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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2013

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aggiornamento al 30.09.2013

aggiornamento al 23.09.2013

aggiornamento al 17.09.2013

aggiornamento al 13.09.2013

aggiornamento al 10.09.2013

aggiornamento al 02.09.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, “Monitoraggio tipologie lavoro flessibile” (ex art. 36 D.Lgs. 165/2001 e L. 190/2012) - Riflessioni scritte ... a 360°, “…fuori dai denti”! (28.09.2013).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro part-time - Illegittimità della modifica unilaterale dell'orario di lavoro (CGIL-FP di Bergamo, nota 27.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il finanziamento della previdenza complementare coi proventi delle sanzioni amministrative (CGIL-FP di Bergamo, nota 26.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte dei Conti - Sì all'incremento del salario accessorio in caso di aumento del personale in servizio (CGIL-FP di Bergamo, nota 23.09.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: M. Asprone e A. Salvati, La procedura negoziata: aspetti normativi (23.07.2013 - link a www.diritto.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: DURC. Art. 31 DL 69/2013 convertito nella legge 98/2013. Primi adeguamenti effettuati con il rilascio della versione 4.0.1.28 dell’applicativo Sportello unico previdenziale (INAIL, nota 20.09.2013 n. 5727 di prot.).

ENTI LOCALI - TRIBUTI: Oggetto: Decreto legge 31.08.2013, n. 102 – Nota di lettura (ANCI Emilia Romagna, nota 19.09.2013 n. 147 di prot.).
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... in materia di IMU, TARES, differimento termine approvazione bilancio preventivo.
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Chi ha approvato i bilanci può rivedere le aliquote.
Anche i comuni che hanno già approvato il bilancio possono rimettere mano ai propri tributi fino al 30 novembre.

Lo afferma una nota interpretativa del decreto Imu diffusa dall'Anci Emilia-Romagna. Ma tale interpretazione necessita di una conferma ufficiale da parte del Mef.
Come noto, l'art. 8 del dl 102/2013 ha differito alla predetta data il termine per l'approvazione del preventivo per l'anno in corso. Il legislatore non si è premurato di precisare gli effetti della proroga nei confronti degli enti che già avevano tagliato il traguardo dell'approvazione. In tal modo, per questi ultimi, si ripropone la querelle sulla possibilità di modificare le proprie aliquote o i propri regolamenti tributari anche dopo il varo del bilancio, purché ovviamente entro la dead-line fissata per gli altri enti.
L'Anci propende per la tesi affermativa, ritenendo sufficiente a tal fine una semplice «variazione» del documento contabile già perfezionato, secondo quanto chiarito dalla risoluzione del Dipartimento delle politiche fiscali n. 1/2011. Per la verità, la questione non pare del tutto pacifica, in presenza di pronunce difformi della Corte dei conti (si veda, ad esempio, il parere n. 205/2011 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia), che hanno sostenuto, invece, la necessità di procedere alla «riapprovazione» del bilancio.
Del resto, la stessa risoluzione del Mef ribadiva l'inderogabilità del principio della variazione della disciplina dei tributi comunali entro il termine stabilito dalla legge per l'approvazione del bilancio, sottolineando il carattere propedeutico al bilancio stesso delle deliberazioni riguardanti le entrate, e ne ammetteva una parziale deroga solo considerazione della «particolare tempistica» delle novità all'epoca introdotte dal dlgs 23/2011 in materia di addizionale Irpef.
Sarebbe quindi opportuno che dal Mef arrivasse un nuovo chiarimento ufficiale. Se, viceversa, dovesse prevalere una linea interpretativa più rigida, i numerosi comuni che hanno già approvato il bilancio 2013 aumentando l'aliquota dell'Imu sull'abitazione principale avrebbero enormi difficoltà ad apportare le necessarie correzioni, con forti rischi per gli equilibri contabili se lo Stato non dovesse riconoscere loro il rimborso integrale del mancato gettito (articolo ItaliaOggi del 27.09.2013).

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Legge di conversione del decreto legge 21.06.2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia, Modifica dell'art. 202 del Codice della Strada (Ministero dell'Interno, nota 16.09.2013 n. 7065 di prot.).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROLe linee guida per la gestione della sicurezza nei cantieri mobili e temporanei, un utile documento per i coordinatori e le imprese.
L’ASL di Brianza e Monza ha pubblicato le linee guida sulla corretta applicazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 81/2008), utile strumento per tutti i tecnici e le imprese impegnate in cantieri edili.
L’obiettivo principale della guida è quello di fornire un valido strumento al coordinatore della sicurezza, guidandolo passo passo nello svolgimento delle proprie mansioni, in ottemperanza alle disposizioni normative.
Il documento contiene:
definizioni sulla sicurezza,
procedure operative per il coordinatore per la sicurezza,
diagrammi di flusso esplicativi,
modelli dei vari documenti sulla sicurezza,
check-list per il controllo della documentazione e del cantiere (26.09.2013 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIOEdifici scolastici sicuri, sostenibili ed adeguati alle nuove esigenze didattiche, ecco quanto proposto nelle nuove Linee Guida.
Il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato le nuove “Linee guida per le architetture interne delle scuole”, per la corretta progettazione dell’edilizia scolastica.
La ridefinizione delle Linee guida, strettamente collegata al piano di innovazione digitale delle scuole, fornisce nuove soluzioni: non più solo aule, ma spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.
Tradizionalmente l’aula è sempre stata lo spazio unico della didattica quotidiana, un luogo in cui il docente, posto di fronte ai ragazzi disposti in file di banchi, trasmetteva agli studenti le conoscenze da acquisire. L’aula moderna è ancora uno spazio pensato per interventi frontali ma è ora uno dei tanti momenti di un percorso di apprendimento articolato e centrato sullo studente. Quindi cambiano radicalmente i principi alla base della progettazione funzionale.
La guida, in particolare, fornisce i criteri generali per la progettazione di edifici scolastici, con indicazioni operative su:
configurazione e articolazione interna degli edifici
ottimizzazione del sistema edificio/ambiente
scelta dei materiali da utilizzare
materiali da evitare
Particolare attenzione è dedicata nel testo agli impianti tecnologici, per i quali è necessario puntare sulla flessibilità.
Il documento è certamente interessante per tutti i tecnici che operano nel settore della progettazione di edifici ad uso collettivo (26.09.2013 - link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASISTRI al via per il primo ottobre: ecco il manuale operativo del Ministero per non essere impreparati.
Dopo diverse proroghe e salvo ulteriori rinvii, dal primo ottobre 2013 il SISTRI (
SIStema di controllo della Tracciabilità dei RIfiuti) diventerà obbligatorio per gestori e trasportatori di rifiuti pericolosi. Per tutte le altre imprese l’avvio del sistema è fissato per il 03.03.2014; è confermata, invece, la sospensione del contributo SISTRI per tutto il 2013.
In vista dell’entrata in vigore del sistema, il Ministero dell’Ambiente ha pubblicato la versione aggiornata del manuale operativo del SISTRI, che offre un valido aiuto a produttori, trasportatori, destinatari e tutte le aziende che si trovano ad operare con il nuovo sistema.
Il manuale è suddiviso nei seguenti argomenti:
Descrizione generale del Sistema di tracciabilità dei rifiuti SISTRI
Alcuni aspetti relativi all’iscrizione ed alle modifiche dell’iscrizione
Il Sistema SISTRI
Le procedure del Produttore
Movimentazione con trasporto dei propri rifiuti
Le procedure del Trasportatore
Le procedure del Destinatario
Gestione dei veicoli fuori uso (ELV)
Altri soggetti (26.09.2013 - link a www.acca.it).

VARIBonus mobili ed elettrodomestici: Come e quando richiedere l’agevolazione fiscale (Agenzia delle Entrate, settembre 2013).
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Bonus mobili ed elettrodomestici: online una mini guida dell’Agenzia.
Il vademecum illustra, in modo semplice, le regole per usufruire dell’incentivo introdotto dal Dl 63/2013, diretto a chi ha realizzato interventi di ristrutturazione edilizia
 (25.09.2013 - link a www.fiscooggi.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 10.09.2013, "Determinazioni relative alle misure di conservazione per la tutela delle ZPS lombarde – modifiche alle deliberazioni 9275/2009 e 18453/2004, classificazione della ZPS IT2030008 «Il Toffo» e nuova individuazione dell’ente gestore del SIC IT2010016 «Val Veddasca»" (deliberazione G.R. 06.09.2013 n. 632).
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ZPS, norme più semplici per le strade agro-silvo-pastorali.
Terzi: «Necessarie per mantenimento attività montane a rischio spopolamento».
D’ora in poi sarà più semplice realizzare strade agro-silvo-pastorali nelle ZPS (Zone di Protezione Speciale) lombarde. A deciderlo è stata la Giunta regionale su proposta dell’Assessore all’Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile Claudia Maria Terzi: «Da tempo –spiega l’Assessore– gli agricoltori delle zone di montagna, e con loro i rappresentanti degli Enti locali, chiedevano un intervento per rendere meno macchinosa la realizzazione delle strade necessarie a garantire il mantenimento delle attività agro-silvo-pastorali».
RISCHIO SPOPOLAMENTO MONTAGNE – «In particolare –continua Terzi– più volte hanno segnalato che la difficoltà a raggiungere pascoli e alpeggi metteva a rischio l’economia delle montagne (vanificando perdipiù paralleli interventi regionali di incentivo all’agricoltura), con il conseguente abbandono delle attività tradizionali e il progressivo spopolamento delle comunità di montagna. Quest’ultimo ha impatti devastanti anche sull’ambiente: storicamente, le nostre sono montagne abitate, per mantenerne l’equilibrio ecosistemico è necessario provvedere alla pulizia dei boschi e al taglio dell’erba. Se queste attività mancano, aumenta la possibilità d’incendi e quindi il rischio che gli habitat protetti vengano distrutti».
NOVITÀ NORMATIVE – Per questo, il divieto di realizzare “nuove strade permanenti e l’asfaltatura delle strade agro-silvo-pastorali e delle piste forestali salvo che per ragioni di sicurezza e incolumità pubblica ovvero di stabilità dei versanti” è stato sostituito con il divieto di realizzare “nuove strade permanenti ad eccezione delle strade agro-silvo-pastorali di cui sia documentata la necessità al fine di garantire il mantenimento delle attività agro-silvo-pastorali con particolare riferimento al recupero e alla gestione delle aree aperte a vegetazione erbacea, al mantenimento e recupero delle aree a prato pascolo, alla pastorizia”.
In ogni caso, le strade dovranno essere previste nei Piani comprensoriali di sviluppo e gestione degli alpeggi o nei piani della viabilità agro-silvo-pastorali e dovrà essere valutata l’incidenza che la loro realizzazione potrebbe avere rispetto agli obiettivi di conservazione degli habitat e delle specie presenti nei siti protetti. Resta vietata l’asfaltatura delle strade agro-silvo-pastorali e delle piste forestali salvo che per ragioni di sicurezza e incolumità pubblica ovvero di stabilità dei versanti.
VICINANZA A MONTAGNA – «Con questo provvedimento –conclude Terzi– vogliamo mostrare la nostra vicinanza a coloro che la montagna la vivono tutti i giorni e contribuiscono, con il loro lavoro, a mantenere integri gli habitat della fauna delle aree protette. Né ci fermeremo qui: la nostra intenzione è di coniugare sempre più sviluppo rurale e protezione della biodiversità» (27.09.2013 - link a http://claudiaterzi.wordpress.com).

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI: Resistere in giudizio, a tutti i costi, costa caro.
Il Sole delle Alpi costa caro al comune di Adro.
L'apposizione del simbolo leghista del «Sole delle Alpi» sulle vetrate e all'ingresso della scuola di Adro, costa cara alla giunta locale che, nel 2010, decise di tappezzarne l'intero plesso scolastico, nonostante le rimostranze e le lamentele della comunità locale prima e dell'opinione pubblica nazionale successivamente.
Dovranno pertanto mettere mano al portafogli, per un importo di poco superiore a 10 mila euro, gli amministratori leghisti del comune bresciano per aver deliberato non tanto l'apposizione del simbolo, quanto piuttosto per aver deciso di resistere in giudizio innanzi al giudice del lavoro, interpellato sul punto da una sigla sindacale rappresentativa dei lavoratori del plesso scolastico con un dettagliato esposto.
Giudizio che si concluse con la soccombenza dell'amministrazione comunale e l'addebito del pagamento delle spese processuali.

Così ha deciso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti Lombardia, nel testo della sentenza 18.09.2013 n. 222 che, nel ripercorrere la vicenda che tanto scalpore destò in quei giorni del 2010, ha stigmatizzato l'operato della giunta comunale, «insensibile ai richiami della comunità locale che non attribuiva al simbolo di cui sopra alcuna valenza di identità culturale, ma solamente un significato di appartenenza politica».
Questi richiami, cui la giunta si mostrò sorda, dovevano costituire per gli amministratori «un doveroso terreno di riflessione e di verifica, circa l'effettiva rispondenza delle proprie scelte al comune sentire della collettività», ancor prima che le diverse autorità, anche a livello centrale, si esprimessero per invitare gli organi competenti alla rimozione.
Non essendo avvenuto alcun ravvedimento, la Corte lombarda ha rimarcato sulla condotta degli amministratori che, al contrario, hanno pervicacemente mantenuto la loro posizione violando i propri obblighi di servizio e, in particolare, l'onere di rappresentare l'intera collettività che li ha eletti e il dovere di improntare il proprio comportamento all'imparzialità e alla correttezza. Un'amministrazione corretta, rileva la Corte, è quella che si mostra imparziale, non solo nelle scelte compiute, ma anche in quelle dove l'intera comunità possa riconoscersi nei suoi rappresentanti politici.
Ne è prova che il Viminale, interpellato sul punto ha rilevato che il sindaco rappresenta tutti i cittadini, non solo gli elettori appartenenti alla sua compagine politica e che i soli segni distintivi di un comune, sono lo stemma e il gonfalone, non certo altri simboli «fuorvianti dell'identità collettiva». La decisione di condanna, poi, appare evidente anche sotto un altro profilo. Ovvero quello della violazione dell'obbligo di rispettare il principio di economicità dell'azione, l'obbligo di verificare i costi di un'azione amministrativa e i risultati che si intendono raggiungere.
Nessuno degli amministratori ha minimamente valutato il rischio (concreto) di una possibile soccombenza in giudizio, percorrendo invece la strada della resistenza innanzi al giudice per sottrarsi agli obblighi di rimuovere il simbolo contestato (articolo ItaliaOggi del 27.09.2013).

ENTI LOCALI: Sull'obbligo della gestione associata delle funzioni fondamentali per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione implica che la stessa sia espressione di un disegno unitario riconducibile alle aree individuate all’interno delle funzioni elencate al comma 27 dell’art. 14.
L’identificazione di dette aree non può essere effettuata, attraverso una interpretazione restrittiva delle funzioni di riferimento. Le funzioni per le quali è prevista la gestione associata sono, infatti, le stesse per le quali il comma 26 prescrive l’esercizio obbligatorio per l’Ente titolare.
Pertanto ogni interpretazione volta ad escludere la necessaria gestione associata per determinati servizi, implica disconoscere, per gli stessi, la riconducibilità a funzioni fondamentali da esercitarsi in ogni caso, in via obbligatoria, da parte dell’Ente.

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Il Comune istante formula una richiesta di parere in merito alla corretta interpretazione delle norme risultanti dall’art. 14, commi 25 – 31-quater del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010 che stabiliscono l’obbligo della gestione associata delle funzioni fondamentali per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (ovvero a 3.000 se il loro territorio ricade all’interno di Comunità montane conteggio del corrispettivo delle aree cedute in proprietà di cui all’art. 31, comma 48, della legge 23.12.1998).
In particolare chiede se sia corretto ritenere non incluse fra le funzioni del comune da gestire obbligatoriamente in forma associata quelle concernenti i seguenti servizi: ufficio tecnico; gestione dei beni demaniali e patrimoniali; mera attività di gestione dell’urbanistica e territorio.
...
Allo scopo di assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni, l’art. 14, comma 25 e segg. del d.l. 31.05.2010, n. 78, conv. dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato ed integrato dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, conv. dalla legge 07.08.2012, n. 135, ha previsto che
i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono tenuti, entro scadenze prefissate dal legislatore, ad esercitare “obbligatoriamente, in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)” (art. 14, co. 27 e co. 28).
Per quanto maggiormente utile ai fini della soluzione del quesito posto,
i principi desumibili dalle disposizioni sopra indicate (come già evidenziato da questa Sezione nella delibera n. 304/2012) sono enucleabili come segue:
- l’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per l’Ente titolare;
- sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, quelle elencate nel comma 27 dell’art. 14 del D.L. n. 78/2010, conv. nella L. n. 122/2010, come modificato dal D.L. n. 95/2012, conv. nella L. n. 135/2012;
- i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante Unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali;
- i Comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata e la medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa.

Tanto premesso, il Comune istante ritiene, sulla base di una scelta comune agli enti interessati, che non siano soggetti all’obbligo di gestione associata i servizi concernenti l’ufficio tecnico, la gestione dei beni demaniali e patrimoniali e la mera attività di gestione dell’urbanistica e territorio.
Motiva quanto asserito, sostenendo che: i primi due non possano essere ricompresi nella lettera a) delle funzioni di cui al comma 27 dell’articolo di riferimento “organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo”, non ravvisandosi un riferimento diretto nella dizione della norma e non risultando vincolante la struttura dei servizi disegnata dal DPR 31.01.1996, n. 194; il terzo non sarebbe riconducibile alla lettera d) dello stesso comma “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale”, facendosi ivi riferimento per l’appunto alla pianificazione e non alla gestione.
Al riguardo la Sezione evidenzia quanto segue, riprendendo e sviluppando quanto già illustrato nella delibera n. 9/2013.
In relazione alla concreta organizzazione di ciascuna funzione, gli Enti che intendono procedere unitariamente per attuare la previsione legislativa debbono unificare le attività e gli uffici in relazione alle aggregazioni specificamente individuate dal comma 27.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione implica che la stessa sia espressione di un disegno unitario riconducibile alle aree individuate all’interno delle funzioni elencate al comma 27.
L’identificazione di dette aree non può essere effettuata, come prospettato dall’Ente, attraverso una interpretazione restrittiva delle funzioni di riferimento.
Tale lettura è tanto più da escludere, ove si osservi che (salve le eccezioni espressamente disposte), le funzioni per le quali è prevista la gestione associata sono le stesse per le quali il comma 26 prescrive l’esercizio obbligatorio per l’Ente titolare. In altri termini va considerato che ogni interpretazione volta ad escludere la necessaria gestione associata per determinati servizi, implica disconoscere, per gli stessi, la riconducibilità a funzioni fondamentali da esercitarsi in ogni caso, in via obbligatoria, da parte dell’Ente.
E’ pur vero che il legislatore ha indicato l’obiettivo dell’esercizio associato delle funzioni, da raggiungere progressivamente, ma non ha fornito indicazioni in merito ai rapporti con l’organizzazione del sistema di bilancio, disciplinata dal d.p.r. 31.01.1996, n. 194, recante “Regolamento per l’approvazione dei modelli di cui all’articolo 114 del decreto legislativo 25.02.1995, n. 77, concernente l’ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali”.
In particolare, considerata la natura del d.p.r. n. 194 si deve ritenere che non vi sia coincidenza tra le funzioni ivi indicate e quelle che costituiscono oggetto di aggregazione che devono essere identificate dagli Enti in base alla loro attuale organizzazione, in concreto, in base alle indicazioni contenute nel co. 27 dell’art. 14 del d.l. n. 78, conv. dalla legge n. 122 del 2010.
Spetta quindi agli Enti interessati disegnare la nuova organizzazione delle funzioni, partendo dalle attività sinora svolte da ciascuno di essi, ma anche adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti di riduzione della spesa, efficacia, efficienza ed economicità perseguiti dal legislatore, non essendo sufficiente peraltro che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 31.07.2013 n. 292).

PATRIMONIO: In merito alla possibilità o meno di stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei Carabinieri”, la sussistenza di un rapporto di reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed ente locale (cui fa riferimento il Sindaco interpellante, esponendo che, a sua volta, il Comune di Ercolano è “destinatario di un bene di proprietà statale trasferito a titolo gratuito”) costituisce elemento di valutazione, valorizzato dallo stesso testo di legge (cfr. prima parte dell’art. 1, comma 439, della legge n. 311 del 2004 cit.).
Tuttavia ciò non elide la necessità che le scelte discrezionali dell’Ente siano fondate al riguardo anche sulla completa e prudente disamina delle compatibilità finanziarie e gestionali già innanzi richiamate, oltre che sul soddisfacimento degli interessi della comunità locale.
Le concrete modalità di esercizio, nei sensi suindicati, della discrezionalità dell’Ente, vanno peraltro demandate all’esclusiva competenza degli Organi comunali a ciò preposti, senza possibilità di ingerenze o di previe, specifiche valutazioni della Sezione in questa sede consultiva.

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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Ercolano (NAPOLI) ha rivolto a questa Sezione richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità o meno di stipulare “un contratto di comodato d’uso gratuito per il mantenimento nella propria cittadina della Tenenza dei Carabinieri.
Ai riguardo il Sindaco interpellante, dopo aver richiamato la normativa in materia di alienazione e di valorizzazione del patrimonio immobiliare degli enti locali, in particolare facendo riferimento all’art. 3, comma 2-bis, del decreto legge 06.07.2012 n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012 n. 135 (per il quale, tra l’altro, “…Le Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà”), espone che:
- L’Ente è proprietario di un immobile, facente parte del proprio patrimonio disponibile, che attualmente versa in stato di abbandono;
- l’Ente stesso ha partecipato al bando “PIU Europa” (Programma di Integrazione Urbana previsto dalla Regione Campania nella propria strategia di sviluppo 2007-2013 con l’obiettivo di ridare competitività al’intero sistema regionale in linea con le indicazioni della Commissione europea), presentando un progetto, ammesso al relativo finanziamento, avente tra le proprie finalità quella dell’aumento della sicurezza sociale, individuata come volano attraverso il quale dar vita al complessivo progetto di riqualificazione territoriale, inserendo, nel piano presentato, l’allestimento di una Tenenza dei Carabinieri in linea con le esigenze dell’Arma e dello stesso Ente locale;
- l’Ente ha proceduto ad un’attenta valutazione comparativa degli interessi in gioco, ritenendo prudenzialmente che l’affidamento in comodato gratuito dell’immobile di che trattasi non solo consentirebbe di acquisire i proventi relativi al finanziamento del suindicato progetto, ma compenserebbe la mancata percezione di canoni di locazione con la valorizzazione del bene stesso conseguente alla sua ristrutturazione, nonché con i benefici sociali e di indotto connessi al mantenimento in loco di un presidio di forze dell’ordine;
- la possibilità -sancita dal surrichiamato art. 3, comma 2-bis, del decreto legge n° 95 del 2012, convertito nella legge n° 135 del 2012- di utilizzare nella fattispecie la formula contrattuale del comodato, andrebbe comunque a collocarsi nel rapporto di reciprocità già intrapreso dall’Ente e dallo Stato in subiecta materia, considerato che il Comune di Ercolano già risulta destinatario di un bene di proprietà statale trasferitogli a titolo gratuito;
- l’Ente ha comunque avviato un proficuo percorso di revisione, con contestuale rescissione contrattuale dei rapporti locativi passivi, allocando in immobili di proprietà comunale gli uffici comunali già ospitati presso strutture esterne.
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L’ammissibilità oggettiva della richiesta di parere in trattazione va dunque limitata alla sola disamina, in astratto, della possibilità per l’Ente interpellante di concedere in comodato d’uso gratuito un immobile di proprietà comunale all’Arma dei Carabinieri per le finalità istituzionali di tale Arma, ferme restando, comunque, le esigenze di rispetto di eventuali obblighi e vincoli derivanti dalla partecipazione dell’Ente stesso al progetto “PIU Europa”, oltre che ogni altra necessità di preventiva e oculata pianificazione della gestione del patrimonio immobiliare comunale.
Passando dunque, con tali precisazioni, al merito della richiesta di parere de qua, va osservato che “
…rientra nella sfera di discrezionalità dell’Ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo” (così, condividibilmente, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, 17.06.2010, n. 672/2010/PAR).
E’ peraltro evidente, come sostanzialmente evidenziato dallo stesse Ente interpellante nelle premesse della richiesta di parere, che
le scelte operate in proposito devono rientrare in un ambito programmatorio gestionale, anche al fine di operare previamente e con la necessaria tempestività le necessarie classificazioni dei beni immobili e di individuare il connesso regime giuridico applicabile.
La norma sopravvenuta citata dal Sindaco (art. 1, comma 439, della legge 30.12.2004 n. 311, quale modificato dal comma 2-bis dell’art. 3 del decreto-legge 06.07.2012 n. 95, come a sua volta modificato dalla legge di conversione 07.08.2012 n. 135), nel prevedere testualmente che “Le Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà”, ha introdotto una specifica disciplina in subiecta materia, che appare volta principalmente a contenere la spesa statale relativa ai canoni corrisposti per locazione di immobili di proprietà degli enti territoriali.
Non priva di rilevanza appare peraltro la circostanza che la norma in argomento, quale formulata all’art. 2 del testo originario del decreto legge n. 95 del 2012, introduceva l’obbligo (e non già la mera facoltà) per Regioni ed enti locali di concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà, sicché le modifiche apportate in sede di conversione del suindicato decreto-legge hanno attenuato la portata precettiva della norma stessa, valorizzando in proposito l’esercizio della discrezionalità degli enti proprietari, con tutte le connesse implicazioni circa la necessità di oculate valutazioni e di attenta comparazione degli interessi coinvolti.
Certamente
la sussistenza di un rapporto di reciprocità tra Amministrazione dello Stato ed ente locale (cui fa riferimento il Sindaco interpellante, esponendo che, a sua volta, il Comune di Ercolano è “destinatario di un bene di proprietà statale trasferito a titolo gratuito”) costituisce elemento di valutazione, valorizzato dallo stesso testo di legge (cfr. prima parte dell’art. 1, comma 439, della legge n. 311 del 2004 cit.); tuttavia ciò non elide la necessità che le scelte discrezionali dell’Ente siano fondate al riguardo anche sulla completa e prudente disamina delle compatibilità finanziarie e gestionali già innanzi richiamate, oltre che sul soddisfacimento degli interessi della comunità locale (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 672 del 2010 cit.).
Le concrete modalità di esercizio, nei sensi suindicati, della discrezionalità dell’Ente, vanno peraltro demandate all’esclusiva competenza degli Organi comunali a ciò preposti, senza possibilità di ingerenze o di previe, specifiche valutazioni della Sezione in questa sede consultiva (cfr. Sezione regionale di controllo per la Campania, 23.05.2013, n. 216) (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.07.2013 n. 237).

PATRIMONIO: La possibilità per l’ente locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad oggetto un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, è rimessa ad una scelta discrezionale operata dall’Ente, non sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione stessa.
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Il Presidente della Provincia di Lecco ha posto alla Sezione un quesito in ordine alla compatibilità dell’istituto del comodato ad uso gratuito, di un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, con le norme relative alla corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico.
In maggior dettaglio, nella richiesta di parere, l’ente provinciale specifica che intende concedere in uso gratuito un bene immobile -facente parte del suo patrimonio indisponibile- in favore della Fondazione Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde che persegue fini di solidarietà sociale nell’ambito territoriale della provincia medesima; aggiunge che l’amministrazione provinciale partecipa alla nomina del Consiglio di amministrazione della fondazione e che gli amministratori sono scelti da un comitato di nomina presieduto dal Prefetto.
...
Venendo al merito della richiesta, occorre preliminarmente osservare che il quesito non investe una questione di rilevanza generale, ma richiede alla Sezione di esprimersi su di una specifica fattispecie implicante una valutazione che attiene ad una attività gestionale dell’Ente.
In proposito, si richiama il principio per cui le richieste di parere devono avere rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, onde salvaguardare l’autonomia decisionale dell’Amministrazione e la posizione di terzietà, nonché di indipendenza, della Corte: è potere-dovere dell’Ente, in quanto rientrante nell’ambito della sua discrezionalità amministrativa, adottare le scelte concrete sulla gestione amministrativo-finanziario-contabile, con le correlative opportune cautele e valutazioni che la sana gestione richiede.
Dunque, in merito al quesito posto dalla Provincia di Lecco, l’attività consultiva di questa Sezione va limitata ai principi che vengono in considerazione nella fattispecie prospettata, ai quali gli organi dell’Ente, al fine di assumere le determinazioni di loro competenza, nell’ambito della loro discrezionalità, possono riferirsi.
Al fine di individuare la disciplina generale applicabile al caso di specie occorre evidenziare la natura di soggetto di diritto privato della fondazione bancaria che persegue fini di solidarietà sociale nell’ambito territoriale della provincia di Lecco; a prescindere dal fatto che l’amministrazione provinciale partecipi alla nomina del Consiglio di amministrazione della fondazione e che gli amministratori siano scelti da un comitato di nomina presieduto dal Prefetto.
Ne consegue che
la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” in favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del negozio di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene (in particolare, l’art. 1808 cod. civ., primo comma, recita che <<il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa>>, il secondo comma aggiunge, poi, che il comodatario <<ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti>>).
Ne consegue che, nel caso di specie, viene in rilievo la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell’art. 12 della legge in materia di procedimento amministrativo (L. 07.08.1990, n. 241), normativa –tra l’altro- che viene correttamente richiamata dall’art. 7 del Regolamento della Provincia di Lecco.
L’art. 12 della legge n. 241/1990, sotto la rubrica <<Provvedimenti attributivi di vantaggi economici>>, stabilisce che <<la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi>>; poi, al secondo comma, aggiunge che <<l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1>>.
Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto privato deve essere adottato nel rispetto delle norme regolamentari dell’ente locale, nonché dei principi generali dettati dalla l. n. 241/1990, occorre altresì evidenziare che all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell’ente locale.
In maggior dettaglio,
non sussiste un divieto in ordine alla natura del bene in quanto i beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all’Ente pubblico uti privatorum. Il bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell’ente non ha una destinazione o, comunque, un’utilità pubblica e, quindi, è assoggettato in linea di massima alla disciplina privatistica.
Tuttavia, l’ente locale nell’esercizio della discrezionalità in ordine alla gestione del proprio patrimonio deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l’utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l’ente locale medesimo (anche se non si riferiscono al contratto di comodato ma, più in generale, all’erogazione di contributi in favore degli enti locali si vedano precedenti delibere di questa Sezione, quali Lombardia, 29/06/2006, n. 9, Lombardia 13/12/2007 n. 59, Lombardia 05/06/2008 n. 39).
Dunque, rientra nella sfera della discrezionalità dell’ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l’esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto dispositivo.
D’altra parte, la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’ente locale, posto che la stessa amministrazione pubblica –in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale- opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata. In quest’ottica, inoltre, la legge n. 15 del 2005 che ha novellato la legge n. 241/1990 che regola i principi generali procedimento amministrativo, ha affermato a chiare lettere che l’amministrazione agisce con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico.
In conclusione,
la possibilità per l’ente locale di stipulare un negozio di comodato ad uso gratuito avente ad oggetto un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile, è rimessa ad una scelta discrezionale operata dall’Ente, non sindacabile dalla Sezione che non può ingerirsi nelle concrete scelte amministrative dell’Amministrazione provinciale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.06.2010 n. 672).

PATRIMONIONon risulta precluso a priori per l’amministrazione l’utilizzo del comodato quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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La Provincia di Verona, con nota a firma del suo Presidente, ha formulato ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003 i seguenti quesiti:
1. Se l’ente, dovendo procedere alla programmazione degli interventi di valorizzazione del patrimonio di cui all’art. 58, comma 1, del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008, possa cedere gratuitamente la proprietà di immobili ad enti come Università o enti di ricerca, per favorire lo svolgimento di attività di formazione o ricerca.
In particolare, l’ente chiede se il rispetto del principio di redditività e l’interesse alla corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico possano essere considerati secondari rispetto a finalità di interesse generale, quali quelle di permettere ad enti, come l’Università, di disporre di un proprio patrimonio per gestire l’attività didattica e contribuire, così, alla crescita culturale della comunità.
A tal proposito, l’ente ricorda che l’art. 34, comma 1, del vigente regolamento per la disciplina dei contratti stabilisce espressamente il divieto di effettuare donazioni di beni immobili.
2. Se, viceversa, sia da valutare più rispondente alle regole giuscontabili procedere nella fattispecie alla concessione gratuita degli immobili di proprietà Provinciale tramite un contratto di comodato gratuito a tempo determinato, che manterrebbe la proprietà degli immobili in capo alla Provincia, trasferendo semplicemente l’uso con i relativi oneri di manutenzione.
In questo caso, la redditività del patrimonio sarebbe assicurata indirettamente dalle finalità perseguite e avverrebbe nel pieno rispetto dell’art. 39 del regolamento Provinciale dei contratti, che stabilisce che “Non è consentito concedere beni di proprietà Provinciale in comodato, se non in casi eccezionali o per motivi sociali o di pubblico interesse rapportato alle funzioni Provinciali, da indicare nel provvedimento a contrarre di cui all’art. 3. Sono, comunque, a carico del comodatario gli esborsi che farebbero carico al comodante per tutta la durata del contratto, oltre che le spese occorrenti per servirsi del bene di cui all’art. 1808, comma 1, del codice civile. Tale somma può essere anche determinata all’atto della stipula del contratto in modo forfetario, sulla base di apposita stima che tiene conto degli oneri sostenuti al momento dalla Provincia.”
...
Venendo al merito, la Sezione preliminarmente ricorda
che mentre i beni riservati e quelli destinati all’uso pubblico consentono all’amministrazione di perseguire direttamente i suoi fini attraverso la funzione pubblica cui assolvono, i beni patrimoniali cd. “disponibili” sono beni di proprietà di enti pubblici, non strumentali all’esercizio di pubbliche funzioni, che giovano ai fini dell’amministrazione solo indirettamente, in quanto generalmente produttivi di reddito (derivante da frutti naturali o civili).
In quest’ottica, la legislazione più recente, al fine di pervenire ad una gestione efficace e redditizia del patrimonio pubblico, ha avviato processi di graduale dismissione e/o di valorizzazione degli immobili pubblici, volta ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (cfr., ad es., art. 9 L. n. 537 del 24/12/1993, art. 12 della L. 15/05/1997 n. 127, art. 19 della L. 23/12/1998 n. 448, art. 3-bis del D.L. n. 351/2001, conv. in L. n. 224/2001, art. 7 del d.l. 15.04.2002 n. 63 conv. in L. n. 112/2002),
non ritenendo conforme ai principi del buon andamento della gestione pubblica mantenere beni di importante valore in uno stato di quasi totale inutilizzabilità economica.
Importanti segnali in questo senso sono venuti anche con l’introduzione dell’art. 2, c. 594 e seguenti, della legge n. 244/2007, che ha previsto l’obbligo di adozione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di piani triennali finalizzati alla razionalizzazione dell’utilizzo, tra l’altro, di beni immobili ad uso abitativo o di servizio, -con esclusione dei beni infrastrutturali-, e la trasmissione di apposite relazioni all’organo di controllo interno ed alla Sezione regionale della Corte dei conti competente per territorio.
Con specifico riferimento alla realtà degli enti locali, l’art. 58 del D.L. n. 112/2008, conv. in L. n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, ed ha previsto una procedura semplificata al fine della classificazione di tali beni come patrimoniali disponibili –presupposto per poter essere alienati liberamente-, nonché di variante urbanistica con riferimento alla eventuale nuova destinazione d’uso da imprimere.
La Provincia di Verona, dovendo procedere alla programmazione degli interventi di valorizzazione di cui al citato art. 58, chiede se può cedere gratuitamente la proprietà di alcuni immobili ad Università o enti di ricerca e se, in particolare, le finalità pubbliche di didattica, di ricerca e di crescita culturale della collettività amministrata possano ritenersi prevalenti rispetto ai principi di redditività e di corretta gestione del patrimonio pubblico.
La Sezione esprime forti perplessità in merito, sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, bisogna premettere che
la cessione gratuita di un immobile non rientra tra le tipiche modalità di valorizzazione del patrimonio ipotizzate dal legislatore, generalmente riconducibili ad ipotesi di concessione onerosa –eventualmente nelle forme di cui all’art. 143 del D. Lgs. n. 163/2006-, o di locazione infracinquantennale a privati a fini di riqualificazione o riconversione (es., art. 1, comma 259, L. n. 296/2006), nonché ad ipotesi di permuta (es., art. 1, comma 262, L. n. 296/2006), o di conferimento o costituzione di fondi comuni di investimento immobiliare (es., art. 4 e ss. del D.L. n. 351/2001, conv. in L. n. 224/2001, art. 58 D.L. n. 112/2008).
Ciò posto, bisogna considerare che
se lo scopo del patrimonio disponibile è generalmente quello di produrre reddito, risulta evidente che una cessione gratuita di un immobile non solo non reca alcuna entrata all’ente, e dunque costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento –e dunque di danno- patrimoniale per l’ente, che è invece tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a criteri di economicità ed efficienza, e a scegliere la soluzione che ottimizzi al massimo i costi di gestione in relazione anche alle finalità cui il patrimonio è adibito.
Ed invero, pur volendo prescindere da ragionamenti aprioristici, non può tuttavia negarsi che
un’eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito dovrebbe avvenire a seguito di un’attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell’ente, in cui, però, deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre crescente attenzione postavi dal legislatore in occasione di alcune recenti normative di settore (tra cui, appunto, l’art. 58 del D.L. n. 112/2008).
L’interesse alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerare primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti.
Il rischio di depauperamento patrimoniale per l’ente potrebbe peraltro assumere connotazioni ancora più problematiche qualora l’Università dovesse, nella propria autonomia, deliberare la trasformazione in fondazione di diritto privato, avvalendosi della facoltà riservatale dall’art. 16 del D.L. n. 112/2008 conv. in L. n. 133/2008.
In ogni caso, nella fattispecie l’amministrazione ha già ritenuto a priori che l’interesse all’integrità del patrimonio provinciale sia imprescindibile, e dunque prevalente rispetto a qualsiasi ulteriore interesse pubblico da realizzare, visto che la donazione di immobili è espressamente vietata dall’art. 34 del regolamento dei contratti dell’ente.
Con riferimento al secondo quesito, si rileva che anche il comodato (art. 1803 – 1812 c.c.), in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con la tradizionale redditività dei beni patrimoniali disponibili.
E’ per questo motivo che lo stesso regolamento provinciale dei contratti all’art. 39 stabilisce la regola generale che “non è consentito concedere beni di proprietà Provinciale in comodato”. In questo caso, però, non vi è un definitivo depauperamento da parte dell’ente, in quanto questo concede semplicemente in uso un bene, di cui può rientrare in possesso alla scadenza del termine, o addirittura immediatamente in caso di urgente ed imprevisto bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.).
In questo senso si giustificano le aperture da parte del regolamento provinciale, che ammette la possibilità di ricorrere a tale istituto qualora ricorrano casi eccezionali, o qualora sussistano motivi sociali o di pubblico interesse rapportati alle funzioni provinciali.
Non risulta, dunque, precluso a priori per l’amministrazione l’utilizzo del comodato quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali. Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell’ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 24.04.2009 n. 33).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decide lo statuto. Legittimo il numero minimo di consiglieri. La materia è affidata all'autonomia organizzativa degli enti locali
Quali norme regolano la costituzione dei gruppi consiliari?

La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma 3, del Tuel n. 267/2000.
In linea di principio sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale, per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia e le relative problematiche dovrebbero trovare adeguata soluzione nella specifica disciplina di cui l'ente stesso si è dotato
Nel caso di specie, la questione riguarda la possibilità di un consigliere di tornare ad appartenere ad un gruppo i cui tre componenti, compreso lo stesso, dopo averlo regolarmente costituito, ai sensi delle norme statutarie, «entro dieci giorni dalla data di convalida degli eletti», si sono determinati a costituire un gruppo diverso.
Sembrerebbe, pertanto, venuto a cessare, all'interno del consiglio comunale, il gruppo originale in quanto tutti i componenti hanno costituito il nuovo gruppo consiliare.
Successivamente al termine su indicato, lo statuto del comune prevede che sia possibile esclusivamente «la costituzione di nuovi gruppi quando non meno di tre consiglieri si dissociano dal o dai gruppi cui avevano originariamente aderito e dichiarino di voler costituire il nuovo gruppo».
Mentre, per quanto riguarda il consigliere che solo si è distaccato dal gruppo ultimo costituito, secondo le norme statutarie e regolamentari, i gruppi unipersonali sarebbero ammessi solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto in una lista, mentre non potrebbe costituire un gruppo l'unico consigliere che rappresenti la lista dopo il distacco degli altri componenti.
Non è, invece, consentita, nel corso della consiliatura, come nel caso di specie, la costituzione di un gruppo formato da una sola persona, qualora lo statuto preveda che «è consentita la costituzione di un gruppo misto, se a comporlo siano almeno tre consiglieri».
In tal caso «il singolo consigliere che fuoriesca dal gruppo di appartenenza ha una sola alternativa: confluire in altro gruppo costituito, ma non può autonomamente formare un nuovo gruppo consiliare» (Tar Sicilia–Palermo sentenza n. 1462 del 2003).
In relazione alla mancata previsione di costituire gruppi c.d. unipersonali, la giurisprudenza ha ritenuto legittima la norma regolamentare che prevede un numero minimo di componenti per la formazione di un gruppo nell'ambito del consiglio comunale, rientrando dunque, nella scelta discrezionale dello stesso consiglio stabilire il minimum necessario per la costituzione del gruppo (Tar Sicilia ult. cit.).
Peraltro, solo il Consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato (articolo ItaliaOggi del 27.09.2013).

LAVORI PUBBLICI: Appalti: i lavori su beni dati in concessione vanno affidati a terzi.
Domanda
Un Comune, a seguito di procedura ad evidenza pubblica, ha dato in concessione ad un privato la gestione del centro sportivo comunale. Ora, di comune accordo, il concessionario ed il Comune vorrebbero potenziare gli impianti e gli immobili oggetto della concessione iniziale, prevedendo un maggior corrispettivo o una maggiore durata della iniziale concessione. Nulla dicendo in tema di ampliamenti e/o migliorie né il bando iniziale né l'atto di concessione in merito, si chiede se ciò sia possibile ed in quale misura questo sia legittimo nel rispetto delle norme e Direttive europee. Il valore della concessione vigente ha un valore di 520.000 IVA per la durata di 13 anni.
Risposta
L'art. 3 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 stabilisce che "29. Gli «enti aggiudicatori» al fine dell'applicazione delle disposizioni delle parti I, III, IV e V comprendono le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che, non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità competente secondo le norme vigenti".
Ne deriva che i lavori che devono essere svolti su beni dati in concessione (tra cui il potenziamento degli impianti e degli immobili oggetto della concessione iniziale) dovranno essere affidati dal concessionario o dal concedente a terzi secondo la procedura di evidenza pubblica, non potendo il concessionario realizzarli direttamente pena la violazione del superiore principio di libera concorrenza. Il Comune, per contro, può assumerli direttamente solo nei limiti di cui all'art. 125 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (24.09.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Personale degli enti locali. Compiti del segretario comunale e rapporto con le P.O. in Comuni privi di figure dirigenziali.
Ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. d), del d.lgs. 267/2000, il segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne le relative attività, non può di norma espletare compiti ordinariamente rimessi alla struttura burocratica in senso proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in grado di espletarne i compiti.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche concernenti il rapporto intercorrente, nei comuni privi di figure dirigenziali, tra il segretario comunale e i titolari di posizione organizzativa. In particolare, l'Ente si è posto la questione se tra i compiti del segretario rientri la funzione di controllo preventivo sugli atti, ovvero il potere di sostituirsi al 'dirigente' (P.O.) nell'espletamento di compiti istituzionali, approvazione di determinazioni, scelte operative, anche attraverso l'avocazione a sé e la sospensione degli atti nel loro percorso amministrativo.
Preliminarmente si osserva che esula dalle competenze dello scrivente Ufficio entrare nel merito delle singole situazioni prospettate dagli enti e dirimere eventuali questioni controverse insorte tra diversi uffici delle amministrazioni locali, dovendo limitarsi ad esaminare le fattispecie in termini generali, nell'ambito della collaborazione giuridico amministrativa rivolta agli enti locali.
Premesso un tanto, si rinvia innanzitutto alle norme regolamentari di organizzazione adottate dall'Amministrazione per definire competenze e ruoli dei singoli soggetti che operano all'interno della medesima, nell'intesa che dette norme risultino in armonia con i principi dettati dall'ordinamento vigente, sia in materia di organizzazione, che con riferimento ai profili delle rispettive competenze.
Si ritiene utile, a tal proposito, illustrare di seguito, in linea generale, l'orientamento giurisprudenziale formatosi in ordine alla figura del segretario comunale ed ai suoi compiti specifici.
Come rilevato dal giudice amministrativo
[1], ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. d), del d.lgs. n. 267/2000, il segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne le relative attività, non può di norma espletare compiti ordinariamente rimessi alla struttura burocratica in senso proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in grado di espletarne i compiti.
Si è altresì sottolineato che al segretario comunale non sono affidati, di norma, compiti di amministrazione c.d. attiva, limitandosi egli a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e a coordinarne l'attività. Tale attribuzione di competenze nettamente separate risulta però per ovvie ragioni temperata nei comuni di minori dimensioni demografiche, generalmente privi di personale dirigenziale. Infatti, l'art. 109 del T.U.E.L. dispone che, nei comuni privi di dirigenti, le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai responsabili degli uffici oppure demandate al segretario comunale, in applicazione dell'art. 97, comma 4, lett. d), del medesimo testo unico, a mente del quale il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco. In tal caso legittimamente la responsabilità operativa di determinate aree può essere attribuita al segretario comunale, che risulta competente ad adottare i relativi provvedimenti ad efficacia esterna.
[2]
Si è precisato, inoltre, che l'art. 97 richiamato è una disposizione aperta, che permette di attribuire al segretario comunale altri compiti particolari, oltre a quelli contemplati espressamente nello stesso enunciato, in conformità alle prescrizioni statutarie e regolamentari dell'ente, le quali possono prevedere che il segretario sia investito di funzioni gestionali, rientranti nelle prerogative dirigenziali, purché queste siano circoscritte e l'affidamento non sia teso a stravolgere l'assetto ordinamentale complessivo dell'ente
[3].
La Suprema Corte
[4] si è pronunciata espressamente sull'illegittimità della sostituzione operata dal segretario comunale nei confronti di un atto rientrante nella sfera di attribuzione di un dipendente, cui pacificamente, secondo conformi previsioni di legge, erano state attribuite funzioni dirigenziali, benché risultasse privo della relativa qualifica. In tale circostanza, si è rimarcato come, nel d.lgs. n. 267/2000, i compiti propri del segretario comunale siano definiti, in linea generale, quali 'compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti'.
Si è poi specificato che il segretario sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività. Quanto alle attribuzioni dei dirigenti -continua la Suprema Corte- la legge ribadisce il principio fondamentale di separazione tra poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo da un lato, e di gestione dall'altro, ed in questa prospettiva assegna ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi, secondo i criteri e le norme dettate dagli statuti e dai regolamenti, imponendo a questi ultimi di uniformarsi al principio anzidetto (art. 107 TUEL). Pertanto, il legislatore attribuisce ai dirigenti ogni compito non riconducibile, in modo espresso, alle funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo o non rientrante tra le funzioni del segretario e del direttore generale.
Particolare rilievo -sottolinea la Corte di Cassazione- nella ricostruzione delle funzioni dirigenziali, assumono, infine, le previsioni circa l'inderogabilità delle attribuzioni dei dirigenti (se non per espressa e specifica previsione di legge) e la diretta ed esclusiva responsabilità dei medesimi, in relazione agli obiettivi dell'ente, alla correttezza amministrativa, alla efficienza e ai risultati della gestione.
Pertanto, l'attribuzione legislativa al segretario comunale di compiti di sovrintendenza e di coordinamento dell'attività del dirigente non può essere intesa, per ragioni di coerenza sistematica, nel senso che tali compiti implichino un potere di sostituzione del dirigente medesimo. Un siffatto potere, da un lato comporterebbe deroga alle attribuzioni di quest'ultimo, in contrasto con l'esplicito limite che la legge prevede in proposito, dall'altro determinerebbe violazione della regola di diretta responsabilità del dirigente rispetto all'atto di esercizio di una funzione specificamente attribuitagli.
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[1] Cfr. TAR Piemonte, Torino, sez. II, sentenza n. 2739 del 04.11.2008.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. IV,. sentenza n.4858 del 2006.
[3] Cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza n. 715 del 2005.
[4] Cfr. Cassazione civile, sez. lav., sentenza n. 13708 del 2007
(13.09.2013 -
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PATRIMONIO: Alienazione immobile con vincolo di destinazione.
Qualora le disposizioni normative costitutive del vincolo di destinazione di un edificio risultino abrogate, non pare sussistere alcun ostacolo legislativo all'alienabilità dello stesso, senza vincolo di destinazione.
Il Comune, proprietario di un immobile con vincolo di destinazione a scuola materna, ai sensi dell'art. 2-ter della legge 04.08.1978, n. 465, chiede di conoscere se, attesa l'abrogazione della predetta legge ad opera dell'art. 24 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133, il vincolo di destinazione possa considerarsi non più operante e l'Ente possa dunque procedere all'alienazione dell'edificio. Un tanto in considerazione anche dello stato di abbandono dell'immobile in argomento e della intervenuta realizzazione di altra struttura specificamente progettata per accogliere la nuova scuola materna.
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni.
Come già rappresentato nel parere prot. 5073 dd. 22.02.1995, l'immobile in argomento può essere annoverato tra i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell'Ente.
Circa il regime giuridico dei beni indisponibili, l'unica indicazione legislativa esplicita è quella di cui al secondo comma dell'art. 828 c.c. secondo cui tali beni non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. A parte questa disposizione, manca una disciplina uniforme dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile. In linea generale, può affermarsi che detti beni sono sottoposti a un regime differente da quello di diritto comune, ma la portata di questo regime è solitamente stabilita dalle singole leggi che li disciplinano.
[1]
Si ritiene, dunque, che qualora l'alienabilità non sia vietata da alcuna norma di legge, essa dovrebbe essere, in via generale, ammessa.
Atteso che, come descritto in premessa, le disposizioni normative costitutive del vincolo di destinazione dell'edificio 'de quo' risultano abrogate, non pare sussistere alcun ostacolo legislativo all'alienabilità, senza vincolo di destinazione, del predetto immobile.
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[1] Si osserva, ad esempio, che l'inalienabilità dei beni indisponibili non è un carattere assoluto come invece è previsto per i beni demaniali, tuttavia, numerose leggi speciali sanciscono l'inalienabilità delle miniere, delle cave, delle torbiere, delle foreste, ecc. (26.08.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: D.lgs. 39/2013. Compatibilità tra la carica di Sindaco e di Presidente di fondazione .
L'articolo 29-ter del decreto legge 21.06.2013, n. 69, come inserito dalla legge di conversione 09.08.2013, n. 98, stabilisce che le cause di incompatibilità, previste ai capi V e VI del d.lgs. 39/2013, non hanno effetto in relazione agli incarichi conferiti e ai contratti stipulati -in conformità con la normativa vigente- antecedentemente all'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, fino alla scadenza già stabilita per i medesimi incarichi e contratti.
Il Comune, con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, chiede di conoscere se ricorrano talune delle cause di incompatibilità di cui al d.lgs. 39/2013 in capo al Sindaco, componente di diritto dell'assemblea dei sindaci di un'associazione intercomunale con popolazione complessiva superiore a 15.000 abitanti, il quale riveste, altresì, la carica di Presidente, senza poteri gestionali, di una fondazione.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Il d. lgs. 39/2013, al Capo VI, disciplina le incompatibilità tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e le cariche di componenti di organi di indirizzo politico.
Si segnala tuttavia che l'articolo 29-ter del decreto legge 21.06.2013, n. 69, come inserito dalla legge di conversione 09.08.2013, n. 98, contiene alcune disposizioni transitorie in materia di incompatibilità di cui al d.lgs. 39/2013 stabilendo che le nuove cause di incompatibilità, ivi previste ai capi V e VI, non hanno effetto in relazione agli incarichi conferiti e ai contratti stipulati -in conformità con la normativa vigente- antecedentemente all'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, fino alla scadenza già stabilita per i medesimi incarichi e contratti.
Pertanto, a prescindere dalla puntuale analisi dei casi idi incompatibilità di cui al Capo VI del decreto legislativo, che potranno essere eventualmente esaminati dallo scrivente Ufficio in relazione a futuri casi concreti, quanto all'odierno quesito, l'attuale Sindaco dell'Ente non versa in condizione di incompatibilità con la carica di Presidente di fondazione che potrà mantenere sino alla naturale scadenza già prevista, così come disposto dal citato articolo 29‑ter (23.08.2013 -
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APPALTI: Contributo per la partecipazione alle gare.
L'obbligo del versamento del contributo, a favore dell'Avcp, da parte degli operatori economici operanti nel relativo mercato, costituisce, per espressa previsione dell'art. 1, c. 67, della L. 266/2005, 'condizione di ammissibilità dell'offerta'.
Al riguardo, tanto l'Avcp, quanto la giurisprudenza, hanno affermato che:
1) la norma opera ex lege, a nulla rilevando l'assenza del suo richiamo nel bando di gara o nella lettera d'invito;
2) la mancata dimostrazione, all'atto della presentazione dell'offerta, dell'avvenuto versamento del contributo costituisce causa di esclusione dalla procedura di gara;
3) tale omissione non può essere sanata dopo la scadenza del termine perentorio di presentazione delle offerte.

Il Comune, premesso che l'art. 1, comma 67
[1], della legge 23.12.2005, n. 266, prevede che l'obbligo del versamento del contributo, a favore dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), da parte degli operatori economici operanti nel relativo mercato, costituisce 'condizione di ammissibilità dell'offerta' e ritenendo che la norma operi ex lege, a nulla rilevando l'assenza del suo richiamo nel bando di gara, chiede di conoscere se l'adempimento possa essere assolto successivamente al termine indicato per la presentazione dell'offerta.
Anzitutto, si rileva che, come correttamente sostenuto dall'Ente, la norma in questione trova applicazione indipendentemente dal suo richiamo nel bando di gara o nella lettera d'invito, «atteso che, in forza di un principio unanimemente riconosciuto, le disposizioni della lex specialis devono ritenersi integrate dalle norme di legge cd. autoesecutive (cioè quelle norme legislative che non abbisognano per la loro applicazione dell'emanazione di altre disposizioni normative di dettaglio), per cui il predetto obbligo, previsto dall'art. 1, comma 67, l. n. 266 del 2005 deve considerarsi inserito nella lex specialis, anche se dalla stessa non sia espressamente previsto»
[2].
Quanto alla possibilità che il versamento del contributo di cui trattasi possa essere utilmente eseguito oltre il termine indicato per la presentazione della offerta, si deve fornire risposta negativa.
La qualificazione del contributo in parola come condizione legale di ammissibilità dell'offerta, cui consegue l'onere di dimostrare l'avvenuto versamento al momento della presentazione dell'offerta medesima, in difetto del quale opera l'esclusione dalla procedura di gara, è stata costantemente sostenuta dall'Autorità competente
[3].
In adesione alla predetta impostazione, la giurisprudenza ha affermato che l'obbligo, gravante sugli operatori economici che intendono partecipare a gare pubbliche, di provvedere al pagamento del contributo previsto dall'art. 1, comma 67, della L. 266/2005 «assume la configurazione di una condizione di ammissibilità dell'offerta; cioè la mancata dimostrazione, al momento della presentazione dell'offerta, dell'avvenuto versamento del predetto contributo costituisce causa di esclusione dalla procedura di gara e tale omissione non può essere sanata dopo la scadenza del termine perentorio di presentazione delle offerte»
[4].[5]
La giurisprudenza ha anche chiarito che «La sanatoria ex post attraverso la regolarizzazione ex art. 46, d.lg. n. 163 del 2006, che consentisse ad un concorrente che ha omesso di adempiere un obbligo costituente condicio iuris indispensabile per essere ammesso ad una gara inciderebbe sulla par condicio dei concorrenti in gara che hanno regolarmente adempiuto all'onere di versamento del contributo ed inoltre introdurrebbe un elemento di instabilità e di incertezza nelle procedure di aggiudicazione collidente con il principio di buon andamento tutelato a livello costituzionale con l'art. 97 Cost.»
[6].
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[1] «L'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, cui è riconosciuta autonomia organizzativa e finanziaria, ai fini della copertura dei costi relativi al proprio funzionamento di cui al comma 65 determina annualmente l'ammontare delle contribuzioni ad essa dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti alla sua vigilanza, nonché le relative modalità di riscossione, ivi compreso l'obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell'offerta nell'ambito delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche. [...]».
L'obbligo di versamento del contributo in questione, originariamente previsto per i soli appalti di opere pubbliche, trova applicazione anche agli appalti di servizi e forniture, a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 163/2006, che ha esteso le funzioni di vigilanza dell'Avcp a tali settori (v. TAR Sardegna-Cagliari, Sez. I, 22.12.2008, n. 2202; TAR Campania-Salerno, Sez. I, 01.10.2010, n. 11285 e TAR Sicilia-Catania, Sez. II, 01.02.2013, n. 377).
[2] Così TAR Sicilia-Catania, Sez. II, n. 377/2013, cit.. In precedenza, TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 01.12.2006, n. 3888, aveva rilevato che l'art. 1, comma 67, della L. 266/2005 «integra norma eterointegrativa dei bandi di gara, attesa la totale assenza di discrezionalità dell'amministrazione in ordine alla sua applicabilità ed efficacia».
[3] V., in particolare, Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, deliberazione 26 gennaio 2006 (art. 3, comma 2); Avcp deliberazioni 10.01.2007 (art. 3, comma 3), 24.01.2008 (art. 3, comma 2), 01.03.2009 (art. 3, comma 2), 15.02.2010 (art. 4, comma 2), 03.11.2010 (art. 5, comma 2) e 21.12.2011 (art. 3, comma 2); pareri 16.12.2010, n. 225 e 23.03.2011, n. 58.
[4] Così TAR Sicilia-Catania, Sez. II, n. 377/2013, cit..
[5] Il principio era già stato affermato, tra gli altri, da TAR Basilicata-Potenza, Sez. I, 14.01.2011, n. 32; TAR Sardegna-Cagliari, Sez. I, n. 2202/2008, cit..
[6] Così TAR Sicilia-Catania, Sez. II, n. 377/2013, cit.
(13.08.2013 -
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ACQUISTO FORNITURE: L. n. 228/2012, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, prevede che, ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014, le amministrazioni pubbliche ivi indicate, tra cui le amministrazioni locali, non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Il Comune chiede di sapere se trova applicazione nella Regione Friuli Venezia Giulia la disposizione di cui all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012
[1] (Legge di stabilità 2013) e, in caso positivo, se sia da applicarsi anche nel caso di acquisto di mobili funzionali al completamento di un'opera pubblica la cui spesa sia prevista all'interno del quadro economico dell'opera stessa (l'Ente indica esemplificativamente l'acquisto di banchi e armadietti nell'ambito di lavori di ampliamento di una scuola materna).
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Il comma 141 dell'art. 1 della legge di stabilità 2013 stabilisce che
«ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, [...] non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori di conti verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma. [...]».
La misura di contenimento della spesa prevista dal comma 141 richiamato riguarda specificamente le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196.
Ai sensi dell'art. 1, comma 3, richiamato, la ricognizione delle amministrazioni pubbliche ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica è operata annualmente dall'ISTAT con proprio provvedimento pubblicato annualmente in Gazzetta Ufficiale.
Al riguardo, viene, da ultimo, in considerazione l'elenco di cui al Comunicato 28.09.2012
[2], comprendente, per quanto qui di interesse, le Amministrazioni locali (tra cui, le Regioni e province autonome, le Province, i Comuni, le Comunità montante e le Unioni di Comuni).
Si può dunque, affermare l'applicabilità della misura finanziaria di cui all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, anche agli acquisti di mobili e arredi degli enti locali
[3].
Per quanto concerne la possibilità di procedere ad acquisti di mobili e arredi qualora gli stessi siano funzionali al completamento di un'opera pubblica e la cui spesa sia stata prevista all'interno del quadro economico dell'opera stessa, si osserva che il tenore letterale dell'art. 1, comma 141, indica un'unica eccezione alla misura di contenimento della spesa pubblica ivi prevista: l'ipotesi in cui gli acquisti siano funzionali alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili
[4].
Un'eventuale interpretazione della norma nel senso di individuare ulteriori ipotesi di salvezza non pertiene a questo Servizio, dovendo al riguardo intervenire i competenti organi statali.
Per completezza di esposizione, si segnala che ai sensi dell'art. 1, comma 165, L. n. 228/2012, 'I limiti di cui al precedente comma 141 non si applicano agli investimenti connessi agli interventi speciali realizzati al fine di promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale e territoriale, di rimuovere gli squilibri economici, sociali, istituzionali e amministrativi del Paese e di favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona in conformità al quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione e finanziati con risorse aggiuntive ai sensi del decreto legislativo 31.05.2011, n. 88', nell'ambito dei quali non sembra riconducibile la fattispecie prospettata dal Comune
[5].
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[1] L. 24.12.2012, n. 228, recante: 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)'.
[2] ISTAT, Comunicato 28.09.2012, recante: 'Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica)'.
[3] Si segnala, comunque, che la Regione FVG ha promosso ricorso di legittimità costituzionale avverso alcune norme della L. n. 228/2012, tra cui, per quanto qui di interesse, l'art. 1, comma 141, in relazione al quale è stata rilevata la violazione della competenza primaria regionale in materia di finanza locale, risultante dall'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto FVG, e dall'art. 9, D.Lgs. n. 9/1997, secondo cui 'spetta alla regione disciplinare la finanza locale, l'ordinamento finanziario e contabile, l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali', nonché 'la regione finanzia gli enti locali con oneri a carico del proprio bilancio, salvo il disposto di cui al comma 3'.
[4] In tal caso è attribuito al collegio dei revisori di conti il compito di verificare preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del comma in argomento (cfr. Ministero dell'economia e delle finanze, circolare n. 2 del 05.02.2013).
[5] Cfr. nota di questo Servizio n. 7679 del 07.02.2013, consultabile all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it
(13.08.2013 -
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ENTI LOCALI: DL 95/2012, art. 4, comma 6. Contributi ad associazioni.
Le associazioni che svolgono attività in favore della cittadinanza non rientrano nel divieto di ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche di cui all'articolo 4, comma 6, del DL 95/2012. Tale divieto è infatti riferito agli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile che forniscono servizi, anche a titolo gratuito, a favore dell'amministrazione stessa.
Il Comune chiede di conoscere se nel divieto posto dall'art. 4, comma 6, del DL 95/2012, convertito dalla legge 135/2012, rientrino anche i contributi assegnati dall'Ente alle associazioni, a sostegno delle spese per le iniziative e le manifestazioni da esse organizzate autonomamente a vantaggio della collettività.
Precisa l'ente instante che la concessione dei predetti contributi è disposta nel rispetto del regolamento adottato in ottemperanza all'art. 12 della l. 241/1990.
L'art. 4, comma 6, del DL 95/2012 prevede che: "A decorrere dal 01.01.2013 le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria. Gli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile, che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche. Sono escluse le fondazioni istituite con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l'alta formazione tecnologica e gli enti e le associazioni operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni ed attività culturali, dell'istruzione e della formazione, le associazioni di promozione sociale di cui alla legge 07.12.2000, n. 383, gli enti di volontariato di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, le organizzazioni non governative di cui alla legge 26.02.1987, n. 49, le cooperative sociali di cui alla legge 08.11.1991, n. 381, le associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 289, nonché le associazioni rappresentative, di coordinamento o di supporto degli enti territoriali e locali."
Dal tenore letterale della norma sopra richiamata si evince che il divieto di ricevere contributi riguarda gli enti e le associazioni che forniscono servizi direttamente alle amministrazioni pubbliche.
Come, infatti, osservato dalla Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, nel parere 21.03.2013, n. 89 «[...] le associazioni che svolgono attività in favore della cittadinanza non rientrano nel divieto di legge: quest'ultimo è riferito agli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa anche a titolo gratuito. La Sezione osserva che il predetto divieto di erogazione di contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei cittadini, id est della 'comunità amministrata', seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo. Il discrimine appare, in sostanza, legato all'individuazione del fruitore immediato del servizio reso dall'associazione.» (09.08.2013 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: D.lgs. 33/2013, art. 14. Obbligo di pubblicazione della situazione patrimoniale dei titolari di cariche elettive.
Sono soggetti agli obblighi di pubblicazione, di cui all'art. 14, comma 1, lett. f), del d.lgs. 33/2013, relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche elettive (sindaco, assessori e consiglieri comunali), i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Con riferimento all'articolo 14 del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni', il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di presentazione della documentazione di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 05.07.1982, n. 441 riguardi i titolari di incarichi pubblici di carattere elettivo di tutti i comuni o solamente di quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Un tanto in considerazione del fatto che, per espressa modifica operata dall'art. 52, comma 1, n. 4 del d.lgs. 33/2013, le disposizioni di cui alla l. 441/1982 si applicano, tra l'altro, 'ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.'.
Chiede inoltre di conoscere se la norma si riferisca, oltre che ai consiglieri comunali anche al sindaco e agli assessori.
Il d.lgs. 33/2013 ha modificato la disciplina in tema di obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico, materia che, a decorrere dal 20.04.2013 (data di entrata in vigore del decreto legislativo), risulta normata dall'articolo 14 di detto decreto e dagli articoli 2, 3 e 4 della l. 441/1982, come modificati dall'art. 52 del medesimo decreto. Inoltre, da tale data risulta abrogato l'articolo 41-bis del d.lgs. 267/2000 (art. 53, comma 1, lett. c).
Tuttavia, l'articolo 14 del d.lgs. 33/2013, pur richiamando al comma 1, lettera f) gli articoli 2, 3 e 4 della l. 441/1982 (applicabili, ai sensi del precedente articolo 1 n. 5 della medesima legge, ai Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti), non differenzia in alcun modo gli enti locali in relazione alla loro popolazione, essendo rivolto, in via generale, alle 'pubbliche amministrazioni'.
A chiarire in via definitiva la questione è intervenuta la CIVIT con la delibera n. 65/2013 dd. 31.07.2013 nella quale, rispondendo ai numerosi quesiti pervenuti sull'argomento, ha affermato che: «sono soggetti agli obblighi di pubblicazione relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche elettive i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, fermo restando l'obbligo di pubblicazione per tutti i comuni, indipendentemente dal numero di abitanti, dei dati e delle informazioni di cui alle lettere da a) ad e) del medesimo art. 14, comma 1. Quanto alle forme associative di comuni si precisa che l'obbligo si riferisce agli organi di indirizzo politico delle stesse se la popolazione complessiva supera i 15.000 abitanti.
Tenuto conto, inoltre, della formulazione dell'art. 14, comma 1 del d.lgs. n. 33/2013 che individua quali soggetti tenuti alla pubblicazione dei dati e delle informazioni i 'titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico', deve ritenersi che nei Comuni sono assoggettabili agli obblighi di pubblicazione di cui all'art. 14, comma 1, lett. f), il sindaco, gli assessori e i consiglieri comunali
.» (08.08.2013 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIAsili, solo i dati necessari. Niente informazioni se non danno punteggio. Il Garante privacy pone limiti alle richieste che i comuni possono fare.
Il comune non può raccogliere una quantità eccessiva di dati per l'inserimento nell'asilo nido. Soprattutto se le informazioni non sono richieste dal regolamento comunale e, quindi, non fanno acquisire punteggi nella graduatoria di accesso alla scuola.

Lo ha precisato il Garante della privacy con il
provvedimento 06.06.2013 n. 273, reso noto attraverso la newsletter del collegio, presieduto da Antonello Soro, del 27.09.2013.
Il Garante, inoltre, si è occupato di accesso dei consiglieri regionali e di ricerca medica.
Asili nido. Non risulta giustificato chiedere di dichiarare nei moduli per l'accesso all'asilo nido il motivo di assenza di uno dei genitori dal nucleo familiare e anche la presenza di un procedimento di affido o adozione in corso. Medesimo divieto vale per l'origine straniera di uno o entrambi i genitori, con l'indicazione dell'anno di ingresso in Italia, così come per la professione o la scuola frequentata da eventuali altri figli componenti il nucleo familiare. Anche i dati sui nonni sono superflui e, quindi, il comune deve astenersi dal chiedere il nome, il cognome, la data di nascita, la residenza dei nonni del minore e se, risultano residenti nel territorio del comune, anche l'occupazione, l'orario settimanale di lavoro, lo stato di salute e l'invalidità.
La preclusione nasce dal fatto che non possono essere richieste notizie diverse e ulteriori rispetto a quelle utili alla predisposizione della graduatoria di ammissione all'asilo. Tutto quello che non serve ad attribuire punteggi e che non è previsto nel regolamento comunale non può essere chiesto nel modulo di iscrizione. Si noti che, comunque, la legge non stabilisce il diritto all'anonimato e che il comune è autorizzato a chiedere tutti i dati necessari o indispensabili (per i dati sensibili) per lo svolgimento dell'attività.
Consiglieri regionali. I politici regionali hanno ampia facoltà di conoscenza degli atti e documenti trattati dall'ente, ma devono limitarsi a chiedere documenti strettamente pertinenti il mandato elettivo. Il Garante ha dato parere favorevole all'integrazione del regolamento tipo sul trattamento dei dati sensibili effettuato dai consigli e dalle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome (si veda ItaliaOggi del 20.08.2013).
Nel parere, il Garante, indica prescrizioni per il caso di richieste di accesso da parte dei consiglieri, al fine di evitare strumentalizzazioni ai danni della riservatezza delle persone individuate negli atti regionali. Nei regolamenti è necessario integrare la descrizione del trattamento specificando che le richieste dei consiglieri delle regioni e delle province autonome possono essere legittimamente accolte soltanto se risultino, appunto, utilmente ricondotte alle esclusive finalità di rilevante interesse pubblico «direttamente connesse all'espletamento di un mandato elettivo».
Inoltre i consigli e le assemblee legislative devono adottare modalità tali da assicurare che l'accesso del consigliere sia esercitato, in concreto, in modo da comportare il minor pregiudizio possibile alla vita privata delle persone cui si riferiscono i dati contenuti nei documenti oggetto dell'istanza di accesso. Il Garante aggiunge che i dati personali eventualmente acquisiti dal consigliere possono essere utilizzati per le sole finalità realmente pertinenti al mandato.
Informativa medica. Il Garante, con il provvedimento 359/2013 ha autorizzato l'Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas) a fornire un'informativa semplificata ai pazienti coinvolti in un progetto di ricerca che mira a costruire e a verificare nuovi algoritmi per individuare i malati con patologie complesse e croniche (cardiopatia ischemica, demenza, diabete, ipertensione e scompenso cardiaco). L'informativa dovrà essere pubblicata su quotidiani, sui siti delle Asl interessate, e illustrata dai medici di base anche a mezzo di depliant affissi e distribuiti nei loro studi (articolo ItaliaOggi del 28.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAElettrodomestici subito in discarica. Legge europea. Cambia la procedura.
IL PROBLEMA/ Installatori e centri di assistenza tecnica non possono più tenere in deposito le vecchie apparecchiature dei clienti
Azzerate le semplificazioni per gli installatori di elettrodomestici e per i gestori dei centri di assistenza tecnica. Diviene possibile, invece, istituire centri di raccolta privati di Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche).

La legge europea 2013 (92/2013) ha abrogato il secondo comma dell'articolo 1 del decreto ministeriale 08.03.2010 numero 65 e ha trasferito i contenuti di quel comma, la disciplina del raggruppamento dei Raee d'origine domestica, al decreto legislativo 151/2005.
Questa modifica comporta difficoltà sia di coordinamento normativo, non viene precisato in quale punto del decreto legislativo debbano essere inserite le nuove disposizioni sulla raccolta dei rifiuti tecnologici, sia d'ordine pratico. Infatti, l'articolo 4 del Dm 65/2010, mediante il riferimento al comma soppresso, consentiva agli installatori e ai gestori dei centri di assistenza tecnica di mettere in deposito nei propri locali, dopo aver ottenuto una specifica iscrizione all'albo gestori ambientali, le apparecchiature elettriche ed elettroniche dismesse dai propri clienti.
Le conseguenze dell'abrogazione sembrano essere preoccupanti. I centri di assistenza tecnica non potendo più effettuare il raggruppamento dei Raee presso la propria unità locale, non potranno più ritirare dai clienti gli elettrodomestici divenuti rifiuti; mentre gli installatori, non avendo più la possibilità di trasferire gli apparecchi dismessi presso la propria sede, dovranno organizzarsi per trasportarli direttamente dal domicilio del cliente al centro di raccolta. «È indispensabile –spiega Luciano Teli, direttore del Consorzio ecoR'it– considerando le esigenze dei piccoli punti vendita, prevedere un'asportazione trimestrale dei Raee e poi ripristinare al più presto le agevolazioni in precedenza previste per gli installatori».
Analoghe difficoltà per i distributori di apparecchiature professionali «formalmente incaricati dai produttori di provvedere al ritiro dai Raee»: la modifica del decreto ministeriale impedisce al commerciante di depositare i rifiuti dei clienti presso il punto vendita o il magazzino esterno, precludendo la gestione degli apparecchi dismessi.
Anche secondo Giorgio Arienti, direttore del Consorzio Ecodom, la modifica della norma presenta luci e ombre: «È rimasta purtroppo disattesa l'esigenza di ridurre la frequenza dei trasporti dai negozi alle isole ecologiche».
La legge europea 2013 dispone il trasferimento della disciplina dei centri di raccolta dei Raee dal regolamento alla norma primaria, prevedendo anche che i centri di raccolta possano essere autorizzati con le modalità normalmente previste per gli impianti di gestione dei rifiuti. Gli impianti di recupero già autorizzati a ricevere Raee domestici potranno quindi affiancarsi, probabilmente dopo aver comunicato questa intenzione all'autorità che ha rilasciato l'autorizzazione, ai centri di raccolta comunali, integrando una rete che in molte aree del Paese si è rivelata del tutto insufficiente (articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. In vista della partenza del 1° ottobre Confindustria ha inviato un dossier con tutte le criticità al ministro Orlando.
Imprese in pressing sul Sistri. L'obiettivo è un intervento del ministero per limitare incertezze e conseguenze negative.
NIENTE PENALITÀ/ Ribadita la richiesta di estendere la non applicazione delle sanzioni a tutto il periodo di sperimentazione.

A tre giorni all'entrata in vigore del Sistri, gli operatori confidano che il ministero intervenga per limitare il più possibile l'impatto del sistema.
Dopo le audizioni parlamentari delle scorse settimane e le lettere spedite al ministro dell'Ambiente Andrea Orlando da parte di diversi interlocutori, ieri Confindustria ha inviato un dossier contenente tutte le criticità rilevate dalle imprese e attende ora di confrontarsi con il ministro nei prossimi giorni.
I problemi principali sono tre. Molti trasportatori non avranno mezzi dotati di black box anche a causa di ritardi nelle consegne delle apparecchiature e di malfunzionamenti delle chiavette Usb. Praticamente nessun impianto di trattamento ha potuto collegare con il Sistri il software di gestione utilizzato normalmente. Tali impianti e i trasportatori dovranno continuare a usare in parallelo anche il sistema cartaceo con un aggravio di lavoro che determinerà ritardi nel ricevimento dei rifiuti. Infine, i produttori subiranno gravi disagi che aumenteranno nel corso del tempo.
Confindustria auspica un intervento del ministero che confermi le indicazioni fornite dall'associazione agli operatori il 17 settembre per ridurre i margini di incertezza, nonché l'inserimento di tali note nella normativa in occasione della conversione del decreto legge. In particolare dovrebbe essere confermato ufficialmente che i soggetti obbligati all'applicazione dal 1° ottobre sono solo gli operatori specifici del trasporto e del trattamento rifiuti, escludendo quindi chi effettua trasporto in conto proprio (in tal modo il numero di soggetti coinvolti passa da circa 50mila a 17mila).
Sarebbe inoltre opportuno utilizzare la procedura applicata alla micro raccolta, che semplifica di molto gli obblighi previsti per il trasporto, nonché estendere la moratoria delle sanzioni a tutto il periodo della sperimentazione e non solo al primo mese. L'esenzione dalle sanzioni nei giorni scorsi era stata chiesta anche da Rete imprese Italia, al pari della delimitazione dell'ambito di soggetti obbligati.
Ieri preoccupazione per la mancanza di chiarezza è stata espressa anche da Federambiente, Fise Assoambiente e dal Centro di coordinamento Raee. Nonostante le rassicurazioni verbali giunte nei giorni scorsi dal ministero –hanno scritto in una nota– non è ancora stato specificato se i rifiuti urbani pericolosi ricadono nell'obbligo di tracciabilità del nuovo sistema oppure no.
Dato che un ulteriore rinvio del Sistri è impossibile, gli operatori chiedono che almeno vengano limitate le conseguenze negative e chiarite il più possibile le modalità di applicazione dello stesso. Il rinvio, come spiegato dal ministro con una risposta fornita al presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, non è possibile a causa del contratto in corso con Selex, la società che ha sviluppato il sistema, e che ha già informalmente contestato al ministero un inadempimento contrattuale (a fronte di 250milioni di costi per la realizzazione del Sistri, da finanziare con la tariffa a carico degli utenti, il ministero ha pagato solo una parte).
Un azzeramento dell'intero sistema esporrebbe il ministero a un'azione di responsabilità contrattuale e per danno erariale. In compenso dal ministro è arrivata la disponibilità a intervenire per semplificare il quadro complessivo in fase di conversione in legge del decreto e tramite una normativa secondaria (articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2013).

ENTI LOCALI: Partecipate, prefetti in campo. Società commissariate se non si avviano le dismissioni. Entro il 30/9 dovrebbe scattare la procedura di liquidazione o cessione delle quote.
Si avvicina la resa dei conti sulle società dei comuni con meno di 30 mila abitanti. Entro lunedì prossimo, 30 settembre, infatti, dovrebbe scattare la procedura di liquidazione ovvero, in alternativa, la cessione delle partecipazioni sul mercato. Il condizionale è quasi un eufemismo, visto che al momento ben pochi enti si sono mossi per allinearsi all'obbligo, complice anche la girandola di proroghe e di eccezioni introdotte sia dal legislatore che dalla magistratura contabile.
Ma questa volta i renitenti potrebbero non passarla liscia: in caso di inadempimento, infatti, è previsto che il prefetto assegni un termine perentorio per provvedere e, se l'inerzia si protrae, nomini un commissario ad acta.

Tutto nasce con la manovra estiva 2010 (dl 78), che all'art. 14, comma 32, introduce una regola molto chiara: al di sotto dei 30 mila abitanti, i comuni non possono detenere partecipazioni societarie e devono, quindi, dismettere quelle di cui siano già titolari. Per quelli fino a 50 mila abitanti, invece, viene consentita una sola partecipazione.
L'unica eccezione riguarda le società, con partecipazione paritaria o proporzionale al numero degli abitanti costituite da più comuni con popolazione complessiva superiore alle soglie demografiche minime. Altre deroghe sono state però introdotte dalla normativa successiva, che ha escluso anche le società con i conti in ordine (si veda la tabella). Sulla portata dell'obbligo, inoltre, si sono scatenate anche le sezioni regionali della Corte dei conti, con pronunce spesso contraddittorie che talora hanno esonerato qualsiasi società che gestisca servizi pubblici.
A rendere ancora più nebuloso il quadro, è intervenuto, infine, il dl 95/2012, che all'art. 4 ha imposto di dismettere le società strumentali (ovvero quelle che realizzano almeno il 90% del fatturato con la p.a.).
Ovviamente, ogni norma prevede scadenze diverse, tutte oggetto di ripetute proroghe: in origine, la dead-line era fissata per tutti i comuni al 31/12/2010, ora (per motivi incomprensibili) sono previsti termini diversi fino a 30 mila abitanti (appunto, 30/09/2013) e fra 30 mila e 50 mila (31/12/2014). Per le strumentali, invece, la data segnata sul calendario è (dopo l'ultima proroga) il 31/12/2013.
Ma se questo è tipico della convulsa evoluzione della legislazione italiana, la vera novità è rappresentata dalla previsione del potere sostitutivo nei confronti degli enti inadempienti operata dall'art. 16, comma 28, del dl 138/2011. È la prima volta, infatti, che i tentativi di disboscamento della giungla del «socialismo municipale» vengono rafforzati con il coinvolgimento degli uffici territoriali del governo. La questione è se i prefetti riusciranno, in mancanza di dati certi e completi sul numero e sull'entità delle partecipazioni detenute dai sindaci e ancor di più sulla situazione di bilancio delle relative società, ad esercitare effettivamente le loro prerogative.
L'ultimo censimento, infatti, risale al 2012, allorché la sezione autonomie contò circa 2.500 società, delle quali oltre un terzo con bilanci in rosso.
Da allora, però, è passato circa un anno e la crisi quasi certamente ha ampliato la platea. Gli ultimi dati dettagliati sui conti risalgono, invece, al 2011, quando la Funzione pubblica certificò un pesante -77% dei risultati di esercizio (articolo ItaliaOggi del 27.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Inascoltati gli appelli del mondo imprenditoriale per un intervento di semplificazione delle procedure.
Il Sistri riparte fra mille dubbi. Dopo tre anni di proroghe, dal 1° ottobre al via la tracciabilità dei rifiuti pericolosi.
I NODI/ Oltre al malfunzionamento dei dispositivi, ci sono discrasie tra quanto contenuto nel Testo unico e nel manuale operativo.

Il conto alla rovescia giornaliero per l'avvio del Sistri è giunto ormai a quota meno quattro e, nonostante gli appelli delle imprese, la partenza del sistema di tracciabilità dei rifiuti pericolosi prevista per il 1° ottobre questa volta molto probabilmente non verrà rinviata.
Dopo tre anni di proroghe, i problemi non sono stati risolti e a farne le spese saranno gli operatori che dovranno fare i conti con dispositivi non funzionanti, istruzioni poco chiare e il rischio (seppur attenuato nella prima fase) di incorrere in sanzioni.
All'inizio del mese, in occasione dell'incontro con i rappresentanti delle associazioni di categoria, il ministro dell'Ambiente, Andrea Orlando, ha preso atto delle criticità evidenziate dalle imprese, ma al contempo ha affermato che «dopo aver esplorato tutte le alternative, e non avendo alcuna possibilità di risolvere il contratto che impegna la pubblica amministrazione con la Selex, abbiamo assunto la decisione di evitare l'ipotesi di un ennesimo rinvio del Sistri». Con il Dl 101/2013 del 31 agosto il governo ha ridotto il numero di imprese coinvolte nella prima fase, ma il sistema rischia comunque di creare ulteriori difficoltà alle aziende.
Funzionalità del sistema, semplicità d'uso e costi accessibili. Sono questi i tre requisiti non rinunciabili affinché il Sistri possa essere usato con vantaggio della tutela ambientale e senza creare inutili ostacoli alle imprese.
Tuttavia, nonostante siano trascorsi oltre tre anni dalla prima partenza prevista per il 13.07.2010, e successivamente prorogata più volte (si veda la tabella a fianco), è successo troppo poco. Infatti, a dispetto delle moltissime segnalazioni degli operatori e delle associazioni di categoria levate a gran voce fin dal 2010, le procedure informatiche (di competenza della Selex) e gli aspetti procedurali (di competenza del ministero) non sono cambiati. Lo dimostra la versione 3.1 del manuale operativo del 07.08.2013 apparsa lo scorso 12 agosto sul sito internet www.sistri.it, molto simile alla precedente e che, quasi priva delle semplificazioni richieste dalle imprese, fuga ben poche difficoltà.
Anche le incongruità normative del manuale resistono tutte, complete di refusi e disallineamenti. Si pensi, per esempio, al fatto che le procedure di gestione dei rifiuti interne all'impianto non sono previste dal Dm 52/2001 (Testo unico del Sistri). Però, il manuale operativo al capitolo 7.3 le prevede, mentre le imprese operano in base alle singole autorizzazioni; pertanto, occorrono chiarimenti e veloci procedure di interoperabilità. Il manuale consente di sostituire più dispositivi Usb con uno solo da usare per tutte le attività svolte nella medesima unità locale. Il Dm 52/2011, invece, non lo prevede. In questi giorni di riavvicinamento al sistema, molte imprese denunciano il mancato funzionamento delle black box.
Nonostante la sua costosa e faraonica architettura, il Sistri offre alle imprese come punto di riferimento istituzionale solo un call center che spesso, però, non è in grado di risolvere la molteplicità delle problematiche.
I soggetti che partono martedì 1° ottobre dovranno continuare a tenere registri e formulari fino al 1° novembre. In base all'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 205/2010, le sanzioni saranno applicabili dal 02.11.2013, mentre il comma 2 prevede sanzioni attenuate per le violazioni amministrative commesse fino al 01.06.2014 (riduzione a 1/10) e per quelle commesse nei quattro mesi successivi (riduzione a 1/5).
In base all'articolo 260-bis del decreto 152/2006, comma 9-ter, l'applicazione delle sanzioni amministrative è esclusa se, entro 30 giorni dalla commissione del fatto, il trasgressore adempie agli obblighi previsti dal Sistri (articolo Il Sole 24 Ore del 27.09.2013).

ENTI LOCALI: Gestioni associate, chiesta la proroga. L'obbligo, in vigore dal 2014, è a rischio incostituzionalità.
Prorogare l'appuntamento dei piccoli comuni con la gestione associata delle funzioni fondamentali, in attesa che la Corte costituzionale il prossimo 3 dicembre si pronunci sulle norme che obbligano i mini-enti a mettersi insieme. Norme mai del tutto digerite dai diretti interessati e anche dalle regioni che hanno inondato di ricorsi la Consulta lamentando la violazione delle proprie prerogative in materia di ordinamento degli enti locali.
Contro l'art. 16 del dl 138/2011 che ha imposto il modello dell'unione per l'esercizio delle funzioni fondamentali a tutti i comuni fino a 1.000 abitanti si sono levate ben dieci regioni (Toscana, Lazio, Puglia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia e Sardegna), mentre altri cinque ricorsi (presentati da Sardegna, Puglia, Lazio, Veneto e Campania) hanno preso di mira l'art. 19 della spending review di Mario Monti (dl 95/2012) che ha riscritto l'art. 14 del dl 78/2010 fissando la data del 01.01.2014 quale dead line per l'esercizio in forma associata di nove funzioni fondamentali su dieci (tramite unione o convenzione).
L'appuntamento con l'associazionismo, dunque, si avvicina, ma i piccoli comuni chiedono tempo. Con il ddl Delrio ancora «in lavorazione» e nella prospettiva di dover assistere di qui a pochi mesi a una nuova demolizione della spending review da parte della Consulta, per i mini-enti la proroga sarebbe «un atto di buon senso che ci darebbe un po' di respiro» (così Franca Biglio presidente dell'Anpci).
«La scadenza del 01.01.2014 è insostenibile per molte ragioni», ha spiegato Mauro Guerra, coordinatore nazionale Anci piccoli comuni. «Oltre all'assoggettamento al patto di stabilità dal 2013 e alle incertezze sui bilanci, bisogna ricordare che più della metà dei piccoli comuni andrà al voto nella prossima primavera. Sarebbe dunque ragionevole che siano le nuove amministrazioni a gestire il complicato passaggio verso la gestione associata delle funzioni fondamentali».
Ma, oltre al buon senso, a favore dei piccoli comuni militano molte argomentazioni giuridiche che rendono non proprio infondate le speranze dei mini-enti di vedere le norme sull'associazionismo obbligatorio spazzate via dalla Corte costituzionale. In materia c'è infatti un precedente importante, quello sulle comunità montane salvate dall'abrogazione nel 2009 in quanto considerate alla stregua di enti «sub-regionali» e quindi rientranti nella competenza residuale delle regioni.
Un intervento statale, sostengono i ricorrenti, sarebbe dunque illegittimo perché, come da sempre sostenuto dalla Consulta, la competenza esclusiva statale in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali va riferita solo agli enti tassativamente elencati nell'art. 114 Cost. (comuni, province, regioni e città metropolitane) e non ad enti diversi come le unioni.
«Così correttamente ricostruito il riparto di attribuzioni tra stato e regioni», si legge in uno dei dieci ricorsi contro l'art. 16, quello presentato dal presidente della regione Campania, Stefano Caldoro, e redatto dal professor Beniamino Caravita di Toritto, «risulta netto il contrasto con il dettato costituzionale, derivandone di conseguenza la manifesta violazione delle competenze normative regionali».
L'emendamento per spostare in avanti l'appuntamento con le gestioni associate è pronto e sarà depositato alla camera dove è in discussione il decreto Imu (dl 102/2013). Si punta a ottenere uno slittamento al 01.01.2015 ma i mini-enti si accontenterebbero anche di sei mesi di tempo in più (articolo ItaliaOggi del 26.09.2013).

