolo 107 che, come già si è avuto modo di osservare, delimita e distingue nettamente l’attività politica da quella di gestione, attribuendo solo ai dirigenti quest’ultima, in cui è espressamente ricompresa, secondo l’esemplificativa normativa, la “responsabilità delle procedure di concorso”, formulazione in cui deve farsi ragionevolmente rientrare, anche per coerenza sistematica, l’eventuale esercizio del potere di autotutela.

Giova al riguardo rilevare che l’art. 51 della legge 08.06.1990, n. 142, aveva già stabilito, al comma 2, che “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti”, aggiungendo al successivo terzo comma che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservano agli organi di governo dell’ente. Sono ad essi attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dall’organo politico, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente:…b) la responsabilità delle procedure di appalto e di concorso”.
Tale disposizione ha trovato conferma nell’art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, laddove è stato previsto al comma 4 che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative” e al comma 5 che, “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I, titolo III l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’art. 50, comma 3, e dall’art. 54”.
Il principio contenuto nei ricordati articoli 51 della l. n. 142 del 1990 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, circa il riparto tra compiti di governo, di indirizzo e di controllo, spettanti agli organi politici elettivi, e compiti di gestione, spettanti ai dirigenti, costituisce “struttura fondante dell’intera riforma delle autonomie locali” (C.d.S., sez. V, 15.11.2001, n. 5833), di per sé immediatamente applicabile senza la necessità dell’interposizione di fonti secondarie, cui spetta soltanto la determinazione delle modalità di esercizio della competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare impedimenti e soluzioni di continuità (C.d.S., sez. V, 23.03.2000, n. 1617; 21.11.2003, n. 7632).
Su un piano più generale è stato sottolineato che, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di indirizzo politico, aggiungendosi che, con specifico riferimento agli enti locali, proprio l’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000 dispone che gli statuti ed i regolamenti si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e controllo politico–amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica compete in via esclusiva ai dirigenti (C.d.S., sez. V, 16.10.2004, n. 6029; 05.10.2005, n. 5312; 10.12.2012, n. 6277), con la precisazione che l’attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del comune, si risolve nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione (C.d.S., sez. V, 09.09.2005, n. 4654).
Sulla scorta di tale substrato normativo (e giurisprudenziale) il sindaco del Comune di Avetrana non poteva adottare, come invece è avvenuto, la disposizione prot. n. 2332 del 19.03.2002, di annullamento, in autotutela, della determinazione n. 348 del 31.07.2001 e, conseguentemente, dell’intera procedura del concorso pubblico per titoli ed esami per l’assunzione di un istruttore contabile, trattandosi di un’attività di gestione, non appartenente come tale ai compiti di governo, indirizzo e controllo propri di un organo politico, quale appunto è il sindaco.
Questi invero, proprio nell’esercizio dei predetti poteri di indirizzo e controllo, avrebbe potuto -e dovuto- sollecitare, anche sulla scorta degli indirizzi forniti dall’organo giuntale, il responsabile del servizio ovvero il dirigente competente all’adozione degli atti opportuni e necessari a rimuovere la pretesa illegittimità verificatasi nella procedura concorsuale in esame, così rispettando il fondamentale ed insuperabile principio di distinzione tra attività di governo ed attività di gestione (potendo del resto eventualmente utilizzare nei confronti del funzionario o del dirigente, riottoso o inadempiente, gli ordinari poteri disciplinari fino a giungere anche alla rimozione dall’incarico o dalla funzione).
Né, a fondamento della sussistenza del potere esercitato nel caso in esame, possono invocarsi, come indicato nel provvedimento impugnato, l’articolo 50, comma 3, del D.Lgs. n. 267 del 2000 e l’art. 44, ultimo comma, del Regolamento recante l’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di Avetrana (quest’ultimo nella parte in cui autorizza il sindaco ad annullare, di propria iniziativa o su istanza di parte, per motivi di legittimità gli atti dei responsabili dei servizi degli organi dell’amministrazione).
Sotto un primo profilo deve infatti osservarsi che, se è vero che il ricordato terzo comma dell’art. 50 del D.Lgs. n. 267 del 2000 stabilisce che il sindaco esercita le funzioni attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti, è altrettanto vero che tale norma fa espressamente salvo quanto stabilito dall’articolo 107 che, come già si è avuto modo di osservare, delimita e distingue nettamente l’attività politica da quella di gestione, attribuendo solo ai dirigenti quest’ultima, in cui è espressamente ricompresa, secondo l’esemplificativa normativa, la “responsabilità delle procedure di concorso”, formulazione in cui deve farsi ragionevolmente rientrare, anche per coerenza sistematica, l’eventuale esercizio del potere di autotutela.
A ciò consegue, sotto altro concorrente profilo, che nessun autonomo rilievo può essere attribuito alla previsione contenuta nell’articolo 44 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, approvato con delibera della Giunta comunale n. 640 del 22.11.1999, da ritenersi tacitamente abrogata o comunque inapplicabile per effetto della disposizione contenuta nel quinto comma dell’articolo 107 del più volte citato D.Lgs. n. 267 del 2000, secondo cui “A decorrere dall’entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I, titolo III l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’art. 50, comma 3, e dell’art. 54”.
Ciò senza contare che ad identiche conclusioni del resto si giunge anche disapplicando la predetta norma regolamentare, proprio a causa del suo insanabile contrasto con il disposto legislativo primario, essendo appena il caso di rilevare che la disapplicazione della norma secondaria regolamentare, al fine della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo impugnato, è in questi casi (di macroscopico contrasto con la norma primaria) consentita al giudice amministrativo, a prescindere dall’impugnazione congiunta del regolamento e quindi anche in mancanza di richiesta delle parti (C.d.S., sez. V, 25.09.2006, n. 5625; 11.05.2004, n. 2966; 13.11.2002, n.6293; sez. IV, 14.04.2006, n. 2142; sez. VI, 03.10.2007, n. 5098).
La fondatezza dell’esaminato motivo di gravame, alla cui stregua è da ritenersi pertanto viziato da incompetenza dell’organo che lo ha emanato il provvedimento sindacale prot. n. 2332 del 19.03.2002, nonché la stessa delibera della Giunta comunale n. 64 del 18.03.2002, nella parte in cui autorizza il sindaco ad emettere un provvedimento di autotutela (della determinazione n. 348 del 31.07.2001), determina l’assorbimento degli altri motivi di censura (che attengono al merito della questione e dunque al corretto esercizio del potere di autotutela e che conseguentemente in tale sede non possono essere esaminati).
In conclusione l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado dalla dott. L.C.C. e devono essere annullati sia il provvedimento sindacale prot. n. 2332 del 19.03.2002, sia la stessa delibera della Giunta comunale n. 64 del 18.03.2002, nella parte indicata sub. 5.3 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIOAnche allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo, non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia per l’impossibilità di desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di vincolarsi.
Come ha precisato la giurisprudenza, anche allorquando una concessione di suolo pubblico sia scaduta, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all’occupante (anche ex concessionario), irrilevante a tal fine essendo anche il pagamento delle somme corrispondenti all’originario canone (anche maggiorato), in quanto tali somme valgono solo a compensare l’occupazione sine titulo (C.d.S., sez. V, 27.09.2004, n. 6277), non essendo del resto ammissibile il rinnovo di una concessione per facta concludentia per l’impossibilità di desumere per implicito la volontà dell’amministrazione di vincolarsi (C.d.S., sez. V, 22.11.2005, n. 6489) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICICorrettamente l’approvazione del progetto definitivo e di quello esecutivo del primo lotto dei lavori è avvenuta con deliberazione dell’organo giuntale, non potendo detta approvazione considerarsi un atto di programmazione ed indirizzo come tale appartenente alla competenza dell’organo consiliare, a nulla rilevando la circostanza che le spese per la realizzazione dell’opera impegni più esercizi finanziari.
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Non è vietato ad un ente locale il ricorso per la realizzazione di opere e lavori pubblici alla contrazione di mutui o di altre forme di finanziamento, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, così che è legittima la deliberazione, con la quale venga approvato il progetto esecutivo di un’opera pubblica che comporti la necessità della copertura finanziaria, purché sia effettivamente indicata l’esistenza della copertura con la relativa attestazione da parte del responsabile del servizio finanziario, attestazione che può fare anche riferimento al ricorso all’indebitamento ma previa inclusione della relativa previsione o di apposita variazione nel bilancio dell’esercizio.
Del resto è stato precisato che la prescrizione (contenuta nell’art. 55 della legge 08.06.1990, n. 142) secondo la quale è nulla la deliberazione comunale di spesa priva di attestazioni della copertura finanziaria, deve essere interpretata nel senso che la nullità consegue alla sola carenza della previa attestazione della copertura e non è esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura sussista, ancorché non previamente attestata; peraltro, qualora sia stata effettivamente ed espressamente manifestata l’intenzione di contrarre un mutuo, deve ritenersi che l’obbligo della relativa copertura finanziaria sia stato effettivamente adempiuto.
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E' legittimamente omessa la comunicazione dell’avvio del procedimento per l’emanazione del decreto di occupazione di urgenza, trattandosi di atto di mera attuazione del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che le garanzie procedimentali relative alla partecipazione sono proprie solo di quest’ultimo.