VARIBonus mobili con il risparmio energetico. Detrazioni. Il riferimento deve restare la legge.
CONTRADDIZIONI/ Non è chiaro se l'estratto conto con i movimenti dei bonifici di pagamento vada davvero conservato oppure no.

La Guida dell'agenzia delle Entrate sulla detrazione Irpef del 50% sull'acquisto dei mobili e grandi elettrodomestici, uscita ieri, riassume, in maniera non perfetta, tutti i chiarimenti forniti già, in sintesi, dalla circolare 18.09.2013, n. 29/E. Per non sbagliare, però, va seguita innanzitutto la norma e solo successivamente le regole imposte dalla prassi dell'agenzia delle Entrate.
Copia dell'estratto conto
Per esempio, se si legge la circolare 18.09.2013, n. 29/E, tra i documenti da conservare, oltre alle «fatture di acquisto dei beni» e alle «ricevute dei bonifici» o «di avvenuta transazione per i pagamenti mediante carte di credito o di debito», viene chiesto di conservare anche la «documentazione di addebito sul conto corrente». Questa prova documentale non è richiesta per le altre detrazioni d'imposta, né dalla legge né da circolari delle Entrate. Neanche per il bonus del 36-50% sulle ristrutturazioni è richiesta la conservazione dell'estratto del conto corrente, in quanto basta la copia del bonifico "parlante". Ciò nonostante, se ne prende atto e se ne consiglia la conservazione, anche se, leggendo la Guida dell'agenzia sul bonus mobili, uscita ieri, l'obbligo di conservare la copia dell'estratto conto scompare. Evidentemente la Guida, fonte di diritto più bassa della circolare, è solo un riassunto di quest'ultima.
Interventi "in sintesi"
Un altro esempio di interpretazione "riassuntiva" e imprecisa di una norma di rango superiore, che crea confusione, è costituita dall'elenco, indicato "in sintesi" nella circolare n. 29/E, degli interventi che consentono di considerare rispettato il requisito della «preventiva ristrutturazione».
In maniera molto semplice, la norma prevede che la detrazione Irpef del 50% sull'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici spetti solo ai "contribuenti che fruiscono della detrazione" del 50% prevista dall'articolo 16-bis, Tuir (relativo al 36%). Quindi, l'acquisto dell'arredo e dell'elettrodomestico può essere agevolato solo da chi fruisce del bonus previsto per qualsiasi intervento indicato nell'articolo 16-bis del Tuir.
Nella circolare n. 29/E, l'agenzia delle Entrate, pur non dicendo mai di voler escludere qualcuno dei suddetti interventi, ricorda che «in sintesi, la detrazione in esame è collegata agli interventi» di manutenzione straordinaria (e ordinaria, solo su parti comuni condominiali), di restauro e di risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia su singole unità immobiliari residenziali (lettere a e b del comma 1), di ricostruzione o ripristino di immobili danneggiati da eventi calamitosi (lettera del comma 1) e di acquisto di abitazioni facenti parte dei fabbricati completamente ristrutturati da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare (comma 3). Scordando altre opere, pur comprese nell'articolo 16-bis, come il risparmio energetico «non qualificato» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2013).

ENTI LOCALI: Convenzioni e unioni pari sono. Fuori dal patto di stabilità i contributi ai comuni capofila. Domani in Unificata i pareri sul ddl Delrio. Molti i ritocchi in materia di associazionismo.
Niente più convenzioni a perdere nei piccoli comuni. Lo strumento delle convenzioni per gestire le funzioni fondamentali continuerà ad avere pari dignità rispetto a quello delle unioni. Anche perché sembra destinato a scomparire l'obbligo per i comuni che abbiano scelto la strada della convenzione di costituire un'unione dopo 5 anni (si veda ItaliaOggi del 09/08/2013). Inoltre, per incentivare al massimo quella che da sempre ha rappresentato «l'opzione b» dell'associazionismo, i comuni capofila non si ritroveranno con un bilancio appesantito da contributi e rimborsi ricevuti per l'esercizio delle funzioni in convenzione. Queste entrate saranno infatti neutralizzate ai fini del Patto di stabilità. Sono alcune delle novità che potrebbero essere introdotte al ddl Delrio e su cui domani il governo avvierà il confronto con le associazioni delle autonomie in conferenza Unificata.
Il cuore del testo messo a punto dal ministro degli affari regionali, come si ricorderà (si veda ItaliaOggi del 20/07/2013) riguarda le province, ridotte a enti di secondo livello e svuotate di funzioni in attesa che si completi la riforma costituzionale che le cancellerà del tutto. Ma la maggior parte delle correzioni proposte al momento si concentra sui piccoli comuni chiamati a gestire tutte le funzioni fondamentali in forma associata a partire dal 2014 (anche se in queste ultime ore è tornata ad affacciarsi l'ipotesi di una proroga).
Le proposte di modifiche elaborate dall'Anci (che saranno discusse domani in Unificata) rafforzano il ventaglio di incentivi di cui i mini-enti potranno beneficiare mettendosi insieme, indipendentemente dallo strumento scelto (unione, convenzione o fusione). I centri con meno di 5.000 abitanti che decideranno di costituire un'unione potranno usufruire per 5 anni del trattamento giuridico di favore previsto per questa classe demografica che oggi si traduce per esempio nella possibilità di accedere a regole semplificate in materia di appalti e contributi. Ma che domani potrebbe nuovamente voler dire esonero dal Patto se il governo accoglierà la richiesta di un dietrofront sull'estensione dei vincoli di bilancio ribadita dal presidente dell'Anci Piero Fassino.
Ai mini-enti che invece decideranno di fondersi sarà riconosciuta la possibilità di applicare per due mandati le regole valide per i comuni sotto i 5.000 abitanti. Gli enti con popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti, oggi soggetti al Patto, ne saranno svincolati se decideranno di entrare a far parte di un'unione (articolo ItaliaOggi del 25.09.2013).

TRIBUTI: Il pareggio di bilancio giustifica l'aumento dell'aliquota Imu.
I comuni possono aumentare l'aliquota di base Imu anche per gli immobili posseduti dai soggetti per i quali la legge gli concede la facoltà di riconoscere un trattamento agevolato. E non è imposto all'ente di giustificare l'aumento del prelievo con una motivazione ad hoc. L'aumento dell'aliquota può essere finalizzato all'obbiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio. Il fatto che il legislatore attribuisca all'amministrazione locale il potere di ridurre per determinati immobili in misura percentuale l'aliquota di base (0,76%), non le impedisce però di poterla aumentare e di riservare lo stesso trattamento delle altre unità immobiliari.

Per esempio, i giudici amministrativi hanno respinto i ricorsi proposti dai titolari di immobili di edilizia residenziale pubblica (Ater, Iacp) per il 2012, nei casi in cui i comuni non solo non hanno assicurato il trattamento agevolato previsto dalla legge per l'abitazione principale, ma addirittura hanno aumentato l'aliquota di base fissata per le seconde case. In effetti, per queste unità immobiliari l'articolo 13 del dl Monti (201/2011) aveva limitato il beneficio solo alla detrazione d'imposta. Solo da quest'anno il dl sulla finanza locale (102/2013) li equipara a tutti gli effetti all'abitazione principale.
Di recente il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, seconda sezione, con la sentenza 1088 del 19.07.2013, ha ritenuto legittima la delibera del comune che ha aumentato l'aliquota di base per gli immobili posseduti dalle imprese, nonostante il decreto Monti (articolo 13, comma 9) abbia disposto la facoltà degli enti di ridurre l'aliquota fino allo 0,4% per i soggetti Ires, vale a dire i soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle società.
Per il giudice amministrativo, il dl 201/2011 «ha determinato i margini di manovra a disposizione dei comuni per realizzare una «personalizzazione» delle aliquote a livello di singolo ente». Con deliberazione consiliare possono modificare l'aliquota di base, in aumento o in diminuzione, fino a 0,3 punti percentuali. Dunque, gli immobili dell'impresa possono fruire dell'aliquota ridotta solo qualora i comuni abbiano ritenuto di deliberare una misura di favore. Anche queste unità immobiliari sono soggette all'aliquota di base, «eventualmente modificabile in aumento entro il limite di 0,3 punti percentuali».
Peraltro l'aumento non richiede una specifica motivazione, trattandosi di un atto generale. L'aumento dell'aliquota può essere giustificato dalla necessità di garantire il pareggio di bilancio. Tuttavia, mentre comunemente si ritiene che non sia necessario motivare gli atti generali, delibere Imu comprese, non c'è uniformità di vedute in giurisprudenza sull'obbligo di indicare le ragioni in fatto e in diritto degli aumenti delle tariffe della tassa per lo svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti.
Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010) ha sostenuto che il comune deve motivare la delibera che aumenta le tariffe Tarsu per coprire i costi del servizio. E non si può invocare la necessità di assicurare la copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costi del servizio (articolo ItaliaOggi del 25.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAImpianti, sostituzione agevolata. Nuovi incentivi per le pompe di calore ad alta efficienza. Tempo fino al 31/12 per interventi di riqualificazione energetica con detrazione al 65%.
Hanno tempo fino al 31 dicembre per completare gli interventi le imprese che intendano beneficiare della detrazione fiscale del 65% per interventi di riqualificazione energetica. Agevolabili al 65% le opere realizzate dal 06.06.2013. Le opere realizzate fino al 05.06.2013 invece hanno diritto ad una detrazione del 55%.

La proroga della detrazione dal 30.06.2013 al 31.12.2013 e l'innalzamento della percentuale di detrazione dal 55 al 65% è stata stabilita dal dl 63/2013 convertito in legge 90/2013. Al fine di fare chiarezza in una normativa molto articolata e dislocata nel tempo l'Agenzia delle entrate ha fornito chiarimenti con circolare 29/E del 18.09.2013.
In particolare ha ribadito il fatto che in sede di conversione di legge sono stati inseriti tra gli interventi finanziabili, due tipologie di lavori che nel dl erano state escluse: sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con pompe di calore ad alta efficienza e con impianti geotermici a bassa entalpia e sostituzione di scaldacqua tradizionali con scaldacqua a pompa di calore dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria.
Essendo rimasto inalterato l'ammontare massimo della detrazione spettante, i nuovi limiti massimi di spesa agevolabile per le spese sostenute dal 06.06.2013 sono: per i lavori riguardanti strutture opache, orizzontali, verticali, finestre comprensive di infissi e per l'installazione di impianti solari termici per la produzione di acqua calda è pari a 92.308 (detrazione fino a 60 mila euro); per la sostituzione di impianti di climatizzazione con caldaie a condensazione è pari a 46.154 (detrazione fino a 30mila euro); e infine per gli interventi di riqualificazione energetica che insistono su tutto l'edificio è pari a 153.846 (detrazione fino a 100 mila euro).
Le spese finanziabili comprendono sia i costi per i lavori edili connessi con l'intervento di risparmio energetico, sia quelli per le prestazioni professionali necessarie per realizzare gli interventi e acquisire la certificazione energetica quando richiesta. La detrazione viene ripartita in dieci quote annuali di pari importo. Non è possibile il riporto in avanti o il rimborso dell'eccedenza non goduta. In pratica se in un esercizio l'impresa deve pagare l'Ires per un importo inferiore alla quota di detrazione, l'importo che avanza non è possibile recuperarlo. Differentemente dalle persone fisiche le imprese non hanno l'obbligo di effettuare i pagamenti con bonifico bancario o postale, è sufficiente che si possa risalire alla spesa effettuata dai registri contabili.
Per le imprese vale il principio di competenza, pertanto non rilevano le date dei pagamenti effettuati, ma la data di ultimazione della prestazione. Possono beneficiare della detrazione tutte le imprese ad eccezione delle imprese di costruzione, ristrutturazione edilizia e vendita, ma solo per le opere eseguite su «immobili merci», vale a dire quelli posseduti dalle immobiliari di costruzione e quelli affittati o dati in comodato a terzi dalle immobiliari di gestione. Questo perché secondo l'Agenzia delle Entrate la detrazione fiscale deve essere rivolta solo agli interventi realizzati su immobili utilizzati dall'impresa stessa, cioè immobili strumentali. Di diverso avviso però è la Ctp di Varese che con decisione 94/1/2013 del 21 giugno scorso ha accettato il ricorso di una società immobiliare di locazione a cui non era stata riconosciuta la detrazione. La decisione a favore del contribuente si è basata sul fatto che lo scopo del beneficio fiscale sarebbe incompatibile con l'esclusione sancita dall'Agenzia delle entrate.
Invio dei documenti all'Enea entro 90 giorni dalla fine lavori. L'invio all'Enea della copia dell'attestato di prestazione energetica e delle scheda informativa sopraindicate, deve essere fatto entro 90 giorni dalla fine dei lavori. La trasmissione dei documenti all'Enea in via generale deve essere effettuata in modalità telematica collegandosi al sito web www.acs.enea.it.
Solo qualora le opere realizzate siano particolarmente complesse e gli spazi del modello telematico siano insufficienti a illustrare l'intervento è possibile inviare una raccomandata, sempre nel termine dei 90 giorni dalla fine lavori (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

APPALTIAppalti, responsabilità limitata. Resta la parte relativa alle ritenute fiscali sui redditi. Cosa cambia per le imprese nella stipulazione dei contratti dopo i decreti Fare e Lavoro.
Nei contratti di appalto non opera più la responsabilità solidale ai fini Iva. Ma viene estesa quella ai fini contributivi e assicurativi anche ai lavoratori autonomi, con particolare riguardo ai co.co.pro. e ai lavoratori occasionali.
Sono queste le principali novità introdotte dal decreto Fare (dl 21.06.2013, n. 69, convertito dalla legge 98/2013) e dal decreto Lavoro (28.06.2013, n. 76 convertito dalla legge 99/2013), che hanno modificato il precedente assetto normativo in materia di responsabilità solidale tra committente e appaltatore.
Applicabilità ed esclusioni. La responsabilità solidale emerge in presenza di un rapporto contrattuale tra due imprese che abbiano le caratteristiche di cui all'art. 1655 c.c. Non rientrano, invece, in tale ambito i contratti aventi quale oggetto prevalente un'obbligazione di dare, come i rapporti di somministrazione, subfornitura, vendita o nolo, anche nell'ipotesi in cui prevedano un obbligo di «fare» accessorio rispetto a quello principale.
L'ambito soggettivo di applicazione della norma è esteso all'impresa committente e all'impresa appaltatrice: la prima risponderà dei debiti maturati anche dalle imprese subappaltatrici che abbiano collaborato alla realizzazione dell'opera o del servizio da essa affidato. All'interno della «filiera» di appalti, l'art. 29 secondo la Cassazione (sent. n. 6208 del 07.03.2008), prevede anche una responsabilità solidale dell'impresa subappaltante per i debiti maturati dall'impresa a cui abbia eventualmente affidato, in tutto o in parte, l'opera o il servizio.
Limitazione alla responsabilità fiscale. La responsabilità fiscale, in solido tra committente e appaltatore, introdotta dall'art. 35 del dl 223/2006 e da ultimo modificata dal dl 83/2012, con il decreto Fare, è stata dunque «limitata» alla sola parte relativa alle ritenute dei lavoratori impiegati nell'ambito dell'appalto o del subappalto. Viene dunque meno la responsabilità Iva, in un sistema economico in cui i contratti di appalto e subappalto, vengono principalmente impiegati nel settore edile.
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Obblighi allargati alle prestazioni di natura autonoma.
In seguito alle novità introdotte dal decreto legge n. 76/2013, la responsabilità solidale negli appalti riguarda non solo contratti di lavoro di tipo subordinato, ma anche le prestazioni di tipo autonomo. Sulla questione era già intervenuto l'Inps con la circolare n. 106/2012, precisando che l'art. 29 comprendeva anche le obbligazioni maturate a seguito di contratti di associazione in partecipazione e di co.co.pro. I contratti di lavoro autonomo indicati nel decreto lavoro (art. 9, comma 1), pertanto, vanno ad aggiungersi a tutti gli effetti all'elenco dei soggetti interessati dalla norma. Diversa sembra essere tuttavia la posizione dei prestatori d'opera professionale (di cui all'art. 2222 c.c.), che presentano un regime contributivo e assicurativo particolare.
Innanzitutto va precisato che le prestazioni autonome, se rese occasionalmente e quindi non professionalmente, da soggetti privi di partita Iva, non generano un'obbligazione contributiva sino alla soglia dei 5.000 euro di compenso lordo annuo.
Se, invece, tali prestazioni sono rese da soggetti titolari di una posizione Iva (indipendentemente dal fatto che possano essere artigiani, commercianti, liberi professionisti provvisti o meno di cassa previdenziale), non generano un obbligo contributivo in capo alla committenza. In tali casi l'unico soggetto dei contributi è il lavoratore autonomo e non il committente, il quale sarà destinatario (come nell'ipotesi di contribuzione alla gestione separata) di un obbligo di rivalsa nei rapporti interni col professionista. Pertanto, non risultando l'impresa appaltatrice o subappaltatrice (in qualità di committente di una prestazione autonoma) debitrice nei confronti dell'istituto previdenziale, sembrerebbe mancare il presupposto fondamentale della responsabilità solidale dell'impresa appaltante. Le stesse conclusioni possono essere tratte anche sul fronte dei premi Inail, dove l'obbligo assicurativo scatterà sempre e solo nei confronti del lavoratore autonomo artigiano che, anche in questi casi, sarà l'unico soggetto obbligato al pagamento del premio assicurativo.
Nel caso dell'esclusione della responsabilità solidale delle pubbliche amministrazioni, qualora siano committenti di un appalto pubblico, anche per questa tipologia di appalti erano in passato intervenuti chiarimenti. Al riguardo, il ministero del lavoro aveva chiarito l'esclusione della p.a. dal cono d'ombra dell'art. 29, sulla scorta dell'art. 1, dlgs n. 276/2003 che esclude dall'ambito di applicazione dell'intero decreto Biagi proprio le pubbliche amministrazioni. In ogni caso, non va dimenticato che la p.a., in qualità di stazione appaltante, risponderà, comunque, dei debiti retributivi delle ditte appaltatrici in virtù dell'art. 1676 c.c.
Deroga dei contratti collettivi. Un'altra novità introdotta dal decreto lavoro riguarda la derogabilità al regime solidaristico ex art. 29 da parte della contrattazione collettiva, ma solo sotto il profilo retributivo. Con la riforma Fornero, intervenuta direttamente sull'art. 29, era stata conferita alla contrattazione collettiva il potere di derogare al regime solidaristico, anche se già l'art. 8, comma 2, lett. a), della legge 148/2011 aveva previsto la possibilità di deroga a opera della contrattazione collettiva di prossimità.
Al riguardo la circolare n. 7258/2013 del ministero del lavoro aveva espresso una certa riserva a che la fonte contrattuale potesse derogare al regime previdenziale e assistenziale contenuto nell'art. 29, muovendo dall'assunto secondo cui le disposizioni collettive non potessero incidere direttamente sui saldi di finanza pubblica. Nonostante l'intervento del legislatore abbia precluso alla contrattazione collettiva di cui all'art. 29 di derogare al regime solidaristico, sotto il profilo contributivo e assicurativo, non può non osservarsi come la questione rimanga aperta in relazione alla contrattazione collettiva di prossimità di cui all'art. 8, che nelle materie «delegate» dal legislatore, subisce solo i limiti dei principi costituzionali e di diritto comunitario (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

APPALTIGare, pmi a rischio paralisi. Attesi chiarimenti sulla nozione di costo del lavoro. Operatori bloccati dalla norma sull'aggiudicazione al netto delle spese di personale.
Rischio paralisi per il settore degli appalti con la nuova norma del decreto del Fare sull'aggiudicazione al netto del costo del personale; particolarmente coinvolte le piccole e medie imprese e le amministrazioni che, dal 21 agosto, data di entrata in vigore della disposizione, stanno rallentando le procedure in attesa di chiarimenti che non arrivano; da più parti si chiede un intervento di semplificazione, o l'abrogazione della disposizione.

Il problema che sta tormentando commentatori, interpreti del complesso mondo normativo dei contratti pubblici e, soprattutto, operatori pubblici e privati chiamati a gestire le gare o a parteciparvi, ha la sua origine nell'articolo 82, comma 3-bis, del dlgs 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) come introdotto dal decreto legge del Fare n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013 che recita: «Il prezzo più basso è determinato al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative e significative sul piano nazionale, delle voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro».
La norma non è nuova per il Codice dei contratti pubblici (vedi box) e ha l'apprezzabilissima finalità di scongiurare comportamenti delle imprese che, proprio sul costo del lavoro potrebbero agire per compensare eccessivi ribassi in sede di offerta, violando quindi i minimi della contrattazione collettiva o, peggio, utilizzando manodopera «in nero».
Bisogna però ricordare che già nel 2011 quando, con l'emendamento Damiano, fu introdotta una norma analoga, per diversi mesi il settore finì in una sorta di paralisi operativa dettata dalle difficoltà di applicare la nuova norma.
Una situazione molto simile si sta verificando anche oggi, con la piccola differenza che in due anni i bandi di gara hanno subito un drammatico tracollo in termini di numero e di valore e che ulteriori problemi «sistemici» potrebbero causare ritardi e difficoltà probabilmente esiziali per l'intero settore. Il rischio maggiore è per gli appalti di minori dimensioni ove il criterio del prezzo più basso è di usuale applicazione e, quindi per quelle piccole e medie imprese che gli ultimi interventi normativi, nazionali e comunitari, vorrebbero agevolare e rilanciare sul mercato.
L'analisi della disposizione evidenzia alcuni problemi oggettivi che al momento non paiono facilmente superabili e che stanno determinando molte amministrazioni a chiedere al più presto l'abolizione della norma.
Un primo problema riguarda l'oggetto del contendere, cioè la nozione di «costo del lavoro», nozione che sostituisce quella vigente prima del 21 agosto concernente il costo della «manodopera»; ciò significa, tanto per fare un esempio, che non dovrà tenersi conto soltanto della manodopera operativa in cantiere, ma anche delle prestazioni intellettuali (progettazione, project management).
Un secondo profilo delicato è che non esiste una sola nozione di costo del personale, che, appunto, non è uno, ma plurimo nella sua definizione in ragione delle diverse tipologie di contratti, ferma poi restando la libertà dell'impresa di applicare Ccnl di altri settori, o di applicare soltanto contratti aziendali e individuali. A ciò si aggiunga il fatto che la norma del decreto del Fare ha anche previsto, come elemento del costo del lavoro, anche il riferimento alle «voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello».
C'è infine il problema dei problemi: chi deve stimare questi costi? Le stazioni appaltanti o le imprese in gara?. Anche in questo caso non c'è molta chiarezza: per alcuni spetta alle amministrazioni scorporare il costo del personale e individuare il prezzo soggetto a ribasso, ma non mancano posizioni particolarmente critiche rispetto alla valutazione della contrattazione integrativa aziendale o territoriale. Per molte amministrazioni si tratta di una vera «mission impossible». Per altri, invece, dovrà essere l'impresa in sede di offerta a rendere palese il costo che verrà sostenuto per il personale, definendo anche quanto pesa la contrattazione di secondo livello e quanto i costi per la sicurezza interna. In fase di verifica della congruità dell'offerta nuovamente la stazione appaltante dovrà poi entrare nel merito dell'applicazione della contrattazione integrativa.
Certo è che usualmente l'elemento dell'organizzazione aziendale dell'impresa, le caratteristiche soggettive del personale impiegato (si pensi per esempio agli affidamenti di direzioni lavori in cui la qualità professionale dell'ufficio di dl è fondamentale), sono elementi centrali nelle offerte che si presentano in gara; l'impressione è che la novella del decreto del Fare finisca per ingessare il tutto, disincentivando le imprese sul piano dell'efficientamento della propria organizzazione aziendale.
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Tutto parte dall'emendamento Damiano.
La storia della norma sul costo del personale nell'aggiudicazione degli appalti pubblici al prezzo più basso è breve, ma intensa. Quasi al termine del governo Berlusconi durante l'esame del decreto legge 70/2011 (uno dei tanti decreti legge Sviluppo), convertito dalla legge 106/2011, fu approvato un emendamento di iniziativa dell'ex ministro del lavoro Cesare Damiano che aggiungeva la lettera i-bis all'articolo 4, comma 2, del decreto, modificando l'articolo 81 del codice dei contratti pubblici con l'aggiunta del comma 3-bis: «L'offerta migliore è altresì determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro».
Immediatamente la norma creò il panico fra gli operatori del settore tanto che si misero in atto tentativi per dare un senso all'applicazione concreta della disposizione. Così fu in primis Itaca a predisporre le linee guida del 18.07.2011 in materia di «Costo del personale e sicurezza nella selezione delle offerte negli appalti» operando una pregevole distinzione fra i diversi elementi che compongono il costo del lavoro: il costo del personale, quello per la sicurezza e gli altri costi.
Si cimentò con il tentativo di dare coerenza applicativa al novello comma 3-bis anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con le «Prime indicazioni sui bandi tipo: tassatività delle cause di esclusione e costo del lavoro» raccolte in un documento base per una consultazione pubblica svolta a fine settembre del 2011 che, per questi profili, non portò mai all'emanazione di una determina (visto che poi la norma fu abrogata). Il dl 201/2011, preso atto delle innumerevoli difficoltà applicative, analoghe a quelle che oggi vengono evidenziate, abroga le norme introdotte dal decreto sviluppo concernenti la valutazione dei costi del personale nei bandi di gara.
Nel frattempo la giurisprudenza del Consiglio di stato e di numerosi Tar, nel corso del 2012, sancisce che sia il «costo del personale» sia il «costo per la sicurezza aziendale» sono liberamente valutabili dal concorrente e ribassabili (nel rispetto dei minimi salariali e del documento di valutazione dei rischi), e devono risultare congrui nonché passare positivamente il giudizio di congruità al momento della verifica delle offerte anomale; per gli «oneri per la sicurezza» la questione invece è più semplice in quanto non sono soggetti al ribasso e non possono essere oggetto di valutazione da parte del concorrente. Adesso, però, la questione si ripropone, in una disposizione valida solo per l'affidamento al prezzo più basso, diversamente dalla precedente valida anche per l'offerta economicamente più vantaggiosa, e si vedrà come sarà risolta (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, black box da eliminare. Nuovo sistema al via il 1° ottobre. Attese semplificazioni. Il Minambiente anticipa i prossimi interventi rivedendo gli strumenti informatici.
Partenza del Sistri confermata per il 01.10.2013, ma con la promessa di prossime radicali semplificazioni e ulteriori alleggerimenti del sistema sanzionatorio.
Questa, in estrema sintesi, la risposta del minambiente all'interrogazione parlamentare avvenuta lo scorso 13.09.2013 presso la commissione ambiente della camera.
Il reggente del dicastero ha di fatto validato sia l'elenco dei soggetti obbligati sia il calendario di operatività del nuovo sistema di controllo telematico dei rifiuti così come disegnati dal dl 101/2013, annunciando però un decreto ministeriale che potrà arrivare a eliminare alcuni strumenti informatici poco graditi agli operatori, come le oramai note «black box» e «chiavetta usb», e assicurando altresì il proprio impegno in sede di conversione del citato decreto legge (da effettuarsi entro la fine di ottobre, ndr) verso un'ulteriore attenuazione delle sanzioni per gli illeciti non dolosi.
Soggetti obbligati. Come anticipato, il minambiente conferma innanzitutto l'impianto dell'articolo 11 del dl 101/2013 (cosiddetto decreto Fare), in base al quale sono obbligati ad aderire al Sistri: dal 01.10.2013, gli enti e imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale o che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi, inclusi i cosiddetto «nuovi produttori»; dal 03.03.2014 (salva eventuale proroga di 6 mesi), i «produttori iniziali» di rifiuti pericolosi, nonché i comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani della regione Campania.
In mancanza di diversa lettura del dicastero, dal secco tenore del dl 101/2013 sembra dunque possano senz'altro considerarsi inclusi nel novero degli obbligati al Sistri due categorie di soggetti: i comuni e le imprese che trasportano rifiuti urbani pericolosi (dal 01.10.2013, come gli altri gestori); i produttori di rifiuti pericolosi non inquadrati in un'organizzazione di ente o impresa (dal 03.03.2014, come tutti i produttori iniziali).
E ciò in virtù di due diversi meccanismi, che qui ricordiamo: l'obbligo per la prima categoria deriva dal combinato disposto dell'articolo 184 del dlgs 152/2006 (a mente del quale anche tra gli «urbani» vi sono rifiuti pericolosi) e dell'articolo 11 del dl 101/2013 (che sancisce una deroga temporale per i soli gestori di «urbani» nella regione Campania); l'obbligo per la seconda categoria scatta, invece, in ragione del fatto che il dl 101/2013 impone ora l'adesione a tutti i «produttori iniziali di rifiuti pericolosi», implicitamente abrogando (in forza del principio gerarchico) la deroga recata dal dm 52/2011 (cosiddetto «Testo unico Sistri», provvedimento di rango inferiore) a favore dei produttori di rifiuti pericolosi «non inquadrati in un'organizzazione di ente o di impresa». Ciò almeno fino ad un contrordine in sede di conversione del dl 101/2013 (o alla sua eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale sul punto, apparentemente non infondata sul piano della «necessità ed urgenza» di abrogare le pregresse e citate regole a favore dei citati produttori).
Semplificazioni. Sul fronte della razionalizzazione del Sistri che il dl 101/2013 affida direttamente al potere regolamentare del Minambiente il dicastero annuncia invece l'adozione di nuove norme che si muoveranno sostanzialmente in due direzioni: riduzione dei costi per gli operatori e semplificazione tecnica del nuovo sistema di tracciamento.
Sotto il primo profilo le novità potrebbero coincidere con l'inclusione dell'attuale piattaforma Sistri in un sistema informativo più ampio a servizio della pubblica amministrazione, sotto il secondo profilo l'alleggerimento tecnico potrebbe addirittura spingersi fino all'eliminazione dei due strumenti attualmente alla base del tracciamento dei rifiuti: la cosiddetta «black box» (ossia il transponder da montare sui mezzi di trasporto dei rifiuti per il loro monitoraggio satellitare) e la «chiavetta token usb» (il dispositivo che custodisce i dati dei rifiuti gestiti insieme a quelli del relativo detentore, da utilizzarsi per le comunicazioni alla banca dati generale dello stato).
Sanzioni. Sempre in tema di semplificazioni, nel rispondere all'interrogazione parlamentare il Minambiente assicura altresì il proprio impegno a un ulteriore alleggerimento del sistema sanzionatorio nella prima fase di avvio del Sistri. E ciò mediante la presentazione di un emendamento al disegno di legge di conversione del dl 101/2013 che limiti l'applicazione delle sanzioni per gli illeciti di natura non dolosa.
Attualmente, lo ricordiamo, l'articolo 260-bis del dlgs 152/2006 punisce infatti (con sanzioni amministrative pecuniarie, estese anche agli enti ex dlgs 231/2001) e senza alcuna distinzione sotto il profilo dell'elemento psicologico: mancata iscrizione al Sistri; omesso pagamento del contributo; omessa o inesatta compilazione di registro cronologico o scheda di movimentazione; fornitura di informazioni incomplete o inesatte; alterazione dei dispositivi informatici; fornitura di false informazioni sulla natura dei rifiuti; trasporto privo della scheda Sistri.
Sanzioni cui già tre diversi provvedimenti pongono freno: il dlgs 205/2010, che ne fa scattare l'applicabilità solo dopo un mese dall'operatività del Sistri; il dlgs 121/2011, che ne stabilisce l'applicazione in misura ridotta per i primi periodi di operatività del sistema; il dl 101/2013, che legittima la punizione di alcune violazioni formali solo dopo il compimento della terza infrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

ENTI LOCALI - VARIMulte. Con il Pos lievitano i costi.
Per conciliare in strada, quando ammesso, la polizia di stato ha fornito alle pattuglie dei terminali elettronici che però aggravano il procedimento di almeno 5 euro. Anche un soggetto terzo però può effettuare la transazione a favore del trasgressore previa identificazione dello stesso.

Lo ha chiarito il compartimento della polizia stradale di Bologna con la nota 03.07.2013 n. 19061/110A.3 di prot..
In attesa dell'imminente via libera alla riforma che sdoganerà completamente i pagamenti elettronici in strada, riducendo anche i costi delle operazioni, la polizia stradale da qualche mese si è organizzata per consentire ai trasgressori che attualmente possono pagare in strada per non vedersi aggravare il procedimento sanzionatorio di procedere in tal senso. Il riferimento specifico della circolare è agli articoli 207 e 202 del codice stradale che attualmente fanno riferimento al pagamento immediato dei conducenti di veicoli stranieri oppure agli esercenti attività di autotrasporto professionale.
In buona sostanza per questa categoria di trasgressori da qualche anno è stato reintrodotta la possibilità di pagare subito in strada all'organo accertatore. Per semplificare questa procedura, in attesa dell'annunciato allargamento del pagamento elettronico per tutti i trasgressori la polizia stradale ha disciplinato la procedura da seguire. Le spese forfettarie che vengono richieste in caso di utilizzo dei pos in dotazione alla pattuglia sono pari a 5 euro, specifica la nota felsinea. Il capopattuglia ha l'obbligo di identificare il soggetto che effettua la transazione che però non deve essere necessariamente il trasgressore.
Oltre alla spesa forfettaria di 5 euro per ogni multa di importo superiore a 77,47 euro però andrà aggiunto anche l'imposta di bollo da 2 euro. Se al conducente sono contestate due violazioni, per una sola delle quali è previsto il pagamento immediato, andranno redatti due verbali, prosegue la circolare. Se le violazioni contestate sono tutte immediatamente oblabili sarà invece possibile redigere un solo verbale e risparmiare quindi sulle spese (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATARegolarità contributiva. Con la conversione del decreto del fare valgono 120 giorni i documenti rilasciati dal 21 agosto
Più tempo per chiedere il Durc. Dopo la stipula del contratto la verifica è legata a fatture e avanzamento lavori.

Dopo il primo Durc –chiesto dall'amministrazione ai vincitori di gare d'appalto a conferma dell'autocertificazione del concorrente– gli enti non devono richiedere un altro documento di regolarità contributiva, subito dopo la stipula del contratto. L'indicazione che arriva dal ministero del Lavoro è quella di «attendere» e di rinviare la richiesta del secondo Durc alla prima fattura o stato di avanzamento lavori per le opere pubbliche.
La nuova tempistica per i documenti di regolarità contributiva è contenuta nella circolare del Lavoro n. 36/2013. Si tratta delle prime istruzioni operative per la corretta lettura delle norme sul Durc contenute nel decreto del fare (Dl 69/2013 convertito nella legge 98/2013).
In primo luogo occorre ricordare che la legge di conversione ha modificato il termine di validità del Durc: il Dl 69/2013 aveva previsto che in ipotesi di verifica della dichiarazione sostitutiva dei requisiti generali (articolo 38, Dlgs 163/2006) il documento fosse valido per 180 giorni. In sede di conversione questo termine –per l'aggiudicazione, la stipula e i pagamenti del contratto– è stato ridotto a 120 giorni dalla data di rilascio. Trattandosi di una disposizione introdotta dal Parlamento, risulta applicabile solo dall'entrata in vigore della legge di conversione: la circolare ministeriale afferma «dopo il 21 agosto», ma in realtà la legge è in vigore già da quella data, e quindi –a stretto rigore– dovrebbero durare 120 giorni i Durc emessi fin dal 21 agosto compreso.
I Durc rilasciati in precedenza, invece, avranno una validità di 90 giorni, anche se risultano rilasciati nel periodo di vigenza del decreto legge che aveva raddoppiato il termine.
Il ministero chiarisce come il legislatore abbia inteso creare sostanzialmente tre gruppi in relazione alle fasi del contratto e dei relativi Durc che debbono essere richiesti direttamente dalla Pa.
Andiamo con ordine e vediamo i tre «momenti».
1- In primo luogo, avrà validità quadrimestrale il Durc per la verifica della dichiarazione sostitutiva sulla regolarità contributiva espressamente previsto dall'articolo 38 del Codice dei contratti (Dlgs 163/2006), nonché quello previsto per l'aggiudicazione e la stipula del contratto. Nel primo caso, il termine di 120 giorni di validità non decorre dalla data di rilascio ma dalla data –indicata nel documento– di verifica della dichiarazione sostitutiva.
2- Il secondo raggruppamento si riferisce alle fasi successive alla stipula del contratto:
- pagamento di fatture o stati di avanzamento lavori (Sal) o fatture;
- certificato di collaudo,
- certificato di regolare esecuzione o verifica di conformità,
- attestazione di regolare esecuzione.
In questi casi il ministero invita a richiedere un altro Durc non nel momento immediatamente successivo alla conclusione del contratto, ma solamente nei due passaggi chiave successivi: lo stato di avanzamento lavori e il certificato di collaudo o di regolare esecuzione, ferma restando la validità per ogni documento confermata a 120 giorni. Questo per evitare di vedere «scadere» troppo presto un documento richiesto con eccessivo anticipo: in questo modo le stazioni appaltanti possono riuscire a utilizzare lo stesso Durc, sempre nei 120 giorni di validità.
3- Nell'ultima fase occorre comunque sempre acquisire un nuovo Durc da utilizzare per il pagamento del saldo finale, per il quale non è prevista l'estensione di validità dei documenti richiesti nelle fasi precedenti anche se non ancora scaduti.
Per i subappalti, il Durc deve essere richiesto in fase di autorizzazione al subappalto, nonché per il pagamento dei Sal e per l'ultima fase contrattuale, nonché per il saldo prezzo.
Viene confermata infine la disposizione relativa al «preavviso di accertamento negativo»: gli enti coinvolti nell'emissione del Durc (Inps Inail o Casse edili), in caso di irregolarità, devono invitare l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro 15 giorni, con invito per posta certificata all'interessato o al consulente del lavoro nominato, riportando l'indicazione analitica delle irregolarità riscontrate.
La disposizione, anche se inserita fra quelle relative ai contratti pubblici, deve ritenersi valida per ogni verifica operata dagli enti previdenziali in ogni ipotesi di rilascio del Durc.
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Le indicazioni
LA VALIDITÀ
Il periodo di validità del Durc è 120 giorni dalla data di rilascio per i documenti emessi dopo il 21.08.2013. I Durc emessi in precedenza valgono 90 giorni
I LAVORI PRIVATI
Non va più chiesto il Durc in caso di lavori privati di manutenzione edilizia realizzati senza ricorso a imprese o in economia
LE FASI
Il Durc è necessario per:
- verifica della regolarità contributiva autocertificata nelle gare
- a ogni pagamento o stato di avanzamento lavori
- per il certificato di collaudo
- per l'autorizzazione al subappalto
- per il pagamento del saldo finale
LE IRREGOLARITÀ
Il preavviso di accertamento minimo è notificato via Pec all'interessato o al consulente del lavoro con l'indicazione analitica delle cause di irregolarità. Il contribuente può sanarle in 15 giorni
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La sostituzione. L'intervento della Pa quando emergono debiti sui versamenti.
L'ente deve saldare il conto non pagato.

Se il Durc segnala un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le amministrazioni e gli enti aggiudicatori devono trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inottemperanza e versare il dovuto direttamente all'Inps, all'Inail o alla Cassa edile.
Il comma 3, dell'articolo 31, del Dl 69/2013, ha ribadito quanto già previsto dal regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici (Dpr 207/2010). In pratica, l'irregolarità del Durc nei confronti del l'operatore economico –nel l'alveo dei contratti pubblici– comporta che il pagamento dell'importo, oggetto di liquidazione da parte della stazione appaltante in relazione alla fase del contratto, sia effettuato a favore degli istituti creditori dei contributi omessi.
Il ministero del Lavoro, con la circolare 3/2012, ha chiarito che la sostituzione nell'obbligazione contributiva non opera soltanto nel caso in cui il debito delle stazioni appaltanti nei confronti degli appaltatori copra per intero le irregolarità accertate nel documento unico, ma anche quando il debito sia in grado di colmarle solo in parte. In questa ipotesi, il pagamento nei confronti di ciascun ente deve essere ripartito in proporzione ai crediti vantati da ogni Istituto o Cassa, evidenziati nel Durc.
Con il messaggio 13154 dello scorso 12 agosto, l'Inps ha fornito le istruzioni per operare la «sostituzione» e il versamento all'istituto tramite il modello F24 EP.
Prima di procedere ai versamenti è necessario che la stazione appaltante dichiari agli enti creditori l'intenzione di sostituirsi al debitore tramite un «preavviso di pagamento»: la comunicazione deve essere preventiva, perché serve a ricalcolare i crediti nel caso in cui fosse già intervenuto un altro appaltante a sanare, anche solo in parte, le posizioni dell'appaltatore.
L'intervento sostitutivo esplica i propri effetti anche con riferimento al subappalto: infatti, la stessa circolare 3/2012 ha ricordato che –siccome nell'ambito degli appalti pubblici sussiste un vincolo solidaristico tra appaltatore e subappaltatore sulle somme dovute in relazione al personale impiegato nel contratto– l'intervento sostitutivo da parte della stazione appaltante opera anche per sanare i debiti dei subappaltatori (nelle ipotesi di somme residue e non oltre il valore del debito che l'appaltatore ha nei confronti del subappaltatore, alla data di emissione del Durc negativo). Infine, se l'irregolarità riguarda solo il subappaltatore e l'importo dovuto a quest'ultimo è insufficiente a coprirla, la sostituzione nell'obbligazione contributiva svincola il pagamento nei confronti del l'appaltatore
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Incentivi. I controlli prima dell'erogazione.
Regole unificate su aiuti e sussidi.
LA «SANZIONE»/ Se il beneficiario risulta irregolare scatta il taglio delle sovvenzioni e dei contributi comunitari.

Anche il rilascio del documento unico di regolarità contributiva utile per il godimento di sovvenzioni, contributi, benefici normativi e altri sussidi è stato oggetto di semplificazioni in sede di conversione del decreto del fare (Dl 69/2013) nella legge 98 del 09.08.2013. Attraverso l'inserimento dei commi da 8-bis a 8-quinquies, nel corpo dell'articolo 31, sono state dettate le regole per gestire le inadempienze contributive: in pratica, le amministrazioni che rilevano irregolarità contributive dal Durc devono operare una trattenuta dai benefici economici che si apprestano a concedere.
Con la circolare 36 del 6 settembre scorso il ministero del Lavoro ha chiarito i passaggi necessari. La pubblica amministrazione, prima di erogare alle imprese le sovvenzioni, i contributi, i sussidi, gli ausili finanziari e i vantaggi economici di qualunque genere –inclusi i benefici e gli aiuti comunitari per la realizzazione di investimenti previsti dal comma 553, dell'articolo 1, della legge 266/2005– deve acquisire il Durc.
Poi, secondo quanto disposto dal nuovo comma 8-bis, in caso di inadempienza contributiva, è tenuta a trattenere dal certificato di pagamento l'importo corrispondente al debito evidenziato dal Durc e a versarlo agli enti creditori interessati.
Per quanto concerne l'acquisizione d'ufficio del documento, i commi 8-quater e 8-quinquies dell'articolo 31 ribadiscono il principio già enunciato dal Dpr 445/2000, precisando che ai fini dell'ammissione delle imprese di tutti i settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo per realizzare investimenti produttivi, gli enti procedenti –anche per il tramite di gestori pubblici o privati dell'intervento interessato– sono tenuti a verificare la regolarità contributiva del beneficiario in sede di concessione degli aiuti e devono quindi acquisire d'ufficio il documento di regolarità contributiva conforme.
La validità del documento richiesto per qualsiasi finalità è stata portata dal decreto del fare a 120 dal rilascio (tranne per i Durc emessi prima del 21 agosto scorso che godono invece di una validità di 90 giorni).
Il comma 8-ter dell'articolo 31 ha disposto in modo esplicito che la nuova validità del Durc è applicabile anche per i finanziamenti e le sovvenzioni previste dalla normativa del l'Unione europea, statale e regionale e ai fini del godimento dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale.
Quest'ultima tipologia di sgravi è anche subordinata al rispetto degli altri obblighi di legge e all'applicazione degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA - VARIRiscaldamento. Per le caldaie a gas di tipo domestico ispezioni ogni quattro anni.
Controlli semplificati sugli impianti termici. Dal 12 luglio la nuova tempistica per le verifiche.
GLI ESITI/ I rapporti del tecnico devono essere inviati alle diverse Autorità per permettere interventi mirati.

Cambia il calendario dei controlli sugli impianti termici. Il Dpr 74/2013 –in vigore dallo scorso 12 luglio– e diluisce scadenze, adempimenti e doveri. Con effetti positivi sia per i privati, che devono effettuare le revisioni, sia per gli enti pubblici, incaricati di sovrintendere al rispetto della legge.
Tuttavia, il principio alla base del nuovo regolamento, che abroga parzialmente il Dpr 412/1993 e riscrive le modalità di verifica e manutenzione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la produzione di acqua calda, va nella direzione opposta.
Così come richiesto dalle direttiva europea 2002/91/Ce e 2010/31/Ue (a cui alla fine il nostro Paese si adegua, sanando una procedura di infrazione), se da una parte c'è una maggiore semplificazione, dall'altra il nuovo testo definisce un quadro più chiaro dei compiti e disegna un meccanismo di verifica virtuoso, mirato a individuare e punire chi non rispetta le regole. Dunque prima di procedere all'accensione degli impianti è opportuno verificare cosa è cambiato.
Il decreto, innanzitutto, fissa per gli ambienti limiti di temperatura (calcolati sulla media ponderata dei valori). D'inverno i termosifoni non dovranno superare i 20° C per le abitazioni e i 18° C per gli immobili industriali e artigianali, con un massimo di due gradi in più di tolleranza. Nei mesi estivi (e questa è una novità introdotta dal Dpr 74/2013), il termostato non potrà invece andare al di sotto dei 26° C, anche in questo caso con due gradi di tolleranza.
Restano invariate le fasce orarie giornaliere entro cui sarà possibile accendere i termosifoni nei mesi freddi.
Il calendario termico varia a seconda della zona di residenza: i Comuni sono suddivisi in sei zone climatiche, dalla A alla F, in base alle temperature medie registrate in ciascuna località durante l'anno. A fronte di esigenze particolari e comprovate, sarà comunque lasciata libertà di deroga ai Comuni. Numerose inoltre le deroghe alla suddivisione in fasce orarie: ad esempio, anche per chi ha già installato in casa la termoregolazione.
Il decreto 74 disegna una nuova tabella delle periodicità. Il termine per gli impianti domestici, a combustibile liquido o solido e con una potenza compresa tra i 10 kW (12 per i climatizzatori estivi) e i 100 kW, è fissato ogni due anni, mentre prima era annuale. Così anche per le caldaie alimentate a gas (le più diffuse), la revisione deve avvenire ogni quattro anni.
Novità anche per le ispezioni, a carico dell'amministrazione pubblica, per verificare il corretto funzionamento del sistema rispetto all'efficienza e al contenimento dei consumi. Per gli impianti a metano o gpl tra i 10 e i 100 Kw e per quelli di raffrescamento tra 12 e 100 Kw non è infatti più necessario l'intervento dell'ente pubblico, ma sono sufficienti i rapporti redatti dal manutentore o dal terzo responsabile.
Tutto questo, però, non implica una generale deroga agli obblighi normativi. Se diminuiscono le verifiche sul campo, la soglia di attenzione non si abbassa. Anzi, il Dpr stabilisce, per gli impianti termici sotto i 100 kW, l'obbligo (in carico al tecnico che effettua la verifica) di compilare il rapporto di controllo di efficienza energetica, che deve essere inviato «prioritariamente in via informatica» alle autorità competenti. Il documento certifica il funzionamento dell'impianto e consente la creazione di una sorta di «catasto» degli impianti. Le verifiche dell'ente pubblico scatteranno così in maniera più mirata, soprattutto verso quegli impianti che saranno sprovvisti di rapporto di controllo o per cui siano emerse criticità.
Gli impianti sono inoltre da controllare periodicamente (anche qui a carico di chi ha la responsabilità dell'impianto) sotto l'aspetto del contenimento del consumo energetico e del buon funzionamento. Il compito può essere espletato solo da ditte abilitate. La periodicità e il tipo di verifiche da effettuare sono stabilite dai libretti di istruzione forniti dal l'impresa installatrice o dal fabbricante dei componenti o dalle norme Uni e Cei.
Gli impianti per la climatizzazione o per la produzione di acqua calda sanitaria devono, inoltre, essere muniti di libretto di impianto, che deve essere sempre aggiornato e consegnato in caso di trasferimento del l'immobile.
Se a livello nazionale la normativa è ridisegnata, in molte Regioni si opera sulla base di leggi regionali, che, in alcuni casi, hanno già recepito la direttiva 2002/91/Ce. Il decreto invita le Autonomie a uniformarsi, ma nelle more dell'adeguamento bisogna tenere conto anche della disciplina vigente a livello locale.
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Le figure. Il ruolo delle società esterne. La responsabilità può essere delegata.
LE CONDIZIONI/ Il trasferimento dell'onere è possibile solo se l'apparecchiatura invernale o estiva è in un locale dedicato.

Spetta al proprietario di casa o, nel caso di un condominio, all'amministratore (che a loro volta possono delegare una persona terza come responsabile) il compito di verificare la messa a norma, la manutenzione e il buon funzionamento degli impianti di climatizzazione e dei relativi sottosistemi, nonché il rispetto delle regole per l'abbattimento dei consumi.
Più in generale, il controllo e la manutenzione dell'impianto di climatizzazione (compresi, ove presenti, quelli per la climatizzazione estiva e per l'acqua calda sanitaria) deve essere sempre eseguito da una ditta abilitata (secondo i criteri definiti nel regolamento contenuto all'interno del Dm 37 del 22.01.2008), alla quale può essere affidata la delega di terzo responsabile.
Il Dpr 74/2013 ridefinisce, nel dettaglio, gli obblighi e i doveri per il corretto funzionamento degli impianti. A partire dalle figure cardine.
La delega al terzo responsabile può essere concessa solo nel caso in cui la caldaia sia inserita in un locale dedicato (e ciò vale soprattutto per le abitazioni con impianto singolo, anche se raggruppate in edificio condominiale, perché nei condomini con impianto centralizzato lo stato di fatto non può essere altrimenti). Nel caso d'impianti con potenza superiore a 350 kW, questa figura deve possedere la certificazione Uni En Iso 9001 o avere analoga attestazione rilasciata ai sensi del Dpr 207/2010.
L'assunzione della responsabilità avviene per iscritto: il terzo responsabile non può delegare ad altri i suoi compiti e solo occasionalmente può far ricorso al subappalto o al l'affidamento di alcune attività di sua competenza. In caso di mancato rispetto delle norme relative all'impianto termico, in particolare in materia di sicurezza e tutela dell'ambiente, sarà il terzo responsabile il destinatario delle sanzioni amministrative.
L'amministratore di condominio non può, dal canto suo, dare delega a un terzo nel caso in cui l'impianto di partenza non sia conforme alle disposizioni di legge. Inoltre, non può cedere l'incarico al venditore di energia per il medesimo impianto o a società legate, al ruolo di venditore.
Con un'unica eccezione: quando la fornitura dell'edificio è in carico a una Esco sulla base di un contratto di servizio energia (Dlgs 30.05.2008, n. 115).
Le verifiche di tutti gli impianti di climatizzazione (compresi, condizionatori e caldaie per l'acqua calda) spettano a ditte abilitate e devono essere effettuate secondo le prescrizioni e la periodicità previste nelle istruzioni tecniche fornite dall'impresa installatrice (se non sono disponibili, possono essere prese a riferimento quelle del fabbricante del componente o quelle più generiche del modello o quelle previste dalle norme Uni e Cei). Spetta a chi installa e manutiene il sistema, informare proprietario o amministratore (o, il terzo responsabile) su quali siano le operazioni di controllo da effettuare sull'impianto e sulle tempistiche. Tutte le informazioni relative all'apparato sono contenute nel libretto di impianto, di cui sono responsabili, in alternativa, proprietario, amministratore o terzo delegato.
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I documenti. Le condizioni di validità dell'Ape. Stop al certificato energetico senza la revisione.
Le prestazioni, in termini di efficienza, dell'impianto termico di un edificio (sia per la climatizzazione che per l'acqua calda sanitaria) passano anche al vaglio dell'Ape, l'attestato di prestazione energetica, che deve essere rilasciato in caso di costruzione, ristrutturazione o cessione a titolo oneroso (affitti o compravendite) di un immobile. L'attestato fotografa, infatti, fra i vari parametri, anche le performance dei sistemi termici e decade nel caso in cui non siano effettuate, in modo corretto, tutte le operazioni di manutenzione e controllo.
A disegnare le modalità di rilascio e regolamentazione delle targhe verdi dei fabbricati non è, questa volta, il Dpr 74/2013. Bensì il Dl 63/2013, convertito nella legge 90/2013 (in vigore dallo scorso 4 agosto) e che a sua volta agisce, modificandolo, sul Dlgs 192/2005.
La disciplina chiarisce che l'Ape –che è valido dieci anni– è un documento, rilasciato da esperti qualificati e indipendenti, che attesta la prestazione energetica di un edificio, attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e fornisce raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza energetica. A sua volta, la prestazione energetica, dipende dalla quantità annua di energia primaria effettivamente consumata o che si prevede possa essere necessaria per soddisfare, con un uso standard dell'immobile, i vari bisogni energetici dell'edificio: fra questi c'è la climatizzazione invernale o estiva e la preparazione dell'acqua calda per usi igienici e sanitari. La prestazione dell'impianto termico, dunque, è uno degli elementi fondanti per compilare l'Ape e definire la classe energetica in cui rientra l'edificio.
Non solo: la legge 90 specifica anche che la validità temporale massima del'Ape è subordinata «al rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica dei sistemi tecnici del l'edificio, in particolare per gli impianti termici». Tradotto in parole semplici: se l'apparato di riscaldamento e climatizzazione o di produzione dell'acqua calda non è manutenuto a dovere, decade anche la targa dell'edificio (articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale. Le istruzioni dell'Aran sui fondi decentrati. Le cessazioni non tagliano le risorse per gli straordinari.
Il fondo per il lavoro straordinario non va ridotto sulla base delle cessazioni dal servizio dei dipendenti degli enti locali.

È questa la sintesi della risposta che l'Aran ha fornito ad alcuni Comuni che chiedevano chiarimenti dopo che la questione era diventata incerta alla luce di pareri discordanti di alcune sezioni regionali della Corte dei conti.
Le conclusioni dell'Agenzia -attese per dare tranquillità all'operato delle amministrazioni- si discostano dal testo letterale dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, per dare un'interpretazione di sostanza. La norma prevede che l'ammontare complessivo del trattamento accessorio non possa essere superiore a quello del 2010, e che venga inoltre ridotto in misura proporzionale alla cessazione dei dipendenti non sostituiti. Nella nozione di trattamento accessorio c'è anche il compenso per il lavoro straordinario. Anche da questa lettura sono scaturite alcune interpretazioni che consideravano bloccato non solo il fondo del salario accessorio, ma, anche, l'intero fondo dello straordinario (ad esempio le deliberazioni nn. 423 e 529 del 2012 della sezione Lombardia della Corte dei conti).
L'Aran assume una posizione diametralmente opposta e specifica che solo le somme destinate alla contrattazione integrativa decentrata sono oggetto dell'applicazione dell'articolo 9, comma 2-bis. La motivazione risiede innanzitutto nel fatto che il fondo del lavoro straordinario è già stato ancorato all'ammontare storico previsto dall'articolo 31, comma 2, del contratto nazionale del 06.07.1995, ridotto del 3%. Le risorse sono già contingentate, quindi non esiste il rischio di una loro eventuale crescita.
Particolarmente interessante, e condivisa da tutti gli operatori degli enti locali, è anche un'altra considerazione dell'Agenzia. Le risorse del fondo per il lavoro straordinario non possono manifestare una correlazione diretta e automatica con il numero dei dipendenti in servizio. Anzi, esiste una specie di "correlazione inversa": una riduzione del personale potrebbe determinare presso un ente una maggior esigenza di ricorrere allo straordinario, per garantire la continuità dei servizi.
L'Aran precisa inoltre che su questa interpretazione non è stato formulato alcun rilievo dal ministero dell'Economia. D'altronde, a ben vedere, la conferma era giunta anche dalle istruzioni relative al conto annuale per l'anno 2012 e dal relativo calcolo automatico. Il sistema Sico, infatti, ai fini della verifica del rispetto dell'articolo 9, comma 2-bis, prendeva a esclusivo riferimento le somme del fondo del salario accessorio (ex articolo 15 del contratto del 01.04.1999), depurato delle voci escluse quali: progettazioni interne, compensi per avvocatura, compensi Istat e somme provenienti dai fondi degli anni precedenti. Nessuna verifica era imposta sul fondo per la remunerazione del lavoro straordinario (ex articolo 14 dello stesso contratto) (articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, c. 1, l. 24/03/1989 n. 122 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna.
Di conseguenza, qualora non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal piano regolatore generale.

... con riguardo alla presunta violazione dell’art. 9 della legge 122/2009, per costante giurisprudenza la realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell'art. 9, c. 1, l. 24/03/1989 n. 122 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l'intera altezza, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell'originario piano naturale di campagna; di conseguenza, qualora non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal piano regolatore generale (Cds Sez. V 12.03.2013 n. 1480) (TAR Marche, sentenza 25.09.2013 n. 640 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La richiesta di sanatoria (già art. 13, L. 47/1985 ed ora art. 36 T.U.) non richiede la presenza necessaria di alcun provvedimento sanzionatorio. Sono sì previsti dei termini per la richiesta di sanatoria in caso di presenza di provvedimenti sanzionatori, ma in assenza dei medesimi, la sanatoria può essere chiesta in qualsiasi momento.
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L’art. 13, L. 47/1985 e l’attuale art. 36 T.U. Edilizia subordinano al pagamento del doppio del contributo di costruzione non l’emissione della concessione in sanatoria, bensì il suo rilascio al richiedente, per cui l’assenza della quantificazione nel permesso di costruire in sanatoria non costituisce vizio invalidante del medesimo.
Difatti, l’obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e consequenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto.

Il motivo è infondato.
Non vi è violazione dell’art. 13, L. n. 47/1985, dato che la richiesta di sanatoria non richiede la presenza necessaria di alcun provvedimento sanzionatorio. Sono sì previsti dei termini per la richiesta di sanatoria in caso di presenza di provvedimenti sanzionatori, ma in assenza dei medesimi, la sanatoria può essere chiesta in qualsiasi momento.
Per quanto riguarda l’assenza della previsione dell’oblazione, come osservato dal resistente l’art. 13, L. 47/1985 e l’attuale art. 36 T.U. Edilizia subordinano al pagamento del doppio del contributo di costruzione non l’emissione della concessione in sanatoria, bensì il suo rilascio al richiedente, per cui l’assenza della quantificazione nel permesso di costruire in sanatoria non costituisce vizio invalidante del medesimo. Difatti, l’obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e consequenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto (Cds sez. IV 24.02.2011 n. 1235) (TAR Marche, sentenza 25.09.2013 n. 639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Il Consiglio di Stato sui siti inquinati senza individuare un colpevole. La bonifica non spetta ai proprietari.
I PRINCIPI EUROPEI/ Secondo i giudici la normativa italiana è in linea con quella europea ma è stato comunque chiesto un parere alla Corte Ue.

La bonifica di un sito inquinato non può essere imposta, nel caso non si riesca a individuare il responsabile del danno, al proprietario del terreno. Deve, invece, essere il comune a farsene carico, per poi eventualmente rivalersi sul proprietario chiedendogli di pagare il vantaggio economico che gli deriva dall'avere a disposizione un'area "pulita".
Il principio è stato affermato dal Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, con l'ordinanza 25.09.2013 n. 21, che ha così risolto un contrasto giurisprudenziale.
La risposta del massimo consesso di Palazzo Spada è stata netta. Sono state smontate le tesi del ministero dell'Ambiente, il quale sosteneva che gli interventi di messa in sicurezza e bonifica del sito di Massa Carrara, interessato da gravi fenomeni di inquinamento, li dovessero pagare le tre società (Fipa group, Tws Automation e Ivan), le quali avevano acquistato quelle aree appartenute a società del gruppo Montedison. Già il Tar aveva riconosciuto valide le motivazioni delle tre società e per questo il ministero si era appellato al Consiglio di Stato.
La sesta sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato, ha però ritenuto di dover chiamare in causa l'Adunanza plenaria, dato che le risposte che i giudici hanno dato nel tempo a questioni analoghe risultano contrastanti.
«A carico del proprietario dell'area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe –ha spiegato l'Adunanza plenaria– alcun ulteriore obbligo di facere; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area libera da pesi. Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte dello stesso –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dall'amministrazione competente, che potrà rivalersi sul proprietario del sito nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi».
Questo è quanto si può evincere dal quadro normativo nazionale, in particolare dal decreto legislativo 152 del 2006, che è intervenuto in materia ambientale. C'è, però, anche la normativa comunitaria di cui si deve tener conto. In particolare, il principio "chi inquina paga" –unito a quelli di precauzione, dell'azione preventiva e della correzione– sembrerebbe poter chiamare in causa pure il proprietario incolpevole.
La tesi dell'Adunanza plenaria è che quei principi comunque non interferiscano con quanto stabilito dal legislatore nostrano. Tuttavia, i giudici del Consiglio di Stato hanno ritenuto di dover chiedere un'interpretazione alla Corte di giustizia Ue, nell'attesa della quale il giudizio resta sospeso (articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASi rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione che di nuovo si trascrive: "se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) –in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
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... la Sesta Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione di diritto se, in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina paga”, l’Amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all’articolo 240, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 152 del 2006 (sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri sostenuti), ovvero se –in alternativa- in siffatte ipotesi gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restino limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di oneri reali e privilegi speciali.
Il quadro giurisprudenziale.
10. Dopo aver ricostruito il complessivo assetto delle disposizioni che il decreto legislativo 152 del 2006 dedica alla questione degli obblighi ricadenti, rispettivamente, a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento e del proprietario dell’area, l’ordinanza di rimessione ha rilevato come in giurisprudenza si siano registrate posizioni differenziate in ordine al se possa farsi gravare sul proprietario dell’area “incolpevole” della contaminazione l’obbligo di realizzare gli interventi di cui al titolo V della parte IV del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (sia pure solo in solido con il responsabile effettivo e salvo il diritto di rivalsa nei confronti di quest’ultimo per gli oneri sostenuti).
L’orientamento che ritiene legittima l’imposizione, in capo al proprietario non responsabile, dell’obbligo di porre in essere le misure di sicurezza d’emergenza.
11. In base ad un primo orientamento, al quesito andrebbe data risposta in senso positivo, avuto riguardo al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina paga” (cfr., in tal senso, il parere n. 2038/2012 reso dalla Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato all’esito dell’adunanza di Sezione del 23.11.2011).
In sintesi, i principali argomenti a sostegno della tesi in questione risultano:
- la valorizzazione del dato testuale sul coinvolgimento (anche su base volontaria: cfr. art. 245 d.lgs. n. 152 del 2006) del proprietario nell’adozione delle misure di cui agli articoli 240 e segg.;
- la lettura dei principi comunitari di precauzione, dell’azione preventiva e del “chi inquina paga”, sulla base dell’esigenza che le conseguenze dell’inquinamento (a seguito delle alienazione tra privati delle aree) ricadano sulla collettività;
- la sussistenza di specifici doveri di protezione e custodia ricadenti sul proprietario dell’area (peraltro riconducibili ai codici civili del 1865 e del 1942, oltre che alle tradizioni giuridiche degli Stati), a prescindere dal suo coinvolgimento diretto ed immediato nella determinazione del fenomeno di contaminazione;
- la sottolineatura della particolare posizione del proprietario, il cui coinvolgimento nei più volte richiamati obblighi sarebbe svincolato da qualunque profilo di colpa, essendo qualificabile quale responsabilità “da posizione”, derivante in ultima analisi:
   i) dalla mera relazione con la res;
   ii) per di più dall’esistenza di un onere reale sul sito (di fonte normativa);
   iii) dall’essere (o dall’essere stato) in condizione di realizzare ogni misura utile ad impedire il verificarsi del danno ambientale.
A questi argomenti, l’ordinanza di rimessione aggiunge le seguenti ulteriori considerazioni:
- la normativa può essere interpretata nel senso che le vicende di rilievo civilistico (similmente a quanto accade, per la tutela del territorio, quando il proprietario pro tempore realizza un immobile abusivo) non incidono sulla operatività delle disposizioni volte alla salvaguardia dell’ambiente, anche perché altrimenti diventerebbe estremamente agevole ridurre o eludere l’applicazione della normativa di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006;
- l’onere reale per sua natura implica che il titolare del bene, che ne risulta oggetto, sia anche il soggetto tenuto ad adempiere quanto dovuto (sotto tale profilo, col richiamo all’onere reale –rispetto al quale l’obbligazione propter rem differisce, perché essa comporta l’ambulatorietà dell’obbligo, in assenza di un regime giuridico particolare del bene– il legislatore in re ipsa avrebbe esplicitato la regola che il proprietario “attuale”, su cui ricade l’onere reale, è per definizione il soggetto tenuto agli obblighi che costituiscono il presupposto della stessa esistenza dell’onere reale);
- da decenni la dottrina e la giurisprudenza civilistica hanno abbandonato (o comunque largamente contestato) il principio colpevolistico un tempo posto a base della responsabilità civile ed hanno rilevato come tale principio sia uno dei tanti “criteri di imputazione” del danno, al quale –in ragione del determinante rilievo dei sopra richiamati principi comunitari, che tengono conto delle esigenze di difesa dell’ambiente, della natura e della salute– si può aggiungere quello secondo il quale il proprietario di un bene immobile (così come risponde della rovina di un edificio o di un’altra costruzione quale custode dell’area, per gli artt. 2053 e 2051) risponde anche del danno (da inquinamento) che il terreno continua a cagionare pur dopo il suo acquisto, in ragione degli effetti lesivi permanenti derivanti dall’inquinamento (proprio quelli che giustificano le misure che devono trovare attuazione).
- la “rivalsa” spetterebbe alle autorità pubbliche che abbiano eseguito le misure, proprio in ragione del primario ed immanente obbligo gravante sul proprietario in quanto tale.
- in coerenza col fondamento stesso del principio “chi inquina paga”, il “chi” non andrebbe inteso solo come colui che con la propria condotta attiva abbia posto in essere le attività inquinanti o abusato del territorio immettendo o facendo immettere materiali inquinanti, ma anche colui che –con la propria condotta omissiva o negligente– nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal terreno di cui è titolare.
- infine, per l’id quod plerumque accidit, l’acquirente di un terreno, ove sia sufficientemente diligente, può venire a conoscenza del suo grado di inquinamento (specie quando esso sia “grave”): ritenere che l’alienazione in quanto tale renda “incolpevole” l’acquirente-proprietario rischia di risultare una formalistica elusione della normativa di salvaguardia dell’ambiente.
L’orientamento che esclude che l’autorità amministrativa possa imporre in capo al proprietario non responsabile l’esecuzione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza.
12. In base ad un opposto orientamento (cfr., in particolare, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 09.01.2013, n. 56; Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 18.04.2011, n. 2376), non vi sarebbero, invece, ragioni testuali o sistematiche per far gravare in capo al proprietario dell’area gli obblighi di adozione delle misure di cui alle disposizioni più volte citate.
I principali argomenti addotti a sostegno della tesi in questione sono i seguenti:
- una lettura del principio comunitario “chi inquina paga” secondo le categorie tipiche del canone della responsabilità personale, con l’esclusione del ricorso ad indici presuntivi o a forme più o meno accentuate di responsabilità oggettiva;
- l’indagine testuale delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, interpretate nel senso che delineano una precisa scansione nell’individuazione dei soggetti di volta in volta chiamati ad adottare le misure di protezione e ripristino ambientale, senza possibilità di individuare in modo diretto ed immediato in capo al proprietario “incolpevole” alcuno degli obblighi di cui agli articoli 240 e seguenti, salvi gli effetti dell’imposizione ex legedi particolari oneri reali e di privilegi speciali per far fronte all’ipotesi di inadempimento da parte del soggetto responsabile;
A sostegno dell’orientamento negativo, vengono, in particolare, richiamati i seguenti dati normativi:
- l’articolo 244, comma 3, in base al quale l’ordinanza che impartisce al responsabile l’ordine di adottare le misure di cui agli articoli 240 e segg. viene, sì, notificata anche al proprietario dell’area, ma “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253” (i.e.: ai sensi della disposizione in tema di oneri reali e privilegi speciali gravanti sul fondo). Si potrebbe dunque sostenere che il comma 3 non consenta di notificare l’ordinanza al proprietario anche ai fini della diretta attribuzione nei suoi confronti -in solido con il responsabile- dell’obbligo di adottare le misure.
- l’articolo 245, comma 2, che pone in capo al proprietario “incolpevole” solo l’obbligo di attuare le misure di prevenzione di cui all’articolo 240, comma 1, lettera i), e di cui all’articolo 242, comma 1 (si tratta delle sole misure di somma urgenza, da adottare entro le prime ventiquattro ore dall’evento e il cui contenuto è puntualmente individuato dal decreto legislativo n. 152 del 2006). Pertanto, si potrebbe affermare che, in applicazione del principio di tendenziale inestensibilità degli obblighi impositivi di prestazioni personali o patrimoniali (nonché del generale principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”), gli obblighi ricadenti sul proprietario costituiscono un numerus clausus;
- l’art. 250, che elenca in ordine successivo e sussidiario i soggetti chiamati a realizzare le attività di cui al più volte richiamato titolo V, non ha trasformato in “obbligo” ciò che le altre disposizioni delineano quale mera facoltà, stabilendo invece che l’onere “di ultima istanza” di realizzare le misure gravi comunque su un soggetto pubblico (il Comune o la Regione territorialmente competenti), fermo restando -naturalmente- che in tale ipotesi operano le previsioni e le “garanzie” di cui all’articolo 253;
- il comma 3 dell’articolo 253 (quale norma di “chiusura” del sistema) legittima i competenti soggetti pubblici ad avvalersi del privilegio speciale immobiliare e del connesso diritto di chiedere la ripetizione delle spese in ipotesi del tutto residuali, quali quelle -che qui non ricorrono- in cui sia del tutto impossibile accertare l’identità del soggetto responsabile o in cui sia del tutto impossibile o infruttuoso l’esercizio dell’azione di rivalsa nei suoi confronti.
A favore della medesima conclusione negativa vengono poi richiamate ulteriori considerazioni di ordine sistematico:
- l’onere reale sarebbe una figura incompatibile con la obbligazione propter rem, che invece pacificamente implica la “trasmissibilità” dell’obbligo di cui è titolare il dante causa.
- il principio comunitario di precauzione non implicherebbe necessariamente che il proprietario sia il destinatario “naturale” delle misure precauzionali (pur se la giurisprudenza comunitaria ha attenuato il rilievo da riconoscere all’elemento psicologico ai fini della riferibilità del danno ambientale ai sensi della direttiva 2004/35/CE: CGUE 09.03.2010, in C-379/08), in quanto nessuna disposizione comunitaria sembra consentire che il principio “chi inquina paga” comporti l’addebito di una responsabilità per danno ambientale quale mera conseguenza di un rapporto dominicale con la res sulla quale sia in atto un fenomeno di inquinamento.;
- le ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale costituirebbero un numerus clausus, tendenzialmente inestensibile in via interpretativa ed applicativa (v. la legge 06.04.1977, n. 185, sulla responsabilità oggettiva nel caso di inquinamento marino da idrocarburi);
- gli obblighi di protezione e di custodia non rileverebbero quando -come nel caso in esame- l’inquinamento risalga a un periodo in cui le aree erano di proprietà di altri soggetti.
La soluzione del contrasto giurisprudenziale sulla base del quadro normativo nazionale.
13. L’Adunanza Plenaria rileva che, sulla base del quadro normativo nazionale vigente, alla questione sottoposta dalla Sesta Sezione, debba darsi risposta negativa, nel senso, cioè, che l’Amministrazione non possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia ancora l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lettere m) e p) del decreto legislativo n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario “incolpevole” restano limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di onere reali e privilegi speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV del decreto legislativo n. 152 del 2006 (articoli da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione.
Le disposizioni legislative nazionali rilevanti (gli articoli da 239 a 253 del decreto legislativo n. 152 del 2006).
14. Al riguardo si ritiene di premettere alcuni cenni in ordine al complessivo assetto delle disposizioni che il decreto legislativo 152 del 2006 dedica alla questione degli obblighi ricadenti –rispettivamente– a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento e del proprietario dell’area.
14.1. L’articolo 242 (in tema di “procedure operative ed amministrative”) disciplina con un certo livello di dettaglio gli oneri ricadenti sul soggetto responsabile dell’inquinamento al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito.
L’articolo 242 disciplina gli obblighi ricadenti sul soggetto responsabile per ciò che riguarda:
i) l’adozione delle necessarie misure di prevenzione, di ripristino e di messa in sicurezza d’emergenza;
ii) gli obblighi di comunicazione nei confronti dei soggetti pubblici competenti;
iii) la predisposizione del piano di caratterizzazione;
iv) la gestione della procedura di analisi del rischio specifico;
v) l’ottemperanza agli obblighi derivanti dall’approvazione del piano di monitoraggio;
vi) la presentazione dei progetti operativi degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente;
vii) l’attivazione delle attività di caratterizzazione, di bonifica, di messa in sicurezza e di ripristino ambientale rese necessarie, a seconda dei casi, dalle prescrizioni impartite dai soggetti pubblici competenti.
L’art. 242 non individua alcun obbligo in capo al proprietario del sito, la cui posizione, in effetti, non viene mai richiamata nell’ambito della disposizione in esame.
14.2. L’articolo 244 (rubricato “ordinanze”) disciplina il caso in cui sia stato accertato che la contaminazione verificatasi nel caso concreto abbia superato i valori di concentrazione della soglia di contaminazione.
In questo caso, la Provincia diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione all’adozione delle misure di cui agli articoli 240 e seguenti.
Il comma 3 stabilisce che “l’ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253”.
Il successivo comma 4 stabilisce che, “se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250”.
14.3. L’articolo 245 (rubricato “Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”) al comma 1 stabilisce che: “Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili”.
Il comma 2, inoltre, stabilisce che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità”.
14.4. L’articolo 250 (rubricato “bonifica da parte dell’amministrazione”) stabilisce che, “Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio”.
14.5. Infine, rileva l’articolo 253 (rubricato “Oneri reali e privilegi speciali”), il quale, ai primi quattro commi, stabilisce quanto segue: “1. Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi dell’articolo 250. L’onere reale viene iscritto a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica.
2. Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile.
3. Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilita’ di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.
4. In ogni caso, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservanza delle disposizioni di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito
”.
Gli obblighi gravanti sul proprietario non responsabile.
15. Dal quadro normativo illustrato emerge che è il responsabile dell’inquinamento il soggetto sul quale gravano, ai sensi dell’art. 242 decreto legislativo n. 152 del 2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno stato di contaminazione.
Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di facere che riguarda, però, soltanto l’adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 242, (che, all’ultimo periodo del comma 1, ne specifica l’applicabilità anche alle contaminazioni storiche che possono ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione).
A carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo di facere; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area libera da pesi (art. 245). Nell’ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte dello stesso –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dall’Amministrazione competente (art. 250), che potrà rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).
Quindi, solo dopo che gli interventi siano eseguiti d’ufficio dall’autorità competente, le conseguenze sono poste a carico del proprietario anche incolpevole, posto che vi è la specifica previsione di un onere reale sulle aree che trova giustificazione proprio nel vantaggio economico che il proprietario ricava dalla bonifica dell’area inquinata.
Natura e caratteri dell’onere reale previsto dall’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006.
16. Queste conclusioni sono confermate dal riferimento che l’art. 253 del decreto legislativo n. 152 del 2006 fa alla figura (ormai in gran parte desueta) dell’onere reale rispetto a quella dell’obbligazione propter rem.
Va al riguardo evidenziato che il richiamo alla categoria dell’onere reale può, in principio, essere fonte di alcune incertezze interpretative, che derivano dalla indeterminatezza che tradizionalmente caratterizza questo istituto giuridico e dalle connesse difficoltà di tracciare una netta differenziazione con quello analogo dell’obbligazione propter rem.
L’onere reale, infatti, al pari delle obbligazione propter rem, non trova a livello normativo né una definizione, né una disciplina. L’una e l’altra figura sono caratterizzate dalla connessione con una cosa e dalla determinazione del debitore in base al suo rapporto con la cosa.
La dottrina e la giurisprudenza hanno sempre mostrato alcune incertezze non solo nel definire i caratteri dell’onere reale, che, in assenza di dati normativi, sono spesso ricavati da indagini storiche e comparatistiche, ma anche nell’individuarne ipotesi concrete nell’ordinamento vigente.
Ai fini che rilevano in questa sede, si deve sottolineare che nell’obbligazione propter rem, l’inerenza al fondo, che pure le è propria, non ne caratterizza l’intimo contenuto (a differenza di quanto avviene per gli oneri reali), ma riguarda un aspetto diverso della sua struttura: quello della individuazione della persona dell’obbligato mediante il suo riferimento alla qualità di proprietario (o di titolare di altro diritto reale) sulla res. Per il resto l’obbligazione propter rem non si distingue da una qualsiasi altra obbligazione: l’obbligato propter rem è tenuto ad adempiere la sua prestazione nei confronti di un altro soggetto, il quale dal canto suo non ha un potere immediato sul fondo, ma come creditore può soltanto pretendere l’adempimento della prestazione.
Nell’onere reale, invece, il collegamento con la cosa non è tanto il mezzo per determinare la persona che deve eseguire la prestazione, ma ha soprattutto un significato di garanzia, nel senso che il creditore può sempre ricavare forzatamente dal fondo il valore della prestazione che gli è dovuta. Il creditore è titolare nei confronti del soggetto gravato dell’onere di un’azione reale di garanzia, (con il relativo diritto di prelazione), che si aggiunge all’azione personale contro il diretto debitore della prestazione “garantita” dall’onere. La prelazione sul bene è un vero e proprio “modo di essere” dell’onere reale e del relativo credito. Questo giustifica l’accostamento tra onere reale e privilegio, caratterizzato anch’esso dalla assenza di un titolo autonomo, sicché anche per i privilegi la prelazione è caratteristica inerente al credito, non diritto derivante da fonte autonoma.
A tal proposito è significativo evidenziare che l’art. 253, dopo aver previsto, al comma 1, che “gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati”, specifica, al comma 2, che le relative spese sono sostenute da un “privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime”.
Per questa ragione, si è anche detto, in senso figurato, che, mentre nelle obbligazioni propter rem, obbligata rimane la persona individuata in base alla proprietà della res, nell’onere reale, obbligata sarebbe la cosa stessa, anche in considerazione del fatto che, come esplicitato nell’art. 253, il soggetto gravato dall’onere reale risponde nei limiti di valore della res.
17. Le considerazioni appena espresse in ordine alla natura e alle caratteristiche dell’onere reale confermano le conclusioni sopra svolte in ordine alla posizione del proprietario non autore della contaminazione. La scelta del legislatore di evocare la figura obsoleta dell’onere reale può spiegarsi solo ammettendo che il proprietario “incolpevole” non sia tenuto ad una prestazione di facere (di cui è gravato solo il responsabile), ma sia tenuto solo a garantire, nei limiti del valore del fondo, il pagamento delle spese sostenute dall’Amministrazione che abbia eseguito direttamente gli interventi di messa in sicurezza e di bonifica. Conclusione esplicitata dall’art. 253, comma 4, che testualmente prevede che “il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservazione delle disposizioni di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, le spese degli interventi adottati all’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi”.
In altre parole, si deve ritenere che il riferimento all’onere reale non valga a far diventare obbligatorio ciò che (l’intervento di bonifica) poco prima (art. 245) il legislatore ha qualificato in termini di una mera facoltà, quanto, piuttosto, a far gravare il fondo del rimborso delle spese sostenute dall’autorità che abbia provveduto d’ufficio all’intervento (e, quindi, semmai, a far diventare quella facoltà un onere). I principi civilistici in materia di responsabilità extracontrattuale.
18. Va aggiunto che l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area, non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento (e, quindi, almeno sotto questo profilo, l’accertamento di una forma di responsabilità in capo al proprietario) e, dall’altro, sembra, comunque, porsi in contraddizione con i precisi criteri di imputazione degli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica previsti dagli articoli 240 e ss. del decreto legislativo n. 152 del 2006, che dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze.
19. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo.
Nel caso di specie, al contrario, seguendo l’opposta tesi, il proprietario sarebbe gravato non semplicemente di una responsabilità oggettiva, ma di una vera e propria “responsabilità di posizione”, in quanto sarebbe tenuto ad eseguire le opere di messa in sicurezza e di bonifica a prescindere non solo dall’elemento soggettivo (dolo o colpa) ma anche di quello oggettivo (nesso eziologico). Verrebbe, quindi, chiamato a porre rimedio in forma specifica, attraverso la messa in sicurezza d’emergenza o la bonifica, a situazioni di contaminazione che non gli sono imputabili né oggettivamente, né soggettivamente.
La responsabilità oggettiva in materia di riparazione del danno ambientale e la relativa procedura di infrazione (n. 2007/4679) aperta contro l’Italia dalla Commissione europea.
20. Per tale ragione, appaiono anche fuori luogo i riferimenti ai principi comunitari che impongono la responsabilità oggettiva in materia di riparazione del danno ambientale e alla relativa procedura di infrazione (n. 2007/4679) aperta contro l’Italia dalla Commissione europea in ragione del carattere non oggettivo del regime di responsabilità per danno all’ambiente prevista dalla legislazione italiana. Vale anche in questo caso la considerazione che quella vorrebbe farsi gravare sul proprietario sarebbe una responsabilità non oggettiva, ma, appunto, di mera “posizione”. Si tratta, quindi, di una questione che esula dall’oggetto di quella procedura di infrazione, che riguarda invece, le previsioni legislative nazionali (art. 311, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 152 del 2006) che, ai fini del risarcimento del danno ambientale, richiedono, oltre al rapporto di causalità, anche l’elemento soggettivo.
Il principio costituzionale della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.)
21. Ugualmente, non ha pregio richiamare, come pure talvolta viene fatto nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, il principio costituzionale che predica la funzione sociale della proprietà privata (art. 42 Cost.), in nome del quale si giustificherebbe l’imposizione di pesi e oneri in capo alla proprietà per il perseguimento di superiori interessi generali (quali, appunto, la tutela dell’ambiente). La compressione del diritto di proprietà in nome della “funzione sociale” richiede, comunque, anche alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una puntuale base legislativa, che, nel caso di specie, alla luce delle considerazioni svolte, certamente manca.
La giurisprudenza nazionale.
22. La tesi accolta dal Collegio risulta, del resto, di gran lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa, sia di primo che di secondo grado. Il giudice amministrativo, infatti, in maniera pressoché costante, ha escluso che le norme della Parte Quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 possano offrire all’Amministrazione una base legislativa per imporre al proprietario non responsabile misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica.
L’orientamento contrario, come ricorda l’ordinanza di rimessione, ha trovato accoglimento in sede consultiva nel parere n. 2038/2012 (richiamato dall’ordinanza di remissione) e in alcune, non numerose, sentenze di primo grado (ad esempio, Tar Lazio, sez. I, 14.03.2011, n. 2263).
23. Giova, al riguardo, precisare che, a sostegno dell’indirizzo minoritario, non sembra pertinente il richiamo (contenuto nel già citato parere n. 2038/2012 e, per relationem, nella ordinanza di remissione all’Adunanza Plenaria ) alla sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato 15.07.2010, n. 4561. Tale decisione, infatti, se, da un lato, afferma che la responsabilità del proprietario è una responsabilità “da posizione”, svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa e dal rapporto di causalità, dall’altro, specifica, tuttavia, che il “proprietario del suolo –che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto non ad eseguire direttamente le opere di bonifica, ma soltanto a rifondere, in sede di rivalsa, i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito”. Si tratta, quindi, di un precedente che va collocato nell’ambito della tesi maggioritaria che esclude, al di là delle misure di prevenzione, l’esistenza di ulteriori obblighi di facere in capo al proprietario.
Ugualmente, non appare pertinente a sostegno dell’indirizzo minoritario il richiamo alla sentenza 25.02.2009, n. 4472, resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (in sede di ricorso avverso una sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche), in cui, con riferimento all’obbligo di rimozione e smaltimento dei rifiuti, previsto dall’art. 192, comma 3, decreto legislativo n. 152 del 2006 a carico del proprietario e dei titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, si afferma che, “per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
Tale sentenza, infatti, si occupa di una fattispecie diversa rispetto a quella concernente la bonifica dei siti inquinati. Nel caso deciso dalle Sezioni Unite viene in rilievo un caso di abbandono di rifiuti, con riferimento al quale l’art. 192 decreto legislativo n. 152 del 2006 prevede che chi viola i divieti di abbandono e di deposito incontrollato dei rifiuti è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti in solido con il proprietario, con i titolari di diritti reali o personali di godimento e, appunto, secondo le Sezioni Unite, anche dei detentori di fatto cui tale violazione sia imputabile a titolo di dolo e di colpa. In questo caso, peraltro, la responsabilità del proprietario o del detentore del fondo è circondata da garanzie superiori rispetto a quelle previste in materia di bonifica dei siti inquinati, in quanto si chiede espressamente che la violazione sia imputabile anche a titolo di dolo o di colpa.
Alcuni precedenti, infine, se da un lato riconoscono la possibilità per l’Amministrazione di imporre al proprietario non responsabile l’obbligo di messa in sicurezza di emergenza del sito contaminato, dall’altro specificano che ciò può avvenire non sulla base delle disposizioni del decreto legislativo n. 152 del 2006, che non contemplano tali obblighi a carico del proprietario, ma nell’esercizio del potere di adottare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (cfr., in tal senso, ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2005, n. 4525). Anche queste sentenze non sono, tuttavia, direttamente pertinenti rispetto alla controversia oggetto del presente giudizio, in cui non si fa questione dell’esercizio del potere di ordinanza extra ordinem.
24. Da questo rapido excursus giurisprudenziale emerge, quindi, come l’orientamento interpretativo di gran lunga prevalente escluda la possibilità per l’Amministrazione nazionale di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione misure di messa in sicurezza d’emergenza o di bonifica del sito inquinato.
A tale indirizzo, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso, alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica interpretazione compatibile con il tenore letterale delle disposizioni in esame.
Le conclusioni dell’Adunanza plenaria sulle regole che si ricavano dalla legislazione nazionale.
25. Volendo schematizzare e riepilogare, dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (in particolare nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett.1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’Amministrazione competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
La questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
26. Il quadro normativo nazionale così ricostruito solleva, tuttavia, alcuni dubbi di compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea, in particolare con i principi che questo detta in materia ambientale. Si tratta di dubbi, già adombrati nell’ordinanza di rimessione, che richiedono la delimitazione della reale portata precettiva dei principi che ispirano la normativa comunitaria in materia ambientale, ed in particolare del principio “chi inquina paga”, del principio di precauzione, del principio dell’azione preventiva e del principio della correzione, in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente.
È in relazione a tale profilo, al fine di chiarire l’ambito applicativo e gli effetti di tali principi, che si mostra necessario il ricorso alla funzione interpretativa della Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (di seguito, anche solo TFUE).
27. In particolare, la questione interpretativa che si intende sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea è la seguente: “se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) –in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
L’Adunanza plenaria ritiene di acquisire dalla Corte di giustizia alcuni elementi interpretativi dei richiamati principi comunitari, anche al fine di valutare la compatibilità con essi della normativa nazionale, al fine di pronunciarsi sulla causa di cui è investito.
Ragioni della rilevanza della domanda di pronuncia pregiudiziale ai fini della definizione del giudizio.
28. La questione pregiudiziale è certamente rilevante nel presente giudizio, in quanto in esso si discute proprio della legittimità dei provvedimenti con cui l’autorità amministrativa ha ordinato la messa in sicurezza d’emergenza e la presentazione di un progetto di variante di bonifica agli attuali proprietari dei siti inquinati, che risultano, pacificamente, non responsabili dell’inquinamento. La soluzione della questione pregiudiziale è, quindi, in grado di condizionare l’esito del giudizio.
29. Inoltre, ad ulteriore conferma della rilevanza della questione (anche a prescindere dalla delibazione di alcune eccezioni di inammissibilità degli appelli sollevate dalle società appellate) deve rilevarsi che, ai sensi dell’art. 99, comma 5, del codice del processo amministrativo, l’Adunanza Plenaria, “se ritiene che la questione sia di particolare importanza”, “può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevebile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio. In tal caso la pronuncia dell’Adunanza Plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato”.
Nel caso di specie, alla luce della particolare importanza della questione in esame, destinata a riproporsi in un numero significativo di giudizi (analoga questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria sempre dalla Sesta Sezione con ordinanza 26.06.2013, n. 3515), l’Adunanza Plenaria, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, intende, comunque, enunciare il principio di diritto. Tale circostanza conferisce evidentemente alla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria una rilevanza che prescinde anche dall’incidenza concreta, comunque sussistente, che la pronuncia pregiudiziale può avere sull’esito della lite pendente tra le odierne parti.
Illustrazione dei motivi che hanno indotto l’Adunanza plenaria a interrogarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione.
30. Alla luce delle Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale(pubblicate nella G.U.C.E. n. 388 del 06.11.2011), si illustrano, di seguito, le ragioni che hanno indotto l’Adunanza plenaria a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di talune disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il nesso esistente tra queste disposizioni e la normativa nazionale applicabile nel procedimento principale.
Il principio chi “inquina paga”.
31. Per quanto concerne il principio “chi inquina paga” devono certamente ritenersi ormai superate le tesi (sviluppate anche dalla dottrina italiana sulla scorta di analoghe riflessioni compiute in altre ordinamenti), secondo cui esso rappresenterebbe una previsione meramente programmatica, priva di un valore precettivo, ma costituente solo una generale indicazione di razionalità economica (più che giuridica), nel senso della tendenziale (perché affidata alla necessaria mediazione di scelte discrezionali legislative), “internalizzazione” dei costi ambientali. Questi ultimi, visti quali esternalità negative, che (come spiega il secondo considerando alla direttiva 2004/35/Ce), una volta adeguatamente considerati quali costi dall’imprenditore, verranno presumibilmente meglio prevenuti.
Oggi, invece, si ritiene pacificamente che il principio costituisca una regola giuridica precettiva, su cui si fonda tutto il sistema di responsabilità ambientale.
32. Rimangono, tuttavia, margini di incertezza in ordine alla reale portata precettiva della regola.
In linea di massima, c’è concordia nel ritenere che laratio del principio sia quella di “internalizzare” i costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa), evitando di farli gravare sulla collettività o sugli enti rappresentativi della stessa.
Si evidenzia, sotto questo profilo, la duplice valenza, non solo repressiva, ma anche preventiva del principio, volto ad incentivare, per effetto del calcolo dei rischi di impresa, la generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci e, quindi, nelle dinamiche di mercato, dei costi di alterazione dell’ambiente, con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3885).
Si discute, tuttavia, sui “limiti” che incontra questa operazione di “internalizzazione” del costo ambientale. Più nel dettaglio, ci si chiede se il danno ambientale possa essere addossato soltanto a “chi” abbia effettivamente inquinato (di cui sia stata, pertanto, accertata la responsabilità) o se, al contrario, pur in assenza dell’individuazione del soggetto responsabile, ovvero di impossibilità di questi a far fronte alle proprie obbligazioni, il principio comunitario, postuli, comunque di evitare che il costo degli interventi gravi sulla collettività, ponendo tali costi quindi, comunque, a carico del proprietario. Ciò in quanto, escludere che i costi derivanti dal ripristino di siti colpiti da inquinamento venga sopportato dalla collettività, costituirebbe proprio la ragion d’essere sottesa al principio comunitario del “chi inquina paga”.
33. Da qui la possibile opzione interpretativa secondo cui il principio comunitario “chi inquina paga”, piuttosto che ricondursi alla fattispecie illecita integrata dall’elemento soggettivo del dolo e della colpa e dall’elemento materiale, imputerebbe, comunque, il danno al proprietario, perché quest’ultimo è colui che si trova nelle condizioni di controllare i rischi, cioè il soggetto che ha la possibilità della “cost-benefit analysis” per cui lo stesso deve sopportarne la responsabilità per trovarsi nella situazione più adeguata per evitarlo in modo più conveniente.
In altri termini, come pure è stato sostenuto, il punto di equilibrio fra i diversi interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute, dell’ambiente e dell’iniziativa economica privata andrebbe ricercato in un criterio di “oggettiva responsabilità imprenditoriale”, in base al quale gli operatori economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o anche in quanto semplici utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono perciò stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione.
In quest’ottica, ciò che rileva ai fini dell’individuazione del soggetto tenuto alle misure di riparazione, non è, quindi, tanto la circostanza di aver causato la contaminazione, ma quelle di utilizzare, per motivi imprenditoriali, a scopo di lucro, i siti contaminati in maniera strumentale nell’esercizio dell’attività di impresa.
34. Tale opzione interpretativa potrebbe trovare ulteriore conferma alla luce del tredicesimo considerando della direttiva 2004/35/Ce, in cui si legge: “A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e qualificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi ad atti o omissioni di taluni soggetti”.
Tale considerando, evidenziando l’insufficienza in materia ambientale della responsabilità civile (sia pure con riferimento all’inquinamento a carattere diffuso e generale) mostra, comunque, l’esigenza di individuare criteri di imputazione del danno ambientale che prescindano dagli elementi costitutivi dell’illecito civile e, dunque, non solo dall’elemento soggettivo, ma anche dal rapporto di causalità.
35. Ancora, appare rilevante ai fini che in questa sede rilevano, il considerando n. 24 della citata direttiva 2004/35/Ce in cui si afferma la necessità di “assicurare la disponibilità di mezzi di applicazione ed esecuzione efficaci, garantendo un’adeguata tutela dei legittimi interessi degli operatori e delle altre parti interessate”, conferendo “alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare l’entità del danno e di determinare le misure di riparazione da prendere”.
La discrezionalità amministrativa evocata dalla direttiva potrebbe, invero, essere letta nel senso di sottintendere anche il potere per l’autorità competente di individuare il soggetto che si trova nelle condizioni migliori per adottare le misure di riparazione, anche a prescindere dal rigoroso accertamento del nesso eziologico.
36. Significativa, inoltre, è anche la previsione dell’art. 8, n. 3, lett. b), della direttiva 2004/35/Ce, secondo cui i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione non sono a carico dell’operatore “se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è stato causato da un terzo o si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza”.
Tale disposizione dà rilievo al rapporto di causalità, ma non in positivo, bensì in negativo, nel senso che la presenza del nesso di causalità (e, dunque, la necessità che esso sia dimostrato dall’autorità competente) non sembra essere condizione necessaria al fine del sorgere della responsabilità; è, al contrario, la prova, fornita dall’operatore, dell’assenza del rapporto di causalità, o meglio la dimostrazione di un nesso eziologico che permetta di ricondurre l’evento lesivo ad un soggetto terzo, che lo esonera dalla responsabilità. Sembrerebbe, quindi, confermata la possibilità di imporre misure di prevenzione e di riparazione anche senza rapporto di causalità, ferma restando la possibilità per l’operatore di recuperare i costi di tali interventi dimostrando che l’evento lesivo è eziologicamente imputabile ad un soggetto terzo.
I principi di precauzione e di prevenzione.
37. Oltre al principio “chi inquina paga”, vengono poi in rilievo i principi di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, anch’essi esplicitamente richiamati dall’art. 191, paragrafo 2, TFUE, come fondamenti della politica dell’Unione in materia ambientale.
I principi di precauzione e di prevenzione rendono legittimo un approccio anticipatorio ai problemi ambientali, sulla base della considerazione che molti danni causati all’ambiente possono essere di natura irreversibile.
38. Per prevenire il rischio del verificarsi di tali danni, il principio di precauzione legittima l’adozione di misure di prevenzione, riparazione e contrasto ad una fase nella quale il danno non solo non si è ancora verificato, ma non esiste neanche la piena certezza scientifica che si verificherà. In altri termini, la ricerca di livelli di sicurezza sempre più elevati porta ad un consistente arretramento della soglia dell’intervento delle Autorità a difesa della salute dell’uomo e del suo ambiente: la tutela diviene “tutela anticipata” e oggetto dell’attività di prevenzione e di riparazione diventano non soltanto i rischi conosciuti, ma anche quelli di cui semplicemente si sospetta l’esistenza.
39. Il principio di prevenzione presenta tratti comuni con il principio di precazione, in quanto entrambi condividono la natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno per l’ambiente. Il principio di prevenzione si differenzia da quello di precauzione perché si occupa della prevenzione del danno rispetto a rischi già conosciuti e scientificamente provati relativi a comportamenti o prodotti per i quali esiste la piena certezza circa la loro pericolosità per l’ambiente.
40. Si potrebbe certamente sostenere, in prima approssimazione, che entrambi i principi in questione non siano pertinenti nella presente fattispecie, in cui non vi è un mero rischio (scientificamente provato o meramente ipotizzato), ma un danno certo e già consumato all’ambiente e l’incertezza riguarda semmai l’individuazione del soggetto materialmente responsabile.
41. Tuttavia, in una diversa ottica, si può evidenziare che, se la ratio dei principi di precauzione e di prevenzione è quella di legittimare un intervento dell’autorità competente anche in condizioni di incertezza scientifica (sulla stessa esistenza del rischio o delle sue ulteriori conseguenze), sul presupposto che il trascorrere del tempo necessario per acquisire informazioni scientificamente certe o attendibili potrebbe determinare danni irreversibili all’ambiente, allora non appare peregrino sostenere che la medesima ratio consenta l’intervento in via precauzionale o preventiva non solo quando l’incertezza da dipanare riguardi l’evento di danno, ma anche quando concerna il nesso causale e, quindi, l’individuazione del soggetto responsabile di un danno certo.
In entrambi i casi, invero, il ritardo nell’intervento giustificato dalla necessità di acquisire un livello di certezza scientifica soddisfacente può dare luogo al rischio di effetti irreversibili.
In quest’ottica, quindi, i principi di precauzione e di prevenzione potrebbero legittimare l’imposizione, a prescindere dalla prova circa la sussistenza del nesso di causalità, in capo al soggetto che, essendo proprietario del sito contaminato, si trova nelle migliori condizioni per attuarle, non solo delle misure di prevenzione descritte dall’art. 240, comma 1, lett. i), decreto legislativo n. 152 del 2006, (già previste a suo carico dall’art. 245, comma 2, decreto legislativo n. 152 del 2006), ma anche di misure di sicurezza di emergenza. Anche queste misure, infatti, hanno una finalità precauzionale ed una connotazione di urgenza, essendo dirette a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
Il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati.
42. Infine, viene in rilievo il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati. Tale principio, infatti, dispone che i danni causati all’ambiente vengano contrastati in una fase il più possibile vicino alla fonte, per evitare che i loro effetti si amplifichino e si ingigantiscano. Nelle situazioni di impossibilità di individuare il responsabile, o di impossibilitò impossibilità di evitare da questi le misure correttive, la “fonte” cui il principio fa riferimento sembra potere essere ragionevolmente individuata nel soggetto attualmente proprietario del fondo, che, proprio per la sua posizione di proprietario, è quello meglio in grado di controllare la fonte di pericolo rappresentata dal sito contaminato.
Il punto di vista dell’Adunanza Plenaria sulla questione pregiudiziale di interpretazione comunitaria.
43. Seguendo sul punto le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (punto n. 24), pubblicata sulla GUCE del 06.11.2012, C-388, l’Adunanza Plenaria ritiene di indicare succintamente il suo punto di vista sulla soluzione da dare alla questione pregiudiziale sottoposta.
44. L’Adunanza Plenaria ritiene che, nonostante la serietà degli argomenti su cui si fondano i dubbi interpretativi di cui si è trattato, la questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia possa essere risolta in senso negativo, escludendo cioè che i richiamati principi comunitari in materia ambientale ostino ad una disciplina nazionale che non consente all’autorità competente di imporre misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica in capo al proprietario del sito non responsabile della contaminazione, prevedendo in capo al medesimo solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del fondo dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica secondo il meccanismo sopra descritto dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare.
45. Risulta significativo a tale proposito richiamare la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 09.03.2010, C-378/08.
Questa sentenza è stata pronunciata, in seguito ad una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, su una fattispecie diversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio e proprio tale diversità tra fattispecie, giustifica la presente domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Ciò nonostante, come si andrà ad esporre, alcuni principi espressi dal Giudice comunitario in quella sentenza potrebbero rivelarsi risolutivi anche nel caso in esame.
In particolare, nella sentenza 09.03.2010, C-378/08, la Corte di giustizia ha affermato che, in applicazione del principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe sugli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento; gli operatori medesimi, pertanto, non devono farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito.
Più nel dettaglio, nella citata sentenza 09.03.2010, C- 378/08 si legge (punti da 53 a 59):
- dagli artt. 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 si evince che, così come l’accertamento di un nesso causale è necessario da parte dell’autorità competente al fine di imporre misure di riparazione ad eventuali operatori, a prescindere dal tipo di inquinamento in questione, quest’obbligo è parimenti un presupposto per l’applicabilità di detta direttiva per quanto concerne forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso;
- un nesso di causalità del genere può essere agevolmente dimostrato quando l’autorità competente si trovi in presenza di un inquinamento circoscritto nello spazio e nel tempo, che sia opera di un numero limitato di operatori. Viceversa, non è questo il caso nell’ipotesi di fenomeni di inquinamento a carattere diffuso, per cui il legislatore dell’Unione ha giudicato che, in presenza di un inquinamento del genere, un regime di responsabilità civile non costituisce uno strumento idoneo quando detto nesso di causalità non possa essere accertato. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, quest’ultima si applica a questo tipo di inquinamento solo quando sia possibile accertare un nesso di causalità tra i danni e le attività dei diversi operatori;
- la direttiva 2004/35 non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso di causalità; nella cornice della competenza condivisa tra l’Unione e i suoi Stati membri in materia ambientale, quando un elemento necessario all’attuazione di una direttiva adottata in base all’art. 175 CE non sia stato definito nell’ambito di quest’ultima, una siffatta definizione rientra nella competenza di questi Stati e, a tale proposito, essi dispongono di un ampio potere discrezionale, nel rispetto delle norme del Trattato, al fine di prevedere discipline nazionali che configurino o concretizzino il principio «chi inquina paga» (v., in tal senso, sentenza 16.07.2009, causa C-254/08, Futura Immobiliare e altri);
- da questo punto di vista, la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento;
- tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento (v., per analogia, sentenza 24.06.2008, causa C-188/07,Commune de Mesquer), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività;
- quando disponga di indizi di tal genere, l’autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato. Conformemente all’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere può rientrare pertanto nella sfera d’applicazione di questa direttiva, a meno che detti operatori non siano in condizione di confutare tale presunzione.
46. Dai citati passaggi motivazionali, emerge, quindi, come, per il Giudice comunitario, il rapporto di casualità sia comunque elemento imprescindibile ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/35 Ce e del principio comunitario “chi inquina paga” in essa richiamato.
47. Tale conclusione, ovvero la necessità di accertare, eventualmente anche mediante presunzione, l’esistenza del rapporto di causalità, sembra, del resto, trovare conferma nella considerazione che il principio comunitario “chi inquina paga” affonda le sue radici storiche nell’omologo principio del diritto nazionale tedesco espresso con il termine «Verursacherprinzip», che letteralmente significa “principio del soggetto causatore”.
48. Depongono in tale direzione anche le Conclusioni presentate il 22.10.2009 nello stesso procedimento C 378/08 dall’Avvocato Generale Juliane Kokott, in cui si legge:
- “una responsabilità svincolata da un contributo alla causazione del danno non corrisponderebbe all’orientamento della direttiva sulla responsabilità ambientale e non sarebbe neppure conforme a quest’ultima, qualora essa avesse l’effetto di attenuare la responsabilità del soggetto effettivamente responsabile, in forza della direttiva stessa, per i danni ambientali. Infatti, la direttiva costituisce proprio per l’operatore responsabile un incitamento ad attivarsi per la prevenzione dei danni all’ambiente e stabilisce che egli debba sopportare le spese per la riparazione dei danni che dovessero comunque verificarsi” (punto 98).
- “La questione dei presupposti per un esonero dell’operatore autore del danno dal pagamento dei costi di risanamento viene disciplinata, in particolare, all’art. 8 della direttiva sulla responsabilità ambientale. Eventuali più ampie fattispecie di esenzione dal pagamento dei costi minerebbero con ogni probabilità l’attuazione del principio «chi inquina paga» perseguita dalla direttiva. Esse attenuerebbero l’effetto di stimolo associato alla responsabilità prevista e modificherebbero la ripartizione dei costi giudicata equa dal legislatore comunitario” (punto 99).
- “Se non si vuole svuotare di significato la responsabilità a titolo prioritario dell’operatore che ha causato il danno, l’art. 16, n. 1, della direttiva sulla responsabilità ambientale non deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possano individuare altri soggetti responsabili destinati a subentrare al predetto. Va respinta altresì l’ipotesi di individuare ulteriori soggetti responsabili chiamati a rispondere insieme e a pari titolo con l’autore in modo tale da diminuire la responsabilità di quest’ultimo” (punto 102).
49. Con questo non si vuol certo intendere che il principio “chi inquina paga” implichi un divieto assoluto di addossare a soggetti diversi dall’autore del danno i costi per l’eliminazione dei danni ambientali. Un simile divieto, infatti, citando ancora le conclusioni dell’Avvocato generale Kolkott, finirebbe per tradursi nella passiva accettazione di eventuali danni all’ambiente, nel caso in cui l’autore di questi non potesse essere chiamato a rispondere. Infatti, anche in caso di riparazione a carico della collettività, le spese dovrebbero essere sopportate da un soggetto che non è responsabile per il danno. Tuttavia, l’accettazione dei danni all’ambiente sarebbe incompatibile con la finalità di promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento della qualità di quest’ultimo. Il principio «chi inquina paga» è funzionale al raggiungimento di tale finalità, sancita non soltanto dal n. 2, ma anche dal n. 1 dell’art. 191 TFUE (ex art. 174 CE). Il detto principio non può essere inteso, quindi, in un senso tale da risultare in definitiva confliggente con la tutela dell’ambiente, ad esempio considerandolo idoneo a precludere la riparazione dei danni ambientali nel caso in cui l’autore degli stessi non possa essere chiamato a rispondere. Esso, in definitiva, sembra precludere una responsabilità per danni ambientali indipendente da un contributo alla causazione dei medesimi soltanto se ed in quanto essa abbia l’effetto di elidere quella incombente a titolo prioritario sull’operatore che ha causato i danni in questione.
Tuttavia, ed è questo il punto che sembra decisivo ai fini della risoluzione della questione, i principi del diritto dell’Unione in materia ambientale, pur non ostando, alle condizioni appena viste, ad una responsabilità svincolata dal rapporto di casualità, non sembrano, tuttavia, imporla, demandando la regolazione di queste forme sussidiarie di responsabilità al legislatore nazionale. Tali principi, quindi, non sembrano di per sé interferire con i limiti (sopra ricostruiti) che il legislatore nazionale ha voluto prevede alla responsabilità del proprietario non autore della contaminazione..
Conclusioni.
50. In conclusione, alla luce di quanto esposto,
si rimette all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione che di nuovo si trascrive: "se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21.04.2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) –in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente– ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
Atti da trasmettere alla Corte di giustizia (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 25.09.2013 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività.
Inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva; ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli.
Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit. riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (allevamento suinicolo).