A ciò consegue, sotto altro concorrente profilo, che correttamente l’approvazione del progetto definitivo e di quello esecutivo del primo lotto dei lavori sia avvenuta con deliberazione dell’organo giuntale, non potendo detta approvazione considerarsi un atto di programmazione ed indirizzo come tale appartenente alla competenza dell’organo consiliare (C.d.S., sez. IV, 05.02.1999, n. 110; 27.03.2002, n. 1742; 19.10.2004, n. 6714; 16.04.2006, n. 2992; sez. V, 16.06.2009, n. 3853), a nulla rilevando la circostanza che le spese per la realizzazione dell’opera impegni più esercizi finanziari.
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E’ sufficiente rilevare al riguardo che non è vietato ad un ente locale il ricorso per la realizzazione di opere e lavori pubblici alla contrazione di mutui o di altre forme di finanziamento, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, così che è legittima la deliberazione, con la quale venga approvato il progetto esecutivo di un’opera pubblica che comporti la necessità della copertura finanziaria, purché sia effettivamente indicata l’esistenza della copertura con la relativa attestazione da parte del responsabile del servizio finanziario, attestazione che può fare anche riferimento al ricorso all’indebitamento ma previa inclusione della relativa previsione o di apposita variazione nel bilancio dell’esercizio (C.d.S., sez. V, 16.01.2002, n. 216); del resto è stato precisato che la prescrizione (contenuta nell’art. 55 della legge 08.06.1990, n. 142) secondo la quale è nulla la deliberazione comunale di spesa priva di attestazioni della copertura finanziaria, deve essere interpretata nel senso che la nullità consegue alla sola carenza della previa attestazione della copertura e non è esclusa dal fatto che, in concreto, tale copertura sussista, ancorché non previamente attestata; peraltro, qualora sia stata effettivamente ed espressamente manifestata l’intenzione di contrarre un mutuo, deve ritenersi che l’obbligo della relativa copertura finanziaria sia stato effettivamente adempiuto (C.d.S., sez. sez. IV, 23.03.2000, n. 1561).
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Quanto alle censure sollevate nei confronti della determinazione dirigenziale 02.04.1999, n. 19, e dell’avviso di occupazione 07.04.1999, n. 3244, anche a voler prescindere dalla loro inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che per effetto della nuova delibera n. 539 del 20.05.1999 detti provvedimenti devono considerarsi caducati, esse sono infondate:
- quella di illegittimità derivata, stante l’acclarata legittimità della citata delibera n. 1815 del 19.11.1998;
- quelle concernenti la pretesa violazione delle garanzie partecipative ed il presunto difetto di motivazione, in quanto, secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, è legittimamente omessa la comunicazione dell’avvio del procedimento per l’emanazione del decreto di occupazione di urgenza, trattandosi di atto di mera attuazione del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori, con la conseguenza che le garanzie procedimentali relative alla partecipazione sono proprie solo di quest’ultimo (C.d. S., sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; 31.05.2007, n. 2874).
Né all’avviso di occupazione si sarebbe dovuto allegare, a pena di illegittimità dello stesso, il provvedimento di occupazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri, previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali dall'art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, non costituiscono requisito di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile e il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata costituisce mera irregolarità, ai sensi dell’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l’effettiva esistenza dei pareri medesimi.
Ciò senza contare che è stato anche puntualizzato come l’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, nel prevedere la necessità dei pareri del responsabile del servizio interessato, del responsabile di ragioneria nonché (nel sistema anteriore alla l. 15.05.1997 n. 127) del segretario comunale, non pone alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale dell’iter procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici.

Non può peraltro sottacersi che la giurisprudenza ha già avuto modo di evidenziare che i pareri, previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali dall'art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, non costituiscono requisito di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile (sez. IV, 22.06.2006, n. 3888; 23.04.1998, n. 670) e che il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata costituisce mera irregolarità, ai sensi dell’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l’effettiva esistenza dei pareri medesimi (C.d.S., sez. IV, 11.02.2004, n. 548); ciò senza contare che è stato anche puntualizzato come l’art. 53 l. 08.06.1990 n. 142, nel prevedere la necessità dei pareri del responsabile del servizio interessato, del responsabile di ragioneria nonché (nel sistema anteriore alla l. 15.05.1997 n. 127) del segretario comunale, non pone alcun limite alla potestà deliberante della giunta e del consiglio comunale, che possono liberamente disporre del contenuto delle proposte di deliberazione, dopo che su queste ultime sia stato acquisito, quale elemento formale dell’iter procedimentale, il parere dei predetti organi tecnici (C.d.S., sez. V, 25.05.1998, n. 680) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl provvedimento amministrativo adottato in esecuzione di un'ordinanza cautelare del giudice amministrativo non implica di per sé il ritiro dell'atto impugnato e la cessazione della materia del contendere, avendo una rilevanza solo provvisoria in attesa che la decisione di merito accerti se l'atto (impugnato) sia o meno legittimo: la misura cautelare infatti non determina di norma una radicale consumazione della potestà amministrativa e l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si estende comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla pubblica amministrazione a seguito dell'adozione dell'ordinanza cautelare.
Del resto, benché possa accadere che la nuova attività dell’amministrazione, conseguente in modo diretto ed immediato all'ordine cautelare del giudice amministrativo di riesaminare la vicenda e di provvedervi, possa determinare una fattispecie estintiva della controversia cui la cautela accede, ciò si verifica solo se la pubblica amministrazione emani l'atto richiesto senza riserve e senza condizioni, cioè alla luce di una nuova ed autonoma valutazione della fattispecie, non collegata all'oggetto del giudizio di merito.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il provvedimento amministrativo adottato in esecuzione di un'ordinanza cautelare del giudice amministrativo non implica di per sé il ritiro dell'atto impugnato e la cessazione della materia del contendere, avendo una rilevanza solo provvisoria in attesa che la decisione di merito accerti se l'atto (impugnato) sia o meno legittimo: la misura cautelare infatti non determina di norma una radicale consumazione della potestà amministrativa e l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si estende comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla pubblica amministrazione a seguito dell'adozione dell'ordinanza cautelare (C.d.S., sez. V, 11.04.2013, n. 1970; 16.01.2013, n. 240).
Del resto, benché possa accadere che la nuova attività dell’amministrazione, conseguente in modo diretto ed immediato all'ordine cautelare del giudice amministrativo di riesaminare la vicenda e di provvedervi, possa determinare una fattispecie estintiva della controversia cui la cautela accede, ciò si verifica solo se la pubblica amministrazione emani l'atto richiesto senza riserve e senza condizioni, cioè alla luce di una nuova ed autonoma valutazione della fattispecie, non collegata all'oggetto del giudizio di merito (C.d.S., sez. III, 14.03.2013, n. 1534)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl principio di democraticità del procedimento amministrativo, cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, ed il conseguente rispetto delle garanzie partecipative, devono essere assicurati nella sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che ogni qualvolta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare le proprie osservazioni e deduzioni, che integrano la partecipazione procedimentale, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento.
La comunicazione (di avvio del procedimento) è da ritenersi (addirittura) superflua, riprendendo rilievo i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa, ogni qualvolta l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura, conducono necessariamente all'adozione di provvedimenti obbligati; d’altra parte, ai sensi dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, i vizi procedurali relativi al mancato previo avviso d'inizio del procedimento non possono portare all'annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato ove questo non avrebbe potuto comunque avere un contenuto diverso.

E’ stato affermato che il principio di democraticità del procedimento amministrativo, cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, ed il conseguente rispetto delle garanzie partecipative, devono essere assicurati nella sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che ogni qualvolta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare le proprie osservazioni e deduzioni, che integrano la partecipazione procedimentale, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento (ex multis, C.d.S., sez. IV, 08.01.2013, n. 32); la comunicazione (di avvio del procedimento) è da ritenersi (addirittura) superflua, riprendendo rilievo i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa, ogni qualvolta l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura, conducono necessariamente all'adozione di provvedimenti obbligati (C.d.S., sez. V, 09.04.2013, n. 1950; sez. IV, 20.02.2013, n. 1056); d’altra parte, ai sensi dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, i vizi procedurali relativi al mancato previo avviso d'inizio del procedimento non possono portare all'annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato ove questo non avrebbe potuto comunque avere un contenuto diverso (C.d.S., sez. III, 21.03.2013, n. 1630; sez. IV, 17.09.2012, n. 4925) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di verifica dell’anomalia dell’offerta costituisce jus receptum che:
a) il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
b) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, cosa che rappresenterebbe invece un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione;
c) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione;
d) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono, non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante ovvero la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs. n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni.