Con riferimento alle previsioni dell’art. 216 del T.U.LL.SS., l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri” (di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”; detti interventi hanno concretizzato “le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”; mentre la sanzione comminata in forza della mancata realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la loro esecuzione ed efficienza”.
Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999, vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che anch’esse debbano essere contenute entro limiti di tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo dell’Amministrazione locale.
E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge 833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di attività che presentano i caratteri di possibile pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle dell'attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a condizione che l’esercizio non superi i limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15.02.2001, n. 766); inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V, 14.09.2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V, 19.04.2005, n. 1794).
Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche considerato che l’art. 216, cit. riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato, V, 24.03.2006, n. 1533) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Lo Stato deve pagare per i Comuni dissestati. Corte di Strasburgo. La decisione.
DEBITI DA ONORARE/ Bocciate le norme italiane che hanno bloccato in modo retroattivo l'esecuzione di sentenze a carico di enti «falliti».
Lo stato di dissesto finanziario di un Comune non può bloccare l'esecuzione di una sentenza che intima il pagamento di un credito, tanto più se la causa è nata prima della dichiarazione di dissesto: quando le casse dell'ente non sono in condizione di soddisfare un credito, deve intervenire lo Stato centrale, perché il Comune non è altro che un suo «componente».
La decisione è arrivata ieri dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 24.09.2013, richiesta n. 43870/04, Sez. XII), che ha per questa via riconosciuto il diritto di due cittadini di Benevento a vedersi riconosciuti 90mila euro (di cui 10mila per il risarcimento delle spese legali) in virtù di un credito atteso al centro di una battaglia legate avviata nel 1992.
Il 28 ottobre di quell'anno, i due avevano fatto causa al Comune per vedersi riconoscere danni e interessi per il mancato pagamento di una somma dovuta dalla fine degli anni '80. Il 18.11.2003 il Tribunale di Benevento aveva accolto il ricorso, ma pochi giorni dopo (e prima del deposito della sentenza) il Comune aveva alzato bandiera bianca e dichiarato il dissesto.
Su questo intreccio cronologico interviene la legge italiana. Il Testo unico degli enti locali (articolo 248, comma 2, del Dlgs 267/2000) bloccava le procedure esecutive dal momento del dissesto fino all'approvazione del nuovo bilancio riequilibrato, ma non risolveva i casi come quello di Benevento, in cui la controversia era sbocciata prima del default. Nel 2004, di conseguenza, era spuntata la solita norma retroattiva (articolo 5, comma 2 della legge 140/2004), che fermava anche le sentenze precedenti.
La sentenza diffusa ieri dalla Corte di Strasburgo (caso «De Luca contro Italia»; richiesta 43870/04) travolge però tutta questa impalcatura normativa. Secondo i giudici, le leggi leggi italiane che hanno fermato, anche in modo retroattivo, i pagamenti imposti da sentenze dei giudici violano l'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione dei diritti dell'uomo, secondo cui tutti hanno diritto a veder esaminata la propria causa «equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale» e l'articolo 1 del Protocollo 1 della stessa Convenzione, in base al quale «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni».
Decisiva, nel ragionamento dei giudici, è la considerazione degli enti locali come «componenti» dello Stato, che non sembra sovrapporsi con l'architettura disegnata dalla Costituzione, che nell'articolo 114 del Titolo V riformato nel 2001 pongono Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sullo stesso piano come elementi costitutivi della «Repubblica».
Sul piano sostanziale, comunque, l'obbligo dello Stato a pagare al posto del Comune dissestato per far eseguire una sentenza fa vacillare anche l'evoluzione delle regole sul dissesto, che proprio dal 2001 ha chiuso i rubinetti statali a copertura dei dissesti locali. Non a caso fino a quell'anno i default comunali erano stati 472, e avevano prodotto 1,2 miliardi di mutui che l'amministrazione centrale sta ancora pagando, poi i casi di dissesto locale si erano diradati fino quasi a scomparire.
A riaccendere l'allarme sono state le difficoltà degli ultimi anni, sfociate nel fondo anti-dissesto varato dal Governo Monti nell'autunno 2012: fra gli aderenti ci sono tanti protagonisti dei "vecchi" dissesti (come Benevento, oltre a Napoli), ma il meccanismo sembra già zoppicare perché le restituzioni di quello che dovrebbe essere un prestito statale non sono partire e i fondi sono già stati tagliati (articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2013).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità degli affidamenti in house e sul requisito del controllo analogo da parte di soci ultraminoritari.
Dal confronto tra i principi comunitari e la (ancora frammentaria) normativa interna, si possono desumere le seguenti indicazioni:
(a) l'affidamento in house nel rispetto dello schema comunitario è sempre legittimo;
(b) anche la partecipazione alle gare da parte di soggetti in house è legittima, come pure lo svolgimento di attività a favore di terzi, ma espone al rischio di fuoriuscire dallo schema comunitario (se la parte più importante dell'attività non è più svolta con gli enti che detengono il controllo).
Fra gli strumenti che concorrono a garantire il requisito del "controllo analogo" da parte di soci ultraminoritari, vi è l'adeguatezza di patti parasociali attraverso i quali i soci pattisti "si impegnano a votare in assemblea, su questioni che riguardano i servizi prestati in uno specifico comune, in conformità alla volontà espressa dal comune direttamente interessato" in modo che sia assicurato "a ciascun comune il ruolo di dominus nelle decisioni circa il frammento di gestione relativo al proprio territorio" (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.09.2013 n. 780 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'istituto dell'avvalimento.
Appare preferibile, alla stregua di un criterio sistematico e funzionale rispetto alle finalità perseguite, di massima partecipazione alle gare pubbliche alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. e di piena concorrenza secondo il Trattato europeo, una interpretazione dell'art. 49, comma 1, del D.Lgs 163/2006 più favorevole alla massima partecipazione alla gara, in base alla quale ciascuna impresa associata (mandataria e mandanti) ha diritto ad utilizzare uti singula l'istituto dell'avvalimento al fine di integrare i requisiti richiesti dal bando di gara dei quali risulti sprovvista.
La tesi secondo cui l'affitto di azienda può essere utilizzato soltanto ai fini della qualificazione SOA e non anche per acquisire in sede di gara il requisito del fatturato dell'azienda presa in affitto, sembra apertamente contrastare la disposizione generale dell'art. 2558, 3° comma, cod. civ., secondo cui il locatario dell'azienda subentra nelle identiche posizioni e situazioni giuridiche del locatore, e quindi anche nella sua pregressa attività ed esperienza.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sezione III, 18.04.2011, n. 2344), l'articolo 49 del Codice dei contratti pubblici, nel disciplinare l'istituto dell'avvalimento, non contiene alcuno specifico divieto in ordine ai requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale strumento, che assume una portata generale. D'altra parte, è fuori discussione che, nell'ottica dell'ordinamento comunitario, l'avvalimento miri ad incentivare la concorrenza, nell'interesse delle imprese, agevolando l'ingresso nel mercato di nuovi soggetti. Pertanto tale giurisprudenza ha escluso l'esistenza di un divieto assoluto e inderogabile di ricorrere all'avvalimento, per dimostrare la disponibilità dei requisiti soggettivi di "qualità" (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 18.09.2013 n. 8322 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il riempimento con terreno di un volume interrato (ndr: abusivo) non può essere equiparato ad una “rimozione”, e men che meno ad una demolizione o ad un ripristino dello stato dei luoghi.
Inoltre, occorre considerare che il riempimento del volume con terreno non determina affatto l’inutilizzabilità definitiva dell’opera: i ricorrenti ben potrebbero, in futuro, rimuovere il terreno e recuperare la possibilità di utilizzo del volume; ed è per questo che occorre la demolizione vera e propria dell’abuso.

Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Come accertato dalla CTU, l’abuso non è stato demolito ma semplicemente “riempito” di terreno, approfittando della circostanza che si tratta di un volume interrato. Orbene, non può assolutamente condividersi la tesi di parte ricorrente, secondo cui il riempimento del volume con terreno sarebbe equivalente alla rimozione dell’abuso, perché renderebbe il volume inutilizzabile.
Ciò, in primo luogo, perché il d.P.R. n. 380/2001 prevede la sanzione della “rimozione”, o della “demolizione”, o del “ripristino dello stato dei luoghi” (art. 31). Sono termini che intendono, con tutta evidenza, l’eliminazione dell’opera abusiva, ed esigono che lo stato dei luoghi debba tornare com’era prima della realizzazione dell’abuso. Il riempimento con terreno di un volume interrato non può essere equiparato ad una “rimozione”, e men che meno ad una demolizione o ad un ripristino dello stato dei luoghi. Inoltre, occorre considerare che il riempimento del volume con terreno non determina affatto l’inutilizzabilità definitiva dell’opera: i ricorrenti ben potrebbero, in futuro, rimuovere il terreno e recuperare la possibilità di utilizzo del volume; ed è per questo che occorre la demolizione vera e propria dell’abuso.
Sul punto, occorre anche disporre la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, per le determinazioni di competenza. Infatti, il verificatore, nella relazione depositata in data 04.07.2012, ha affermato che “il villino risulta rimosso e lo stato dei luoghi ripristinato”, affermazione che, come successivamente accertato, non risponde a verità (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 18.09.2013 n. 4345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina un’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo.
Anche per quanto concerne l’istallazione dell’inferriata, la censura secondo cui tale intervento non necessita del permesso di costruire non può essere accolta. Infatti, per costante giurisprudenza di questo Tribunale, è richiesto il permesso di costruire quando la recinzione determina un’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo (Tar Campania, Napoli, sez. VII, n. 4261/2012).
Nel caso di specie, come si evince dal provvedimento impugnato, è stata istallata un’inferriata su m.l. 30 su un muro, sicché anche tale intervento era subordinato al previo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 18.09.2013 n. 4345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione è illegittima se adottata dopo la presentazione della domanda di condono atteso che l'Amministrazione comunale, prima di ordinare la demolizione delle opere eseguite, avrebbe dovuto esaminare detta domanda.
Tale orientamento, tuttavia, non si applica nei casi in cui manchino, in modo evidente, i presupposti per l’ammissibilità della domanda medesima. Infatti l’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di condono ha senso solo in presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto della formazione di un nuovo provvedimento esplicito (di accoglimento o di diniego), da qualificare come atto non meramente confermativo, risulterebbe definitivamente vanificata l’operatività dell’impugnato provvedimento demolitorio.

Il ricorso non può essere accolto neanche per quanto concerne l’ordine di demolizione degli abusi per i quali erano state presentate le due istanze di condono.
Infatti, è ben vero che, per costante giurisprudenza, l’ordinanza di demolizione è illegittima se adottata dopo la presentazione della domanda di condono atteso che l'Amministrazione comunale, prima di ordinare la demolizione delle opere eseguite, avrebbe dovuto esaminare detta domanda. Tale orientamento, tuttavia, non si applica nei casi in cui manchino, in modo evidente, i presupposti per l’ammissibilità della domanda medesima. Infatti l’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di condono ha senso solo in presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto della formazione di un nuovo provvedimento esplicito (di accoglimento o di diniego), da qualificare come atto non meramente confermativo, risulterebbe definitivamente vanificata l’operatività dell’impugnato provvedimento demolitorio (TAR Campania Salerno, Sez. II, 03.05.2005, n. 745).
Nel caso di specie, l’Azienda Ospedaliera proprietaria del suolo su cui gli abusi sono stati realizzati ha espresso parere contrario al rilascio del permesso di costruire in sanatoria, sicché le istanze in questione sono evidentemente non accoglibili.
D’altronde, nel caso di specie, le istanze di condono possono ritenersi respinte. Infatti, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, il preavviso ex art. 10-bis l. 241/1990 può considerarsi come atto esso stesso definitivo di rigetto dell’istanza, qualora non abbia fatto seguito, in tempi ragionevoli, l'emanazione di alcun provvedimento formale sull'istanza presentata (CdS, VI, 3554/11).
Inoltre, successivamente all’adozione del preavviso di diniego, si dà atto –nella nota prot. 2012 0450552 del 31.05.2012– che le osservazioni prodotte da parte ricorrente ai sensi dell’art. 10-bis l. 241/1990 non sono state considerate idonee a superare i motivi del diniego (d’altronde, in presenza di un’opposizione da parte del proprietario del suolo, non si vede come la decisione di respingere l’istanza di condono avrebbe potuto essere rimessa in discussione).
In conclusione, le istanze di condono sono palesemente destinate ad essere respinte, sicché non si ritiene di poter annullare l’ordinanza di demolizione, neanche relativamente agli abusi per i quali le predette istanze erano state presentate (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 18.09.2013 n. 4345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire: la veranda è da considerare volume tecnico?
La realizzazione di una veranda, mediante la chiusura di un terrazzo, è opera di ristrutturazione edilizia e non di semplice manutenzione straordinaria e richiede il permesso di costruire. Una veranda non costituisce un c.d. volume tecnico, in quanto i volumi tecnici sono quelli strettamente necessari a contenere quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il confort abitativo degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione.

Il caso in esame riguarda un’ordinanza di demolizione di una veranda realizzata, senza il permesso di costruire, mediante la chiusura di un terrazzo.
Le questioni affrontate sono: a) se la realizzazione di una veranda rientri tra le opere di manutenzione straordinaria che non richiedono il permesso di costruire bensì la s.c.i.a. (con conseguente illegittimità della sanzione demolitoria perché doveva essere adottata una sanzione pecuniaria); b) se veranda possa costituire un volume tecnico.
Il TAR Campano si esprime per la legittimità dell’ordinanza di demolizione gravata, affermando la necessità del permesso di costruire e l’inconfigurabilità del volume tecnico.
In particolare, sul primo punto, rileva che la veranda, sviluppando volumetria aggiuntiva ed essendo suscettibile di autonoma fruibilità è opera di ristrutturazione edilizia e non di semplice manutenzione straordinaria. La stessa, difatti, chiudendo lo spazio soprastante la superficie dell'originario terrazzo, crea nuovo volume mediante l'aggregazione al preesistente organismo di una entità edilizia ulteriore allo stesso organismo estranea.
Per la sua realizzazione è quindi necessario ottenere il permesso di costruire.
Pertanto, legittimamente il Comune ha irrogato la sanzione demolitoria contemplata per la sua assenza e non quella pecuniaria prevista in caso di interventi soggetti a s.c.i.a. e non preceduti da essa.
Sul secondo punto, la pronuncia rileva come la veranda non costituisca un c.d. volume tecnico, in quanto per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, debbono intendersi i volumi strettamente necessari a contenere e a consentire l'accesso a quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il confort abitativo degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Nel caso in esame la veranda è di altezza tale da poter essere suscettibile di abitazione o di abitazione o di assolvere a funzioni complementari, quale quella di deposito, e non può quindi rientrare nella nozione di volume tecnico.
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Esito
Rigetta il ricorso
Precedenti conformi sulla necessità del permesso di costruire per la veranda
TAR Campania Napoli sez. VII, 13.02.2013 n. 873; TAR Campania Napoli Sez. IV, 23.01.2013, n. 440; TAR Piemonte Torino Sez. I, 09.11.2012, n. 1181; TAR Campania Napoli, sez. III, 18.01.2011, n. 281; TAR Campania Napoli, sez. IV, 16.12.2011 n. 5912; TAR Campania Napoli, IV, 17.02.2009, n. 847; TAR Liguria, sez. I, 31.12.2009, n. 4127; TAR Campania Napoli, IV, 03.08.2007, n. 7258; Cass. pen. Sez. III, 08.10.2009, n. 42318; Cass. Pen., III, 26.04.2007, n. 35011
Precedenti conformi sulla nozione di volume tecnico
Cons. Stato Sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; TAR Campania, Napoli, 08.04.2013 n. 1822; TAR Piemonte Sez. II, 27.03.2013, n. 389; Cons. Stato Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578; Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2565; TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143; TAR Sicilia-Palermo Sez. I - sentenza 09.07.2007, n. 1749 (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 18.09.2013 n. 4337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La concessione edilizia, poi denominata <<permesso di costruire>>, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale sulla l. n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi), non è revocabile per sopravvenienza o per una successiva valutazione di opportunità dell'Amministrazione, ma è suscettibile esclusivamente di annullamento per motivi di legittimità.
L’azione impugnatoria è fondata.
L’art. 11, secondo comma, del T.U. edilizia, approvato con il DPR 08.06.2001, n. 380, sancisce l’irrevocabilità del permesso di costruire, che può essere annullato d’ufficio (qualora illegittimamente emesso, e ricorrendo gli altri presupposti di legge), ma non può formare oggetto di revoca per ragioni di opportunità (cfr. TAR Campania – Sez. III, 07.06.2013 n. 3053: “La concessione edilizia, poi denominata <<permesso di costruire>>, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale sulla l. n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi), non è revocabile per sopravvenienza o per una successiva valutazione di opportunità dell'Amministrazione, ma è suscettibile esclusivamente di annullamento per motivi di legittimità”).
Le censure della Società ricorrente, rivolte avverso i provvedimenti che hanno sospeso gli effetti del titolo edilizio, non già per la sussistenza di vizi di legittimità, bensì adducendo la necessità di rinnovare l’esame della compatibilità dell’intervento, sono pertanto fondate e vanno accolte, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.09.2013 n. 1951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla illegittimità della richiesta documentale alle micro, piccole e medie imprese anche in sede di verifica ex art. 48 d.lgs 163/2006.
L'art. 13, III comma, della l. 11.11.2011, n. 180, stabilisce che "La pubblica amministrazione e le autorità competenti, nel caso di micro, piccole e medie imprese, chiedono solo all'impresa aggiudicataria la documentazione probatoria dei requisiti di idoneità previsti dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".
La previsione vieta, quindi, alle stazioni appaltanti di controllare se il concorrente, rientrante nell'ambito soggettivo di applicazione della norma, possegga effettivamente i requisiti dichiarati con la domanda di partecipazione alla gara, e ciò fino all'esito della stessa, se a quegli favorevole.
Orbene, non si vede perché tale norma speciale, evidentemente destinata a esonerare le imprese minori dall'onere economico che la dimostrazione dei requisiti comporta, non dovrebbe applicarsi anche nella fase di verifica, di cui all'art. 48 d.lgs. 163/2006, e non dovrebbe riguardare anche le imprese di progettazione ex art. 53 cit., accumunate alle altre dall'onere economico suddetto (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 17.09.2013 n. 8314 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando è dovuto il contributo per lavori di riqualificazione?
Il contributo di urbanizzazione non è dovuto per la realizzazione di lavori di “riqualificazione immobile industriale” qualora questi non comportino un aumento del carico urbanistico. In presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (l’immobile era già adibito a usi industriali) l’Amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico derivante dagli interventi.

Nel giudizio in esame una società utilizzatrice di un complesso industriale, già sede di una fabbrica di ceramiche, ha contestato la pretesa del Comune di ottenere il pagamento, in sede di rilascio del permesso di costruire, di oneri di urbanizzazione per la realizzazione dei lavori di riqualificazione dell’immobile, consistenti in semplici opere di manutenzione straordinaria, senza alterazione delle superfici e della volumetria dell’unità immobiliare.
Il TAR Torinese accoglie il ricorso, ritenendo non dovuti il contributo, in quanto le opere in questione non comportano un incremento del carico urbanistico, già considerato al momento del rilascio dei titoli edilizi per la costruzione e l’ampliamento dell’impianto industriale.
Osserva in proposito che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’immobile.
L’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza legata alla concreta esistenza di una variazione del carico urbanistico.
E’ quindi possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e pertanto non siano dovuti oneri di urbanizzazione, come al contrario è altrettanto possibile che al mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
Nel caso di specie il Collegio ha ritenuto che il rifacimento dei servizi (bagni, spogliatoi) e la realizzazione di nuovi impianti tecnici (centrale termica, centrale frigorifera, impianto di scarico acque bianche, impianto di scarico acque nere, impianto antincendio) non abbia comportato un incremento del carico urbanistico, tenendo anche conto che le opere di “riqualificazione” interessano un immobile avente già in precedenza destinazione industriale.
Dal punto di vista della motivazione poi, essendo in presenza di un immobile già adibito ad usi industriali, l’Amministrazione, al fine di per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico derivante dagli interventi.
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Esito
Accoglie il ricorso
Precedenti conformi sulla natura degli oneri di urbanizzazione e sulla proporzionalità rispetto ai benefici della nuova costruzione
TAR Piemonte Torino Sez. II, 27.03.2013, n. 381; TAR Piemonte Torino Sez. II, 14.02.2013, n. 214 TAR Puglia Bari, sez. III, 10.02.2011 n. 243.
Precedenti conformi sulla natura degli oneri di urbanizzazione
Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 12.01.2012, n. 108; TAR Campania Salerno Sez. II, 21.11.2011, n. 1895.
Precedenti conformi sul possibile aumento di carico urbanistico per opere di ristrutturazione e cambio di destinazione d’uso
TAR Lazio Roma, sez. II, 14.11.2007, n. 11213
Precedenti conformi sull’onere motivazionale in capo all’amministrazione
TAR Piemonte, Sez. II, 02.03.2012, n. 355; TAR Piemonte, Sez. II, 24.08.2012, n. 1467; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 04.05.2009 n. 3604 (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1009 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380/2001 – Modificazioni permanenti del suolo – Regime autorizzatorio – Realizzazione di opere di spianamento.
In base al combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380/2001, sono sottoposti al regime autorizzatorio gli interventi che, pur non consistendo in attività di edificazione in senso stretto, comportino una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad impieghi diversi da quello che gli è proprio.
Con specifico riguardo alla realizzazione di opere di spianamento, è pertanto necessario che le stesse siano assentite mediante rilascio di apposito titolo abilitativo, a meno che non si tratti di opere funzionali all’esercizio di attivitià agricola (Cass. n. 2239/1998, imp. Ferdinandi).
Intervento di trasformazione del territorio – Realizzazione da parte di un ente pubblico – Obbligo di conformazione alle disposizioni urbanistiche – Delibera del consiglio o della giunta comunale.
La circostanza che un intervento di trasformazione del territorio sia realizzato da un Ente pubblico non è sufficiente a renderne completamente libera l’esecuzione.
In materia edilizia, infatti, anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli, salvo restando che, per effetto dell’art. 7 del d.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale abrogazione del D.L. n. 387 del 1993 e successive modifiche, per dette opere non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire, cui deve ritenersi equipollente la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie (Cass. n. 18900/2008, Vinci e altri) (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Vincolo paesaggistico – Opere che debbano essere realizzate da un ente pubblico – Autorizzazione paesaggistica – Conferenza di servizi.
Il vincolo paesaggistico (derivante, nella specie, dal riconoscimento del carattere di sito di notevole interesse pubblico dell’interno territorio lampedusano) comporta, ai sensi dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, che ogni intervento che sui beni o sulle aree allo stesso sottoposte debba essere realizzato debba essere preventivamente autorizzato, secondo le procedure descritte dalla citata norma.
Alla stregua del successivo art. 147, nel caso di opere che debbano essere realizzate da un ente pubblico, il procedimento amministrativo previsto per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica è sostituito dall’indizione di una conferenza di servizi (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: AREE PROTETTE – SIC e ZPS – Valutazione di incidenza – Disciplina – Regione Siciliana – L.r. n. 13/2007 - Competenze – Fattispecie.
La normativa di cui al D.P.R. n. 357/1997 (di recepimento delle direttive UE 92/43 e CEE 79/409) successivamente modificato dal D.P.R. n. 120/2003, distingue e definisce le aree sottoposte a speciale protezione in siti di importanza comunitaria e zone di speciale conservazione, dettando uno specifico regime autorizzatorio per gli interventi che debbano essere realizzati anche da enti pubblici in tali aree.
In particolare, questi interventi sono soggetti ad una speciale procedura, denominata valutazione di incidenza, che è disciplinata dall'art. 5 del citato D.P.R. ed è simile alla valutazione di impatto ambientale, con la quale si fonde nel caso di interventi che debbano essere sottoposti ad entrambe le procedure. Anche in tal caso, la normativa prevede, infatti, che il soggetto che voglia proporre la realizzazione di un intervento all’interno di aree di rilevanza comunitaria debba predisporre uno studio, volto ad individuare e valutare gli effetti che l'intervento proposto possa avere sull'area protetta, tenuto conto degli obiettivi di conservazione della medesima.
La normativa in esame contempla anche l’ipotesi in cui le aree oggetto di rilevanza comunitaria ricadano interamente o parzialmente all'interno di un’area protetta dalla legislazione nazionale, prescrivendo che in tal caso, ai fini della valutazione d'incidenza, che deve essere preventivamente acquisita dall’Autorità compente al rilascio dei titoli abilitativi, deve essere sentito anche l'ente cui è affidata la gestione dell’area protetta. Le disposizioni dettate a livello nazionale dar citato d.P.R. sono state, a loro volta, recepite anche dal legislatore regionale siciliano: in particolare, la Legge Regionale n. 13 dell’08.05.2007, all’art. 1, contenente disposizioni in favore dell'esercizio di attività economiche in siti SIC e ZPS, stabilisce che le determinazioni sulle valutazioni d'incidenza, previste dall’art. 5 del d.P.R. n. 357/1997 sono attribuite ai Comuni, nel cui territorio insistono i siti SIC e ZPS.
Le valutazioni di incidenza che interessino i siti SIC e ZPS ricadenti all’interno di parchi naturali sono di competenza dell'Ente parco. In attuazione di tali disposizioni, il Decreto Assessoriale del 30.03.2007 stabilisce che, quando l’intervento ricade in SIC o ZPS che ricadono in un'area naturale protetta, la valutazione d’incidenza è effettuata previo parere dell'ente gestore. Il Decreto Assessoriale 22.10.2007, invece, prescrive che la valutazione d'incidenza non è rilasciata dar Comune, se tale ente coincide con I'ente proponente l'intervento soggetto a tale valutazione.
In tal caso la valutazione d’incidenza e rilasciata dall’Assessorato. (fattispecie relativa d un intervento –di cui era soggetto promotore il Comune- da realizzare all’interno di SIC e ZPS, in zona di pre-riserva: in applicazione dell’indicata normativa, il Comune avrebbe dovuto acquisire il parere dell’ente gestore della riserva ed avviare la procedura di valutazione d’incidenza, di competenza dell’Assessorato regionale; i successivi interventi, ricadenti entro l’area della riserva, avrebbero invece dovuto essere sottoposti alla valutazione di incidenza di competenza dello stesso ente gestore) (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Reato di pericolo astratto – Mancanza di danno attuale e concreto – Realizzazione di spazi destinati alla sosta di autovetture.
Manifestando chiaramente la natura di fattispecie di pericolo astratto dell'ipotesi delittuosa delineata, l’art. 181, c. 1-bis, del d.lgs. n. 42/2004 punisce qualsiasi tipo di lavori, eseguiti senza la prescritta autorizzazione, in relazione a beni paesaggistici. Sussiste perciò il reato anche in mancanza di un danno attuale e concreto al bene giuridico tutelato (Cass. n.6299/2013, imp. Simenon e altro) e, quindi, ad esempio, anche in caso di realizzazione di opere meramente temporanee e rimuovibili (Cass. n.38525/2012).
E’ in particolare configurabile il delitto in questione proprio nel caso di destinazione a parcheggio di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico che sia attuata mediante rimozione non autorizzata dall’Autorità della vegetazione e dello strato superficiale del terreno con predisposizione di spazi destinati alla sosta di autovetture (Cass. n. 28227/2011, imp. Verona) (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Abuso d’ufficio – Illegittimo esercizio del potere di emettere ordinanze contingibili e urgenti.
E’ configurabile il delitto di abuso d’ufficio a fronte dell’illegittimo esercizio del potere sindacale di emettere ordinanze con tingibili e urgenti, in assenza dei relativi presupposti (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE – Esercizio dell’azione civile risarcitoria.
Le associazione ambientaliste possono esercitare anche in sede penale, l'azione civile risarcitoria, in relazione ai pregiudizi, di natura patrimoniale e non, subiti in conseguenza delle condotte penalmente perseguite (Cass. n. 19883/2009).
La salubrità dell'ambiente costituisce un bene giuridico complesso, che si caratterizza per il fatto di assumere rilevanza a diversi livelli di interesse e perciò, se lo Stato e gli Enti Locali, immedesimandosi negli stessi territori danneggiati dalle condotte illecite, sono gli esclusivi titolari dell'azione risarcitoria, volta al ristoro dei pregiudizi di natura pubblicistica, si ammette anche l'esistenza di profili di rilevanza sociale ed individuale del degrado ambientale, in relazione ai quali i rispettivi titolari hanno diritto ad ottenere tutela giurisdizionale (Cass. n. 20681/2007; Cass. n. 14828/2010).
ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE – Costituzione di parte civile – Danno risarcibile – Individuazione.
Il danno, di cui le associazioni ambientaliste possono richiedere il risarcimento, costituendosi parte civile nei processi penali per reati ambientali, può astrattamente configurarsi come una lesione di un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello svolgimento delle attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l’ente del loro sostegno personale e finanziario) (Cass. n. 46746/2004; Cass. n. 20681/2007) (TRIBUNALE di Agrigento, Sez. I penale, sentenza 16.09.2013 n. 432 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il solare sui tetti congruo col paesaggio. No al fotovoltaico solo se deturpa.
Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico sulla sommità di un edificio bisogna dare la prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio. Non è, pertanto, ammissibile una valutazione astratta e generica non supportata da un'effettiva dimostrazione dell'incompatibilità paesaggistica dell'impianto.

Questo è quanto afferma il TAR Veneto, Sez. II, con la sentenza 13.09.2013 n. 1104.
I giudici hanno annullato il provvedimento di diniego emesso dalla Soprintendenza, perché al suo interno non esiste alcun riferimento alla metratura o al posizionamento dell'impianto e risulta del tutto assente l'individuazione e la menzione di un elemento del paesaggio e dell'ambiente circostante che -si legge nel provvedimento dei tecnici- risulterebbe alterato.
Inoltre nelle motivazioni della senza i giudici sostengono che «attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva. La Soprintendenza ha argomentato il proprio parere affermando l'esistenza di un'incompatibilità con il paesaggio «in quanto gli elementi da installare risulterebbero, in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti rispetto all'ambito nel quale si collocano e tali da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante».
La semplice lettura della motivazione sopra citata consente affermano i giudici di rilevare come la valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, sia del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall'esprimere un giudizio riferito, in concreto e all'intervento di cui si tratta (articolo ItaliaOggi del 28.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Niente risarcimento del danno, se il ritardo non ha inciso sulla ''entità'' del provvedimento.
In tema di risarcimento del danno per il ritardo con cui una civica P.A. ha rilasciato un permesso di costruire per la realizzazione di una maggiore volumetria, non puಠessere accolta la domanda nel caso in cui con il provvedimento sia stata consentita una volumetria inferiore a quella progettata.
Con la sentenza 10.09.2013 n. 1318, la Sez. II del TAR Puglia-Bari ha stabilito che, nel caso in cui il titolo edificatorio rilasciato si riferisca a una volumetria più contenuta rispetto a quella progettata, a causa della originaria carenza di disponibilità di superficie edificabile, il ritardo con cui l’Amministrazione abbia rilasciato il permesso di costruire non determina l’insorgere del diritto al risarcimento del danno, stante i dubbi che l’impossibilità del richiedente a ottenere quello specifico “bene della vita” –l’intera volumetria progettata– solleva sulla predicabilità del medesimo come ingiusto.
Analisi del caso
Una società che aveva ottenuto una concessione edilizia per la realizzazione di un fabbricato per civile abitazione aveva successivamente presentato al Comune una richiesta di variante, avendo nelle more acquistato la proprietà di un’ulteriore area, adiacente a quella già posseduta, da destinare all’ampliamento della superficie d’intervento, con conseguente aumento della volumetria realizzabile, senza però registrare e trascrivere alcun atto di asservimento della citata nuova particella.
Nelle more del lungo iter amministrativo, acquisiti i pareri delle altre Amministrazioni competenti, la società proprietaria dei suoli si era determinata a cedere volontariamente una quota parte dell’intero terreno, atteso che questo risultava destinato alla realizzazione di una strada e occupato in esecuzione di un decreto dirigenziale comunale.
La vicenda si era conclusa, a distanza di oltre sei anni dalla richiesta, con il parere favorevole della civica P.A. alla realizzazione dell’intervento edilizio, consentendo, però, un ampliamento più contenuto di quanto domandato (inferiore di circa 30 mq. per piano), avendo accertato la diminuzione della superficie utile ai fini della volumetria, a seguito dell’atto di cessione volontaria.
Avverso tale comportamento, la società ha compulsato il G.A. barese ai sensi dell’art. 30, D.Lgs. n. 104/2010, domandando il risarcimento del danno, consistente, a suo avviso, nel mancato utilizzo dell’immobile, nei maggiori costi di progettazione e realizzazione, nonché nella riduzione della superficie coperta per i due piani, causato dal ritardo con cui l’Amministrazione comunale ha rilasciato il permesso di costruire in variante.
La soluzione
Nel merito, il Tribunale ha richiamato un proprio orientamento (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 04.05.2012, n. 897) e ha dichiarato infondata la pretesa della ricorrente alla luce dei principi riconosciuti unanimemente in materia dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa (cfr. recentemente, ex plurimis, Cass. Sez. Un., 23.03.2011, n. 6594; Cons. Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3405).
Il Collegio ha inizialmente ricordato che, in tema di ripartizione dell’onere probatorio sulle parti, nel giudizio risarcitorio innanzi al G.A. vige il principio dispositivo, secondo cui, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 63, comma 1 e 64, comma 1, D.Lgs. n. 104/2010, è il ricorrente che chiede l’accertamento del proprio diritto al risarcimento del danno e la relativa condanna della P.A. che deve fornire la prova dei fatti posti a base della domanda e che, inoltre, essendo il c.d. “danno da illecito provvedimentale” assimilato allo schema tipico della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., per accedere alla tutela è necessario dimostrare come l’attività amministrativa, o il comportamento espressione della pubblica funzione, abbia leso un interesse legittimo, incidendo negativamente sul bene della vita finale richiesto dal privato cittadino.
Dalla norma dell’art. 2-bis, L. n. 241/1990, ha proseguito, si evince come l’ordinamento riconosca che anche il “fattore tempo” sia un bene della vita per il cittadino, rappresentando una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica, ma, ha ribadito, il risarcimento da ritardo spetta comunque solo ove venga provata la sua ingiustizia, la sua valutazione in termini di pregiudizio economico esattamente quantificabile, e sia, parimenti, escluso il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c..
Nel caso di specie, quindi, il Giudice ha sottolineato come risultasse evidente che il Comune non avesse, sic et simpliciter, accolto l’istanza del ricorrente, ma avesse reso parere favorevole con “prescrizioni restrittive” rispetto all’originaria istanza; tanto, unitamente all’accertata circostanza secondo cui la società proprietaria dei suoli non avrebbe mai concretamente avuto la disponibilità di una superficie edificabile sufficiente a sviluppare la complessiva volumetria richiesta –sia al momento della originaria richiesta, per via della mancata registrazione dell’atto di asservimento della nuova particella acquisita, come prescritto dalla L.R. n. 56/1980, sia al momento del rilascio del permesso “ridotto”, in virtù della intervenuta cessione volontaria di una porzione del terreno– non ha consentito la predicabilità del danno come ingiusto (Cons. Stato, Sez. IV, 07.03.2013, n. 1406), né di stabilire l’incidenza causale del ritardo rispetto al pregiudizio lamentato.
Non si può poi ignorare, ha concluso il TAR, che il comportamento della ricorrente, che non ha mai iniziato i lavori di costruzione, né ritirato e/o impugnato il permesso di costruire che ha sostituito la precedente concessione decaduta, si poneva come fattore di fatto determinante del danno medesimo.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Come ricordato nella stessa sentenza segnalata, la giurisprudenza ha delineato nel tempo i tratti salienti del diritto al risarcimento del danno da ritardo della P.A., ricollegandolo al c.d. “rischio amministrativo” la cui alea non può essere posta a carico del cittadino incolpevole, e ha riconosciuto valore economico vero e proprio al fattore tempo come elemento dei rapporti tra soggetti giuridici, sia essi sociali, commerciali, amministrativi (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen, 19.04.2013, n. 7; Cons. Giust. amm. Sicilia, Sez. giur., 24.10.2011, n. 684; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 14.05.2012, n. 450).
La decisione, senza discostarsi dai principi ermeneutici consolidati sul punto, si pone, tuttavia, in termini problematici rispetto a ciascun caso specifico, prestando adeguata attenzione alla concreta realtà dei fatti, nel tentativo -necessario onde evitare risarcimenti “a pioggia”, non dovuti– di ricostruire l’iter amministrativo nel suo complesso e di valutare l’effettiva situazione giuridica soggettiva, nonché l’incidenza causale del comportamento, del privato cittadino che entri in rapporto con l’Amministrazione: in tale prospettiva, indica una condivisibile impostazione metodologica nei giudizi risarcitori in tema di responsabilità della P.A. per danno da funzione pubblica (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessioni, storia a sé. Controversie, termini decadenziali a 10 anni. Sentenza del Tar Emilia sul pagamento dei contributi di rilascio.
Le controversie relative al pagamento di contributi per il rilascio delle concessioni edilizie non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione, poiché riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario e non interessi legittimi.

Lo ha stabilito prima sezione del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con sentenza 06.09.2013 n. 601.
Pertanto, nel caso di contributi di concessione i termini decadenziali risultano essere decennali.
I giudici bolognesi hanno, poi, osservato, in ossequio anche alla più recente giurisprudenza amministrativa, che è perfettamente ammissibile l'utilizzo dello strumento processuale dell'azione di accertamento (cfr. Tar Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e della conseguente condanna alla restituzione degli importi eventualmente dovuti perché indebitamente pagati.
È stato inoltre osservato che, per costante giurisprudenza (si veda Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; Tar Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità– con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d'uso non determina l'incremento del carico urbanistico il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

VARIArbitro e consulente insieme non si può. Cassazione, il legale indennizzerà un comune.
È tenuto a risarcire il cliente l'avvocato che fa l'arbitro nell'ambito di una vertenza per la quale ha svolto attività di consulenza in favore di una delle parti.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con l'ordinanza 05.09.2013 n. 20379, ha respinto il ricorso degli eredi di un legale che aveva accettato l'arbitrato in una questione per la quale era stato in passato consulente del comune, una delle parti.
La sesta sezione civile ha quindi confermato il verdetto della Corte d'appello di Roma che ha condannato un avvocato, ora i suoi eredi, a risarcire i danni a un ente locale per l'assunzione illegittima della qualifica di arbitro.
Inutile il ricorso alla Suprema corte dei figli che, con il primo motivo, hanno chiesto il riconoscimento della differenza fra responsabilità come avvocato e quella come arbitro. Sul punto i giudici con l' «Ermellino» hanno chiarito che «la distinzione che la ricorrente vorrebbe introdurre fra responsabilità come avvocato e responsabilità come arbitro è artificiosa e irrilevante, poiché non mutano i comportamenti dedotti a fondamento del giudizio di responsabilità, né i criteri in base ai quali va individuata la colpa, venendo tutt'al più in considerazione la sola qualificazione della domanda».
Nulla da fare neppure sugli altri argomenti trattati dalla difesa: il fatto che il comune fosse a conoscenza della pregressa consulenza professionale prestatagli dall'avvocato, dice la Corte, non significa che esso fosse anche consapevole della rilevanza di un tale comportamento in ordine alla validità della nomina dell'arbitro, trattandosi di questioni che non sono di immediata evidenza per un soggetto non esperto in materia giuridica.
Infatti, la responsabilità del difensore assume carattere assorbente rispetto all'ipotetica responsabilità del cliente, in relazione ai comportamenti che quest'ultimo abbia tenuto su consiglio o comunque con l'assistenza del difensore medesimo, ove si tratti di comportamenti la cui illiceità non sia di immediata evidenza, per un soggetto non esperto in materie giuridiche. «È compito del difensore indirizzare le scelte del cliente in senso conforme alla legge, se del caso astenendosi dalla difesa ove gli siano richiesti comportamenti non ortodossi» (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAAntenna telefonica nociva va rimossa. Col traliccio.
Gli impianti di telefonia che causano immissioni potenzialmente pericolose per la salute umana vanno rimossi.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza 04.09.2013 n. 20340.
I giudici di legittimità hanno dichiarato che alla luce delle più recenti scoperte scientifiche, l'esposizione ai campi elettrici e magnetici prodotti dai sistemi di telefonia, può essere a buon diritto considerata fonte di possibili effetti negativi per la salute; pertanto, l'impianto che genera, seppure per periodi limitati, dei valori di emissione di onde elettromagnetiche superiori ai limiti massimi consentiti dalle norme in vigore, deve essere eliminato.
La suprema corte ha ricordato l'esistenza di una specifica normativa relativa ai valori limite di esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici connessi al funzionamento ed all'esercizio dei sistemi fissi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell'intervallo di frequenza compresa tra 100 kHz e 300 GHz, normativa, quindi, che ha riguardo alla fondamentale finalità della prevenzione delle malattie, con lo scopo di impedire qualsiasi comportamento contrastante. Si viene pertanto ad applicare il c.d. principio di precauzione per cui il superamento dei limiti fissati, di volta in volta, nelle emissioni, comporta una presunzione di pericolosità per la salute umana il che farebbe scattare le norme di tutela.
Inoltre gli Ermellini hanno, nella stessa sentenza, affermato che il traliccio su cui vengono installate le antenne non può essere considerato una pertinenza, perché equiparato ad una “nuova costruzione” peraltro abusiva.
La corte di legittimità ha, poi, osservato che la soggezione ad autorizzazione gratuita, e non a concessione, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, lett. a), del dl 23/01/1982 n. 9 convertito in legge n. 94 del 1982, concerne le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici di edifici già esistenti. Soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla «res principalis», indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (Cons. di stato 2/2/2012 n. 615).
Pertanto il suddetto traliccio non era un accessorio dell'edificio su cui era stato installato, ma uno strumento dell'attività industriale che in esso si svolgeva (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

APPALTI: Sull'obbligo del partecipante alla gara di dichiarare le condanne penali per "reati gravi".
L'obbligo del partecipante alla gara di dichiarare le condanne penali per "reati gravi" non ricomprende le condanne per reati estinti o depenalizzati, non già per il fatto che quei fenomeni estintivi siano ex se sintomatici della "non gravità" dei reati, quanto piuttosto in ragione dell'effetto privativo che l'abrogatio criminis (ovvero il provvedimento giudiziale dichiarativo della estinzione del reato) opera sul potere della stazione appaltante di apprezzare la incidenza, ai fini partecipativi, delle sentenze di condanna cui si riferiscono quei fatti di reato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.09.2013 n. 4392 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONDOMINIOAscensori, conta il risultato. Delibera valida se attenua le condizioni di disagio. Secondo la Cassazione si possono anche non osservare tutte le prescrizioni di legge.
Ascensori condominiali: assoluta mancanza di sintonia tra il legislatore e la giurisprudenza. Se, infatti, i giudici di merito e di legittimità sono impegnati ormai da tempo in un'operazione di interpretazione estensiva della normativa speciale di favore per i soggetti diversamente abili finalizzata all'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche, la recente legge n. 220/2012 di riforma del condominio, pur nel quadro di un generale abbassamento delle maggioranze assembleari, ha inaspettatamente innalzato il quorum necessario all'adozione delle relative deliberazioni.

La Corte di cassazione, proseguendo invece nel proprio filone giurisprudenziale, con la recente ordinanza 26.07.2013 n. 18147 ha quindi confermato che, nel caso di installazione di un ascensore in condominio, l'eventuale mancato rispetto delle distanze minime e delle vedute, così come delle particolari prescrizioni tecniche dettate dalla legge speciale per la realizzazione dell'opera, non comportano di per sé l'invalidità della relativa deliberazione, dovendosi sempre procedere al bilanciamento dei contrapposti interessi sulla base dei criteri generali di cui all'art. 1102 c.c.
La decisione della Suprema corte. Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la deliberazione con cui l'assemblea condominiale aveva deliberato l'installazione di un impianto di ascensore nell'edificio che ne era privo, giovandosi della speciale maggioranza di cui alla legge n. 13/1989 (disposizione ora confluita nell'art. 1120, comma 2, c.c.). Si era così deciso di posizionare l'impianto nel cortile interno, occupandone una minima parte.
I condomini contrari alla deliberazione si dolevano però del fatto che la nuova struttura non rispettasse le distanze minime previste dai regolamenti locali e che il c.d. cono d'ombra in tal modo generato nuocesse alla vivibilità complessiva dei propri appartamenti. Gli stessi avevano altresì eccepito come l'opera da realizzare non corrispondesse del tutto agli accorgimenti tecnici da osservare ai fini dell'abbattimento delle barriere architettoniche (a causa della riferita presenza di un gradino di accesso al fabbricato, dell'apertura manuale della porta, di dislivelli e relativi gradini tra le uscite dall'ascensore e i vari pianerottoli, nonché per l'assenza di dispositivi tecnici di segnalazione).
La sesta sezione civile della Cassazione, nel confermare la sentenza impugnata in relazione alla valutazione operata dai giudici di merito circa il contemperamento degli opposti interessi dei condomini sulla base dei principi di cui all'art. 1102 c.c., ha anche chiarito che l'impossibilità di poter osservare tutte le prescrizioni previste dalla normativa speciale per l'abbattimento delle barriere architettoniche, tenuto conto delle oggettive condizioni dell'edificio, non può costituire circostanza tale da comportare la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei soggetti diversamente abili.
Per la validità della delibera a maggioranza ridotta è infatti sufficiente che l'intervento approvato abbia comunque conseguito un risultato conforme alle finalità della legge, comportando cioè una sensibile attenuazione delle condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione, rispetto alla precedente situazione di fatto.
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Riforma, marcia indietro sui disabili.
Dalla riforma del condominio una grave marcia indietro sulla tutela dei disabili. La presenza nell'immobile condominiale di una persona anziana (ultrasessantacinquenne) invalida, indipendentemente dal fatto che la stessa sia un condomino o un suo familiare, oppure semplicemente un conduttore o un suo familiare, conferisce alla stessa il diritto di chiedere all'assemblea l'approvazione a maggioranza semplice di una delibera per l'installazione dell'ascensore, considerato quale innovazione diretta al superamento delle c.d. barriere architettoniche.
L'approvazione della deliberazione assembleare in casi del genere, prima della riforma del condominio, poteva avvenire, in prima convocazione, con la maggioranza degli intervenuti rappresentanti i 501 millesimi dell'edificio, mentre in seconda convocazione era sufficiente una maggioranza di almeno un terzo dei partecipanti al condominio e un terzo del valore millesimale dell'edificio (erano cioè sufficienti 334 millesimi). Il legislatore della riforma del condominio di cui alla legge n. 220/2012, probabilmente per un difetto di coordinamento tra le varie disposizioni, ha tuttavia di fatto aumentato il quorum necessario per assumere le predette delibere assembleari, richiedendo, sia in prima che in seconda convocazione, il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà del valore millesimale dell'edificio.
Non si riesce davvero a comprendere le ragioni di questa modifica, in quanto peggiorativa proprio per quel che riguarda posizioni per le quali sarebbe stato, semmai, opportuno allargare la tutela giuridica e non certo restringerla (il grado di civilizzazione di qualsiasi società si evidenzia anche dal modo in cui essa affronta e risolve i problemi dei disabili).
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Per l'installazione il percorso è a ostacoli.
Percorso a ostacoli per l'installazione dell'ascensore in condominio. Secondo le più recenti decisioni dei giudici l'iniziativa del singolo condomino o la deliberazione dell'assemblea non possono essere vietate se, pur comportando un semplice disagio nell'utilizzo di una parte comune (cortile, pianerottolo ecc.), soddisfino le esigenze dei condomini disabili (soprattutto se abitanti a un piano alto), praticamente impossibilitati, in considerazione del loro stato fisico, a raggiungere la propria abitazione a piedi. Si deve però considerare che non può essere consentita quell'opera che renda talune parti comuni dell'edificio del tutto inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.
Quando non è possibile installare l'ascensore. Non è possibile installare l'ascensore nelle parti comuni se la modifica che si intende realizzare altera la destinazione della cosa comune e impedisce agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto. In altre parole non è possibile l'installazione se questa comporta non un semplice disagio, ma l'inservibilità di una parte comune. Tale situazione certamente ricorre, ad esempio, nel caso in cui si determini una rilevante limitazione dello spazio di manovra e di superficie di parcheggio nell'area del cortile condominiale o una limitazione alle vedute dei condomini o all'illuminazione degli appartamenti o trasformazioni di uso di una camera di un appartamento (che, ad esempio, non può più essere utilizzata come camera da letto).
Del resto non è valida la decisione assembleare che preveda l'installazione di un ascensore, previa notevole riduzione della rampa comune, rendendola così pericolosa sotto il profilo della sicurezza antincendi: in questo caso, infatti, l'opera deliberata diventerebbe illecita e la relativa delibera sarebbe essa stessa invalida e, se impugnata avanti il tribunale, incorrerebbe nella sanzione dell'annullamento, anche su ricorso di un solo condomino.
Dunque il taglio delle scale per ricavare il vano ascensore è in teoria ammesso, ma solo entro certi limiti: la residua larghezza delle scale condominiali non può essere eccessivamente esigua, altrimenti le stesse diverrebbero disagevoli per le persone o addirittura inservibili per il trasporto di mobili od oggetti ingombranti. Così, ad esempio, i giudici della Cassazione in una recente decisione hanno ritenuto illecita la delibera dell'assemblea che per far spazio al nuovo ascensore prevedeva una riduzione della larghezza della scalinata comune a soli 90 centimetri.
La lesione del decoro dell'edificio. Non è possibile installare l'ascensore neppure nel caso in cui l'opera comporti una lesione del decoro dell'edificio. Così non sembra possibile installare la gabbia di un moderno ascensore in un cortile interno di un edificio ottocentesco: in tal caso, infatti, è inevitabile una modifica sensibile della linea estetica originaria del fabbricato, e, quindi, il relativo decoro architettonico ne risulta pregiudicato.
Il discorso è ancora più evidente se i finestroni prospettanti nel cortile vengono coperti o trasformati in bocche di ingresso della colonna dell'ascensore o si prevede la distruzione di antiche mensole e cornici in pietra bianca. Del resto si deve considerare che l'alterazione del decoro architettonico può derivare anche dalla modifica dell'originario aspetto di singoli elementi o di singole parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili di considerazione autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni degli abusi edili: motivazione tanto più rigorosa quanto e maggiore il tempo trascorso.
La p.a. ha l’onere, in via eccezionale, di motivare l’adozione di una misura repressiva in materia edilizia quando il decorso di un lasso di tempo notevole fra la realizzazione dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale titolo, e l'adozione della misura repressiva abbia ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino (specialmente ove si tratti di un terzo acquirente).Tale onere deve considerare anche la condizione di buona fede dei soggetti da sanzionare e gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ricavato dall’illecito.

Il Consiglio di Stato si pronuncia ancora una volta sullo spinoso problema degli effetti del passaggio del tempo sull’applicabilità delle sanzioni per abusi edilizi
La questione generale, più volte dibattuta, è se il passaggio di un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso, con la possibile creazione di un affidamento da parte del privato, renda l’abuso stesso non più sanzionabile o, comunque, comporti un onere di motivazione a carico della p.a. sull’esistenza di un interesse pubblico attuale all’adozione della misura sanziontoria.
Nel caso di specie era stata inflitta una sanzione pecuniaria per opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia circa mezzo secolo prima.
Il giudice di appello rileva come la regola di fondo è quella che il potere repressivo in materia edilizia non è sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, ed è quindi esercitabile in ogni tempo (anche in ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi o per lo meno dei loro effetti).
Dà quindi atto dell’esistenza di un consistente indirizzo giurisprudenziale che esclude che l'interessato possa dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi. I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare.
La pronuncia in esame aggiunge però che il criterio di indifferenza dell’epoca di commissione dell’abuso non può essere applicato in modo meccanico e illimitato ma si configurano delle eccezioni in cui l’applicazione della sanzione deve essere motivata sulla base di un interesse pubblico specifico e concreto, idoneo a giustificare l’intervento dell’Amministrazione su un assetto da lungo tempo consolidato
Vengono in rilievo le ipotesi in cui la costruzione sia munita di un titolo edificatorio (trattandosi di semplici difformità dal medesimo), siano passati svariati decenni dalla commissione della violazione e la sanzione si indirizza nei confronti non dei responsabili degli abusi ma di successivi proprietari, i quali fino a prova contraria hanno acquistato gli rispettivi immobili ad un prezzo di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva.
In questi casi la motivazione si impone quale contrappeso alla mancanza di termini di prescrizione e decadenza per l’esercizio del potere repressivo.
Un onere di motivazione si configura quindi eccezionalmente ove il decorso di un lasso di tempo notevole fra la realizzazione dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia ingenerato un solido affidamento in capo al cittadino (specialmente ove si tratti di un terzo acquirente).
Tale onere deve considerare, tra gli altri elementi, anche la condizione di possibile buona fede dei soggetti che si vorrebbero sanzionare, né può andar disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ritratto dall’illecito.
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Esito del ricorso
Conferma sent. TAR Campania–Napoli, Sez. IV, n. 3426/2000,
Precedenti giurisprudenziali
Per l’irrilevanza del passaggio del tempo in materia di sanzioni edilizie: Cons. Stato Sez. VI, 28.04.2013, n. 496; Sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Sez. VI, 05.04.2012, n. 2038; Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Sez. VI, 27.03.2012, n. 1793; Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758, Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; Sez. V, 27.04.2011, n. 2497; Sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; Sez. I, 30.06.2011, n. 4160.
Per la rilevanza del passaggio del tempo in materia di sanzioni edilizie: Cons. Stato Sez. IV, 02.10.2012, n. 5183; Sez. V, 09.02.2010, n. 628 Sez. V, 29.05.2006 n. 3270; Sez. V, 25.06.2002 n. 3443; C.G.A.R.S. 23.04.2001 n. 183; Cons. Stato, Sez. V, 19.03.1999 n. 286; Sez. V, 11.02.1999 n. 143; Sez. V, 14.10.1998 n. 1483; Sez. V, 12.03.1996 n. 247; sez. IV, 03.1996 n. 95
Riferimenti normativi
Art. 12 legge n. 47 del 1985 (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.07.2013 n. 3847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAParcheggi, concessione da pagare.
Scatta il pagamento della concessione edilizia anche se il parcheggio destinato a servire i clienti dell'albergo è realizzato molto vicino alla sede della struttura recettizia: affinché si configuri la pertinenza dell'hotel si deve invece trattare di lavori realizzati nello stesso edificio o comprensorio che ospita i turisti.

È quanto emerge dalla sentenza 10.07.2013 n. 3672, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
In base alla legge Tognoli (la 122/1989), che porta il nome dell'allora ministro delle Aree urbane, i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo o nei locali al piano terreno dei fabbricati i parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari. E ciò anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti.
I posteggi possono essere realizzati ad uso esclusivo dei residenti anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché, non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie che sta sopra e stando attenti alle condutture dell'acqua. «L'esecuzione delle opere e degli interventi previsti è soggetta ad autorizzazione gratuita» recita il comma 2 dell'articolo 9. Inutile per l'imprenditore turistico invocare la gratuità dell'operazione con cui si è impegnato a offrire un'area di sosta per i veicoli dei suoi clienti.
Le agevolazioni di cui alla legge Tognoli, destinate a favorire la realizzazioni di posteggi nelle aree urbane, possono trovare applicazione soltanto nei casi espressamente previsti dall'articolo 9 della normativa: nel nostro caso il parcheggio risulta costruito al piano interrato di un fabbricato contiguo ma comunque estraneo alla struttura alberghiera, di cui non costituisce pertinenza.
Si tratta insomma di una vera e propria ristrutturazione, fa bene dunque il Comune a pretendere il versamento della concessione: con l'intervento edilizio si viene infatti a costituire un carico urbanistico maggiore rispetto a quello che si sarebbe ottenuto contenendo il parcheggio all'interno della già esistente struttura alberghiera. Nulla per le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 24.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAL’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Preliminarmente, quanto all’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, si osserva che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui non vi è ragione di discostarsi, ritiene che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (tra gli altri, Cons. Stato, VI, 31.05.2013 n. 3010; IV, 10.08.2011, n. 4764; IV, 20.07.2011, n. 4403; VI, 24.09.2010, n. 7129) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.07.2013 n. 930 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d'uso di una vasca per fiori in piscina scoperta.
Pur se le dimensioni dell’opera sono rimaste invariate rispetto allo stato autorizzato, è evidente che un grande vaso per fiori sia un manufatto strutturalmente e funzionalmente diverso da una piscina, e che il passaggio dall’una all’altra categoria non possa avvenire senza l’opera dell’uomo: senza ad esempio -a parte il riempimento con l’acqua- la realizzazione di un’adeguata impermeabilizzazione della vasca e di un impianto per il filtraggio, l’igienizzazione ed il ricambio dell’acqua.
Si tratta, dunque, di una trasformazione fisica non puramente funzionale bensì realizzata attraverso opere strutturali volte a costituire un organismo edilizio del tutto diverso da quello autorizzato.
Ne consegue che l’intervento, essendo qualificabile di ristrutturazione edilizia, richiedeva il permesso di costruire, con conseguente applicabilità, in mancanza, dell’obbligo di demolizione previsto dall’art. 33, D.P.R. n. 380/2001, da intendersi, tuttavia, nel caso di specie, come obbligo di ripristino della vasca per fiori (riempita completamente di terra, come prescritto dalla Commissione Edilizia) e non come obbligo di demolizione della struttura in cemento che è stata autorizzata con DIA e successivamente sanata con il permesso del 01.02.2011.

Quanto ai restanti motivi di ricorso, si osserva, innanzitutto, che il Comune, con il provvedimento impugnato, ha inteso sanzionare l’abusiva realizzazione di una piscina, laddove, con il permesso di costruire in sanatoria del 01.02.2011, era stata autorizzata la sanatoria di una vasca per fiori.
Invero, la Commissione Edilizia, nella seduta del 30.12.2010, aveva espresso parere negativo alla realizzazione della piscina e prescritto che la fioriera venisse riempita completamente con la terra.
Nella fattispecie in esame, dunque, è pacifico che sia stata effettuata una modifica della destinazione d’uso da vasca per fiori a piscina.
Inoltre, va tenuto conto che la natura della diversa destinazione implica anche che la stessa avvenga, normalmente, mediante opere.
Ed infatti, è evidente che, pur se le dimensioni dell’opera sono rimaste invariate rispetto allo stato autorizzato, un grande vaso per fiori sia un manufatto strutturalmente e funzionalmente diverso da una piscina, e che il passaggio dall’una all’altra categoria non possa avvenire senza l’opera dell’uomo: senza ad esempio -a parte il riempimento con l’acqua- la realizzazione di un’adeguata impermeabilizzazione della vasca e di un impianto per il filtraggio, l’igienizzazione ed il ricambio dell’acqua.
Si tratta, dunque, di una trasformazione fisica non puramente funzionale bensì realizzata attraverso opere strutturali volte a costituire un organismo edilizio del tutto diverso da quello autorizzato.
Ne consegue che l’intervento, essendo qualificabile di ristrutturazione edilizia, richiedeva il permesso di costruire, con conseguente applicabilità, in mancanza, dell’obbligo di demolizione previsto dall’art. 33, D.P.R. n. 380/2001, da intendersi, tuttavia, nel caso di specie, come obbligo di ripristino della vasca per fiori (riempita completamente di terra, come prescritto dalla Commissione Edilizia) e non come obbligo di demolizione della struttura in cemento che è stata autorizzata con DIA e successivamente sanata con il permesso del 01.02.2011.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.07.2013 n. 930 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Con riguardo alle associazioni ambientalistiche per le quali non opera la legittimazione ex lege n. 349 del 1986, la legittimazione ad agire può essere riconosciuta anche a comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente, la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio.
Conseguentemente il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull’ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.
Tali elementi sembrano ravvisabili nel comitato ricorrente, avuto riguardo ai tre parametri tradizionalmente utilizzati in giurisprudenza, e cioè le finalità statutarie dell’ente, la stabilità del suo assetto organizzativo, nonché la vicinitas dello stesso rispetto all’interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell’azione amministrativa, ed a tutela del quale, pertanto, l’ente intende agire in giudizio.
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Nel regime della partecipazione al procedimento descritta dal combinato disposto degli artt. 7 e 9 della legge n. 241 del 1990 non viene riconosciuto l’obbligo, in capo all’Amministrazione, di dare comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti delle associazioni e dei comitati esponenziali di interessi diffusi; gli stessi possono intervenire nel procedimento, ma né la normativa nazionale, né quella sopranazionale impongono che nei loro confronti sia effettuata l’adempimento della comunicazione individuale.

Ed invero, secondo la prevalente giurisprudenza, con riguardo alle associazioni ambientalistiche per le quali non opera la legittimazione ex lege n. 349 del 1986, la legittimazione ad agire può essere riconosciuta anche a comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente, la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio; conseguentemente il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull’ambiente ad associazioni locali (indipendentemente dalla loro natura giuridica), purché perseguano statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale ed abbiano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (in termini Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2001, n. 4123; Sez. VI, 23.05.2011, n. 3107).
Tali elementi sembrano ravvisabili nel comitato ricorrente, avuto riguardo ai tre parametri tradizionalmente utilizzati in giurisprudenza, e cioè le finalità statutarie dell’ente, la stabilità del suo assetto organizzativo, nonché la vicinitas dello stesso rispetto all’interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell’azione amministrativa, ed a tutela del quale, pertanto, l’ente intende agire in giudizio.
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Con il primo motivo si deduce che non è stata consentita al Comitato ricorrente la partecipazione al procedimento amministrativo, benché lo stesso fosse agevolmente identificabile ai fini della comunicazione di avvio, per avere in precedenza pubblicamente raccolto firme contro il progetto e provveduto poi, in data 23.02.2011, a diffidare l’Amministrazione.
Il motivo non appare meritevole di positiva valutazione, in quanto nel regime della partecipazione al procedimento descritta dal combinato disposto degli artt. 7 e 9 della legge n. 241 del 1990 non viene riconosciuto l’obbligo, in capo all’Amministrazione, di dare comunicazione dell’avvio del procedimento nei confronti delle associazioni e dei comitati esponenziali di interessi diffusi; gli stessi possono intervenire nel procedimento, ma né la normativa nazionale, né quella sopranazionale impongono che nei loro confronti sia effettuata l’adempimento della comunicazione individuale.
Tale soluzione vale anche nel caso in cui il comitato (che peraltro, in tale caso, aveva la differente veste di Comitato NO-Maxistalla), precedentemente, abbia presentato esposti, diffide od anche ricorsi avverso altri provvedimenti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.12.2009, n. 7651).
Può dunque ritenersi adeguata la forma di pubblicità notiziale adottata per la convocazione della prima riunione della conferenza di servizi, consistita nell’affissione all’albo pretorio del Comune, come si evince dalla determinazione gravata, e dal verbale della riunione del 28.10.2011
(TAR Umbria, sentenza 23.05.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, l’ubicazione di impianti a fonti rinnovabili è consentita anche in zone classificate agricole, e comunque sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione competente, sindacabile dal giudice amministrativo solo per profili che attengano all’evidente illogicità.
E’ noto, a quest’ultimo riguardo, che, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, l’ubicazione di impianti a fonti rinnovabili è consentita anche in zone classificate agricole, e comunque sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione competente, sindacabile dal giudice amministrativo solo per profili che attengano all’evidente illogicità (Cons. Stato, Sez. V, 25.07.2011, n. 4454; Sez. IV, 15.05.2008, n. 2247) (TAR Umbria, sentenza 23.05.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato di prevenzione incendi: requisito legittimante l'autorizzazione amministrativa all'apertura di un esercizio alberghiero.
Il rilascio del certificato di prevenzione incendi è requisito legittimante l'autorizzazione amministrativa all'apertura di un esercizio alberghiero, come si ricava inequivocabilmente dal tenore dell'art. 2 d.P.R. 12.01.1998, n. 37 (disciplina poi rielaborata prima con il d.lgs. n. 139 del 2006 e poi con il d.P.R. n. 151 del 2011), che si riferisce agli "enti", oltre che ai "privati" responsabili delle attività per le quali è richiesto una simile certificazione" (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 27.03.2013 n. 14450 - link a http://olympus.uniurb.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione della voluminosa copertura in PVC conferisse al manufatto nel suo complesso il carattere di ‘temporaneità’, atteso:
- il carattere inscindibilmente e funzionalmente unitario della struttura metallica di supporto e della relativa copertura;
- la permanente alterazione dello stato dei luoghi, che il complessivo manufatto (di notevoli dimensioni –circa 250 mq., per una volumetria di circa 700 mc.-) era idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione (peraltro, per soli quattro mesi l’anno) della copertura in pannelli di PVC;
- il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione.

Per quanto concerne, in particolare, la qualificabilità del manufatto nel suo complesso quale ‘intervento di nuova costruzione’, la sentenza oggetto di appello è meritevole di conferma per la parte in cui ha ritenuto che non fosse riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere -quali roulottes, campers, case mobili o imbarcazioni– che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”).
Al riguardo, la sentenza perviene a risultati condivisibili dove richiama l’orientamento secondo cui non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, V, 12.12.2009, n. 7789; V, 24.02.2003, n. 986; V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione della voluminosa copertura in PVC conferisse al manufatto nel suo complesso il carattere di ‘temporaneità’, atteso:
- il carattere inscindibilmente e funzionalmente unitario della struttura metallica di supporto e della relativa copertura;
- la permanente alterazione dello stato dei luoghi, che il complessivo manufatto (di notevoli dimensioni –circa 250 mq., per una volumetria di circa 700 mc.-) era idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione (peraltro, per soli quattro mesi l’anno) della copertura in pannelli di PVC;
- il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.02.2011 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire non rileva il carattere stagionale del manufatto realizzato, atteso che esso non implica la precarietà dell'opera, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità della sua funzione.
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di un’attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione ai sensi del TU sull’edilizia.

Nel merito il ricorso è fondato sia in relazione a tutti i motivi che lamentano un difetto di motivazione ed una carenza istruttoria, sia in relazione ai motivi che lamentano plurime violazioni di legge.
In particolare appare fondata la violazione dell’art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001.
La costruzione in parola, infatti, rientra a pieno titolo tra le ipotesi di costruzione.
Ciò innanzitutto perché l’orditura della copertura crea uno scheletro che abbraccia anche lo spazio poi chiuso dalle tamponature laterali ed è fissata al suolo stabilmente e, di conseguenza delimita permanentemente la porzione di arenile sulla quale insiste.
Comunque, l’annuale riproposizione della completa chiusura di una struttura di notevoli dimensioni, specie se rapportate alle dimensioni della spiaggia ed alla particolare tutela del sito, esulano dal concetto di temporaneità, nel senso della transitorietà del manufatto o della sua precarietà od occasionalità che il comune ha assunto a fondamento dei provvedimenti impugnati.
Nello specifico poi, la durata della stagione balnearia è intesa dal comune dal mese di marzo a quello di novembre, con la conseguenza della inversione del concetto voluto dal legislatore poiché temporaneo può casomai definirsi il limitato periodo di 4 mesi su 12 nei quali la spiaggia può tornare ad essere bene demaniale da tutti utilizzabile.
La giurisprudenza amministrativa, anche di questo tribunale (11.03.1982 n. 160) ha affermato con continuità che “Ai fini della necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire non rileva il carattere stagionale del manufatto realizzato, atteso che esso non implica la precarietà dell'opera, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità della sua funzione" (TAR Lazio, sez. I, 24.05.2008, n. 562).
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di un’attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione ai sensi del TU sull’edilizia (cfr. Tar Lazio II 01.03.2002 n. 1595; Tar Emilia Romagna, II 14.07.2003 n. 970) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.01.2009 n. 119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un balcone non può essere considerato intervento di risanamento conservativo così come previsto dall'art. 31, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457 e costituisce opera di ristrutturazione edilizia esterna dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione della facciata del palazzo mediante la sostituzione e l'inserimento di elementi, nonché la modifica di altri.
In relazione alla prima censura, occorre evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, l'intervento in questione (apertura di vano-finestra) non rientra nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, né di restauro o risanamento conservativo.
Entrambe tali categorie di interventi presuppongono infatti, secondo la chiara definizione tipologica contenuta nell'art. 3, lett. b-c) D.P.R. n. 380/2001, la sostituzione o la conservazione di elementi (anche strutturali) degli edifici, che siano comunque preesistenti, ovvero l'inserimento di elementi nuovi, che abbiano tuttavia carattere accessorio.
La fattispecie oggetto del presente gravame, è invece caratterizzata dalla realizzazione un elemento nuovo, non avente carattere accessorio.
Da un lato, infatti, è pacifico che il vano in questione non era preesistente.
Dall'altro, è altrettanto evidente che l'intervento medesimo ha determinato un'alterazione del prospetto dell'intero fabbricato (come del resto implicitamente riconosciuto dallo stesso ricorrente, che non ha mosso alcuna contestazione sul punto).
Correttamente, pertanto, l'amministrazione ha ritenuto che l'intervento in questione sia configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia, di cui alla lettera c) del comma primo dell'articolo 10 D.P.R. n. 380/2001 (cfr., sul punto, TAR Campania Napoli, sez. IV, n. 4387/2007; TAR Liguria, n. 1516/2004, secondo cui la realizzazione di un balcone non può essere considerato intervento di risanamento conservativo così come previsto dall'art. 31, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457 e costituisce opera di ristrutturazione edilizia esterna dal momento che realizza un'oggettiva trasformazione della facciata del palazzo mediante la sostituzione e l'inserimento di elementi, nonché la modifica di altri).
Ora, è vero che tale intervento è eseguibile, in alternativa al permesso di costruire, mediante semplice denuncia di inizio attività (come previsto dall'articolo 22, comma terzo, lett. a), dello stesso D.P.R. n. 380/2001), ma è altrettanto vero che, ai sensi del successivo articolo 33, comma 6-bis, la sanzione prevista per la mancanza anche di tale secondo titolo edilizio è pur sempre quella demolitoria.
La censura deve quindi essere disattesa (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.11.2008 n. 20564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione di abusi edilizi hanno natura urgente e vincolata, per cui non necessitano della preventiva comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Deve infine essere disattesa anche la quarta ed ultima censura alla luce del pacifico orientamento giurisprudenziale, pienamente condiviso anche da questa Sezione, secondo cui gli atti di repressione di abusi edilizi hanno natura urgente e vincolata, per cui non necessitano della preventiva comunicazione di avvio del relativo procedimento (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 06.11.2007, n. 10679) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.11.2008 n. 20564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Solo dopo la stipulazione della convenzione sorge nel privato una posizione giuridica meritevole di piena tutela.
Il Collegio non è di questo avviso, pacifica risultando la mancanza di ogni affidamento legittimo anche alla luce dei principi giurisprudenziali applicabili alla (pur) peculiare fattispecie qui data, ovvero di quelli posti in materia di convenzioni di lottizzazioni urbanistiche, fermi nel sostenere che solo dopo la stipulazione della convenzione sorge nel privato una posizione giuridica meritevole di piena tutela (cfr., da ultimo, Tar Sicilia, Palermo, sez. 1^, 07.05.2007, n. 1268) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 20.11.2007 n. 14437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl locale accessorio (abusivamente costruito) è destinato, per esplicita ammissione della ricorrente, ad ospitare “impianti e dispositivi tecnici indispensabili per l’uso della piscina” e detto locale appare chiaramente insuscettibile di autorizzazione paesistica in sanatoria, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, trattandosi di manufatto con propria superficie utile e volume.
Né si può condividere la tesi della ricorrente che lo qualifica “vano tecnico”, come tale inidoneo a costituire aumenti volumetrici.
Un “vano” o “volume tecnico”, infatti, per risultare ininfluente ai fini della creazione di nuove superfici o volumi, presuppone logicamente l’introduzione di un impatto sul territorio, valutato attraverso gli indici edilizi, inferiore a quello della costruzione principale.
Nel caso in esame, invece, tale impatto sarebbe addirittura eccedente quello della costruzione principale, poiché la realizzazione della piscina, secondo la stessa ricorrente, non darebbe luogo ad alcuna superficie utile o volume.
Il manufatto, inoltre, pare avere una propria autonomia funzionale, atteso che, come si evince dalla relazione tecnica datata 22.11.2006, esso sarà destinato, oltre che ad ospitare la stazione di filtraggio, anche a deposito di prodotti per la piscina.
L’esistenza di uno spazio residuo non destinato all’alloggiamento degli impianti tecnologici necessari per la conduzione della piscina, ma utilizzabile quale deposito, pare quindi testimoniare la potenziale autonomia del manufatto, perciò non configurabile alla stregua di mero “volume tecnico”.

... l’esponente sostiene che la piscina e il locale accessorio ben avrebbero potuto essere edificati, nonostante il vincolo esistente nella zona, previo rilascio di autorizzazione paesistica in sanatoria, ai sensi dell’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004.
La piscina, infatti, è priva di copertura e non crea volumi né superfici utili, mentre il locale accessorio, destinato ad ospitare impianti tecnologici indispensabili per l’uso della piscina, si qualificherebbe come “volume tecnico”, pertanto non idoneo a generare incrementi di volume o di superficie.
In linea di principio, la tesi dell’inedificabilità relativa (e non assoluta) della zona in questione è esatta, come già rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 763 del 21.02.2007, resa in ordine alla medesima vicenda.
Con tale pronuncia, peraltro, si era anche esclusa l’assentibilità, nella fattispecie, dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cosicché non rimane, in questa sede, che argomentare più diffusamente tale affermazione.
Deve rilevarsi, innanzitutto, che la costruzione dei due manufatti configura un intervento edilizio funzionalmente unitario, poiché il locale accessorio è destinato, per esplicita ammissione della ricorrente, ad ospitare “impianti e dispositivi tecnici indispensabili per l’uso della piscina”.
Ne consegue che la non assentibilità in sanatoria del locale accessorio preclude anche la realizzazione della piscina.
Ciò premesso, detto locale accessorio (di cui, peraltro, non vengono precisate le dimensioni) appare chiaramente insuscettibile di autorizzazione paesistica in sanatoria, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, trattandosi di manufatto con propria superficie utile e volume.
Né si può condividere la tesi della ricorrente che lo qualifica “vano tecnico”, come tale inidoneo a costituire aumenti volumetrici.
Un “vano” o “volume tecnico”, infatti, per risultare ininfluente ai fini della creazione di nuove superfici o volumi, presuppone logicamente l’introduzione di un impatto sul territorio, valutato attraverso gli indici edilizi, inferiore a quello della costruzione principale.
Nel caso in esame, invece, tale impatto sarebbe addirittura eccedente quello della costruzione principale, poiché la realizzazione della piscina, secondo la stessa ricorrente, non darebbe luogo ad alcuna superficie utile o volume.
Il manufatto, inoltre, pare avere una propria autonomia funzionale, atteso che, come si evince dalla relazione tecnica datata 22.11.2006, esso sarà destinato, oltre che ad ospitare la stazione di filtraggio, anche a deposito di prodotti per la piscina.
L’esistenza di uno spazio residuo non destinato all’alloggiamento degli impianti tecnologici necessari per la conduzione della piscina, ma utilizzabile quale deposito, pare quindi testimoniare la potenziale autonomia del manufatto, perciò non configurabile alla stregua di mero “volume tecnico”.
Quanto all’impianto natatorio, la ricorrente, muovendo dalla lettera delle norme tecniche di attuazione, tenta di dimostrare come la sua edificazione, non essendo idonea a generare alcuna superficie utile o volume, sarebbe suscettibile di autorizzazione paesistica in sanatoria.
La prospettazione difensiva non considera, però, che il vincolo esistente è finalizzato a preservare nel tempo la configurazione ambientale della zona.
La realizzazione della piscina, per contro, appare idonea a creare un impatto ambientale permanente che vanifica tale prescrizione, trattandosi di manufatto che, pur non caratterizzato da volumi emergenti dal terreno o da superfici calpestabili, presenta dimensioni non trascurabili (m. 14,75 x 6,36), richiede scavi consistenti e prevede l’impiego di materiali difficilmente compatibili con il contesto boschivo in cui si pretende esso trovi inserimento.
Il palese contrasto dell’intervento con la disciplina urbanistica di riferimento esonerava il Comune dall’indire, come suggerito con il terzo motivo di gravame, apposita conferenza di servizi ai sensi degli artt. 14 e segg.ti della legge n. 241/1990 (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2007 n. 2599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidato orientamento giurisprudenziale, il carattere precario di una “costruzione” urbanisticamente rilevante (ai fini dell’esenzione dalla concessione edilizia, ed oggi dal permesso di costruire) non va desunto dalla eventualmente facile e rapida rimovibilità dell’opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, bensì dal fatto che la costruzione appaia ex ante destinata a soddisfare esigenze transitorie e sia destinata alla demolizione spontanea quando ne venga a cessare l’uso.
Conseguentemente, non può riconoscersi il carattere della precarietà ad una struttura che, per quanto destinata ad essere utilizzata in una sola parte dell’anno, sia comunque preordinata ad un uso continuativo in futuro e non ne sia perciò prevista la demolizione al termine dello stesso.

- Considerato che l’oggetto dell’ingiunzione a demolire è costituito dal dehors di un pubblico esercizio, realizzato in struttura metallica e ricoperto da un telo che viene rimosso in inverno, in cui sono stati installati un forno, un bancone con piano di lavoro, un bancone frigo, un angolo bar, una cassa, un servizio igienico ed alcune celle frigo;
- Considerato che il Comune ne ha ingiunto la demolizione sul rilievo che detta struttura non riveste il carattere della precarietà e pertanto necessita della concessione edilizia, nel caso concreto mai richiesta;
- Considerato che, con il primo motivo, il ricorrente sostiene che la struttura in questione avrebbe invece carattere precario, in quanto destinata ad essere utilizzata soltanto nei mesi estivi e suscettibile di facile rimozione, e quindi sarebbe soggetta al regime autorizzatorio di cui all’art. 56, lett. c), L.R. 05.12.1977, n. 56;
- Ritenuto che la censura deve essere disattesa, in quanto, per consolidato orientamento giurisprudenziale, il carattere precario di una “costruzione” urbanisticamente rilevante (ai fini dell’esenzione dalla concessione edilizia, ed oggi dal permesso di costruire) non va desunto dalla eventualmente facile e rapida rimovibilità dell’opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, bensì dal fatto che la costruzione appaia ex ante destinata a soddisfare esigenze transitorie e sia destinata alla demolizione spontanea quando ne venga a cessare l’uso (Cons. St., V, 12.03.1996, n. 247; Cons. St., IV, 02.04.1996, n. 440);
- Ritenuto che, alla luce di tale principio, non può riconoscersi il carattere della precarietà ad una struttura che, per quanto destinata ad essere utilizzata in una sola parte dell’anno, sia comunque preordinata ad un uso continuativo in futuro e non ne sia perciò prevista la demolizione al termine dello stesso
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 16.05.2006 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente ha documentalmente provato (mediante produzione delle fatture pagate per l’installazione del dehors) che tale struttura è stata posta in opera tra il 1986 ed il 1987, ossia una decina di anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
Ebbene, tale circostanza non è sufficiente a giustificare il consolidarsi della situazione di affidamento, che è configurabile soltanto in presenza dell’inerzia dell’Amministrazione protrattasi per un periodo di tempo estremamente lungo.
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Normalmente, il provvedimento di demolizione di un manufatto abusivo non abbisogna di una motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale, ancorché il provvedimento stesso sia emesso a distanza di tempo dalla realizzazione delle opere: ciò in quanto, trattandosi di atto dovuto, l’ordine di demolizione deve ritenersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.

- Considerato che, con il secondo mezzo, il ricorrente osserva che la struttura esisterebbe dal 1982 e che negli anni 1994 e 1996 lo stesso Sindaco di Saluzzo aveva rilasciato rispettivamente un’autorizzazione in sanatoria allo spostamento del forno e l’autorizzazione sanitaria per la preparazione e la cottura delle pizze al suo interno, per cui ciò avrebbe ingenerato nel ricorrente un legittimo affidamento circa la regolarità edilizia dell’opera;
- Considerato che entrambe le autorizzazioni avevano carattere temporaneo (con efficacia fino al 31.12.1994 l’autorizzazione edilizia e fino al 31.10.1996 quella sanitaria);
- Ritenuto che detti provvedimenti non hanno perciò alcun rilievo ai fini della formazione di un affidamento circa la regolarità edilizia del dehors;
- Considerato che il ricorrente ha inoltre documentalmente provato (mediante produzione delle fatture pagate per l’installazione del dehors) che tale struttura è stata posta in opera tra il 1986 ed il 1987, ossia una decina di anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato;
- Ritenuto che tale circostanza non è sufficiente a giustificare il consolidarsi della situazione di affidamento, che è configurabile soltanto in presenza dell’inerzia dell’Amministrazione protrattasi per un periodo di tempo estremamente lungo;
- Ritenuto che in tutti gli altri casi il provvedimento di demolizione di un manufatto abusivo non abbisogna di una motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale, ancorché il provvedimento stesso sia emesso a distanza di tempo dalla realizzazione delle opere: ciò in quanto, trattandosi di atto dovuto, l’ordine di demolizione deve ritenersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Piemonte, I, 25.02.1999, n. 105; TAR Calabria–Catanzaro, 08.10.2002, n. 2343; TAR Lazio, II, 25.06.2003, n. 5630)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 16.05.2006 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo di cui all’art. 3 della legge n. 10 del 1977 non è dovuto per gli interventi edilizi di seguito elencati giacché, ad avviso del Collegio, tali opere rientrano nella nozione di manutenzione straordinaria:
1)- demolizione e rifacimento dei solai dell’androne e del vano scala “A”;
2)- utilizzazione del piano interrato sotto il vano scala per l’installazione della centrale idrica e del vano ascensore;
3)- demolizione della copertura a tetto e sua ricostruzione con solaio in latero-cemento e manto di tegole;
4)- modifica alla ripartizione interna di alcuni appartamenti;
6)- rifacimento degli intonaci e ripristino degli infissi, etc..
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Il contributo in discorso non è dovuto neppure per l’intervento edilizio sopra descritto al n. 5) giacché, ad avviso del Collegio, le relative opere (prolungamento ed ampliamento degli aggetti dei balconi) integrano un intervento di ristrutturazione edilizia che rientra nell’ipotesi di esenzione contemplata dalla lett. d) dell’art. 9 succitato (interventi di restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione ed ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamigliari), in quanto trattasi di un intervento riguardante pur sempre ciascuna delle singole unità immobiliari abitate da una sola famiglia.
D’altra parte, se lo si riguardi come relativo all’intero edificio condominiale composto da più unità immobiliari, l’intervento di ristrutturazione di che trattasi deve essere, ad avviso del Collegio, esentato dal contributo, giacché da esso non deriva alcuna ulteriore incidenza sul carico urbanistico.

Il ricorso in esame è diretto all’annullamento, nella parte in cui impone il pagamento del contributo di cui all’art. 3 della legge n. 10 del 1977, di una concessione edilizia rilasciata al Condominio ricorrente per l’esecuzione dei seguenti lavori (descritti a pag. 2, cpv. II, della concessione impugnata):
1)- demolizione e rifacimento dei solai dell’androne e del vano scala “A”;
2)- utilizzazione del piano interrato sotto il vano scala per l’installazione della centrale idrica e del vano ascensore;
3)- demolizione della copertura a tetto e sua ricostruzione con solaio in latero-cemento e manto di tegole;
4)- modifica alla ripartizione interna di alcuni appartamenti;
5)- prolungamento ed ampliamento degli aggetti dei balconi;
6)- rifacimento degli intonaci e ripristino degli infissi, etc..
Il primo motivo di ricorso (sopra riassunto in “fatto”) sostiene (in stretta sintesi) che il pagamento di che trattasi non è dovuto, in applicazione dell’esenzione prevista dall’art. 9, lettere c), d), e), della succitata legge.
L’assunto di parte ricorrente è fondato.
Ed invero, la succitata norma prevede espressamente che il contributo di cui all’art. 3 della legge n. 10 del 1977 non è dovuto, sia per gli interventi di manutenzione straordinaria (lett. c), sia per le modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni igieniche o statiche delle abitazioni e per la realizzazione dei volumi tecnici indispensabili per gli impianti tecnologici necessari per le esigenze delle abitazioni (lett. e).
Peraltro, l’art. 31, lett. b), della legge n. 457 del 1978 definisce come interventi di manutenzione straordinaria le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempreché non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino variazione delle destinazioni d’uso.
Orbene, ai sensi delle norme sopra ricordate, il contributo di che trattasi non è dovuto per gli interventi edilizi sopra descritti ai nn. 1), 2), 3), 4) e 6), giacché, ad avviso del Collegio, tali opere rientrano nella nozione di manutenzione straordinaria come desumibile dalla lett. b) dell’art. 31 succitato (cfr.: TAR Marche, 21.11.1987 n. 527).
Il contributo in discorso non è dovuto neppure per l’intervento edilizio sopra descritto al n. 5), giacché, ad avviso del Collegio, le relative opere (prolungamento ed ampliamento degli aggetti dei balconi) integrano un intervento di ristrutturazione edilizia che rientra nell’ipotesi di esenzione contemplata dalla lett. d) dell’art. 9 succitato (interventi di restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione ed ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamigliari), in quanto trattasi di un intervento riguardante pur sempre ciascuna delle singole unità immobiliari abitate da una sola famiglia (cfr.: TAR Brescia, 05.09.996 n. 904).
D’altra parte, se lo si riguardi come relativo all’intero edificio condominiale composto da più unità immobiliari, l’intervento di ristrutturazione di che trattasi deve essere, ad avviso del Collegio, esentato dal contributo, giacché da esso non deriva alcuna ulteriore incidenza sul carico urbanistico (cfr.: Cons. St., Sez. V, 08.02.1991 n. 120) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.09.2004 n. 799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 23.09.2013

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, settembre 2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: sentenza TAR Lazio n. 2446/2013 - art. 24 d.l. n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011 (nota 16.09.2013 n. 41876 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 38 del 20.09.2013, "Modifiche al regolamento regionale 4 aprile 2008 , n. 1 “Caratteristiche delle divise per gli appartenenti ai corpi e ai servizi della Polizia locale della Regione Lombardia”" (regolamento regionale 17.09.2013 n. 3).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: L. Spallino, D.L. del Fare: proroga dei termini delle convenzioni di lottizzazione (19.09.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

SICUREZZA LAVORO: F. G. Pagliari, Documento di Valutazione dei Rischi da Interferenza - D.U.V.R.I.: le modifiche introdotte dal “Decreto del Fare” (17.09.2013 - link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni nelle pubbliche amministrazioni - Necessità dell'adozione del Piano triennale delle azioni positive (CGIL-FP di Bergamo, nota 16.09.2013).

NOTE, CIRCOLARI E  COMUNICATI

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia – Legge 09.08.2013, n. 98 – Sicurezza del lavoro (ANCE Bergamo, circolare 20.09.2013 n. 214).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: OGGETTO: Decreto-legge 04.06.2013, n. 63 – Interventi di efficienza energetica – Interventi di ristrutturazione edilizia – Acquisto di mobili per l’arredo e di elettrodomestici – Detrazioni (Agenzia delle Entrate, circolare 18.09.2013 n. 29/E).
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Ecobonus e ristrutturazioni edilizie. “Nuove” detrazioni punto per punto.
L’Agenzia interpreta le ultime norme e fornisce chiarimenti utili alla corretta applicazione degli sconti d’imposta, quest’anno modulati sull’impulso allo sviluppo economico (link a www.fiscooggi.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, conta il sindaco. Il voto va calcolato ai fini del numero legale. La giurisprudenza amministrativa non è però univoca sul punto.
Ai fini della determinazione del quorum strutturale, previsto dal regolamento di un consiglio comunale, il voto del sindaco come è computato?

Il legislatore statale ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, la disciplina relativa al funzionamento dei consigli e alla determinazione del numero legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco» (art. 38, comma 2, del dlgs n. 267/2000).
Premesso che sulla questione non si riscontrano orientamenti univoci giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), si ritiene che il quorum debba essere calcolato includendo il sindaco.
Infatti, nei casi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il voto del sindaco, o del presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità della seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni consiliari.
Può ritenersi legittima la modifica del Regolamento comunale finalizzata a ridurre il numero dei componenti delle commissioni consultive consiliari? Se la delibera di modifica fosse già stata adottata dall'ente, a chi spetta l'eventuale pronuncia sulla legittimità della stessa?

Ai sensi dell'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
La proporzionalità, quindi, è volta ad assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile.
Tuttavia, il legislatore non ha precisato in che modo debba essere applicato il citato criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo presente in consiglio, in modo che se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (v. Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
In ogni caso è rimessa all'autonomia organizzativa del comune interessato l'individuazione, anche mediante opportune integrazioni del vigente regolamento, del meccanismo tecnico (quale voto plurimo, voto ponderato o altro) reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che rappresenta
Infatti, come precisato dalla stessa giurisprudenza richiamata, il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile» (Tar Lombardia, n. 567/1996).
Spetta al giudice amministrativo ogni eventuale pronuncia sulla legittimità della delibera eventualmente adottata dall'ente (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanze inoltrate alla PA in via telematica.
D: Con la presente si chiede se il combinato disposto dell'art. 38, comma 3, DPR 445/2000 e dell'art. 65 del Codice di Amministrazione digitale, consenta alla PA di accettare istanze e dichiarazioni che siano trasmesse tramite PEC generica (es. di un'azienda, non nominativa) e che consistano in documenti firmati, scannerizzati e inviati unitamente a scannerizzazione del documento d'identità del sottoscrittore (quindi non firmati digitalmente).
R: Nel quesito posto viene domandato se il combinato disposto dell'art. 38, c. 3, del d.p.r. 445/2000 e dell'art. 65 del Codice dell'amministrazione digitale (di seguito "CAD" - Decreto Legislativo 07.03.2005, n. 82) consenta alla pubblica amministrazione di accettare istanze e dichiarazioni che siano trasmesse tramite Pec senza che i documenti allegati siano anche firmati digitalmente. Preliminarmente sembra utile ripercorrere brevemente i testi delle norme richiamate.
Invero, il terzo comma dell'art. 38 del d.p.r. 445/2000 dispone che le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi, ove non sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto, sono "sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore" e "possono essere inviate per via telematica". L'art. 65 del CDA dispone invece i vari criteri per ritenere valide le istanze e le dichiarazioni presentate per via telematica alle PA ed ai gestori di pubblici servizi. L'art. 65, c. 1, lett. c) del CDA dispone che le istanze e le dichiarazioni presentate per via telematica alle PA sono valide anche quando le stesse "sono inviate con le modalità di cui all'articolo 38, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445".
Inoltre, la successiva lettera c-bis della norma appena richiamata dispone che le stesse sono validamente inviate "se trasmesse dall'autore mediante la propria casella di posta elettronica certificata purché le relative credenziali di accesso siano state rilasciate previa identificazione del titolare", salvo le specifiche disposizioni normative che prevedono l'uso di specifici sistemi di trasmissione telematica nel settore tributario.
Considerato che la Pec certifica l'invio e la ricezione della corrispondenza elettronica e che la firma digitale va invece a sostituire la firma autografa dell'autore del documento stesso, in base all'art. 65, c. 1, lett. c) del CAD qualora l'istanza o la dichiarazione trasmessa via PEC sia effettuata con le modalità di cui all'art. 38, comma 3, DPR 445/2000, e nello specifico quindi tramite la sottoscrizione materiale dell'istanza scannerizzata e con la relativa allegazione di copia del documento di identità del sottoscrittore, le stesse devono considerarsi pienamente valide in quanto viene in tal modo comunque raggiunta la ratio della norma, ovvero viene identificato in modo certo l'autore del documento inviato.
In tal caso quindi, tali istanze devono essere accettate dalla PA, anche se non firmate "digitalmente" (16.09.2013 - tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

TRIBUTI: Classamento con motivazione.
Domanda
Ho ricevuto un atto con cui il Catasto ha modificato il classamento della mia abitazione senza alcuna precisazione circa le sue motivazioni. Posso ricorrere?
Risposta
La risposta è affermativa. La giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel ritenere illegittimi i riclassamenti catastali privi di motivazione o dotati di motivazione meramente apparente.
La recente sentenza n. 18156/2013, fra altre emesse in questi ultimi anni e in parte in essa richiamate, ribadisce che il provvedimento di riclassamento deve esplicitare se esso sia stato adottato in ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità (in tal caso recando l'analitica indicazione di esse) o nell'ambito di una revisione dei parametri della microzona di ubicazione dell'immobile giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra valore di mercato e valore catastale rispetto ad altre microzone comunali (in tal caso recando la specifica menzione dei rapporti e dello scostamento rilevato), oppure ancora in relazione alla incongruenza tra il precedente classamento dell'unità rispetto a fabbricati similari (in tal caso recando la specifica individuazione di tali fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità interessata dal rilassamento).
È, del resto, evidente che in mancanza di tali motivazioni il contribuente non potrebbe controdedurre in modo appropriato e sarebbe pertanto inibito rispetto al proprio diritto di difendersi dalle pretese dell'Amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2013).

NEWS

CONDOMINIO: Condominio. Le caratteristiche e le criticità del nuovo istituto che debutterà in via sperimentale per quattro anni.
Mediazione con tempi lunghi. Presenza dell'amministratore e maggioranze richiederanno più dei 3 mesi previsti.

ALL'INCONTRO/ Il mediatore può prorogare i termini della prima comparizione.
La mediazione torna in condominio ma ora, nella sua applicazione pratica, i mediatori dovranno fare i conti con problemi di non facile risoluzione.
Con la pubblicazione della legge 98/2013 sulla «Gazzetta ufficiale» del 20 agosto, l'attivazione della mediazione rimane, in un ambito importante e a forte tasso di litigiosità come quello del condominio, una condizione di procedibilità dell'azione giudiziale. Il fine è sempre lo stesso: orientare a una ricomposizione della lite che faccia perno sui veri bisogni delle parti contrapposte, che possono essere anche di natura personale ed emotiva, dove magari l'aspetto economico –trattato davanti al giudice– diventa davvero secondario.
Proprio nelle liti condominiali, infatti, il più delle volte si discute di comportamenti dei vicini non più sostenibili, come l'uso scorretto e gli abusi sulle parti comuni, la violazione del decoro architettonico o l'osservanza del regolamento.
I punti salienti di questa mediazione rivisitata (illustrati nella scheda a fianco) sono piuttosto chiari. Inoltre il nuovo articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione del Codice civile aiuta meglio a comprendere quali sono le controversie che possono essere oggetto di mediazione, ossia quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle norme del codice che riguardano «il condominio negli edifici» e le relative disposizioni di attuazione.
L'amministratore è legittimato a partecipare solo se l'assemblea ha validamente deliberato in tal senso con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Il mediatore, proprio per questo motivo, può prorogare i termini della prima comparizione. Infine, l'accordo dovrà essere approvato dall'assemblea con la stessa maggioranza sopra descritta e di ciò deve tener conto il mediatore nel fissare il termine per la sottoscrizione dello stesso.
Ed è proprio qui che iniziano i problemi. Sembrerebbe che al primo incontro informativo l'amministratore possa partecipare solo se ha ottenuto il consenso dell'assemblea. Se cosi è, risulta già stravolto l'intento del legislatore, perché ciò significa che il primo incontro dovrà essere procrastinato di almeno qualche mese.
Quindi si rischia di vanificare il termine di durata dell'intero procedimento che la legge prevede debba essere contenuto in tre mesi. L'articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione prevede per l'appunto delle proroghe, ma questo vuol dire sempre stravolgere l'intento della mediazione, che è proprio quello di comporre una lite in termini rapidi e poco costosi.
La soluzione, oltre che nell'indispensabile accelerazione che l'amministratore dovrà imprimere alla convocazione dell'assemblea, andrà ricercata in una prassi intelligente degli organi di mediazione specializzati.
Inoltre, ci sono materie che di per sé sono suscettibili di mediazione solo se il mediatore possiede competenze speciali. Si pensi alla modifica o alla revisione delle tabelle millesimali per cui non si riesce a raggiungere la maggioranza, oppure al problema del decoro architettonico di un edificio che un condomino ritiene essere stato violato. È evidente che occorre una preparazione attenta su materie i cui aspetti tecnici sono preponderanti.
Questi sono tutti interrogativi a cui la mediazione farà fronte e darà le sue risposte e il Ministero, dopo i quattro anni previsti –e ci si auspica non più interrotti– di sperimentazione dell'istituto, ne esaminerà i risultati anche ai fini di eventuali correttivi (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2013).

INCARICHI PROGETTUALICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Le novità contenute nel ddl Europea 2013-bis approvato ieri
Appalti p.a. aperti ai progettisti. No all'esclusione automatica dalla fase di affidamento.
Chi ha progettato un'opera pubblica non può essere automaticamente escluso dalla successiva fase di affidamento dell'appalto o concessione relativi all'opera progettata. Il progettista deve in concreto dimostrare che l'aver partecipato alla progettazione non comporti un'alterazione della par condicio.

È quanto prevede l'articolo 18 della bozza di disegno di legge Europea 2013-bis, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, che prevede una modifica, rubricata sotto il titolo delle disposizioni a tutela della concorrenza, sul ruolo del progettista nell'ambito delle procedure di affidamento di appalti e concessioni di lavori pubblici disciplinato dall'articolo 90, comma 8, del Codice dei contratti pubblici.
La norma oggetto di intervento, presente fin dalla prima legge Merloni del 1994 e riproposta tale e quale nel Codice dei contratti pubblici, pone il divieto assoluto di partecipazione ad appalti e concessioni da parte di chi sia risultato affidatario di un incarico di progettazione precedente e relativo alla stessa opera da appaltare o da affidare in concessione.
Su questa norma da tempo la giurisprudenza (anche dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) si è espressa affermando che la disposizione, incidendo sulla partecipazione dei soggetti alle gare e, quindi, sulla libertà di impresa, va interpretata in senso rigoroso, riguardando ipotesi che possono comportare una incompatibilità e, conseguentemente, l'esclusione dalla gara (fra le molte, Cons. stato, sez. VI 13.02.2004 n. 561 e Tar Piemonte, sez. I, 28/02/2007 n. 882).
Va anche considerato che il principio affermato nell'articolo 90, comma 8, del Codice dei contratti è stato di recente utilizzato dal Consiglio di stato per affermare (contrariamente a una giurisprudenza fino ad allora prevalente) che la disposizione è applicabile per analogia anche all'interno della fase progettuale (affidatario della progettazione preliminare, rispetto all'affidamento di altri livelli successivi) in quanto a garanzia dell'imparzialità e della parità di trattamento.
Lo stesso divieto è stato poi applicato anche in casi non disciplinati dal Codice, come quello del direttore tecnico dell'impresa appaltante che aveva partecipato alla progettazione dell'opera nella fase relativa alla elaborazione finalizzata al finanziamento. La norma esaminata ieri, nel ribadire il divieto ammette però la possibilità per il progettista di essere «affidatario dell'appalto o della concessione», laddove dimostri che l'esperienza acquisita nell'espletamento degli incarichi di progettazione non sia tale da determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori.
In tale modo il Codice si riallinea a quanto già anni fa la Corte di giustizia aveva affermato (sentenza del 03.03.2005, C-21/03) bocciando un divieto analogo posto dalla normativa belga e ritenendo necessaria «una procedura di verifica sugli effetti distorsivi sulla concorrenza» derivanti dalla posizione di un consulente della stazione appaltante, al fine di garantire il principio di parità di trattamento (articolo ItaliaOggi del 21.09.2013).

ENTI LOCALIDelrio triplica i direttori generali. City manager anche nei comuni sotto i 100mila abitanti. Aboliti nel 2009 per ragioni di spesa, un emendamento al decreto D'Alia punta a ripristinarli.
Il testo è pronto e risulta all'esame del dicastero dell'Interno, per le questioni di merito, e del Tesoro per la verifica più importante, quella sulla invarianza di spesa. Per il dicastero degli Affari regionali guidato da Graziano Delrio, che lo ha formulato, non ci sarebbero oneri aggiuntivi semplicemente perché le nomine non sono obbligatorie.
In verità, una volta fatte, ci saranno stipendi in più da pagare. Ma solo se i comuni ne avranno la capacità di spesa in bilancio, vorrebbe il ragionamento del buon padre di famiglia. Sta di fatto che, mentre nel governo impazza la caccia alle risorse necessarie per evitare l'aumento di un punto percentuale di iva da ottobre, al senato potrebbe approdare, sotto forma di emendamento al decreto legge sul pubblico impiego messo a punto da Gianpiero D'Alia, la proposta targata Affari regionali che consente ai sindaci di comuni con meno di 100 mila abitanti di scegliersi un direttore generale esterno. Un vero manager che affianchi il già presente segretario generale e la dirigenza di ruolo.
Nel 2009 era intervento l'allora ministro dell'economia, Giulio Tremonti, per alzare la soglia a 100 mila abitanti come requisito base per procedere all'eventuale nomina del dg. Evidenti ragioni di razionalizzazione della spesa inducevano a ritenere che uno stipendio in più potesse essere giustificato solo nei casi di situazioni organizzative complesse. Con la proposta targata Delrio la soglia scende a 50 mila, e i dg arrivano a triplicarsi rispetto agli iniziali 46. Una scelta che è imputata alla necessità di rafforzare anche nei comuni sotto i 100 mila il sistema di controllo interno e di coordinamento dei processi di riorganizzazione e ristrutturazione che evidentemente si ritiene non possano essere realizzati senza ricorrere a un manager di assoluta fiducia.
Se la proposta supererà il vaglio parlamentare, da Aversa e Scafati, da Molfetta e Latina, saranno una novantina i comuni che potranno ricorrere a un direttore generale. Si tratta di figure atipiche del pubblico impiego, ai vertici dell'amministrazione comunale ma senza necessariamente aver superato un concorso pubblico, con poteri di riorganizzazione eppure legati a doppio filo al sindaco che li ha scelti. Una categoria variegata con sicuri city manager, ma anche politici fuori gioco, ex consiglieri e assessori a caccia di una poltroncina.
Gli stipendi? Possono andare dai 150 mila ai 250 mila euro. Per fare cosa? Svolgere funzioni «a connotazione manageriale e gestionale», si legge sul sito dell'Andigel, l'associazione dei direttori generali di comuni e province presieduta fino allo scorso maggio da Mauro Bonaretti, ex direttore generale del comune di Reggio Emilia con Delrio e oggi suo capo di gabinetto (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAArredi, conta l'inizio dei lavori. Ristrutturazioni anteriori al pagamento dei mobili. I chiarimenti nella circolare n. 29 delle Entrate per usufruire delle detrazioni del 50%.
Detrazione per l'acquisto di mobili e di elettrodomestici fruibile a partire dalle spese sostenute dal 06.06.2013, ma la data di inizio dei lavori di ristrutturazione deve essere anteriore al pagamento degli arredi.

Questo uno dei chiarimenti forniti dall'Agenzia delle entrate con la circolare 18.09.2013 n. 29/E (si veda ItaliaOggi di ieri) con la quale ha fornito precise indicazioni sulla corretta applicazione del bonus arredi, dopo l'intervento del dl 63/2013.
In effetti, il documento di prassi dedica molto spazio alla detrazione per l'acquisto dei mobili e dei grandi elettrodomestici collegati a un'operazione di ristrutturazione dell'edificio, allargando ampiamente il perimetro applicativo.
Preliminarmente, le Entrate sostengono che la detrazione è spettante anche per le spese sostenute prima dell'entrata in vigore della legge di conversione del dl 63/2013, confermando l'applicazione sulle spese sostenute nell'intervallo tra il 06.06.2013 e il 31.12.2013 (§ 3.4). Sul punto, però, l'Agenzia ha precisato che, essendo condizione per l'ottenimento del bonus che nell'unità sia in corso una ristrutturazione, peraltro anche in tal caso in senso molto ampio, è necessario che la data di inizio dei lavori sia anteriore rispetto a quella di sostenimento delle spese per mobili ed elettrodomestici, pur non essendo necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima rispetto a quelle dei mobili.
In pratica, si potrebbe verificare il caso in cui i lavori di ristrutturazione siano iniziati nei primi giorni di luglio 2013, il pagamento degli stessi sia avvenuto a fine agosto 2013, l'acquisto dei mobili sia avvenuto a giugno 2013, ma il pagamento di detti beni sia stato eseguito a fine luglio 2013. In tal caso, seguendo letteralmente il documento di prassi che parla di «sostenimento» (pagamento), l'agevolazione risulta ampiamente fruibile.
Con riferimento alla tipologia degli interventi di ristrutturazione, le Entrate indicano tutte le fattispecie possibili, richiamando tutte le lettere, dalla a) alla d), dell'art. 3, del dpr 380/2001, con la conseguenza che il bonus arredo è collegato a molti interventi, dalla manutenzione ordinaria a quelli necessari al risanamento dell'edificio.
Di conseguenza, per verificare la corretta applicazione della detrazione si dovrà tenere conto della data di inizio dei lavori come rilevabile dalle concessioni o dalle autorizzazioni ottenute ma, in mancanza di detti documenti, dalla data attestata dallo stesso contribuente sulla dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà richiesta dall'Agenzia delle entrate con apposito provvedimento (n. 149646/E/2011).
Il tetto di spese su cui calcolare la detrazione del 50% è stato fissato in 10 mila euro e la spalmatura del bonus deve avvenire, per tutti i contribuenti, a prescindere dall'età, in dieci anni, con la conseguenza che per ogni periodo d'imposta il beneficiario potrà detrarre un massimo di 500 euro.
In secondo luogo, la circolare precisa che possono essere agevolati, a titolo meramente esemplificativo, letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani, poltrone e credenze, con esclusione delle porte, del parquet, delle tende e di altri complementi da arredo, purché nuovi e ancorché collocati in un vano diverso da quello oggetto della ristrutturazione.
Peraltro, si parla anche di arredi destinati alle parti condominiali come le portinerie, gli appartamenti del portiere, i lavatoi condominiali e le sale destinate alle riunioni condominiali, purché si sia in presenza, anche in questo caso, di interventi di ristrutturazione, con la conseguenza però che in presenza di lavori condominiali il singolo condomino non può duplicare il bonus se destinatario pro quota della detrazione sulle parti a comune.
Posto che per fruire della detrazione per il recupero del patrimonio edilizio è necessario eseguire i pagamenti con modalità tracciabili (bonifici bancari e postali) mentre non è più necessario, a partire dal 2011, eseguire la comunicazione al Centro operativo di Pescara e indicare il costo della manodopera in fattura, l'Agenzia delle entrate, «per esigenze legate alla semplificazione legate alla tipologia dei beni» ammette che il pagamento degli arredi possa avvenire anche con utilizzo di carte di credito e di debito, ma non in contanti o con assegni bancari.
Naturalmente, ai fini della verifica della data di sostenimento della spesa la stessa Agenzia precisa che vale la data di pagamento rilevabile dalla ricevuta telematica di avvenuta transazione e non quella del giorno di addebito sul conto corrente (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIACirillo (Minambiente): nessuna proroga sull'entrata in vigore. Subito i collaudi. Presto semplificazioni.
Sistri, sanzioni light per gli illeciti colposi.
Nessun rinvio sull'attivazione del Sistri. Il sistema telematico di tracciabilità dei rifiuti scatterà dal primo ottobre per chi tratta rifiuti pericolosi. Dal 03.03.2014, invece, per i cosiddetti produttori iniziali di rifiuti pericolosi e per comuni e imprese che trasportano rifiuti urbani in Campania. Per il secondo scaglione sarà possibile uno slittamento di ulteriori sei mesi solo in caso di messa in opera di semplificazioni operative nel frattempo raggiunte.

Una apertura sostanziale giunge, invece, dal ministero dell'Ambiente, ad «ampliare ulteriormente, in sede di emendamenti al decreto-legge (il n. 101 del 31.08.2013, atteso alla conversione in legge), la soglia di non punibilità, purché si tratti di illeciti colposi».
A dirlo è il sottosegretario all'ambiente, Marco Flavio Cirillo, rispondendo lunedì scorso in commissione ambiente, territorio e lavori pubblici alla Camera, a una interrogazione fatta da Ermete Realacci su eventuali proroghe dell'ultim'ora. Cirillo ha chiuso però a ogni ipotesi di «deroghe alla punibilità di illeciti dolosi (quale ad esempio la consapevole e voluta non iscrizione al sistema)». Eventuali ammorbidimenti in tal senso», ha detto, «non possono essere consentiti».
Obblighi. L'articolo 11 del dl 101/2013 -che, tra le altre cose, ha modificato i primi tre commi dell'art. 188-ter del dlgs 152/2006, restringendo la platea di soggetti obbligati ad aderire al Sistri- ha disposto che il sistema sarà obbligatorio per:
- produttori iniziali di rifiuti pericolosi;
- enti e imprese che raccolgono o trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale;
- enti e imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti pericolosi, (inclusi i nuovi produttori).
I produttori e i gestori dei rifiuti diversi da quelli suddetti potranno, invece, usare il sistema di tracciabilità su base volontaria.
Tempistica. L'avvio del Sistri dal primo ottobre scatterà per quasi tutti i soggetti obbligati, con la sola esclusione dei produttori iniziali di rifiuti pericolosi e dei comuni e delle imprese di trasporto dei rifiuti urbani della regione Campania. Per questi ultimi il sistema sarà d'obbligo dal 03.03.2014. È prevista, però, la possibilità di un differimento ulteriore di sei mesi rispetto al 3 marzo, qualora si rendesse necessario applicare alcune semplificazioni che si prevede vengano introdotte nei primi mesi di avvio del sistema.
A tal proposito, Cirillo svela che «attraverso una normativa secondaria, verranno individuate ulteriori semplificazioni tese a razionalizzare il sistema di tracciabilità per la gestione e la movimentazione dei rifiuti in modo da renderlo semplice, efficace e trasparente e senza sovraccarichi organizzativi da parte delle aziende, anche al fine di eliminare gli strumenti più contestati dagli utenti, vale a dire la cosiddetta black box e la chiavetta Usb». Non solo. Intervenendo sul funzionamento telematico, il sottosegretario avverte: c'è la «possibilità che la piattaforma informatica del Sistri confluisca in un sistema informativo più ampio a servizio della pubblica amministrazione».
I problemi tecnici. A riguardo, Cirillo ha annunciato che verrà fatto «un collaudo, finora non svolto sulla base della convinzione, ad avviso di questo ministro errata, che una concessione di servizio pubblico (così è stato configurato il contratto con Selex) non necessiti di collaudo». Il ministero, ha aggiunto il sottosegretario, «vuole finalmente vederci chiaro, e verificare (...) se il sistema è in grado di funzionare».
Così, al collaudo iniziale potrebbero seguire futuri collaudi «via via che verranno introdotte semplificazioni periodiche del sistema». E sui costi contrattuali finora sostenuti? Anche qui, dice Cirillo ai deputati, «il ministero vuole vederci chiaro». Per questo ha previsto «una attività di audit che diventa condizione essenziale per procedere ai pagamenti richiesti dalla società contraente».
La situazione attuale. Dopo la costituzione del tavolo tecnico, avvenuta con decreto ministeriale il 16 settembre scorso, si stanno calendarizzando le riunioni per il percorso di semplificazione. Le operazioni di collaudo annunciate verranno effettuate da una commissione, che Cirillo descrive «istituita con profili professionali selezionati». Questa dovrà verificare e certificare la corretta esecuzione (secondo la tempistica prevista) delle prestazioni definite nel contratto stipulato con la società di gestione il 14.12.2009, poi integrato il 10.11.2010.
La reazione di Rete Imprese Italia. Cesare Fumagalli, segretario generale Confartigianato, intervenuto ieri a nome del sodalizio di imprese in audizione al senato sulla conversione in legge del dl 101/2013, ha bollato come «inopportuno riavviare il Sistri». Di più, ha detto: «Va sostituto con un nuovo sistema di tracciabilità che risponda a criteri di efficienza, trasparenza, economicità e semplicità». Nell'attesa ha chiesto che parta in via sperimentale nel 2014 per produttori iniziali di rifiuti pericolosi, enti e imprese che trasportano rifiuti pericolosi a titolo professionale (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI: Appalti fuori dal caos. Alla Corte dei conti il dm sui nuovi parametri. Il Consiglio di stato ha dato il via libera al decreto. Stop ai ribassi dell'80%.
Gare di appalto fuori dal caos. Si avvia al tramonto l'era in cui le stazioni appaltanti si presentavano alle gare offrendo progettazione ed esecuzione delle opere a prezzi stracciati, con ribassi anche dell'80% rispetto al prezzo iniziale.
Dopo il via libera del Consiglio di stato dei giorni scorsi, infatti, il decreto ministeriale che determina «i corrispettivi a base di gare per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria», sia avvia a saltare l'ultimo ostacolo: il visto di legittimità della Corte dei conti, alla cui attenzione è attualmente.
Un regolamento dalla gestione complicata dopo un anno di rinvii, tra bocciature di organi controllo e fine anticipata della legislatura, ma comunque necessario per superare, come rileva il Consiglio di stato nel suo recente parere n. 3626/2013, «la situazione di indeterminatezza venutasi a creare a seguito dell'elaborazione di tutta la disciplina in materia di tariffe professionali».
Il punto di partenza. Il decreto liberalizzazioni (n. 1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le procedure per l'affidamento. Un'assenza di regole denunciata a gran voce dalle professioni tecniche che alimentava un'eccessiva discrezionalità delle stazioni appaltanti e poca trasparenza nelle gare d'appalto.
Proprio questo un intervento del governo Monti, per dare avvio alla normalizzazione degli appalti, aveva inserito nel Decreto sviluppo un articolo che prevedeva un decreto interministeriale per la definizione e l'applicazione di parametri individuati per i corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi tecnici.
Nel decreto sviluppo veniva specificato che il nuovo sistema di parametri tariffari non doveva determinare un importo a base di gara maggiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti (dm 04/04/2001), prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto. Ma era stato proprio questo passaggio a determinare uno dei primi motivi di stop al provvedimento.
Il complicato iter del provvedimento. Secondo il primo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici e poi dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, infatti, gli onorari calcolati con quei parametri sarebbero potuti risultare più alti di quelli determinati dalle vecchie tariffe professionali. Ma non solo, perché il Cslp aveva suggerito anche ai ministeri competenti (giustizia e infrastrutture) di precisare nel testo del regolamento che «compete al responsabile del procedimento accertare che il corrispettivo da porre a base di gara non superi quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del provvedimento».
In sostanza secondo il Consiglio superiore la stazione appaltante dovrebbe affidare al Rup (Responsabile unico del procedimento) il compito di verificare, in fase di predisposizione degli atti di gara, che le vecchie tariffe ormai abrogate non sarebbero state superate, procedendo sempre e comunque, ad accertare per ogni singola ipotesi di affidamento il rispetto del calmiere imposto dalla legge n. 27/2012. Ma questo passaggio secondo l'ufficio legislativo del ministero della giustizia, avrebbe rappresentato una complicazione burocratica inutile e anche non opportuna sul versante della spesa.
Piuttosto, secondo il parere del Consiglio di stato il ministero potrebbe eventualmente aggiungere una formula differente specificando che «il rispetto del vincolo è garantito dalla stazione appaltante», formula che dicono i giudici di Palazzo Spada «sembra più adeguatamente soddisfare le esigenze rappresentate nei pareri e contestualmente considera nel dovuto conto le precisazioni ministeriali per evitare di rendere particolarmente onerosa l'attività amministrativa» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nuova conferenza di servizi per accelerare le pratiche.
Riformare l'istituto della conferenza di servizi per garantire tempi certi nelle decisioni della pubblica amministrazione e attrarre gli investimenti delle imprese, soprattutto straniere.
Il piano «Destinazione Italia», approvato dal consiglio dei ministri di ieri, parte dai dati della Banca Mondiale che confinano il nostro paese al 103° posto nella classifica della facilità di fare impresa. La colpa è delle lungaggini burocratiche che soprattutto in materia di appalti pubblici consentono con molta facilità a un'amministrazione di bloccare l'intero procedimento attraverso tecniche dilatorie.
Il documento, che resterà in consultazione sul sito del governo per un paio di settimane e poi sarà tradotto in un testo di non più di 50 articoli (come anticipato ieri dal ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato) prende finalmente atto del fallimento dell'istituto della conferenza dei servizi, disciplinato dalla legge n. 241/1990 per mettere attorno a un tavolo tutte le amministrazioni coinvolte in un procedimento autorizzativo. E ne propone una riforma che ruota attorno a poche (e chiare) regole, compreso il silenzio-assenso.
La nuova disciplina dovrà innanzitutto eliminare l'obbligo di presenza delle amministrazioni competenti che trasmettono all'amministrazione procedente il nulla osta preventivo. Si prevede poi l'obbligo di concentrazione in un'unica seduta delle istanze delle diverse amministrazioni coinvolte nel procedimento le quali dovranno partecipare ai lavori avendo già portato a termine la fase istruttoria al loro interno.
«Il problema dell'assenza di un'amministrazione», si legge nel piano, «dovrà essere superato con il meccanismo del silenzio-assenso». E i provvedimenti che scaturiscono dalla conferenza dovranno avere carattere immediatamente esecutivo e saranno pubblicati nei siti istituzionali delle amministrazioni coinvolte. Da ultimo il piano «Destinazione Italia» dà il definitivo via libera alla possibilità di condurre la conferenza in via telematica, eliminando le criticità fino ad oggi riscontrate (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALIAuto e consulenze, altra stretta. Congelati gli acquisti. Ridotta la spesa per studi e ricerche. Il giro di vite del dl 101 si applica a tutte le p.a. comprese le regioni e gli enti locali.
Ulteriori strette agli acquisti delle auto e alla spesa per le consulenze sono contenute nell'articolo 1 del dl n. 101/2013. Queste strette si applicano a tutte le pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti locali e le regioni.

Si deve arrivare a questa conclusione sulla base della formulazione utilizzata dal legislatore e della esplicita indicazione contenuta nell'ultimo comma dello stesso articolo: queste sono disposizioni, nel contempo, di attuazione di principi costituzionali e di coordinamento della finanza pubblica, per cui sono materie riservate alla competenza legislativa dello stato.
In primo luogo la disposizione prevede l'allungamento a tutto il 2015 (in precedenza il termine era fissato per la fine del 2014) del divieto per le p.a. di acquistare autovetture. Questo divieto non si applica solamente nei casi espressamente previsti dalla normativa, tra cui ricordiamo gli automezzi utilizzati dai vigili urbani, quelli necessari ai servizi sociali e, nelle interpretazioni prevalenti, quelli utilizzati dalla protezione civile. Occorre ricordare che questo divieto non si estende agli automezzi diversi dalle autovetture, quali per esempio gli scuolabus, i motocarri ecc.
La disposizione chiarisce che per determinare il tetto alla spesa per l'esercizio delle autovetture (tetto che viene calcolato nella percentuale del 50% di quelle sostenute nel 2010 allo stesso titolo) non devono essere conteggiate le somme utilizzate per il loro acquisto. Il che determina di fatto un'ulteriore contrazione delle risorse utilizzabili a questo fine e obbliga le amministrazioni pubbliche a realizzare un'effettiva riduzione del numero delle proprie automobili. Ancora una volta si deve sottolineare che questa scelta non tiene conto né della condizione dei piccoli comuni, in cui spesso vi è una sola autovettura, né della virtuosità della gestione precedente: infatti le modalità di calcolo del taglio sono indifferenziate, per cui gli spreconi sono equiparati ai virtuosi.
Inoltre tutte le amministrazioni devono partecipare al censimento delle autovetture della funzione pubblica: le inadempienze sono sanzionate sia in capo agli enti (taglio ulteriore delle spese per questa finalità) sia in capo ai responsabili (maturazione di responsabilità dirigenziale). Le norme sulle autovetture, come quelle sulle consulenze e sulle assunzioni flessibili, si concludono stabilendo la nullità degli atti adottati in violazione del dettato legislativo, nonché irrogando specifiche sanzioni e stabilendo il maturare di responsabilità amministrativa e dirigenziale: come si vede un insieme di sanzioni assai rigide.
Viene disposta la riduzione del 10% del tetto per la spesa che poteva essere sostenuta nell'anno 2013 per le consulenze e gli studi, nonché implicitamente per le ricerche: da evidenziare che il tetto non viene calcolato sulla spesa effettiva, ma su quella teorica.
Ricordiamo che il tetto della spesa 2013 è pari al 20% della spesa sostenuta allo stesso titolo nell'anno 2009 e che, sulla base delle indicazioni dettate dalla Corte costituzionale, gli enti locali e le regioni possono superare tale tetto a condizione che complessivamente garantiscano il rispetto dei tetti di spesa previsti dall'articolo 7 del citato dl n. 78/2010 (tagli alla formazione, alla pubblicità, alla rappresentanza, alle missioni ecc).
Si deve ritenere che questa indicazioni continui a essere applicabile in quanto elemento intrinsecamente collegato alla autonomia garantita dalla Costituzione a questi livelli istituzionali. Una novità assai rilevante è al riguardo costituita dalla non applicazione di tale tetto agli «incarichi di studio e consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stabilizzazioni a rischio corruzione. La Civit avverte: non abusare della procedura.
Stabilizzazioni a rischio di corruzione. Mentre il governo, col decreto legge n.101/2013 ha inaugurato una nuova stagione di procedure speciali per assumere a tempo indeterminato alcuni dei circa 150.000 precari del pubblico impiego, contestualmente la Civit in veste di Autorità nazionale anticorruzione mette sull'avviso dei rischi corruttivi sottesi all'operazione.
Detto rischio non dipende necessariamente dalla commissione del reato, dal momento che, sempre secondo la Civit e quanto indica nel piano nazionale anticorruzione «le situazioni rilevanti sono più ampie della fattispecie penalistica, che è disciplinata negli artt. 318, 319 e 319-ter, codice penale, e sono tali da comprendere non solo l'intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione disciplinati nel Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche le situazioni in cui, a prescindere dalla rilevanza penale, venga in evidenza un malfunzionamento dell'amministrazione a causa dell'uso a fini privati delle funzioni attribuite ovvero l'inquinamento dell'azione amministrativa ab externo, sia che tale azione abbia successo sia nel caso in cui rimanga a livello di tentativo».
L'Allegato 3 al piano nazionale anticorruzione contiene un elenco esemplificativo dei rischi di corruzione che si annidano all'interno delle aree considerate dalla legge più esposte, tra le quali proprio le procedure di reclutamento dei dipendenti.
Tra i rischi specifici, la Civit ha individuato l'«abuso nei processi di stabilizzazione finalizzato al reclutamento di candidati particolari».
Ovviamente, simile pericolo corruttivo dipende in maniera molto diretta ed evidente dal sistema di selezione.
Infatti, il grado di «abuso» è tanto più teoricamente elevato, quanto più la selezione precostituisca a tavolino l'esito.
Sta di fatto che il decreto legge 101/2013 nell'aver indicato quali destinatari delle stabilizzazioni coloro che avevano i requisiti fissati dalle leggi finanziarie 2007 e 2008 e chi abbia tre anni di servizio nell'ultimo quinquennio col medesimo ente che vuole stabilizzare, ha previsto di procedere alle assunzioni a tempo indeterminato mediante concorsi interamente riservati.
In teoria, si tratta esattamente dello strumento meno consigliabile, per sventare il rischio evidenziato dalla Civit. Infatti, specie negli enti di minori dimensioni, laddove i possibili precari aventi i requisiti siano pochi, saranno ammissibili anche concorsi interamente riservati in linea teorica anche a un solo posto, col risultato scritto prima ancora di avviare la selezione.
Insomma, una bella contraddizione tra gli strumenti anticorruzione previsti dal piano nazionale e le disposizioni normative (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi gratuiti senza comunicazione. Si allentano le maglie anticorruzione nella p.a..
La Civit allenta le maglie dell'anticorruzione sugli incarichi ai dipendenti pubblici.
L'allegato 1 al piano nazionale anticorruzione contiene un importante chiarimento sugli adempimenti derivanti dalle modifiche apportate dalla legge 190/2012 all'articolo 53 del dlgs 165/2001. In particolare, l'allegato 1 si riferisce al comma 12 del citato articolo 53, ai sensi del quale le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi, anche a titolo gratuito, ai propri dipendenti comunicano in via telematica, nel termine di 15 giorni, al dipartimento della funzione pubblica gli incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti stessi, con l'indicazione dell'oggetto dell'incarico e del compenso lordo, ove previsto.
Molte amministrazioni hanno inteso in senso estensivo la disposizione, e hanno imposto ai dipendenti di comunicare, per il successivo inoltro a Palazzo Vidoni, ogni genere di «incarico» gratuito, anche quelli afferenti allo sport o al tempo libero. La Civit, in veste di Autorità nazionale anticorruzione mitiga di molto simile impostazione e spiega che «gli incarichi a titolo gratuito da comunicare all'amministrazione sono solo quelli che il dipendente è chiamato a svolgere in considerazione della professionalità che lo caratterizza all'interno dell'amministrazione di appartenenza». Si deve trattare, dunque, di incarichi che, per quanto gratuiti, possano comunque fondare anche solo una parvenza di conflitto di interessi, l'interesse, cioè, di una relazione particolarmente stretta tra dipendente pubblico e incaricante allo svolgimento di un'attività comune, magari inopportuna in relazione alle competenze d'ufficio dell'incaricato.
Per questa ragione, secondo la Civit, per esempio, «non deve essere oggetto di comunicazione all'amministrazione lo svolgimento di un incarico gratuito di docenza in una scuola di danza da parte di un funzionario amministrativo di un ministero, poiché tale attività è svolta a tempo libero e non è connessa in nessun modo con la sua professionalità di funzionario».
Allo stesso modo, nessuna comunicazione deve essere rivolta alla Civit per quella serie di incarichi che l'articolo 53, comma 6, del dlgs 165/2001 sottrae alla preventiva autorizzazione e cioè della collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; dell'utilizzazione economica di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; della partecipazione a convegni e seminari; di incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; di incarichi svolti in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione.
L'Allegato 1 al piano nazionale anticorruzione chiarisce che «continua comunque a rimanere estraneo al regime delle autorizzazioni e comunicazioni l'espletamento degli incarichi espressamente menzionati nelle lettere da a) ad f-bis) del comma 6 dell'art. 53 del dlgs n. 165 del 2001, per i quali il legislatore ha compiuto a priori una valutazione di non incompatibilità; essi, pertanto, non debbono essere autorizzati né comunicati» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2013).

VARIBonus mobili. Purché un bonifico sia stato fatto dopo il 25.06.2012. Sconto sugli arredi anche per «vecchi» lavori.
La detrazione Irpef del 50% sull'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici spetta per i pagamenti effettuati con bonifico "parlante", carta di credito o di debito (bancomat) dal 06.06.2013 al 31.12.2013, solo se durante il periodo che va dal 26.06.2012 al 31.12.2013 sono state pagate sempre con bonifico "parlante" anche spese per interventi di recupero edilizio, che siano iniziati prima del pagamento per i mobili e detraibili dall'Irpef al 50% (articolo 16-bis, Tuir, relativo al bonus del 36%).
Valgono quindi le spese per i mobili anche se i lavori sono già finiti o iniziati anche parecchio tempo fa, purché almeno uno dei bonifici relativi a questi lavori sia stato fatto dopo il 25.06.2012.
Le date dei pagamenti
L'incentivo del 50% per l'acquisto dei mobili e grandi elettrodomestici è concesso solo «ai contribuenti che fruiscono della detrazione» del 50% sugli interventi per il recupero del patrimonio edilizio. Secondo la circolare dell'agenzia delle Entrate del 18.09.2013, n. 29/E, i pagamenti sulle ristrutturazioni, rilevanti ai fini del bonus mobili/elettrodomestici, sono solo quelli che vanno dal 26.06.2012 al 31.12.2013, rimanendo esclusi solo quelli effettuati prima del 26.06.2012 e detraibili al 36 per cento.
Inizio lavori e bonifici
L'agenzia delle Entrate, coerentemente con quanto precisato nella circolare 23.04.2010, n. 21/E, paragrafo 2.1, per la precedente detrazione Irpef del 20% per l'acquisto di mobili, elettrodomestici, tv e pc, pagati dal 07.02.2009 fino al 31.12.2009 (articolo 2, decreto legge 10.02.2009, n. 5), ha precisato che per poter fruire della nuova detrazione Irpef del 50% sulle spese sostenute per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici è necessario che il pagamento per il loro acquisto avvenga dopo che siano iniziati i lavori di ristrutturazione dell'immobile da arredare.
Quindi, «la data di inizio lavori deve essere anteriore a quella in cui sono sostenute» (cioè, pagate) le «spese per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici, ma non è necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute» (cioè, pagate) «prima di quelle per l'arredo dell'abitazione».
Le date dei pagamenti rilevanti per le due agevolazioni (mobili/elettrodomestici e ristrutturazioni), quindi, sono indipendenti tra loro, a patto che siano effettuati nei relativi periodi agevolati. Secondo le Entrate, per il bonus mobili ed elettrodomestici, questo periodo va dal 06.06.2013 al 31.12.2013 (quest'ultima data, peraltro, non indicata nella norma), mentre per le ristrutturazioni, i bonifici, rilevanti come condizione per l'incentivo sui mobili (oltre che per la detrazione delle 50% per il recupero del patrimonio edilizio, al posto del 36), devono essere effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013.
Con le carte niente ritenuta
Il bonifico "parlante" non è più l'unico metodo di pagamento obbligatorio per beneficiare della detrazione Irpef del 50% sull'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, da adibire ai fabbricati ristrutturati. La circolare dell'agenzia delle Entrate n. 29/E/2013, infatti, ha concesso la possibilità di utilizzare anche le carte di credito ed il bancomat. Non sono agevolati fiscalmente, invece, i pagamenti tramite assegno o in contanti.
I vari metodi di pagamento concessi (bonifico o carte elettroniche), però, non sono indifferenti per il negoziante o l'artigiano che fornisce i beni agevolati, in quanto la ritenuta d'acconto del 4% può essere evitata solo se si incassa tramite carta di credito o bancomat. In questi casi, infatti, non vi è alcuna specifica causale da indicare nella transazione elettronica e la banca di accredito non trattiene la ritenuta del 4% sull'importo incassato.
Se si effettua il pagamento tramite bonifico bancario o postale, invece, secondo le Entrate, anche per i mobili e gli elettrodomestici, è obbligatorio indicare nella causale del pagamento l'articolo 16-bis, Tuir, oltre che i codici fiscali dei beneficiari del bonifico e della detrazione. Quando la banca di accredito riceve il bonifico con queste causali, infatti, deve trattenere e versare all'Erario la ritenuta d'acconto del 4 per cento (articolo Il Sole 24 Ore del 20.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIGiustizia. Ritorna l'obbligo di provare la strada della conciliazione: test di quattro anni sul nuovo percorso
La mediazione prova a ripartire. Spazio alle controversie sanitarie - Escluse le liti sugli incidenti stradali.
I PROFESSIONISTI/ Vincolo di assistenza legale per tutto il procedimento. Agli avvocati viene riconosciuto di diritto il titolo di mediatore.

Ritorna in pista la conciliazione obbligatoria. Prima di potere agire in giudizio andrà cioè almeno fatto un tentativo stragiudiziale di accordo. Non in tutte le materie del contenzioso civile, ma solo in alcune. Tra queste il condominio, i diritti reali, le successioni, i contratti bancari e finanziari, la responsabilità in campo sanitario.
La nuova versione, introdotta dal decreto del Fare per rimediare alla situazione di impasse venutasi a creare dopo che, poco meno di un anno fa, la Corte costituzionale aveva bocciato sotto alcuni profili il precedente modello da pochi mesi in vigore, punta al rilancio di un istituto considerato dal ministero della Giustizia cruciale per affrontare i carichi di lavoro degli uffici giudiziari.
E ieri, su questi punti, è arrivato il consenso del vertice della magistratura. Il presidente della Corte di cassazione, Giorgio Santacroce, anche a proposito dell'ostilità diffusa nei confronti dell'istituito soprattutto tra gli avvocati, ha invitato a riflettere su «quante spese ci sono dietro una causa da 30 euro. Quando mi dicono che è una questione di principio rispondo che non si possono fare questioni di principio di questo tipo intasando la giustizia. All'estero ci guardano come marziani perché lì le liti di condominio non arrivano in tribunale». E in termini più tecnici, ha precisato che «la nuova mediazione introdotta dal governo non va vista come una riproposizione della legge bocciata alla Consulta come qualcuno sostiene ma come uno strumento di accesso alla giustizia».
Rispetto alla precedente versione, le modifiche non sono poche e neppure irrilevanti.
Tra le principali c'è la modifica al perimetro delle materie interessate, con l'uscita delle controversie sul risarcimento danni da incidenti stradali (oggi gestite in larga parte le compagnie assicurative) e l'ampliamento della responsabilità dal campo "solo" medico a quello sanitario tout court.
Delimitati i confini, la nuova mediazione ha, per ora, un orizzonte di tempo ben preciso. Questo modello infatti avrà a disposizione 4 anni per una verifica più compiuta in termini di efficacia, per accertare se, quanto emerso prima del verdetto della Consulta è destinato a ripetersi ora. E cioè: molti procedimenti interessati, pochi nei quali le parti si presentano e tra questi pochi una percentuale di successo discreta con il raggiungimento dell'accordo. Sempre in termini di durata, ma questa volta in termini di contenimento della lunghezza del procedimento di conciliazione, viene stabilito un limite massimo di 3 mesi.
Nel tentativo di superare o, almeno, di aggirare l'avversione del mondo forense (senza peraltro grandi risultati stando alle dichiarazioni delle associazioni di categoria registrate in questi giorni) la conciliazione da oggi operativa ha introdotto l'obbligo di assistenza legale nel corso di tutto il procedimento e ha riconosciuto all'avvocato il "titolo" di mediatore di diritto; restano tuttavia fermi gli obblighi di formazione e aggiornamento per chi è iscritto nell'elenco degli organismi di mediazione. Al verbale di intesa, se sottoscritto dai legali che ne attestano la legittimità e regolarità, è poi attribuito il valore di titolo esecutivo.
L'intervento taglia anche i costi e modifica la procedura, rafforzando il primo incontro tra le parti, che a questo punto dovrebbero essere incoraggiate a partecipare. Già nel primo appuntamento infatti, è possibile la constatazione dell'impossibilità di raggiungere un accordo e quindi della sola possibilità della via giudiziaria.
In caso di questo esito negativo allora nulla è dovuto a titolo di compenso all'organismo di mediazione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, semplificazioni in serie. Tre anni in più per le autorizzazioni paesaggistiche. Le modifiche al dl cultura introdotte al senato. Teatri senza spending review.
Meno pratiche edilizie e paesaggistiche. Un emendamento al decreto cultura, allungando di tre anni il termine di efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche, integra una norma del decreto del fare (n. 69/2013), che già aveva prorogato di un biennio l'efficacia dei permessi di costruire e degli altri titoli edilizi (Dia, Scia).
Il decreto del fare, in particolare, ha stabilito che l'interessato ha la possibilità di comunicare all'ufficio tecnico la propria decisione di avvalersi della proroga di legge. L'effetto di questa comunicazione è che sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formati prima del decreto del Fare e, naturalmente a condizione che i termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato.
Altro presupposto è che i titoli abilitativi non siano in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. Il decreto del Fare ha comunque lasciato mano libera alle regioni di regolamentarsi diversamente e ha incluso nella proroga anche le convenzioni di lottizzazione e accordi similari.
Con una aggiunta di carattere tecnico, l'emendamento approvato in commissione istruzione e beni culturali al senato aggiunge che anche l'autorizzazione paesaggistica vede prolungata ex lege la sua efficacia: l'emendamento proroga di tre anni il termine delle autorizzazioni paesaggistiche in corso di efficacia.
Con le proroghe in questione si possono proseguire i lavori senza nuova pratica edilizia e di autorizzazione paesaggistica.
Con altro emendamento si limita la possibilità di concludere i lavori iniziati nel quinquennio di validità della autorizzazione paesaggistica: nella versione attuale l'autorizzazione si considera efficace per tutta la durata degli stessi (senza limite), mentre nella versione emendata si mette il termine dell'anno successivo alla scadenza del quinquennio.
Rispetto al testo originario del decreto, messo a punto dal governo l'8 agosto per avviare il rilancio dei beni culturali e del turismo con una particolare attenzione al sito di Pompei, gli emendamenti approvati in commissione al senato introducono numerose disposizioni di favore per gli enti senza scopo di lucro che operano nel settore dello spettacolo. A cominciare dall'allentamento della morsa fiscale. Vediamole nel dettaglio.
Interessi di mora ridotti. Gli enti in ritardo nei pagamenti delle somme iscritte a ruolo vedranno ridotti di un quinto gli interessi di mora e quelli per dilazioni di pagamento. Inoltre, le sanzioni per ritardati pagamenti delle ritenute d'acconto dovute in qualità di sostituto d'imposta saranno azzerate in presenza di regolare dichiarazione e se il mancato pagamento è stato originato da obiettive difficoltà economiche dell'azienda. Previsto anche un aggio ridotto per gli agenti della riscossione (1%), Equitalia compresa.
Niente spending review per i teatri. I teatri e gli enti pubblici e privati operanti nei settori dei beni e delle attività culturali non saranno affatto soggetti alla spending review. Lo prevede un emendamento approvato al senato che esonera gli enti di cui sopra dall'obbligo di ridurre la spesa per consumi intermedi. Il testo originario del decreto prevedeva invece un obbligo di risparmio dell'8%. La misura vale 10 milioni di euro rispetto ai 4 dell'intervento precedente.
Bilanci delle fondazioni lirico-sinfoniche. Le fondazioni lirico-sinfoniche avranno sei mesi di tempo in più (dal 31.12.2013 al 30.06.2014) per adeguare i propri statuti.
Eventi con la Scia. Non servirà più la licenza del questore per organizzare in luogo pubblico o aperto al pubblico, accademie, feste da ballo, corse di cavalli o altri simili eventi. Per manifestazioni fino a un massimo di 200 partecipanti e che si sviluppano entro le ore 24 del giorno di inizio, la licenza è infatti sostituita dalla segnalazione certificata di inizio attività (articolo ItaliaOggi del 19.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli atti, vince la privacy. Non si possono chiedere documenti con dati sanitari. Il Garante limita il diritto dei consiglieri da sempre ammesso con larghezza dai Tar.
Freno all'accesso dei consiglieri regionali e degli enti locali. Se chiedono documenti contenenti dati sanitari si deve tutelare la privacy degli interessati: ad esempio oscurando i nominativi oppure consentendo agli interessati di opporsi.

Le precauzioni per un bilanciamento tra diritto del politico, a ottenere le informazioni utili al mandato, e il diritto del cittadino alla propria riservatezza sono indicate dal Garante della privacy con il provvedimento 25.07.2013 n. 369 (pubblicato sulla newsletter di ieri).
Le soluzioni individuate dal garante mostrano profili di novità rispetto alla giurisprudenza amministrativa che ammette con larghezza l'accesso del consigliere, al massimo individuando limitazioni di carattere procedurale o formale. Vediamo, dunque, come devono comportarsi le amministrazioni regionali e locali (comuni e province) per adeguarsi al provvedimento in esame. Rimane fermo che la richiesta del consigliere non deve essere motivata: basta l'autodichiarazione di utilità delle informazioni richieste al mandato.
Una variazione rispetto alla giurisprudenza maggioritaria sta nel fatto che, secondo il garante, all'amministrazione destinataria dell'istanza spetta entrare nel merito della valutazione della richiesta e valutare se la richiesta del consigliere ha ad oggetto informazioni pertinenti con il mandato e, nel caso di dati sensibili, se le informazioni richieste sono indispensabili sempre per il mandato. In applicazione di questi principi il garante ha impartito stringenti prescrizioni con riferimento a due casi concreti, attinenti a dati sanitari. Nel primo caso il presidente di un consiglio regionale aveva chiesto di conoscere i nominativi del personale medico e infermieristico di Asl e ospedali giudicato inabile a svolgere alcune mansioni, e di visionare le certificazioni.
Richiamando il principio di indispensabilità il garante ha prescritto l'oscuramento dei nominativi del personale inabile. In un secondo caso un consigliere regionale aveva richiesto alla Asl l'accesso alla cartella clinica di un paziente sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Il garante ha disposto che il consigliere regionale può accedere alla cartella clinica del paziente, solo dopo avere interpellato l'interessato o il suo legale rappresentante. Quest'ultimo, infatti, può opporsi per motivi legittimi al trattamento di informazioni che lo riguardano.
Va osservato, tuttavia, che il Testo Unico per gli enti locali (dlgs 267/2000), all'articolo 43, si accontenta della semplice utilità dei dati (anche sensibili) richiesti dal consigliere e non pretende l'indispensabilità né disciplina l'interpello preventivo dell'interessato: la pronuncia del garante, quindi, innalza il livello di tutela del privato e restringe l'interpretazione dell'articolo 43 citato, in senso contrario a una giurisprudenza amministrativa di regola molto più lassista in considerazione della funzione pubblica svolta dal consigliere.
Infine si nota che la valutazione di merito della pertinenza della richiesta attenua e di molto la regola della non necessità di motivarla: senza motivazione, infatti, non ci può essere motivato controllo dell'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 18.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Palazzo Vidoni: chi ha maturato i requisiti deve andar via. P.a., la pensione non può attendere.
Stop al rinvio della pensione per restare in servizio fino a 70 anni. Gli impiegati pubblici che hanno maturato un qualsiasi diritto a pensione entro l'anno 2011 infatti «devono» essere licenziati dalla p.a..

Lo afferma la Funzione pubblica nella nota 16.09.2013 n. 41876 di prot., spiegando che il dl n. 101/2013 ha restituito validità alla circolare n. 2/2012 annullata dal Tar Lazio. I lavoratori che hanno maturato il diritto alla pensione pertanto devono mettersi a riposo, non avendo più la facoltà di chiedere la permanenza in servizio fino al limite ordinamentale.
La questione è scaturita dalla riforma delle pensioni Fornero del 2011. Con riferimento al settore del pubblico impiego il dl n. 201/2011 (convertito in legge n. 214/2011: la riforma Fornero) ha previsto una deroga stabilendo che continua a valere la vecchia disciplina per quei dipendenti che maturino i requisiti di pensione entro il 31.12.2011. La deroga è stata spiegata dalla Funzione pubblica nella circolare n. 2/2012 condivisa con i ministeri del lavoro, dell'economia e della p.a., nonché con l'Inps (si veda ItaliaOggi del 9 e 10.03.2012).
Da quella deroga la circolare ne aveva tratto l'obbligo a carico delle p.a. di collocare a riposo, a partire dall'anno 2012, al compimento di 65 anni (limite ordinamentale), i dipendenti in possesso nell'anno 2011 della massima anzianità contributiva (40 anni) o della quota 96 o comunque dei requisiti per una pensione, in tal modo abrogando implicitamente anche la facoltà della permanenza in servizio fino a 70 anni. Successivamente, però, la circolare è stata annullata dal Tar del Lazio che con la sentenza n. 2446/2013 ha riabilitato la possibilità per i dipendenti pubblici di rimanere in servizio fino a 70 anni (si veda ItaliaOggi del 25.06.2013).
A mettere la parola fine, però, ci ha pensato il dl n. 101/2013 (si veda ItaliaOggi del 4 settembre scorso). Come conferma adesso la Funzione pubblica nella nota in risposta al quesito della regione Veneto, il decreto dà l'interpretazione autentica alla deroga della riforma Fornero con la duplice conseguenza di riabilitare, da un lato, le indicazioni della Funzione pubblica fornite nella circolare n. 2/2012 e si far decadere, dall'altro, il dispositivo della sentenza Tar del Lazio.
Il dl n. 101/2013 precisa, in particolare, che la deroga della riforma Fornero va interpretata nel senso che «per i lavoratori dipendenti delle pa il limite ordinamentale (_) costituisce limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata al raggiungimento del quale l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione» (articolo ItaliaOggi del 18.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Previdenza. La Funzione pubblica ribadisce il vincolo grazie alla disposizione interpretativa contenuta nel decreto 101/2013.
Nella Pa pensione senza deroghe. Obbligatorio il collocamento a riposo dei dipendenti con i requisiti pre-riforma.
LE CONSEGUENZE/ Gli uffici devono riprendere i propri provvedimenti che erano stati fermati in autotutela dopo la sentenza 2446 del Tar
In pensione a 65 anni, o a 70 quando lo prevedono regole di settore come accade nell'università o nella magistratura. La via è obbligata, e non ammette eccezioni, per i lavoratori del pubblico impiego che al 31.12.2011 avevano raggiunto un qualsiasi requisito pensionistico (anzianità o vecchiaia) precedente alla riforma Fornero, e che di conseguenza non possono veder spostato in avanti il calendario del proprio «collocamento a riposo» in virtù delle nuove regole.

Rispondendo a una richiesta di chiarimenti avanzata dalla direzione risorse umane della Regione Veneto, il dipartimento della Funzione pubblica, nella nota 16.09.2013 n. 41876 di prot. e firmata dal capo dipartimento Antonio Naddeo, ribadisce le indicazioni offerte a suo tempo dalla circolare 3/2012, ma lo fa con un'arma più potente: il richiamo all'articolo 2, commi 4 e 5 del decreto sul pubblico impiego (Dl 101/2013), pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 31 agosto scorso, che ha fissato per legge l'interpretazione fornita all'epoca dalla Funzione pubblica sull'obbligatorietà del collocamento a riposo nonostante i nuovi requisiti introdotti dalla riforma Fornero. Proprio da quella circolare era sorto un forte contenzioso, che aveva trovato la miccia al ministero della Giustizia ma aveva interessato tutti i settori del pubblico impiego.
Con la sentenza 2446 del 2013, il Tar del Lazio aveva dato ragione a un dipendente di Via Arenula che contestava il collocamento a riposo, e aveva quindi ottenuto dai giudici amministrativi la possibilità di fermarsi al lavoro fino al raggiungimento dei nuovi parametri. La nuova regola, contenuta al momento in un decreto legge ovviamente in attesa di conversione, è interpretativa e quindi ha valore retroattivo, chiudendo per ora la possibilità di altre controversie.
Tutto nasce da un incrocio fra le regole che, per ridurre la spesa di personale delle pubbliche amministrazioni, avevano spinto al collocamento a riposo obbligatorio per chi avesse raggiunto i requisiti previdenziali, e quelle (la riforma Fornero appunto) che per alleggerire gli oneri delle pensioni ne avevano cambiato i parametri. Nella sua pronuncia il Tar aveva ammesso che sia l'interpretazione della Funzione pubblica sia quella del dipendente avevano fondamento, ma aveva optato per quest'ultima "preferendo" la tutela del diritto individuale alla permanenza in servizio. La nuova norma chiude la questione, con l'effetto dunque di indurre le amministrazioni a far "rivivere" i collocamenti a riposo che avevano annullato in autotutela dopo la pronuncia del Tar (articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Mediazione obbligatoria al via. Il primo incontro sarà decisivo. Entra in vigore il 20/09 lo strumento rivisto dal dl Fare dopo la bocciatura della Consulta.
Riparte la mediazione obbligatoria. Entrano in vigore il 20 settembre le disposizioni contenute nel decreto del Fare (n. 69/2013) che reintroducono il tentativo di conciliazione come vincolo di procedibilità per le controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Si tratta, di fatto, della seconda vita dello strumento di giustizia alternativa dopo la bocciatura, da parte della Corte costituzionale, del dlgs n. 28/2010. Con diverse novità e tanti punti ancora oscuri. Anzitutto l'obbligo, per le parti, di essere assistite da un avvocato in camera di conciliazione. Obbligo che non è chiaro se debba considerarsi esteso anche alla mediazione di natura facoltativa o meno (si veda altro approfondimento a pag. 6).
A ogni modo, sta di fatto che la categoria che ha provocato con ricorsi e battaglie senza quartiere il fallimento della macchina messa in moto dal ministero della giustizia il 21.03.2011, si trova ora in prima fila per la «mediazione bis». Mentre, per quanto riguarda le criticità, gli organismi sono in attesa dei chiarimenti del ministero della giustizia, in particolare riguardo al primo fatidico incontro, introdotto dal dl del Fare come «filtro» preventivo, dato l'alto tasso di insuccesso registrato nella prima fase di vita dello strumento.
Mancano, soprattutto, indicazioni specifiche sui costi: se cioè l'incontro preliminare si debba ritenere totalmente gratuito o se siano comunque dovute le spese di segreteria, pari a 40 euro. Un'indicazione non da poco per gli organismi, che devono aggiornare i propri regolamenti e ancora non sanno come muoversi. Ma entriamo nel dettaglio.
Le novità. La nuova mediazione riparte «azzoppata» dal risarcimento danni da circolazione stradale, le cui controversie contavano ben il 20% sul totale. L'obbligatorietà, inoltre, avrà carattere sperimentale: durerà quattro anni e dopo due il ministero della giustizia farà un primo bilancio sulla riuscita o meno dello strumento. Ridotti tempi e costi, con la durata massima della mediazione fissata in tre mesi e la previsione della gratuità dell'incontro preliminare, che sarà informativo e di programmazione, in cui le parti, davanti al mediatore, verificano con il professionista se sussistano effettivi spazi per procedere utilmente alla mediazione. Questo perché il tasso di insuccesso della mediazione obbligatoria con aderente comparso, secondo le ultime stime del ministero della giustizia, era pari al 63,4%.
Avvocati in prima fila. La nuova mediazione obbligatoria è di fatto nelle mani degli avvocati. Il decreto del Fare, infatti, prevede che le parti si debbano presentare in camera di conciliazione assistite da un legale e, oltretutto, riconosce la possibilità di omologa dell'accordo agli stessi avvocati, che di fatto possono sostituirsi al giudice. I legali che esercitano la professione, inoltre, sono riconosciuti mediatori di diritto. In sostanza, quindi, se confrontiamo la partenza della prima fase della mediazione obbligatoria, il 21.03.2011, con centinaia di organismi privati pronti ad aggredire il nuovo business e gli avvocati in piazza a protestare, ora le parti sono quasi invertite.
Si aggiunga poi che, stando agli ultimi dati elaborati dal ministero della giustizia, da gennaio a marzo 2013 i 115 organismi di conciliazione degli ordini forensi hanno definito 3.325 procedimenti di mediazione, più della metà di quelli gestiti dai 692 organismi privati messi assieme (5.309) e più del triplo delle 87 camere di commercio (1.002). Fuori dai giochi gli altri ordini professionali, i cui 83 organismi hanno definito 75 liti. In media, quindi, gli avvocati hanno gestito in un trimestre 28 procedimenti per organismo, le camere di commercio 11, gli organismi privati 7 e gli altri ordini meno di uno per organismo. D'altra parte, l'unico ordine professionale che ha veramente puntato sulla mediazione obbligatoria fin dalla sua entrata in vigore è stato quello dei commercialisti, che però è da mesi in fase di stallo con il Consiglio nazionale commissariato. La Fondazione che coordina gli ordini territoriali nella diffusione della cultura della mediazione è quindi in attesa della costituzione dei nuovi vertici che definiranno la linee da seguire.
I numeri. La mediazione obbligatoria riparte sostanzialmente da zero. La sentenza della Consulta ha avuto infatti un effetto tsunami sullo strumento di risoluzione alternativa delle controversie. Lo testimoniano gli ultimi dati diffusi dal ministero della giustizia, che ha stimato in 4.785 i procedimenti iscritti nel primo trimestre 2013: all'incirca 1.500 al mese. Numeri lontani anni luce dal picco massimo mensile raggiunto nel luglio 2012: 22.211, grazie al traino di rc auto e condominio.
Al contempo, in questi mesi si è registrato il fuggi fuggi degli organismi di mediazione: in molti, dopo la sentenza della Consulta, si sono cancellati dal registro del ministero della giustizia non credendo nello strumento su forma volontaria o non potendo reggere i costi di una macchina organizzativa costruita per sostenere un certo numero di domande. Ora si riparte, ma di certo “l'assalto alla diligenza” provocato dal dlgs n. 28/2012 non si ripeterà (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2013).

TRIBUTI: Aree verdi, no Ici. Niente imposta se c'è il vincolo. La Ctr Milano: lo spazio pubblico non è edificabile.
Se un terreno è sottoposto a vincoli non può essere assoggettato all'Ici e all'Imu. Quindi, se un'area è compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato il contribuente non è tenuto a versare l'imposta municipale.

Secondo la Commissione tributaria regionale di Milano (sentenza n. 71/2013) il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile, poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene. In effetti, si discute da tempo sulla legittimità dell'assoggettamento a Ici delle aree vincolate. Del resto, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità non ha assunto una posizione univoca.
Per la commissione regionale, se lo strumento urbanistico vigente destina l'area a spazio pubblico per parco, giochi e sport, rende «palese e percepibile il vincolo di utilizzo meramente pubblicistico con la conseguente inedificabilità». Nella sentenza viene richiamata una pronuncia della Cassazione che ha fissato questo principio, che però non è assolutamente pacifico.
I precedenti della Cassazione. Con sentenza 25672/2008 i giudici di legittimità hanno stabilito che se il piano regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. Dunque, l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità è prevista dallo strumento urbanistico. La natura edificabile delle aree comprese in zona destinata a verde pubblico attrezzato impedisce ai privati la trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione. In questi casi, la finalità è quella di assicurare la fruizione pubblica degli spazi.
Mentre, con la sentenza 19131/2007 aveva sostenuto il contrario e cioè che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile anche se sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione. Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano precisato che l'Ici non «ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore o il reddito prodotto». Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell'imposta. L'area doveva essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e vincolata a esproprio.
Quindi, le aree edificabili sono soggette all'imposta anche se vincolate per essere espropriate. La destinazione edificatoria permane anche dopo la decadenza dei vincoli. Naturalmente, i limiti incidono sul valore venale del bene. Con l'ordinanza 16562/2011 la Suprema corte ha ribadito che la qualifica di area fabbricabile non può ritenersi esclusa se esistono particolari limiti che condizionano le possibilità di edificazione del suolo. Anzi, i limiti imposti a un terreno presuppongono la sua vocazione edificatoria.
Con questa decisione i giudici hanno ritenuto che i limiti imposti dal piano regolatore «incidendo sulle facoltà dominicali connesse alle possibilità di trasformazione urbanistico-edilizia del suolo medesimo, ne presuppongono la vocazione edificatoria». Peraltro, la destinazione dell'area «permane anche dopo la decadenza dei vincoli preordinati all'espropriazione» per finalità pubbliche. Tuttavia, i vincoli incidono «sulla concreta valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente, della base imponibile». È evidente che il contribuente che si trovi in questa situazione paga un'imposta minore, che deve essere rapportata al ridotto valore del terreno.
La definizione di area in base al diritto comunitario. È stato precisato dalla Cassazione (sentenza 20097/2009) che rientra nella competenza degli stati membri della Comunità europea la qualificazione delle aree edificabili. Ed è in linea col sistema comunitario la scelta dello stato italiano di fissare al momento dell'adozione dello strumento urbanistico generale la qualificazione dell'area, anche nel caso in cui non siano state adottate misure che consentano l'effettiva edificazione.
L'ordinamento italiano non contiene una definizione generale di terreno edificabile. C'è piuttosto nel sistema fiscale una tendenza a ricomprendere in questa categoria, per determinare la base imponibile di alcuni tributi, e per quanto è di nostro interesse per l'Ici e l'Imu, tutte le aree la cui destinazione edificatoria sia prevista dallo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, anche in mancanza dei previsti atti di controllo (approvazione regionale) e degli strumenti attuativi.
In realtà non interessa, ai fini fiscali, che il suolo sia immediatamente edificabile: quello che conta, secondo i giudici di legittimità, è che «sia stata conclusa una fase rilevante del procedimento per attribuire all'area la natura edificatoria o per modificare le precedenti previsioni che escludevano tale destinazione» (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione unica in chiaro. Escluse le istanze per via libera già disciplinati in loco. Dalla Regione Lombardia le prime istruzioni sull'Aua, il nuovo placet ambientale.
Escluse dall'«Aua» le istanze volte a ottenere autorizzazioni ambientali già oggetto di specifica disciplina locale, le domande per le autorizzazioni verdi che già accorpano diversi titoli abilitativi, le semplici volture.
È questa l'interpretazione restrittiva della Regione Lombardia sull'applicazione della nuova «autorizzazione unica ambientale», in vigore dal 13.06.2013, ossia il procedimento introdotto dal dpr 59/2013 (G.U. del 29.05.2013) che consente alle imprese di ottenere dietro un'unica istanza le licenze per emettere inquinanti in aria, acqua e suolo e per gestire i rifiuti prodotti.
Seppur tecnicamente legittimata dallo stesso decreto ad allargare i confini di operatività della disciplina nazionale, l'Ente territoriale non sceglie, almeno in questa prima fase, lo strumento normativo e si pronuncia in materia con una semplice circolare.
Con la circolare 05.08.2013 n. 19 (Bur del 9 settembre, n. 37) la Regione si limita a precisare i confini applicativi a livello locale del nuovo istituto governativo, seppur effettuando al contempo una più generale ricognizione sui punti nodali della normativa, ossia: soggetti interessati, titoli abilitativi unificabili, casi di utilizzo obbligatorio dell'Aua, uffici competenti, modulistica utilizzabile, sanzioni applicabili.
Soggetti interessati. Con l'atto in commento la Regione Lombardia ricorda innanzitutto il novero dei soggetti legittimati ad accedere alla procedura «Aua», ossia: «piccole e medie» imprese rientranti nei parametri del dm 18.04.2005; imprese non soggette alla più sofisticata «Aia» (autorizzazione integrata ambientale); imprese obbligate a valutazione di impatto ambientale «parziale» (ossia da integrare con altri e necessari atti autorizzatori). Ciò limitandosi a sottolineare come l'individuazione delle imprese non soggette ad «Aia» (e quindi eleggibili all'«Aua») debba essere effettuata in base alle regole dettate dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») e provvedimenti satellite.
Titoli abilitativi unificabili. Come ricordato in apertura, pur potendo (in forza dell'articolo 3, dpr 59/2013) potenzialmente «individuare ulteriori atti di comunicazione, notifica ed autorizzazione in materia ambientale che possono essere compresi nell'autorizzazione unica ambientale» la Regione Lombardia si limita a precisare (e in senso restrittivo) la portata di quelli previsti dallo stesso decreto nazionale, quali (lo ricordiamo): l'autorizzazione allo scarico nelle acque ex dlgs 152/2006; la comunicazione preventiva per utilizzo agronomico di effluenti di allevamento, acque di vegetazione di frantoi oleari, acque reflue da parte di aziende del settore ex dlgs 152/2006; l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti produttivi ex dlgs 152/2006; l'autorizzazione generale per le emissioni «scarsamente rilevanti» in aria ex dlgs 152/2006; il nulla osta alle emissioni sonore ex legge 447/1995 da parte degli impianti produttivi, sportivi, ricreativi commerciali; l'autorizzazione per utilizzo fanghi da depurazione in agricoltura ex dlgs 99/1992; la comunicazione per auto-smaltimento e/o recupero rifiuti in procedura semplificata ex dlgs 152/2006.
In particolare, la Lombardia ritiene di escludere dall'ambito dell'Aua (per lasciarli sotto il regime delle relative e specifiche norme) i seguenti atti: la comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica degli effluenti gassosi, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e delle acque provenienti dalle relative aziende ex articolo 112, dlgs 152/2006 (in quanto oggetto di specifica e preminente disciplina comunitaria derogatoria a favore della propria Regione, così come per Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, in forza della decisione 2011/721/Ue); l'autorizzazione per gli impianti di smaltimento e/o recupero dei rifiuti ex articolo 208, dlgs 152/2006 e l'autorizzazione unica per gli impianti di produzione di energia alimentati da fonti rinnovabili ex dlgs 387/2012 e dlgs 28/2011 (in quanto procedimenti che già unificano più titoli abilitativi).
Utilizzo obbligatorio o meno dell'Aua. In base al dpr 59/2013, lo ricordiamo, i soggetti più sopra individuati devono obbligatoriamente utilizzare la procedura «Aua» (attivabile esclusivamente tramite i «Suap», gli sportelli unici per le attività produttive) per il rilascio, il rinnovo o l'aggiornamento delle autorizzazioni ambientali citate nonché per le modifiche sostanziali dei propri impianti, avendo (invece) mera facoltà di ricorre alla stessa procedura per la sola autorizzazione generale alle emissioni o per una mera «comunicazione ambientale». A tal proposito, la circolare regionale precisa che non soggiacciono all'obbligo di «Aua» (per rimanere sottoposte ancora una volta alle specifiche e proprie regole) le istanze relative a modifiche non sostanziali e i procedimenti di semplice voltura, come il cambio di denominazione del soggetto titolare del titolo abilitativo.
Uffici competenti. Ancora, pur avendo facoltà di disporre diversamente in forza dell'art. 2 dello stesso dpr 59/2013, la Lombardia si limita a confermare nella «Provincia» l'Autorità competente al rilascio dell'autorizzazione ambientale, ricordando però la necessità di attivare il relativo procedimento sempre tramite «Suap» (che resta l'ufficio competente sia alla ricezione della domanda che all'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento unico), ciò precisando però che tra i «soggetti competenti in materia ambientale» (dunque legittimati a intervenire nel procedimento per quanto di loro competenza) debbono a suo avviso essere ricompresi anche i gestori del servizio idrico integrato.
Modulistica. In attesa del «modello semplificato e unificato» che il Minambiente dovrà predisporre in attuazione del dpr 59/2013 la Lombardia rende fin da subito disponibile un proprio «modello generale di istanza» (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2013).