In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta costituisce jus receptum che:
a) il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (C.d.S., sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090; 08.07.2008, n. 3406; 29.01.2009, n. 497);
b) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, cosa che rappresenterebbe invece un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (C.d.S., sez. V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
c) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell’amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può intervenire, fermo restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione (C.d.S., sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
d) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono (C.d.S., sez. V, 27.08.2012, n. 4600; sez. V, 16.08.2011, n. 4785; sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI, 02.04.2010, n. 1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n. 3762), non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l’amministrazione appaltante ovvero la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs. n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni (C.d.S., A.P., 29.11.2012, n. 36) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISebbene non possa negarsi in generale che nell’ambito dei fondamentali principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, cui deve ispirarsi l’azione amministrativa anche nei procedimenti di scelta del contraente dei contratti pubblici (sub specie di correttezza, affidamento, trasparenza e parità di trasparenza, ex art. 2 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) rientrino anche quelli di buona fede e collaborazione, principi che, per un verso, impongono innanzitutto alle stazioni appaltanti di privilegiare, nei limiti del possibile, una lettura ed una interpretazione non rigida e formalistica delle regole della lex specialis, onde assicurare la più ampia partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e, per altro verso, si concretizzano in un vero e proprio obbligo per l’amministrazione di cooperare con i concorrenti, invitandoli specialmente a completare la documentazione ovvero a fornire chiarimenti in ordine a certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è altrettanto indiscutibile che il ricordato c.d. dovere di soccorso deve in ogni caso intendersi limitato a consentire la “sanatoria” di difformità e carenze di carattere meramente formale e facilmente riconoscibili, come tali inidonee a violare gli altrettanto fondamentali principi di parità di trattamento dei concorrenti e di non discriminazione, non potendo pertanto con esso supplirsi a sostanziali carenze dell’offerta presentata, integrandola o rielaborandola, così superando decadenze o situazioni di inammissibilità già verificatesi.
Sebbene, infatti, non possa negarsi in generale che nell’ambito dei fondamentali principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, cui deve ispirarsi l’azione amministrativa anche nei procedimenti di scelta del contraente dei contratti pubblici (sub specie di correttezza, affidamento, trasparenza e parità di trasparenza, ex art. 2 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) rientrino anche quelli di buona fede e collaborazione, principi che, per un verso, impongono innanzitutto alle stazioni appaltanti di privilegiare, nei limiti del possibile, una lettura ed una interpretazione non rigida e formalistica delle regole della lex specialis, onde assicurare la più ampia partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e, per altro verso, si concretizzano in un vero e proprio obbligo per l’amministrazione di cooperare con i concorrenti, invitandoli specialmente a completare la documentazione ovvero a fornire chiarimenti in ordine a certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è altrettanto indiscutibile che il ricordato c.d. dovere di soccorso deve in ogni caso intendersi limitato a consentire la “sanatoria” di difformità e carenze di carattere meramente formale e facilmente riconoscibili, come tali inidonee a violare gli altrettanto fondamentali principi di parità di trattamento dei concorrenti e di non discriminazione (C.d.S., sez. VI, 13.02.2013, n. 889; sez. V, 23.10.2012, n. 5408; 30.08.2012, n. 4654; 31.03.2012, n. 1896), non potendo pertanto con esso supplirsi a sostanziali carenze dell’offerta presentata, integrandola o rielaborandola, così superando decadenze o situazioni di inammissibilità già verificatesi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’asservimento, inteso come fattispecie negoziale atipica ad effetti obbligatori in base al quale un’area viene destinata a servire al computo di edificabilità di un altro fondo, dà vita ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente indipendentemente da quando questo asservimento è stato posto in essere.
L’asservimento, inteso come fattispecie negoziale atipica ad effetti obbligatori in base al quale un’area viene destinata a servire al computo di edificabilità di un altro fondo, dà vita ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente indipendentemente da quando questo asservimento è stato posto in essere (Cons. Stato, adunanza plenaria 23.04.2009, n. 3) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.09.2013 n. 4757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività completamente liberalizzata cui si correla un potere di controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Si distingue, pertanto, fra potere inibitorio, esercitabile nel breve termine previsto dalla legge, decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il quale presuppone unicamente il mero accertamento della non compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e potere di “autotutela” che può essere invece esercitato senza limiti temporali prestabiliti (e che presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutela” sui generis in quanto, come detto, non incidente su un precedente provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio presuppone:
a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990;
B) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo ante, e interesse del privato, teso invece a conservare l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque attivabile al mero fine di ripristinare la legalità violata).
Queste regole, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale ed oggi codificate nell’art. 21-nonies, primo comma, della legge 07.08.1990 n. 241, hanno la finalità di tutelare l’affidamento ingenerato nel destinatario del titolo il quale, confidando nella legittimità di quest’ultimo, vi abbia in buona fede dato esecuzione.

Dopo iniziali incertezze, è ormai opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo la quale la denuncia di inizio attività, in quanto mero atto del privato, non costituisce titolo amministrativo: l’attività edilizia, realizzabile a seguito di denuncia, è attività completamente liberalizzata cui si correla un potere di controllo dell’Amministrazione, la quale può intervenire per inibirla o rimuoverne gli effetti qualora accerti il suo contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. 29.07.2011 n. 15).
Si distingue, pertanto, fra potere inibitorio, esercitabile nel breve termine previsto dalla legge, decorrente dal momento di presentazione della denunzia (il quale presuppone unicamente il mero accertamento della non compatibilità urbanistico–edilizia dell’intervento), e potere di “autotutela” che può essere invece esercitato senza limiti temporali prestabiliti (e che, come vedremo, presuppone accertamenti più complessi).
Si tratta in realtà di un potere di “autotutelasui generis in quanto, come detto, non incidente su un precedente provvedimento amministrativo. Tale potere tuttavia condivide con il classico potere di autotutela le regole di disciplina sostanziali e procedurali; sicché il suo esercizio presuppone:
a) l’avvio di un nuovo procedimento e, di conseguenza, la comunicazione agli interessati dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990;
B) lo svolgimento di un’attività di comparazione fra interesse pubblico, volto alla ripristino dello status quo ante, e interesse del privato, teso invece a conservare l’intervento, al fine di stabilire se effettivamente il primo prevalga sul secondo (il potere non è dunque attivabile al mero fine di ripristinare la legalità violata).
Queste regole, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale ed oggi codificate nell’art. 21-nonies, primo comma, della legge 07.08.1990 n. 241, hanno la finalità di tutelare l’affidamento ingenerato nel destinatario del titolo il quale, confidando nella legittimità di quest’ultimo, vi abbia in buona fede dato esecuzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2013 n. 2213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di sanatoria (nel caso di specie, ex art. 32 d.l. n. 269/2003), per un’opera edilizia già oggetto di provvedimento sanzionatorio, determina l'improcedibilità del gravame proposto nei confronti di quest’ultimo, in quanto il ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che —all'esito del procedimento di sanatoria— dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
... per l'annullamento:
> quanto al ricorso introduttivo: - dell’ordinanza n. 2830 del 30.06.2003 con cui il Comune di Livigno ha ingiunto alla ricorrente di demolire la tettoia in profilati metallici, con copertura in telo di p.v.c., a pianta rettangolare, delle dimensioni di circa 25 metri per 8 metri, con falda unica inclinata ed altezza variabile dai 3 ai 4 metri, realizzata sul terreno accatastato ai mappali nn. 528, 529 e 530, foglio 20 del Comune citato; e con richiesta di risarcimento del danno ex art. 35 co. 1 d.lgs. n. 80/19978;
> quanto ai motivi aggiunti: - per l’annullamento del provvedimento di rigetto della domanda di condono emesso il 05.06.2008.
...
Iniziando dal ricorso introduttivo va rammentato che, per diffuso orientamento giurisprudenziale, cui la Sezione aderisce, la presentazione di un'istanza di sanatoria (nel caso di specie, ex art. 32 d.l. n. 269/2003), per un’opera edilizia già oggetto di provvedimento sanzionatorio, determina l'improcedibilità del gravame proposto nei confronti di quest’ultimo, in quanto il ricorrente non può avere alcun interesse a coltivare un gravame concernente misure che —all'esito del procedimento di sanatoria— dovranno essere sostituite con un nuovo provvedimento sanzionatorio ovvero dal titolo edilizio rilasciato in sanatoria (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2833; TAR Lombardia, Milano, II, 08/02/2012, n. 441) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per individuare la natura precaria di un'opera si deve seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo ma, se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano, per tale via, nella nozione giuridica di “costruzione” per la quale occorre munirsi di idoneo titolo edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi al suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all'aperto, ove comportanti l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Concludendo sul punto, va ribadito che, la natura "precaria" di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.

La giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, Sent., 27.03.2013, n. 1776; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.06.2013, n.1460; id., Sez. IV, Sent., 08.04.2011, n. 930) è concorde nel ritenere che, per individuare la natura precaria di un'opera, si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma, se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie.
Rientrano, per tale via, nella nozione giuridica di “costruzione” per la quale occorre munirsi di idoneo titolo edilizio, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi al suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, come impianti per attività produttive all'aperto, ove comportanti l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
Concludendo sul punto, va ribadito che, la natura "precaria" di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi all'intrinseca destinazione materiale di essa a un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Nel caso di specie, vista anche la documentazione fotografica versata in atti da parte resistente, non può dirsi affatto provata la precarietà dell’opera in contestazione, trattandosi di un manufatto destinato a realizzare una trasformazione permanente del suolo inedificato, in assenza di titolo edilizio e in violazione della destinazione urbanistica di zona.
Su quest’ultimo aspetto, giova precisare come, contrariamente a quanto sostenuto dall’esponente, la precedente autorizzazione in sanatoria datata 16.12.2002 fosse stata rilasciata sull’unico presupposto, poi rivelatosi erroneo, che la costruzione della tettoia servisse al ricovero, per un periodo limitato di quattro mesi, di attrezzature elettromeccaniche per la sagomatura del ferro, da utilizzare nei cantieri edili.
Sennonché, la struttura in esame, che presenta un impatto visivo ed una consistenza che vanno ben oltre i limiti propri di una pertinenza, si trova tutt’ora localizzata, dopo oltre un decennio, nella medesima postazione in cui si trovava all’epoca della predetta autorizzazione temporanea.
Ne consegue che, diversamente da quanto osservato in sede di cognizione sommaria del gravame, il Collegio deve escludere la riconducibilità dell’opera di cui trattasi fra quelle soggette ad autorizzazione, essendo la stessa sussumibile nella nozione di “nuova costruzione”, subordinata, in quanto tale, a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, non solo non incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe legittimare.
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La mancata o inesatta indicazione dell’area di sedime da acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione, secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo ed autonomo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
Il contenuto essenziale dell'ingiunzione di demolizione va, pertanto, individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive, sicché, ai fini della legittimità dell'atto in parola, è necessaria e sufficiente l'analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente.

Anche il terzo motivo segue la medesima sorte dei precedenti, atteso che l’ordinanza chiariva in modo non equivoco quali fossero i presupposti della disposta demolizione, richiamando sia il contenuto pregnante dell’autorizzazione in sanatoria, ormai scaduta, sia le caratteristiche dell’opera, con specifico riguardo alle sue dimensioni, che, infine, il carattere vincolato dell’area di ubicazione.
Ciò, senza trascurare che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione delle opere abusivamente realizzate, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, non solo non incolpevole, ma che il decorso del tempo giammai potrebbe legittimare (cfr., ex multis, Consiglio Stato, V Sezione, 11.01.2011, n. 79; Consiglio Stato, IV Sezione, 31.08.2010 n. 3955; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, Sent. 24.07.2013, n. 3851; TAR Campania, Napoli, VII Sezione, 14.01.2011, n. 160).
Risulta infondato anche l’ultimo motivo del ricorso introduttivo, poiché la mancata o inesatta indicazione dell’area di sedime da acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione, secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo ed autonomo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (cfr. Consiglio di Stato, IV Sezione, 26.09.2008, n. 4659; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, Sent. 24.07.2013, n. 3851; id., 04.04.2012 n. 1601; TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent., 02.05.2012, n. 757; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 28.07.2011, n. 1461; 24.03.2011, n. 518 e 09.12.2010, n. 2809; nello stesso senso, TAR Piemonte, Torino, sez. I, 24.03.2010, n. 1577).
Il contenuto essenziale dell'ingiunzione di demolizione va, pertanto, individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive, sicché, ai fini della legittimità dell'atto in parola, è necessaria e sufficiente l'analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente (TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent., 02.05.2012, n. 757; TAR Lazio Roma, sez. I, 09.02.2010, n. 1785).
Nel caso di specie, nel provvedimento di demolizione l’opera da rimuovere è stata adeguatamente individuata, sia per ubicazione, sia per consistenza, senza trascurare che l'univoco riferimento all'esistenza di un’autorizzazione temporanea a suo tempo richiesta dallo stesso istante pone il medesimo destinatario nelle condizioni di non avere dubbi di sorta né sull'oggetto dell'ingiunzione, né sulle conseguenze di un'eventuale inottemperanza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Qualora si controverte sulla legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’“inattaccabilità” anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni.
L’ultimo motivo, infine, risulta inammissibile per difetto di interesse prima ancora che infondato, atteso che, qualora si controverte sulla legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’“inattaccabilità” anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni (cfr. Consiglio di Stato IV, 02.11.2009, n. 6784; id., 06.11.2008, n.5503) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2013 n. 2210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non sussiste un onere probatorio in capo al Comune in ordine alla circostanza dello smarrimento di pratiche edilizie oggetto di richiesta di accesso.
Invero, l’attestazione del pubblico ufficiale è più che sufficiente a documentare il mancato rinvenimento e le vane ricerche, sino a querela di falso.

La dott.ssa G., proprietaria di un immobile adibito a sede della propria attività professionale di Notaio, nel Comune di Campagna, loc. Quadrivio, via S.S. 91, civico 377, chiedeva al Comune di Campagnia il rilascio di copia degli atti abilitativi edilizi, relativi, sia al fabbricato ove insisteva la sua proprietà (concessione 683/1975 e successiva variante 740/1975), sia ad un nuovo edificio adibito ad attività commerciali, realizzato nello spazio retrostante il fabbricato, già utilizzato quale parcheggio dai proprietari di quest’ultimo nonché dai dipendenti e dai clienti dello studio notarile.
Il Comune rimaneva silente, sicché la dott.ssa G. proponeva ricorso al TAR Campania.
Nel giudizio di costituiva l’amministrazione deducendo l’impossibilità (innanzi già comunicata in via amministrativa) di reperire la pratica edilizia del ’75, andata distrutta insieme a parte degli archivi a seguito del sisma del 1980. Nulla deduceva in ordine all’ulteriore e diverso titolo abilitativo riguardante il nuovo edificio commerciale assentito in epoca molto più recente.
Il TAR dichiarava il ricorso inammissibile, ritenendo non ostensibile il documento non materialmente detenuto dall’amministrazione (salvo il dovere di ricostruzione del fascicolo, tuttavia esulante dal contenuto specifico dell’obbligo di accesso). Quanto all’ulteriore titolo abilitativo concernente l’edificio commerciale, il TAR perveniva alle medesime conclusioni in punto di inammissibilità, questa volta in ragione della genericità della domanda (mancanza degli estremi dell’atto o di indicazione del periodo).
...
L’appello è solo in parte fondato.
Non può in particolare essere condivisa la censura a mezzo della quale si individua un onere probatorio in capo al Comune in ordine alla circostanza dello smarrimento ed alle relative cause. L’attestazione del pubblico ufficiale è più che sufficiente a documentare il mancato rinvenimento e le vane ricerche, sino a querela di falso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.09.2013 n. 4696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata, avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua realizzazione (è stato affermato, per esempio, che ai fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello stesso senso, è stata annullata la sentenza impugnata che aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni frontistanti.

Tanto premesso, reputa il Collegio come la tesi del Comune, per cui le costruzioni seminterrate poste ai lati ovest ed est dell’intervento in esame non possono rilevare alla stregua di costruzioni o muri di fabbrica, ai fini della costruzione in aderenza ad esse, non possa essere condivisa.
Come correttamente rilevato dall’esponente, ai fini dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata, avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua realizzazione (cfr. così Cass. Sez. II, sent. n. 10608 del 05.11.1990; analogamente, cfr. Cass. S.U., sent. n. 7067 del 09.06.1992, per cui, ai fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello stesso senso, cfr. la sentenza della Cass. Sez. II, n. 12489 del 04.12.1995, citata nelle difese di parte ricorrente, ove la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni frontistanti (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 2343 del 01.03.1995) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La deliberazione del Consiglio Comunale che fissa gli oneri concessori (ai sensi dell’art. 16 del DPR 380/2001) è un atto autoritativo, da impugnarsi nell’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, stante la previsione degli articoli 29 e 41 del D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo amministrativo”).
Tale termine decorre, nel caso di atti a contenuto generale quali le delibere consiliari di aggiornamento degli oneri di urbanizzazione, dalla scadenza del termine di pubblicazione della delibera, ai sensi del già citato art. 41, comma 2°, del D.Lgs. 104/2010.

Al riguardo, il Collegio, ad un più approfondito esame rispetto a quanto rilevato in sede di cognizione sommaria, non può che condividere la tesi fatta propria da parte resistente.
In effetti, è indubbio che i due motivi articolati con l’odierno ricorso si appuntino proprio sulla delibera n. 23/2002, per la quale (come già evidenziato nella sentenza n. 2080/2012, pronunciata dalla Sezione in un caso analogo a quello all’odierno esame), deve trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale, ribadito anche di recente dal Supremo giudice amministrativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28.05.2012, n. 3122 e 03.05.2006, n. 2463), secondo cui la deliberazione del Consiglio Comunale che fissa gli oneri concessori (ai sensi dell’art. 16 del DPR 380/2001) è un atto autoritativo, da impugnarsi nell’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, stante la previsione degli articoli 29 e 41 del D.Lgs. 104/2010 (“Codice del processo amministrativo”).
Tale termine decorre, nel caso di atti a contenuto generale quali le delibere consiliari di aggiornamento degli oneri di urbanizzazione, dalla scadenza del termine di pubblicazione della delibera, ai sensi del già citato art. 41, comma 2°, del D.Lgs. 104/2010 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al di fuori dei casi tassativamente previsti (cfr. in tema di misure di salvaguardia ad esempio l’art. 12 DPR n. 380 del 2001), l'ordinamento non attribuisce all'amministrazione comunale il potere di sospendere l'esame delle pratiche edilizie, comprimendo sine die lo jus aedificandi dei privati.
Il motivo è fondato.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, a cui si ritiene di dover aderire, al di fuori dei casi tassativamente previsti (cfr. in tema di misure di salvaguardia ad esempio l’art. 12 DPR n. 380 del 2001), l'ordinamento non attribuisce all'amministrazione comunale il potere di sospendere l'esame delle pratiche edilizie, comprimendo sine die lo jus aedificandi dei privati.
L'atto impugnato si pone dunque in contrasto con l'art. 2 della legge n. 241/1990 -che impone all'amministrazione l'obbligo di concludere il procedimento, iniziato di ufficio o su istanza di parte, con atto espresso e motivato- e con l'art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 -che fissa i termini per la definizione delle domande di permesso di costruire- nonché con i sottesi principi generali di certezza giuridica, indefettibilità, speditezza e continuità della funzione pubblica.
Inoltre per l’esame della pratica edilizia il comune deve riferirsi, e provvedere di conseguenza, alla vigente normativa urbanistico-edilizia, dovendo ritenersi ultronea l’acquisizione di un parere regionale, non richiesto dalla vigente disciplina.
Ne consegue l'illegittimità dell'arresto procedimentale determinatosi per effetto dell'atipica misura soprassessoria opposta dall'ente con la nota impugnata del 29.08.2012 che in tal modo ha attuato un differimento, a tempo indeterminato, dell'esame dell'istanza del privato (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.09.2013 n. 1944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve ritenersi inapplicabile l'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti diretti ad ottenere l'accesso ad atti, poiché il procedimento di accesso realizza un interesse meramente partecipativo, strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, che non si concilia con la previsione di una ulteriore fase subprocedimentale.
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Il diritto di accesso può essere riconosciuto nei limiti di cui al disposto dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990 secondo cui per soggetti “interessati” si intendono coloro i quali vantino un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, essendo in ogni caso inammissibile l’istanza di accesso preordinata “ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, comma 3, L. n. 241/1990).
L’accesso informativo, quindi, è riconosciuto nei limiti di un interesse personale e diretto della parte richiedente, laddove anche l’esigenza connessa all’esercizio del diritto di difesa se, da un lato, può condurre ad attribuire prevalenza -nella logica del bilanciamento dei contrapposti interessi- alle ragioni ostensive rispetto a quelle della riservatezza, del segreto commerciale ovvero delle strategie imprenditoriali, dall’altro, non può in ogni caso superare il necessario presupposto della specifica connessione tra gli atti di cui si ipotizza la rilevanza ai fini difensivi e quelli della procedura rispetto alla quale deve svolgersi l’esercizio del diritto di difesa; tale dimostrazione, peraltro, deve essere fornita deducendo fatti ed elementi di valutazione che, allo stato della procedura da cui scaturisca l’astratta esigenza difensiva appaiano oggettivamente connessi ai documenti da ostendere.
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Se è ben possibile che documenti afferenti al procedimento che vede personalmente coinvolta una società possano legittimamente essere sottratti all’accesso quando non siano indispensabili per la sua difesa -ad esempio in quanto non utilizzati dall’Autorità per la formulazione dei relativi addebiti- a fortiori deve essere esclusa la rilevanza delle pretese ostensive ove queste abbiano ad oggetto atti contenuti non nel fascicolo del procedimento condotto nei confronti della società istante, bensì in fascicolo diverso, relativo ad un distinto procedimento condotto contro altra impresa per fatti solo asseritamente indicati quali simili a quelli oggetto della sanzione nei confronti della società istante.
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Un interesse del tutto eterogeneo rispetto all’oggetto dell’attività amministrativa posta in essere dall’Autorità, infatti, non può ritenersi un interesse giuridico ai sensi dell’art. 24, co. 7, L. 241/1990 in quanto totalmente estraneo alle finalità, non solo di carattere partecipativo, ma anche di imparzialità e trasparenza dell’attività amministrativa, cui sono preordinate le norme sull’accesso ai documenti dell’amministrazione.
Diversamente opinando, d’altra parte, si perverrebbe alla paradossale conclusione che ogni Pubblica Amministrazione potrebbe essere destinataria di richieste di accesso indiscriminate, per il solo fatto di formare o detenere stabilmente documenti, anche da parte di soggetti che perseguono un interesse completamente estraneo agli interessi, siano essi pubblici o privati, coinvolti dall’azione amministrativa e, quindi, per fini totalmente diversi da quelli per i quali l’accesso agli atti è stato legislativamente previsto.
La stessa definizione di “interessati” di cui all’art. 22 L. 241/1990, secondo cui interessati sono tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso, in coerenza con la complessiva normativa in materia, va intesa nel senso di interesse collegato all’attività amministrativa cui inerisce il documento di cui è chiesta l’ostensione.
In definitiva, in ragione della ratio del corpus normativo in materia, gli interessi giuridici considerati dall’art. 24, co. 7, L. 241/1990 devono ritenersi quelli e solo quelli coinvolti dall’azione amministrativa in relazione alla quale la richiesta di accesso, ancorché successivamente alla conclusione del procedimento, sia stata avanzata.