EDILIZIA PRIVATADecreto del fare. La finalità di «governo del territorio» può consentire la riduzione delle soglie minime fissate dallo Stato.
Deroghe locali per le distanze. Regioni e Province autonome possono ridurre anche gli standard urbanistici.

Regioni e Province autonome possono ridurre le distanze legali tra fabbricati o gli standard urbanistici richiesti in fase di pianificazione. Il principio è in vigore dal 21 agosto con la legge n. 98/2013, di conversione del decreto "del fare" (Dl 69/2013).
L'articolo 30 contiene varie disposizioni di semplificazione in materia edilizia. Tra queste, il comma 1, lettera a), ha introdotto nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) l'articolo 2-bis, la cui rubrica riporta «Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati», ma ha in realtà un ambito più ampio. Infatti, alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano viene ora consentito di introdurre deroghe al Dm 1444/1968 e di dettare proprie disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali o produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi.
Le deroghe
La possibilità di un intervento normativo regionale investe anche gli standard urbanistici, come oggi definiti dagli articoli 3 e seguenti del decreto del 1968 e non si limita, quindi, alle sole distanze tra edifici.
La nuova norma statale costituisce senz'altro un vincolante "principio della materia", non solo in quanto viene inserita tra le disposizioni generali del Dpr 380/2001, ma anche perché la determinazione di standard minimi rappresenta un obbligo stabilito dall'articolo 41-quinquies, comma 8 della legge urbanistica n. 1150/1942, tuttora vigente. Qui si stabilisce che, nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, in tutti i Comuni debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi. La definizione di questi limiti e rapporti è contenuta nel Dm 1444/1968.
Le sue previsioni hanno costituito sinora la disciplina di riferimento unitaria e ritenuta inderogabile dalla giurisprudenza, specie per quel che attiene alle distanze minime tra fabbricati, tanto che il giudice è tenuto a disapplicare le norme del piano regolatore in contrasto il Dm (tra le altre Consiglio di stato, sezione IV, n. 7731/2010). È dunque questo l'ambito in cui potranno da oggi intervenire le Regioni, anche se la nuova disposizione pone
una duplice condizione cui il legislatore regionale dovrà attenersi nell'esercizio della propria potestà legislativa e regolamentare nella materia di competenza concorrente del «governo del territorio».
Il perimetro
Innanzitutto gli interventi normativi –non solo quelli a contenuto derogatorio– dovranno riferirsi al momento della definizione o revisione di strumenti urbanistici ed essere comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario del territorio oppure di specifiche aree territoriali, come nel caso di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.
In secondo luogo, le disposizioni regionali non dovranno risultare invasive della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del Codice civile e alle relative disposizioni integrative. Tra queste ultime, tuttavia, come segnalato negli stessi lavori preparatori alla legge di conversione, è ricompreso proprio l'articolo 9 del Dm 1444/1968, i cui contenuti le Regioni e le Province autonome potrebbero derogare in forza del nuovo articolo 2-bis.
L'effettiva portata della disposizione, nella parte in cui fa «salva la competenza statale in materia di ordinamento civile» dovrà quindi necessariamente essere letta alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, anche nella sentenza n. 6/2013, ha legittimato l'intervento legislativo regionale solo se chiaramente correlato al perseguimento delle finalità pubblicistiche di complessiva gestione del territorio.
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Gli spazi di manovra
L'applicazione delle novità dettate dal decreto "del fare"
01 | LE DEROGHE
Il Dl 69/2013 (articolo 30) ha introdotto la possibilità per le Regioni e le Province autonome di prevedere deroghe alle distanze minime tra fabbricati vicini e alle norme statali che impongono gli standard urbanistici, ovvero gli spazi minimi per abitante da distribuire tra residenziale, verde pubblico, parcheggi e altre funzioni
02 | LE LEGGI STATALI
La normativa statale sulle distanze minime tra i fabbricati è contenuta nel Codice civile e nel Dm 1444/1968. Quest'ultimo provvedimento ha anche dettato le regole per gli standard urbanistici
03 | EDIFICI RESIDENZIALI: I LIMITI
Regioni e Province autonome possono ora derogare alle indicazioni del Dm 1444/1968. Queste prevedono rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie.
Oggi per ogni abitante –insediato o da insediare– la dotazione minima, inderogabile, è di 18 metri quadri ripartiti in: 4,50 metri quadrati di aree per l'istruzione; 2 metri quadrati di aree per attrezzature di interesse comune; 9 metri quadrati di aree per spazi pubblici attrezzati a parco; 2,50 metri quadrati di aree per parcheggi in aggiunta a quelli pertinenziali
04 | EDIFICI INDUSTRIALI: I LIMITI
Il Dm 1444/1968 fissa questi limiti (ora derogabili) nei rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi: nei nuovi insediamenti di carattere industriale compresi nelle zone D) la superficie non può essere inferiore al 10% (escluse le sedi viarie); nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 metri quadrati di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli pertinenziali); tale quantità, per le zone A e B (centro storico e semi-centro) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative
05 | GLI ALTRI VINCOLI
Sempre il Dm 1444/1968 indica anche i limiti inderogabili di densità edilizia e di altezza massima degli edifici, diversi a seconda della zona territoriale
06 | LE DISTANZE
Nei centri storici (zone A) è obbligatorio mantenere le distanze preesistenti in caso di ristrutturazione: nelle altre zone il Dm 1444 impone una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate.
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Un potere nuovo con limiti già scritti dalla Consulta.
I limiti imposti dal decreto "del fare" alle deroghe alle distanze minime tra fabbricati e agli standard urbanistici non sono una novità. Il nuovo articolo 2-bis del Testo unico dell'edilizia –nello stabilire che le norme regionali recanti eccezioni al Dm n. 1444/1968 debbano essere emanate «nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»– traduce in legge il costante orientamento della Corte costituzionale in tema di deroghe alle distanze tra fabbricati, rimarcato, anche di recente, dalla sentenza n. 6/2013.
Con questa pronuncia, ritenendo fondata la questione sollevata dalla Corte di cassazione, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, della legge delle Marche, n. 31/1979. La norma censurata permetteva ai Comuni di individuare gli edifici suscettibili di ampliamento tra i fabbricati aventi impianto edilizio preesistente, compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale previste dagli strumenti urbanistici generali, riconoscendo al provvedimento di individuazione valenza di piano particolareggiato e consentendo la deroga alle distanze previste dal piano regolatore, con l'unico obbligo di mantenere la distanza minima di 3 metri dagli altri manufatti.
La Suprema corte aveva denunciato il contrasto della disposizione regionale con l'articolo 9 del Dm 1444/1968, che fissa una distanza minima tra fabbricati e consente l'edificazione a distanze inferiori solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
La Consulta, confermando l'orientamento già più volte espresso (sentenze n. 232/2005, n. 173/2011, n. 114/2012) ha rimarcato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nell'ordinamento civile, materia di competenza esclusiva dello Stato –in quanto afferente in via diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi– e disciplinata innanzitutto dal Codice civile, nonché dal Dm 1444. Tuttavia, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio... la disciplina che li riguarda tocca anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di governo del territorio.
Alle Regioni è quindi consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, ma solo per soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Pertanto, la legislazione regionale è legittima se persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico e riferisce l'operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali a un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da queste finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata allo Stato.
Nella fattispecie la sentenza ha ritenuto illegittima la norma delle Marche poiché consentiva ai Comuni di individuare gli edifici che potevano derogare alle distanze minime fissate nel Dm 1444; la deroga, riguardando singole costruzioni non risultava ancorata all'esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell'assetto urbanistico di una determinata zona (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2013).

APPALTI: Gare. Esclusi dai ribassi anche i costi per la sicurezza.
Appalti, l'offerta garantisce i salari minimi da contratto.
LE CONSEGUENZE/ Se l'amministrazione allinea la base d'asta alle retribuzioni di base impedisce ai concorrenti di formulare l'offerta.

Gli operatori economici devono presentare le offerte nelle gare di appalto con il prezzo più basso nel rispetto dei minimi salariali previsti dal contratto nazionale per i propri dipendenti.
Il Dl 69/2013 ha introdotto nell'articolo 82 del codice dei contratti pubblici una disposizione che individua un limite ben preciso nel processo di valutazione delle offerte al massimo ribasso.

Lo prevede il Dl 69/2013, che ha introdotto all'articolo 82 del Codice contratti una norma che replica in molti elementi quella definita dalla legge 106/2011 e poi abrogata, ed è sempre finalizzata a impedire la presentazione di offerte economiche non coerenti con gli standard retributivi per i lavoratori impiegati nell'appalto.
L'articolo 82, comma 3-bis, stabilisce che il prezzo più basso è determinato al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti sia dalla contrattazione nazionale sia da quella di di secondo livello. Si prevede poi che la determinazione del prezzo migliore sia effettuata anche al netto dei costi degli adempimenti per le norme su salute e sicurezza sul lavoro, individuabili come gli oneri della sicurezza aziendali (da esplicitare secondo l'articolo 87, comma 4, del Codice).
Si determina quindi per i concorrenti la possibilità di formulare l'offerta solo sulla parte "eccedente" i minimi salariali e i costi della sicurezza aziendali (calcolati per quota parte), ossia sui costi amministrativi e sul margine dell'utile di impresa; questo comporta che le stazioni appaltanti valutino accuratamente il quadro dei valori retributivi dei contratti riferibili ai potenziali partecipanti alla gara per la formazione della base d'asta, poiché un valore dell'appalto corrispondente ai minimi renderebbe impossibile la formulazione dell'offerta.
Considerando le valutazioni espresse a suo tempo dall'Avcp sulla norma "gemella" contenuta nella legge 106/2011, l'attuale previsione sul rispetto dei minimi salariali nelle offerte potrebbe sancire l'obbligo di verificare la congruità del costo del lavoro su più piani: la produttività presentata dal concorrente, il livello e il numero del personale necessario per garantirla e il controllo dei corrispondenti minimi salariali previsti nella giustificazione (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Realizzata una rampa per l’accesso per diversamente abili e subisce un processo penale. Per la Cassazione abbattere le barriere architettoniche non servono permessi.
Le opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visibilità degli edifici privati non necessitano di permesso.
3.2.2. - Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso con il quale si lamenta, in sostanza, che la Corte d'appello non avrebbe preso in considerazione il fatto che le opere realizzate erano, almeno in parte, dirette all'eliminazione di barriere architettoniche e, dunque, non potevano essere fatte rientrare nel novero di quelle per le quali è necessario il permesso di costruire.
3.2.2.1. - Quanto alla definizione di "barriere architettoniche" per i soggetti disabili, deve preliminarmente ricordarsi che le opere funzionali all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla maggior comodità dei residenti (TAR Campania, Salerno, sez. 2, 19.04.2013, n. 952; TAR Abruzzo, Pescara, sez. 1, 24.02.2012, n. 87; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. 1, 08.11.2011, n. 526).
Tali opere rientrano nell'attività edilizia libera, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, qualora “consistano in interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio”. Qualora vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non ricomprese nell'art. 10 -il quale sottopone a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso- trova applicazione l'art. 22 dello stesso d.P.R., a norma del quale sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6.
A tale disposizione si sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come modificato dal d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale consente che, per le opere soggette a d.i.a ordinaria, si proceda, in via semplificata, con s.c.i.a. (segnalazione certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del d.l. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, il quale prevede che: “Le disposizioni di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire”.
A ciò deve aggiungersi che la mancata presentazione di d.i.a. è sanzionata in via amministrativa dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, come la mancata presentazione di s.c.i.a. Per quest'ultima, infatti, l'art. 19, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990 prevede che: “Fatta salva l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.380, e dalle leggi regionali”.
3.2.2.2. - Ne consegue, in relazione al caso di specie, che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare la consistenza delle opere realizzate dall'imputato alla luce della normativa richiamata, evidenziando se e in che misura le stesse necessitassero del permesso di costruire o potessero essere realizzate previa semplice denuncia di inizio attività. Il rinvio al giudice del merito è, però -come sopra visto- incompatibile con l'immediata applicabilità della prescrizione alla quale deve essere data prevalenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38360 - link a www.avvocatopenalista.org).

CONDOMINIOCassazione. La demolizione del muro di proprietà del condominio determina un danno da fatto illecito.
Case confinanti, niente varchi. Esclusa la possibilità di aprire passaggi tra immobili in stabili diversi.
L'affittuario che demolisce un muro condominiale per aprire un passaggio con un appartamento che sta in un altro palazzo deve rimettere le cose a posto e pagare i danni. Anche se tra gli appartamenti un varco c'era già.

La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 18.09.2013 n. 21395, censura il comportamento di una società che, avendo in affitto due appartamenti in stabili diversi, li aveva messi in comunicazione demolendo un muro di proprietà del condominio.
A finire in tribunale, in prima battuta era stato il proprietario che, a sua volta aveva chiamato in causa gli affittuari, responsabili di aver eseguito i lavori. Il tribunale non aveva fatto torto a nessuno, condannando entrambi alla ricostruzione e al pagamento dei danni, quantificati in 25mila euro. Con il ricorso in Corte d'appello si "salvava" il proprietario e veniva condannato l'affittuario al ripristino e al versamento di 10mila euro di danni.
Alla base della condanna l'accusa di aver messo a dura prova solai e fondamenta e di aver gettato le basi per una servitù sulle parti comuni.
La ricorrente dal canto suo si era difesa affermando l'esistenza sia di una preesistente servitù di passaggio sia di un altro varco tra i due appartamenti.
L'apertura di una seconda porta comunicante nel muro perimetrale non costituiva dunque, secondo gli affittuari, una nuova servitù né un aggravamento della prima perché ne lasciava inalterati il contenuto, la portata e l'oggetto, mentre cambiava solo le modalità di esercizio. Nel suo ricorso la "banda del buco" negava di aver provocato un danno al condominio che non era stato neppure limitato nel suo diritto di proprietà, perché non aveva accesso in nessuno dei due locali messi in comunicazione.
La pensa diversamente la Cassazione che conferma l'uso indebito della cosa comune, anche se fa segnare un punto a favore del ricorrente sulla quantificazione del danno.
La Suprema corte prende atto dell'esistenza di un altro accesso situato in un'altra parte della casa ma nega che questo possa costituire un lasciapassare per aprirne altri. «L'apertura di un altro e diverso varco –si legge nella sentenza– non può essere ritenuta una semplice modalità di esercizio "ampliativa" della preesistente facoltà, o in essa ricompresa ai sensi dell'articolo 1027 del Codice civile, ma determina un onere nuovo e diverso a carico del fondo servente».
La seconda via poneva le premesse per la costituzione di un'ulteriore servitù e aumentava il peso a carico delle strutture del palazzo, entrando così in rotta di collisione con quanto previsto dall'articolo 1067 del Codice civile, che vieta al proprietario del fondo dominante di creare le condizioni per rendere più gravosa la condizione del fondo servente.
Per riparare al danno non basta neppure rimettere le cose come stavano ma è necessario un risarcimento per equivalente. Il passaggio incriminato è stato realizzato demolendo il muro del condominio e dunque non è vero, come voleva il ricorrente, che il diritto di proprietà è rimasto integro. In più, l'accertata demolizione era destinata a separare un condominio da un'altro. Un pregiudizio qualificabile come danno dipendente da un fatto illecito.
Su un punto, però, la Cassazione dà ragione al ricorrente: la Corte d'appello non ha indicato un valido criterio di liquidazione. La Suprema corte ammette la possibilità per il giudice di merito di indicare il danno in via presuntiva quando non ha elementi sufficienti a determinarlo con esattezza. Ma l'unico parametro individuato dai giudici di seconda istanza nel tempo intercorso tra la demolizione dell'opera demolitrice e la data della sentenza di appello non fornisce alcuna indicazione sulla reale entità del danno e non aiuta a capire se la cifra di 10mila euro «non simbolica ma significativa» è proporzionata (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Vita breve per il gazebo in spiaggia. Consiglio di stato. Da rimuovere a fine stagione se l'autorizzazione è temporanea.
LA MOTIVAZIONE/ In zone soggette al via libera della Soprintendenza serve una valutazione ad hoc per le strutture destinate a rimanere tutto l'anno.

Mare agitato per i concessionari balneari che devono rimuovere le cabine per esigenze paesaggistiche.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato con la sentenza 18.09.2013 n. 4642, relativa a uno stabilimento di Gallipoli.
Il contrasto ha radici antiche perché da anni, in previsione di un'imminente scadenza delle concessioni demaniali turistiche e del rischio di gare comunitarie, più Regioni avevano emanato leggi di favore per agevolare investimenti sulla fascia demaniale. Ad esempio, la Puglia aveva previsto il mantenimento annuale di strutture precarie funzionali all'attività turistico ricreativa lungo le coste (articolo 11 della legge regionale 17/2006), precisando poi che tali strutture dovevano essere di facile amovibilità (legge regionale 24/2008). In tali norme si era visto un primo passo verso la possibilità di migliorare le strutture aziendali dei concessionari balneari, anche in funzione di una maggiore redditività da poter far valere nel caso di procedure di gara per il rinnovo delle concessioni.
Ma la Corte costituzionale prima (sentenza 232/2008), poi le Soprintendenze e ora il Consiglio di Stato, hanno frenato l'orientamento delle Regioni, imponendo che al termine di ogni stagione balneare le strutture autorizzate per pochi mesi siano rimosse. In tal modo cabine, platee, impianti con i relativi accessori (insegne, locali di servizio) che abbiano autorizzazioni temporanee, diventano per i concessionari costi rilevanti azzerati anno per anno.
Un concessionario salentino aveva appunto posto l'accento sull'illogicità di un parere paesaggistico di breve durata, chiedendo di poter mantenere le strutture autorizzate per i mesi estivi, facendo leva sulla legge regionale che parla di strutture autorizzate «per l'intero anno». I giudici amministrativi hanno tuttavia preferito la scadenza più breve, imposta dalla Soprintendenza, sottolineando che l'impatto di un'opera può essere diverso a seconda del periodo in cui l'aspetto dei luoghi viene valutato. In altri termini, è possibile ed è ragionevole che una stessa struttura incida in modo diverso sui valori paesaggistici della zona a seconda dell'alternarsi delle stagioni.
Questo orientamento del Consiglio di Stato incide su un tessuto in ebollizione: la scadenza delle concessioni demaniali marittime, turistico ricreative, è stata prorogata al 2020 con la legge 221/2012. In quella data i concessionari demaniali saranno esposti a un regime di gare comunitarie per la scelta del concessionario che offra una migliore utilizzazione del bene pubblico. Al concessionario che risulti scavalcato da un'offerta tecnico-economica più vantaggiosa per il Demanio (e per la collettività), spetterà un indennizzo calcolato sulla base dell'avviamento aziendale, cioè dell'avvenuta valorizzazione delle attività imprenditoriali e degli investimenti. Ma se gli stabilimenti giungeranno con strutture precarie alla scadenza del 2020, sarà difficile calcolare un avviamento, mancando impianti dai quali dedurre una vera e propria attività produttiva (cucine, accessori, piscine, parcheggi, ecc.).
Oltretutto, le cabine autorizzate in precario vanno eliminate proprio mentre si adotta un criterio diverso (di stabilità) per i campeggi (articolo 3, comma 1, lettera e5, del Dpr 380/2001 modificato dal Dl 69/2013) e per la durata (ora ultraquinquennale) delle autorizzazioni paesaggistiche (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di confine deve rispettare le distanze tra edifici? E' una costruzione vera e propria?
Il Decreto Fare ha modificato le distanze tra edifici. La realizzazione di un muro scatena la lite tra vicini. Muro di contenimento o sostegno? Il Decreto Fare: derogabilità del D.M. 1444/1968 da parte della Regione.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha accertato che i due muri realizzati dalla Edilvalsugana, costituenti un'unica costruzione, "che consente il riempimento con nuovo terreno del volume creato tra il profilo originale del pendio ed il parametro interno della muratura", non rappresentano il contenimento di un versante franoso a tutela del fondo sottostante, ma sono destinati al sostegno della parte allargata del piazzale superiore.
Tale accertamento non può essere riposto in discussione in questa sede, costituendo espressione di un apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito ed essendo sorretto da una motivazione immune da vizi logici, con cui è stato fatto riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio.
Poiché, dunque, i muri in questione non hanno la funzione di mero contenimento di un dislivello naturale, il giudice del gravame ha ritenuto che essi costituiscono una "costruzione" in senso tecnico-giuridico, soggetta alla distanza regolamentare di cinque metri dal confine prescritta dallo regolamento locale, senza che in relazione a tali opere possano trovare applicazione le minori distanze previste, con riferimento ai "muri di cinta e muri di contenimento", dallo
ius superveniens invocato dalle ricorrente, rappresentato dall'art. 12 del nuovo regolamento edilizio del Comune di Trento.
Così decidendo, la Corte di Appello si è uniformata ai principi più volte enunciati dalla giurisprudenza, secondo cui,
in caso di fondi a dislivello, mentre non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, destinato ad impedirne smottamenti o frane, devono invece considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all'opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. 10.01.2006 n. 145; Cass. 21.05.1997 n. 4511; Cass. 11.01.1992 n. 243; Cass. 06.05.1987 n. 4196).
Nel caso di specie, essendosi in presenza di un manufatto creato artificialmente dalla convenuta per consentire l'ampliamento del piazzale sovrastante di sua proprietà e fargli da sostegno, non par dubbio che tale opera debba essere considerata una vera e propria "costruzione", come tale assoggettata al rispetto delle ordinarie distanze legali dettate in materia dall'art. 873 c.c. e dalle norme integrative locali.
Sotto altro profilo, si osserva che appare altrettanto evidente che, al fine di valutare la conformità dell'opera realizzata dalla Edilvalsugana alle prescrizioni regolamentari, si debba tener conto della situazione dei luoghi quale si presentava all'epoca della costruzione, e non di quella, risalente a circa 20 anni prima, esistente al momento della edificazione effettuata dal Condominio XXXX. È alle condizioni attuali dei luoghi, di conseguenza, che la ricorrente avrebbe dovuto adeguare la sua costruzione; sicché essa non può pretendere di sottrarsi all'osservanza della normativa locale sulle distanze in considerazione delle modifiche apportate alla originaria pendenza del terreno in occasione dei pregressi lavori eseguiti dall'attore. La convenuta, infatti, ove si fosse ritenuta danneggiata dagli abusi commessi dalla controparte, avrebbe potuto eventualmente avvalersi di altri strumenti, ma non avrebbe certo potuto sentirsi autorizzata ad eseguire costruzioni a distanza inferiore a quella prescritta dalle norme legali e regolamentari.
Non sussistono, pertanto, le violazioni di legge e i vizi di motivazione denunciati dalla ricorrente, essendo la decisione impugnata sorretta da argomentazioni corrette sul piano logico e giuridico, con cui è stato fatto buon governo dei principi affermati in materia di distanze delle costruzioni dalla giurisprudenza.

(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.09.2013 n. 21192 - link a www.avvocatocivilista.net).

PATRIMONIO: Condanna per il Comune al risarcimento dei danni provocati da un incendio sviluppatosi nel parco pubblico comunale, in adiacenza alla rete di confine con lo stabilimento dell’attore, e propagatosi all’interno della proprietà.
I motivi sono manifestamente infondati, quando non inammissibili, poiché il ricorrente, pur richiamando formalmente anche la violazione di norme di diritto, pone in realtà in discussione solo gli accertamenti e le valutazioni in fatto mediante le quali la Corte di appello ha ritenuto di escludere l’addebitabilità di un qualunque concorso di colpa alla danneggiata: accertamenti e valutazioni che risultano adeguatamente motivati ed oggettivamente condivisibili.
Il proprietario non ha alcun obbligo di utilizzare in un modo o nell’altro il proprio fondo, né incorre in alcun divieto di sistemarvi oggetti ed attrezzi nel modo ritenuto più conveniente, qualora non sussista alcun elemento o circostanza idonei a dimostrare la pericolosità di una data sistemazione.
Il ricorrente non afferma di avere dedotto o dimostrato alcunché, nelle competenti sedi di merito, circa la prevedibilità del sinistro verificatosi, quindi circa l’imputabilità ad imprudenza o a negligenza del danneggiato del fatto di avere collocato la sue merce in quel particolare punto dalla sua proprietà, come ha correttamente rilevato la Corte di appello.
Né sono consentite in questa sede ulteriori indagini in merito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2013 n. 21100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche ai fini del rilascio della sanatoria di cui al decreto legge n. 269 del 2003, non è ostativo il fatto che gli abusi insistano su suolo pubblico: la sanatoria è anzi possibile anche in questi casi se l’ente interessato sia disponibile ad alienare ovvero a concedere la porzione di suolo interessata in diritto di superficie all’interessato.
La giurisprudenza ha condivisibilmente evidenziato che la sanatoria è ammissibile anche laddove il procedimento per la cessione dell’area non risulti essere già istruito al momento della presentazione della domanda di condono, ed anzi la norma prende in considerazione l’eventualità in cui l’interessato presenti la richiesta di disponibilità dell’area demaniale dopo aver già presentato l’istanza di condono, cosicché in tal caso la definizione dell’alienazione del terreno diventa pregiudiziale rispetto alla definizione del procedimento di sanatoria.

Come è noto, l’art. 32, quinto comma, della legge n. 47 del 1985 (cui rinvia l’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003) stabilisce che per le opere eseguite da terzi su aree di proprietà di enti pubblici territoriali, in assenza di un titolo che abiliti al godimento del suolo, il rilascio della sanatoria edilizia è subordinato alla disponibilità dell’ente proprietario a concedere onerosamente, alle condizioni previste dalle leggi statali o regionali vigenti, l’uso del suolo su cui insiste la costruzione. Tale disponibilità deve essere espressa dall’ente locale proprietario entro il termine di 180 giorni dalla richiesta, limitatamente alla superficie occupata dalle costruzioni oggetto della sanatoria e alle pertinenze strettamente necessarie, con un massimo di tre volte rispetto all’area coperta dal fabbricato.
Dalla norma richiamata discende che, anche ai fini del rilascio della sanatoria di cui al decreto legge n. 269 del 2003, non è ostativo il fatto che gli abusi insistano su suolo pubblico: la sanatoria è anzi possibile anche in questi casi se l’ente interessato sia disponibile ad alienare ovvero a concedere la porzione di suolo interessata in diritto di superficie all’interessato.
La giurisprudenza ha condivisibilmente evidenziato che la sanatoria è ammissibile anche laddove il procedimento per la cessione dell’area non risulti essere già istruito al momento della presentazione della domanda di condono, ed anzi la norma prende in considerazione l’eventualità in cui l’interessato presenti la richiesta di disponibilità dell’area demaniale dopo aver già presentato l’istanza di condono, cosicché in tal caso la definizione dell’alienazione del terreno diventa pregiudiziale rispetto alla definizione del procedimento di sanatoria (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 03.12.2008 n. 2770).
Con tale premessa, deve giudicarsi illegittima l’inerzia del Comune di Moncalieri, che non ha concluso l’iter di rilascio del condono edilizio richiesto dagli odierni ricorrenti e non ha, allo stesso tempo, concluso il procedimento per l’alienazione del terreno demaniale sul quale insistono le opere abusive (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione discrezionale dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, anche in sede di sanatoria di opere abusive, va necessariamente riferita alla circoscritta realtà dei luoghi nei quali il manufatto considerato viene ad inserirsi, dal momento che è l’effettiva tutela del paesaggio, e non l’inutile evocazione di un valore astratto ed irreale, l’obiettivo da perseguire nell’esercizio della funzione di tutela: il giudizio di comparazione dell’opera al contesto da difendere va compiuto, pertanto, tenendo presenti le reali ed attuali condizioni di sistema dell’area in cui il manufatto è inserito.
Secondo la condivisibile affermazione della giurisprudenza, la valutazione discrezionale dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, anche in sede di sanatoria di opere abusive, va necessariamente riferita alla circoscritta realtà dei luoghi nei quali il manufatto considerato viene ad inserirsi, dal momento che è l’effettiva tutela del paesaggio, e non l’inutile evocazione di un valore astratto ed irreale, l’obiettivo da perseguire nell’esercizio della funzione di tutela: il giudizio di comparazione dell’opera al contesto da difendere va compiuto, pertanto, tenendo presenti le reali ed attuali condizioni di sistema dell’area in cui il manufatto è inserito (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.12.2010 n. 9578; Id., sez. VI, 21.07.2011 n. 4418) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1024 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’immobile: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e, quindi, l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
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In presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (l’immobile era, come detto, già sede di una fabbrica di ceramiche) l’Amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico addebitabile alla predetta destinazione.
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L'Amministrazione comunale ha evidenziato, solo nelle memorie difensive, che la debenza ex novo degli oneri di urbanizzazione sarebbe stata cagionata dallo stato di abbandono che avrebbe caratterizzato lo stabilimento industriale (inattivo da circa 20 anni) “azzerando” il precedente “carico urbanistico derivante dal suo uso”.
Tali argomentazioni, soprattutto in mancanza di precisi elementi esposti al riguardo nel provvedimento impugnato, non possono essere condivise.

Con il ricorso in epigrafe la società ricorrente, utilizzatrice, in virtù di contratto di locazione finanziaria immobiliare, di un complesso industriale già sede di una fabbrica di ceramiche, ha lamentato l’illegittimità dell’imposizione da parte del Comune di Bene Vagienna, in sede di rilascio del permesso di costruire, del pagamento di oneri di urbanizzazione per la realizzazione dei lavori di riqualificazione dell’immobile che, consistendo in semplici opere di manutenzione straordinaria e mantenendo inalterate superfici e volumetria dell’unità immobiliare, non avrebbero comportato, a suo parere, a differenza di quanto ritenuto dall’Amministrazione, un incremento del carico urbanistico, già considerato al momento del rilascio dei titoli edilizi per la costruzione e l’ampliamento dell’impianto industriale nel 1973 e nel 1980.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III, 10.02.2011 n. 243).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’immobile: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e, quindi, l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR Lazio Roma, sez. II, 14.11.2007, n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che il rifacimento dei servizi (bagni, spogliatoi) e la realizzazione di nuovi impianti tecnici (centrale termica, centrale frigorifera, impianto di scarico acque bianche, impianto di scarico acque nere, impianto antincendio) sia stata accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che la “riqualificazionede qua interessa un immobile avente già in precedenza destinazione industriale.
In ogni caso, come affermato di recente (cfr. sentenze di questa Sezione 02/03/2012 n. 355; 24/08/2012 n. 1467) in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (l’immobile era, come detto, già sede di una fabbrica di ceramiche) l’Amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile alla predetta destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Nel caso concreto l’Amministrazione ha evidenziato, invece, solo nelle memorie difensive che la debenza ex novo degli oneri di urbanizzazione sarebbe stata cagionata dallo stato di abbandono che avrebbe caratterizzato lo stabilimento industriale (inattivo da circa 20 anni) “azzerando” il precedente “carico urbanistico derivante dal suo uso”.
Tali argomentazioni, soprattutto in mancanza di precisi elementi esposti al riguardo nel provvedimento impugnato, non possono essere condivise.
Alla luce delle argomentazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato nella parte relativa alla richiesta da parte del Comune degli oneri di urbanizzazione, accertamento della non spettanza dei detti oneri per l’intervento di “riqualificazione” di cui è causa ed assorbimento di ogni altra doglianza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1009 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non vi è luogo per la condanna al risarcimento del danno da ritardo nel caso in cui non sia ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’Amministrazione e la ricostruzione dei fatti consenta agevolmente di comprendere che le modifiche apportate al progetto e le integrazioni documentali imposte al richiedente escludono un atteggiamento dilatorio in capo al responsabile del procedimento.
Secondo un principio comunemente affermato, non vi è luogo per la condanna al risarcimento del danno da ritardo nel caso in cui non sia ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’Amministrazione e la ricostruzione dei fatti consenta agevolmente di comprendere che le modifiche apportate al progetto e le integrazioni documentali imposte al richiedente escludono un atteggiamento dilatorio in capo al responsabile del procedimento (cfr., da ultimo: Cons. Stato, sez. IV, 07.03.2013 n. 1406, nella specie relativa al tardivo rilascio di un permesso di costruire) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A differenza degli altri manufatti presenti sul mappale, edificati senza il necessario rilascio del permesso di costruire e, dunque, abusivi (opere che i ricorrenti hanno provveduto, peraltro, a demolire a seguito dell’ordinanza n. 160/2010) la vasca oggetto di causa poteva essere realizzata senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione dell’inizio dei lavori ex art. 5, c. 2, del d.l. n. 40/2010.
Tale norma fa rientrare, infatti, nella categoria della “attività edilizia libera” <…c) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati>.
Il manufatto in questione, evidentemente destinato a raccogliere le acque piovane, consentendo, così, ai ricorrenti l’irrigazione del loro fondo agricolo, altrimenti impossibile, appare corrispondere a pieno alla citata fattispecie -che non sembra implicare, necessariamente, la presenza di un fabbricato principale, come dedotto dalla difesa del Comune- e non poteva essere oggetto di un’ordinanza di demolizione per mancanza del permesso di costruire.

Con il ricorso in epigrafe i sig.ri B. e S. hanno lamentato, in primo luogo, l’illegittimità dell’ordine di demolizione della vasca per la raccolta dell’acqua piovana realizzata sul loro fondo agricolo in assenza di permesso di costruire per violazione dell’art. 5, c. 2, del d.l. n. 40/2010 convertito con modificazioni nella l. n. 73/2010.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento: a differenza degli altri manufatti presenti sul mappale di loro proprietà, edificati senza il necessario rilascio del permesso di costruire e, dunque, abusivi (opere che i ricorrenti hanno provveduto, peraltro, a demolire a seguito dell’ordinanza n. 160/2010) la vasca oggetto di causa poteva essere realizzata senza alcun titolo abilitativo, previa semplice comunicazione dell’inizio dei lavori ex art. 5, c. 2, del d.l. n. 40/2010.
Tale norma fa rientrare, infatti, nella categoria della “attività edilizia libera” <…c) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati>.
Il manufatto in questione, evidentemente destinato a raccogliere le acque piovane, consentendo, così, ai ricorrenti l’irrigazione del loro fondo agricolo, altrimenti impossibile, appare corrispondere a pieno alla citata fattispecie -che non sembra implicare, necessariamente, la presenza di un fabbricato principale, come dedotto dalla difesa del Comune- e non poteva essere oggetto di un’ordinanza di demolizione per mancanza del permesso di costruire.
Alla luce delle argomentazioni che precedono, il ricorso deve essere, dunque, come detto, accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente all’ordine di demolizione della vasca per la raccolta dell’acqua ed assorbimento di ogni altra doglianza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Non rientrano nello schema espropriativo con le connesse garanzie costituzionali, e quindi non soggiacciono all’alternativa di indennizzo o di durata predefinita, i vincoli che importano una destinazione di contenuto specifico che sia realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, quando tali vincoli non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal proprietario e senza necessità di previa ablazione del bene.
E’ infatti possibile che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata, pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento: si indicano ad esempio i parcheggi, gli impianti sportivi, i mercati ed i complessi per la distribuzione commerciale, gli edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali, ovvero tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
Nella fattispecie, il vincolo di destinazione gravante sul terreno di proprietà dei ricorrenti non poteva considerarsi di natura espropriativa, avendo viceversa finalità meramente conformative del diritto di proprietà sul bene, utilizzabile anche dai privati in vista del soddisfacimento di esigenze di pubblico interesse specificamente individuate. Trattandosi, peraltro, di opere di pubblico interesse e non di vere e proprie opere pubbliche, resta fermo che tali opere potevano essere realizzate anche su iniziativa dei proprietari, restando quindi esclusa la necessaria previa espropriazione delle aree da parte del Comune.
Ne consegue che nessun obbligo di ritipizzazione incombeva sul Comune, il quale neppure era tenuto a motivare puntualmente le ragioni del diniego all’approvazione di variante parziale, a fronte delle diffide notificate dai proprietari ricorrenti che, per quanto detto, vantavano un interesse di mero fatto alla modifica migliorativa della zonizzazione urbanistica vigente.

Come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, non rientrano nello schema espropriativo con le connesse garanzie costituzionali, e quindi non soggiacciono all’alternativa di indennizzo o di durata predefinita, i vincoli che importano una destinazione di contenuto specifico che sia realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, quando tali vincoli non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal proprietario e senza necessità di previa ablazione del bene.
E’ infatti possibile che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata, pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento: si indicano ad esempio i parcheggi, gli impianti sportivi, i mercati ed i complessi per la distribuzione commerciale, gli edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali, ovvero tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato (così Corte cost., n. 179 del 20.05.1999).
Nella fattispecie, il vincolo di destinazione gravante sul terreno di proprietà dei ricorrenti non poteva considerarsi di natura espropriativa, avendo viceversa finalità meramente conformative del diritto di proprietà sul bene, utilizzabile anche dai privati in vista del soddisfacimento di esigenze di pubblico interesse specificamente individuate. Trattandosi, peraltro, di opere di pubblico interesse e non di vere e proprie opere pubbliche, resta fermo che tali opere potevano essere realizzate anche su iniziativa dei proprietari, restando quindi esclusa la necessaria previa espropriazione delle aree da parte del Comune (in questi termini, su fattispecie analoghe: Cons. Stato, sez. IV, n. 3805 del 28.06.2007; Id., sez. IV, n. 2718 del 25.05.2005; Id., sez. IV, n. 8290 del 17.01.2003).
Ne consegue che nessun obbligo di ritipizzazione incombeva sul Comune di Candelo, il quale neppure era tenuto a motivare puntualmente le ragioni del diniego all’approvazione di variante parziale, a fronte delle diffide notificate dai proprietari ricorrenti che, per quanto detto, vantavano un interesse di mero fatto alla modifica migliorativa della zonizzazione urbanistica vigente (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.09.2013 n. 1001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il Comandante non può aprire la corrispondenza indirizzata agli agenti e non può, quindi, apprenderne il contenuto. Assolto penalmente risponderà civilmente.
La sentenza impugnata si fonda su un'errata lettura dei dati normativi di riferimento e va pertanto annullata.
Emerge pacificamente dalla sentenza suddetta che l'imputato, responsabile di un settore della Polizia Municipale di (omissis), dispose l'apertura e la protocollazione di tutte le buste pervenute al corpo suddetto, anche di quelle indirizzate agli agenti della Polizia Municipale ed anche di quelle recanti la dicitura "RISERVATA PERSONALE".
Ad avviso del giudice d'appello questa prassi, sebbene contestata ab initio dai destinatari delle missive, è da ritenere corretta, in quanto le missive erano contenute in buste intestate al Comune ed erano annotate sul protocollo in uscita dello stesso Ente. A fondamento del discorso giustificativo la Corte d'appello di Palermo richiama il disposto dell'art. 53, comma 5, del Dpr 445/2000, il quale prevede "l'obbligo per tutte le amministrazioni di procedere alla protocollazione di tutta la corrispondenza ricevuta e spedita dall'amministrazione demandando a quest'ultima il compito di fissare i criteri e le modalità ed i termini della suddetta attività di protocollazione".
In realtà l'art. 53 cit. si limita a stabilire che "sono oggetto di registrazione obbligatoria i documenti ricevuti e spediti dall'amministrazione e tutti i documenti informatici".
Innanzitutto, va distinta la "registrazione" dalla presa di cognizione del contenuto del documento, che non si deve necessariamente accompagnare alla prima delle operazioni suddette, essendone logicamente distinta. Poi, la norma va coordinata con le altre diposizioni di carattere civile e penale che disciplinano la materia, le quali esigono che la corrispondenza privata, quando sia inequivocabilmente tale, non tollera interferenze da parte di terzi, in quanto relativa a beni fondamentali della persona, che sono oggetto di tutela costituzionale: la libertà di comunicazione e il diritto alla riservatezza.
Tali diritti non vengono meno per il fatto che il titolare sia membro di una P.A., né l'inserimento in un ufficio amministrativo comporta l'affievolimento della tutela, per le necessità di "registrazione" degli atti, giacché tale operazione può senz'altro attuarsi nel rispetto delle prerogative dei singoli che di essa fanno parte, mediante l'attuazione di forme di protocollazione che salvaguardino la segretezza della corrispondenza.
La necessità di tener conto e rispettare i diritti del personale amministrativo comporta, pertanto, che la corrispondenza indirizzata all'Ente va tenuta distinta da quella indirizzata alla persona e, allorché questa venga in considerazione non come membro dell'apparato amministrativo, ma uti singuli, di assicurargli la conoscenza esclusiva del contenuto delle missive a lui dirette.

Nel caso di specie non è contestato che la corrispondenza fosse indirizzata alle parti civili, non quali membri della Polizia Municipale, ma come persone private, e che tale caratteristica fosse chiaramente desumibile dai segni impressi dal mittente sulla corrispondenza, che vi aveva apposto la dicitura sopra specificata. Tanto basta perché nessun altro, al di fuori dei destinatari, fosse abilitato ad apprenderne il contenuto, perché la natura della corrispondenza dipende dalla volontà del mittente, che, come è libero di affidare il suo pensiero al mezzo di comunicazione in discussione, è libero di determinarne il regime di circolazione.
Pertanto, l'apertura delle buste suddette da parte di un soggetto diverso dal destinatario, attuata nella consapevolezza del carattere privato della corrispondenza, integra la condotta descritta dalla norma contestata. La Corte d'appello di Palermo non si è attenuta a tale principio, per cui la sentenza va annullata agli effetti civili e disposto il rinvio al giudice competente in sede civile (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 11.09.2013 n. 37317 - link a www.avvocatocassazionista.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mancato rispetto delle distanze legali impedisce il rilascio del condono edilizio?
Il mancato rispetto delle distanze legali tra costruzioni non è ostativo al rilascio del condono edilizio. Il condono edilizio attiene al rapporto pubblicistico tra il comune e il richiedente, nel senso che viene sanata la violazione delle disposizioni di carattere urbanistico-edilizio nei (soli) rapporti tra l'amministrazione e il richiedente. Resta salva la possibilità dei proprietari limitrofi di far valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice ordinario, a tutela del diritto di proprietà.

Il Consiglio di Stato si esprime sul tema dell’accoglibilità della domanda di condono edilizio nel caso in cui l’immobile non rispetti le distanze legali tra costruzioni, per concludere nel senso che il mancato rispetto delle distanze legali non è ostativo al rilascio del condono edilizio.
Secondo la pronuncia in esame il condono edilizio attiene al rapporto pubblicistico tra il comune e il richiedente, nel senso che seguito del condono viene sanata la violazione delle disposizioni di carattere urbanistico-edilizio nei (soli) rapporti tra l'amministrazione e il richiedente.
Non sono però incisi i rapporti tra il richiedente e i terzi i cui diritti siano lesi dall’edificazione, non estinguendosi il diritto del proprietario confinante al rispetto delle distanze previste, che può essere fatto valere innanzi all’autorità giurisdizionale competente.
Eventuali controversie vanno, difatti, risolte in sede civile, su iniziativa del proprietario che vi abbia interesse.
Questa impostazione trova conferma nell'articolo 39, comma 2, l. 23.12.1994, n. 724, nel testo modificato dall’articolo 37, comma 2, l. 23.12.1996, n. 662, secondo cui “il rilascio della concessione o autorizzazione in sanatoria non comporta limitazione ai diritti dei terzi”.
Al riguardo è significativo che il testo originario della medesima disposizione aveva disposto in senso contrario, prevedendo l’incondonabilità delle “opere edilizie che creano limitazioni di tipo urbanistico alle proprietà finitime, a meno che queste ultime non siano conformi e compatibili sia con lo strumento urbanistico approvato che con quello adottato, e che siano state realizzate su parti comuni”. L’intervenuta modifica normativa sul punto implica quindi l’esclusione della natura ostativa di eventuali limitazioni alle proprietà finitime, tra cui la violazione delle distanze legali.
In altri termini, la circostanza che l’immobile sia posto a distanza dal confine inferiore a quella minima prevista dalla disciplina regolamentare edilizia non impedisce il condono, restando salva la possibilità dei proprietari limitrofi di far valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice ordinario, a tutela del diritto di proprietà.
Pur in presenza di un provvedimento di condono, infatti, il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche o delle distanze legali, ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione.
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Esiti del ricorso
Riforma TAR Puglia Lecce, Sez. III, n. 1258/2011
Precedenti giurisprudenziali:
TAR Marche Ancona Sez. I, 17.06.2009, n. 568; Cons. St., sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; Cons. St., sez. IV, 30.12.2006, n. 8262; TAR Puglia Lecce Sez. III, 12.06.2009, n. 1474; Cass. civ., sez. II, 06.02.2009, n. 30131; Cass. civ., sez. II, 26.09.2005, n. 18728
Riferimenti normativi
Art. 39, comma 2, l. 23.12.1994, n. 724 (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Immissioni sonore intollerabili e responsabilità della P.A.: chi decide la controversia?
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda introdotta da un privato nei confronti di amministrazione ministeriale e comunale e diretta ad ottenere sia l'inibitoria dell'immissione di rumori eccedenti i limiti della normale tollerabilità prodotti da un confinante plesso scolastico sia il risarcimento dei conseguenti danni da lesione della salute.

L'inosservanza da parte della pubblica amministrazione, nella gestione e manutenzione dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordinario non solo ove la domanda sia volta a conseguire la condanna della P.A. al risarcimento del danno patrimoniale, ma anche ove miri alla condanna della stessa ad un facere o ad un non facere, giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell'amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere.
Rientra pertanto nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda introdotta da un privato nei confronti di amministrazione ministeriale e comunale e diretta ad ottenere sia l'inibitoria dell'immissione di rumori eccedenti i limiti della normale tollerabilità prodotti da un confinante plesso scolastico sia il risarcimento dei conseguenti danni da lesione della salute.
Il principio, già espresso in precedenti decisioni, è stato ribadito dalla Suprema Corte in una recente sentenza.
Come anticipato, nel caso in esame, relativo ad una controversia per immissioni rumorose prodotte da una scuola confinante con una villetta di proprietà del ricorrente, quest'ultimo aveva chiesto al giudice ordinario che fossero inibite le immissioni intollerabili e gli fosse risarcito il danno da lesione della salute derivante dalle predette immissioni.
Si è perciò trattato, osservano le Sezioni Unite, di una richiesta di tutela che, in relazione al medesimo fatto pregiudizievole, di carattere permanente in quanto quotidianamente rinnovantesi, si atteggiava come risarcitoria quanto al passato e come inibitoria quanto al futuro, riguardando la tutela della salute in relazione ad una attività materiale pregiudizievole qualificabile come illecita, in quanto consistente in immissioni eccedenti il limite della normale tollerabilità.
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Esito del ricorso
Rigetta, Corte di Appello di Milano, sentenza 22.11.2011, n. 3231
I precedenti giurisprudenziali
Cass. civ. Sez. Unite, 27/02/2013, n. 4848
Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 14/03/2011, n. 5926
Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 22/12/2010, n. 25982
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 13/12/2007, n. 26108
Cass. civ. Sez. Unite, 18/10/2005, n. 20117
Cass. civ. Sez. Unite (Ord.), 14/01/2005, n. 599
Riferimenti normativi
Cod. Civ. art. 844
Cod. Civ. art. 2043
Costituzione art. 32 (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 06.09.2013 n. 20571).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove una o più opere edilizie siano state realizzate su area demaniale (nel caso, demanio marittimo), il conseguente ordine di demolizione è adottato dal Comune anche in applicazione degli art. 54 e 1161 c. nav. e, quindi per la tutela degli interessi demaniali, cosicché, sotto questo profilo, non ha nemmeno rilevanza la minore o maggiore consistenza dell’abuso.
Preliminarmente, peraltro, va analizzata la censura d’incompetenza del tecnico del Comune di Vibonati, a licenziare l’ordinanza gravata, espressa dal ricorrente sub 4), in quanto evidentemente preclusiva, ove fondata, all’esame d’ogni altra questione, nel merito.
La stessa non ha pregio, giusta l’orientamento giurisprudenziale, compendiato nella massima che segue: “Laddove una o più opere edilizie siano state realizzate su area demaniale (nel caso, demanio marittimo), il conseguente ordine di demolizione è adottato dal Comune anche in applicazione degli art. 54 e 1161 c. nav. e, quindi per la tutela degli interessi demaniali, cosicché, sotto questo profilo, non ha nemmeno rilevanza la minore o maggiore consistenza dell’abuso” (TAR Emilia Romagna–Bologna – Sez. II, 03.06.2008, n. 2144)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 06.09.2013 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Tribunale ritiene che l’adozione dell’ordinanza di demolizione impugnata dovesse essere necessariamente preceduta dall’annullamento, in autotutela, del titolo edilizio, silentemente formatosi in relazione alla suddetta denunzia d’inizio d’attività, in assenza dell’esercizio, da parte del Comune, del potere inibitorio, nel termine previsto dalla legge.
Per tale soluzione, cfr. la massima che segue: “E` legittimo l’ordine di demolizione di un’opera edilizia, adottato (ai sensi dell’art 35, comma 1, d.lgs. n. 380/2001) da un ente locale a tutela del patrimonio pubblico, avendo preliminarmente annullato, in autotutela, gli effetti della d.i.a., sulla quale si è impropriamente formato il silenzio-assenso a causa dell’assenza del presupposto della disponibilità dell’area: anche dopo il decorso del termine di trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di legge, infatti, l’amministrazione non perde i propri poteri di autotutela, né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatori, né nel senso di poteri di espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado estrinsecantesi nell’annullamento d’ufficio e nella revoca (art. 35, comma 3, d.lgs. 380/2001)”.
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Ritiene il Tribunale che, prima di sanzionare con la demolizione l’edificazione delle opere descritte in epigrafe, il Comune avrebbe dovuto necessariamente eliminare l’ostacolo giuridico (rispetto all’ordine di demolizione) costituito dall’avvenuto consolidamento del titolo edilizio “per silentium”, e per fare ciò (trattandosi di provvedimento di secondo grado, incidente su un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del ricorrente) avrebbe dovuto inderogabilmente rispettare le garanzie partecipative, previste dall’art. 7 della l. 241/1990, onde porre l’interessato in condizione d’interloquire al riguardo (in primis, evidentemente, proprio circa l’asserita –dal medesimo– non demanialità dell’area, oggetto d’intervento).
In senso conforme a quello sopra prospettato s’è espressa, del resto, la massima seguente: “Un esplicito riconoscimento della natura provvedimentale della d.i.a. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19 l. n. 241 del 1990 (con l’art. 3 d. l. 14.03.2005 n. 35, conv. dalla l. 14.05.2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a. il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies; pertanto, una volta formatosi il titolo edilizio della d.i.a., l’intervento dell’amministrazione può essere giustificato soltanto nell’ambito di in procedimento di secondo grado di annullamento o revoca d’ufficio, ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990, previo avviso di avvio di procedimento all’interessato e previa confutazione, ove ne sussistano i presupposti, delle ragioni dallo stesso eventualmente presentate nell’ambito della partecipazione al procedimento”.

Carattere dirimente, con assorbimento d’ogni altra doglianza, riveste la considerazione della censura sub 2), nell’ambito della quale il ricorrente ha denunziato quanto segue: “Ciò che, ad ogni modo, più propriamente rileva è che le opere di specie sono state realizzate in forza di d.i.a. acquisita al protocollo comunale in data 26.04.1997 al n. 3588, decorso il termine di legge senza che il responsabile del competente ufficio comunale abbia notificato l’ordine di non effettuare l’intervento”.
In presenza, infatti, della documentazione, prodotta da parte ricorrente, comprovante il deposito della d.i.a. in oggetto; tenuto conto del decorso di oltre nove mesi tra la data di deposito della suddetta denunzia e l’ordinanza di demolizione gravata; considerato, infine, che nessun chiarimento è stato fornito, dall’Ufficio Tecnico Comunale (nonostante l’ordine istruttorio impartito dal Collegio) circa “la relazione, intercorrente tra le opere realizzate e quelle, di cui alla d.i.a. presentata nel 2007”, tale eventualmente da corroborare l’ipotesi di una discordanza tra le opere in questione (dovendosi di conseguenza accettare, per il principio di non contestazione, l’affermazione di parte ricorrente, circa l’identità delle stesse); il Tribunale ritiene che l’adozione dell’ordinanza di demolizione impugnata dovesse essere necessariamente preceduta dall’annullamento, in autotutela, del titolo edilizio, silentemente formatosi in relazione alla suddetta denunzia d’inizio d’attività, in assenza dell’esercizio, da parte del Comune di Vibonati, del potere inibitorio, nel termine previsto dalla legge.
Per tale soluzione, cfr. la massima che segue: “E` legittimo l’ordine di demolizione di un’opera edilizia, adottato (ai sensi dell’art 35, comma 1, d.lgs. n. 380/2001) da un ente locale a tutela del patrimonio pubblico, avendo preliminarmente annullato, in autotutela, gli effetti della d.i.a., sulla quale si è impropriamente formato il silenzio assenso a causa dell’assenza del presupposto della disponibilità dell’area: anche dopo il decorso del termine di trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di legge, infatti, l’amministrazione non perde i propri poteri di autotutela, né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatori, né nel senso di poteri di espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado estrinsecantesi nell’annullamento d’ufficio e nella revoca (art. 35, comma 3, d.lgs. 380/2001)” (TAR Lombardia–Brescia – Sez. II, 03.09.2012, n. 1495).
Fermo restando, quindi, che anche nella specie l’Amministrazione conservava intatti, pur dopo il decorso del termine di legge per inibire l’intervento in questione (a seguito della presentazione della d.i.a.), i propri poteri di agire in autotutela, trattandosi di edificazione in area, qualificata come demaniale (in disparte ogni contestazione di parte ricorrente al riguardo) (rispetto alla quale tipologia di opere s’è affermato: “L’art. 35, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che disciplina gli “interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici”, dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi. Tale disciplina, differente rispetto a quella ordinaria dettata dall’art. 31 del t. u. dell’edilizia e che non prevede l’irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici” – TAR Abruzzo–Pescara – Sez. I, 14.01.2010, n. 23), ritiene il Tribunale che peraltro, prima di sanzionare con la demolizione l’edificazione delle opere descritte in epigrafe, il Comune avrebbe dovuto necessariamente eliminare l’ostacolo giuridico (rispetto all’ordine di demolizione) costituito dall’avvenuto consolidamento del titolo edilizio “per silentium”, e per fare ciò (trattandosi di provvedimento di secondo grado, incidente su un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del ricorrente) avrebbe dovuto inderogabilmente rispettare le garanzie partecipative, previste dall’art. 7 della l. 241/1990, onde porre l’interessato in condizione d’interloquire al riguardo (in primis, evidentemente, proprio circa l’asserita –dal medesimo– non demanialità dell’area, oggetto d’intervento).
In senso conforme a quello sopra prospettato s’è espressa, del resto, la massima seguente: “Un esplicito riconoscimento della natura provvedimentale della d.i.a. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19 l. n. 241 del 1990 (con l’art. 3 d. l. 14.03.2005 n. 35, conv. dalla l. 14.05.2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a. il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies; pertanto, una volta formatosi il titolo edilizio della d.i.a., l’intervento dell’amministrazione può essere giustificato soltanto nell’ambito di in procedimento di secondo grado di annullamento o revoca d’ufficio, ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990, previo avviso di avvio di procedimento all’interessato e previa confutazione, ove ne sussistano i presupposti, delle ragioni dallo stesso eventualmente presentate nell’ambito della partecipazione al procedimento” (TAR Lazio–Roma – Sez. II, 02.02.2010, n. 1408)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 06.09.2013 n. 1820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il proprietario del fondo non è responsabile della discarica creata da terzi.
Gli imputati erano stati condannati in sede di merito per avere, quali proprietari di un terreno, realizzato una discarica non autorizzata di rifiuti. In realtà, l'addebito era stato costruito su base ''omissiva'', sotto il profilo che sul terreno, da terzi, era stato attuato un accumulo di materiale vario, tra cui anche dell'eternit, e gli imputati erano stato chiamati a risponderne sotto il profilo della culpa in vigilando, per non essersi comunque positivamente attivati per rimuovere la situazione illecita.
La Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna affermando con chiarezza che la condotta incriminata, dell’avere realizzato una discarica abusiva, non può realizzarsi nel mero mantenimento della discarica da altri realizzata, nell’assenza di qualsivoglia partecipazione attiva ed in base alla sola consapevolezza della loro esistenza.
Un comportamento meramente omissivo non può infatti integrare la fattispecie del concorso nel fatto illecito altrui, giacché la condotta omissiva potrebbe dare luogo a responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi dell’articolo 40, comma 2, c.p., cioè quando il soggetto abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento: situazione all’evidenza non ricorrente nel caso di interesse, difettando nello specifico una norma che imponeva al soggetto di attivarsi per impedire il comportamento incriminato e per attivarsi, comunque, ai fini dell’eliminazione dei rifiuti depositati ed abbandonati ad opera di terzi.
Il solo fatto che l’abbandono si fosse verificato nel fondo di proprietà degli imputati non poteva quindi giustificare l’addebito penale.
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la decisione in sintesi
ESITO DEL RICORSO
Annullamento senza rinvio
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Cassazione, Sezione feriale, 13.08.2004, Preziosi
RIFERIMENTI NORMATIVI
Decreto legislativo 03.04.2006 n. 152, articolo 256; c.p., articolo 40, comma 2
DATI
Cassazione, Sezione IV, 26.06.2013-05.09.2013 n. 36406, Donati ed altro (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 05.09.2013 n. 36406).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Categorie protette, niente assunzione se l'incorporazione di altra P.A. muta la ''quota d'obbligo''.
Qualora, a seguito di incorporazione di altra Amministrazione vi sia una sopravvenienza organizzativa incompatibile con l'assunzione di nuovo personale appartenente alle cc.dd. ''categorie protette'', è legittimo il provvedimento con cui la P.A. ha comunicato al concorrente utilmente collocato in graduatoria (a seguito di scorrimento della medesima) che non si procederà più all'assunzione in servizio.

Il TAR Puglia-Lecce, con la sentenza 05.09.2013 n. 1816, ha stabilito che la sopravvenienza di una nuova situazione organizzativa che escluda la precedente “scopertura” della quota d’obbligo da destinare ai lavoratori appartenenti alle categorie protette ex L. n. 68/1999 legittima la P.A., che aveva indetto la selezione pubblica quando il quadro di riferimento era diverso, ad adottare un provvedimento che escluda l’assunzione in servizio del concorrente, benché questi si sia utilmente collocato nella graduatoria definitiva di un concorso pubblico.
Analisi del caso
A seguito della rinuncia del primo classificato e al conseguente scorrimento della graduatoria di un concorso pubblico per l’assunzione a tempo pieno e indeterminato di personale amministrativo, riservato ai soggetti appartenenti alle categorie di cui alla L. n. 68/1999, il ricorrente aveva trasmesso alla P.A. procedente tutta la documentazione richiesta ai fini dell’assunzione; con una successiva nota, però, era stato comunicato al medesimo che non sarebbe stato dato alcun seguito alla selezione, poiché, per l’avvenuta incorporazione di altra Amministrazione (nel caso di specie A.A.M.S. era stata fatta confluire nell’Agenzia delle Dogane), non vi era più la necessità, né la possibilità, di effettuare assunzioni di personale in quella speciale categoria.
Avverso tale atto, il ricorrente ha mosso le proprie censure, eccependo la violazione della stessa L. n. 68/1999, violazione degli artt. 7 e ss. della L. n. 241/1990, per vizi partecipativi, nonché dell’art. 3 della ridetta L. n. 241/1990, per difetto di motivazione, e chiedendo l’annullamento della nota con cui è stata comunicata la sopravvenuta insussistenza dei presupposti normativi per dar luogo all’assunzione.
Si è costituita la P.A. resistente che ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del G.A., ritenendo che la controversia, riguardando l’instaurazione del rapporto di lavoro, rientrasse nella giurisdizione del G.O. in funzione, proprio, di Giudice del lavoro.
Il Collegio, in sede di discussione della domanda sospensiva cautelare, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, dopo aver avvisato le parti, ha definito il giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60, D.Lgs. n. 104/2010.
La soluzione
La Sezione salentina ha preliminarmente rigettato l’eccezione processuale proposta dall’Amministrazione resistente preso atto che il ricorrente non aveva, infatti, domandato la condanna della P.A. alla costituzione del rapporto di lavoro, nel qual caso sarebbe restata ferma la giurisdizione del G.O. ex art. 63, D.Lgs. n. 165/2001, ma si è limitato a compulsare il Giudice per l’annullamento della nota e degli altri provvedimenti impugnati.
Il Collegio ha ricordato che, secondo la giurisprudenza amministrativa, i vincitori di un concorso pubblico non sono titolari di un diritto soggettivo all’assunzione, ma di un interesse legittimo, atteso che la loro aspettativa alla nomina in servizio può essere paralizzata da eventuali fatti -factum principis impeditivo- sopravvenuti, di natura normativa, organizzativa o finanziaria, che inducano la P.A. a non procedervi o, se del caso, ad annullare l’intera procedura di selezione (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 07.12.2010, n. 2161; TAR Campania, Salerno, 18.01.2012, n. 51; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29.09.2009; vd. anche Cass. civ. Sez. lav. 20.01.2009, n. 1399; Trib. Foggia, 10.01.2013, n. 193).
Ha proseguito, poi, rilevando come dal contenuto motivazionale del provvedimento gravato emergesse inequivocabilmente che l’Amministrazione non avesse ricusato l’assunzione in violazione della richiamata normativa di cui alla L. n. 68/1999, ma si fosse venuta a trovare in una situazione tale per cui, proprio nel rispetto di quella medesima disciplina, le assunzioni di dipendenti appartenenti alle categorie protette risultavano impedite per la sopraggiunta “copertura totale” delle quote d’obbligo; sicché, il Collegio, dopo aver evidenziato che le condizioni normativamente previste per l’assunzione dei lavoratori diversamente abili devono sussistere tanto al momento dell’attivazione della procedura selettiva, quanto a quello dell’immissione in servizio del concorrente utilmente collocato in graduatoria, ha disatteso il primo motivo di ricorso, perché infondato.
Quanto ai vizi partecipativi, per la violazione degli artt. 7 e ss. della L. n. 241/1990, censurati dal ricorrente, il TAR di Lecce ha considerato che, per il disposto dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, L. 241/1990, questi non avessero portata invalidante, posto che, anche ove il ricorrente fosse stato messo in condizione di partecipare al procedimento amministrativo, il relativo provvedimento finale avrebbe avuto identico tenore contenutistico (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 21.06.2013, n. 3402; idem, Sez. VI, 04.09.2007, n. 4614; TAR Basilicata, 20.12.2012, n. 570).
Da ultimo, il G.A. ha rigettato anche il terzo motivo di ricorso, ravvisando la esaustività del provvedimento nella parte in cui l’Amministrazione resistente aveva assolto all’obbligo di motivazione, esternando compiutamente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a fondamento delle proprie determinazioni, con un percorso logico-interpretativo del quale era agevole cogliere i tratti rilevanti.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Le decisioni intervenute in molti casi analoghi non sono univoche nel riconoscere al vincitore di un concorso pubblico un vero e proprio diritto all’assunzione ovvero un mero interesse legittimo, corrispondente all’aspettativa alla stessa, che può essere anche disattesa nel caso in cui sopravvengano fatti impeditivi: da questa incertezza derivano, inoltre, dubbi anche sulla individuazione del Giudice munito di giurisdizione per la risoluzione delle relative controversie (cfr. Cass. civ. Sez. Un. 02.10.2012, n. 16728; Cass. civ. Sez. VI, 14.06.2012, n. 9807; di diverso avviso, Cons. Stato, Sez. VI, 14.11.2012, n. 5).
La decisione segnalata aderisce a quell’indirizzo “pubblicistico” che ritiene prevalente l’interesse pubblico al buon andamento della P.A. e lascia regredire il diritto al lavoro, costituzionalmente garantito ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 e 97 Cost., del privato cittadino, vincitore di concorso, a semplice interesse legittimo all’assunzione, in tutti quei casi –e soltanto in quelli, aggiungeremmo– in cui intervengano fatti impeditivi che portino l’Amministrazione a non poter concludere la procedura selettiva con la sottoscrizione del contratto di lavoro; non si esclude, tuttavia, che in tali ipotesi possano sussistere ragioni legittimanti richieste di risarcimento del danno –a titolo di responsabilità precontrattuale- in favore dei concorrenti utilmente collocati nella graduatoria definitiva approvata e non assunti, in considerazione del fatto che questi ultimi, rispetto a quel preciso esito del concorso, si trovano in una situazione –quantomeno- di legittimo affidamento (cfr. Cass. civ. Sez. VI, 14.06.2012, n. 9807 citata) (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL'art. 57, comma 7, d.lgs. n. 163 del 2006 […] contiene il divieto espresso di rinnovo tacito dei contratti della p.a. aventi a oggetto servizi, lavori e forniture, finalizzato ad evitare che l’affidamento di un dato contratto sia sottratto al confronto concorrenziale tra gli operatori del relativo settore economico; esso rappresenta un principio di carattere generale, attuativo di un vincolo comunitario discendente dal trattato CE che, in quanto tale, opera per la generalità dei contratti pubblici ed è estensibile anche alle concessioni di servizi pubblici.
Detto principio prevale sulle altre e contrarie disposizioni dell’Ordinamento e della lex specialis e [ne] è consentita una deroga limitata solo con riguardo alla possibilità di prevedere una proroga del contratto e sempre che, con puntuale motivazione, l’Amministrazione dia conto degli elementi che conducono a disattendere il principio generale.
In altri termini, se l’Amministrazione opta per l’indizione della gara, nessuna particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando. Detta ultima opzione dovrà essere analiticamente motivata, dovendo essere chiarite le ragioni per le quali si sia stabilito di discostarsi dal principio generale.
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Il principio generale, da ultimo sancito dall’art. 57, comma 7, del codice dei contratti pubblici […] vieta il rinnovo tacito delle stipulazioni contrattuali.
Il rinnovo tacito altro non è che una forma di trattativa privata che esula dalle ipotesi ammesse dal diritto comunitario.
L’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art. 6 della legge n. 537/1993 e poi con l’art. 23 legge 62/2005 al fine di adeguare l’ordinamento interno ai precetti comunitari, ha quindi valenza generale e portata preclusiva di opzioni ermeneutiche e applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici. Solo rispettando il canone interpretativo appena indicato, infatti, si assicura l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario che considera il rinnovo e la proroga come un contratto originario necessitante della sottoposizione ai canoni di evidenza pubblica, mentre, accedendo a letture sistematiche che limitino la portata precettiva del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici scaduti e che introducano indebite eccezioni, si finisce per vanificare la palese intenzione del legislatore di adeguare la disciplina nazionale in materia a quella europea.
In definitiva la legislazione vigente, partendo dal presupposto che la procrastinazione meccanica del termine originario di durata di un contratto sottrarrebbe in modo intollerabilmente lungo un bene economicamente contendibile alle dinamiche fisiologiche del mercato, non consente di procedere al rinnovo o alla proroga automatica dei contratti in corso, ma solo alla loro proroga espressa per il tempo strettamente necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica.
[…] il divieto in esame, pure se fissato dal legislatore in modo espresso […] con riguardo agli appalti di sevizi, opere e forniture, esprime un principio generale attuativo di un vincolo comunitario discendente dal Trattato e, come tale, operante per la generalità dei contratti pubblici ed estensibile anche alle concessioni di beni pubblici. L’obbligo di dare corpo a procedure di evidenza pubblica deriva, infatti, in via diretta dai principi del Trattato dell’Unione Europea, direttamente applicabili a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne, in guisa da tenere in non cale disposizioni interne di segno opposto.

Esaminando, infine, il merito del ricorso, e ricordato che la Pellegrino deduce, in definitiva, la violazione dei principi generali in tema di concorrenza e delle norme che, in applicazione degli stessi, circoscrivono rigidamente per la p.a. la possibilità del rinnovo dei contratti in corso, va osservato che <<l’art. 57, comma 7, d.lgs. n. 163 del 2006 […] contiene il divieto espresso di rinnovo tacito dei contratti della p.a. aventi a oggetto servizi, lavori e forniture, finalizzato ad evitare che l’affidamento di un dato contratto sia sottratto al confronto concorrenziale tra gli operatori del relativo settore economico; esso rappresenta un principio di carattere generale, attuativo di un vincolo comunitario discendente dal trattato CE che, in quanto tale, opera per la generalità dei contratti pubblici ed è estensibile anche alle concessioni di servizi pubblici (Tar Liguria, II, 28.03.2012, n. 430).
Detto principio prevale sulle altre e contrarie disposizioni dell’Ordinamento e della lex specialis e [ne] è consentita una deroga limitata solo con riguardo alla possibilità di prevedere una proroga del contratto e sempre che, con puntuale motivazione, l’Amministrazione dia conto degli elementi che conducono a disattendere il principio generale.
In altri termini, se l’Amministrazione opta per l’indizione della gara, nessuna particolare motivazione è necessaria; non così invece se ci si avvale della possibilità di proroga prevista dal bando. Detta ultima opzione dovrà essere analiticamente motivata, dovendo essere chiarite le ragioni per le quali si sia stabilito di discostarsi dal principio generale (Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2011, n. 6194)
>> (Tar Lecce, II, 03.01.2013, n. 8).
E ancora: <<il principio generale, da ultimo sancito dall’art. 57, comma 7, del codice dei contratti pubblici […] vieta il rinnovo tacito delle stipulazioni contrattuali.
Il rinnovo tacito altro non è che una forma di trattativa privata che esula dalle ipotesi ammesse dal diritto comunitario (Cons. di Stato, VI, n. 6458 del 31.10.2006).
L’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art. 6 della legge n. 537/1993 e poi con l’art. 23 legge 62/2005 al fine di adeguare l’ordinamento interno ai precetti comunitari, ha quindi valenza generale e portata preclusiva di opzioni ermeneutiche e applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici. Solo rispettando il canone interpretativo appena indicato, infatti, si assicura l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario che considera il rinnovo e la proroga come un contratto originario necessitante della sottoposizione ai canoni di evidenza pubblica, mentre, accedendo a letture sistematiche che limitino la portata precettiva del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici scaduti e che introducano indebite eccezioni, si finisce per vanificare la palese intenzione del legislatore di adeguare la disciplina nazionale in materia a quella europea.
In definitiva la legislazione vigente, partendo dal presupposto che la procrastinazione meccanica del termine originario di durata di un contratto sottrarrebbe in modo intollerabilmente lungo un bene economicamente contendibile alle dinamiche fisiologiche del mercato, non consente di procedere al rinnovo o alla proroga automatica dei contratti in corso, ma solo alla loro proroga espressa per il tempo strettamente necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica.
[…] il divieto in esame, pure se fissato dal legislatore in modo espresso […] con riguardo agli appalti di sevizi, opere e forniture, esprime un principio generale attuativo di un vincolo comunitario discendente dal Trattato e, come tale, operante per la generalità dei contratti pubblici ed estensibile anche alle concessioni di beni pubblici (così Cons. Stato, VI, 21.05.2009, n. 3145; n. 3642/2008; V, n. 2825/2007; VI, n. 168/2005). L’obbligo di dare corpo a procedure di evidenza pubblica deriva, infatti, in via diretta dai principi del Trattato dell’Unione Europea, direttamente applicabili a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne, in guisa da tenere in non cale disposizioni interne di segno opposto
>> (Consiglio di Stato, V, 07.04.2011, n. 2151; v. anche Consiglio di Stato, V, 03.05.2012, n. 2552, secondo cui l’art. 30, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, conformemente al diritto comunitario, esclude dall’ambito applicativo del codice dei contratti pubblici gli affidamenti dei servizi pubblici, imponendo però che la scelta del gestore del servizio avvenga nel rispetto dei principi comunitari in materia di tutela della concorrenza nonché di quelli nazionali generali relativi ai contratti pubblici -di trasparenza e d’imparzialità dell’azione amministrativa).
Sulla base di quanto fin qui esposto, e così ritenuto che il rinnovo delle convenzioni violasse la previsione dell’art. 57, comma 7, citato, per quanto scritto principio generale applicabile anche alle concessioni di servizi ai sensi dell’art. 30, comma 3, d.lgs. n. 163, il ricorso deve in definitiva essere accolto, sussistendo tuttavia giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 03.09.2013 n. 1807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTIConsiglio di Stato. Progetto respinto per vizi procedurali e poi bocciato perché arrivato troppo tardi.
Uffici lenti, arrivano i danni. Riconosciuto a un'impresa, dopo 13 anni, il risarcimento per inerzia della Pa.
Un'impresa ha diritto di vedersi riconosciuto il danno causato dai ritardi dalla Pubblica amministrazione, anche se i fatti precedono il recente diluvio normativo scatenato nel tentativo di garantire «tempi certi» all'attività degli uffici pubblici. Anche i tempi per ottenere giustizia, però, possono essere biblici, e trovano una consolazione molto parziale nel riconoscimento degli interessi legali che aumentano un po' l'indennizzo per il danno.

Sono queste le conclusioni a cui si giunge nella lettura della sentenza 02.09.2013 n. 4344, con cui il Consiglio di Stato, Sez. VI, ha chiuso una vicenda che oppone un'impresa al comune di Camerino e alla regione Marche dal 1997.
A causa del «lucro cessante» e del «danno emergente» determinati dall'impossibilità di utilizzare una cava per il mancato arrivo di un'autorizzazione ambientale, i giudici amministrativi riconoscono all'impresa un rimborso da 100mila euro, che con gli interessi aumentano di circa un terzo, condannando in solido al pagamento il Comune e la Regione. Lo stop forzato dall'assenza delle carte risale però al periodo 1997-2000, mentre la sentenza definitiva è di questi giorni.
La vicenda trascende il caso specifico, perché è esemplare dei cortocircuiti amministrativi che complicano la vita delle imprese e riconosce il diritto degli operatori economici che vi incorrono a ottenere i risarcimenti, anche in base a norme presenti nel nostro ordinamento da decenni. L'impresa in questione, che utilizzava la cava fin dal 1983, aveva inviato al Comune, che l'aveva girato alla Regione, un primo progetto per il recupero ambientale della cava: nell'attesa, aveva elaborato una variante, che riduceva il volume estraibile, e l'aveva inviato direttamente alla Regione per saltare un passaggio e accorciare i tempi.
Mal gliene incolse, perché il comitato regionale del territorio, bocciando il primo progetto, giudicava "irricevibile" la variante perché arrivata direttamente dall'impresa, e non tramite il Comune. La variante venne allora instradata sull'iter normale, ma giunta al comitato fu bocciata perché arrivata dopo l'esame negativo del progetto originario. Per questa ragione, venne anche respinta l'ipotesi, avanzata dal Comune di Camerino, che sulla variante si potesse formare il silenzio assenso. Il punto, paradossale, è evidente: la variante è arrivata in ritardo per un vizio procedurale contestato dalla Regione, ed è stata respinta dalla stessa Regione perché è arrivata in ritardo.
Su questa base è fiorita una folla di atti dilatori e di rimpalli fra Comune e Regione, che hanno rappresentato gli argomenti della battaglia legale ingaggiata dall'azienda. Battaglia legale che, a sua volta, è durata parecchio di più rispetto ai ritardi amministrativi che l'hanno generata. Il primo ricorso è stato presentato nel 2000 al Tar Marche, che si è preso sei anni per decidere, nella sentenza 560 del settembre 2006, di non accogliere la domanda di risarcimento. Di qui il nuovo ricorso, arrivato nei giorni scorsi al giudizio definitivo del Consiglio di Stato dopo 13 anni di pena (articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2013).

APPALTI: Imprese trasparenti con la p.a.. Tutte le vicende modificative devono essere comunicate. Il Tar Sicilia è intervenuto a proposito dei soggetti concorrenti negli appalti pubblici.
Le esigenze sottese al procedimento a evidenza pubblica, quali l'affidabilità, oggettiva e soggettiva, nonché i necessari requisiti di moralità dei soggetti che concorrono per l'affidamento di appalti pubblici possono conciliarsi con il carattere dinamico della vita delle imprese soltanto imponendo a tali soggetti di comunicare le avvenute trasformazioni alla pubblica amministrazione, onde consentire proprio l'esercizio dei necessari poteri di controllo e verifica.
Lo ha stabilito il TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, con sentenza 26.08.2013 n. 2200.
La verifica dell'idoneità, proprio per non alterare oltremisura il sistema procedimentale che presiede alle gare per le selezioni a evidenza pubblica, presuppone inoltre, secondo i giudici siciliani, che nel caso di impresa subentrante, questa al momento della comunicazione del subingresso, fornisca, così come ogni partecipante alla gara, tutti gli elementi utili per la verifica della sussistenza del possesso dei requisiti soggettivi.
Nel caso trova applicazione l'art. 51 del codice dei contratti che stabilisce, infatti, che «qualora i candidati o i concorrenti, singoli, associati o consorziati, cedano, affittino l'azienda o un ramo d'azienda, ovvero procedano alla trasformazione, fusione o scissione della società, il cessionario, l'affittuario, ovvero il soggetto risultante dall'avvenuta trasformazione, fusione o scissione, sono ammessi alla gara, all'aggiudicazione, alla stipulazione, previo accertamento sia dei requisiti di ordine generale, sia di ordine speciale, nonché dei requisiti necessari in base agli eventuali criteri selettivi utilizzati dalla stazione appaltante ai sensi dell'articolo 62, anche in ragione della cessione, della locazione, della fusione, della scissione e della trasformazione previsti dal presente codice».
Tutto ciò in accordo anche con la recentissima giurisprudenza secondo la quale «la ratio dell'art. 51 è quella di impedire che vicende modificative, che possano in qualche modo interessare soggetti partecipanti a una gara e che si verifichino nel corso del procedimento, possano tradursi in automatiche cause di esclusione, a ciò ostando il principio, di derivazione comunitaria, di massima libertà di organizzazione delle imprese.
L'ampiezza di tale facoltà trova un limite nella necessità, posta dal diritto interno, di tutelare l'esigenza delle stazioni appaltanti di ammettere o mantenere all'interno dei procedimenti di selezione dei propri contraenti solo chi, a seguito delle richiamate vicende modificative, si trovi comunque in possesso delle necessarie condizioni soggettive generali e speciali di partecipazione
» (cfr. Tar Reggio Calabria, 18.06.2013, n. 427).
In caso di trasferimento di azienda, poi, l'ammissione del subentrante è subordinata a due condizioni, ossia che gli atti di cessione siano comunicati alla stazione appaltante e che questa abbia verificato l'idoneità soggettiva e oggettiva del subentrante.
Il Tar catanese ha, quindi, affermato che l'onere della tempestiva comunicazione alla stazione appaltante delle modificazioni soggettive dei concorrenti risponda altresì al principio di buona fede che deve permeare anche i rapporti tra amministrazione e privati.
L'applicazione di tale principio all'ambito delle commesse pubbliche impone, secondo l'orientamento dei giudici etnei, che l'impresa partecipante, pur libera di scegliere le operazioni contrattuali e di riorganizzazione ritenute più idonee per la propria «sopravvivenza imprenditoriale», informi tempestivamente la stazione appaltante, in modo da non aggravare un procedimento che il legislatore europeo e nazionale vogliono improntato alla massima concentrazione e celerità (addirittura anche nella fase contenziosa), costituendo un settore strategico della concorrenza e del mercato (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2013).

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria (art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), in quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché non venga modificata la quota d'imposta o alterato lo stato dei luoghi né planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi preesistenti.
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La sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria.

Osserva il Collegio che la sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria (art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 - T.U. Edilizia), in quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché non venga modificata la quota d'imposta o alterato lo stato dei luoghi né planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi preesistenti.
A ciò va aggiunto che la sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di costruire alternativo alla d.i.a. (Cass. pen. Sez. III, 07.02.2012, n. 17411; TRGA Trentino Alto Adige-Trento, Sent. 28.02.2008 n. 57) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2013 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'edificazione di una baracca in legno avente superficie di 1,00 mq. e altezza modesta, incompatibile con finalità abitative anche solo temporanee e non ancorata stabilmente al suolo, non integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non potendo ad essa applicarsi il concetto di costruzione previsto dall'art. 3 del DPR 380/2001.
La Corte ritiene che il ricorso meriti accoglimento.
La ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito e, in particolare, la ricostruzione delle caratteristiche della piccola baracca in legno impongono alla Corte di prendere atto di alcune circostanze essenziali ai fini del giudizio sulla corretta applicazione della legge: la costruzione in legno risulta avere superficie prossima ad un metro quadrato, altezza modesta e incompatibile con anche solo temporanee finalità abitative; risulta non ancorata stabilmente al suolo: appare per materiali e dimensioni manifestamente non rilevante rispetto alla tutela del territorio.
Difettano, dunque, i requisiti minimi perché alla struttura realizzata dalla ricorrente possa applicarsi il concetto di "costruzione" come definito dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3.
Tale considerazione impone di considerare errata l'applicazione della legge al caso concreto operata dai giudici di merito e di concludere per l'evidente insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della disposizione contenuta nell'art. 620 c.p.p. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2012 n. 4435).

EDILIZIA PRIVATA: Nel concetto di finiture di un edificio, come tali ricomprese ex art. 3, lett. a) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 nella manutenzione ordinaria, attività libera e non soggetta a d.i.a. ai sensi dell’art. 6, lettera a), stesso decreto, va ricondotta anche la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e cioè infissi, serrande, finestre, abbaini, sia con l’impiego degli stessi materiali componenti, sia con materiali diversi, purché non vengano rinnovate o sostituite parti strutturali dell’edificio, e purché l’eventuale interessamento di parti murarie dell’immobile resti strettamente confinato a quei minimali interventi di piccola muratura strumentali e occorrenti alla sostituzione o al rinnovamento del serramento.
Ritiene inoltre sul punto il Collegio che la continuità e l’identità del materiale componente non costituisce un limite alla configurazione dell’intervento di sostituzione come manutenzione ordinaria, posto che l’art. 3, lett. a) del Testo unico include nella predetta categoria edilizia sia la sostituzione che la riparazione e il rinnovamento delle finiture degli edifici -che comprendono, come detto anche i serramenti– implicitamente ammettendo, specie in virtù della locuzione “rinnovare”, che la materia del componente della finitura riparata o rinnovata, possa essere anche diversa.
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La mera sostituzione di infissi in legno, rovinati dal tempo, con nuovi infissi caratterizzati da materiali (e quindi da sagome) rispondenti all'evoluzione tecnologica, che consentono un mero miglioramento delle originarie finalità di aeroilluminazione e di coibentazione termica, ai sensi dell'art. 31, l. n. 457 del 1978, applicabile "pro tempore", rientra fra le opere di manutenzione ordinaria, per la realizzazione delle quali non è mai stato previsto alcun tipo di autorizzazione. Di conseguenza, è illegittima l'ordinanza sindacale con cui viene sanzionata la predetta sostituzione, in carenza di autorizzazione.
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Il limite estremo della manutenzione ordinaria, peraltro, può e deve essere rigorosamente fissato in diretta derivazione dalla sua finalità, che è la conservazione e il miglioramento funzionale dell’esistente, che può anche ottenersi, ex art. 3, lett. a), ultima alinea, D.P.R n. 380/2001, ponendo in essere opere necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici, ma non può mai giungere a creare o a inserire nel manufatto elementi tipologicamente e funzionalmente nuovi e diversi da quelli preesistenti.
Su tali coordinate ermeneutiche si è in parte già attestato il Consiglio di Stato, affermando che “la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand'anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un'attività antropica tesa alla formazione di un "opus" espressione di "ius utendi" (come nel caso di specie) più che di "ius aedificandi". L'elemento ontologico qualificante dell'attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento (sostituzione di infissi in legno con infissi di alluminio, automazione di cancello prima ad apertura manuale, materiali diversi), con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un "quid novi".”.
Prosegue in via di degradazione concettuale il Consiglio con la citata decisione, e in un’ottica storico–evolutiva, precisando che “ovviamente tale giudizio, squisitamente relativo, dovrà essere contestualizzato e riferito alle specificità del caso concreto nonché all'evoluzione tecnologica dei sistemi costruttivi.”

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Deve dunque il Collegio interrogarsi sul quesito se la sostituzione di un serramento, in alluminio e vetro, con altro avente le stesse dimensioni ed anche la stessa consistenza della materia componente, rientri nei confini della manutenzione ordinaria ovvero se debba invece ricondursi alle categorie di interventi edilizie più rilevanti, necessitanti, quanto, meno di una dichiarazione di inizio attività.
In particolare va segnata una linea di demarcazione tra le due categorie edilizie contermini della manutenzione ordinaria e della manutenzione straordinaria, la prima delle quali, ai sensi dell’art. 6, lettera a) del D.P.R. n. 380/2001 è attività del tutto libera, non assoggettata ad alcun titolo, nemmeno tacito o implicito, laddove la seconda sostanzia manomissioni di un edificio che assurgono ad un grado di modificazione tale da importare l’assoggettamento al primo livello di regolamentazione delle attività private, costituito dalla dichiarazione di inizio attività.
Occorre quindi appurare se la sostituzione di un serramento rientri nella manutenzione ordinaria e sia pertanto svincolata anche dalla d.i.a. oppure nella manutenzione straordinaria, assoggettata, invece alla dichiarazione di inizio attività.
La risposta che la Sezione ritiene di dover fornire non può che essere positiva. Già con la sentenza del 13.06.2008 la Sezione ha correttamente sussunto gli interventi di modesta entità aventi ad oggetto le finiture degli edifici, nell’alveo della manutenzione ordinaria.
Deve ora meglio definire e ulteriormente precisare che nel concetto di finiture di un edificio, come tali ricomprese ex art. 3, lett. a) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 nella manutenzione ordinaria, attività libera e non soggetta a d.i.a. ai sensi dell’art. 6, lettera a), stesso decreto, va ricondotta anche la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e cioè infissi, serrande, finestre, abbaini, sia con l’impiego degli stessi materiali componenti, sia con materiali diversi, purché non vengano rinnovate o sostituite parti strutturali dell’edificio, e purché l’eventuale interessamento di parti murarie dell’immobile resti strettamente confinato a quei minimali interventi di piccola muratura strumentali e occorrenti alla sostituzione o al rinnovamento del serramento.
Ritiene inoltre sul punto il Collegio che la continuità e l’identità del materiale componente non costituisce un limite alla configurazione dell’intervento di sostituzione come manutenzione ordinaria, posto che l’art. 3, lett. a) del Testo unico include nella predetta categoria edilizia sia la sostituzione che la riparazione e il rinnovamento delle finiture degli edifici -che comprendono, come detto anche i serramenti– implicitamente ammettendo, specie in virtù della locuzione “rinnovare”, che la materia del componente della finitura riparata o rinnovata, possa essere anche diversa.
Segnala il Collegio che su quest’ultimo specifico punto la giurisprudenza era già nel senso appena delineato, avendo precisato che “la mera sostituzione di infissi in legno, rovinati dal tempo, con nuovi infissi caratterizzati da materiali (e quindi da sagome) rispondenti all'evoluzione tecnologica, che consentono un mero miglioramento delle originarie finalità di aeroilluminazione e di coibentazione termica, ai sensi dell'art. 31, l. n. 457 del 1978, applicabile "pro tempore", rientra fra le opere di manutenzione ordinaria, per la realizzazione delle quali non è mai stato previsto alcun tipo di autorizzazione. Di conseguenza, è illegittima l'ordinanza sindacale con cui viene sanzionata la predetta sostituzione, in carenza di autorizzazione” (TAR Lazio Roma, Sez. II, 09.05.2005, n. 3438).
Il limite estremo della manutenzione ordinaria, peraltro, a parere della Sezione può e deve essere rigorosamente fissato in diretta derivazione dalla sua finalità, che è la conservazione e il miglioramento funzionale dell’esistente, che può anche ottenersi, ex art. 3, lett. a), ultima alinea, D.P.R n. 380/2001, ponendo in essere opere necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici, ma non può mai giungere a creare o a inserire nel manufatto elementi tipologicamente e funzionalmente nuovi e diversi da quelli preesistenti.
Su tali coordinate ermeneutiche si è in parte già attestato il Consiglio di Stato, affermando che “la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand'anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un'attività antropica tesa alla formazione di un "opus" espressione di "ius utendi" (come nel caso di specie) più che di "ius aedificandi". L'elemento ontologico qualificante dell'attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento (sostituzione di infissi in legno con infissi di alluminio, automazione di cancello prima ad apertura manuale, materiali diversi), con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un "quid novi".” (Consiglio Stato, Sez. IV, 30.06.2005, n. 3555).
Prosegue in via di degradazione concettuale il Consiglio con la citata decisione, e in un’ottica storico–evolutiva, precisando che “ovviamente tale giudizio, squisitamente relativo, dovrà essere contestualizzato e riferito alle specificità del caso concreto nonché all'evoluzione tecnologica dei sistemi costruttivi.”
Orbene, applicando al caso all’esame i principi esegetici appena enucleati, rileva il Collegio che la sig.ra Canetta si è pienamente posizionata all’interno dei confini, testé definiti, della categoria edilizia della manutenzione ordinaria, essendosi limitata ad una mera sostituzione del vecchio serramento in alluminio e vetro, come emerge dal presupposto verbale di sopralluogo, rispettandone le originarie dimensioni e senza nemmeno procedere ad una modifica dei materiali componenti l’elemento in questione, cosa che pure avrebbe potuto porre in essere senza esorbitare dall’alveo della manutenzione ordinaria.
Ne consegue che l’intervento sostitutivo posto in opera, contrariamente a quanto sostenuto dagli uffici comunali, non era assoggettato a d.i.a., in forza del disposto di cui all’art. 6, lettera a). del D.P.R. n. 380.2001, a mente del quale, salve più restrittive disposizioni regionali o rivenienti dagli strumenti urbanistici o dalla normativa a protezione dei beni culturali e ambientali, possono essere eseguiti senza titolo edilizio gli interventi di manutenzione ordinaria.
E’ pertanto illegittima l’ordinanza impugnata, che ha comminato alla ricorrente, sull’errato presupposto della soggezione a d.i.a. dell’intervento da lei posto in essere, la sanzione pecuniaria prevista per la realizzazione sine titulo di interventi assoggettati al regime della dichiarazione di inizio attività (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 02.03.2009 n. 620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATra gli interventi di manutenzione ordinaria possono farsi rientrare solo quelli di modesta entità, che hanno per oggetto le finiture degli edifici e non quelli che hanno ad oggetto anche parti, porzioni o elementi strutturali di un edificio o di un manufatto. Infatti, laddove è accertata la realizzazione di nuova volumetria è sempre necessario il rilascio di concessione edilizia (o di permesso di costruire) e non è possibile riscontrare ordinaria o straordinaria manutenzione a fronte di suddetto aumento di volumetria.
Tale conclusione è desumibile dalla medesima disposizione di cui all’art. 31, lett. a), l. n. 457/1978 per la quale sono definiti interventi di manutenzione ordinaria “…quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti”.

Sul punto il Collegio rileva che, in senso generale, tra gli interventi di manutenzione ordinaria possono farsi rientrare solo quelli di modesta entità, che hanno per oggetto le finiture degli edifici e non quelli che hanno ad oggetto anche parti, porzioni o elementi strutturali di un edificio o di un manufatto (TAR Trentino, 28.02.2008, n. 57). Infatti, laddove è accertata la realizzazione di nuova volumetria è sempre necessario il rilascio di concessione edilizia (o di permesso di costruire) e non è possibile riscontrare ordinaria o straordinaria manutenzione a fronte di suddetto aumento di volumetria (TAR Lazio, Sez. II, 18.05.2005, n. 3915 e 06.10.2001, n. 8160; Cons. Stato, Sez. V, 12.10.1999, n. 1431 e 13.07.1992, n. 646).
Tale conclusione è desumibile dalla medesima disposizione di cui all’art. 31, lett. a), l. n. 457/1978 richiamata dai ricorrenti, per la quale sono definiti interventi di manutenzione ordinaria…quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2008 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza in senso urbanistico-edilizio elaborata dalla giurisprudenza amministrativa non coincide con il concetto civilistico di pertinenza ai sensi dell’art. 817 c.c., atteso che la prima richiede, ai fini della qualificazione dell’opera come pertinenziale, che essa non costituisca un volume autonomo né modifichi la sagoma dell’edificio principale e che non sia stabilmente vincolata al suolo in modo permanente, tutte caratteristiche invece presenti nel manufatto individuato nel provvedimento impugnato.
Ai fini di conformità edilizia, quindi, non rileva neanche l’eventuale carattere provvisorio della struttura ma l’oggettiva idoneità del manufatto ad incidere sullo stato dei luoghi, a prescindere dall’intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità, con la conseguenza che la precarietà è esclusa ogni qualvolta l’opera sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, in relazione alla obiettiva e intrinseca destinazione naturale dell’edificio stesso.
Sempre sotto tale profilo, non è consentibile la realizzazione di opere di rilevante consistenza che determinano un ulteriore carico urbanistico, sol perché destinate dal proprietario dell’edificio (principale) a servizio dello stesso, ed alterano in modo significativo l’assetto urbanistico del territorio, come riscontrabile invece nel caso di specie, ove l’opera così realizzata ha dato luogo all’aumento della superficie utile commerciale con relativo aumento del carico antropico.

Il Collegio rileva che la nozione di pertinenza in senso urbanistico-edilizio elaborata dalla giurisprudenza amministrativa non coincide con il concetto civilistico di pertinenza ai sensi dell’art. 817 c.c., atteso che la prima richiede, ai fini della qualificazione dell’opera come pertinenziale, che essa non costituisca un volume autonomo né modifichi la sagoma dell’edificio principale e che non sia stabilmente vincolata al suolo in modo permanente (TAR Em. Rom., Bo, Sez. II, 03.12.2007, n. 3781), tutte caratteristiche invece presenti nel manufatto individuato nel provvedimento impugnato.
Ai fini di conformità edilizia, quindi, non rileva neanche l’eventuale carattere provvisorio della struttura ma l’oggettiva idoneità del manufatto ad incidere sullo stato dei luoghi, a prescindere dall’intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità, con la conseguenza che la precarietà è esclusa ogni qualvolta l’opera sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, in relazione alla obiettiva e intrinseca destinazione naturale dell’edificio stesso (TAR Basilicata, 19.01.2008, n. 11).
Sempre sotto tale profilo, non è consentibile la realizzazione di opere di rilevante consistenza che determinano un ulteriore carico urbanistico, sol perché destinate dal proprietario dell’edificio (principale) a servizio dello stesso, ed alterano in modo significativo l’assetto urbanistico del territorio (TAR Lazio, Lt, 10.12.07, n. 1557), come riscontrabile invece nel caso di specie, ove l’opera così realizzata ha dato luogo all’aumento della superficie utile commerciale con relativo aumento del carico antropico
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2008 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli interventi di manutenzione ordinaria sono solo quelli di modesta entità, che hanno per oggetto le finiture degli edifici, mentre quelli di manutenzione straordinaria, pur avendo la medesima natura dei primi, hanno un oggetto diverso e cioè parti, porzioni ed elementi anche strutturali dell'edificio.
E’ stato osservato che, seppure fra gli interventi di manutenzione ordinaria (non soggetti ad alcun assenso edilizio), di cui all'art. 31, lett. a), l. 05.08.1978 n. 457, siano compresi anche quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione di finiture degli edifici, non possono ritenersi inclusi fra tali interventi [appartenendo viceversa all'ipotesi della manutenzione straordinaria precisata nella successiva lett. b) della medesima disposizione, laddove si parla di rinnovo e sostituzione di parti anche strutturali degli edifici] i lavori consistenti nella demolizione e ricostruzione dei frontalini dei balconi di un immobile, con modifica, tuttavia, dei precedenti oggetti ed ornamenti; donde in tal caso l'obbligo di previa autorizzazione comunale.
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La sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di costruire alternativo alla d.i.a..
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I coppi di rivestimento originario del tetto erano in effetti del tutto differenti, per colore e caratteristiche fisiche, rispetto a quelli posti poi in opera dai ricorrenti, sicché i relativi lavori integrano un intervento di manutenzione straordinaria e non già meramente ordinaria.

Al riguardo la giurisprudenza ha evidenziato che gli interventi di manutenzione ordinaria sono solo quelli di modesta entità, che hanno per oggetto le finiture degli edifici, mentre quelli di manutenzione straordinaria, pur avendo la medesima natura dei primi, hanno un oggetto diverso e cioè parti, porzioni ed elementi anche strutturali dell'edificio.
E’ stato osservato (cfr. TAR Lazio, sez. II, 28.11.1988, n. 1516) che, seppure fra gli interventi di manutenzione ordinaria (non soggetti ad alcun assenso edilizio), di cui all'art. 31, lett. a), l. 05.08.1978 n. 457, siano compresi anche quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione di finiture degli edifici, non possono ritenersi inclusi fra tali interventi [appartenendo viceversa all'ipotesi della manutenzione straordinaria precisata nella successiva lett. b) della medesima disposizione, laddove si parla di rinnovo e sostituzione di parti anche strutturali degli edifici] i lavori consistenti nella demolizione e ricostruzione dei frontalini dei balconi di un immobile, con modifica, tuttavia, dei precedenti oggetti ed ornamenti; donde in tal caso l'obbligo di previa autorizzazione comunale.
A parere del Collegio appare indubbio che la fattispecie all’esame si ponga sulla linea di confine tra l’una e l’altra tipologia di lavori.
Peraltro, la soluzione alla questione giuridica sottoposta all’esame del Tribunale è rinvenibile proprio nel principio di diritto affermato nella pronuncia della Cassazione penale (sez. III, 25.01.2006, n. 2935) invocata a sostegno delle loro ragioni dai ricorrenti.
Infatti, con detta sentenza è stato precisato che “la sostituzione del manto di copertura del tetto rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria a condizione che non vi sia alcuna alterazione dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, diversamente si configura una ipotesi di manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia di inizio attività, se non di nuova costruzione con permesso di costruire alternativo alla d.i.a.”.
Condividendo integralmente detto indirizzo il Collegio deve dunque concludere che, emergendo palesemente dalla documentazione fotografica, riproducente il precedente ed il successivo manto di copertura, che i coppi di rivestimento originario del tetto erano in effetti del tutto differenti, per colore e caratteristiche fisiche, rispetto a quelli posti poi in opera dai ricorrenti, i relativi lavori integrano un intervento di manutenzione straordinaria e non già meramente ordinaria, come assumono i deducenti (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 28.02.2008 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa finalità delle opere di "restauro e risanamento conservativo" è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, ma essa deve essere attuata -poiché si tratta pur sempre di conservazione- nel rispetto dei suoi elementi essenziali "tipologici, formali e strutturali".
Ne deriva che non possono essere mutati:
- là "qualificazione tipologica" del manufatto preesistente, cioè i caratteri architettonici e funzionali di esso che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie;
- gli "elementi formali" (disposizione dei volumi, elementi architettonici) che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando l'immagine caratteristica di esso;
- gli "elementi strutturali", cioè quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.

Manifestamente infondata è altresì la doglianza di immotivata esclusione della riconducibilità delle opere realizzate al regime del "restauro e risanamento conservativo".
Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 1, lett. c), (con definizione già fornita dalla L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lett. c), identifica gli interventi di restauro e risanamento conservativo come quelli "rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che -nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso- ne consentano destinazioni d'uso con esso compatibili".
Tali interventi, in particolare, possono comprendere:
- il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio;
- l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso;
- l'eliminazione di elementi estranei all'organismo edilizio.
La finalità è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, ma essa deve essere attuata -poiché si tratta pur sempre di conservazione- nel rispetto dei suoi elementi essenziali "tipologici, formali e strutturali".
Ne deriva che non possono essere mutati:
- là "qualificazione tipologica" del manufatto preesistente, cioè i caratteri architettonici e funzionali di esso che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie;
- gli "elementi formali" (disposizione dei volumi, elementi architettonici) che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando l'immagine caratteristica di esso;
- gli "elementi strutturali", cioè quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.
Nella fattispecie in esame, invece, i giudici del merito hanno accertato che non e ravvisabile un'attività di conservazione, recupero o ricomposizione di spazi, secondo le modalità e con i limiti dianzi delineati, bensì la prosecuzione della realizzazione di un edificio abusivo, i cui muri perimetrali in parte erano stati già costruiti (attività illecita per la quale l'imputato era stato pure condannato con sentenza definitiva), con creazione "ex nova" di volumetria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2006 n. 16048).

EDILIZIA PRIVATA: Rientrano quindi negli interventi di manutenzione ordinaria la sostituzione del pavimento delle terrazze o la sostituzione dei manti di copertura dei tetti allorché non vi sia alterazione alcuna dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, altrimenti si versa o nell'ipotesi della manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia d'attività, o in quella della nuova costruzione per la quale occorre il permesso di costruire o alternativamente la cosiddetta super d.i.a., nelle ipotesi di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, comma 3.
Si considerano interventi di manutenzione straordinaria le opere o le modifiche necessarie per rinnovare o sostituire parti anche strutturali degli edifici preesistenti a condizione che non siano alterati i volumi delle singole unite immobiliari o modificata la destinazione d'uso o la sagoma dell'edificio.

Con ordinanza del 28.06.2005, il Tribunale del riesame di Napoli revocava il decreto di sequestro di una struttura lignea che insisteva sul terrazzo di proprietà esclusiva di R.A. a carico della quale era stato ipotizzato il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44. lett. b).
A fondamento della decisione il collegio, dopo avere premesso che la struttura lignea era già esistente e che la R. al momento del sopralluogo stava sostituendo la copertura costituita da canne con pannelli in policarbonato, osservava che l'intervento non richiedeva il permesso di costruire poiché non erano stati creati nuovi volumi.
Ricorre per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli denunciando la violazione delle norme sostanziali e processuali e omessa motivazione per travisamento del fatto.
Assume che trattasi di una struttura della superficie di circa 75 metri quadrati non costituita soltanto da elementi lignei sulla quale al momento del sequestro era in atto la copertura.
Precisa che anche le opere prive di volumetria possono richiedere il permesso di costruire e che nella fattispecie si stava realizzando una tettoia in prosecuzione di una precedente struttura lignea.
Resiste al ricorso l'interessata con memoria depositata il 26.11.del 2005.
...
Dall'ordinanza impugnata e dallo stesso ricorso emerge che l'indagata, su una struttura lignea preesistente collocata sul terrazzo di sua proprietà esclusiva, aveva sostituito la copertura preesistente, costituita da incantucciato, con una formata da policarbonato trasparente.
In base al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 6, comma 1, salvo più restrittive disposizioni previste dalla disciplina regionale e dagli strumenti urbanistici, possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo solo gli interventi di manutenzione ordinaria, quelli volti all'eliminazione di barriere architettoniche e le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano eseguite in aree esterne al centro edificati. Tutti gli altri interventi richiedono il titolo abilitativo che può essere costituito dal permesso di costruire o dalla denuncia d'inizio attività.
In base al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, lettera a), si considerano interventi di manutenzione ordinaria quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare e mantenere in efficienza gli impianti tecnologici preesistenti.
Rientrano quindi negli interventi di manutenzione ordinaria la sostituzione del pavimento delle terrazze o la sostituzione dei manti di copertura dei tetti allorché non vi sia alterazione alcuna dell'aspetto o delle caratteristiche originarie, altrimenti si versa o nell'ipotesi della manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la denuncia d'attività, o in quella della nuova costruzione per la quale occorre il permesso di costruire o alternativamente la cosiddetta super d.i.a., nelle ipotesi di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, comma 3.
Si considerano interventi di manutenzione straordinaria le opere o le modifiche necessarie per rinnovare o sostituire parti anche strutturali degli edifici preesistenti a condizione che non siano alterati i volumi delle singole unite immobiliari o modificata la destinazione d'uso o la sagoma dell'edificio.
Quello in esame potrebbe rientrare nella manutenzione straordinaria alle seguenti condizioni:
a) che la precedente struttura lignea fosse stata ritualmente assentita, altrimenti tutta la struttura continuerebbe ad essere illecita ed a richiedere il permesso di costruire, quale nuova costruzione;
b) che non sia stata modificata la sagoma dell'edificio o la destinazione d'uso. Rientra invero nel concetto di nuova costruzione qualsiasi modificazione del suolo inedificato o dell'edificio preesistente, diversa da quelle riconducibili alla manutenzione ordinaria o straordinaria.
Quella in esame, per le sue dimensioni e caratteristiche, ancorché priva di tamponatura o chiusura doveva considerarsi nuova costruzione avuto riguardo al fatto che costituiva pur sempre un corpo di fabbrica avente incidenza concreta e ben visibile sulla fisionomia dell'immobile di cui erano mutati il volume complessivo e l'aspetto esteriore (cfr. per fattispecie analoghe Cass sez. 3^ 06.05.1994 n. 7613, Petrillo; Cass. sez. 3^ 6925 del 1999; Cass. sez. 3^ 29.10.1983 n. 9057, Galloni; Cons. Stato sez. 5^, 06.05.1991 n. 732).
Era quindi importate stabilire se l'intervento di copertura si riferiva ad una costruzione regolarmente autorizzata, come lascia intendere la R. nella memoria depositata il 26.11.2005, nel qual caso non sarebbe configurabile alcun reato se non è stata modificata la sagoma o la destinazione d'uso dell'edificio, ovvero ad una costruzione ab origine illegittima perché non assentita, come genericamente affermato dal Pubblico Ministero.
In quest'ultimo caso invero non si può parlare di intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria ma di prosecuzione dell'originaria attività illecita. Su questo elemento fattuale determinante ai fini della decisione la motivazione è completamente carente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.01.2006 n. 2935 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ritenersi pacifico che sia nel vecchio regime che in quello nuovo introdotto dal t.u. edilizia, l’installazione ex novo di cancelli o sbarre infisse al suolo permanentemente non possa ricondursi all’attività di manutenzione ordinaria, abbisegnovole com’è di titolo abilitativo (prima autorizzazione edilizia, ora d.i.a. c.d. leggera).
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La nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione di ius utendi più che di ius edificandi.
Deve evidenziarsi, però, che l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa si che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento (sostituzione di infissi in legno con infissi di alluminio, automazione di cancello prima ad apertura manuale, materiali diversi), con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente non potendosi dare origine ad un quid novi.
Ed ovviamente tale giudizio, squisitamente relativo, dovrà essere contestualizzato e riferito alle specificità del caso concreto nonché all’evoluzione tecnologica dei sistemi costruttivi.
Sotto il profilo sistematico e storico, tale interpretazione dinamica del concetto di manutenzione ordinaria è quella che meglio si confà alle istanze di moderata e controllata liberalizzazione dell’attività edilizia sottese alla redazione del nuovo t.u. dell’edilizia.
Nel peculiare caso di specie deve escludersi che sia stato realizzato un manufatto <<funzionalmente nuovo>> ovvero <<di grande consistenza>>, in sintonia con l’ampia casistica della giurisprudenza di merito che in vicende simili ha ricompreso nell’attività di manutenzione ordinaria:
a) l’automazione di una sbarra preesistente;
b) la sostituzione di antenne preesistenti di impianti di telefonia cellulare diverse solo dal punto di vista tecnico;
c) la sostituzione di una caldaia;
d) la sostituzione di pali telefonici fatiscenti.

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Miglior sorte non tocca al secondo motivo di gravame.
Da tutta la documentazione versata in atti (ed in particolare dalle dichiarazioni di vari lavoratori addetti all’azienda agricola del Dal Ferro, dall’accertamento compiuto dai VV.UU in loco, e dalle stesse dichiarazioni dei denuncianti il presunto abuso –che non sono incompatibili sul piano logico con l’assunto del Dal Ferro-) emerge che effettivamente, nel punto in cui è stata installata la sbarra in contestazione, ne sussisteva una precedente sin dai primi anni ’70, di dimensioni simili e realizzata con materiale ferroso di scarto (rotaie di ferro).
Per la precisione tale sbarra insiste in una landa di campagna semi isolata, avulsa da qualsiasi recinzione (come si evince dalle fotografie versate in atti dalla difesa del Dal Ferro e non contestate specificamente da controparte).
Ciò premesso in fatto, si tratta quindi di stabilire se la sostituzione delle parti corrose della sbarra sia o meno riconducibile ad attività di manutenzione ordinaria.
Come noto e per quanto di interesse ai fini della presente controversia, l’art. 6, co. 1, n. 1), t.u. edilizia dispone che, fatte salve le più restrittive disposizioni previste dalla normativa regionale, gli interventi di manutenzione ordinaria possono essere eseguiti senza titolo abilitativo (permesso di costruire, super d.i.a., d.i.a. normale).
L’art. 3, co. 1, lett. a), del medesimo t.u. (in parte qua riproduttivo delle norme sancite dall’art. 31, l. n. 457 del 1978), specifica che si intendono per interventi di manutenzione ordinaria <<... gli interventi edilizi riguardanti le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti>>.
Nel caso di specie la sbarra in contestazione non può propriamente essere qualificata edificio; si tratta, invece, di un’opera tecnologica a servizio del fondo rustico cui accede per delimitarne i confini.
Deve ritenersi pacifico che sia nel vecchio regime che in quello nuovo introdotto dal t.u. edilizia, l’installazione ex novo di cancelli o sbarre infisse al suolo permanentemente non possa ricondursi all’attività di manutenzione ordinaria, abbisegnovole com’è di titolo abilitativo (prima autorizzazione edilizia, ora d.i.a. c.d. leggera, cfr. sez. II, 27.10.2004, n. 1823/2003; sez. V, 15.10.2003, n. 6293; sez. II, 12.05.1999, n. 720/1999; sez. V, 06.10.1993, n. 994).
Si è anche precisato che la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti (cfr. sez. V, 06.10.1993, n. 994), fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione (come nel caso di specie) di ius utendi più che di ius edificandi.
Deve evidenziarsi, però, che l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa si che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento (sostituzione di infissi in legno con infissi di alluminio, automazione di cancello prima ad apertura manuale, materiali diversi), con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente non potendosi dare origine ad un quid novi.
Ed ovviamente tale giudizio, squisitamente relativo, dovrà essere contestualizzato e riferito alle specificità del caso concreto nonché all’evoluzione tecnologica dei sistemi costruttivi.
Sotto il profilo sistematico e storico, tale interpretazione dinamica del concetto di manutenzione ordinaria è quella che meglio si confà alle istanze di moderata e controllata liberalizzazione dell’attività edilizia sottese alla redazione del nuovo t.u. dell’edilizia.
Nel peculiare caso di specie deve escludersi che sia stato realizzato un manufatto <<funzionalmente nuovo>> ovvero <<di grande consistenza>>, in sintonia con l’ampia casistica della giurisprudenza di merito che in vicende simili ha ricompreso nell’attività di manutenzione ordinaria:
a) l’automazione di una sbarra preesistente;
b) la sostituzione di antenne preesistenti di impianti di telefonia cellulare diverse solo dal punto di vista tecnico;
c) la sostituzione di una caldaia;
d) la sostituzione di pali telefonici fatiscenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2005 n. 3555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera sostituzione di infissi di legno, ammalorati dal tempo, con nuovi infissi caratterizzati da materiali (e quindi da sagome) rispondenti all’evoluzione tecnologica, che consentono un mero miglioramento delle originarie finalità di aeroilluminazione e di coibentazione termica, ai sensi dell'art. 31 della legge n. 457 del 1978, applicabile pro tempore, rientra fra le opere di manutenzione ordinaria, per la realizzazione delle quali non è mai stato previsto alcun tipo di autorizzazione.
Con ordinanza n. 802 dell'11.06.1990, questo Tribunale ha accolto la domanda cautelare incidentale di sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.
Il provvedimento impugnato risulta motivato dalla mancata richiesta di autorizzazione per un intervento che, sostituendo dodici finestre con infissi di disegno e materiali diversi da quelli originari, rivelerebbe una evidente finalità di manutenzione straordinaria dell'appartamento, modificando la "sagoma" dell’edificio, ovvero il suo "contorno" comprendente ogni suo punto esterno. Ne sarebbe conseguita la violazione della legge n. 457 del 1978 (art. 48), prescrivente la preventiva autorizzazione per gli interventi di manutenzione straordinaria.
A giudizio del Collegio, peraltro, non appare condivisibile la riconduzione dell’opera ad un intervento di straordinaria manutenzione, in quanto la mera sostituzione di infissi di legno, ammalorati dal tempo, con nuovi infissi caratterizzati da materiali (e quindi da sagome) rispondenti all’evoluzione tecnologica, che consentono un mero miglioramento delle originarie finalità di aeroilluminazione e di coibentazione termica, ai sensi dell'art. 31 della legge n. 457 del 1978, applicabile pro tempore, rientra fra le opere di manutenzione ordinaria, per la realizzazione delle quali non è mai stato previsto alcun tipo di autorizzazione.
Secondo la predetta disposizione, infatti, sono interventi di manutenzione ordinaria "quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti".
Risulta, quindi, fondato il primo motivo di impugnazione, volto a far valere la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della legge 28.02.1985, n. 47, nonché l’eccesso di potere per errore nei presupposti.
Ne discende l’illegittimità della sanzione, irrogata per la violazione di una normativa che non era, in realtà, applicabile alla fattispecie considerata (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 09.05.2005 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.09.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: R. Lasca, Anche la Civit si esercita operativamente nel distinguo tra consulenti e prestatori di servizi, ai fini degli adempimenti pubblicitari imposti dal D.Lgs. n. 33/2013: o almeno ci prova!  - Non tutto quello che c’è scritto nella deliberazione Civit n. 59/2013 è letteralmente condivisibile ed applicabile: chiariamo meglio! (11.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, INCARICHI ESTERNI DELLE PP.AA.: ATTESTAZIONI SU ASSENZA DI CONFLITTO DI INTERESSI ……. DI CHI, QUANDO E COME? - Quando l’aula seminariale è maestra ben più del nostro argomentare e delle nostre personali esperienze: da qui l’importanza delle giornate seminariali tanto osteggiate dalle spending review governative! (10.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, IL PIANO CASA CAMPANIA LETTO DAL CONSIGLIO DI STATO - Dopo Consiglio di Stato, Sez. IV , sentenza n. 3539 del 01/07/2013, qual è la corretta interpretazione dell’art. 4, comma 1, del PIANO CASA CAMPANIA? (10.09.2013).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legge Europea del 2013 - Dal 4 settembre accesso al pubblico impiego anche per i cittadini extracomunitari (CGIL-FP di Bergamo, nota 10.09.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.L. n. 69/2013 art. 31 – semplificazioni in materia di Durc - Circolare Ministero del Lavoro n. 36/2013 (ANCE di Bergamo, circolare 13.09.2013 n. 211).

APPALTI: Oggetto: D.L. n. 76/2013 (cd. “Decreto lavoro”) – Circolare Ministero del Lavoro n. 35/2013 (ANCE di Bergamo, circolare 13.09.2013 n. 210).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legge 98 del 09 agosto 2013: novità in materia di DURC (Cassa Edile di Bergamo e Edilcassa Artigiana di Bergamo, nota 11.09.2013 n. 1360 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Approvazione del Piano Nazionale Anticorruzione (CIVIT, delibera 11.09.2013 n. 72/2013).

COMPETENZE PROGETTUALI - EDILIZIA PRIVATAOggetto: DPR 16.04.2013 n. 75 - Regolamento recante disciplina dei criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l'indipendenza degli esperti e degli organismi a cui affidare la certificazione energetica degli edifici - requisiti dei soggetti abilitati alla certificazione energetica degli edifici mancata previsione di una disciplina transitoria - Ingegneri vecchio ordinamento - problemi applicativi - richiesta urgente di parere ed intervento (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, nota 09.09.2013 n. 4693 di prot.).
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Ingegneri: i corsi formativi ai novizi. Ape, i certificatori esperti già abilitati.
Per i tecnici che da anni (e prima del 12 luglio scorso) redigono la certificazione energetica degli edifici non è necessaria la partecipazione a specifici corsi di formazione con esame finale e conseguimento dell'attestato di frequenza per il rilascio dell'Ape. Il possesso dell'attestato di frequenza, con superamento dell'esame finale, relativo a specifici corsi di formazione per la certificazione energetica degli edifici può avere un senso e valere unicamente se riferita a coloro che si troveranno ad operare a partire dall'entrata in vigore del dpr 16.04.2013 n. 75 (e cioè dal 12.07.2013), facendo così salva l'attività dei tecnici già operanti nel settore (anche appartenenti ad altre professioni aventi competenza in materia).

Questa è la precisazione contenuta nella circolare del 09.09.2013 n. U-rsp/4693/2013 del Consiglio nazionale degli ingegneri con la quale viene richiesto un chiarimento al ministero dello sviluppo economico, al ministero dell'ambiente e alle infrastrutture sulla mancanza di disciplina transitoria rivolta a salvaguardare le competenze acquisite dai professionisti operanti nel settore.
Ricordiamo che il 12 luglio è entrato in vigore il dpr 16.04.2013 n. 75 con il quale sono stati definiti i requisiti che devono aver i tecnici chiamati a redigere l'attestato di prestazione energetica (Ape) (si veda Italia Oggi del 26 giugno scorso). Il dpr elenca i titoli di studio da possedere: in pratica tutte le lauree tecniche e tutti i diplomi tecnici. Per l'abilitazione bisogna essere iscritti a un ordine professionale (laddove ne esista uno) e ottenere una certificazione attestante il possesso dell'esperienza nella progettazione di edifici o di impianti.
Alcuni laureati (per esempio in matematica o in fisica o in ingegneria), però, devono frequentare un corso abilitante di 64 ore che è organizzato da ordini, università, enti di ricerca, regioni, province autonome (art. 2, comma 4, lett. b), del dpr n. 75/2013). Nella nota del 9 settembre scorso il Consiglio nazionale degli ingegneri afferma che l'art. 2, comma 4, lett. b), del dpr n. 75 del 2013 debba essere applicato unicamente a coloro che si troveranno a operare a partire dall'entrata in vigore del dpr 16.04.2013 n. 75 e cioè dal 12 luglio scorso, facendo salva l'attività dei tecnici già operanti nel settore.
L'articolo 2, comma 4, lett. b), del dpr 75 prevede, infatti, la frequenza, con superamento dell'esame finale, relativo a specifici corsi di formazione per la certificazione energetica degli edifici anche per chi è in possesso di uno dei seguenti titoli: «Laurea magistrale fisica, ingegneria, matematica, scienze chimiche, scienze della natura, scienze e tecnologie geologiche, scienze e tecnologie per l'ambiente e il territorio, scienze geofisiche ovvero laurea specialistica in fisica» (articolo ItaliaOggi del 12.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: ULTERIORI NOTE IN MATERIA DI ALLEGAZIONE DELL’ATTESTATO DI PRESTAZIONE ENERGETICA DOPO LA LEGGE DI CONVERSIONE DEL “DECRETO DEL FARE" (Consiglio Nazionale del Notariato, settembre 2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: applicazione art. 43, comma 2-bis e seguenti della l.r. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Agricoltura - Sviluppo di Sistemi Forestali, Agricoltura di Montagna, Uso e Tutela del Suolo Agricolo, nota 16.05.2013 n. 34319 di prot.).
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... con la presente si forniscono chiarimenti interpretativi in ordine all’applicazione della maggiorazione del contributo di costruzione nel caso di rilascio di titoli abilitativi relativi all’attuazione di piani di lottizzazioni, piani di intervento integrato o altre iniziative comunali, alla base dei quali vi sia una convenzione con l’operatore privato approvata dall’amministrazione comunale in data antecedente il 12.04.2009 (data di entrata in vigore della norma, ovvero tre mesi dal 12/01/2009 data di pubblicazione sul B.U.R.L. della d.g.r. n. 8757/2008). (... continua).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAChi deve iscriversi all’Albo Gestori Ambientali? (16.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri: come si svolgeranno le semplificazioni del sistema? (16.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerre e rocce da scavo: quali semplificazioni? (16.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum senza paletti. Validi regolamenti conformi al dlgs 267. Per le sedute del consiglio comunale in seconda convocazione.
Quesito: Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione tenuto conto che, nella fattispecie, il regolamento comunale reca una disposizioni in base alla quale le sedute di seconda convocazione sono valide purché intervengano almeno quattro membri?

La normativa regolamentare risulta conformata all'art. 127 del T.u. 148/1915 che prevede, per la validità delle sedute di prima convocazione, la presenza della metà dei consiglieri assegnati mentre, in seconda convocazione, quella di almeno quattro membri.
L'art. 38, comma 2, del dlgs. n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «...nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l'art. 273, comma 6, dello stesso dlgs n. 267/2000 il quale detta una disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915 (e, quindi, delle previsioni regolamentari ad esso conformate), fino all'adeguamento statutario e regolamentare ai nuovi canoni previsti dal citato dlgs n. 267/2000 nella materia considerata.
Pertanto, nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale, conformato sostanzialmente all'art. 127 citato, deve ritenersi tuttora applicabile, fino a quando non interverrà il prescritto adeguamento alle previsioni contemplate dal richiamato art. 38, comma 2, del Tuoel.
È, comunque, opportuno che le disposizioni statutarie e regolamentari in materia vengano aggiornate alle richiamate norme di legge onde evitare ogni ulteriore dubbio interpretativo (articolo ItaliaOggi del 13.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni e denunce penali.
Quesito: Il presidente del consiglio comunale può riscontrare negativamente la richiesta di convocazione, formulata ai sensi dell'art. 39, comma 2, del Tuel n. 267/2000, quando la suddetta richiesta sia finalizzata all'esame di atti deliberativi consiliari oggetto di denuncia penale?

La giurisprudenza, in materia, si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto.
Sulla base dell'ordine del giorno fissato, ogni questione di ammissibilità alla discussione degli argomenti previsti è attribuita al potere «sovrano» delle assemblee politiche (Tar per la Puglia Sezione di Lecce – I Sez., sentenza n. 1022/2004) al quale spetta di decidere, in via pregiudiziale (Tar Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale, si deduce che le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio.
Per quanto concerne l'asserita presenza di vincoli relativi ad atti istruttori posti in essere dall'Autorità giudiziaria, si rinvia alla disciplina recata dal codice di procedura penale (articolo ItaliaOggi del 13.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri: chi sono gli obbligati? (06.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuale è la procedura per il rilascio dell’AUA? (06.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI gestori possono non avvalersi dell’AUA? (06.09.2013 - link a www.ambientelegale.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Corte dei conti. Il discarico. Spese illegittime, l'agente rimborsa.
L'economo che come agente contabile ha effettuato spese ritenute illegittime è condannato a rimborsarle.

È quanto emerge dalla sentenza 10.07.2013 n. 246 della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Toscana, che offre una fotografia utile per la gestione della cassa economale.
Entro 60 giorni dall'approvazione del rendiconto, i conti degli agenti contabili e del tesoriere vanno trasmessi alla Corte dei conti. Il caso in esame si inserisce nella fase post consegna e rileva per la contestazione da parte dei magistrati contabili delle spese considerate illegittime/illecite, in quanto contra legem e quindi non "discaricabili".
In dettaglio, l'economo deve rispondere per l'intera cifra relativa ad alcune spese illegittime, in relazione alle quali, per ragioni del suo ufficio, doveva conoscere il divieto disposto per legge, e per una parte (30%) delle spese la cui liquidazione è da imputarsi anche alla condotta di terzi.
Le spese a totale carico dell'economo riguardano: missioni; ricariche telefoniche; sanzione per violazione del codice della strada e penali per ritardati pagamenti. Queste ultime voci, ricorda la sentenza, «avrebbero dovuto essere poste a carico di chi aveva commesso l'illecito»; quindi la parte ancora non recuperata dai soggetti interessati rientra nella contestazione.
Le spese per ricariche telefoniche, pur riferendosi -secondo quanto affermato dall'economo in fase di audizione- agli autisti di scuolabus che, per esigenze di servizio, si sarebbero potuti trovare nell'eventualità di dover contattare i genitori dei bambini, non sono state giustificate, perché disposte «senza alcun provvedimento autorizzatorio e senza documentazione probante del traffico delle telefonate in uscita per ciascun soggetto interessato».
Le spese di rappresentanza sono state liquidate sulla base di una richiesta priva di documentazione giustificativa, e manca la dimostrazione della stretta connessione con i fini istituzionali dell'ente con un atto preventivo di autorizzazione riportante l'evento cui si riferisce la spesa e la delibera del governo dell'ente.
In relazione alle diverse casistiche di spese, in conclusione, la Corte dei conti ha contestato l'ammanco all'agente contabile, rettificato il conto della gestione nella parte pagamenti, dove non sono stati discaricati quelli illegittimi, e chiamato l'economo al rimborso della somma, più interessi e spese di giudizio.
La nota positiva, infine, riguarda la circostanza che sono stati discaricati alcuni pagamenti irregolari per aspetti procedurali, per essere stati eseguiti dall'economo e non per le ordinarie vie di spesa, ma comunque "dovuti" (articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2013).

ENTI LOCALISlitta l'emersione dei debiti imprevisti. Il calendario. Riconoscimento al 30 novembre.
CHE COSA CAMBIA/ Il finanziamento non può più essere coperto da alienazioni se non per le amministrazioni che fanno ricorso all'anticipazione anti-default.

Anche il riconoscimento dei debiti fuori bilancio da effettuare entro il 30 settembre con la salvaguardia degli equilibri quest'anno risente degli effetti delle fitte nebbie che ancora circondano i conti locali.
I Comuni che non hanno ancora approvato il preventivo e si avvalgono delle proroga al 30 novembre, durante l'esercizio provvisorio, in assenza di stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato, non possono riconoscere debiti fuori bilancio (Corte dei conti della Campania, parere 23.05.2013 n. 213).
Questa regola –sottolineano i magistrati contabili– discende dalla considerazione del carattere autorizzatorio del bilancio di previsione e dei relativi stanziamenti.
Per gli enti locali che hanno approvato il bilancio di previsione, il riconoscimento di questi debiti quest'anno deve fare i conti con le novità arrivate a restringere i vincoli di finanza pubblica.
Innanzitutto per il finanziamento dei debiti di parte corrente, dal 01.01.2013 non possono essere più utilizzate le alienazioni, a differenza di quanto consentito fino all'anno scorso; l'unica via disponibile per il ripiano di spese correnti è ora l'utilizzo della leva tributaria, per cui l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi entro il 30 settembre.
Qualora la rateizzazione triennale non fosse sufficiente a superare le condizioni di squilibrio, il consiglio può deliberare il ricorso al piano di riequilibrio finanziario pluriennale della durata massima di dieci anni, disciplinato dall'articolo 243-bis del Testo unico degli enti locali (Dlgs 267/2000).
Il ricorso alla procedura anti-dissesto consente agli enti locali di continuare a destinare anche le entrate da alienazioni al finanziamento dello squilibrio corrente, derogando così al nuovo principio imposto dalla legge di stabilità 2013, a condizione che l'ente acceda al fondo di rotazione per il finanziamento del piano di riequilibrio pluriennale e si attenga quindi alle conseguenti condizioni restrittive (deliberazione sezione Autonomie della Corte dei conti n. 14/2013).
Ai fini del Patto di stabilità interno, si ricorda che sono stati concessi spazi finanziari anche per i debiti in conto capitale riconosciuti alla data del 31.12.2012 oppure che presentavano i requisiti per il riconoscimento ai sensi dell'articolo 194 del Tuel (Dl 35/2013).
La proposta consiliare di deliberazione del debito fuori bilancio è soggetta –dopo le novità introdotte dal Dl 174/2012– al parere preventivo dell'organo di revisione. Una volta approvato, l'atto di riconoscimento del debito va inviato alla procura regionale della Corte dei conti.
I Comuni soggetti al Patto di stabilità devono porre particolare attenzione al riconoscimento di debiti fuori bilancio per l'acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi di preventivo impegno di spesa nei limiti dell'utilità e dell'arricchimento dell'ente (la tipologia indicata alla lettera e) dell'articolo 194 del Testo unico degli enti locali).
Questa fattispecie è infatti particolarmente delicata ai fini delle elusioni ai vincoli di finanza pubblica; al riguardo si deve dimostrare che i debiti non rappresentano il rinvio a esercizi successivi di spese prevedibili e non impegnate a carico dei bilanci precedenti proprio per poter rientrare nei vincoli del patto. Il valore medio nazionale dell'incidenza di questi debiti per beni e servizi sul totale ripianato (29%) nel 2012 si divarica in una forbice molto ampia su base regionale.
Negli enti umbri l'incidenza è pari all'81%, in Toscana, Marche e Liguria supera il 60%. Mentre il fenomeno scende sotto il 20% in Puglia, Veneto, Sicilia e Campania (articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2013).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORotazione tra i dipendenti p.a.. Obiettivo: evitare abusi di posizione e rischi di mazzette. Approvato in via definitiva il Piano nazionale anticorruzione. Uffici in linea nel 2014.
Rotazione dei dipendenti e dei dirigenti per evitare abusi di posizione e ridurre di conseguenza i rischi di corruzione. Le amministrazioni dovranno adottare criteri per un'effettiva rotazione, che coinvolga non solo i dirigenti ma anche i responsabili del procedimento, nelle aree a più elevato rischio di corruzione.
In particolare, per i dirigenti la rotazione può operare solo alla scadenza dell'incarico, applicando comunque l'articolo 19 del dlgs 165/2001 in tema di conferimento degli incarichi. E tutte le amministrazioni dovranno garantire la rotazione, «salvo motivati impedimenti connessi alle caratteristiche organizzative», da specificare nel piano triennale da adottare entro il 31.01.2014 e trasmettere al Dipartimento della funzione.

Lo prevede il Piano nazionale anticorruzione, approvato ieri in via definitiva dalla Civit (delibera 11.09.2013 n. 72/2013) nella veste di Autorità nazionale anticorruzione, sbloccando definitivamente gli ultimi passaggi per la completa attuazione della legge 190/2012.
Il piano specifica che in prima applicazione, i piani triennali delle amministrazioni dovranno coprire il periodo 2013-2016, sicché dovranno anche indicare iniziative e misure anticorruzione adottate nel corso del 2013. Annualmente, poi, il piano triennale sarà aggiornato essendo «a scorrimento».
Destinatarie del piano nazionale sono tutte le amministrazioni pubbliche, comprese regioni, enti locali ed enti del Sistema sanitario nazionale, che terranno conto delle indicazioni dell'intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 24 luglio 2013. Ma, i contenuti del Piano nazionale, riguardano anche gli enti pubblici economici, gli enti di diritto privato in controllo pubblico, le società partecipate e a quelle da esse controllate ai sensi dell'art. 2359 c.c. per le parti in cui tali soggetti sono espressamente indicati come destinatari.
Gli obiettivi fondamentali del piano nazionale e dei piani attuativi triennali sono essenzialmente tre. Il primo è ridurre le opportunità che si manifestino al verificarsi di casi di corruzione; il secondo è l'aumento della capacità di scoprire casi di corruzione; il terzo, creare un contesto sfavorevole alla corruzione.
Ovviamente, le azioni indicate dal piano nazionale (che debbono comunque essere sviluppate e ampliate dai piani triennali di ciascun ente) sono molteplici.
Tra esse, fondamentale il coinvolgimento dei responsabili della prevenzione e del personale in iniziative di sensibilizzazione al fine di assicurare l'applicazione dei Codici di comportamento da parte di tutti i dipendenti.
Il Piano nazionale cerca anche concretezza. Per questo intende avviare un controllo sull'applicazione delle sanzioni disciplinari a carico dei dipendenti. Un invito indiretto a fare sì che i controlli anticorruzione funzionino davvero e scattino le sanzioni.
I piani debbono indicare in particolare i soggetti coinvolti nella prevenzione con i relativi compiti e le responsabilità; coloro che lavorano nelle aree di rischio definite dall'articolo 1, comma 16, della legge 190/2012 e ampliate da ciascun ente; le misure anticorruzione obbligatorie ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge e dal piano nazionale; i tempi e le modalità di riassetto organizzativo; il coordinamento con il piano delle performance ed il sistema di valutazione.
Allo scopo di evidenziare gli oneri ricadenti sui dipendenti, il piano nazionale indica di inserire nei contratti individuali di lavoro una clausola che prevede il divieto di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con l'apporto decisionale del dipendente.
Inoltre, nei bandi di gara occorre far dichiarare agli operatori economici di non aver concluso contratti di lavoro subordinato o autonomo e comunque di non aver attribuito incarichi ad ex dipendenti che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni nei loro confronti per il triennio successivo alla cessazione del rapporto.
Per favorire la denuncia di comportamenti corruttivi e tutelare i dipendenti che informino le autorità di tali casi, occorre prevedere «canali differenziati e riservati per ricevere le segnalazioni la cui gestione deve essere affidata a un ristrettissimo nucleo di persone (2/3)» (articolo ItaliaOggi del 12.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAmministrazioni obbligate al piano anticorruzione. Pa. Pronte le linee operative.
COMMISSARIO NAZIONALE/ L'ipotesi più accreditata è che venga scelto l'ex presidente della Corte dei conti.

Con il disco verde acceso ieri dalla Civit al Piano nazionale anticorruzione messo a punto da palazzo Vidoni (delibera 11.09.2013 n. 72/2013) il cantiere di attuazione della legge 190/2012 entra nel vivo. Manca solo, a livello centrale, l'ultimo passaggio, con la nomina del commissario nazionale anticorruzione, che prenderà il posto dell'attuale presidente della Civit.
Sul nome del candidato finora sono circolate solo ipotesi, la più accreditata delle quali indica come possibile la scelta dell'ex presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino. Si vedrà. La nomina non potrà comunque arrivare subito, visto che dev'essere effettuata entro trenta giorni dalla conversione del Dl 101/2013 (riordino Pa e pubblico impiego) il cui esame al Senato è appena iniziato.
Saranno i ministri della Pa e la Semplificazione, il Guardasigilli e il titolare dell'Interno a indicare il nome del commissario al Consiglio dei ministri e l'iter di nomina, proprio per garantire la massima garanzia e indipendenza, prevede l'approvazione con una maggioranza dei due terzi della Commissioni Affari costituzionali. Vale ricordare in questo contesto che il Dl 101 ha anche confermato in capo alla Civit il ruolo di authority nazionale per la trasperanza nella Pa, oltreché per l'anticorruzione, mentre la valutazione delle performance dei dipendenti è stata trasferita all'Aran.
Tornando al Piano nazionale anticorruzione e in attesa della nomina del commissario, tutte le amministrazioni centrali e periferiche dovranno nel frattempo muoversi nell'adozione delle iniziative previste, a partire dall'individuazione di un responsabile anticorruzione tra i dirigenti apicali (potrebbe essere anche il segretario generale nei Comuni) e il varo del piano triennale di prevenzione della corruzione. Finora hanno già fatto il primo passo circa 2mila amministrazioni in tutto il Paese, mentre nei target strategici indicati nel piano si prevede che tutte le amministrazioni abbiamo assolto al secondo obbligo entro il giugno del 2014.
Tra i cosiddetti «contenuti minimi» che devono essere garantiti nei piani triennali di prevenzione delle amministrazioni spiccano, tra gli altri, l'individuazione delle attività più esposte al rischio di corruzione, come quelle citate nella stessa legge 190: le autorizzazioni o concessioni; la scelta del contraente nell'affidamento di lavori, forniture e servizi; la concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari; i concorsi per l'assunzione del personale.
Devono essere poi adottati specifici sistemi di rotazione del personale addetto alle aree a rischio, misure per assicurare l'adeguata tutela dei cosiddetti whistleblowers, ovvero i dipendenti che effettuano segnalazioni di illeciti, obblighi di astensione in caso di conflitto di interesse dei dirigenti e discipline specifiche in materia di conferimento di incarichi dirigenziali in caso di particolari attività o incarichi precedentemente ricoperti, per evitare fenomeni di pantouflage-revolving doors, come aveva chiesto l'Ocse nel documento dello scorso aprile in cui elogiava il vecchio Governo per l'adozione della legge 190 e lo incoraggiava a una sua efficace implementazione.
I piani triennali, su cui è previsto il monitoraggio centrale, dovranno prevedere anche concreti e verificabili programmi di formazione in materia di etica, integrità e altre tematiche attinenti alla prevenzione della corruzione (articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2013).

TRIBUTI: Immobili in comodato d'uso esclusi da esenzioni Imu. Per i titolari di beni messi a disposizione niente benefici dall'abolizione della prima tranche. La facoltà di assimilazione non è riconosciuta agli enti locali.
I titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a parenti, destinati ad abitazione principale, sono tenuti a pagare l'Imu. Questi soggetti non hanno fruito della sospensione del pagamento dell'acconto e, quindi, non possono beneficiare dell'abolizione della prima rata dell'imposta. E il decreto 102/2013 sull'abolizione dell'Imu nulla innova in proposito.
I fabbricati dati in comodato non possono più essere assimilati ex lege all'abitazione principale.
L'articolo 13 del dl Monti (201/2011), infatti, ha parzialmente abrogato a partire dal 2012 l'articolo 59, comma 1, del decreto legislativo 446/1997, vale a dire la norma attributiva del potere regolamentare in materia di imposta comunale sugli immobili, nella parte in cui consentiva la comune di considerare abitazioni principali, con conseguente applicazione dell'aliquota ridotta o della detrazione, i fabbricati concessi in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di parentela.
Per l'Imu alcune tipologie di assimilazioni sono previste dalla legge e i benefici spettano a prescindere dalla scelte del comune. Per esempio, rientrano in questa casistica gli immobili di edilizia residenziale pubblica posseduti da Iacp o Ater, utilizzati come prima casa dai soci assegnatari oppure gli alloggi sociali. Mentre, è demandato all'ente il potere di assimilare alla prima casa quelli posseduti da anziani, disabili e residenti all'estero. I proprietari di questi immobili non pagano la prima rata Imu se i comuni li hanno già assimilati nel 2012 all'abitazione principale (e non hanno revocato il beneficio) o intendono farlo per il 2013, in quanto è proprio la norma di legge che prevede che il trattamento agevolato possa essere concesso per le unità immobiliari possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, da anziani o disabili che spostano la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, nonché per quelle possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello stato, a condizione che non risultino locate.
La facoltà di assimilazione, invece, non è stata riconosciuta ai comuni per gli immobili dati in comodato d'uso. Naturalmente nulla impedisce che il comune possa garantire, a proprie spese, qualche beneficio fiscale (per esempio, l'aliquota agevolata), ma non si può parlare di assimilazione all'abitazione principale e di rimborso del minor gettito da parte dello stato.
Va ricordato che sono rigidi i requisiti per fruire del trattamento agevolato sugli immobili destinati ad abitazione principale. L'articolo 13 ha fornito una nuova qualificazione giuridica della nozione di abitazione principale, prevedendo che si intende come tale l'unità immobiliare nella quale il contribuente e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni si applicano per un solo immobile (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ape, impianto fuori dai contratti. I libretti non vanno allegati, ma dati prima all'acquirente. Il Notariato detta istruzioni sulle allegazioni in sede di vendita e locazione degli immobili.
I libretti di impianto non devono essere allegati agli atti di vendita e di locazione, a pena di nullità. Ma vanno consegnati all'acquirente nel corso delle trattative.
La precisazione arriva da una nota interna diffusa due giorni fa dal Consiglio nazionale del notariato, che approfondisce un punto specifico della normativa sull'attestato di prestazione energetica (Ape), a distanza di oltre un mese dall'entrata in vigore della legge di conversione (n. 90/2013) del decreto ecobonus (63/2013).
Il problema è dunque, dell'allegazione, agli atti di trasferimento o locazione degli immobili insieme all'attestato di prestazione energetica anche dei libretti di impianto.
Il dubbio nasce dal fatto che l'articolo 6, comma 5, del dlgs 192/2005, nel descrivere le condizioni di validità dell'attestazione di prestazione energetica afferma che i libretti di impianto «sono allegati, in originale o in copia, all'attestato di prestazione energetica.».
L'interpretazione del Consiglio nazionale del notariato si sofferma sullo scopo della disposizione e in particolare sulle finalità dell'allegazione.
Nel dettaglio le finalità individuate dalla norma e, quindi, rilevanti sono quelle del controllo circa la sussistenza di una delle condizioni cui è subordinata la validità dell'attestato di prestazione energetica. Conseguentemente il libretto di impianto serve a verificare la specifica condizione costituita dal «rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica dei sistemi tecnici dell'edificio, in particolare per gli impianti termici, comprese le eventuali necessità di adeguamento». I notai osservano, a questo punto, che la condizione opera al di fuori dell'attestato di prestazione energetica quale documento e determina la conservazione nel tempo della sua validità.
Nella nota si sottolinea che il termine usato (e cioè «allegazione») non costituisce una modifica o integrazione anche documentale dell'attestato di prestazione energetica, ma deve piuttosto ritenersi che costituisca una documentazione tecnica di corredo.
Sul punto la circolare conclude che il termine «allegati» sia stato usato in senso «atecnico» e, quindi, non nel senso che i libretti devono essere uniti all'attestato materialmente in modo da formare un unico documento.
In base all'interpretazione accreditata nella nota, l'attestato deve essere accompagnato dai documenti (documentazione tecnica di corredo) necessari solo al fine di poter verificare una delle condizioni cui è subordinata la validità dell'attestato di prestazione energetica. Questa scatta comunque solo a decorrere dal 31 dicembre dell'anno successivo al rilascio dell'attestato.
Inoltre l'attestato una volta che sia stato non viene modificato con allegazioni dei libretti che consentano la verifica della sua validità.
Questo significa che l'unico documento da allegare materialmente agli atti sia il solo attestato di prestazione energetica. Mentre, attenzione, l'originale da consegnare all'acquirente deve essere accompagnato da copia dei libretti di impianto.
Ad ulteriore chiarimento la nota distingue tra esemplare dell'attestato di prestazione energetica destinato alla consegna ed esemplare dell'attestato di prestazione energetica destinato ad essere allegato all'atto traslativo e/o di nuova locazione.
Quindi una cosa è la «consegna» dell'Ape, altra cosa è l'«allegazione» dell'Ape.
L'obbligo di consegna deve essere adempiuto alla chiusura della trattative, di regola, precedente il momento in cui viene sottoscritto l'atto traslativo e/o di locazione. Al momento della sottoscrizione dell'atto, invece, sorge l'obbligo di allegazione.
In sostanza i libretti di impianto (in originale o in copia) devono essere uniti solo all'esemplare dell'attestato destinato alla consegna, in quanto l'acquirente e/o il conduttore debbono essere messi nelle condizioni di verificare la validità dell'attestato prima della stipula del contratto definitivo. All'atto sarà invece allegato un «secondo» esemplare di attestato (quello, per l'appunto, destinato all'allegazione).
Con un'altra precisazione la nota chiarisce la portata della norma sulla possibilità di avvalersi al posto dell'Ape di un attestato in corso di validità rilasciato conformemente alla direttiva 2002/91/Ce. I notai richiamano alla necessità di verificare la validità dell'attestato dal momento che prevede espressamente che non vi è obbligo di nuova dotazione solo qualora l'attestato sia in corso di validità (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Polizza per Fido. Cani pericolosi con museruola. L'ordinanza della Salute. In attesa del riordino.
I cani pericolosi che circolano in pubblico devono continuare a indossare sempre la museruola e il guinzaglio ed essere coperti da una polizza di responsabilità civile. Obbligo generalizzato invece per tutti i detentori dell'amico dell'uomo di raccogliere le feci e avere con se idonei strumenti di pulizia.
Sono queste in sintesi le indicazioni più importanti che emergono dalla lettura dell'ordinanza del ministro della salute 06.08.2013 (pubblicata sulla G.U. n. 209 del 06/09/2013).
In attesa di un riordino complessivo della disciplina sulla quale il governo si è espresso il 26 luglio scorso licenziando un ddl ad hoc, il ministero ha ritenuto di adottare un'ordinanza urgente valida per un anno. Innanzitutto nella nuova disposizione ministeriale viene confermato l'obbligo dell'applicazione della museruola e del guinzaglio ma con una specifica differenziazione. Mentre i cani aggressivi registrati dai servizi veterinari quando sono in pubblico dovranno sempre utilizzare questi strumenti per gli altri l'obbligo di entrambi gli accorgimenti vale solo in riferimento a determinate circostanze.
L'ordinanza ribadisce la necessità di monitorare adeguatamente tutti i cani ad aggressività non controllata da parte dei servizi veterinari e dei comuni i quali sono chiamati in causa per dettagliare ulteriormente le regole di pacifica convivenza tra l'uomo e l'animale in collaborazione con l'azienda sanitaria locale. Come nelle precedenti ordinanze viene confermato l'obbligo per i proprietari dei cani pericolosi di stipulare una polizza di responsabilità civile con limitazioni al possesso e alla detenzione di questi animali da parte dei minorenni e dei soggetti con la fedina penale compromessa.
Per quanto riguarda la tutela della salute degli amici dell'uomo viene confermato un freno agli interventi chirurgici sui cani per scopi diversi da quelli di carattere sanitario e curativo. Il riferimento specifico è al taglio della coda, delle orecchie e alla recisione delle corde vocali. In tal caso, a seconda della gravità dell'intervento, potrà senz'altro applicarsi anche le disposizioni penali previste dalla legge 189/2004 sul maltrattamento degli animali (articolo ItaliaOggi del 10.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAIl rudere cambia sagoma. Vanno comunque rispettate volumetria e destinazione d'uso.
LE ALTRE CONSEGUENZE/ Sembra possibile ottenere, se ci sono ancora delle rate in corso, la detrazione del 36% per i lavori già eseguiti.

Fra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono ora ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Questa ampia formulazione, che abolisce l'obbligo di rispettare la sagoma preesistente (salvo che per gli immobili vincolati) pone stringenti problemi interpretativi tanto connessi alle modalità di definizione e di prova della consistenza degli edifici preesistenti, come quelli sollevati dal lettore Stefano Vignudelli, quanto relativi al momento di realizzazione dell'intervento qualificabile ora come ristrutturazione.
Attenzione: possono godere della nuova classificazione del l'intervento soltanto gli edifici realizzati legittimamente, non essendo ammissibile che la nuova disposizione consenta la ricostruzione di edifici abusivi costruiti in violazione della disciplina urbanistica ed edilizia applicabile. Così, l'edificio sorto su area inedificabile e nel frattempo demolito o crollato non potrà essere riedificato.
Nel contempo, si può affermare che la ricostruzione delle volumetrie demolite o crollate dovrà mantenere l'uso loro in precedenza assegnato, salva comunque la possibilità di utilizzare l'edificio ricostruito per le destinazioni consentite dallo strumento urbanistico vigente.
Tanto premesso, venendo ai quesiti sul tema, è anzitutto possibile affermare che per definire la consistenza degli edifici demoliti o crollati soccorrono le misure stereometriche (altezza, superficie, volume) stabilite dalla vigente disciplina edilizia locale di riferimento. Si dovrà quindi fare riferimento al piano regolatore e al regolamento edilizio. Quanto alle modalità di prova della preesistente consistenza, la documentazione principale cui fare riferimento è sicuramente costituita dai progetti approvati dal Comune. Per gli edifici più antichi, realizzati quando il titolo non era necessario, soccorre ogni altro documento utile a descrivere la situazione edilizia e, tra essi, i rilievi catastali e le planimetrie allegate agli atti di disposizione del bene (contratti di compravendita, affitto, locazione e simili).
Inoltre, rispetto alla possibilità di avvalersi della nuova disposizione per gli interventi realizzati prima della sua entrata in vigore, sia rispetto alla possibilità di chiedere la restituzione di quanto pagato in più a titolo di contributo di costruzione, sia rispetto alla possibilità di godere ora della detrazione Irpef allora vigente (41% o 36%), sia infine con riferimento alla possibilità di ottenere la sanatoria edilizia per gli interventi allora abusivi quale nuova opera ma legittimi se ritenuti di ristrutturazione.
Sembra da escludere la restituzione del contributo pagato in eccesso perché il pagamento è stato legittimamente richiesto in base alla disciplina vigente al momento della liquidazione del contributo stesso. A conclusione diversa potrebbe giungersi rispetto ai pagamenti non ancora effettuati.
Quanto al godimento dei benefici fiscali ancora fruibili, non ci sarebbe motivo di negarli, specie ove il comune accerti che l'intervento autorizzato come nuova costruzione rientra ora nella definizione di ristrutturazione (ma devono pronunciarsi le Entrate).
Infine, rispetto alla possibilità di ottenere la sanatoria ai sensi dell'articolo 36 del Testo unico edilizia, la stesa richiede la conformità dell'intervento sia al momento di presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento di realizzazione dell'abuso, circostanza quest'ultima che non potrebbe mai ricorrere in quanto prima del decreto del fare la ricostruzione infedele corrispondeva a una nuova costruzione (in ipotesi illegittima) (articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, nuovi obblighi mirati. Esclusi dal sistema i gestori di rifiuti non pericolosi. Guida alle novità introdotte dal dl 101/2013 che entreranno in vigore il 1° ottobre.
Produttori e gestori di rifiuti «non pericolosi» fuori dagli obblighi Sistri, ma solo fino a nuovo ordine e sempre che non modifichino in corso d'opera la natura dei beni a fine vita, rendendoli «pericolosi».
Nel limitare, come promesso, l'obbligatorietà del sistema di controllo telematico della tracciabilità dei rifiuti in partenza il prossimo 01.10.2013 ai soli «pericolosi» il testo ufficiale del dl 101/2013 approdato sulla G.U. pare infatti strizzare l'occhio «ai non pericolosi», sia affidando a un futuro dm l'allargamento dei soggetti tenuti ad aderire al Sistri che rendendo, sin da subito, molto sottile il confine tra libertà e necessità di adesione al nuovo sistema.
Soggetti obbligati e calendario adempimenti. Nel tenore del decreto legge pubblicato sulla G.U. dello scorso 31 agosto n. 204 sono per ora tenuti ad aderire al sistema di tracciamento informatico tre categorie di soggetti: i gestori di rifiuti pericolosi, compresi i «nuovi produttori»; i «produttori iniziali» di rifiuti pericolosi; i comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani del territorio della Regione Campania. Per la prima categoria gli obblighi operativi scattano il 01.10.2013, per le altre due solo dal 03.03.2014.
Ed è proprio la nozione di «nuovi produttori» di rifiuti pericolosi che mette in evidenza l'accennata delicatezza del confine tra soggetti obbligati ad aderire al Sistri e soggetti che invece obbligati non sono. Operando la diretta riformulazione della più generale nozione di «produttore» di rifiuti recata dall'articolo 1 del dlgs 152/2006 il dl 101/2013 chiarisce infatti ora che è considerato «nuovo produttore» di rifiuti «chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di (_) rifiuti» generati da altri soggetti.
I «futuri» soggetti obbligati. Il secondo ammiccamento ai «rifiuti non pericolosi» è invece rintracciabile nella disposizione del dl 101/2013 che affida al Minambiente l'individuazione entro il 03.03.2014 di nuovi soggetti cui estendere l'obbligatorietà del Sistri, soggetti da individuare «nell'ambito degli Enti e delle imprese che effettuano il trattamento dei rifiuti, di cui agli articoli 23 e 35 della direttiva 2008/98/Ce», dunque nell'ambito dei gestori dei rifiuti anche non pericolosi.
Soggetti ad adesione facoltativa o anticipata. Come più sopra accennato, il dl 101/2013 conferisce espressamente ai soggetti diversi da quelli attualmente obbligati al Sistri, ossia produttori e gestori di rifiuti non pericolosi, la facoltà di aderire al nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti sin dalla sua partenza operativa, dunque dal 01.10.2013. Così come offre ai soggetti obbligati solo dal lontano 03.03.2014 la possibilità di anticipare l'adozione del Sistri alla stessa vicina data del 01.10.2013.
Semplificazioni ed eventuali proroghe. Adesioni facoltative o anticipate, da parte dei soggetti non obbligati alla partenza dal 01.10.2013, che potrebbero però non essere «incentivate» da due variabili previste dallo stesso dl 101/2013: l'adozione da parte del Minambiente dell'atteso dm recante le annunciate semplificazioni tecniche per l'utilizzo del Sistri; la mancata, invece, adozione delle stesse semplificazioni entro la data ultima del 03.03.2014, cosa che farebbe invece slittare (in base allo stesso dl) di sei mesi la «fase 2» dell'operatività del Sistri fissata nel 03.03.2014.
Tracciamento cartaceo e regime transitorio. Ferma restando la necessità della «Scheda Sistri-Area Movimentazione» che dovrà sempre essere prodotta fisicamente ed accompagnare il trasporto dei rifiuti, per tutta l'altra documentazione di tracciamento il passaggio dall'attuale sistema materiale a quello immateriale non sarà immediato. Ricordiamo infatti che, in base al dm Ambiente 20 marzo 2013, fino alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di operatività del Sistri i soggetti interessati dovranno infatti continuare ad adempiere agli obblighi previsti dagli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006, ossia agli obblighi relativi alla tenuta dei citati registri e formulari.
Sanzioni graduali. L'applicazione delle sanzioni per la violazione degli obblighi relativi al Sistri recate dal dlgs 152/06 scatteranno solo dopo la scadenza del periodo di doppio binario, e ciò in virtù di quanto stabilito dal dlgs 205/2010. Sanzioni che il successivo dlgs 121/2011 impone però di applicare in misura ridotta per i primi periodi di operatività del Sistri. Alleggerimento cui si aggiunge quello sancito dal nuovo dl 101/2013 che legittima l'applicazione delle sanzioni previste per alcune violazioni solo con il compimento della terza infrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

ENTI LOCALI - TRIBUTIIl bilancio «di previsione» non sarà modificabile. Impossibile la manovra di salvaguardia al 30 settembre. Dl Imu. I termini per il preventivo scadono insieme a quelli per l'assestamento.
Gli enti locali avranno tempo fino al 30 novembre, un mese prima della fine dell'anno, per approvare il bilancio di previsione 2013.

La nuova proroga è stata inserita nel Dl 102 del 31.08.2013, che abroga la rata di giugno dell'IMU sulle abitazioni principali e sulle categorie per le quali, con il Dl 54/2013, ne era stata disposta la sospensione. Il Dl prevede altre disposizioni sull'IMU, rivede la Tares, spostando al 30 novembre i termini per l'approvazione del Regolamento e delle relative tariffe.
Sono inoltre rinviati ad ulteriori provvedimenti sia l'eliminazione della rata Imu di dicembre, sia l'introduzione, dal 2014, della nuova service tax.
Questi i "titoli" del nuovo scenario di breve periodo della finanza locale. Il metodo, però, va in netta contraddizione con i principi della sana programmazione. Le conseguenze non sono rassicuranti, almeno sul piano tecnico e contabile.
Gli enti che non hanno ancora approvato il bilancio hanno operato finora in dodicesimi, sulla base dell'assestato 2012, i cui valori sono generalmente più alti del relativo consuntivo. Continuare con la gestione provvisoria fino al 30 novembre significa mettere a rischio gli equilibri di bilancio, soprattutto sulla parte corrente. Che lo Stato si faccia carico dell'Imu abrogata è il minimo che ci si potesse aspettare, ma si dovranno attendere ancora settimane per l'esatta quantificazione; è, infatti, previsto un ulteriore decreto del Ministero dell'interno, di concerto con l'Economia.
Per i Comuni si riduce l'autonomia di agire sulla principale leva fiscale; e per gli enti che avevano già provveduto ad innalzare le aliquote per il 2013, tutti i programmi sono da riesaminare. Approvare il previsionale al 30 novembre significa, di fatto, approvare il pre-consuntivo, inglobando, in uno, i provvedimenti della salvaguardia e dell'assestamento. Dopo il 30 novembre, si ricorda, non sono più possibili variazioni di bilancio. Si può ancora chiamare bilancio di previsione un documento non più modificabile ?
E quali sono le conseguenze di questo decreto per gli enti che hanno già approvato il loro bilancio? Di certo dovranno adottare le necessarie variazioni di bilancio. Stando alla tempistica dettata dal decreto, non ci sarebbero i tempi tecnici per la manovra di salvaguardia da approvare entro il 30 settembre. Alla luce delle modifiche intervenute, che riguardano anche la Tares, e dei rinvii a nuove disposizioni sulla seconda rata dell'Imu, si ritiene che, come già accaduto nel 2012, la salvaguardia dovrà essere approvata contestualmente all'assestamento.
Guardando alle casse comunali, l'unica notizia lieta è l'erogazione del 5 settembre del secondo acconto del Fondo di solidarietà Comunale, la cui quantificazione complessiva resta ancora un rebus.
In definitiva, i Comuni programmano le proprie politiche di spesa sulla base di Imu, Tares, Fondo di solidarietà comunale e addizionali comunali. La caratteristica che oggi li accomuna è la totale incertezza sulla loro entità. Il federalismo tanto auspicato avrebbe dovuto concedere agli amministratori locali le leve sufficienti a manovrare le politiche fiscali in funzione del proprio mandato. Così non è. Le aspettative sulla service tax aumentano, ma nel frattempo resta il problema degli equilibri di bilancio per il 2013.
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Gli strumenti
01|SALVAGUARDIA
La legge prevede la possibilità che gli enti approvino la salvaguardia entro il 30 settembre, con la possibilità di modificare anche aliquote e tariffe. In una situazione ordinaria, questo permette di modificare eventuali errori di quantificazione nel preventivo o di finanziare uscite impreviste
02|ASSESTAMENTO
Entro il 30 novembre i Comuni devono procedere all'assestamento di bilancio, dopo il quale non è più possibile modificare le poste dei conti che a quel punto assumono un valore definitivo, da verificare e certificare nel rendiconto
03|PREVENTIVO
Lo slittamento al 30 novembre previsto per il 2013 dal Dl Imu-2 rappresenta un record nella storia dei rinvii di termini per la chiusura dei preventivi, e di fatto rende inutilizzabili i due precedenti strumenti per gli enti che attendono il nuovo termine (articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego. Il decreto 101/2013. I prepensionamenti non aprono subito a nuove assunzioni.
LA REGOLA/ I risparmi ottenuti con le uscite anticipate possono finanziare ingressi solo dopo la maturazione dei requisiti previdenziali.

L'articolo 2 del Dl 101/2013, in materia di razionalizzazione nelle Pubbliche amministrazioni, interviene sui prepensionamenti per chiarire l'ambito di applicazione dell'istituto in caso di dichiarazione di eccedenza di personale (comma 3), prorogare di un anno la data di riferimento per l'applicazione dei requisiti pensionistici pre-riforma Fornero (comma 1, lettera a) punto 2) e qualificare il prepensionamento, in caso di soprannumero, come risoluzione unilaterale del rapporto (comma 6).
L'istituto del prepensionamento nel settore pubblico è stato introdotto dall'articolo 2 del Dl 95/2012 come strumento proritario per consentire alle amministrazioni centrali di riassorbire i soprannumeri determinati dalle misure di riduzione delle dotazioni organiche, prima di ricorrere alla mobilità coattiva. Lo stesso articolo 2 aveva già previsto la possibilità (comma 14) di ricorrere allo stesso istituto anche in caso di eccedenza dichiarata per ragioni funzionali o finanziarie dell'amministrazione. Le ragioni funzionali possono derivare da un'esigenza di riduzione di organico per profili professionali specifici di un'area o categoria a causa, ad esempio, di riorganizzazione, semplificazione, razionalizzazione o informatizzazione dei processi; le ragioni finanziarie, oggettivamente rilevabili derivano dalla necessità di ridurre la spesa di personale per enti in cui le criticità di bilancio che possono degenerare in dissesto finanziario.
Sul piano interpretativo, la platea dei destinatari del comma 14 era controversa. Il Dl 101/2013 chiarisce l'ambito soggettivo precisando che il ricorso allo strumento del prepensionamento è consentito a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001 per i casi, appunto, di dichiarazione di eccedenza di personale per ragioni funzionali o finanziarie. Sull'ambito oggettivo, in aggiunta a questi presupposti, si chiarisce che le posizioni dichiarate eccedentarie non possono essere ripristinate nella dotazione organica di ciascuna amministrazione. Inoltre i prepensionamenti non potranno costituire immediatamente risparmi utili da calcolare ai fini della definizione del budget da destinare alle assunzioni, dovendo attendere la maturazione dei requisiti pensionistici secondo le regole ordinarie del Dl 201/2011.
La seconda novità riguarda la possibilità di estendere fino al 31.12.2015 (e non più fino al 31.12.2014) l'efficacia dei requisiti anagrafici e contributivi per il diritto all'accesso e la decorrenza del trattamento pensionistico, anteriori alla riforma del Dl 201/2011 per un numero di soggetti pari alle posizioni dichiarate eccedentarie.
È chiaramente desumibile che il ricorso alla deroga, rispetto al nuovo regime pensionistico introdotto dalla riforma Fornero, si giustifica solo in presenza di una situazione straordinaria, fondata su ragioni di razionalizzazione e contenimento della spesa, che nel condurre alla dichiarazione di eccedenza tende poi a determinare un impatto non traumatico sui rapporti di lavoro in essere. In sostanza, anziché applicare direttamente ai lavoratori la mobilità coattiva, con il rischio di non realizzare la loro ricollocazione entro due anni e giungere così al loro licenziamento, si introduce questo strumento di fuoriuscita dal mondo del lavoro richiamando il regime pensionistico previgente caratterizzato da una maggiore flessibilità (pensione di vecchiaia, pensione di anzianità, meccanismo delle quote).
Infine, il legislatore si è preoccupato di chiarire che il datore di lavoro pubblico, nel momento in cui si trova a ricorrere al "prepensionamento", interviene sul rapporto di lavoro del dipendente risolvendo unilateralmente il rapporto di lavoro.
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Le indicazioni
01 | AMBITO SOGGETTIVO
Il decreto 101/2013 chiarisce che lo strumento dei prepensionamenti è attivabile da tutte le Pubbliche amministrazioni elencate dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, e di conseguenza non è limitato alla Pa centrale
02 | I CRITERI
I posti considerati «in eccedenza» rispetto al fabbisogno non possono essere ripristinati in dotazione organica, e i risparmi ottenuti non possono finanziare nuove assunzioni fino alla maturazione dei requisiti ordinari (articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La sopraelevazione integra una nuova costruzione.
L’intervento sull’immobile che ne altera la sagoma in altezza non è inquadrabile come “ricostruzione”, ma integra una “nuova costruzione.”
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 13.09.2013 n. 21000, accogliendo il ricorso di un vicino che lamentava il mancato rispetto delle distanze legali minime.
I giudici di Piazza Cavour ricordano che “nell’ambito delle opere edilizie, si ha semplice ristrutturazione ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all’esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura”.
È ravvisabile, al contrario, una ricostruzione -spiega la sentenza- allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse, operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro”.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario”.
Così, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, spiega la Cassazione, non può neppure procedersi “ad eventuali compensazioni tra i volumi aggiunti con la sopraelevazione e quelli eliminati, in quanto la semplice constatazione della variazione, in altezza, della originaria sagoma del fabbricato, è sufficiente a rendere l’intervento edilizio di cui trattasi non inquadrabile nella nozione di ricostruzione, come delineata dalla giurisprudenza
(tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della Commissione edilizia comunale è privo di propria autonomia funzionale e strutturale e non ha né formalmente, né sostanzialmente, valore provvedimentale di atto di assentimento o diniego della concessione edilizia richiesta, pur quando ne sia ravvisata obbligatoria l'acquisizione per il rilascio o diniego del provvedimento di concessione.
Esso è immediatamente impugnabile solo quando il sindaco, con la notifica del parere medesimo, lo abbia implicitamente fatto proprio e vi abbia impresso, come autorità competente al rilascio dei titoli edilizi, la configurazione di una definitiva determinazione dell'amministrazione sull'istanza di concessione edilizia.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, il parere della Commissione edilizia comunale è privo di propria autonomia funzionale e strutturale (ex plurimis, C.d.S., sez. V, 04.03.2008, n. 881; 29.01.2002, n. 489) e non ha né formalmente, né sostanzialmente, valore provvedimentale di atto di assentimento o diniego della concessione edilizia richiesta (C.d.S., sez. V, 29.07.2003, n. 4325), pur quando ne sia ravvisata obbligatoria l'acquisizione per il rilascio o diniego del provvedimento di concessione (C.d.S., sez. VI, 29.01.2002, n. 489); esso è immediatamente impugnabile solo quando il sindaco, con la notifica del parere medesimo, lo abbia implicitamente fatto proprio e vi abbia impresso, come autorità competente al rilascio dei titoli edilizi, la configurazione di una definitiva determinazione dell'amministrazione sull'istanza di concessione edilizia (C.d.S., sez. V, 24.03.2001, n. 1702); circostanza che non si rileva nella fattispecie in esame, tanto più che solo in data 27.12.1995, come ricordato nell’esposizione in fatto, è stato emanato effettivamente l’atto di sdoppiamento della originaria concessione edilizia n. 40/1994 dell’08.10.1994
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2013 n. 4532 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVIIl principio di democraticità del procedimento amministrativo, cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, ed il conseguente rispetto delle garanzie partecipative, devono essere assicurati nella sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che ogni qualvolta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare le sue deduzioni, così da integrare la nozione di partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento.
Pertanto, la comunicazione (di avvio del procedimento) è da ritenersi (addirittura) superflua, riprendendo rilievo i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa, quando l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura, conducono necessariamente all'adozione di provvedimenti obbligati.
Ciò senza contare che nel processo amministrativo, ai sensi dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, i rilievi procedurali afferenti al mancato previo avviso d'inizio del procedimento non possono portare all'annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato ove questo non avrebbe potuto comunque avere un contenuto diverso.

Come ha più volte convincentemente ricordato la giurisprudenza, il principio di democraticità del procedimento amministrativo, cui sono preordinati gli artt. 7 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, ed il conseguente rispetto delle garanzie partecipative, devono essere assicurati nella sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che ogni qualvolta l'interessato sia stato informato dell'esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare le sue deduzioni, così da integrare la nozione di partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento (ex multis, C.d.S., sez. IV, 08.01.2013, n. 32).
Pertanto, la comunicazione (di avvio del procedimento) è da ritenersi (addirittura) superflua, riprendendo rilievo i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa, quando l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura, conducono necessariamente all'adozione di provvedimenti obbligati (C.d.S., sez. V, 09.04.2013, n. 1950; così sostanzialmente anche sez. IV, 20.02.2013, n. 1056); ciò senza contare che nel processo amministrativo, ai sensi dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990 n. 241, i rilievi procedurali afferenti al mancato previo avviso d'inizio del procedimento non possono portare all'annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato ove questo non avrebbe potuto comunque avere un contenuto diverso (C.d.S., sez. III, 21.03.2013, n. 1630; sez. IV, 17.09.2012, n. 4925)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2013 n. 4532 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIl lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica. Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità edificatorie di un fondo, unitariamente considerato, e determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica.
È, quindi, irrilevante che l'area coincidente con il lotto edificabile delimitato dalla concessione edilizia sia successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, in quanto la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata.
Pertanto un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
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Nella ipotesi della realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l'intera estensione interessata, con l'effetto che anche l'area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti.
L'istituto dell'asservimento, consistente nella volontaria rinuncia alle possibilità edificatorie di un lotto in favore del loro sfruttamento in un'altra particella, serve ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo, in essa, della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. Il presupposto logico dell'asservimento deve essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (come previsto negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto (fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle distanze e di eventuali prescrizioni sulla superficie minima dei lotti).

Osserva in via preliminare la Sezione che il lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica. Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità edificatorie di un fondo, unitariamente considerato, e determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica.
È, quindi, irrilevante che l'area coincidente con il lotto edificabile delimitato dalla concessione edilizia sia successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, in quanto la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata.
Pertanto un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni (Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2000, n. 749).
Più specificatamente, va rilevato che, nella ipotesi della realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l'intera estensione interessata, con l'effetto che anche l'area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti (Cons. Stato, Sez. V, 07.11.2002 n. 6128 e 10.02.2000, n. 749, cit.; Sez. IV, 06.08.2012, n. 4482).
L'istituto dell'asservimento, consistente nella volontaria rinuncia alle possibilità edificatorie di un lotto in favore del loro sfruttamento in un'altra particella, serve ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo, in essa, della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. Il presupposto logico dell'asservimento deve essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (come previsto negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto (fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle distanze e di eventuali prescrizioni sulla superficie minima dei lotti) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2013 n. 4531 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTI SERVIZI - RIFIUTI: I rifiuti provenienti da esumazione e da estumulazione sono classificati per legge come urbani ex art. 184, c. 2, lett. f), del D.lgs. 152/2006.
Sicché, il trasporto di tali rifiuti può essere effettuato solo da chi è in possesso della relativa autorizzazione al trasporto di rifiuti “per conto terzi".

... per l'annullamento della determinazione del Responsabile del Servizio 30/10/2012 n. 342 che ha provveduto a revocare la gara d'appalto espletata in data 28/06/2012 e 12/07/2012 relativa all'affidamento del servizio alla ricorrente in quanto la stessa non risulterebbe in possesso dei requisiti tecnico-organizzativi previsti all'art. 42 del D.Lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii. e del provvedimento 08/11/2012 prot. n. 19695, con il quale è stata comunicata la medesima determinazione del Responsabile del Servizio 30/10/2012 n. 342.
...
Ritenuto che:
- i rifiuti provenienti da esumazione e da estumulazione sono classificati per legge come urbani ex art. 184, c. 2, lett. f), del D.lgs. 152/2006; né d’altra parte appare fondatamente sostenibile che i medesimi residui mortali derivino dall’attività di esumazione anziché essere preesistenti ad essa;
- il trasporto di tali rifiuti può essere effettuato solo da chi è in possesso della relativa autorizzazione al trasporto di rifiuti “per conto terzi”, non essendo rifiuti prodotti dall’attività di esumazione;
- pertanto, il provvedimento di revoca dell’affidamento della gara d’appalto è legittimo, avendo l’amministrazione correttamente rilevato, da parte della ditta affidataria del servizio di esumazione, la carenza di un requisito di legge di capacità tecnica e professionale, ovvero l’iscrizione all’albo nazionale per il trasporto di rifiuti per conto terzi (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.09.2013 n. 1107 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di assenso da parte della proprietaria dell’area scoperta confinante non è necessario nel caso in esame d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un fabbricato.
... per l'annullamento del provvedimento comunale 29.4.2013 n. 40669 avente ad oggetto: "Denuncia di inizio attività prot. n. 6357 del 27.1.2010. Diffida a non effettuare l'intervento" per la realizzazione di un ascensore esterno.
...
Ritenuto che:
- l’atto di diffida impugnato è stato emesso una volta spirato il termine perentorio stabilito dall’art. 23, comma 6, D.P.R. n. 380/2001 per l’esercizio del potere inibitorio; né risultano evidenziati nella motivazione del provvedimento di diffida impugnato i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela o di quello repressivo sanzionatorio, esercitabile, quest’ultimo, nel caso residuale, non ricorrente nella fattispecie, di non conformità dell’opera al progetto presentato;
- peraltro, l’atto di assenso da parte della proprietaria dell’area scoperta confinante, tardivamente richiesto dall’amministrazione, non è necessario nel caso in esame d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un fabbricato;
- pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto con l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.09.2013 n. 1106 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non costituisce apprezzabile violazione procedurale l'ipotesi in cui il preavviso di diniego di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 non presenti una delle contestazioni trasfuse, poi, nell'atto impugnato a fondamento del rigetto, ove quest'ultimo sia autonomamente supportato da valide e diverse motivazioni, tali da sostenerlo a prescindere dalla illegittimità delle ragioni in esso trasfuse per la prima volta”.
Si consideri, ancora, che è necessario adottare un’interpretazione dell’art. 10-bis non formalistica, dovendosi invece avere riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio subito dalla ricorrente.

E’ principio ormai consolidato della giurisprudenza (per tutti TAR Campania Salerno Sez. II, 04.02.2013, n. 336) quello in base al quale “non costituisce apprezzabile violazione procedurale l'ipotesi in cui il preavviso di diniego di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 non presenti una delle contestazioni trasfuse, poi, nell'atto impugnato a fondamento del rigetto, ove quest'ultimo sia autonomamente supportato da valide e diverse motivazioni, tali da sostenerlo a prescindere dalla illegittimità delle ragioni in esso trasfuse per la prima volta”.
Si consideri, ancora, che secondo quanto affermato da un altrettanto recente e costante orientamento (Cons. Stato Sez. IV, 20.02.2013, n. 1056) è necessario adottare un’interpretazione dell’art. 10-bis non formalistica, dovendosi invece avere riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio subito dalla ricorrente.
Così è nel caso di specie, laddove il provvedimento di rigetto risulta essenzialmente fondato sulla violazione della distanza minima dei fabbricati, circostanza quest’ultima che risulta dirimente al fine di sancire la legittimità del provvedimento ora impugnato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.09.2013 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico sulla sommità di un edificio bisogna dare la prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio. Non è, pertanto, ammissibile una valutazione astratta e generica non supportata da un’effettiva dimostrazione dell’incompatibilità paesaggistica dell’impianto.
Attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione pubblici.

... per l'annullamento della condizione imposta dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Provincie di Verona, Rovigo e Vicenza, ed applicata dal Comune di Bardolino all'autorizzazione paesaggistica rilasciata al ricorrente in data 14/06/2013 n. 111/13/00 U.T. per l'ampliamento di edificio di sua proprietà, contenente il divieto di installazione dell'impianto fotovoltaico e/o solare sulla copertura; del parere della medesima Soprintendenza in data giugno 2013 prot. n. 15640, limitatamente all'imposizione della descritta condizione.
...
Il ricorso può essere accolto per i motivi di seguito precisati.
Il parere vincolante della Soprintendenza, nella parte in cui contiene la prescrizione sopra citata, appare viziato da eccesso di potere e difetto di motivazione.
La Soprintendenza ha argomentato il proprio parere affermando l’esistenza di un’incompatibilità con il paesaggio “in quanto gli elementi da installare risulterebbero, in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale riflettente, estremamente stridenti rispetto all’ambito nel quale si collocano e tali da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante...”.
La semplice lettura della motivazione sopra citata consente di rilevare come la valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, sia del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto e all’intervento di cui si tratta.
Nel provvedimento, non solo non vi è nessun riferimento alla metratura o al posizionamento dell’impianto, ma ancora risulta del tutto assente l’individuazione e la menzione di un elemento del paesaggio e dell’ambiente circostante che, in quanto tale, risulterebbe deturpato, o quanto meno pregiudicato, dalla realizzazione di un impianto la cui ampiezza è, peraltro, circoscritta a soli 40 mq.
Ne consegue che in mancanza di una valutazione strettamente correlata al caso di specie potrebbe risultare astrattamente ammissibile, sempre e comunque, un giudizio di incompatibilità di una qualunque struttura degli impianti di cui si tratta, suscettibili, in quanto tali e di per sé, di incidere comunque nell’area di riferimento.
Come correttamente ha rilevato la parte ricorrente un più recente orientamento giurisprudenziale (TAR Campania Salerno Sez. II, 28.01.2013, n. 235), cui questo Collegio ritiene di aderire, ha sancito che “per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico sulla sommità di un edificio, bisogna dare la prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, ….”.
Non è, pertanto, ammissibile una valutazione astratta e generica non supportata da un’effettiva dimostrazione dell’incompatibilità paesaggistica dell’impianto.
Analogamente si è sostenuto che “attualmente la presenza di pannelli sulla sommità degli edifici, pur innovando la tipologia e la morfologia della copertura, non deve più essere percepita soltanto come un fattore di disturbo visivo, ma anche come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva). Per negare l'installazione di un impianto fotovoltaico occorre quindi dare prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio, cosa che non coincide con la semplice visibilità dei pannelli da punti di osservazione pubblici (in questo senso anche TAR Lombardia Brescia, Sez. I, Sent. 04.10.2010, n. 3726 e sempre TAR Brescia, Sez. I, 15.04.2009 n. 859)”.
In considerazione dell’orientamento sopra richiamato il ricorso può, pertanto, essere accolto e può essere annullata la condizione imposta dalla Soprintendenza di Verona all’autorizzazione paesaggistica contenente il divieto alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico e/o solare (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.09.2013 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione di opere abusive é un atto dovuto a carattere vincolato, che costituisce esercizio dei poteri-doveri di vigilanza sull’attività edilizia spettanti all’autorità preposta al governo del territorio.
Sicché, il provvedimento con il quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del carattere abusivo delle opere non richiede una motivazione particolarmente stringente, una volta che siano state esattamente individuate le opere edilizie e ne sia stata evidenziata l’accertata abusività.
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Ai sensi dell’art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380/2001, l’individuazione dell’area di sedime e dell’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, area che viene acquisita di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del Comune al verificarsi dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, attiene al contenuto minimo necessario dell’ordinanza di demolizione medesima, la cui pretermissione è suscettibile di determinarne l’illegittimità.