Come costantemente affermato da questo Tribunale, in base al dato sistematico, deve ritenersi inapplicabile l'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti diretti ad ottenere l'accesso ad atti, poiché il procedimento di accesso realizza un interesse meramente partecipativo, strumentale alla soddisfazione di un interesse primario, che non si concilia con la previsione di una ulteriore fase subprocedimentale (TAR Lazio Roma, sez. I, n. 13562/2005; sez. II, n. 71/2008; Sez. III, n. 30/2012).
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Rileva il Collegio come il diritto di accesso può essere riconosciuto nei limiti di cui al disposto dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990 secondo cui per soggetti “interessati” si intendono coloro i quali vantino un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, essendo in ogni caso inammissibile l’istanza di accesso preordinata “ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, comma 3, L. n. 241/1990).
L’accesso informativo, quindi, è riconosciuto nei limiti di un interesse personale e diretto della parte richiedente, laddove anche l’esigenza connessa all’esercizio del diritto di difesa se, da un lato, può condurre ad attribuire prevalenza -nella logica del bilanciamento dei contrapposti interessi- alle ragioni ostensive rispetto a quelle della riservatezza, del segreto commerciale ovvero delle strategie imprenditoriali, dall’altro, non può in ogni caso superare il necessario presupposto della specifica connessione tra gli atti di cui si ipotizza la rilevanza ai fini difensivi e quelli della procedura rispetto alla quale deve svolgersi l’esercizio del diritto di difesa; tale dimostrazione, peraltro, deve essere fornita deducendo fatti ed elementi di valutazione che, allo stato della procedura da cui scaturisca l’astratta esigenza difensiva appaiano oggettivamente connessi ai documenti da ostendere (Cfr. Cons. Stato, 15.03.2013, n. 1568).
Alla luce di tali principi, se è ben possibile che documenti afferenti al procedimento che vede personalmente coinvolta una società possano legittimamente essere sottratti all’accesso quando non siano indispensabili per la sua difesa -ad esempio in quanto non utilizzati dall’Autorità per la formulazione dei relativi addebiti- a fortiori deve essere esclusa la rilevanza delle pretese ostensive ove queste abbiano ad oggetto atti contenuti non nel fascicolo del procedimento condotto nei confronti della società istante, bensì in fascicolo diverso, relativo ad un distinto procedimento condotto contro altra impresa per fatti solo asseritamente indicati quali simili a quelli oggetto della sanzione nei confronti della società istante.
Tali presupposti, fanno si che non possa riconoscersi sussistente in capo alla ricorrente quell'“interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, anche nel nuovo testo conseguente alle modifiche operate dalla l n. 15/05 e coerentemente a quanto statuito dall'art. 2 d.P.R. n. 352/1992 (che richiede un "interesse personale e concreto"), prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
Sotto tale profilo, infatti, l’interesse giuridico al quale fa riferimento l’art. 24, la cui tutela determina la garanzia dell’accesso ai documenti, non può essere individuato in un qualunque interesse giuridicamente rilevante vantato da un qualsiasi soggetto dell’ordinamento, ma deve essere un interesse attinente all’azione amministrativa in relazione alla quale l’istanza di accesso è presentata.
Un interesse del tutto eterogeneo rispetto all’oggetto dell’attività amministrativa posta in essere dall’Autorità, infatti, non può ritenersi un interesse giuridico ai sensi dell’art. 24, co. 7, L. 241/1990 in quanto totalmente estraneo alle finalità, non solo di carattere partecipativo, ma anche di imparzialità e trasparenza dell’attività amministrativa, cui sono preordinate le norme sull’accesso ai documenti dell’amministrazione.
Diversamente opinando, d’altra parte, si perverrebbe alla paradossale conclusione che ogni Pubblica Amministrazione potrebbe essere destinataria di richieste di accesso indiscriminate, per il solo fatto di formare o detenere stabilmente documenti, anche da parte di soggetti che perseguono un interesse completamente estraneo agli interessi, siano essi pubblici o privati, coinvolti dall’azione amministrativa e, quindi, per fini totalmente diversi da quelli per i quali l’accesso agli atti è stato legislativamente previsto.
La stessa definizione di “interessati” di cui all’art. 22 L. 241/1990, secondo cui interessati sono tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso, in coerenza con la complessiva normativa in materia, va intesa nel senso di interesse collegato all’attività amministrativa cui inerisce il documento di cui è chiesta l’ostensione.
In definitiva, in ragione della ratio del corpus normativo in materia, gli interessi giuridici considerati dall’art. 24, co. 7, L. 241/1990 devono ritenersi quelli e solo quelli coinvolti dall’azione amministrativa in relazione alla quale la richiesta di accesso, ancorché successivamente alla conclusione del procedimento, sia stata avanzata
(TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 17.09.2013 n. 8309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Revoca dell'aggiudicazione per chi non rispetti la clausola sociale.
Nel caso in cui il bando di gara preveda espressamente l'obbligo per l'aggiudicataria di assunzione del personale già dipendente dell'impresa uscente, garantendo le medesime condizioni giuridico-economiche, è legittimo il provvedimento con cui la stazione appaltante abbia revocato in autotutela l'aggiudicazione per il venir meno del rapporto fiduciario con il contraente, in considerazione del fatto che l'impresa esecutrice dell'appalto aveva applicato nei confronti dei suddetti lavoratori condizioni economiche deteriori rispetto a quelle in godimento alle dipendenze della precedente ditta.

Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 10.09.2013 n. 4216, posto che l’art. 21-quinquies, L. n. 241/1990 non indica ipotesi tipizzate per l’esercizio del potere di autotutela che, anzi, trova fondamento negli stessi principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost., ha ravvisato la legittimità di un provvedimento di revoca di una aggiudicazione in favore di una società che non ha garantito ai dipendenti della ditta uscente l’assorbimento in servizio alle medesime condizioni contrattuali in corso –obbligo espressamente previsto dal bando: in tale evenienza, infatti, il provvedimento si giustifica con la grave compromissione del rapporto fiduciario tra la P.A. e l’aggiudicataria dovuta al mancato rispetto delle fondamentali garanzie poste a tutela dei lavoratori.
Analisi del caso
La ricorrente, aggiudicataria del servizio di pulizia di alcuni locali e impianti di proprietà di un Comune, avendo iniziato l’esecuzione in via d’urgenza del medesimo servizio, in assenza della previa stipulazione del contratto, era stata diffidata dalla civica P.A. ad assumere tutto il personale della ditta uscente, alle stesse condizioni già praticate, nel rispetto delle disposizione del capitolato speciale d’appalto.
In assenza di riscontro positivo alla specifica richiesta –imposta, in ogni caso, dalla lex specialis di gara– l’Amministrazione aveva provveduto alla revoca e annullamento in autotutela dell’aggiudicazione definitiva, con risoluzione del rapporto in essere, liquidato ogni compenso per l’attività comunque svolta, e aveva disposto il conseguente affidamento del servizio in favore dell’impresa seguente in graduatoria.
L’originaria aggiudicataria ha, così, adito il Collegio di Napoli per l’annullamento del provvedimento di revoca, per la declaratoria d’inefficacia del contratto stipulato con l’attuale ditta esecutrice del servizio e per la condanna della stazione appaltante al risarcimento del danno, censurando l’operato della P.A. per la violazione dell’art. 7, L. n. 241/1990, per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, per eccesso di potere per travisamento dei fatti posti a fondamento della revoca, nonché difetto di istruttorie e motivazione, atteso che tutti i dipendenti della precedente ditta sarebbero stati assunti e che la disparità di condizioni rispetto a quelle in godimento non sarebbe dipesa dalla volontà della stessa aggiudicataria, e comunque risulterebbe consentita dall’art. 4, lett. b), del C.C.N.L. del settore, trattandosi di appalto affidato a condizioni diverse dalle precedenti.
Si è costituito il Comune resistente che ha ribadito come l’aggiudicataria non avesse rispettato la c.d. “clausola sociale” in quanto aveva assunto i dipendenti dell’impresa uscente solo con orario di lavoro a tempo settimanale ridotto e che, per tale ragione, si era tenuto un incontro presso la Direzione territoriale del lavoro e risultava pendente un ricorso, con esito interinale cautelare favorevole, avverso la medesima aggiudicazione, poi revocata, presentato dalla concorrente seconda in graduatoria, esecutrice del servizio: in relazione a quest’ultima circostanza, la P.A. sollevava eccezione di inammissibilità del ricorso.
La soluzione
Il giudicante, prima di ogni altra considerazione, ha disatteso l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dalla civica P.A., evidenziando come quel giudizio si fosse ormai concluso con una decisione in rito di improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse e che, in ogni caso, la sola pendenza di un processo impugnatorio non sarebbe di per sé idonea a scalfire l’interesse dell’attuale ricorrente a conseguire l’annullamento del provvedimento di revoca, l’aggiudicazione e il risarcimento del danno.
Nel merito, il TAR ha confutato il primo motivo di ricorso, precisando che la partecipazione dell’interessata al procedimento è stata comunque garantita avendo la ricorrente partecipato all’incontro presso la locale D.T.L. e presentato le proprie giustificazioni a seguito del ricevimento della nota di diffida ad assumere tutto il personale già dipendente della impresa uscente – nota prodromica all’adozione della revoca dell’aggiudicazione: ha fatto, così, applicazione del principio del “raggiungimento dello scopo” recepito dall’art. 21-octies, L. n. 241/1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02.11.2011, n. 7732).
Con riferimento agli ulteriori due motivi di gravame, poi, ha osservato come la norma dell’art. 4 del C.C.N.L. relativo ai servizi di pulizia integrati e multi servizi, non consentisse affatto la possibilità di derogare all’obbligo imposto dal capitolato speciale d’appalto di rispettare la c.d. “clausola sociale”, ma, al contrario, ordinava la convocazione dell’impresa aggiudicataria al fine di armonizzare le mutate condizioni dell’appalto con le esigenze di tutela dei lavoratori: a questo precipuo scopo, ha confermato il G.A., era stato indetto l’incontro presso la D.T.L. da cui era, però, emerso l’inadempimento da parte della ricorrente alle prescrizioni del bando, tale da giustificare l’esercizio del diritto di autotutela da parte della P.A..
Al riguardo, ha osservato la Sezione, in materia di appalti pubblici, anche dopo l’intervento dell’aggiudicazione definitiva, non è precluso alla stazione appaltante di revocare l’aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse pubblico, individuato in concreto, qual è, nel caso di specie, quello della tutela dei lavoratori (Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 11.07.2012, n. 4116), il cui mancato rispetto ha determinato un giudizio negativo della P.A. sulla capacità di gestione del servizio e sull’affidabilità dell’impresa, con il venir meno di quel necessario rapporto fiduciario, a base della normativa sui contratti pubblici e che deve esistere e persistere per tutta la durata dell’appalto.
Il Collegio ha, così, ritenuto idonee le motivazioni addotte dall’Amministrazione resistente a sostegno del provvedimento di revoca, rigettando il ricorso, anche nella parte della domanda risarcitoria.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
In riferimento ad analoghe questioni, la giurisprudenza si è sempre orientata nel senso di realizzare il principio costituzionale della “funzione sociale” dell’impresa, riconoscendo alla clausola sociale nei contratti pubblici la funzione di preservare il livello occupazionale in atto, costituendo essa una vera e propria “modalità di esecuzione del servizio”, non già un requisito di partecipazione richiesto ai concorrenti (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 06.08.2013, n. 19; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 05.12.2011, n. 9570; Trib. Salerno, Sez. I, 05.10.2007).
La decisione segnalata, dunque, si pone in termini di assoluta continuità con l’indirizzo unanimemente seguito dalla giurisprudenza e indica alle stazioni appaltanti la “via maestra” per un adeguato contemperamento degli interessi imprenditoriali e sociali; ove l’Amministrazione rilevi situazioni in cui l’esecuzione del servizio in violazione della clausola sociale -nella ridetta accezione delineata dall’Adunanza plenaria– potrà sempre adottare le proprie determinazioni a seguito della valutazione, altamente discrezionale e sindacabile solo in sede di legittimità per manifesta illogicità, della persistenza, o meno, dei requisiti di moralità professionale in capo alla ditta risultata aggiudicataria (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.12.2005, n. 7580), scongiurando, però, ed è questo l’auspicio, il rischio di rimettere alla P.A. il potere di scelta del contraente in elusione delle procedure di gara, facendo leva proprio sulla natura “fiduciaria”, indefinita, se non per tratti soffusi, del rapporto d’appalto (tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere parzialmente difformi dal permesso di costruire: come si calcola la sanzione?
Alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire si applica una sanzione pecuniaria nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità. In caso di abusi su immobili non aventi destinazione residenziale, la determinazione del valore venale, ai fini della quantificazione della sanzione pecuniaria, deve avere ad oggetto l’intero manufatto interessato dall’abuso e non soltanto la parte dell’opera realizzata in difformità (come invece per gli immobili adibiti ad uso residenziale).

Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono soggetti a demolizione, salvo il caso in cui risulti che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
In quest’ultima ipotesi si applica una sanzione pecuniaria “pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale” (art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001)
Nel caso in questione è contestata l’entità della sanzione pecuniaria comminata per la difformità al permesso di costruire di un capannone industriale.
In particolare, la sanzione sarebbe stata calcolata computando tutta l’area del capannone e non solo quella contrastante con lo strumento urbanistico.
Il TAR milanese ha ritenuto legittima la quantificazione della sanzione indicando che in caso di abusi su immobili non aventi destinazione residenziale, quale quello in esame, la determinazione della sanzione pecuniaria deve avvenire avendo riguardo non soltanto alle parti ritenute abusive ma alla superficie complessiva dell'edificio dove gli abusi sono stati realizzati
Ciò in base ad una un'applicazione della disciplina contenuta nel testo unico dell'edilizia connotata da criteri di razionalità e, soprattutto, aderente alla ratio sanzionatoria espressa dalla normativa primaria e regionale.
Dal testo del riportato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 si evince che l'elemento su cui si applica la sanzione e a cui fa riferimento il legislatore non è limitato al solo segmento spaziale modificato, atteso che la norma non si riferisce alla modificazione planivolumetrica, ma si riferisce ai diversi concetti di opere o interventi, con palese riferimento alle tipologie edilizie previste nello stesso d.P.R. n. 380/2001 all'art. 3.
È, pertanto, corretto riferire la nozione di parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso ad un ambito diverso, ossia all'intero manufatto, separatamente individuabile all'interno dell'intervento dove gli abusi insistono, e che da questi ultimi è inciso e modificato, e non al solo incremento dimensionale determinatosi.
La determinazione del valore venale deve quindi avere ad oggetto l’intero manufatto interessato dall’abuso e non soltanto la parte dell’opera realizzata in difformità (com’è, invece, per gli immobili adibiti ad uso residenziale).
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LA DECISIONE IN SINTESI
Esito
Accoglie il ricorso
Precedenti giurisprudenziali
Cons. di Stato, Sez. IV, Sent. 30.07.2012 n. 4304
Riferimenti normativi
Artt. 3 e 9, lett. f), della legge 28.01.1977 n. 10 (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2013 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ammettersi il risarcimento dell'interesse pretensivo all'ottenimento di permesso di costruire la cui lesione sia stata cagionata dal duplice diniego illegittimamente opposto dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina paesaggistica dalla quale scaturisca l'impossibilità di realizzare detto intervento edilizio.
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L'esame della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo, interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’articolazione di argomentazioni logiche che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non", e cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali.
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Il danno subìto in seguito ad illegittimo diniego di concessione edilizia può essere determinato in via equitativa sulla scorta della differenza del valore che l'area di proprietà degli appellanti aveva al momento del progetto di diniego ed al momento della delibera di approvazione del nuovo piano regolatore generale. L'ammontare del risarcimento così stabilito dovrà essere aumentato della rivalutazione monetaria degli interessi legali da calcolarsi fino alla data di notifica della domanda giudiziale.

Sul punto va rilevato che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, ribadito pur con alcune differenze in una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato Sez. IV, 18.04.2013, n. 2164), deve ammettersi il risarcimento dell'interesse pretensivo all'ottenimento di permesso di costruire la cui lesione sia stata cagionata dal duplice diniego illegittimamente opposto dall'amministrazione comunale e dal conseguente ritardo nel provvedere in senso favorevole, nell’ipotesi in cui sia intervenuta in pendenza di giudizio una disciplina paesaggistica dalla quale scaturisca l'impossibilità di realizzare detto intervento edilizio.
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Al riguardo, vanno richiamati i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato (contenuti nella decisione sopra citata) in relazione ai quali l'esame della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all'emanazione di un provvedimento illegittimo, interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori;
- o attraverso un’articolazione di argomentazioni logiche che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo condotto secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, del c.d. "più probabile che non", e cioè alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2012, nr. 2974).
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E’ possibile prescindere da detta quantificazione considerando come l’orientamento prevalente (Cons. Stato Sez. IV Sent., 24.12.2008, n. 6538) sancisce … “il danno subito in seguito ad illegittimo diniego di concessione edilizia può essere determinato in via equitativa sulla scorta della differenza del valore che l'area di proprietà degli appellanti aveva al momento del progetto di diniego ed al momento della delibera di approvazione del nuovo piano regolatore generale. L'ammontare del risarcimento così stabilito dovrà essere aumentato della rivalutazione monetaria degli interessi legali da calcolarsi fino alla data di notifica della domanda giudiziale
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.08.2013 n. 1073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Peculato d'uso per chi naviga in Internet dal computer dell'ufficio.
La rilevanza penale si realizza esclusivamente con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della Pa o di terzi, o con una seria lesione della funzionalità dell'ufficio.

Scatta la condanna per peculato d'uso, a carico del dipendente pubblico che, a fini privati, navighi sul web dal computer d'ufficio, procurando, però, un danno economico all'ente.
A precisarlo, è la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con sentenza 08.08.2013 n. 34524.

APPALTI: Offerta tecnica oltre le pagine consentite: non può escludersi il concorrente.
In applicazione dell'ormai positivizzato principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare a evidenza pubblica, il TAR di Salerno ha chiarito come deve comunque ritenersi legittima l'aggiudicazione di una gara d'appalto in favore di una ditta che abbia presentato la propria offerta tecnica in un numero di pagine diverso ''superiore'' a quello consentito dal bando.

Analisi del caso
La ricorrente, seconda in graduatoria, ha adito il competente G.A. per l’annullamento della determinazione dirigenziale del servizio finanziario di un Comune recante l’aggiudicazione definitiva di una gara d’appalto per la fornitura di beni e servizi in favore della controinteressata e per la declaratoria d’inefficacia del relativo contratto eventualmente stipulato, chiedendo il subentro nello stesso.
Pertanto ha eccepito la violazione dell’art 20 del bando di gara che prevedeva l’automatica esclusione del concorrente, aggiudicatario che aveva presentato l’offerta tecnica in un numero di pagine superiore a 100.
Il Tribunale campano, sentite sul punto le parti, ha deciso la questione in forma semplificata ex art. 60, D.Lgs. n. 104/2010. -
La soluzione
Il Collegio ha evidenziato che la censurata, citata violazione della legge di gara atteneva alla mancata osservanza del limite massimo di pagine consentito nella presentazione dell’offerta tecnica, giacché, nella specie, unitamente all’offerta tecnica di 98 pagine era presente nella busta un documento denominato “allegato all’offerta tecnica” composto di ulteriori 26 pagine, per un totale di 124.
Ha ulteriormente precisato che, ove anche si fosse voluto considerare che il predetto allegato non concorresse a formare l’offerta tecnica –così che il limite sarebbe stato rispettato– vi sarebbe comunque violazione della medesima disposizione che impone il divieto di inserire nella busta contenente l’offerta tecnica “altri documenti”.
Il G.A. ha tuttavia rilevato che l’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 dispone che la stazione appaltante esclude un concorrente soltanto: in caso di mancato adempimento alle disposizioni del codice e di altre disposizioni di legge vigenti; nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o la provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o altri elementi essenziali; in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza (cfr. Determinazione A.v.c.p., 10.10.2012, n. 4).
Ha poi aggiunto che la stessa disposizione di legge vieta che i bandi e le lettere di invito possano contenere ulteriori e diverse prescrizioni a pena di esclusione e sancisce la nullità di tali clausole eventualmente inserite nelle leggi di gara.
Nel merito, ha sostenuto il giudicante, le violazioni contestate non potevano portare all’esclusione dell’aggiudicataria in quanto le stesse non integravano alcuna delle ipotesi tassative indicate dal citato art. 46, né poteva farsi riferimento alla causa di esclusione “speciale” dell’art. 20 del bando, giacché da ritenersi nulla e, pertanto, inefficace in quanto in contrasto col principio di tassatività.
Ha infine ulteriormente considerato che, nel caso di specie, non è configurabile neppure alcuna sostanziale violazione della par condicio dei concorrenti, atteso che, come ha evinto dal verbale della seduta pubblica, la Commissione giudicatrice, ai fini della valutazione dell’offerta, non aveva preso in considerazione il controverso documento allegato, ma si era limitata a constatarne la presenza all’interno della busta, impedendo così che la ricorrente potesse risultare svantaggiata dal proprio comportamento conforme alle –sebbene nulle– prescrizioni speciali di gara.
Per l’effetto, l’adito TAR ha respinto il ricorso perché infondato e ritenuto legittimo l’operato della P.A. che ha correttamente disapplicato quelle clausole del bando nulle.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Non constano specifici precedenti in termini, ma la produzione giurisprudenziale in tema di tipicità e tassatività delle cause di esclusione è vastissima e varia (cfr. tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2013, n. 2064; TAR Trentino Alto Adige, Sez. I, 22.05.2013, n. 168).
Particolarmente importante è del resto la considerazione conclusiva della decisione segnalata per le implicazioni operative che potrebbe avere in termini di contemperamento dei concomitanti fondamentali principi che ispirano la materia delle procedure competitive di scelta del contraente: appare necessario, infatti, tenere in considerazione non soltanto il rispetto formale della tassatività, ma anche la sostanziale tutela dell’affidamento dei concorrenti che si trovino di fronte a clausole del bando ambigue, dal cui rispetto/violazione, o applicazione/disapplicazione, possano trarre vantaggi/svantaggi che rischiano di alterare l’imprescindibile condizione di parità di trattamento che deve essere sempre garantita tra tutti i partecipanti alle gare (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 22.07.2013 n. 1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Acquisizione sanante di un immobile per pubblico interesse: chi deve decidere?
Il provvedimento con cui l’Ente locale ha disposto l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, importando l’acquisto della proprietà immobiliare che richiede una formale e specifica espressione di volontà, deve essere adottato necessariamente dal Consiglio comunale.

Il TAR Lecce ha stabilito che il dirigente comunale è incompetente ad adottare un provvedimento di acquisizione sanante di un bene immobile occupato d’urgenza dalla P.A., in assenza del relativo decreto di esproprio e che al proprietario del bene illegittimamente acquisito al patrimonio dell’Ente deve essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno subito.
Analisi del caso
Il proprietario di un terreno ha subìto il provvedimento di occupazione d’urgenza, per la durata quinquennale dalla data di immissione in possesso, relativamente a una porzione del medesimo terreno, per l’esecuzione di lavori di riqualificazione del sistema viario e dei parcheggi circostanti al centro abitato; l’Amministrazione ha preso possesso dell’immobile oggetto di occupazione, ma non ha mai provveduto a emettere il decreto di esproprio.
A distanza di molti anni dalla scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza (5 anni), il proprietario ha chiesto al competente G.A. la restituzione del terreno oppure il risarcimento del danno. Nelle more, un dirigente del Comune ha disposto l’acquisizione del bene in questione; avverso tale atto, con motivi aggiunti, il ricorrente ha dedotto l’incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento e la violazione e falsa applicazione degli artt. 42, 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Con controricorso, la civica P.A. ha rilevato che il progetto di opera pubblica in ragione di cui era stata disposta l’occupazione d’urgenza era stato approvato dall’organo consiliare e che, pertanto, il provvedimento dovesse considerarsi in mera attuazione di quell’approvazione.
La soluzione
Il Tribunale amministrativo ha ricordato che l’art. 42, comma 2, lett. l), D.Lgs. n. 267/2000 stabilisce testualmente che rientrano nella competenza del Consiglio gli “… acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione…”: tra questi, ha desunto, rientra sicuramente anche l’acquisto mediante l’istituto della c.d. “acquisizione sanante” (Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472).
L’atto di acquisizione sanante, infatti, per i profili di discrezionalità che lo caratterizzano, esorbita dalla competenza dell’ufficio per le espropriazioni e rientra nelle attribuzioni del Consiglio comunale (Cons. Stato, Sez. III, 31.08.2010, n. 775).
Né poteva ritenersi, ha proseguito l’adito Collegio, che il dirigente avesse dato mera attuazione alla volontà comunale come espressa in precedenti provvedimenti deliberativi –in particolare quello di inizio della procedura espropriativa– stante la particolare natura di tale acquisizione (Cons. Stato n. 775/2010 cit.); parimenti non ha condiviso che tale atto potesse qualificarsi come previsto in atti fondamentali, ricordando la forte caratterizzazione discrezionale dell’acquisizione.
Il giudicante ha così escluso, richiamando anche la giurisprudenza comunitaria, che la mera trasformazione del suolo con la realizzazione di un’opera pubblica costituisca circostanza idonea a trasferire la proprietà del bene, in assenza di un regolare provvedimento espropriativo; il comportamento della P.A., dunque, costituisce un illecito “permanente” al quale deve conseguire l’obbligo di far cessare la indebita compromissione del diritto di proprietà del privato mediante la restituzione o il risarcimento del danno.
Con riferimento al risarcimento del danno, il T.A.R. pugliese ha precisato che esso opera in relazione all’illegittima occupazione a far data dalla scadenza del termine quinquennale dall’immissione in possesso d’urgenza e sino alla regolarizzazione, ossia la restituzione, il perfezionamento di un valido atto di acquisto della proprietà (anche l’usucapione, cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 19.06.2013, n. 1423), ovvero il ricorso, in via postuma allo strumento acquisitivo di cui all’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
Avuto riguardo a tale contesto temporale, il G.A. salentino ha condannato il Comune al pagamento in favore del ricorrente di una somma quantificata nel 5% annuo sul valore del bene illegittimamente occupato, oltre interessi legali, da calcolarsi sulla somma annualmente rivalutata, ai sensi del citato art. 42-bis, comma 3, D.P.R. n. 327/2001.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Sono molteplici i precedenti giurisprudenziali in materia. Su tutti, e tra i più recenti, particolarmente connotanti risultano Cons. Stato, Sez. IV, 08.05.2013, n. 2481 e la pronuncia del TAR Puglia, Bari, Sez. I, 03.05.2013, n. 684 che ha qualificato il comportamento dell’Amministrazione come un vero e proprio illecito “permanente” con conseguente imprescrittibilità dell’azione per l’illegittimo impossessamento (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26.04.2013, n. 1199 e anche lo stesso TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 19.06.2013, n. 1423 cit.) e l’obbligo per il Giudice di rivalutare le somme da liquidare, in quanto derivanti da debito di valore.
L’impatto pratico della decisione sembra nel senso di obbligare la P.A. comunale ad agire con maggior rigore nelle procedure ablatorie, rispettandone i termini e il riparto di competenza, senza abusare degli strumenti sananti (re)introdotti nell’ordinamento: è di tutta evidenza, invero, che l’intento del legislatore del 2011, che ha concepito l’art. 42-bis, D.P.R. n. 327/2001, non era quello di far rivivere l’istituto dichiarato costituzionalmente illegittimo di cui all’abrogato art. 43 del decreto citato, ma quello di regolare i possibili contrasti tra l’interesse privato del proprietario e quello pubblico di cui è portatrice la P.A., nel senso di contemperare il miglior esercizio del potere pubblico col minimo sacrificio del soggetto privato (tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2013 n. 1500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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