Per ius receptum, l’ordinanza di demolizione di opere abusive é un atto dovuto a carattere vincolato, che costituisce esercizio dei poteri-doveri di vigilanza sull’attività edilizia spettanti all’autorità preposta al governo del territorio.
Per tale ragione, é da condividersi il principio giurisprudenziale in virtù del quale il provvedimento con il quale si ingiunge doverosamente la demolizione di opere abusive, quale atto vincolato, fondato sull’accertamento del carattere abusivo delle opere non richiede una motivazione particolarmente stringente, una volta che siano state esattamente individuate le opere edilizie e ne sia stata evidenziata l’accertata abusività.
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Analogamente è a dirsi quanto alla mancata individuazione dell’area di sedime e dell’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, da acquisire in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380/2001.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380/2001, l’individuazione dell’area di sedime e dell’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, area che viene acquisita di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del Comune al verificarsi dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, attiene al contenuto minimo necessario dell’ordinanza di demolizione medesima, la cui pretermissione è suscettibile di determinarne l’illegittimità
(TAR Marche, sentenza 13.09.2013 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIl muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento.
La parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all'opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente.

Con particolare riguardo al muro, sussunto, nel provvedimento impugnato, nella categoria del muro di contenimento, la giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio, ha statuito che "il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all'opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente" (Corte di Cassazione, sentenza n. 243 del 11/01/1992; sentenza n. 12763 del 28/11/1991) (TAR Marche, sentenza 13.09.2013 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTILa informativa antimafia c.d. atipica (o supplementare), elaborata dalla prassi, rinviene il suo fondamento normativo nel combinato disposto dell’art. 10, comma 9, del d.P.R. 252/1998 e dell’art. 1-septies, del d.l. 629/1982, conv. in legge 726/1982, nonché nell’art. 10, comma 7, lett. c), del d.P.R. 252/1998, che consente al Prefetto autonomi accertamenti.
Deve dunque ritenersi sempre consentito al Prefetto di fornire alle stazioni appaltanti un’informativa atipica. Tuttavia, essa, a differenza di quella c.d. tipica, non ha carattere (direttamente) interdittivo, ma consente alla stazione appaltante l’attivazione di una valutazione discrezionale in ordine all’avvio o al prosieguo dei rapporti contrattuali, alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la P.A., sicché la sua efficacia interdittiva può eventualmente scaturire soltanto da una valutazione autonoma e discrezionale dell’Amministrazione destinataria.
In altri termini, l’informativa antimafia atipica, ancorché non sia priva di effetti nei confronti delle Amministrazioni, non ne comprime integralmente le capacità di apprezzamento, con la conseguenza che i provvedimenti di mantenimento o di risoluzione del rapporto debbono essere comunque il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante (sulla attribuzione, alla stazione appaltante destinataria di una informativa atipica, di spazi valutativi sulla incidenza effettiva degli elementi di apprezzamento forniti dalla Prefettura nella procedura di riferimento.
La informativa atipica è pur sempre assoggettabile a sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili della sufficienza della motivazione e della logicità, coerenza o attendibilità del giudizio, con riferimento al significato attribuito agli elementi di fatto e all’iter seguito per pervenire a determinate conclusioni.

Secondo la giurisprudenza (cfr., da ultimo, il quadro ricostruttivo fornito da CGA, 08.05.2013, n. 456), nel nostro ordinamento la informativa antimafia c.d. atipica (o supplementare), elaborata dalla prassi, rinviene il suo fondamento normativo nel combinato disposto dell’art. 10, comma 9, del d.P.R. 252/1998 e dell’art. 1-septies, del d.l. 629/1982, conv. in legge 726/1982, nonché nell’art. 10, comma 7, lett. c), del d.P.R. 252/1998, che consente al Prefetto autonomi accertamenti.
Deve dunque ritenersi sempre consentito al Prefetto di fornire alle stazioni appaltanti un’informativa atipica. Tuttavia, essa, a differenza di quella c.d. tipica, non ha carattere (direttamente) interdittivo, ma consente alla stazione appaltante l’attivazione di una valutazione discrezionale in ordine all’avvio o al prosieguo dei rapporti contrattuali, alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la P.A., sicché la sua efficacia interdittiva può eventualmente scaturire soltanto da una valutazione autonoma e discrezionale dell’Amministrazione destinataria (cfr. Cons. Stato, III, 14.09.2011, n. 5130; VI, 28.04.2010, n. 2441; I, 25.02.2012, n. 4774).
In altri termini, l’informativa antimafia atipica, ancorché non sia priva di effetti nei confronti delle Amministrazioni, non ne comprime integralmente le capacità di apprezzamento, con la conseguenza che i provvedimenti di mantenimento o di risoluzione del rapporto debbono essere comunque il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante (sulla attribuzione, alla stazione appaltante destinataria di una informativa atipica, di spazi valutativi sulla incidenza effettiva degli elementi di apprezzamento forniti dalla Prefettura nella procedura di riferimento, cfr. Cons. Stato, VI, 11.12.2009, n. 7777; 03.05.2007, n. 1948; V, 28.03.2008, n. 1310).
La informativa atipica è pur sempre assoggettabile a sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili della sufficienza della motivazione e della logicità, coerenza o attendibilità del giudizio, con riferimento al significato attribuito agli elementi di fatto e all’iter seguito per pervenire a determinate conclusioni (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.09.2013 n. 4511 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: In base alla procedura delineata dall'art. 87, comma 9, del D.Lgs. n. 259/2003, il decorso del termine di 90 giorni dalla presentazione dell'istanza di installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un provvedimento di diniego comunicato entro il detto termine comportano la formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza costituente titolo abilitativo alla realizzazione dell'impianto con conseguente illegittimità dei provvedimenti di diniego o di rimozione postumi, precisandosi che siffatto titolo abilitativo è rimuovibile solo in sede di autotutela nel rispetto dei requisiti formali e sostanziali previsti per l'esercizio di siffatto potere.
E’, invece, di rilievo assorbente la fondatezza del primo motivo di gravame col quale si deduce l’avvenuta formazione del titolo autorizzatorio per silentium.
Al riguardo si deve premettere che l’impugnato provvedimento dell’inefficacia della d.i.a. e di sospensione dei lavori e di rimozione delle opere realizzate è adottato in ragione dell’illegittimità della d.i.a. in quanto mancante del consenso unanime dei condomini del fabbricato su cui si ubica l’impianto di telefonia, ed in ragione del contrasto dell’impianto di condizionamento con il regolamento edilizio.
Ciò posto, e premesso che, per affermazione di parte ricorrente non contraddetta ex adverso, il provvedimento impugnato è stato adottato dopo il decorso di giorni 90 dall’ultimo deposito d’integrazione documentale richiesto dal Comune, si deve osservare che l’art. 87, comma 9, del Codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003), puntualmente invocato col motivo di gravame in esame, stabilisce che, qualora entro il detto termine di giorni 90 dalla presentazione della d.i.a., non sia stato comunicato il diniego di autorizzazione, la d.i.a. s’intende accolta; e si deve considerare che è consolidato principio giurisprudenziale, condiviso da questo Tribunale, quello secondo cui, in base alla procedura delineata dall'art. 87, comma 9, del D.Lgs. n. 259/2003, il decorso del termine di 90 giorni dalla presentazione dell'istanza di installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un provvedimento di diniego comunicato entro il detto termine comportano la formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza costituente titolo abilitativo alla realizzazione dell'impianto con conseguente illegittimità dei provvedimenti di diniego o di rimozione postumi, precisandosi che siffatto titolo abilitativo è rimuovibile solo in sede di autotutela nel rispetto dei requisiti formali e sostanziali previsti per l'esercizio di siffatto potere (Cfr. Cons. di Stato – Sez. III – 30/09/ 2011 n. 4294; TAR Calabria – CZ – Sez. I – 03/10/2012 n. 981) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1869 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 87, comma 5, del D.Lgs. n. 259/2003 stabilisce che, nelle fattispecie come quella in esame concernente le d.i.a. per l’installazione di impianti di telefonia mobile, il responsabile del procedimento può richiedere per una sola volta dichiarazioni e/o integrazioni documentali “entro il termine di quindici giorni” dalla data di ricezione delle domande.
Al riguardo, la giurisprudenza, consolidatasi nel tempo che appare da condividere, ha avuto modo di affermare costantemente la perentorietà del detto termine tenendosi conto della ratio acceleratoria sottesa ai procedimenti de quibus anche in vista dell’eventuale vanificazione che i tardivi eventi interruttivi del procedimento potrebbero sortire sulla formazione del titolo autorizzatorio per silentium previsto in materia al decorso di giorni 90 dalla presentazione della d.i.a. dal comma 9 del medesimo 87 del D.Lgs. n. 259/2003.

Nel merito è di rilievo assorbente la fondatezza del primo motivo di gravame col quale la società ricorrente, deducendo la violazione dell’art. 87, comma 5, del D.Lgs. 01/08/2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), assume l’illegittimità degli atti impugnati perché emessi oltre il termine prescritto.
Il menzionato art. 87, comma 5, del D.Lgs. n. 259/2003 stabilisce che, nelle fattispecie come quella in esame concernente le d.i.a. per l’installazione di impianti di telefonia mobile, il responsabile del procedimento può richiedere per una sola volta dichiarazioni e/o integrazioni documentali “entro il termine di quindici giorni” dalla data di ricezione delle domande; ed, al riguardo, la giurisprudenza, consolidatasi nel tempo che appare da condividere, ha avuto modo di affermare costantemente la perentorietà del detto termine tenendosi conto della ratio acceleratoria sottesa ai procedimenti de quibus anche in vista dell’eventuale vanificazione che i tardivi eventi interruttivi del procedimento potrebbero sortire sulla formazione del titolo autorizzatorio per silentium previsto in materia al decorso di giorni 90 dalla presentazione della d.i.a. dal comma 9 del medesimo 87 del D.Lgs. n. 259/2003 (Cfr. Cons. di Stato – Sez. VI – 31/03/2011 n. 1993; id. 26/01/2009 n. 355; id. 16/09/2011 n. 5165; TAR Campania – NA – Sez. VII – 03/08/2006 n. 7822; id. 21/04/2009 n. 2077; TAR Basilicata – PZ – Sez. I - 25/06/2008 n. 312) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1868 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di sanatoria di costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Così pedissequamente si afferma, con specifico riferimento alla presentazione della domanda di condono ai sensi della l. n. 326 del 2003 successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, come avvenuto nel caso di specie, che essa “produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera al fine di verificarne l'eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento impugnato”.

Il ricorso n. 3031 del 2002, proposto avverso l’ordinanza di demolizione meglio distinta in epigrafe, è da dichiarare improcedibile. Parte resistente, infatti, eccepisce la improcedibilità del gravame, alla quale il ricorrente non si oppone, valorizzando la presentazione dell’istanza di condono prot. n. 57142 del 15.11.2004, quindi in data successiva alla proposizione del gravame.
Secondo dominante orientamento della giurisprudenza, infatti, “La presentazione dell'istanza di sanatoria di costruzione abusiva in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace, con l'effetto quindi di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa” (cfr. Tar Napoli, Sez. IV, n. 1542 del 03.04.2012).
Così pedissequamente si afferma, con specifico riferimento alla presentazione della domanda di condono ai sensi della l. n. 326 del 2003 successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, come avvenuto nel caso di specie, che essa “produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa. Invero, il riesame dell'abusività dell'opera al fine di verificarne l'eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento impugnato” (cfr. Tar Napoli, Sez. VI, 09.05.2013, n. 2417).
Il ricorso n. 3031/02 è quindi da dichiarare improcedibile per sopravventa carenza di interesse
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1866 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: In base all'art. 13 l. 47/1985, che è fedelmente riproposta nel successivo art. 36 d.p.r. n. 380/2001, si richiede per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, ed è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all’inerzia dell’Amministrazione.
Si avverte, quindi, in giurisprudenza che da ciò è dato desumere “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all'art. 97 Cost.. Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.

Il ricorso è fondato.
In particolare, persuade il Collegio la censura, avente rilievo preliminare ed assorbente, di cui al primo secondo motivo di gravame, con la quale l’istante lamenta il difetto di motivazione nel quale l’Amministrazione sarebbe incorsa per non avere specificato il provvedimento impositivo del vincolo preordinato all’esproprio secondo i parametri fissati dall’art. 13 della l.n. 47/1985.
Invero, in base a tale norma, che è fedelmente riproposta nel successivo art. 36 d.p.r. n. 380/2001, si richiede per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, ed è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all’inerzia dell’Amministrazione.
Si avverte, quindi, in giurisprudenza (C. Stato, Sez. V, 11.06.2013, n. 3220; idem, 13.02.1995, n. 238) che da ciò è dato desumere “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all'art. 97 Cost.. Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126)”.
Orbene, a fronte di tale precisi parametri temporali fissati dal citato art. 13, l’Amministrazione si è limitata a rilevare che “l’opera realizzata contrasta con la strumentazione urbanistica vigente in quanto configura la realizzazione di una volumetria in zona a destinazione pubblica con vincolo espropriativo”, senza quindi operare alcun riferimento all’epoca alla quale risale l’introduzione di detta disposizione vincolistica. Ricorre quindi il lamentato difetto motivazionale, tale da inficiare con assorbimento di ogni altra censura, la legittimità dell’impugnato diniego, che pertanto va annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1866 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Si osserva in giurisprudenza che “le finalità di delimitazione del centro abitato proprie del Codice della Strada si presentano diverse da quelle per le quali deve essere definito il centro abitato, in base alla disciplina urbanistico-edilizia che presenta per di più una diversa definizione di centro abitato. Proprio perché, nei due casi, differenti sono i presupposti di legge, differenti le finalità cui tende l'Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di ricognizione, differenti gli organi del Comune competenti alla detta ricognizione, non può ritenersi che una individuazione del centro abitato effettuata (per espressa previsione di legge) al fine di regolamentare la circolazione stradale, possa spiegare effetti nel ben diverso campo della pianificazione urbanistica”.
Ebbene, nell’ampia nozione di circolazione stradale non può non farsi rientrare anche la disciplina della collocazione dei mezzi pubblicitari lungo gli assi stradali, potendo costituire fonte di intralcio o comunque di disturbo alla circolazione, tanto è vero che lo stesso regolamento di esecuzione del codice della strada dedica a tale tematica diverse norme. Ne consegue che la delibera giuntale di delimitazione del centro abitato costituisce parametro di riferimento, in sede di esame delle istanze in questione, ai fini della individuazione del centro abitato, poggiando tale legittimazione sulla stessa norma generale di cui all’art. 4 del Codice della Strada, in virtù della riconducibilità della fattispecie alla nozione di circolazione stradale, e quindi a prescindere da un espresso richiamo in sede di regolamento locale.

Parte ricorrente valorizza la previsione di cui all’art. 4 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della Strada), il cui comma 1, così testualmente prevede: “Ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale, il comune, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente codice, provvede con deliberazione della Giunta alla delimitazione del centro abitato”. Il ricorrente assume, pertanto, che la portata applicativa della delibera giuntale di delimitazione del centro abitato non includerebbe anche le istanze di installazione di mezzi pubblicitari, soccorrendo a tal uopo la stessa generale definizione di centro abitato che offre il Codice della Strada all’art. 3, comma 1, punto 8).
La doglianza –che non va fulminata di inammissibilità, come invece eccepito da parte resistente, in quanto della delibera di G.C. di individuazione del centro abitato se ne assume non la illegittimità quanto la estraneità alla normativa di riferimento– non persuade il Collegio. Invero, la norma dell’art. 4, testé riprodotta, colloca la prevista attività di delimitazione del centro abitato in una precisa dimensione teleologica, tant’è che, per espressa previsione della medesima disposizione, essa deve avvenire ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale e fornisce, inoltre, all'art. 3 n. 8, una nozione di centro abitato affatto diversa da quella prevista in sede urbanistica dall'art. 18, l. n. 865 del 1971.
Si osserva, infatti, in giurisprudenza che “le finalità di delimitazione del centro abitato proprie del Codice della Strada si presentano diverse da quelle per le quali deve essere definito il centro abitato, in base alla disciplina urbanistico-edilizia che presenta per di più una diversa definizione di centro abitato. Proprio perché, nei due casi, differenti sono i presupposti di legge, differenti le finalità cui tende l'Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di ricognizione, differenti gli organi del Comune competenti alla detta ricognizione, non può ritenersi che una individuazione del centro abitato effettuata (per espressa previsione di legge) al fine di regolamentare la circolazione stradale, possa spiegare effetti nel ben diverso campo della pianificazione urbanistica” (cfr. Tar Bari, Sez. III, 10.05.2013, n. 709).
Ebbene, nell’ampia nozione di circolazione stradale non può non farsi rientrare, contrariamente a quanto sembra alludere parte ricorrente, anche la disciplina della collocazione dei mezzi pubblicitari lungo gli assi stradali, potendo costituire fonte di intralcio o comunque di disturbo alla circolazione, tanto è vero che lo stesso regolamento di esecuzione del codice della strada dedica a tale tematica diverse norme. Ne consegue che la delibera giuntale di delimitazione del centro abitato costituisce parametro di riferimento, in sede di esame delle istanze in questione, ai fini della individuazione del centro abitato, poggiando tale legittimazione sulla stessa norma generale di cui all’art. 4 del Codice della Strada, in virtù della riconducibilità della fattispecie alla nozione di circolazione stradale, e quindi a prescindere da un espresso richiamo in sede di regolamento locale.
Il motivo in esame va quindi disatteso (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1862 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza qualifica come interventi di “nuova costruzione” quelli che abbiano ad oggetto “ruderi o resti di edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”, mentre considera come inerenti ad edifici esistenti quelli che abbiano ad oggetto organismi edilizi, seppur non necessariamente abitati o abitabili, tuttavia connotati nei loro tratti essenziali (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura).
La qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione appare innanzitutto in contraddizione con la riconosciuta possibilità di completamento della costruzione .
L’affermazione difensiva secondo cui era consentito unicamente il completamento del rustico esistente (e non anche variazioni tali da integrare modifiche sostanziali al progetto assentito) presuppone, infatti, che tale ultimazione non sia considerata tale da violare il divieto, previsto dal PRG sopravvenuto, di realizzare nuove costruzioni in zona G7. E’ cioè evidente che il necessario assenso comunale all’effettuazione di lavori di (mero) completamento può essere rilasciato solo in quanto l’intervento sia compatibile con il nuovo PRG (cfr. art. 15, comma 3, T.U. ed.: “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire…”) e perciò solo in quanto si tratti di lavori riferibili ad un edificio esistente, la cui realizzazione sia cioè interamente “imputabile” al vecchio PRG nella cui vigenza il titolo che ha consentito la realizzazione del rustico fu rilasciato. Se, infatti, il suddetto rustico non fosse qualificabile come costruzione esistente sarebbe necessariamente assoggettato al divieto di qualunque intervento diretto a completarlo, vale a dire a renderlo “esistente”.
Che la struttura in questione integri un “edificio esistente” è d’altra parte in linea con la giurisprudenza che qualifica come interventi di “nuova costruzione” quelli che abbiano ad oggetto “ruderi o resti di edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare” (cfr., C.d.S., sez. IV, 15.09.2006, n. 5375, TAR Veneto, sez. II, 29.06.2006, n. 1944 e 05.06.2008, n. 1667, TRGA Trento, 08.01.2009 n. 3), mentre considera come inerenti ad edifici esistenti quelli che abbiano ad oggetto organismi edilizi, seppur non necessariamente abitati o abitabili, tuttavia connotati nei loro tratti essenziali (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura): cfr., ex multis, C.d.S., sez. V, 10.02.2004, n. 475).
Nel medesimo senso, per l’art. 31, comma 2, legge 47/1985, il fabbricato si intende ultimato quando sia stato realizzato il rustico e completata la copertura (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 12.09.2013 n. 745 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATANon sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno.
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Non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell'Amministrazione all'autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell'esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell'atto amministrativo nel termine di decadenza.
Siffatto éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l'intrapresa della procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l'adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all'Amministrazione, di esercizio dell'autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all'Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere.

Va perciò ricordato che, stante la sua natura ampiamente discrezionale, il potere di autotutela non è suscettibile di essere forzato da istanze delle parti che avrebbero potuto adeguatamente tutelarsi con la tempestiva impugnazione dei provvedimenti ritenuti lesivi dei propri interessi.
In tal senso, tra le molte, Cons. St., sez. V, 03.10.2012 n. 5199 (“non sussiste in capo all'Amministrazione alcun obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su una diffida-messa in mora diretta essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela, essendo l'attività connessa all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno”); Cons. St. sez. V, 03.05.2012 n. 2549 (“non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell'Amministrazione all'autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell'esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell'atto amministrativo nel termine di decadenza. Siffatto éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l'intrapresa della procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare l'adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all'Amministrazione, di esercizio dell'autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all'Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere” (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 12.09.2013 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAQuesta Corte ha infatti affermato il principio che l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
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ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota;
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le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini;
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soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis– non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali.
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In tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria.

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Il primo quesito (se l’art. 873 c.c. sia applicabile qualora i fabbricati non abbiano pareti contrapposte ovvero tra le frontistanti facciate non sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento ideale di una o entrambe le facciate porti al loro incontro), tra l’altro, ha già avuto risposta nella costante giurisprudenza di questa Corte (allo stato non contraddetta da contrarie decisioni) che ha negato la necessità, ai fini del rispetto delle distanze tra costruzioni, che le pareti si trovino allo stesso livello (cfr. Cass. 15/07/2008 n. 19486).
Questa Corte ha infatti affermato il principio che l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
- ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota (Cass. 21.05.1997 n. 4511);
- le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini (Cass. 24.11.1995 n. 12163);
- soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis– non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali (Cass. 01.07.1996 n. 5956).
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Con il sesto motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 949, 2043 c.c. e 278 c.p.c. quanto alla condanna generica al risarcimento del danno, sul presupposto che le opere che le opere da lui realizzate non siano illegittime.
Il motivo resta assorbito dall’accertata illegittimità delle opere; quanto all’esistenza di un danno in re ipsa per la violazione delle distanze tra costruzioni, la decisione impugnata è conforme alla più recente giurisprudenza di questa Corte che qui si condivide integralmente, secondo la quale in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 16/12/2010 n. 25475; Cass. 07/05/2010 n. 11196) (Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 11.09.2013 n. 20850 - tratto da e link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAIl dettato normativo dell'art. 9 l. 122/1989 è chiaro ed univoco e, proprio perché introduce norma eccezionale derogatoria rispetto all’ordinaria disciplina delle distanze, non ne è legittima alcuna interpretazione estensiva.
La legge Tognoli, se pure è volta a favorire la realizzazione di autorimesse, è contestualmente intesa a fare salvo l’aspetto esteriore e visibile del territorio, nel senso di consentire la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno di un fabbricato preesistente, proprio perché, ubicate nei modi previsti dalla legge, tali strutture non comportano alterazioni visibili del territorio; lo stesso argomento è ovviamente valido per le autorimesse pertinenziali, ma solo se sotterranee e quindi inidonee ad alterare lo stato esterno dei luoghi.
Con riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, solo per completezza di argomentazione, ulteriormente si osserva che nello stesso senso si è espressa anche la più recente giurisprudenza amministrativa secondo la quale
la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra.

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Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 873 c.c. e dell’art. 9 legge 122/1989 e il vizio di motivazione sostenendo:
- che la legge n. 122/1989 in quanto lex specialis deroga all’art. 873 c.c. e tutela un interesse pubblico che, ove riconosciuto dall’autorità amministrativa, sarebbe prevalente rispetto all’interesse tutelato dall’art. 873 c.c.;
- che, differentemente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello, con interpretazione che il ricorrente definisce “radicalmente erronea”, l’art. 9 legge n. 122 del 1989 consente la realizzazione di parcheggi anche se collocati in cortili di pertinenza o in aree esterne, comunque adiacenti senza necessità delle distanze dai confini e richiama una decisione del 1995 del Consiglio di Stato;
- che l’ulteriore argomento della Corte di Appello secondo il quale la normativa speciale non sarebbe applicabile in caso di ampliamento di autorimessa già esistente è un argomento solo ipotetico e quindi privo della certezza necessaria per rigettare il motivo di appello;
- che l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale la sopraelevazione sarebbe stata realizzata per realizzare un soppalco non sarebbe riscontrata da elementi acquisiti al processo.
Formulando il quesito di diritto chiede:
- se l’art. 9 della legge n. 122 del 1989 importi, nei limiti segnati dal suo ambito di applicazione, una deroga al disposto dell’art. 873 c.c. al punto di determinarne l’inapplicabilità in misura corrispondente al contenuto del provvedimento concessorio emesso dalla Pubblica Amministrazione;
- se l’art. 9 sia da considerare applicabile anche quando trattasi di parcheggio non situato nel sottosuolo, ma sullo stesso piano di calpestio dell’immobile.
Il motivo è manifestamente infondato e non è certo la motivazione della Corte di Appello ad essere “radicalmente erronea” come sostenuto dal ricorrente.
L’art. 9 legge n. 122 del 1989 stabilisce che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché, non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici… omissis”.
Nel caso di specie è pacifico (come, del resto risulta dal materiale fotografico inserito nel ricorso dallo stesso ricorrente) che l’autorimessa è stata realizzata non già nel sottosuolo dell’edificio né nei suoi locali a piano terreno (come sarebbe consentito dalla legge in questione) bensì in area pertinenziale all’immobile; in tale ipotesi, qui ricorrente, la deroga agli obblighi di distanza è consentita solo se l’autorimessa è realizzata nel sottosuolo.
Il dettato normativo è chiaro ed univoco e, proprio perché introduce norma eccezionale derogatoria rispetto all’ordinaria disciplina delle distanze, non ne è legittima alcuna interpretazione estensiva.
La legge Tognoli, se pure è volta a favorire la realizzazione di autorimesse, è contestualmente intesa a fare salvo l’aspetto esteriore e visibile del territorio, nel senso di consentire la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno di un fabbricato preesistente, proprio perché, ubicate nei modi previsti dalla legge, tali strutture non comportano alterazioni visibili del territorio; lo stesso argomento è ovviamente valido per le autorimesse pertinenziali, ma solo se sotterranee e quindi inidonee ad alterare lo stato esterno dei luoghi.
Con riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, solo per completezza di argomentazione, ulteriormente si osserva che nello stesso senso si è espressa anche la più recente giurisprudenza amministrativa secondo la quale la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (Con. St., IV 16/04/2012 n. 2185; IV 11.11.2006, n. 6065; V 29.03.2004, n. 1662).
Nella decisione del Consiglio di Stato, Sezione IV 23.02.2009, n. 1070 testualmente si legge che: “i parcheggi devono essere realizzati, se non vengono a ciò adibiti i locali del piano terra di un fabbricato, o nel sottosuolo dello stesso fabbricato ovvero nel sottosuolo di un’area pertinenziale esterna…”.
In tal senso si risponde al secondo quesito formulato, restando assorbito il primo quesito; per tali ragioni non sussiste il dedotto vizio di motivazione in quanto la motivazione è del tutto conforme ai principi esposti, con la precisazione che la circostanza che l’autorimessa sia posta a livello del piano di calpestio dell’immobile non rileva perché l’autorimessa non è stata realizzata al piano terra dell’immobile, tale essendo l’unica condizione per la quale sarebbe stato possibile realizzare un parcheggio senza il rispetto delle norme in materia di distanze.
È parimenti conforme ai principi l’ulteriore motivazione (autonomamente sufficiente a sorreggere la decisione) secondo la quale la deroga è consentita solo per le nuove costruzioni e non per la sopraelevazione di una autorimessa già esistente e anche sotto questo diverso profilo il motivo di ricorso si rivela manifestamente infondato (Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 11.09.2013 n. 20850 - tratto da e link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAVa rilevato come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza massima relativamente alle diagonali della precedente copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento della preesistente costruzione, con una parziale costruzione ‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria, una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella parte in cui determini aumento della volumetria e della superficie di ingombro, va qualificata come nuova costruzione.
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La distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, sicché nella specie risulta illegittimo l’atto che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA.

Sotto un profilo fattuale, va rilevato come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza massima relativamente alle diagonali della precedente copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento della preesistente costruzione, con una parziale costruzione ‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria, una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella parte in cui determini aumento della volumetria e della superficie di ingombro, va qualificata come nuova costruzione (Cassazione civile, Sezione terza, 01.10.2009, n. 21059).
Le nuove opere così realizzate, in ragione della loro rilevanza, non potevano quindi considerarsi sottratte all’obbligo del rispetto delle distanze minime (5 metri) di cui all’art. 16 delle NTA del piano regolatore comunale di Vercelli.
La risalenza dell’edificio (nella sua originaria consistenza) esclude, evidentemente, che debba richiedersi ‘retroattivamente’ –a seguito delle modifiche apportate– il rispetto della distanza di cinque metri, oggi prevista dalle NTA: è ovvio che una disposizione (di per sé innovativa) sulle distanze non rende contra ius un manufatto realizzato in precedenza.
Tuttavia, non può ammettersi che le modifiche dell’edificio comportino una distanza tra i due edifici che sia inferiore alla misura imposta da una disposizione nel frattempo entrata in vigore: l’art. 16 si applica senz’altro per la nuova costruzione che si intenda realizzare su un edificio preesistente.
Peraltro, la distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Consiglio di Stato Sezione Quarta, 02.11.2010, n. 7731, e 05.12.2005, n. 6909), sicché nella specie risulta illegittimo l’atto che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4501 - link a www.giustizia-amministrativa).

AMBIENTE-ECOLOGIAAi sensi degli artt. 17 d.lgs. 05.02.1997, n. 22, e 8 d.m. 25.10.1999, n. 471, recanti criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, il coinvolgimento del proprietario del terreno (a prescindere dagli aspetti della sua responsabilità per il riscontrato inquinamento e del sostentamento delle spese di messa in sicurezza e di bonifica del sito, attraverso gli istituti dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare sulle aree) è volto a responsabilizzare, per effetto della ‘posizione’ rivestita, il soggetto che ha un particolare legame, di tipo dominicale, con le aree, al fine di ottenere un’ulteriore posizione di garanzia (qualora il responsabile non provveda o non sia individuabile), a salvaguardia del preminente interesse, di rilievo costituzionale, alla salubrità dell’ambiente.
Infatti, il soggetto che subentri nella proprietà o nel possesso del sito contaminato, pur se non è responsabile della violazione, succede anche negli obblighi connessi all’onere reale di cui all’art. 17, comma 10, d.lgs. 05.02.1997, n. 22, ed è tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica, se intende evitare le conseguenze dei vincoli previsti dal successivo comma 11, secondo cui le spese sostenute per detti interventi, realizzati d’ufficio dal Comune o dalla Regione –qualora i responsabili non provvedano o non siano individuabili–, sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile.
L’imposizione dell’onere presuppone la previa diffida del responsabile dell’inquinamento ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza d’emergenza, con ordinanza da notificare anche al proprietario dell’area (v. art. 8, commi 2 e 3, d.m. 05.02.1997, n. 22), e lo svolgimento della procedura amministrativa volta ad accertare la contaminazione del suolo e ad imporre l’adozione degli interventi necessari, onerando il proprietario del relativo costo.

In linea di diritto, si osserva che ai sensi degli artt. 17 d.lgs. 05.02.1997, n. 22, e 8 d.m. 25.10.1999, n. 471 –applicabili ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio–, recanti criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, il coinvolgimento del proprietario del terreno (a prescindere dagli aspetti della sua responsabilità per il riscontrato inquinamento e del sostentamento delle spese di messa in sicurezza e di bonifica del sito, attraverso gli istituti dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare sulle aree) è volto a responsabilizzare, per effetto della ‘posizione’ rivestita, il soggetto che ha un particolare legame, di tipo dominicale, con le aree, al fine di ottenere un’ulteriore posizione di garanzia (qualora il responsabile non provveda o non sia individuabile), a salvaguardia del preminente interesse, di rilievo costituzionale, alla salubrità dell’ambiente.
Infatti, il soggetto che subentri nella proprietà o nel possesso del sito contaminato, pur se non è responsabile della violazione, succede anche negli obblighi connessi all’onere reale di cui all’art. 17, comma 10, d.lgs. 05.02.1997, n. 22, ed è tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica, se intende evitare le conseguenze dei vincoli previsti dal successivo comma 11, secondo cui le spese sostenute per detti interventi, realizzati d’ufficio dal Comune o dalla Regione –qualora i responsabili non provvedano o non siano individuabili, sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile (v., su tale ultimo punto, Cass. civ., sez. I, 21.10.2011, n. 21887).
L’imposizione dell’onere presuppone la previa diffida del responsabile dell’inquinamento ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza d’emergenza, con ordinanza da notificare anche al proprietario dell’area (v. art. 8, commi 2 e 3, d.m. 05.02.1997, n. 22), e lo svolgimento della procedura amministrativa volta ad accertare la contaminazione del suolo e ad imporre l’adozione degli interventi necessari, onerando il proprietario del relativo costo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4490 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice civile non può essere esercitato nei giudizi, in cui sia parte la pubblica amministrazione, ma unicamente nei giudizi tra privati e nei soli casi in cui l'atto illegittimo venga in rilievo, non già come fondamento del diritto dedotto in giudizio, bensì come mero antecedente logico, sicché la questione venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico, e la disapplicazione dell’atto stesso, ai sensi dell’art. 5 l. 2248/1865, all. E, ove ne sia ritenuta la non conformità a legge, esplica efficacia ai soli fini della decisione della controversia civile e con effetti limitati a tale processo, giacché la cognizione incidentale dell’atto amministrativo ad opera del giudice ordinario, competente a deciderne su questione di diritto soggettivo, esclude che le parti abbiano il potere di trasformare tale questione in ‘causa pregiudiziale’ (ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ.), da decidersi con effetti di giudicato dal giudice competente.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, di cui prende atto questo Collegio, il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice civile non può essere esercitato nei giudizi, in cui sia parte la pubblica amministrazione, ma unicamente nei giudizi tra privati e nei soli casi in cui l'atto illegittimo venga in rilievo, non già come fondamento del diritto dedotto in giudizio, bensì come mero antecedente logico, sicché la questione venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico (v. sul punto, ex plurimis, Cass. civ., Sez. I, 13.09.2006, n. 19659), e la disapplicazione dell’atto stesso, ai sensi dell’art. 5 l. 2248/1865, all. E, ove ne sia ritenuta la non conformità a legge, esplica efficacia ai soli fini della decisione della controversia civile e con effetti limitati a tale processo, giacché la cognizione incidentale dell’atto amministrativo ad opera del giudice ordinario, competente a deciderne su questione di diritto soggettivo, esclude che le parti abbiano il potere di trasformare tale questione in ‘causa pregiudiziale’ (ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ.), da decidersi con effetti di giudicato dal giudice competente (v., su tali principi, Cass., sez. lav., 05.03.2003, n. 3252) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4490 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAL’amministrazione statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale (o da ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella dell’amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua, dalla quale si possano evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.
Nel merito, l’impugnato provvedimento annullatorio soprintendentizio si sottrae alle censure di illegittimità dedotte dagli originari ricorrenti (le cui censure di primo grado, assorbite dal Tar, vanno esaminate in quanto riproposte).
In linea di fatto, giova rilevare che l’intervento autorizzato dal Comune prevede la demolizione di preesistenze di archeologia industriale, citate nel decreto di vincolo come elementi di “espressioni architettoniche, che caratterizzano gli ambiti”, e comporta la loro sostituzione con un immobile di 8.430 mc. a cinque piani adibito ad edilizia abitativa residenziale, su un’area 4.215 mq., sita fuori dalle mura cinquecentesche che cingono la città di Verona (l’imposizione del vincolo risulta, tra l’altro motivato, testualmente, “non solo per la presenza di edifici che rifanno allo stile liberty, ma anche per la presenza di altre espressioni architettoniche che caratterizzano gli ambiti descritti, come elementi di archeologia industriale, schiere di fabbricati lungo le principali vie di accesso alla città, cortine policrome di fabbricati che, seppur di un’edilizia minore e povera, caratterizzano le zone e le identificano”).
Orbene, a fronte del parere negativo espresso dagli esperti in seno alla commissione edilizia integrata –secondo cui “l’intervento previsto non si configura in alcun modo come una riqualificazione ed anzi, prevedendo la semplicistica quanto impropria demolizione delle preesistenze storiche, è in netto contrasto con gli intenti del vincolo esistente, il quale prevede la tutela dei complessi di immobili che concorrono a comporre un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”–, l’autorizzazione comunale non poteva esaurirsi nei generici ed apodittici rilievi, “che il progetto presentato non contrasta con il vincolo paesaggistico ambientale posto sull’area, né viene negativamente leso l’interesse pubblico tutelato dal vincolo stesso per le motivazioni precisate nella relazione tecnica sugli aspetti metodologici operativi a firma del professionista che forma parte integrante o sostanziale del presente provvedimento”.
Infatti, in disparte la considerazione che non appare ammissibile che la motivazione di un provvedimento autorizzatorio paesaggistico possa esaurirsi nell’integrale richiamo per relationem di un atto privato, senza esprimere un’autonoma valutazione dell’ente preposto alla cogestione del vincolo, si osserva che neppure la richiamata relazione tecnica del 17.02.2005, in atti, contiene una specifica e puntuale motivazione attorno alla compatibilità del progetto con il vincolo paesaggistico ambientale, esaurendosi nell’affermazione, altrettanto generica e apodittica, che “gli attuali edifici non presentano alcun interesse storico o architettonico e alcuni di essi presentano uno stato di conservazione fatiscente, pertanto verranno totalmente demoliti”.
La Soprintendenza, evidenziando nell’impugnato provvedimento il pregio degli immobili salvaguardati dal vincolo, ha dunque a ragione messo a fuoco l’assenza di una specifica motivazione della compatibilità del progetto con il vincolo paesaggistico-ambientale impresso sull’area, provvedendo legittimamente ad annullare l’autorizzazione comunale.
Infatti, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo Collegio, l’amministrazione statale, sebbene non possa disporre l’annullamento dell’autorizzazione o del parere paesaggistico adottato in sede regionale (o da ente subdelegato) per ragioni di merito e sovrapporre il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quella dell’amministrazione competente, può vagliare l’autorizzazione o il parere sotto tutti i profili di legittimità, compreso il vizio di eccesso di potere, qualora l’autorità che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato una motivazione congrua, dalla quale si possano evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico (v. in tal senso, ex plurimis, Cons St., Sez. VI, 08.07.2011, n. 4103; Cons. St., Sez. IV, 04.05.2011, n. 2644), sicché la Soprintendenza, rilevando l’esposto vizio motivazionale, si è attenuta ai limiti dei propri poteri di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4481 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTI: Si tratta di stabilire se le dichiarazioni ex art. 38, nella loro completezza, debbano essere espressamente riferite anche al legale rappresentante/amministratore dell’impresa dalla quale la concorrente (nel caso di specie, mandante dell’ATI concorrente) si sia resa affittuaria di un ramo di azienda.
Al quesito il Collegio ritiene di poter dare risposta affermativa.
Vero è che nel codice degli appalti manca una norma, con effetto preclusivo, che preveda in caso di cessione o fitto d’azienda un obbligo specifico di dichiarazioni in ordine ai requisiti soggettivi degli amministratori e direttori tecnici della cedente -atteso che l’art. 51 del codice si occupa della sola ipotesi di cessione del ramo d’azienda successiva all’aggiudicazione della gara- tuttavia non è neppure dubitabile che la norma di cui al citato art. 38, comma 1, lett. c), comprende anche ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono.
Peraltro, l’esigenza di riferire le dichiarazioni anche agli amministratori dell’impresa dalla quale la concorrente ha ottenuto la disponibilità dell’azienda è ancora più evidente nel caso in cui si tratti di affitto e non di cessione dell’azienda, dal momento che l’influenza dell’impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal codice degli appalti.

La questione giuridica da risolvere con riguardo alla presente censura è dunque quella di stabilire se le dichiarazioni ex art. 38, nella loro completezza, debbano essere espressamente riferite anche al legale rappresentante/amministratore dell’impresa dalla quale la concorrente (nel caso di specie, mandante dell’ATI concorrente) si sia resa affittuaria di un ramo di azienda.
Al quesito il Collegio ritiene di poter dare risposta affermativa.
Vero è che nel codice degli appalti manca una norma, con effetto preclusivo, che preveda in caso di cessione o fitto d’azienda un obbligo specifico di dichiarazioni in ordine ai requisiti soggettivi degli amministratori e direttori tecnici della cedente -atteso che l’art. 51 del codice si occupa della sola ipotesi di cessione del ramo d’azienda successiva all’aggiudicazione della gara- tuttavia non è neppure dubitabile che la norma di cui al citato art. 38, comma 1, lett. c), comprende anche ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono (così TAR Napoli, Sez. I, 03.06.2013, n. 2868, nonché A.P. n. 10 del 2012 per la fattispecie specifica della cessione d’azienda).
Peraltro, l’esigenza di riferire le dichiarazioni anche agli amministratori dell’impresa dalla quale la concorrente ha ottenuto la disponibilità dell’azienda è ancora più evidente nel caso in cui si tratti di affitto e non di cessione dell’azienda, dal momento che l’influenza dell’impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal codice degli appalti (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sezione III, 18.07.2011, n. 4354; C.G.A., 05.01.2011, n. 8 e 26.10.2010, n. 1314; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 16 marzo 2011, n. 488) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 11.09.2013 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTILa sottoscrizione dell’offerta tecnica assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta medesima e ne costituisce elemento essenziale di ammissibilità sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, con la conseguenza che la sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione delle offerte non sottoscritte, una espressa previsione della legge di gara.
Considerato:
- che, ai fini del regolamento delle spese processuali, deve essere ribadita la delibazione di manifesta fondatezza del ricorso, già anticipata in sede cautelare, con particolare riferimento alle censure che investono la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria: al riguardo è appena il caso di precisare che, per giurisprudenza costante, la sottoscrizione dell’offerta tecnica assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta medesima e ne costituisce elemento essenziale di ammissibilità sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, con la conseguenza che la sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione delle offerte non sottoscritte, una espressa previsione della legge di gara (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.04.2012, n. 2317; id., 25.01.2011 n. 528) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 10.09.2013 n. 1260 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTIDopo alcune oscillazioni, e all’indomani dell’introduzione per mano del legislatore del principio di tassatività delle cause di esclusione dagli appalti pubblici (con il comma 1-bis aggiunto dal D.L. n. 70/2011 all’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006), questa Sezione ha aderito all’indirizzo che –sulla scorta di una lettura doverosamente rigorosa delle previsioni normative– limita gli obblighi dichiarativi ai soli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, in conformità alla lettera dell’art. 38, che richiede la coesistenza di due requisiti (la carica formale di amministratore e la titolarità del potere rappresentativo) e non può, pertanto, trovare applicazione nei confronti di coloro che, pur muniti di potere di rappresentanza, non siano amministratori.
Intorno alla questione dell’applicabilità ai procuratori delle imprese concorrenti in una gara di appalto degli obblighi dichiarativi sanciti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 si è sviluppato, com’è noto, un ampio dibattito giurisprudenziale, che ha condotto alla formazione di due indirizzi contrapposti: l’uno, in forza del quale sarebbe da assimilarsi alla posizione degli amministratori quella dei soggetti titolari di un significativo ruolo decisionale e gestionale all’interno dell’impresa, nonché dei procuratori cui siano stati conferiti poteri rappresentativi rilevanti al punto da giustificare l’assoggettamento all’obbligo di dichiarazione (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.09.2012, n. 5150); l’altro, secondo cui l’obbligo di dichiarazione sarebbe di contro circoscritto ai soli amministratori muniti di poteri di rappresentanza e ai direttori tecnici, con esclusione dei procuratori, posto che l’art. 38 cit. costituirebbe disposizione eccezionale insuscettibile di essere applicata a soggetti diversi da quelli espressamente contemplati (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. III, 06.05.2013, n. 2449).
Deve darsi conto, altresì, dell’esistenza di un orientamento “intermedio”, che, privilegiando una verifica casistica e in concreto, comprende nel novero dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni ex art. 38 tutti coloro che, al di là della qualifica e dei poteri formalmente rivestiti, svolgano o abbiano svolto anche in via di mero fatto un’attività di amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.10.2010, n. 7578).
Dopo alcune oscillazioni, e all’indomani dell’introduzione per mano del legislatore del principio di tassatività delle cause di esclusione dagli appalti pubblici (con il comma 1-bis aggiunto dal D.L. n. 70/2011 all’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006), questa Sezione ha infine aderito all’indirizzo che –sulla scorta di una lettura doverosamente rigorosa delle previsioni normative– limita gli obblighi dichiarativi ai soli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, in conformità alla lettera dell’art. 38, che richiede la coesistenza di due requisiti (la carica formale di amministratore e la titolarità del potere rappresentativo) e non può, pertanto, trovare applicazione nei confronti di coloro che, pur muniti di potere di rappresentanza, non siano amministratori (cfr. TAR Toscana, sez. I, 07.02.2013, n. 187; id., 20.12.2012, n. 2074).
In attesa di un intervento che contribuisca a dirimere l’irrisolto contrasto interpretativo (la questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza della V Sezione, 09.04.2013, n. 1943), il collegio intende mantenere ferma la propria giurisprudenza, di talché, come anticipato in sede cautelare, deve escludersi che la posizione di procuratori ricoperta all’interno delle imprese Rampasi Costruzioni e Poggiolini Restauri, rispettivamente, dai signori Cadile e Dalla Fior comportasse alcun obbligo dichiarativo a norma dell’art. 38 D.Lgs. n. 163/2006 e della stessa lex specialis, la quale individua i soggetti tenuti ad attestare il possesso dei requisiti di moralità limitandosi a un pedissequo, quanto inequivocabile, richiamo alle disposizioni di legge (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 10.09.2013 n. 1258 - link a www.giustizia-amministrativa).

URBANISTICAL’amministrazione pianificatrice gode di ampia discrezionalità nell’individuare la disciplina urbanistica del territorio e le sue scelte in proposito possono essere sindacate solamente in caso di errore di fatto o illogicità manifesta.
E’ stato in proposito affermato che le scelte effettuate dall’amministrazione nell’adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità. La destinazione data alle aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
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Vincoli espropriativi sono solo quelli che escludono completamente l’iniziativa privata nell’edificazione di una determinata area, e quello derivante da piano attuativo ad iniziativa privata non presenta tale carattere poiché si fonda sull’iniziativa (appunto) dei privati, cui consente di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi dell'Amministrazione.

La giurisprudenza concorda sul principio che l’amministrazione pianificatrice gode di ampia discrezionalità nell’individuare la disciplina urbanistica del territorio e le sue scelte in proposito possono essere sindacate solamente in caso di errore di fatto o illogicità manifesta.
E’ stato in proposito affermato che le scelte effettuate dall’amministrazione nell’adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità. La destinazione data alle aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (C.d.S. IV, 16.11.2011 n. 6049).
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Non è esatta infatti la tesi della ricorrente secondo la quale la decadenza del vincolo di piano attuativo ad iniziativa privata sarebbe assimilabile a quella del vincolo espropriativo, con conseguente venir meno della disciplina urbanistica nella zona interessata. Il primo vincolo non ha infatti carattere espropriativo, come correttamente replica la difesa dell’Amministrazione, poiché non comporta una assoluta inedificabilità.
Vincoli espropriativi sono solo quelli che escludono completamente l’iniziativa privata nell’edificazione di una determinata area (C.d.S. IV, 07.04.2010 n. 1982; 22.01.2012, n. 216; 28.12.2012, n. 6700), e quello derivante da piano attuativo ad iniziativa privata non presenta tale carattere poiché si fonda sull’iniziativa (appunto) dei privati, cui consente di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi dell'Amministrazione (TAR Toscana III, 18.02.2000 n. 290; TAR Veneto II, 19.01.2004 n. 128; TAR Calabria Catanzaro II, 09.02.2010 n. 122)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 10.09.2013 n. 1243 - link a www.giustizia-amministrativa).

CONDOMINIOCondominio. La Cassazione interviene sulla decorrenza del termine annuale di prescrizione. Denuncia dopo la perizia per l'edificio con gravi difetti.
Quando un condominio agisce per i vizi di costruzione dell'edificio, i termini prescrizionali di un anno decorrono dalla data di asseveramento della perizia stragiudiziale che accerta i danni, e non dalle lettere in cui denuncia sinteticamente i vizi.
La questione è stata chiarita dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile (presidente Felicetti, relatore Matera), con la sentenza 09.09.2013 n. 20644.
Il condominio aveva segnalato, nei termini previsti dal comma 1 dell'articolo 1669 del Codice civile, la presenza di gravi vizi costruttivi (sgretolamento dell'asfalto dei cortili e crepe nell'intonaco delle facciate) e aveva inviato due lettere, nelle quali esponeva i problemi così come erano rilevabili a vista. Poi aveva fatto la regolare denunzia (prevista dal comma 2 dello stesso articolo), che era nei termini solo considerando la data di asseverazione della perizia stragiudiale ma non le lettere che erano state inviate al costruttore segnalando i vizi.
Quest'ultimo ha sollevato in Cassazione proprio la questione della tardività della denuncia, sostenendo che le lettere, anche se «sintetiche», erano sufficienti a far valere la garanzia e quindi la denuncia era tardiva. La Suprema Corte, però, ha respinto il ricorso (pur compensando le spese), perché il danneggiato deve avere la conoscenza completa dei danni e solo questa è idonea a determinare il decorso del doppio termine. E la conoscenza dovrà ritenersi conseguita «solo all'atto dell'acquisizione di idonei accertamenti tecnici», valutabili solo dal giudice di merito.
Non solo: la Cassazione ha anche respinto il motivo che mirava a considerare non «gravi» i difetti rilevati: la gravità non dipende solo da fenomeni che incidano su «staticità, durata e conservazione dell'edificio» ma si configurano anche in riferimento a una parte limitata dell'edificio, purché incidano in maniera rilevante sulla funzionalità della parte stessa, proprio come il distacco dell'intonaco (articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2013).
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massima
1. Ai fini del computo dei termini annuali posti dall'art. 1669 CC -il primo di decadenza per effettuare la "denunzia" ed il secondo, che dalla denunzia stessa prende a decorrere, di prescrizione per promuovere l'azione-, deve aversi riguardo alla "scoperta" del vizio, che si identifica con la conoscenza sia della gravità dei difetti sia del collegamento causale di essi con l'attività progettuale e costruttiva espletata.
2. Ai fini della responsabilità dell'appaltatore ex art. 1669 c.c., costituiscono gravi difetti dell'edificio non solo quelli incidenti sulla struttura e sulla funzionalità dell'opus, ma anche i vizi costruttivi che menomano apprezzabilmente il normale godimento della cosa o impediscono che questa fornisca l'utilità cui è destinata, come il crollo o il disfacimento del rivestimento esterno dell'edificio, ovvero il distacco dell'intonaco, che, pur non alterando le strutture portanti dell'edificio, alteri, per la notevole estensione delle superfici interessate, il normale godimento dell'immobile e la sua funzione economica.
3. La nozione di grave difetto di costruzione, infatti, ricomprendendo ogni deficienza o alterazione che vada ad intaccare in modo significativo sia la funzionalità dell'opera che la sua normale utilizzazione, è riferibile anche alle parti comuni di un edificio in condominio e, quindi, anche ai viali di accesso pedonali
(link a http://www.neldiritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il decreto ministeriale n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze di vicinato, ha una valenza direttamente precettiva, sino a comportare la disapplicazione degli strumenti urbanistici, anche di tipo regolamentare, con esso contrastanti.
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura tassativa ed inderogabile.
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Un preciso orientamento sia della Cassazione, sia di questo Consiglio di Stato, ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.

Il Collegio, tenuto conto della già resa sentenza parziale, è chiamato in questa sede unicamente a dirimere la questione se il rilascio dell’impugnato titolo ad aedificandum, con cui si autorizza l’esecuzione di lavori di recupero di un sottotetto, comporti o meno la violazione del limite di distanza di dieci metri tra fabbricati vicini, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
A tale problematica si ritiene debba darsi risposta negativa, in senso non favorevole alla tesi difensiva propugnata dall’appellante, che tale vizio di violazione di legge ha (erroneamente) denunciato come sussistente.
Com’è noto, il decreto ministeriale n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze di vicinato, ha una valenza direttamente precettiva, sino a comportare la disapplicazione degli strumenti urbanistici, anche di tipo regolamentare, con esso contrastanti (Cons. Stato Sez. IV 27.10.2011 n. 5759).
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura tassativa ed inderogabile (ex plurimis Cons. Stato Sez. IV 12.06.2009 n. 3094).
Ciò preliminarmente precisato, nel caso di specie, in ragione delle caratteristiche dello stato dei luoghi come confermate dalle risultanze emerse dai compiuti accertamenti istruttori, non è ravvisabile, ad opera dell’assentimento alle opere di recupero del sottotetto del fabbricato del sig. Novaro, una situazione comportante il mancato rispetto del limite di distanza dei dieci metri fra pareti finestrate di edifici prospicienti.
Ed invero, come rilevasi dal documento contenente i rilievi tecnici all’uopo esperiti, il fabbricato di proprietà del controinteressato Novaro (indicato sub “A” nella relazione) e quello dell’appellante sig.ra Lantero (indicato sub “B”) sono asimmetrici (il primo è arretrato rispetto al secondo) e tanto sia con riferimento alle altezze, laddove l’edificio della Lantero è più alto, sia per la sagoma, nel senso che i fabbricati sono disallineati, per cui , ai fini de quibus, viene in rilievo solo una porzione di pareti fronteggianti che, però, non sono parimenti finestrate.
Più specificatamente, a fronte del muro perimetrale del fabbricato di proprietà dell’appellante su cui insistono tre finestre allineate verticalmente (e che prospetta sull’edificio dirimpettaio ) sussiste il muro perimetrale dell’edificio di proprietà del controinteressato, ad una distanza di 4,05 metri, la cui parete però non può considerarsi finestrata, giacché la stessa non gode di vedute ma solo di luce.
Ebbene, un preciso orientamento sia della Cassazione (Cass. Sez. Civ., Sez. II 30.04.2012 n. 6604), sia di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. IV 22.01.2013 n. 844) -dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi- ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere (come nel caso di specie).
Ciò che rileva, insomma, è che il Novaro non ha la possibilità di “inspicere” nell’altrui prospiciente proprietà; e se così è, non v’è luogo all’applicazione della norma ex art. 9 citato, non esistendo, appunto, pareti finestrate su edifici fronteggianti e/o contrapposti (illuminante al riguardo è la riproduzione fotografica n. 4 della documentazione acclusa alla relazione dell’Ufficio accertatore) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2013 n. 4451 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVI: La violazione dell’art. 10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale.
In base ad un preciso orientamento giurisprudenziale, pienamente condivisibile, la violazione dell’art. 10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale (in tal senso, ex multis, Cons. Stato Sez. V 10.10.2007 n. 5321).
E poiché il provvedimento in contestazione ha natura vincolata, dovendo l’istanza di sanatoria essere definita unicamente alla stregua delle rigorose diposizioni normative dettate in materia, è evidente che il contenuto del provvedimento adottato dal Comune non avrebbe potuto essere diverso da quello (di diniego) assunto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2013 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVI: Giova richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce il carattere pertinenziale alle opere, quando per la loro natura e consistenza risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al sevizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di un volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
Con il secondo motivo d’impugnazione viene affrontata la questione giuridica fondamentale qui in rilievo, cioè la natura pertinenziale o meno, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 320/2001, del manufatto di che trattasi.
Ebbene, al riguardo giova richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce il carattere pertinenziale alle opere, quando per la loro natura e consistenza, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al sevizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di un volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Cass. Pen. Sez. III 27.11.1997 n. 2660; Cons. Stato Sez. V 07.12.2002 n. 6126; idem 30.11.2000 n. 6538; Cons. Stato sez. IV 17.05.2010 n. 3127).
Alla luce dei parametri fissati dalla giurisprudenza, non appare condivisibile l’impostazione di parte appellante, che qualifica l’opera in questione come pertinenza, se è vero che:
a) il manufatto in contestazione misura 70 mq. e 199 mc., palesando, quindi una significativa consistenza;
b) la struttura è composta da fondazioni di calcestruzzo e pareti di laterizi, con relativo manto di copertura in coppi, caratteristiche strutturali in parte già constatate con gli accertamenti tecnici del 01.12.2004 (di cui sopra si è parlato).
Se questi sono i caratteri dell’opus, è ragionevole ritenere che l’immobile, ancorché adiacente a preesistente edificio, non sia funzionalmente servente rispetto all’immobile “principale” ed anzi sia suscettibile di autonoma utilizzazione, a fini abitativi o diversi, sì che il fabbricato non può farsi minimamente rientrare nella categoria tipologica delle pertinenze, come descritta dall’art. 3 del DPR n. 320/2001 e neppure in quella prevista dalla normativa recata dal Regolamento comunale per la realizzazione degli interventi edilizi minori, che contempla ipotesi di fabbricati di dimensioni inferiori a quelle qui in rilievo.
Esattamente allora il Comune ha opposto tali impeditive circostanze all’accoglimento della richiesta di sanatoria e altrettanto correttamente il giudice di primo grado ha valutato come legittimo sotto tali profili il diniego dell’Amministrazione.
Anche qui il carattere assorbente della questione testé illustrata, in ragione del titolo per i quale l’appellante ha (erroneamente) invocato la sanabilità del manufatto, fa sì che non sia necessario occuparsi degli altri motivi ritenuti dall’Ente preclusivi della domanda, ben potendo la determinazione negativa reggersi sulle ragioni inerenti il presupposto in base al quale è stata chiesta e negata la sanatoria (la questione della pertinenzialità, qui, per l’appunto assente) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2013 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIn base alla legge 22.02.2001 n. 36, i Comuni possono, in un'ottica di ottimale disciplina d'uso del territorio, adottare misure per la localizzazione delle stazioni radio base, anche integrative rispetto alla disciplina vigente, in modo tale da minimizzare l'esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici, senza tuttavia per questo potersi spingere fino ad impedire -o a rendere eccessivamente onerosa- la possibilità di installare impianti di telefonia sul territorio comunale.
In sostanza, come precisato ripetutamente in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sentenze n. 4631 del 2009, n. 9414 del 2010, n. 3783 del 2011), in base alla legge 22.02.2001 n. 36, i Comuni possono, in un'ottica di ottimale disciplina d'uso del territorio, adottare misure per la localizzazione delle stazioni radio base, anche integrative rispetto alla disciplina vigente, in modo tale da minimizzare l'esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici, senza tuttavia per questo potersi spingere fino ad impedire -o a rendere eccessivamente onerosa- la possibilità di installare impianti di telefonia sul territorio comunale (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.09.2013 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIl fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico "socio-economico" che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori.

Osserva la Sezione che il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico "socio-economico" che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori.
Rileva ancora il Collegio che l'art. 10 della l. n. 10/1977, sotto la rubrica "concessione relativa ad opere od impianti non destinati alla residenza" prescriveva, al comma 1, ai fini della determinazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, che “La concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla presentazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a parametri che la regione definisce con i criteri di cui alle lettere a) e b) del precedente art. 5, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva” e, al comma 3, che “Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti, nonché di quelle nelle zone agricole previste dal precedente articolo 9, venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo per la concessione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento della intervenuta variazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4326 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente".
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Qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata senza l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18, u.c., l. 28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del Comune di quei contributi per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativa a interventi in variante rispetto al progetto originario essendo stato determinato un incremento del peso urbanistico.

Osserva la Sezione che, in caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente" (Cons. di Stato, sez. V, 07.12.2010, n. 8620).
E, nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dalla ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (industriale, appunto) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella industriale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli “standard”. Presupposto, questo, sufficiente, per giurisprudenza unanime, a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
Trattandosi in ogni caso di un supplemento di contributo urbanistico, l'importo dovuto dalla società ricorrente doveva in ogni caso essere pari alla differenza tra il contributo previsto per la nuova destinazione direzionale ricreativa e quello relativo alla precedente destinazione industriale, ove integralmente versato.
Ma nel caso che occupa, essendo la prima licenza per lavori edilizi anteriore alla entrata in vigore della l. n. 10/1977, non era dovuta la corresponsione di oneri, anche ai sensi dell’art. 18 della legge stessa, e non era scomputabile alcuna somma in precedenza pagata a tale titolo da quanto dovuto a seguito dell’effettuato mutamento di destinazione d’uso.
Prima della entrata in vigore di detta legge non era infatti previsto il pagamento di alcun onere di urbanizzazione o per costo di costruzione, introdotti con gli artt. 5 e 6 della legge suddetta, ed essi non potevano essere stati virtualmente scontati.
Del resto la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso che qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata senza l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18, u.c., l. 28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del Comune di quei contributi per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativa a interventi in variante rispetto al progetto originario (Consiglio Stato, sez. V, 04.09.2000, n. 4662) essendo stato determinato un incremento del peso urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4326 - link a www.giustizia-amministrativa).

TRIBUTIIci dovuta se c'è stata demolizione. Sull'area.
Il contribuente è tenuto a pagare l'Ici sull'area edificabile e non sul fabbricato utilizzato come abitazione principale solo se gli interventi edilizi hanno comportato la demolizione o la sostituzione di parti strutturali dell'immobile che ne hanno impedito l'uso. È escluso il pagamento del tributo sull'area se la famiglia dimostra di aver continuato ad abitare nell'immobile durante il periodo dei lavori.

È quanto ha affermato la commissione tributaria provinciale di Brescia, sezione VIII, con la sentenza 27.08.2013 n. 129.
Per i giudici tributari, dall'esame della documentazione presentata è emerso che i lavori eseguiti sull'immobile non hanno comportato demolizioni, né sostituzione di parti strutturali, né interventi che possano averne impedito l'uso. Del resto, le fatture prodotte relative alle utenze per energia elettrica, gas e acqua hanno dimostrato che «la funzione abitativa non è venuta meno e che la famiglia dei ricorrenti, anche durante il periodo dell'intervento edilizio, ha continuato ad abitare nello stesso stabile».
Secondo l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, richiamato per l'Imu dall'articolo 13 del decreto Monti (201/2011), per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza. Il fabbricato di nuova costruzione è soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori o, se antecedente, dalla data in cui è comunque effettivamente utilizzato.
Infatti, nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la base imponibile Ici (o Imu) è data dal valore dell'area dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino a quando il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente. Inoltre, in base alla finzione giuridica prevista nella disciplina dell'imposta, il suolo va considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o meno in base agli strumenti urbanistici, anche durante il periodo dell'effettiva utilizzazione edificatoria (articolo ItaliaOggi del 12.09.2013).

ESPROPRIAZIONE: Espropri previa consultazione. Il proprietario deve poterne discutere con la p.a.. Il Consiglio di stato definisce i vincoli dell'azione dell'amministrazione pubblica.
Al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.

Questo ha affermato la IV Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 21.08.2013 n. 4229.
I giudici di palazzo Spada hanno sottolineato come una imponente produzione giurisprudenziale amministrativa abbia, in diversi momenti storici, costantemente affermato la necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo.
La preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agire amministrativo (tra le altre Tar Campania Salerno Sez. I, 12/07/2011, n. 1276).
È pacifico che la materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza.
I giudici hanno poi ribadito come non sarebbe invocabile come esimente dal dovere in questione in capo alla p.a. il disposto dell'art. 13, comma 1, legge 07.08.1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.
L'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della regione o provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle definitive determinazioni.
Il Consiglio di stato ha poi ribadito che costituisce principio a più riprese affermato dalla giurisprudenza quello per cui sussiste la responsabilità solidale dell'ente espropriante-appaltante e dell'appaltatore ogni quale volta entrambi abbiano concorso a determinare l'evento dannoso (si veda Cass. civ. Sez. I, 17/10/2008, n. 25369) e anche alla luce delle vigenti prescrizioni normative va ribadita la permanente vigenza del principio secondo il quale anche laddove ci si trovi al cospetto dell'utilizzo «dell'istituto della delega, l'amministrazione è responsabile dell'operato del delegato, poiché la legge dispone che l'espropriazione si svolge non soltanto “in nome e per conto” del delegante, ma anche “d'intesa” con quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati, senza che assuma rilievo -qualora sia, comunque, avvenuta la radicale trasformazione del fondo in difetto di tempestiva emanazione del decreto di esproprio- la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (cfr. Cass. civ. Sez. I, 27/05/2011, n. 11800)» (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire con decadenza vincolata.
La pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve ora una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del dpr n. 380 del 2001, è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2 (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) e ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.

Lo ha affermato la IV Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 21.08.2013 n. 4206.
I giudici di palazzo Spada hanno poi sottolineato, in ossequio anche alla più recente giurisprudenza, come un tale provvedimento abbia carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di stato, sez. III, 04.04.2013, n. 1870).
Nel caso in cui la costruzione non sia stata iniziata, non vi è dubbio che il Comune debba emettere un provvedimento di natura dichiarativa sul mancato rispetto del termine annuale decadenziale, con conseguente effetto sul permesso rilasciato in precedenza, prescindendo integralmente dalle ragioni che avevano determinato il soggetto che doveva costruire a non intraprendere l'opera, salvo il caso di forza maggiore.
Si tratta, pertanto, di provvedimento amministrativo di natura ricognitiva di una situazione di fatto realmente esistente, ed oggettivamente il giudice amministrativo di prime cure non ha altre opzioni se non provvedere alla declaratoria di improcedibilità, non essendovi più alcun titolo edilizio in relazione al quale valutare la legittimità delle condizioni apposte (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

URBANISTICA: Valutazione ambientale, censure solo se concrete. Le doglianze sotto i riflettori dei giudici di palazzo Spada
Le censure inerenti il procedimento di Valutazione ambientale strategica (Vas) sono ammissibili nei limiti in cui la parte istante specifichi quale concreta lesione alla sua proprietà sia derivata dall'inosservanza delle norme sul procedimento.

Questo ha affermato la Sez. IV del Consiglio di Stato con sentenza 21.08.2013 n. 4200.
I giudici amministrativi hanno sottolineato come la doglianza non debba essere meramente strumentale, ma sostanziale, visto che il generico interesse ad un nuovo esercizio del potere pianificatorio dell'Amministrazione pubblica è insufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo.
La Vas è la valutazione delle conseguenze ambientali di piani e programmi al fine ultimo di assicurare lo sviluppo sostenibile di un territorio sotto il profilo ambientale. È una procedura finalizzata precipuamente a mettere in rilievo le possibili cause di un degrado ambientale derivante dall'adozione di piani e programmi interessanti il territorio, introdotta dalla Direttiva comunitaria 2001/42/Ce che prevede, appunto, la sua applicazione a piani e programmi produttivi di effetti significativi sull'ambiente.
Circa la configurabilità dell'interesse c.d. strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico, i giudici di palazzo Spada hanno poi ribadito, in ossequio alla precedente giurisprudenza che tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall'Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546).
In altri termini, l'utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell'attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale.
E laddove la Vas si concluda con un giudizio positivo (o positivo condizionato) il soggetto che subisca determinazioni lesive della sua sfera giuridica discendenti dall'accettazione (piena o condizionata) delle proposte pianificatorie sottoposte a Vas, ben potrà censurare anche queste determinazioni preliminari condizionanti, poiché è per effetto di questo giudizio di sostenibilità complessiva di queste scelte che le stesse possono tramutarsi in atti pianificatori negativi (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

APPALTI SERVIZIIl Codice dei contratti non si applica a tappeto. Concessione di servizio pubblico, la tesi dell'adunanza plenaria del consiglio di stato.
In una concessione di servizio pubblico non tutte le norme del Codice dei contratti pubblici sono applicabili, ma solo quelle in materia di scelta del contraente, oltre ai principi generali di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento; legittimo applicare una disciplina unitaria quando l'affidamento riguarda sia servizi oggetto di concessione, sia servizi affidabili con un appalto, evitando di differenziare le clausole del bando di gara.

Lo afferma l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 06.08.2013 n. 19.
La questione riguarda la legittimità della definizione della cauzione provvisoria determinata, ex art. 75 del Codice dei contratti, con riguardo al valore totale del concessione (e non invece nella somma dei valori percentuali spettanti al concessionario a titolo di aggio per il servizio di biglietteria e per gli altri servizi) e della richiesta nella lettera di offerta della dichiarazione con la quale i concorrenti si impegnano «a garantire la continuità dei rapporti di lavoro in essere al momento del subentro (c.d. clausola sociale). Ad avviso dell'adunanza plenaria nulla osta «a che un determinato rapporto sia considerato, a determinati fini, in modo unitario, se è la legge a indicare la forma giuridica, e quindi il regime, cui il rapporto deve soggiacere».
Pertanto se l'amministrazione sceglie il sistema della gestione indiretta tramite concessione (ex art. 115, comma del dlgs 42/2004), non risulta irragionevole che le garanzie, richieste al concessionario, siano commisurate, a norma dell'art. 75 del codice dei contratti pubblici, sull'intero valore del rapporto.
Però non tutte le norme del codice sono applicabili alle concessioni di servizi. Ne consegue che l'applicabilità di disposizioni legislative specifiche, come la clausola sociale, si può affermare nei limiti in cui esse trovino la propria ratio immediata nei suddetti principi, sia pure modulati al servizio di esigenze più particolari (articolo ItaliaOggi del 13.09.2013).
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massima
In relazione alla procedura di affidamento della concessione del servizio di gestione di scavi archeologici, ai sensi dell’art. 75 del Codice dei contratti pubblici, per il quale l’importo della garanzia a corredo dell’offerta deve essere ‘pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito’, è legittima la clausola della ‘lettera di richiesta di offerta vincolante’ –pur se non indicata nella precedente sollecitazione a presentare le offerte– che commisura tale percentuale all’intero valore economico della concessione e non soltanto agli introiti ricavati dalla vendita dei biglietti.
In relazione alla procedura di affidamento della concessione del servizio di gestione di scavi archeologici, ai sensi dell’art. 30, comma 1, e dell’art. 69 del Codice dei contratti pubblici è legittima la clausola della ‘lettera di richiesta di offerta vincolante’ che, a pena di esclusione, impone ai concorrenti di rendere una dichiarazione con la quale essi si impegnano ‘a garantire la continuità dei rapporti di lavoro in essere al momento del subentro, con esclusione di ulteriori periodi di prova, di tutto il personale già impiegato nei servizi oggetto della presente concessione in esecuzione di precedenti convenzioni e riportato nell’apposito Allegato 1’ (cosi detta ‘clausola sociale’).

TRIBUTI: Fabbricati rurali, Ici nel caos. Per la Cassazione l'agevolazione dipende dal catasto. La tesi dei giudici di legittimità si scontra con le previsioni di Mineconomia e Territorio.
I fabbricati rurali sono esenti da Ici solo se inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se destinati ad abitazione, o D/10, se utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 19.07.2013 n. 17765.
Non cambia la posizione della Cassazione sui requisiti che devono possedere i fabbricati rurali per fruire delle agevolazioni Ici.
La tesi dei giudici di legittimità, però, contrasta con le previsioni di legge, con il decreto ministeriale attuativo e con l'interpretazione sia del ministero dell'economia e delle finanze sia della dell'Agenzia del territorio, secondo cui non conta l'inquadramento catastale ma l'annotazione di ruralità sugli immobili. Dunque, nonostante gli ultimi interventi legislativi non abbiano riconosciuto alcuna valenza alle categorie catastali degli immobili, dal 2009 la Cassazione (sentenza, sezioni unite, n. 18565) non ha mai cambiato idea e continua a ribadire che i benefici fiscali per i fabbricati rurali sono condizionati dall'inquadramento catastale.
L'Agenzia del territorio, con la circolare 2/2012, ha chiarito che non conta più la classificazione catastale per avere diritto al trattamento agevolato Ici per i fabbricati rurali. Possono infatti mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
La circolare ha fornito delle indicazioni sulla corretta interpretazione delle disposizioni contenute nel decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, che ha stabilito, in dettaglio, quali adempimenti devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni tributarie, così come disposto dall'articolo 13 del dl «salva Italia» (201/2011).
Domande e autocertificazioni necessarie per il riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale, avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi. L'eventuale di diniego di ruralità è impugnabile innanzi alle commissioni tributarie. Infatti, nel caso di esito negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare un provvedimento motivato con il quale disconosce il requisito della ruralità. Dagli atti catastali devono risultare anche le annotazioni negative sugli immobili, che impediscono ai contribuenti di poter fruire dei vantaggi fiscali. Anche secondo il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (circolare 3/2012) la classificazione catastale non è più decisiva.
Bisogna ricordare che dal 2012, con l'introduzione dell'Imu, sono cambiate le regole sulle agevolazioni. In effetti, gli immobili adibiti ad abitazione di tipo rurale sono soggetti al pagamento della nuova imposta municipale con applicazione dell'aliquota ordinaria, a meno che non siano destinati a prima casa. Mentre per quelli strumentali, vale a dire quelli utilizzati per la manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli è stata concessa la sospensione del pagamento dell'acconto di giugno (dl 54/2013) e, successivamente, è stata disposta l'abolizione della prima rata dall'articolo 1 del dl sull'imposizione immobiliare e la finanza locale (102/2013).
A tutt'oggi viene confermata l'esenzione solo per i fabbricati strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente montani indicati in un elenco predisposto dall'Istat.
Va inoltre precisato che i possessori di fabbricati rurali strumentali non sono tenuti a presentare la dichiarazione Imu, neppure per gli immobili che sono iscritti al catasto terreni e che entro il 30.11.2012 avrebbero dovuto transitare a quello edilizio urbano. È una delle indicazioni contenute nelle istruzioni al modello di dichiarazione approvato con decreto ministeriale.
Secondo il ministero dell'economia e delle finanze, rientra nell'ottica della semplificazione amministrativa esonerare i titolari di questi immobili dall'obbligo di presentazione della dichiarazione, considerato che l'Agenzia del territorio rende disponibile sul portale dei comuni le domande presentate per il riconoscimento del requisito di ruralità (articolo ItaliaOggi Sette del 09.09.2013).

APPALTI: Nelle gare pubbliche la formula da utilizzare per la valutazione dell'offerta economica può essere scelta dall'amministrazione con ampia discrezionalità e di conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione non solo dei criteri da porre quale riferimento per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ma anche nella individuazione delle formule matematiche, con la conseguenza che il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, può essere consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità.
E’ vero che è stato anche sottolineato che, proprio ai sensi dell'art. 83 del Codice dei contratti, nonché della direttiva CE 18/2004, nelle gare pubbliche il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa non può prescindere dal prezzo, con conseguente illegittimità di un criterio di valutazione dell'offerta prezzo che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti opposti a quelli prefissati dal bando, giacché, seppure i criteri di attribuzione dei punteggi economici possono essere molteplici e variabili, ciò che conta è che nell'assegnazione dei punteggi, venga utilizzato tutto il potenziale range differenziale previsto per ciascuna voce ed in particolare della voce prezzo, al fine di evitare uno svuotamento di efficacia sostanziale della componente economica dell'offerta: tuttavia l’utilizzazione dell’intero potenziale del punteggio attribuibile in astratto all’offerta economica non può comportare, come pretenderebbero le appellanti, che la circostanza di aver presentato un’offerta economica migliore possa da sola giustificare l’aggiudicazione dell’appalto, proprio per la decisiva considerazione che nel metodo di scelta del contraente con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa deve tenersi conto anche dell’offerta tecnica e ben può accadere che possa risultare economicamente più vantaggiosa anche un’offerta che non sarebbe tale se si considerasse solo l’elemento economico.

E' sufficiente sul punto richiamare i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa (C.d.S., sez. V, 18.02.2013, n. 978; 27.06.2012, n. 3781; 22.03.2012, n. 1640; 01.03.2012, n. 1195; 18.10.2011, n. 5583; sez. III, 22.11.2011, n. 6146; sez. VI, 11.05.2011, n. 2795; Cass. civ., sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost., 03.03.2011, n. 175), in forza dei quali, tra l’altro, nelle gare pubbliche la formula da utilizzare per la valutazione dell'offerta economica può essere scelta dall'amministrazione con ampia discrezionalità e di conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione non solo dei criteri da porre quale riferimento per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ma anche nella individuazione delle formule matematiche, con la conseguenza che il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, può essere consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità.
E’ vero che è stato anche sottolineato (C.d.S., sez. V, 31.03.2012, n. 1899) che, proprio ai sensi dell'art. 83 del Codice dei contratti, nonché della direttiva CE 18/2004, nelle gare pubbliche il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa non può prescindere dal prezzo, con conseguente illegittimità di un criterio di valutazione dell'offerta prezzo che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti opposti a quelli prefissati dal bando, giacché, seppure i criteri di attribuzione dei punteggi economici possono essere molteplici e variabili, ciò che conta è che nell'assegnazione dei punteggi, venga utilizzato tutto il potenziale range differenziale previsto per ciascuna voce ed in particolare della voce prezzo, al fine di evitare uno svuotamento di efficacia sostanziale della componente economica dell'offerta: tuttavia l’utilizzazione dell’intero potenziale del punteggio attribuibile in astratto all’offerta economica non può comportare, come pretenderebbero le appellanti, che la circostanza di aver presentato un’offerta economica migliore possa da sola giustificare l’aggiudicazione dell’appalto, proprio per la decisiva considerazione che nel metodo di scelta del contraente con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa deve tenersi conto anche dell’offerta tecnica e ben può accadere che possa risultare economicamente più vantaggiosa anche un’offerta che non sarebbe tale se si considerasse solo l’elemento economico (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.07.2013 n. 3802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche per le domande di SCIA in sanatoria si applica il termine di 60 giorni, prescritto dall’art. 36, comma 3, DPR n. 380/2001.
Infatti il co. 1 dello stesso art. 36 comprende nel proprio ambito oggettivo solo gli interventi realizzati “in assenza di DIA” (ora SCIA) “nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa” (cioè gli interventi sottoposti a DIA in alternativa al permesso di costruire), e quindi il termine di 30 giorni, previsto dall’art. 23 DPR n. 380/2001, si applica soltanto per l’esercizio del controllo inibitorio, cioè soltanto nel caso di SCIA, presentata prima dell’inizio dei lavori.
E poiché l’art. 37 DPR n. 380/2001, che disciplina la SCIA in sanatoria, non prevede espressamente un termine per la pronuncia sull’istanza di sanatoria, deve ritenersi applicabile analogicamente il predetto termine di 60 giorni ex art. 36, comma 3.

Sempre in via preliminare, va rilevato che i provvedimenti impugnati sono stati emanati nei termini legali, atteso che anche per le domande di SCIA in sanatoria si applica il termine di 60 giorni, prescritto dall’art. 36, comma 3, DPR n. 380/2001. Infatti il co. 1 dello stesso art. 36 comprende nel proprio ambito oggettivo solo gli interventi realizzati “in assenza di DIA” (ora SCIA) “nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa” (cioè gli interventi sottoposti a DIA in alternativa al permesso di costruire), e quindi il termine di 30 giorni, previsto dall’art. 23 DPR n. 380/2001, si applica soltanto per l’esercizio del controllo inibitorio, cioè soltanto nel caso di SCIA, presentata prima dell’inizio dei lavori.
E poiché l’art. 37 DPR n. 380/2001, che disciplina la SCIA in sanatoria, non prevede espressamente un termine per la pronuncia sull’istanza di sanatoria, deve ritenersi applicabile analogicamente il predetto termine di 60 giorni ex art. 36, comma 3
(TAR Basilicata, sentenza 21.06.2013 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: La sagoma, cioè il perimetro verticale ed orizzontale e/o il contorno che viene ad assumere l’edificio, è una cosa diversa dai prospetti, che consistono nelle aperture sulla sagoma del fabbricato, cioè sulle pareti esterne, senza superfici sporgenti.
Comunque, va rilevato che la domanda di SCIA in sanatoria, presentata il 10.08.2012, può essere qualificata come un’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001, per cui possono essere sanate sia la modifica dei prospetti (precisamente chiusura delle aperture esistenti e realizzazione di finestre a nastro, ricavate tra le capriate, e di un ampio portone di accesso), sia la sopra descritta sostituzione del solaio di copertura.
Al riguardo, va rilevato che per le ristrutturazioni edilizie modificative dei prospetti (nella specie: chiusura delle preesistenti finestre e loro apertura in altre parti, nonché allargamento del portone di ingresso), l’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 prescrive il permesso di costruire.
Inoltre, l’art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380/2001 statuisce che gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche se consistenti nella demolizione e ricostruzione di un intero immobile, devono essere realizzati “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.
Ma la sagoma, cioè il perimetro verticale ed orizzontale e/o il contorno che viene ad assumere l’edificio, è una cosa diversa dai prospetti, che consistono nelle aperture sulla sagoma del fabbricato, cioè sulle pareti esterne, senza superfici sporgenti (cfr. TAR Bari Sez. III Sent. n. 54 del 14.01.2013; TAR Bologna Sez. I Sent. n. 787 del 28.12.2012; TAR Milano Sez. II Sent. n. 2232 del 05.09.2012; TAR Lecce Sez. I Sent. n. 232 del 21.01.2003; TAR Basilicata Sent. n. 628 del 17.10.2002; Cass. Pen. Sez. III Sent. n. 8303 del 09.02.2006; CONTRA TAR Napoli Sez. IV Sent. n. 9951 del 21.08.2008; TAR Bari Sez. III Sent. n. 3210 del 22.07.2004, secondo cui le superfici aggettanti, come per es. i balconi, non possono essere configurate come modifiche della sagoma)
(TAR Basilicata, sentenza 21.06.2013 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATALe opere di cui si tratta (tre piste di lavaggio per auto, una pista di lavaggio per autocarri, due piste di lavaggio per moto, sette postazioni con colonnine di aspirazione per la pulizia degli interni, tunnel di lavaggio costituiti da struttura metallica ancorata al suolo e sovrastata da pannelli antispruzzo) ricadono palesemente nella declaratoria degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, primo comma lett. e.5), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che ricomprende anche strutture di impatto decisamente inferiore a quelle di cui ora si discute (roulettes, campers, case mobili, imbarcazioni utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee); lo stesso comma, alla lettera e.7), dichiara intervento di nuova costruzione anche “la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”.
Non vi ha dubbio, quindi, sul fatto che le opere di cui si discute possono essere realizzate solo previo rilascio del permesso di costruire; è vero che la loro costruzione non richiede la realizzazione di fondamenta, ma sono comunque stabilmente infisse, e sono destinate alla soddisfazione di un interesse niente affatto precario.
Le opere in questione non possono, poi, essere considerate mera trasformazione dell’esistente.
Nell’area di cui si tratta si trova infatti quanto residua di una vecchia stazione di rifornimento; le opere da installare sono del tutto nuove e differenti rispetto a quelle preesistenti, per cui l’unico elemento di similitudine è dato dall’essere entrambe preordinate a servizi per l’autotrazione, oltre tutto di contenuto diverso.
Giustamente, quindi, il Comune appellante ha considerato l’opera in questione intervento di nuova costruzione, assoggettandola, di conseguenza, al regime di cui all’art. 10 delle norme di attuazione del piano regolatore comunale.

1. La controversia riguarda il diniego del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesistica per la realizzazione di un impianto di autolavaggio, opposto dal Comune appellante all’appellato.
I primi giudici hanno accolto l’impugnazione proposta dall’odierno appellato, avendo condiviso sette mezzi di gravame ed assorbito l’ottavo; l’appello proposto dal Comune deve essere accolto, nei termini che seguono.
2. La sentenza di primo grado non può essere condivisa nella parte in cui sostiene che l’intervento in questione non costituisce opera nuova non comportando nuova edificazione o trasformazioni dell’esistente in quanto i tunnel di lavaggio sono essenzialmente strutture mobili.
Osserva la Sezione che i primi giudici descrivono la struttura in questione in termini tali da far ritenere inutile la stessa acquisizione del permesso di costruire, argomentazione nemmeno proposta dall’appellato.
In realtà, le opere di cui si tratta (tre piste di lavaggio per auto, una pista di lavaggio per autocarri, due piste di lavaggio per moto, sette postazioni con colonnine di aspirazione per la pulizia degli interni, tunnel di lavaggio costituiti da struttura metallica ancorata al suolo e sovrastata da pannelli antispruzzo) ricadono palesemente nella declaratoria degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, primo comma lett. e.5), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che ricomprende anche strutture di impatto decisamente inferiore a quelle di cui ora si discute (roulettes, campers, case mobili, imbarcazioni utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee); lo stesso comma, alla lettera e.7), dichiara intervento di nuova costruzione anche “la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”.
Non vi ha dubbio, quindi, sul fatto che le opere di cui si discute possono essere realizzate solo previo rilascio del permesso di costruire; è vero che la loro costruzione non richiede la realizzazione di fondamenta, ma sono comunque stabilmente infisse, e sono destinate alla soddisfazione di un interesse niente affatto precario.
Le opere in questione non possono, poi, essere considerate mera trasformazione dell’esistente.
Nell’area di cui si tratta si trova infatti quanto residua di una vecchia stazione di rifornimento; le opere da installare sono del tutto nuove e differenti rispetto a quelle preesistenti, per cui l’unico elemento di similitudine è dato dall’essere entrambe preordinate a servizi per l’autotrazione, oltre tutto di contenuto diverso.
Giustamente, quindi, il Comune appellante ha considerato l’opera in questione intervento di nuova costruzione, assoggettandola, di conseguenza, al regime di cui all’art. 10 delle norme di attuazione del piano regolatore comunale.
3. La sentenza appellata non può essere condivisa nemmeno nella parte in cui afferma che l’opera da realizzare non ha alcun impatto sul paesaggio in quanto l’area di cui si tratta è utilizzata come stazione di servizio da tempo precedente l’approvazione del piano paesistico vigente ed il progetto prevede l’eliminazione di alcuni dei manufatti preesistenti e la realizzazione di opere precarie.
Al punto 2 che precede sono state esposte le ragioni per le quali il collegio ritiene che l’intervento debba essere qualificato come nuova edificazione.
Costituendo nuova edificazione, oltre tutto di impatto rilevante (si veda l’elenco dei manufatti da porre in opera, esposto al punto 2) l’illogicità del diniego opposto dal Comune doveva essere adeguatamente dimostrata.
Il Tribunale afferma che l’area in questione è priva di interesse paesistico, trattandosi di un vasto spiazzo collocato ai margini di una nota strada statale con notevole flusso autoveicolare, circondato da edifici, adibito da circa quarant’anni a stazione di servizio; rileva inoltre, per i primi giudici, la presenza del prospiciente doppio tracciato ferroviario Genova–La Spezia, presenza che interrompe la visuale dal mare nei confronti dell’entroterra.
Le considerazioni appena riassunte non appaiono decisive.
E’ pacifico in causa che l’area in questione è assoggettata a vincolo nell’ambito di una più vasta area.
Il suo utilizzo rileva quindi non solo in relazione al suo stretto ambito, ma anche per il suo impatto su tutta la zona vincolata.
Il giudizio sulla compatibilità del progetto di utilizzo deve, quindi, essere impostato su queste basi.
Il provvedimento impugnato giudica negativamente il progetto sotto l’aspetto appena elencato, dichiarando “immediatamente percepibile” l’opera, così collocata; valuta, inoltre, inaccettabile l’impatto sia delle strutture sia delle condizioni operative e di esercizio dal punto di vista della percezione per l’ambito oggetto di tutela paesistica.
La sentenza di primo grado giudica tali considerazioni irrilevanti sulla base del fatto che l’area è inserita in zona edificata, ma tale affermazione non può essere condivisa in quanto è ben diverso l’impatto sul paesaggio di edifici di civile abitazione e di un impianto semi industriale, oltre tutto collettore di ulteriore traffico automobilistico.
L’illogicità del provvedimento impugnato, sotto il profilo in discussione, non è stata quindi dimostrata.
4. L’infondatezza del ricorso di primo grado, sotto i due profili sopra esaminati, comporta il suo rigetto, in quanto i medesimi sono sufficienti a sorreggere la determinazione di rigetto dell’istanza dell’odierno appellato.
Non occorre, quindi, procedere all’esame degli ulteriori mezzi.
Per lo stesso motivo, non occorre procedere all’esame del mezzo assorbito in primo grado e riproposto dall’appellato, atteso che la sua eventuale fondatezza non consentirebbe di accogliere il ricorso.
L’appello principale deve, in conclusione, essere accolto e, in riforma della sentenza gravata, respinto il ricorso di primo grado.
La domanda risarcitoria, proposta con l’appellante incidentale, deve essere respinta non essendo stata dimostrata l’illegittimità del provvedimento che avrebbe provocato il danno lamentato.
In considerazione della diversità di giudicati le spese possono essere integralmente compensate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.10.2008 n. 5191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAParte ricorrente ha richiamato precedenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato con i quali è stato affermato quanto segue:
● “La destinazione ad area agricola del terreno interessato non è sufficiente a giustificare il diniego di autorizzazione all'esercizio di una discarica per rifiuti solidi urbani, giacché la classificazione di aree come agricole non impone un obbligo di utilizzazione effettiva in tal senso e consente, di regola, interventi edilizi di vario genere, sicché, nell'ambito e nei limiti delle prescrizioni di zona, e salve diverse previsioni normative, può risultare non incompatibile la realizzazione di un impianto di discarica che, per ovvie ragioni, non può che essere ubicato in aperta campagna e quindi in zona agricola, se il piano regolatore generale non preveda apposite localizzazioni”.
● “La destinazione a zona agricola di un'area ove non insistano vincoli ambientali o paesistici non impone, in positivo, un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, bensì, in negativo, ha solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali, per cui detta destinazione non costituisce ostacolo alla realizzazione di una discarica, al pari di tutte le opere che non riguardano l'edilizia residenziale e che si rivelino anzi necessariamente da realizzare in aperta campagna, senza che per ciò occorra una previa variante di destinazione urbanistica”.
● “La zona destinata a verde agricolo è suscettibile di usi anche diversi dalla coltivazione dei fondi e tale destinazione non è di ostacolo alla realizzazione di opere che non implichino l'ampliamento degli insediamenti abitativi. Tuttavia tali vocazioni differenziate e complementari devono trovare la loro legittima causa in un atto pianificatorio approvato ed efficace”.
● “L’esercizio dell'attività di discarica di rifiuti e gli interventi costruttivi intesi all'ampliamento di quest'ultimo non sono di per sé incompatibili con la destinazione agricola impressa dallo strumento urbanistico alla zona in cui essa è ubicata -e, pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia statuito con riferimento a tale destinazione-, perché la classificazione agricola dell'area in questione non ne impone un obbligo di utilizzazione in tal senso, consentendo piuttosto interventi edilizi di vario genere, qual è, appunto, l'insediamento di una discarica che, per sua natura, non può essere ubicato che in aperta campagna, laddove il piano regolatore non ne preveda altra localizzazione”.
La sezione deve evidenziare che in nessuna delle pronunce sopra riportate si afferma che nelle zone in esame erano consentite esclusivamente attività edilizie connesse all’esercizio dell’agricoltura.
La sezione ritiene che l’orientamento giurisprudenziale or ora richiamato possa trovare applicazione solo quando la disciplina urbanistica classifichi come agricola una determinata zona, senza null’altro aggiungere.
Ma quando, come nel caso, di specie, la disciplina dispone in positivo che è consentita l’edificazione al solo servizio delle attività agricole, resta preclusa qualsiasi altra attività.
Tale previsione può ritenersi astrattamente illegittima, ma (se tale) va impugnata indicando (ciò che non è stato fatto) le norme o i principi che inibiscono all’amministrazione di imprimere una determinata conformazione al territorio escludendo qualsiasi attività costruttiva diversa da quelle al solo servizio delle attività agricole.

... PER L’ANNULLAMENTO della nota del 09/05/2003, n. 11086 con cui il responsabile UTC del Comune di S. Antimo (Napoli) ha respinto l’istanza per il rilascio di concessione edilizia presentata dal ricorrente per la realizzazione di un autolavaggio.
...
Il ricorrente, in data 03.10.2002, presentava istanza per ottenere una con-cessione edilizia per la realizzazione di un autolavaggio.
Nella relazione tecnica allegata, a firma del progettista geometra Antonio Allocca) si affermava che: “Tale stazione di autolavaggio nascerà in con-formità al DLGS dell’11/02/1998, n. 32 come deliberato nella dicitura stazione di servizio, che la stessa può essere edificata anche nella fascia di rispetto stradale ed in terreni agricoli, a condizione che venga demolita una volta smantellato l’impianto di che trattasi (vedi Bollettino Ufficiale della Regione Campania 07.02.2000, n. 7: deliberazione di Giunta Regionale 30.12.1999, n. 8835)”.
La deliberazione regionale, or ora richiamata, disciplina i “Criteri, requisiti e caratteristiche delle aree sulle quali possono essere installati gli impianti di distribuzione di carburanti (a. 2, c. 1, del DLGS 11.02.1998, n. 32, modificato ed integrato dal DLGS 08.09.1999, n. 346 e dal D.L. 29.10.1999, n. 383). Intervento sostitutivo regionale”.
Il provvedimento impugnato motiva ampiamente il diniego assumendo che l’intervento da realizzare potesse essere equiparato ad una stazione di servizio e ciò perché, al fine di ottenere il rilascio della concessione, il ricorrente aveva esplicitamente invocato la disciplina contenuta nella deliberazione della Regione Campania. La sezione ritiene che tale parte del provvedimento debba ritenersi superflua perché la richiesta avanzata dal ricorrente riguardava un autolavaggio e non una stazione di servizio.
Resta quindi da esaminare l’ulteriore parte della motivazione con la quale si afferma che “le opere di cui al progetto allegato all’istanza del ricorrente devono considerarsi a tutti gli effetti attività produttive e come tali non compatibili con la destinazione agricola prevista dal vigente P.R.G. approvato con D.P.G.R. 4586/1977, né con la destinazione E1 (agricola ordinaria) prevista nel P.R.G. adottato con deliberazione del Commissario Straordinario del 07.04.2003, n. 82”.
Dalla documentazione acquisita agli atti del giudizio risulta che nella zona E è consentita l’edificazione al solo servizio delle attività agricole.
La sezione deve subito evidenziare che le argomentazioni svolte nella memoria depositata dall’amministrazione in data 12.11.2004 (in ordine all’insalubrità dell’intervento ai sensi dell’articolo 60 delle NTA) non possono essere esaminate in quanto costituiscono un’inammissibile integrazione della motivazione del provvedimento impugnato che potrà essere riadottato dal Comune di S. Antimo anche al fine di consentire un’appropriata tutela giurisdizionale dell’interessato.
Con memoria depositata in data 12.11.2004 parte ricorrente ha richiamato precedenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato con i quali è stato affermato quanto segue:
La destinazione ad area agricola del terreno interessato non è sufficiente a giustificare il diniego di autorizzazione all'esercizio di una discarica per rifiuti solidi urbani, giacché la classificazione di aree come agricole non impone un obbligo di utilizzazione effettiva in tal senso e consente, di regola, interventi edilizi di vario genere, sicché, nell'ambito e nei limiti delle prescrizioni di zona, e salve diverse previsioni normative, può risultare non incompatibile la realizzazione di un impianto di discarica che, per ovvie ragioni, non può che essere ubicato in aperta campagna e quindi in zona agricola, se il piano regolatore generale non preveda apposite localizzazioni” (Consiglio Stato, V, 18.03.2002, n. 1557).
La destinazione a zona agricola di un'area ove non insistano vincoli ambientali o paesistici non impone, in positivo, un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, bensì, in negativo, ha solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali, per cui detta destinazione non costituisce ostacolo alla realizzazione di una discarica, al pari di tutte le opere che non riguardano l'edilizia residenziale e che si rivelino anzi necessariamente da realizzare in aperta campagna, senza che per ciò occorra una previa variante di destinazione urbanistica” (C.S., V, 15.06.2001, n. 3178).
La zona destinata a verde agricolo è suscettibile di usi anche diversi dalla coltivazione dei fondi e tale destinazione non è di ostacolo alla realizzazione di opere che non implichino l'ampliamento degli insediamenti abitativi. Tuttavia tali vocazioni differenziate e complementari devono trovare la loro legittima causa in un atto pianificatorio approvato ed efficace” (C.S., IV, 10.02.2000, n. 721).
L’esercizio dell'attività di discarica di rifiuti e gli interventi costruttivi intesi all'ampliamento di quest'ultimo non sono di per sé incompatibili con la destinazione agricola impressa dallo strumento urbanistico alla zona in cui essa è ubicata -e, pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia statuito con riferimento a tale destinazione-, perché la classificazione agricola dell'area in questione non ne impone un obbligo di utilizzazione in tal senso, consentendo piuttosto interventi edilizi di vario genere, qual è, appunto, l'insediamento di una discarica che, per sua natura, non può essere ubicato che in aperta campagna, laddove il piano regolatore non ne preveda altra localizzazione” (C.S., V, 26.01.1996, n. 85).
La sezione deve evidenziare che in nessuna delle pronunce sopra riportate si afferma che nelle zone in esame erano consentite esclusivamente attività edilizie connesse all’esercizio dell’agricoltura.
La sezione ritiene che l’orientamento giurisprudenziale or ora richiamato possa trovare applicazione solo quando la disciplina urbanistica classifichi come agricola una determinata zona, senza null’altro aggiungere.
Ma quando, come nel caso, di specie, la disciplina dispone in positivo che è consentita l’edificazione al solo servizio delle attività agricole, resta preclusa qualsiasi altra attività.
Tale previsione può ritenersi astrattamente illegittima, ma (se tale) va impugnata indicando (ciò che non è stato fatto) le norme o i principi che inibiscono all’amministrazione di imprimere una determinata conformazione al territorio escludendo qualsiasi attività costruttiva diversa da quelle al solo servizio delle attività agricole.
Il ricorso va pertanto respinto con compensazione delle spese, delle competenze e degli onorari di giudizio per giusti motivi (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.03.2005 n. 1527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINei procedimenti di aggiudicazione di gare pubbliche, la fase di verifica della documentazione amministrativa e quella di apertura delle offerte economiche debbano avvenire in seduta pubblica, potendo l'Amministrazione procedere in forma riservata solo laddove debba compiere operazioni di valutazione di carattere tecnico-discrezionale in ordine alle offerte presentate.
Le ragioni dell'affermazione di tale principio generale risiedono nell'esigenza di assicurare la trasparenza delle operazioni della Commissione ed una sorta di tutela "anticipata" della par condicio tra i concorrenti (sotto forma di controllo esercitabile da parte delle singole imprese), come corollario dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 della Costituzione.
Il principio in questione assume, inoltre, portata generale, atteso che le precitate esigenze si pongono per tutti i tipi di gara pubblica, mentre una possibile deroga trova giustificazione, come visto, solo per quelle fasi di valutazione dell'offerta che, implicando un giudizio di carattere tecnico, non necessitano di una garanzia di pubblicità delle operazioni della Commissione.
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In primo luogo, va ribadito come quello di pubblicità costituisca un principio generale volto alla tutela di esigenze di trasparenza e par condicio che sono comuni a tutte quelle fasi dei procedimenti per l'aggiudicazione di appalti pubblici in cui si deve procedere all'espletamento di attività implicanti la garanzia di un controllo, come quelle di verifica della documentazione amministrativa e di apertura delle offerte economiche.
In secondo luogo, le richiamate esigenze di trasparenza e par condicio ricorrono tutte le volte in cui la scelta del contraente avvenga mediante l'espletamento di uno specifico procedimento di gara in cui le regole siano state in precedenza formalizzate dall'Amministrazione.
Si manifesta, pertanto, irrilevante l'argomentazione per cui, trattandosi di una trattativa privata, non era assolutamente necessario che le operazioni di apertura delle offerte si svolgessero in seduta pubblica; infatti, ci si trova pur sempre nell'ambito di un procedimento di evidenza pubblica di scelta del contraente rispetto al quale non possono ritenersi estranee le già richiamate esigenze di trasparenza e par condicio.
Inoltre, il principio di pubblicità delle sedute trova immediata applicazione indipendentemente da una sua espressa previsione nell'ambito della lex specialis di gara, atteso che costituisce una regola generale riconducibile direttamente ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost., trovando di conseguenza immediata e piena cittadinanza in quella azione amministrativa specificamente volta alla scelta del miglior contraente.
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Non sussistendo una specifica normativa di dettaglio in merito alla composizione della Commissione nei casi della specie, valgono i generali principi desumibili dall’art. 97 Cost. e dal capo I della legge n. 241/1990 nel senso che la composizione delle Commissioni giudicatrici deve sempre assicurare un adeguato livello di professionalità dei suoi componenti. Tuttavia, la scelta discrezionale della stazione appaltante circa l’effettiva composizione della Commissione di gara deve essere valutata secondo criteri di logicità e proporzionalità.
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Deve escludersi la sussistenza di un particolare onere di motivazione della stazione appaltante sulla scelta dei componenti della predetta Commissione, dall’altro non può a priori escludersi l’idoneità rispetto a tale ufficio di soggetti che svolgono l’attività di Comandanti della Polizia locale avendo l’appalto ad oggetto il sistema di videosorveglianza territoriale di vari Comuni della zona.

Passando al merito della vicenda, la ricorrente, con il primo motivo, censura il fatto che l’apertura dei plichi contenenti le offerte, sebbene si tratti di trattativa privata preceduta da gara informale, non sia stata effettuata in seduta pubblica.
La doglianza è fondata confermandosi quanto già espresso in sede di cognizione sommaria.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa (per tutte, TAR Piemonte, II sez., 19.12.2002, n. 2089) ha affermato che, nei procedimenti di aggiudicazione di gare pubbliche, la fase di verifica della documentazione amministrativa e quella di apertura delle offerte economiche debbano avvenire in seduta pubblica, potendo l'Amministrazione procedere in forma riservata solo laddove debba compiere operazioni di valutazione di carattere tecnico-discrezionale in ordine alle offerte presentate.
Le ragioni dell'affermazione di tale principio generale risiedono nell'esigenza di assicurare la trasparenza delle operazioni della Commissione ed una sorta di tutela "anticipata" della par condicio tra i concorrenti (sotto forma di controllo esercitabile da parte delle singole imprese), come corollario dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 della Costituzione (Consiglio di Stato, V Sez., 19.03.2002, n. 5421; Consiglio di Stato, IV Sez., 27.03.2002, n. 1726; Consiglio di Stato, V Sez., 30.05.1997, n. 576; Consiglio di Stato, VI Sez., 14.02.2002, n. 846; Consiglio di Stato, V Sez., 14.04.2000, n. 2235).
Il principio in questione assume, inoltre, portata generale, atteso che le precitate esigenze si pongono per tutti i tipi di gara pubblica, mentre una possibile deroga trova giustificazione, come visto, solo per quelle fasi di valutazione dell'offerta che, implicando un giudizio di carattere tecnico, non necessitano di una garanzia di pubblicità delle operazioni della Commissione.
La difesa resistente ha sostenuto l'inapplicabilità del principio di pubblicità in quanto, trattandosi di una procedura indetta con il sistema della trattativa privata, sarebbe rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione l'individuazione delle regole di svolgimento della gara e, pertanto, soltanto un'espressa previsione di celebrazione delle sedute della Commissione in forma pubblica avrebbe potuto costituire un vincolo la cui violazione avrebbe potuto integrare un vizio di legittimità del procedimento.
Ancora, ha osservato la difesa dell'Amministrazione come non vi erano stati artifizi o comportamenti tali da danneggiare concretamente la società ricorrente, di talché alcuna incidenza negativa sostanziale avrebbe potuto assumere la circostanza per cui le operazioni di gara si erano svolte in seduta non pubblica.
Tali osservazioni non sono condivisibili.
In primo luogo, va ribadito come quello di pubblicità costituisca un principio generale volto alla tutela di esigenze di trasparenza e par condicio che sono comuni a tutte quelle fasi dei procedimenti per l'aggiudicazione di appalti pubblici in cui si deve procedere all'espletamento di attività implicanti la garanzia di un controllo, come quelle di verifica della documentazione amministrativa e di apertura delle offerte economiche.
In secondo luogo, le richiamate esigenze di trasparenza e par condicio ricorrono tutte le volte in cui la scelta del contraente avvenga mediante l'espletamento di uno specifico procedimento di gara in cui le regole siano state in precedenza formalizzate dall'Amministrazione.
Si manifesta, pertanto, irrilevante l'argomentazione per cui, trattandosi di una trattativa privata, non era assolutamente necessario che le operazioni di apertura delle offerte si svolgessero in seduta pubblica; infatti, ci si trova pur sempre nell'ambito di un procedimento di evidenza pubblica di scelta del contraente rispetto al quale non possono ritenersi estranee le già richiamate esigenze di trasparenza e par condicio.
Inoltre, il principio di pubblicità delle sedute trova immediata applicazione indipendentemente da una sua espressa previsione nell'ambito della lex specialis di gara, atteso che costituisce una regola generale riconducibile direttamente ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost., trovando di conseguenza immediata e piena cittadinanza in quella azione amministrativa specificamente volta alla scelta del miglior contraente.
Deve invece essere disattesa, per genericità, l’ulteriore profilo di doglianza contenuto nel primo motivo di ricorso e concernente l’asserita mancanza di professionalità in capo ai componenti della Commissione giudicatrice.
Al riguardo, va evidenziato che, non sussistendo una specifica normativa di dettaglio in merito alla composizione della Commissione nei casi della specie, valgono i generali principi desumibili dall’art. 97 Cost. e dal capo I della legge n. 241/1990 nel senso che la composizione delle Commissioni giudicatrici deve sempre assicurare un adeguato livello di professionalità dei suoi componenti (cfr. Consiglio di Stato, V sez., 07.09.2001 n. 4673). Tuttavia, la scelta discrezionale della stazione appaltante circa l’effettiva composizione della Commissione di gara deve essere valutata secondo criteri di logicità e proporzionalità.
Nel caso di specie, non emergono elementi di convincimento idonei a fondare la censura di parte ricorrente.
Le doglianze si palesano, come detto, piuttosto generiche poiché, da un lato, deve escludersi la sussistenza di un particolare onere di motivazione della stazione appaltante sulla scelta dei componenti della predetta Commissione, dall’altro non può a priori escludersi l’idoneità rispetto a tale ufficio di soggetti che svolgono l’attività di Comandanti della Polizia locale avendo l’appalto ad oggetto il sistema di videosorveglianza territoriale di vari Comuni della zona (TAR Lombardia, Sez. III, sentenza 26.07.2004 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di annullamento d'ufficio del provvedimento, non occorre una specifica motivazione in ordine al c.d. interesse pubblico attuale quando il provvedimento, oltre ad attuare il ripristino della legalità violata, comporta in re ipsa la soddisfazione di un interesse pubblico di natura indisponibile. L'atto di annullamento d'ufficio di una concessione edilizia illegittima, che abbia consentito la realizzazione di un edificio in contrasto con lo strumento urbanistico generale, non necessita di altra motivazione che il riferimento al vizio di cui è affetta la concessione.
Nel caso di annullamento d'ufficio di una concessione che ha consentito la realizzazione di un edificio non prevista dal piano regolatore, l'Autorità mira a superare una situazione permanentemente antigiuridica, e cioè l'attuale contrasto tra le previsioni urbanistiche e la materiale sussistenza dell'edificio realizzato malgrado l'inedificabilità dell'area; pertanto, il relativo provvedimento non deve motivare in ordine alle ragioni che abbiano indotta l'Amministrazione a ritenere prevalenti gli interessi pubblici di cui costituisce espressione lo strumento urbanistico.

D’altra parte, come si evince dall’orientamento della costante giurisprudenza, "In caso di annullamento d'ufficio del provvedimento, non occorre una specifica motivazione in ordine al c.d. interesse pubblico attuale quando il provvedimento, oltre ad attuare il ripristino della legalità violata, comporta in re ipsa la soddisfazione di un interesse pubblico di natura indisponibile. L'atto di annullamento d'ufficio di una concessione edilizia illegittima, che abbia consentito la realizzazione di un edificio in contrasto con lo strumento urbanistico generale, non necessita di altra motivazione che il riferimento al vizio di cui è affetta la concessione.
Nel caso di annullamento d'ufficio di una concessione che ha consentito la realizzazione di un edificio non prevista dal piano regolatore, l'Autorità mira a superare una situazione permanentemente antigiuridica, e cioè l'attuale contrasto tra le previsioni urbanistiche e la materiale sussistenza dell'edificio realizzato malgrado l'inedificabilità dell'area; pertanto, il relativo provvedimento non deve motivare in ordine alle ragioni che abbiano indotta l'Amministrazione a ritenere prevalenti gli interessi pubblici di cui costituisce espressione lo strumento urbanistico
" (Cons. di Stato, sez. V, 26.11.1994, n. 1382) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 30.10.2002 n. 1696 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIl restauro e il risanamento conservativo si differenziano tipologicamente da quelli di ristrutturazione poiché essi non comportano l’alterazione della struttura anche interna.
Anche una modifica parziale dell’immobile oggetto di tutela, in quanto ricompreso nel centro storico, integra gli estremi della ristrutturazione edilizia.
Anche interventi limitati, circoscritti alla distribuzione interna dei volumi che mutino l’originaria consistenza fisica e strutturale di un immobile, sebbene strumentali all’inserimento di impianti tecnici sono ricondicibili al genus della ristrutturazione.

Si è infatti chiarito che il restauro e il risanamento conservativo si differenziano tipologicamente da quelli di ristrutturazione poiché essi non comportano l’alterazione della struttura anche interna (Cons. St., sez. V, 27.08.1999 n. 999).
Anche una modifica parziale dell’immobile oggetto di tutela, in quanto ricompreso nel centro storico, integra gli estremi della ristrutturazione edilizia (Cons. St., sez. V, 17.12.1996 n. 1551).
Trova pertanto piena applicazione l’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G. che, per gli edifici localizzati nel centro storico, consente i soli interventi edilizi di restauro e risanamento conservativo assentibili sulla base di autorizzazione gratuita, imponendo per quelli di ristrutturazione la concessione edilizia onerosa.
Del resto la più recente giurisprudenza ha affermato che anche interventi limitati, circoscritti alla distribuzione interna dei volumi che mutino l’originaria consistenza fisica e strutturale di un immobile, sebbene strumentali all’inserimento di impianti tecnici sono riconducibili al genus della ristrutturazione (Cons. St., sez. V, 23.05.2000 n. 2988).
Inoltre non v’è nessun contrasto fra l’art. 31 della L.n. 457 del 1978 e l’art. 16 delle N.T.A del P.R.G. del Comune di Brescia: entrambi rispondono alla medesima ratio a mente della quale solo gli interventi che non comportino alcun incremento di superficie o volumetrico e che non alterino l’originaria consistenza degli edifici possono qualificarsi di restauro e risanamento conservativo, suscettibili di autorizzazione gratuita (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 02.10.2002 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAPremesso il diritto del proprietario di un’area di recintare la stessa allo scopo di delimitarne i confini, essendo tale attività espressione dell’esercizio del diritto di proprietà implicante lo ius excludendi alios, detto comportamento non può ritenersi in contrasto con le previsioni di utilizzo pubblico dell’area, ogni qual volta detta recinzione non costituisca ostacolo alla destinazione alla stessa impressa.
Ne consegue che, premesso il diritto del proprietario di un’area di recintare la stessa allo scopo di delimitarne i confini, essendo tale attività espressione dell’esercizio del diritto di proprietà implicante lo ius excludendi alios, detto comportamento non può ritenersi in contrasto con le previsioni di utilizzo pubblico dell’area, ogni qual volta detta recinzione non costituisca ostacolo alla destinazione alla stessa impressa (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 14.06.2002 n. 968 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi su immobili vincolati che presentano interesse storico artistico sono assoggettati, non solo alla concessione o all’autorizzazione edilizia, ma anche all'autorizzazione rilasciata dalla competente Soprintendenza ai sensi dell'art. 18 l. 01.06.1939 n. 1089.
In caso di abusiva esecuzione degli anzidetti interventi, restano distinti il potere sanzionatorio esercitato dall’autorità comunale e quello esercitato dal Soprintendente. Quest’ultimo può imporre la riduzione in pristino ex art. 59 della citata l. 1089/1939.
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Le misure ripristinatorie ex art. 59 l. 1089/1939 risultano legittimamente emanate nei confronti del proprietario dell'immobile anche se non è l'autore dell'abuso.
In tale materia, infatti, il proprietario, ancorché estraneo all'illecito, deve essere ritenuto responsabile posto che il provvedimento mira, non ad irrogare una sanzione afflittiva, ma ad eliminare una situazione pregiudizievole per l’integrità del patrimonio storico artistico, talché sussiste una solidarietà passiva nell’obbligo di rimessione in pristino tra l'autore dell'abuso ed il proprietario, il quale può agire nei confronti dell’autore sulla base dei rapporti privatistici intercorrenti.

Invero, gli interventi su immobili vincolati che presentano interesse storico artistico sono assoggettati, non solo alla concessione o all’autorizzazione edilizia, ma anche all'autorizzazione rilasciata dalla competente Soprintendenza ai sensi dell'art. 18 l. 01.06.1939 n. 1089.
In caso di abusiva esecuzione degli anzidetti interventi, restano distinti il potere sanzionatorio esercitato dall’autorità comunale e quello esercitato dal Soprintendente. Quest’ultimo può imporre la riduzione in pristino ex art. 59 della citata l. 1089/1939, come nella fattispecie in esame.
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Invero, le misure ripristinatorie ex art. 59 l. 1089/1939 risultano legittimamente emanate nei confronti del proprietario dell'immobile anche se non è l'autore dell'abuso. In tale materia, infatti, il proprietario, ancorché estraneo all'illecito, deve essere ritenuto responsabile posto che il provvedimento mira, non ad irrogare una sanzione afflittiva, ma ad eliminare una situazione pregiudizievole per l’integrità del patrimonio storico artistico, talché sussiste una solidarietà passiva nell’obbligo di rimessione in pristino tra l'autore dell'abuso ed il proprietario, il quale può agire nei confronti dell’autore sulla base dei rapporti privatistici intercorrenti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.05.2002 n. 1762 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di un nuovo impianto di distribuzione carburanti ad uso privato, in sostituzione del precedente divenuto pericoloso, non può affatto essere considerato come un intervento di ordinaria manutenzione, in quanto si tratta non di mantenere un impianto esistente, ma di sostituirlo con uno completamente nuovo come ubicazione, concezione e struttura.
Orbene, ad avviso di questo Collegio, l’installazione di un nuovo impianto di distribuzione carburanti ad uso privato, in sostituzione del precedente divenuto pericoloso, non può affatto essere considerato come un intervento di ordinaria manutenzione, in quanto si tratta non di mantenere un impianto esistente, ma di sostituirlo con uno completamente nuovo come ubicazione, concezione e struttura.
Che si tratti di un impianto del tutto nuovo viene dimostrato non solo dal fatto che la ditta ha chiesto una nuova autorizzazione, ma anche dalla presentazione del relativo progetto
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 03.05.2002 n. 1658 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Nel concetto tecnico-giuridico di costruzione è compresa qualsiasi opera diretta a trasformare in modo durevole l'area scoperta preesistente senza alcun riguardo al tipo, alla grandezza e all'ubicazione (suolo o sottosuolo) dei manufatti realizzati.
Ne deriva che la costruzione sotto il livello del suolo non si sottrae al regime concessorio per la sua idoneità a ledere il bene tutelato dalla legislazione urbanistica.

In linea generale va innanzi tutto osservato che nel concetto tecnico-giuridico di costruzione è compresa qualsiasi opera diretta a trasformare in modo durevole l'area scoperta preesistente senza alcun riguardo al tipo, alla grandezza e all'ubicazione (suolo o sottosuolo) dei manufatti realizzati.
Ne deriva che la costruzione sotto il livello del suolo non si sottrae al regime concessorio per la sua idoneità a ledere il bene tutelato dalla legislazione urbanistica (Cassazione penale, sez. III, 16.03.1988)
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 03.05.2002 n. 1658 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'individuazione giuridica del rapporto tra urbanistica e tutela del paesaggio (o dell’ambiente).
Preliminare all’esame della questione risulta necessariamente individuare giuridicamente il rapporto tra urbanistica e tutela del paesaggio (o dell’ambiente), oltre che con gli altri interessi esistenti sul territorio, ivi compreso quello privato ad esercitare l’attività economica della pubblicità.
Si è fatto cenno alla nozione di ambiente, per cui a questo punto risulta necessaria una breve digressione sui complessi rapporti tra la nozione appunto di ambiente e quella di urbanistica.
Sulla base di una più che decennale giurisprudenza, si può senz'altro affermare che tutela paesistica e disciplina urbanistica appaiono governati nel nostro ordinamento da una reciproca autonomia.
Già la Corte costituzionale, con numerose pronunce (tra cui ricordiamo la n. 359 del 21.12.1985) afferma che la nozione del paesaggio, così come delineata dall'articolo 9 della Costituzione, non appare riconducibile a quella di urbanistica la quale, pur nella lata accezione di cui all'articolo 80 del dPR 616 del 1977, non esclude la configurabilità in ordine allo stesso territorio di altre valutazioni e discipline.
Innanzi tutto, per ragioni logiche, va chiarito un punto decisivo.
La materia urbanistica non può, per sua stessa natura, essere assimilata ad una delle tante materie oggetto dell'usuale riparto di competenze tra Stato, Regioni, Comuni e così via.
Ad avviso di questo Tribunale, con riferimento alla materia urbanistica, non possono valere quindi gli usuali canoni di definizione delle materie, sulla base dei dati normativi, e di conseguente attribuzione di ogni singolo oggetto ad una specifica materia, al fine di chiarire la spettanza del relativo potere.
L'equivoco, culturale ancor prima che giuridico, si è palesato in modo significativo in occasione dell'entrata in vigore del dPR 616 del 1977, che come noto tentò una definizione delle materie trasferite alle Regioni. In particolare, per quanto concerne l'urbanistica, all'articolo 80 si definisce la materia come la disciplina dell'uso del territorio comprensiva della protezione dell'ambiente.
Non si trattò, come venne talvolta equivocato, dell'inclusione della materia ambientale in quella urbanistica, ma dell'enunciazione, sia pure esemplificativa, di un dato indiscutibile, che sul territorio insistono più interessi, tra cui quello ambientale.
Ad avviso di questo Collegio, tentare di chiarire i riparti di competenze usando per l'urbanistica lo stesso metro adottato per le altre discipline o meglio materie, denota quindi un approccio che ne ignora le peculiarità, in primis quella di essere una specie di "contenitore" nel cui ambito è dato ritrovare i più vari beni tutelabili dall'ordinamento.
L'urbanistica infatti, intesa come assetto del territorio, risulta, nella sua stessa essenza, una disciplina che interferisce con tutti gli interessi particolari che sul territorio stesso necessariamente si localizzano, come quelli concernenti la difesa nazionale, quelli commerciali, industriali, via via fino ai vari interessi privati. Naturalmente tra questi interessi vi è anche la tutela dell'ambiente.
In altri termini, l'urbanistica va considerata non tanto di per sé, quanto come sistema di organizzazione dei vari valori od interessi presenti nel territorio. Essa va intesa come mezzo, come strumento di razionalizzazione ed organizzazione di altri beni.
Non ha quindi molto senso chiedersi se l'ambiente come materia sia stato incluso nell'urbanistica dalla normativa vigente; è evidente infatti che con lo strumento urbanistico si possa e debba tutelare anche il bene ambiente o paesaggio (i due termini ormai, dopo una decennale evoluzione normativa e giurisprudenziale, possono considerarsi pressoché equivalenti).
Questo Collegio non ignora certo, anche se non la condivide, una sporadica giurisprudenza che considera l'interesse ambientale come prevalente rispetto ad ogni altro interesse pubblico e privato (Consiglio di Stato, sezione VI, 27.10.1988 n. 1179 e anche sezione IV, 11.04.1991 n. 257).
L'ambiente deve essere considerato semplicemente come uno degli interessi riconosciuti dall'ordinamento e presenti nel territorio.
In altri termini, l'urbanistica per sua stessa natura è un settore che riguarda l'intero territorio, e quindi non può che influire sugli altri interessi che sullo stesso territorio hanno il loro centro di localizzazione, pubblici o privati che siano.
Certamente alcuni di questi interessi, tra cui l'ambiente, presentano un carattere di generalità e rilevanza più ampio di altri, come potrebbe essere il caso di un interesse privato relativo, ad esempio, ad un determinato stabilimento industriale, ma questo non autorizza certo a considerare il bene ambiente come quello di ultima istanza, quello cioè in grado di assumere il ruolo di momento unificante e finalizzante di tutti i beni che nell'ambiente si collocano.
L'unica disciplina unificante e onnicomprensiva non può quindi che risultare l'urbanistica, sia sulla base dei dati normativi, a partire dalla stessa legge urbanistica n. 1150 del 1942, sia alla luce della decennale evoluzione giurisprudenziale, sia soprattutto per ragioni logiche; altrimenti opinando infatti, non potendosi ammettere la convivenza di due discipline entrambe assorbenti tutte le altre, dovrebbe essere l'urbanistica a subordinarsi alla tutela ambientale, con evidenti discrasie e mancanza di certezza per il diritto.
Quanto alla prevalenza di un interesse sull'altro, tra tutti quelli incidenti sul territorio, la questione non può che essere risolta caso per caso, anche se alcune regole generali sono agevolmente individuabili, come la preminenza degli interessi pubblici su quelli privati (di cui bisogna peraltro tener conto), e, tra quelli pubblici, la posizione di particolare privilegio che assumono la difesa nazionale e la salute, secondo una gerarchia che trova nella stessa Costituzione repubblicana la sua prima fonte.
Ad avviso di questo Tribunale quindi, quando si parla di prevalenza dell'ambiente, si fa riferimento alla sua posizione di priorità rispetto ad alcuni altri beni, non già ad una sua valutazione come elemento unificante degli altri, caratteristica questa che spetta solo all'urbanistica.
Peraltro la prevalenza dell’interesse pubblico, che spetta al Comune tutelare, e in particolare l’interesse della tutela ambientale risulta a questo punto decisivo per risolvere la questione.
Alla luce dell’intera normativa sopra citata ritiene invero questo Collegio che rientri nelle potestà comunali l’individuare alcune zone come soggette a particolare interesse ambientale, da tutelare anche agevolando lo spostamento degli insediamenti ivi esistenti e consentendo quindi solo gli interventi di manutenzione ordinaria.
Tale disposizione può essere posta senz’altro con uno strumento urbanistico, attesa la valenza generale di composizione degli interessi pubblici e privati che tale strumento possiede per sua stessa natura.
Conclusivamente, il punto cardinale dell’intero ricorso e dei motivi aggiunti è la compatibilità urbanistica del nuovo impianto di distribuzione carburanti per il quale la ditta aveva chiesto l’autorizzazione. Essendo collocato in una zona i cui impianti sono considerati dal piano regolatore come soggetti a spostamento, sono consentite solo le opere di ordinaria manutenzione, e il nuovo impianto non può essere considerato tale
(TAR Veneto, Sez. III, sentenza 03.05.2002 n. 1658 - link a www.giustizia-amministrativa).

INCARICHI PROGETTUALI: Con riferimento al conferimento di incarichi di progettazione a professionisti esterni all’Amministrazione, la espressa previsione di voler operare il detto conferimento sulla base dei curricula presentati dai progettisti indica un criterio di aggiudicazione avente un indubbio valore oggettivo. L’utilizzo del criterio dei curricula non preclude certo la possibilità per l’Amministrazione di fissare particolari modalità di selezione dei progettisti, restando comunque esclusa la possibilità di una chiamata diretta a piena discrezione dell’ente. Il procedimento costituisce una modalità, per quanto la si possa ritenere semplificata, di evidenza pubblica, e non un’ipotesi speciale di ricorso alla procedura negoziata.
Peraltro, nel caso di specie, l’avviso pubblico di cui è questione opera espresso riferimento alle procedure di cui al d.lgs. 157/1995. Ma è già sufficiente osservare che nella presente ipotesi, come in tutti i casi in cui si proceda ad una scelta comparativa di tipo concorsuale tra una pluralità di offerte, l’Amministrazione appaltatrice deve rispettare i canoni di imparzialità e buona amministrazione, per cui la Pubblica amministrazione deve dar conto delle ragioni della preferenza accordata, in relazione agli indici di esperienza e specifica capacità professionale, desunti dal curriculum del professionista prescelto.

Osserva in primo luogo il Collegio che l’originario conferimento dell’incarico professionale di che trattasi al controinteressato arch. Scardino è chiaramente illegittimo.
Avendo l’Amministrazione attivato una procedura selettiva, con invito ai professionisti a produrre i proprio curricula, è evidentemente priva di adeguata motivazione la scelta all’epoca operata in assenza di ogni valutazione dei detti curricula ovvero della esternalizzazione della necessaria valutazione comparativa degli stessi. Peraltro, la detta scelta risulta disposta sulla scorta di un criterio di fatto, non indicato nell’avviso pubblico quale criterio preferenziale per il conferimento dell’incarico di che trattasi, rappresentato dall’essere il prescelto un professionista del luogo.
Questo Tribunale ha ripetutamente affermato, peraltro in sede di esame di ricorsi proposti dal medesimo odierno ricorrente, un orientamento in materia che risulta ben più autorevolmente ribadito dal giudice di appello. Da ultimo, il Consiglio di Stato ha osservato che, con riferimento al conferimento di incarichi di progettazione a professionisti esterni all’Amministrazione, la espressa previsione di voler operare il detto conferimento sulla base dei curricula presentati dai progettisti indica un criterio di aggiudicazione avente un indubbio valore oggettivo. L’utilizzo del criterio dei curricula non preclude certo la possibilità per l’Amministrazione di fissare particolari modalità di selezione dei progettisti, restando comunque esclusa la possibilità di una chiamata diretta a piena discrezione dell’ente. Il procedimento costituisce una modalità, per quanto la si possa ritenere semplificata, di evidenza pubblica, e non un’ipotesi speciale di ricorso alla procedura negoziata.
Peraltro, nel caso di specie, l’avviso pubblico di cui è questione opera espresso riferimento alle procedure di cui al d.lgs. 157/1995. Ma è già sufficiente osservare che nella presente ipotesi, come in tutti i casi in cui si proceda ad una scelta comparativa di tipo concorsuale tra una pluralità di offerte, l’Amministrazione appaltatrice deve rispettare i canoni di imparzialità e buona amministrazione, per cui la Pubblica amministrazione deve dar conto delle ragioni della preferenza accordata, in relazione agli indici di esperienza e specifica capacità professionale, desunti dal curriculum del professionista prescelto (cfr. Cons. Stato, V Sez., 07.03.2001 n. 1339).
In definitiva, il conferimento di cui trattasi è, a giudizio del Collegio, illegittimo e va, pertanto, annullato.
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Ed, in effetti, come si è ricordato, il ricorrente ha rilevato in ricorso il proprio interesse, in caso di accoglimento del ricorso, al risarcimento del danno subito, da quantificare sulla base del mancato guadagno e delle tariffe professionali vigenti, oltre ai danni dovuti alla perdita di chance, al mancato arricchimento del curriculum ed alle spese vive affrontate per la partecipazione al bando per le quali è chiesta in via principale determinazione equitativa dell’adito giudice.
Orbene, essendo acclarato che è intervenuta la redazione del progetto per il cui affidamento era causa, la pretesa relativa al risarcimento del danno è fondata, attesa la illegittimità degli avversati provvedimenti, l’ingiustizia del danno così prodotto ed il nesso causale sussistente tra i detti atti ed il danno subito dal ricorrente nonché ricorrendo nel caso di specie un sicuro profilo di colpa grave della resistente Amministrazione.
In particolare, il danno subito dal ricorrente, il cui risarcimento grava sulla resistente Amministrazione comunale, è dal Collegio quantificato nel 50% dell’onorario minimo previsto dalle leggi di tariffa previste dall’ordinamento professionale di categoria in relazione alla prestazione richiesta con l’avviso pubblico e vede essere liquidato nel termine di sessanta giorni dalla notificazione ovvero dalla comunicazione della presente sentenza
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 05.03.2002 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa).

AGGIORNAMENTO AL 13.09.2013

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     E' il mio compleanno e nel passato, quasi sempre, me ne dimenticavo perché non mi garbava -più di tanto- ricordarlo.
     Quest'anno, però, me ne ricordo ma sol perché oggi è già un mese che sei volata in cielo: tutti mi dicono di parlarTi a voce alta, come se nulla fosse accaduto ... io Ti parlo ma non riesco a sentirTi.
     La Tua mancanza non mi dà pace ... aiutami, dammi la forza per andare avanti.
     Tuo T.

IN EVIDENZA

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Risponde di rifiuto di atti d’ufficio il responsabile dell’ufficio tecnico che non si attiva per predisporre la segnaletica informativa circa lo stato di dissesto di una strada.
L’obbligo di provvedere in ordine all’apposizione in loco di adeguati segnali di pericolo incombe sull’ufficio tecnico comunale: si tratta di misure di cautela e prudenza tanto più rilevanti per fronteggiare il pericolo, quanto più lunghi si prospettano i tempi di predisposizione del progetto per le opere di manutenzione, la sua approvazione e la successiva esecuzione dei lavori. Risponde, pertanto, di rifiuto di atti d’ufficio il responsabile dell’ufficio tecnico che non si attiva per predisporre la segnaletica informativa circa lo stato di dissesto di una strada.
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La condotta di rifiuto prevista dall’art. 328 c.p. si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo.
È altresì noto che, ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio, si rende necessaria la condizione che il pubblico ufficiale sia consapevole del suo contegno omissivo, nel senso che deve rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento ‘contra jus’; tale requisito di illiceità speciale delimita la rilevanza penale solamente a quelle forme di diniego di adempimento che non trovino alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione, e senza che ciò implichi il fine specifico di violare i doveri imposti dal proprio ufficio.

Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di prime cure, la cui struttura motivazionale viene a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha disatteso con puntuali argomentazioni la diversa ricostruzione prospettata dalla difesa, concludendo nel senso che, pur a fronte della certa conoscenza, acquisita nel gennaio 2006, o, al più, nella primavera di quell’anno, di uno stato di fatto che rappresentava un pericolo per la sicurezza della circolazione stradale e delle persone in transito su quella strada comunale, nonché della richiesta di risarcimento dei danni che il S. aveva lamentato per effetto di un sinistro cagionato proprio da quella situazione di dissesto, l’imputato aveva omesso di adottare una cautela immediata –peraltro agevolmente approntabile senza spese aggiuntive per l’ente– che, senza interdire la fruibilità della sede stradale, rendesse comunque edotti gli utenti dell’esistenza di un pericolo derivante dalla presenza di un dosso.
Sotto altro, ma connesso profilo, inoltre, l’impugnata pronuncia ha posto in evidenza, sulla base di una ricostruzione coerentemente illustrata del compendio storico-fattuale oggetto della regiudicanda e come tale non sottoponibile a censura in questa Sede, come l’imputato, proprio in ragione della sua posizione di vertice all’interno dell’apparato amministrativo comunale e della sua specifica competenza tecnica e preparazione professionale, fosse senz’altro a conoscenza non solo della segnalata emergenza, ma anche delle misure di minimo contenuto tecnico necessarie per rendere nota alla collettività la presenza di quell’insidia.
Entro tale prospettiva, infatti, la Corte distrettuale non ha mancato di richiamare le emergenze probatorie oggetto delle valutazioni sul punto già linearmente esposte dal Tribunale, condividendone criticamente l’esito anche alla luce delle correlative obiezioni difensive e congruamente argomentando nel senso che, seppure l’assenza di mezzi finanziari non avesse consentito l’eliminazione dello stato di dissesto del manto stradale, sarebbe stata comunque possibile e necessaria, oltre che agevolmente realizzabile sulla base dei contrassegni e dispositivi in dotazione dell’ente, la predisposizione di una misura alternativa egualmente efficace, consistente nella collocazione, nel tratto interessato, di una specifica segnaletica indicativa dell’esistenza di una oggettiva situazione di pericolo per la sicurezza degli utenti. In attesa della dell’esecuzione degli interventi di manutenzione e sistemazione di quel tratto di strada, infatti, risultava comunque evidente una situazione di urgenza e necessità che oggettiva mente imponeva di far fronte al perdurare dello stato di pericolo.
Al riguardo, peraltro, i Giudici di merito hanno sottolineato che l’obbligo di provvedere in ordine all’apposizione in loco di adeguati segnali di pericolo incombeva senz’altro sull’ufficio tecnico comunale del quale l’imputato era responsabile: si trattava, inoltre, di misure di cautela e prudenza tanto più rilevanti per fronteggiare il pericolo, quanto più lunghi si prospettavano i tempi di predisposizione del progetto per le opere di manutenzione, la sua approvazione e la successiva esecuzione dei lavori.
Siffatta ricostruzione, come già osservato incensurabile in linea di fatto, deve ritenersi anche giuridicamente corretta, ove si consideri che la fattispecie incriminatrice in esame è compiutamente integrata sia dall’indebito diniego o dall’inerzia di comportamento doveroso in presenza di una richiesta o di un espresso ordine, sia quando –pur in assenza di tali specifiche sollecitazioni– sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto che, per una qualsiasi delle ragioni ivi espressamente indicate, debba essere compiuto senza ritardo. È dunque irrilevante il profilo, accennato nel ricorso, ma non specificamente dedotto quale motivo di impugnazione in sede d’appello, inerente alla connotazione, interna o esterna all’ente comunale della ‘fonte’ di conoscenza della specifica situazione di pericolo da rimuovere per la sicurezza della circolazione stradale. Infatti, il rilievo dato dalla norma alla oggettiva impellenza di determinati interventi (‘indebitamente rifiuta un atto…che deve essere compiuto senza ritardo’) induce a ritenere che la sollecitazione al compimento dell’atto, ove non sia espressamente prevista la necessità di una richiesta o di un ordine, ben può essere costituita anche dalla evidente sopravvenienza dei presupposti oggettivi che richiedono l’intervento e l’adozione dell’atto.
In tal senso, questa Suprema Corte ha da tempo affermato il principio secondo cui la condotta di rifiuto prevista dall’art. 328 c.p. si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo (Sez. 6, n. 4995 del 07/01/2010, dep. 08/02/2010, Rv. 246081; Sez. 6, n. 17570 del 16/03/2006, dep. 22/05/2006, Rv. 2338S8; Sez. 6, n. 31713 del 12/03/2003, dep. 28/07/2003, Rv. 226218; v., inoltre, Sez. 4, n. 17069 del 16/02/2012, dep. 08/05/2012, Rv. 253067). È altresì noto che, ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio, si rende necessaria la condizione che il pubblico ufficiale sia consapevole del suo contegno omissivo, nel senso che deve rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento ‘contra jus’; tale requisito di illiceità speciale delimita la rilevanza penale solamente a quelle forme di diniego di adempimento che non trovino alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione, e senza che ciò implichi il fine specifico di violare i doveri imposti dal proprio ufficio (Sez. 6, n. 8996 del 11/02/2010, dep. 05/03/2010, Rv. 246410; Sez. 6, n. 8949 del 03/07/2000, dep. 09/08/2000, Rv. 217665) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 31.07.2013 n. 33235 - tratto da e link a http://renatodisa.com).

UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA: LINEE GUIDA APPLICATIVE SUL DPR N. 59/2013 (AUTORIZZAZIONE UNICA AMBIENTALE) (CONFINDUSTRIA, 24.07.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONDOMINIORiforma del Condominio: nodo distacco impianto termico centralizzato (10.09.2013 - link a www.leggioggi.it).

CONDOMINIO - VARI: M. Pugliese, Far cadere la cenere o le cicche di sigarette sul terrazzo dell'inquilino sottostante, può comportare conseguenze penali (10.09.2013 - link a www.diritto.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata. La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata.
Di conseguenza qualora nello schema procedimentale alla conferenza di servizi segua un atto monocratico di recepimento da parte di un organo dell’ente al quale spetta la competenza finale a provvedere, quest’ultimo è l’atto conclusivo del procedimento, al quale devono essere imputati gli effetti eventualmente lesivi.
In ulteriore conseguenza, è questo l’atto che deve essere impugnato da parte di chi si ritenga leso nella propria sfera giuridica.

Osserva il Collegio come la tesi proposta dalle appellanti incidentali sia in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, che appare ormai pacifico (C. di S., VI, 09.11.2010, n. 7981, e 11.11.2008, n. 5620) secondo il quale “la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata. La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata”.
Di conseguenza qualora, come di norma e come nel caso che ora occupa, nello schema procedimentale alla conferenza di servizi segua un atto monocratico di recepimento da parte di un organo dell’ente al quale spetta la competenza finale a provvedere, quest’ultimo è l’atto conclusivo del procedimento, al quale devono essere imputati gli effetti eventualmente lesivi.
In ulteriore conseguenza, è questo l’atto che deve essere impugnato da parte di chi si ritenga leso nella propria sfera giuridica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.09.2013 n. 4507 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è costante nel ritenere che la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici.
In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che:
i) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico;
ii) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l’assetto del territorio».
Nel caso in esame le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione sono le seguenti: «una cisterna che fuoriesce dalla quota di campagna di circa ml+0,60 completa di autoclave e per una superficie di ingombro di mq 24 finita con sovrastante lastricato in pietra di cursi; modifica del prospetto principale riguardante sporti e vano porta; ringhiera in ferro allocata su muretto prospiciente pubblica via; scala esterna in adiacenza all’abitazione che porta alle terrazze; ballotoi con relativi muretti di delimitazione».
Dalla stessa descrizione delle opere risulta come vengano in rilievo manufatti che, avendo una autonoma destinazione con incidenza rilevante sull’assetto del territorio, non possono essere qualificati quali pertinenze.

In relazione al primo aspetto, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici. In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che:
i) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781);
ii) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l’assetto del territorio» (Cons. Stato, sez. VI, 24.01.2013, n. 496; 13.01.2010, n. 41).
Nel caso in esame le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione sono le seguenti: «una cisterna che fuoriesce dalla quota di campagna di circa ml+0,60 completa di autoclave e per una superficie di ingombro di mq 24 finita con sovrastante lastricato in pietra di cursi; modifica del prospetto principale riguardante sporti e vano porta; ringhiera in ferro allocata su muretto prospiciente pubblica via; scala esterna in adiacenza all’abitazione che porta alle terrazze; ballotoi con relativi muretti di delimitazione».
Dalla stessa descrizione delle opere risulta come vengano in rilievo manufatti che, avendo una autonoma destinazione con incidenza rilevante sull’assetto del territorio, non possono essere qualificati quali pertinenze (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4493 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 34 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 prevede, al primo comma, che «gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso». Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che la norma, da ultimo riportata, «deve essere interpretata –in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma– nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione». Ne consegue che deve «risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso».

In relazione al terzo aspetto, l’art. 34 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che «gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso». Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che la norma, da ultimo riportata, «deve essere interpretata –in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma– nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione». Ne consegue che deve «risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso» (Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2013, n. 1912; sez. V, 29.11.2012, n. 6071; sez. V, 05.09.2011, n. 4982).
Nel caso in esame, risulta ancora una volta dalla sola descrizione delle opere che la demolizione delle stesse non inciderebbe sulla stabilità dell’edificio. Ne consegue che si giustifica l’irrogazione della sanzione demolitoria e l’illegittimità della previsione che consente di applicare in concreto la sanzione pecuniaria nella fase attuativa dell’ordine di ripristino
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4493 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 32 della L. 47/1985 dispone che “il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
Il predetto ‘parere’ ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico-edilizia della zona protetta, sicché, per il regime pregresso dell’autorizzazione paesaggistica, restava fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario, e tale equiparazione operava anche per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 d.lgs. 29.10.1999, n. 490, e 159 d.lgs. n. 42 del 2004, e per il parere previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004.
In altri termini, la subordinazione del rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, per le opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, “al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”, di cui all’art. 32 l. n. 47 del 1985, ha implicato un rinvio ‘mobile’ alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono (salva la possibilità dell’indizione di una conferenza di servizi, secondo la previsione del comma 4 del citato art. 32, introdotto dall’art. 32, comma 43, d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326, in sede di c.d. terzo condono edilizio, con la precisazione che l’esclusione dell’applicabilità della novella “concernente l’applicazione delle leggi 28.02.1985, n. 47, e 23.12.1994, n. 724, (…) alle domande già presentate ai sensi delle predette leggi”, disposta nel successivo comma 43-bis, deve ritenersi riferita alla disciplina sostanziale del condono, e non anche agli aspetti procedimentali, soggetti al principio tempus regit actum, come già più volte ha chiarito questa Sezione).

Procedendo alla ricostruzione della disciplina normativa vigente in materia di condono edilizio concernente opere eseguite su immobili sottoposte a vincolo, la disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 ss. l. n. 47 del 1985.
In particolare, l’art. 32 della medesima legge dispone che “il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
Secondo ormai il consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, il predetto ‘parere’ ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico-edilizia della zona protetta, sicché, per il regime pregresso dell’autorizzazione paesaggistica, restava fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario (v. sul punto, ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 15.03.2007, n. 1255), e tale equiparazione operava anche per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 d.lgs. 29.10.1999, n. 490, e 159 d.lgs. n. 42 del 2004, e per il parere previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 (v. Cons. St., sez. VI, 04.12.2012, n. 6216; Cons. St., sez. VI, 20.12.2012, n. 6585).
In altri termini, la subordinazione del rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, per le opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, “al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”, di cui all’art. 32 l. n. 47 del 1985, ha implicato un rinvio ‘mobile’ alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono (salva la possibilità dell’indizione di una conferenza di servizi, secondo la previsione del comma 4 del citato art. 32, introdotto dall’art. 32, comma 43, d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326, in sede di c.d. terzo condono edilizio, con la precisazione che l’esclusione dell’applicabilità della novella “concernente l’applicazione delle leggi 28.02.1985, n. 47, e 23.12.1994, n. 724, (…) alle domande già presentate ai sensi delle predette leggi”, disposta nel successivo comma 43-bis, deve ritenersi riferita alla disciplina sostanziale del condono, e non anche agli aspetti procedimentali, soggetti al principio tempus regit actum, come già più volte ha chiarito questa Sezione) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4492 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATAIl termine massimo di 180 giorni dalla presentazione della richiesta, entro il quale deve concludersi, ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica (per la realizzazione di impianto di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile), oltre che ad essere perentorio risponde a evidenti finalità di semplificazione e accelerazione, sicché esso termine può essere qualificato come principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
Premette il Collegio che l'art. 2 della l. n. 241/1990, che racchiude uno dei principi fondamentali dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni procedimento con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale fissato dal comma 3 di detto articolo o quello indicato da specifiche disposizioni.
Aggiungasi che il termine massimo di 180 giorni dalla presentazione della richiesta, entro il quale deve concludersi, ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica, oltre che ad essere perentorio (Corte Cost., sentenze n. 364/2006, e n. 282/2009) risponde a evidenti finalità di semplificazione e accelerazione, sicché esso termine può essere qualificato come principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (Corte Cost. 09.11.2006, n. 364, Consiglio di Stato, sez. V, 23.10.2012, n. 5413, 21.11.2012, n. 5895 e 15.05.2013 n. 2634) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2013 n. 4473 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATACirca la censura con la quale l’appellante lamenta la mancata adozione dell’avviso di avvio del procedimento a monte dell’ordinanza di demolizione, occorre ribadire che la partecipazione procedimentale dell’interessato deve essere assicurata o attraverso l’invio della comunicazione di avvio del procedimento o attraverso un suo effettivo coinvolgimento nell’attività istruttoria che caratterizza la tipologia procedimentale in questione.
Nel caso in questione l’adozione dell’ordine di demolizione è subordinato all’accertamento del carattere abusivo delle opere, desumibile sulla base di accertamenti tecnici.
Pertanto, ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione dell’ordine di demolizione. Il contraddittorio sulle prime esclude che l’attività istruttoria dell’amministrazione si sottragga al contraddittorio con l’amministrato e che quest’ultimo, avvisato di fatto dell’avvio dell’iter procedimentale, possa utilizzare tutte le altre facoltà di accesso infraprocedimentale, di impulso istruttorio, di dialettica per iscritto, che gli consentono di tutelare la propria posizione di interesse legittimo.
Del resto, accertato l’abuso, la disciplina dell’art. 14, l. 47/1985, impone l’adozione dell’ordine di demolizione.

Circa la censura con la quale l’appellante lamenta la mancata adozione dell’avviso di avvio del procedimento a monte dell’ordinanza di demolizione, occorre ribadire che la partecipazione procedimentale dell’interessato deve essere assicurata o attraverso l’invio della comunicazione di avvio del procedimento o attraverso un suo effettivo coinvolgimento nell’attività istruttoria che caratterizza la tipologia procedimentale in questione. Nel caso in questione l’adozione dell’ordine di demolizione è subordinato all’accertamento del carattere abusivo delle opere, desumibile sulla base di accertamenti tecnici.
Pertanto, ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione dell’ordine di demolizione. Il contraddittorio sulle prime esclude che l’attività istruttoria dell’amministrazione si sottragga al contraddittorio con l’amministrato e che quest’ultimo, avvisato di fatto dell’avvio dell’iter procedimentale, possa utilizzare tutte le altre facoltà di accesso infraprocedimentale, di impulso istruttorio, di dialettica per iscritto, che gli consentono di tutelare la propria posizione di interesse legittimo.
Del resto, accertato l’abuso, la disciplina dell’art. 14, l. 47/1985, impone l’adozione dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. St., Sez. IV, 12.04.2011, n. 2266) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2013 n. 4470 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVISalvo che una norma espressa non disponga altrimenti, i termini stabiliti per la conclusione del procedimento amministrativo hanno in generale natura ordinatoria e non perentoria, e il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento amministrativo non comporta la consumazione del potere dell'Amministrazione di provvedere, né l'illegittimità dei provvedimenti eventualmente adottati successivamente alla scadenza del predetto termine, ma semplicemente la possibilità, per i destinatari interessati, di attivare la procedura del silenzio-rifiuto nello specifico caso in esame, il dovere procedimentale del soggetto pubblico non può estinguersi per l’inerzia del medesimo soggetto pubblico obbligato, così consentendo all’inerzia di autoassolversi.
E se, per esigenze di certezza del diritto, è prevista per l’azione avverso l’inadempimento provvedimentale il termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento (v. ora l’art. 31 del codice del processo amministrativo), resta comunque salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento, e dunque il mantenimento della mora dell’Amministrazione.

Premesso che, salvo che una norma espressa non disponga altrimenti, i termini stabiliti per la conclusione del procedimento amministrativo hanno in generale natura ordinatoria e non perentoria (confr., per tutte, C.d.S., Sezione VI, 02.02.2012, n. 582), e che il decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento amministrativo non comporta la consumazione del potere dell'Amministrazione di provvedere, né l'illegittimità dei provvedimenti eventualmente adottati successivamente alla scadenza del predetto termine, ma semplicemente la possibilità, per i destinatari interessati, di attivare la procedura del silenzio-rifiuto nello specifico caso in esame (confr. C.d.S., Sez. I, 22.03.2006, n. 608), il dovere procedimentale del soggetto pubblico non può estinguersi per l’inerzia del medesimo soggetto pubblico obbligato, così consentendo all’inerzia di autoassolversi.
E se, per esigenze di certezza del diritto, è prevista per l’azione avverso l’inadempimento provvedimentale il termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento (v. ora l’art. 31 del codice del processo amministrativo), resta comunque salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento, e dunque il mantenimento della mora dell’Amministrazione (v. lo stesso art. 31 citato) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4333 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTIL’art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, è quindi applicabile ogni volta in cui l’organigramma di un’impresa, partecipante a pubbliche gare d’appalto, preveda una figura dirigenziale, comunque denominata, assimilabile al direttore tecnico.
Invero, “con la decisione n. 1790 del 24.03.2011, dalle cui ragionevoli conclusioni non vi è ragione di discostarsi, questa stessa Sezione, richiamando peraltro anche un proprio recente arresto, ha rilevato che nelle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti è obbligatoria (ai sensi dell’art. 10, comma 4, del D.M. 28.04.1998) la figura del responsabile tecnico, che costituisce elemento indispensabile per la qualifica dell’impresa, evidentemente deputato allo svolgimento dei compiti tecnico–organizzativi relativi anche all’esecuzione del servizio commesso da parte dell’impresa, di cui assume, per stessa definizione, la responsabilità sotto altri aspetti, non diversamente dal direttore tecnico previsto dall’art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34, in materia di imprese di lavori pubblici (cui competono, notoriamente, gli adempimenti di carattere tecnico organizzativo necessari per l’esecuzione dei lavori).
E’ stato aggiunto che non sono pertanto ravvisabili significative differenze tra il responsabile tecnico dell’impresa di gestione dei rifiuti ed il direttore tecnico, anche quest’ultimo potendo (ex art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34) essere un soggetto esterno.
Di conseguenza quando la norma di cui all’art. 38 del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163 (e quindi anche la lex specialis di gara) richiede che lo specifico requisito sia posseduto dal direttore tecnico ha riguardo, quanto alle imprese di servizi, alle figure tipiche di tale categoria, pur nominalmente diverse ma a quella sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi, rilevanti ai fini dell’esecuzione dell’appalto”

L’art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, è quindi applicabile ogni volta in cui l’organigramma di un’impresa, partecipante a pubbliche gare d’appalto, preveda una figura dirigenziale, comunque denominata, assimilabile al direttore tecnico.
Tale conclusione è conforme ad orientamento già espresso in giurisprudenza.
C. di S., V, 11.01.2012, n. 83 ha infatti affermato che “con la decisione n. 1790 del 24.03.2011, dalle cui ragionevoli conclusioni non vi è ragione di discostarsi, questa stessa Sezione, richiamando peraltro anche un proprio recente arresto (26.05.2010, n. 3364), ha rilevato che nelle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti è obbligatoria (ai sensi dell’art. 10, comma 4, del D.M. 28.04.1998) la figura del responsabile tecnico, che costituisce elemento indispensabile per la qualifica dell’impresa, evidentemente deputato allo svolgimento dei compiti tecnico–organizzativi relativi anche all’esecuzione del servizio commesso da parte dell’impresa, di cui assume, per stessa definizione, la responsabilità sotto altri aspetti, non diversamente dal direttore tecnico previsto dall’art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34, in materia di imprese di lavori pubblici (cui competono, notoriamente, gli adempimenti di carattere tecnico organizzativo necessari per l’esecuzione dei lavori).
E’ stato aggiunto che non sono pertanto ravvisabili significative differenze tra il responsabile tecnico dell’impresa di gestione dei rifiuti ed il direttore tecnico, anche quest’ultimo potendo (ex art. 26 del D.P.R. 25.01.2000, n. 34) essere un soggetto esterno.
Di conseguenza quando la norma di cui all’art. 38 del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163 (e quindi anche la lex specialis di gara) richiede che lo specifico requisito sia posseduto dal direttore tecnico ha riguardo, quanto alle imprese di servizi, alle figure tipiche di tale categoria, pur nominalmente diverse ma a quella sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi, rilevanti ai fini dell’esecuzione dell’appalto
” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4328 - link a www.giustizia-amministrativa).

ATTI AMMINISTRATIVIVa ribadita l'autonomia della nozione di "situazione giuridicamente rilevante" ex art. 22 della l. n. 241/1990, nel senso che la legittimazione all'accesso spetta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto della domanda di ostensione abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
E’ infatti pacifica in giurisprudenza l'affermazione secondo la quale l'azione per l'accesso agli atti della pubblica amministrazione può essere proposta anche sulla base di un interesse di contenuto tale da non legittimare la proposizione dell'azione per l'annullamento di un provvedimento amministrativo.
Corollario della predetta visione è il principio a mente del quale il limite di valutazione della P.A. sulla sussistenza di un interesse concreto, attuale e differenziato all'accesso (che è pure il requisito di ammissibilità della relativa azione) si sostanzia nel solo giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, purché non preordinato ad un controllo generalizzato ed indiscriminato sull'azione amministrativa, espressamente vietato dall'art. 24, comma 3 della L. n. 241/1990.
La legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve quindi ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti e il diritto di accesso, purché non diretto a detto controllo generalizzato, può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione immediata della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi.

La Sezione premette, in linea generale, rispetto alla questione concernente la coincidenza o meno del concetto di interesse al ricorso giurisdizionale con quello al diritto di accesso, che va ribadita l'autonomia della nozione di "situazione giuridicamente rilevante" ex art. 22 della l. n. 241/1990, nel senso che la legittimazione all'accesso spetta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto della domanda di ostensione abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
E’ infatti pacifica in giurisprudenza l'affermazione secondo la quale l'azione per l'accesso agli atti della pubblica amministrazione può essere proposta anche sulla base di un interesse di contenuto tale da non legittimare la proposizione dell'azione per l'annullamento di un provvedimento amministrativo.
Corollario della predetta visione è il principio a mente del quale il limite di valutazione della P.A. sulla sussistenza di un interesse concreto, attuale e differenziato all'accesso (che è pure il requisito di ammissibilità della relativa azione) si sostanzia nel solo giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, purché non preordinato ad un controllo generalizzato ed indiscriminato sull'azione amministrativa, espressamente vietato dall'art. 24, comma 3 della L. n. 241/1990 (Consiglio di Stato, sez. V, 12.02.2013, n. 793).
La legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve quindi ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti e il diritto di accesso, purché non diretto a detto controllo generalizzato, può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione immediata della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4321 - link a www.giustizia-amministrativa).

APPALTI: Da dichiarare la risoluzione contrattuale con altra P.A., pena l'esclusione dalla gara.
Qualora, in sede di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, un concorrente ometta di dichiarare una precedente risoluzione contrattuale disposta nei suoi confronti da diversa stazione appaltante per inadempimento accertato giudizialmente, è legittimo il provvedimento di revoca in autotutela dell'aggiudicazione definitiva in favore della medesima ditta, in quanto tenuta a indicare la suindicata circostanza e, rilevata l'omissione doverosamente esclusa dalla gara.

La Sez. I del TAR Basilicata, con la sentenza 14.08.2013 n. 501, ha chiarito che l'omessa dichiarazione, nella domanda di partecipazione a una procedura competitiva per la scelta del contraente, di una precedente risoluzione contrattuale “subita” dal concorrente è causa di esclusione dalla gara medesima e comporta l'adozione di un provvedimento di revoca dell'eventuale aggiudicazione definitiva illegittimamente adottata in suo favore.
- Analisi del caso
Un'Azienda ospedaliera aveva indetto una procedura aperta per l'affidamento del servizio di manutenzione degli impianti elettrici e speciali a cui aveva partecipato, tra gli altri, una costituenda a.t.i., poi risultata aggiudicataria definitiva; in sede di verifica dei requisiti, la stazione appaltante aveva riscontrato sul casellario informatico delle imprese tenuto dall'A.v.c.p. la notizia di una risoluzione contrattuale disposta da un'altra P.A. in suo danno e, a seguito di procedimento in autotutela, aveva disposto la revoca dell'aggiudicazione stessa e l'esclusione dalla gara della ditta medesima, per violazione dell'art. 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 163/2006.
Avverso tale atto, la ricorrente ha mosso le proprie censure, eccependo la violazione e falsa applicazione degli artt. 38, comma 1, lett. f) e 46, comma 1-bis, D.Lgs. n.163/2006, nonché del D.P.R. n. 445/2000 e della lex specialis di gara; violazione dei principi di tassatività delle cause di esclusione e dell'affidamento dei concorrenti nonché carenza di istruttoria e difetto di motivazione alla luce della scusabilità dell'errore.
In particolare, la ricorrente ha sottolineato come l’intervenuta risoluzione contrattuale non avesse impedito alla stazione appaltante di affidare in precedenza altri servizi alla stessa ditta; ha, inoltre aggiunto come tanto il tenore letterale dell'iscrizione nel casellario quanto il successivo chiarimento reso dall’A.v.c.p. che ne cura la redazione e la tenuta, escludessero che tale risoluzione configurasse un “grave errore professionale”.
Ha così chiesto al G.A. lucano l’annullamento del gravato provvedimento, anche in considerazione della equivocabile formulazione della lex specialis di gara che faceva riferimento alla sola dichiarazione di “non aver commesso un errore già accertato dalla stessa stazione appaltante”.
- La soluzione
Il Collegio, accogliendo i rilievi mossi dall’Amministrazione resistente, ha ricordato come la questione non attenesse esclusivamente al possesso di un requisito di ordine generale ovvero all'interpretazione dell'art. 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 163/2006, ma interessasse anche l'operatività del comma 2, primo periodo del medesimo art. 38 che impone ai concorrenti di autodichiarare il possesso dei requisiti: nel caso in esame, ha precisato, rileva proprio la omessa dichiarazione da parte della a.t.i. ricorrente che ha, così, impedito alla stazione appaltante di compiere la propria valutazione in merito a una risoluzione contrattuale a suo tempo disposta da altra P.A. in danno della concorrente.
Ha, poi, sottolineato come fosse privo di pregio il richiamo di parte ricorrente al c.d. “falso innocuo” sulla considerazione per cui la stazione appaltante avesse già ritenuto, in altra precedente occasione, irrilevante la circostanza non dichiarata: la disposizione del citato art. 38, ha chiarito, riconosce alla stazione appaltante –e solo a questa– un potere di valutazione delle pregresse condotte dei concorrenti, finalizzato a reprimere ogni elemento che possa minare la legittima aspettativa della medesima P.A., non solo alla esecuzione a regola d'arte del servizio, ma anche all'assunzione di un contegno ispirato a correttezza e probità contrattuale, sulla necessità di garantire l'elemento fiduciario nei rapporti con l'Amministrazione sin dal momento genetico (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 02.03.2010, n. 659).
Sicché, il TAR ha evidenziato come la ricorrente fosse incorsa nella violazione di un obbligo imposto dalla legge quello di dichiarare, includere e/o specificare, eventuali situazioni legate a errori nell'esercizio dell'attività professionale, indipendentemente dalla formulazione della lex specialis da intendersi, peraltro, integrata dalla legge in applicazione del noto principio di eterointegrazione del bando e dalla autonoma - epperò non decisiva in quanto il potere valutativo è riservato, come detto, unicamente alla stazione appaltante - valutazione della A.v.c.p. (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.07.2013, n. 3550; idem, Sez. V, 24.02.2011, n. 1193; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30.05.2013, n. 1606); in ragione di tanto, ad avviso del G.A. non risulta violato neppure l'art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006, secondo cui la sanzione dell'esclusione consegue anche in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice, tra cui quella del ridetto art. 38, comma 2.
In considerazione di tanto, la Sezione I, accertata la legittimità dell’azione amministrativa in autotutela, rifacendosi ad un proprio precedente orientamento (cfr. TAR Basilicata, Sez. I, 26.11.2012, n. 518), ha respinto il ricorso, confermando l'esclusione dalla gara dell'a.t.i. ricorrente.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi In merito all'interpretazione dell'art. 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza è controversa: accanto a decisioni che privilegiano la salvaguardia dell'elemento fiduciario come base indefettibile dei rapporti contrattuali tra privati e l'Amministrazione, che deve essere sempre messa in condizione di compiere le proprie valutazioni, ve ne sono altre che valorizzano il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche e, restringendo il novero delle tassative cause di esclusione, propendono per una lettura sostanzialistica della disposizione, accedendo alla teoria dell'errore scusabile, del falso innocuo ovvero, anche, ricorrendo al c.d. soccorso istruttorio, ex art. 46, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006, in tutti i casi di omissione di dichiarazioni di “scarsa rilevanza” (a fortiori quando le circostanze sono già note alla stazione appaltante) o contraddittorietà nella formulazione degli atti di gara (ex multis, TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 25.06.2013, n. 1837; contra TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 16.10.2012, n. 2535).
La decisione segnalata aderisce quindi, a quella impostazione più rigorosa e formalistica compendiata dai principi del clare loqui dei concorrenti alle gare pubbliche e della parità di trattamento tra gli stessi; da questo angolo visuale, ogni impresa che intenda partecipare a procedure per l'affidamento di contratti pubblici è obbligata ad assumere un atteggiamento di totale trasparenza nei confronti della P.A. al fine di riservare solo a quest’ultima ogni legittima ed esclusiva valutazione (discrezionale) circa l’affidabilità del concorrente, in vista della salvaguardia dell’interesse pubblico all’esecuzione a regolare arte del contratto (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa).

AGGIORNAMENTO AL 10.09.2013

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IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: E' illegittimo il progetto edilizio assentito a firma di un geometra consistente nella demolizione di un vecchio fabbricato in muratura, inserito in un contesto intensamente edificato, e la costruzione, nel medesimo sito, di un edificio di 3 piani fuori terra e copertura.
Per pacifica Giurisprudenza, ai sensi dell'art. 16 lett. e) e m), r.d. 11.02.1929 n. 274, la competenza professionale dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, ma a condizione che si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone; per il resto, detta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili, ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti.
In tal senso anche Cassazione civile secondo la quale l'art. 16 r.d. n. 274/1929 ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non comportino pericolo per l'incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi dell'art. 1 r.d. 16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e architetti iscritti nell'albo; con le ulteriori precisazioni che tale disciplina professionale non è stata modificata dalle l. n. 1086/1971 e n. 64/1974, la quale, sia pure senza un esplicito richiamo delle fonti normative, si limita a recepire la previgente ripartizione di competenze e che a rendere legittimo in tale ambito un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere altresì titolare della progettazione e assumere le conseguenti responsabilità.
Alla stregua di tale condivisibile orientamento, il progetto in base al quale è stata rilasciata la concessione edilizia impugnata non poteva essere affidato ad un geometra, trattandosi di demolire, all’interno di un centro abitato di un comune ricadente in zona sismica 2, una preesistente costruzione ed edificare una (certo non modesta) palazzina di tre piani, e per di più mediante l’utilizzo di cemento armato, e senza che possa rilevare (ai fini di attenuare la delicatezza dell’intervento) la circostanza che, come precisato dal controinteressato, la costruzione è separata dagli edifici confinanti da un giunto tecnico di (appena) 10 cm.
Da un canto, infatti, la Giurisprudenza ritiene che l’ipotesi di mancato uso del cemento armato non è decisivo al fine di qualificare la costruzione come “modesta", in quanto assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
Dall’altro, secondo la Giurisprudenza, esulano dalla competenza professionale dei geometri le costruzioni che comportino l'adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato, salvo le piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
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Come condivisibilmente affermato dalla Giurisprudenza, prima del rilascio di un titolo edilizio, l'autorità comunale deve sempre accertare se la progettazione sia stata affidata ad un professionista competente in relazione alla natura ed importanza della costruzione, in quanto le norme che regolano l'esercizio ed i limiti di applicazione delle professioni di geometra, architetto ed ingegnere sono dettate per assicurare che la compilazione dei progetti e la direzione dei lavori siano assegnati a chi abbia la preparazione adeguata all'importanza delle opere, a salvaguardia sia dell'economia pubblica e privata, sia dell'incolumità delle persone; è dunque illegittimo il titolo a costruire assentito sul progetto, redatto da un geometra, al di fuori delle ipotesi di sua competenza.
Non giova al controinteressato opporre né la circostanza che i calcoli strutturali siano stati eseguiti da un ingegnere né che il progetto, in seguito, sia stato fatto proprio, approvato e controfirmato da un architetto.
Oltre la sentenza della S.C. di Cassazione sopra citata, che esclude l’ammissibilità di tale operato, è stato altresì statuito:
- il progetto redatto da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a nulla rilevando né che sia stato controfirmato da un ingegnere, né che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità ;
- è irrilevante che i calcoli in cemento armato siano stati eseguiti da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dal geometra originario incaricato ovvero dal committente stesso, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.

Il Collegio, preso in esame il primo motivo di ricorso, lo ritiene fondato.
Occorre premettere che il Comune di Bronte ricade (ai sensi dell'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274/2003, aggiornata con la Delibera della Giunta Regionale della Sicilia n. 408 del 19.12.2003) in zona sismica 2 (zona con pericolosità sismica media dove possono verificarsi terremoti abbastanza forti), secondo la mappa di pericolosità sismica per come definita nell'Ordinanza del PCM n. 3519/2006, che ha suddiviso l'intero territorio nazionale in quattro zone sismiche.
L’intervento in questione, per come pacifico dagli atti di causa, consiste nella demolizione di un vecchio fabbricato in muratura, inserito in un contesto intensamente edificato, e la costruzione, nel medesimo sito, di un edificio di 3 piani fuori terra e copertura.
Per pacifica Giurisprudenza (tra le più recenti Consiglio di Stato sez. IV 28.11.2012 n. 6036), ai sensi dell'art. 16 lett. e) e m), r.d. 11.02.1929 n. 274, la competenza professionale dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, ma a condizione che si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone; per il resto, detta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili, ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti.
In tal senso anche Cassazione civile, sez. II, 02.09.2011 n. 18038, secondo la quale l'art. 16 r.d. n. 274/1929 ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non comportino pericolo per l'incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi dell'art. 1 r.d. 16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e architetti iscritti nell'albo; con le ulteriori precisazioni che tale disciplina professionale non è stata modificata dalle l. n. 1086/1971 e n. 64/1974, la quale, sia pure senza un esplicito richiamo delle fonti normative, si limita a recepire la previgente ripartizione di competenze e che a rendere legittimo in tale ambito un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere altresì titolare della progettazione e assumere le conseguenti responsabilità.
Alla stregua di tale condivisibile orientamento, il progetto in base al quale è stata rilasciata la concessione edilizia impugnata non poteva essere affidato ad un geometra, trattandosi di demolire, all’interno di un centro abitato di un comune ricadente in zona sismica 2, una preesistente costruzione ed edificare una (certo non modesta) palazzina di tre piani, e per di più mediante l’utilizzo di cemento armato, e senza che possa rilevare (ai fini di attenuare la delicatezza dell’intervento) la circostanza che, come precisato dal controinteressato, la costruzione è separata dagli edifici confinanti da un giunto tecnico di (appena) 10 cm.
Da un canto, infatti, la Giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 09.02.2012 n. 686) ritiene che l’ipotesi di mancato uso del cemento armato non è decisivo al fine di qualificare la costruzione come “modesta", in quanto assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
Dall’altro, secondo la Giurisprudenza, esulano dalla competenza professionale dei geometri le costruzioni che comportino l'adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato, salvo le piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Ne consegue la sussistenza del vizio dedotto dai ricorrenti.
Infatti, come condivisibilmente affermato dalla Giurisprudenza (cfr. TAR Campania sez. II Salerno, 28.06.2010 n. 9772) prima del rilascio di un titolo edilizio, l'autorità comunale deve sempre accertare se la progettazione sia stata affidata ad un professionista competente in relazione alla natura ed importanza della costruzione, in quanto le norme che regolano l'esercizio ed i limiti di applicazione delle professioni di geometra, architetto ed ingegnere sono dettate per assicurare che la compilazione dei progetti e la direzione dei lavori siano assegnati a chi abbia la preparazione adeguata all'importanza delle opere, a salvaguardia sia dell'economia pubblica e privata, sia dell'incolumità delle persone; è dunque illegittimo il titolo a costruire assentito sul progetto, redatto da un geometra, al di fuori delle ipotesi di sua competenza.
Non giova al controinteressato opporre né la circostanza che i calcoli strutturali siano stati eseguiti da un ingegnere né che il progetto, in seguito, sia stato fatto proprio, approvato e controfirmato da un architetto.
Oltre la sentenza della S.C. di Cassazione sopra citata, che esclude l’ammissibilità di tale operato, si vedano anche:
- Cassazione civile sez. II, 21.03.2011 n. 6402, secondo la quale il progetto redatto da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittimo, a nulla rilevando né che sia stato controfirmato da un ingegnere, né che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere, altresì, titolare della progettazione, assumendosi la relativa responsabilità ;
- Consiglio di Stato, sez. IV, 28.11.2012 n. 6036, secondo cui è irrilevante che i calcoli in cemento armato siano stati eseguiti da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dal geometra originario incaricato ovvero dal committente stesso, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.
Conclusivamente, previo assorbimento degli ulteriori motivi, il ricorso dev’essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati (
TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.04.2013 n. 1163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: A. Di Mario, Le novità urbanistiche ed edilizie contenute nel c.d. “decreto del fare” (decreto-legge 21.06.2013 n. 69) convertito dalla LEGGE 09.08.2013 n. 98 (23.08.2013).

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EDILIZIA PRIVATA: PROCEDIMENTO PER IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE - (D.P.R. 06.06.2001, n. 380 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) - (L. 241/1990 D.L. 69/2013 così come convertito con L. 98/2013) (tratto da www.entionline.it).

EDILIZIA PRIVATA: NUOVE MODALITÀ PER LA GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO - ANALISI DELLE PROCEDURE SEMPLIFICATE INTRODOTTE DAL “DECRETO DEL FARE” DAL 21.08.2013.
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Sul supplemento ordinario n. 63 alla Gazzetta Ufficiale n. 194, del 20/08/2013, è stata pubblicata la legge 09.08.2013, n.98, di conversione del Decreto Legge 21.06.2013, n. 69 recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”, cosiddetto “Decreto del Fare”.
La legge in parola è entrata in vigore lo scorso 21 agosto e, in materia ambientale, ha introdotto una nuova procedura per la gestione delle terre e rocce da scavo.
Le nuove disposizioni riguardano le terre e rocce provenienti da opere non soggette a Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.) o ad Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.), indipendentemente dai volumi prodotti.
La nuova procedura è stata notevolmente semplificata rispetto a quanto previsto dal D.M. n. 161/2012 che resta applicabile soltanto agli scavi soggetti a V.I.A. o ad A.I.A.
Di seguito si fornisce una prima illustrazione delle nuove modalità di gestione delle terre e rocce da scavo di interesse per le aziende del settore ... e la dimostrazione dei requisiti (che le terre e rocce da scavo derivanti dall’attività dei cantieri non soggetti a V.I.A. o ad A.I.A. possono essere gestite come sottoprodotti qualora il produttore dimostri) dovrà essere attestata dal proponente o dal produttore mediante una dichiarazione sostitutiva di atto notorio che dovrà essere inviata all’ARPA territorialmente competente (ecco un facsimile di dichiarazione in formato .PDF oppure in formato .DOC) ...
(link a www.ancebrescia.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 10.09.2013, "Approvazione dei criteri per la redazione della graduatoria regionale dei progetti presentati dalle Province e dai Comuni per la realizzazione degli interventi in materia di riqualificazione e di messa in sicurezza delle istituzioni scolastiche statali, in attuazione della l. 98/2013 (art. 18, commi 8-ter e 8-quater)" (deliberazione G.R. 06.09.2013 n. 615).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 09.09.2013, "Primi indirizzi regionali in materia di autorizzazione unica ambientale (AUA)" (circolare regionale 05.08.2013 n. 19).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 07.09.2013 n. 210 "Modifica degli allegati A, B e D del decreto del Presidente della Repubblica 08.09.1997, n. 357, e successive modificazioni, in attuazione della direttiva 2013/17/UE del Consiglio del 13.05.2013, che adegua talune direttive in materia di ambiente a motivo dell’adesione della Repubblica di Croazia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.07.2013).

ENTI LOCALI  - VARI: G.U. 06.09.2013 n. 209 "Ordinanza contingibile ed urgente concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 06.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 05.09.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.08.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 02.09.2013 n. 103).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, FERCEL un problema di titolo (07.09.2013 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Ferruti, Prestazione energetica degli edifici: novità, conferme e incertezze nel decreto-legge n. 63/2013, convertito, con modificazioni, nella legge n. 90/2013 (testo aggiornato alla luce delle modifiche introdotte dalla legge di conversione) (settembre 2013 - link a www.lexitalia.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGOEsuberi nella pubblica amministrazione: estesa la norma che permette i pensionamenti con le regole pre-Fornero (CGIL-FP di Bergamo, nota 04.09.2013).

ENTI LOCALIComune di Bergamo - I compensi del CDA di B.O.F.: ovvero quando si predica bene e si razzola male (CGIL-FP di Bergamo, nota 04.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, agosto 2013).

PUBBLICO IMPIEGOStraordinario elettorale - Per il lavoro prestato nel giorno di riposo è comunque necessario il riposo compensativo (CGIL-FP di Bergamo, nota 27.08.2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri verbalizzanti. Al posto del segretario nelle commissioni. La previsione è giustificata anche da esigenze di spending review.
Quesito - In sede di adozione delle modifiche alla normativa regolamentare relativa il funzionamento delle commissioni consiliari permanenti, è possibile prevedere che le funzioni di segretario verbalizzante vengano svolte da un consigliere comunale, componente di ciascuna commissione, appositamente eletto in seno alla stessa?

Risposta - La previsione in parola trova fondamento in esigenze di risparmio di risorse economiche del comune ed appare compatibile con il vigente dettato normativo, tenuto conto che la stessa sarebbe anche in linea con le previsioni normative che si sono succedute in tema di c.d. spending review, nonché con il criterio di economicità quale principio generale dell'ordinamento, inteso come il giusto ed equilibrato rapporto che deve sussistere «_ tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti_» (cfr. Corte dei conti, sezione giurisdizionale Umbria n. 354 dell'08/11/2006) (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Pareri ai consiglieri.
Quesito - Un consigliere comunale può chiedere al Ministero dell'interno un parere in merito alla legittimità della convocazione della prima seduta del consiglio comunale?

Risposta - La richiesta di parere sulla legittimità della citata seduta del consiglio comunale non può essere oggetto di risposta in quanto l'attività di consulenza svolta da quest'amministrazione, nell'ambito di una collaborazione con gli enti locali, non può che essere propedeutica all'esercizio dei poteri propri degli amministratori locali. Infatti, in conseguenza della riforma costituzionale in materia, che ha comportato l'abrogazione di ogni forma di controllo amministrativo sugli enti locali, gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati possono essere fatti valere solo nelle competenti sedi giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Verifica in consiglio.
Quesito - Il sindaco di un comune può decidere di non procedere alla convocazione del consiglio comunale, finalizzata alla verifica dell'attuazione del programma amministrativo dell'organo di governo locale, ritenendo non rilevante una verifica mensile dello stesso?

Risposta - L'articolo 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000, prevede l'obbligo di convocazione del consiglio, con inserimento nell'ordine del giorno delle questioni proposte, quando venga richiesto, tra gli altri, da un quinto dei consiglieri.
La giurisprudenza prevalente in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di 1/5 dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (v. in particolare, Tar Piemonte, sez. Il, 24.04.1996, n. 268).
Va inoltre, considerato che il consiglio «nei modi disciplinati dallo statuto» partecipa, tra l'altro, ai sensi dell'art. 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000, alla «verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco e dei singoli assessori».
Nel caso specifico, lo statuto del comune disciplina le linee programmatiche del mandato del sindaco specificando, che entro il 30 settembre di ogni anno il consiglio provvede, in seduta straordinaria, a verificarne lo stato di attuazione sulla base della relazione del sindaco e della giunta; tuttavia, il successivo comma affida al consiglio comunale la facoltà di richiedere al sindaco un aggiornamento e una integrazione delle predette linee, anche nel corso della durata del mandato, per sopravvenute nuove o diverse esigenze.
Dalla lettura di tale disposizione statutaria sembrerebbe rientrare nella facoltà del consiglio comunale la richiesta di iscrizione all'ordine del giorno dell'argomento in oggetto (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: rinvio per i produttori di rifiuti pericolosi (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 207).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Certificazione energetica degli edifici: confermata la validità degli ACE prodotti secondo le procedure regionali (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 206).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legislazione nazionale: approvata la Legge 03.08.2013 n. 90 di conversione in Legge del D.L. 63/2013 sulla prestazione energetica in edilizia e recepimento della Direttiva 2010/31/UE (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 205).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Contabilizzazione del calore in Regione Lombardia - Rimane l'obbligo ma sono sospese le sanzioni (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 204).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Conversione in Legge del D.L. “Fare” – novità in materia di lavoro (DURC) (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 202).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC – Recapito del documento esclusivamente tramite PEC (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 201).

TRIBUTI - VARI: Oggetto: Decreto per la casa – Novità IMU e altre misure di sostegno al settore immobiliare (ANCE Bergamo, circolare 06.09.2013 n. 199).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: art. 31 del D.L. n. 69/2013 (conv. da L. n. 98/2013) – semplificazioni in materia di DURC – primi chiarimenti (Ministero del Lavoro  e delle Politiche Sociali, circolare 06.09.2013 n. 36/2013).
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La Direzione generale per l’Attività Ispettiva, con la circolare n. 36/2013, d’intesa con gli Istituti, fornisce i primi chiarimenti interpretativi sull’art. 31 del D.L. n. 69/2013 (conv. da L. n. 98/2013, c.d. “Decreto Fare”), che ha introdotto importanti semplificazioni in ordine al rilascio del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC).
I chiarimenti forniti dalla circolare, che riguardano in particolare le fasi in cui il DURC deve essere acquisito e la sua validità temporale, consentiranno peraltro agli Enti previdenziali e alle Casse edili un tempestivo adeguamento delle relative procedure di gestione del Documento.
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Lavoro. Le prime indicazioni nella circolare del ministero. Contratti, collaudi e pagamenti: un Durc per ogni passaggio.
La validità del Durc (Documento unico di regolarità contributiva) acquista la nuova durata di 120 giorni dal 21 agosto scorso.

Lo stabilisce la circolare emanata ieri del ministero del Lavoro, unitamente ad altri chiarimenti a commento dell'articolo 31 del decreto legge n. 69/2013 convertito dalla legge 98/2013.
Si tratta di una disposizione introdotta in sede di conversione del decreto legge ed è applicabile esclusivamente ai Durc rilasciati dopo tale data. Quelli rilasciata prima di tale data avranno, pertanto, una validità di 90 giorni secondo la disciplina precedente.
Il comma 5 dell'articolo 31, in materia di appalti pubblici, raggruppa ora il Durc in tre aree nell'ambito delle quali conserva la validità di 120 giorni, senza, dover ricorrere ad altro documento. Nel primo raggruppamento sono inseriti: la verifica della dichiarazione sostitutiva prevista dall'articolo 38, comma 1, lettera i), Dlgs n. 163/06; l'aggiudicazione del contratto; la stipula del contratto. Il secondo riguarda il pagamento degli stati di avanzamento ed il certificato di collaudo. In tale ipotesi il Durc (ferma restando la sua validità quadrimestrale) dovrà essere acquisito non già dal momento successivo alla stipula del contratto, ma solo al concreto verificarsi delle due fattispecie citate. Resta fermo che un ulteriore Durc (terzo raggruppamento) dovrà essere richiesto in sede di pagamento del saldo finale.
Fermo restando l'obbligo da parte degli Istituti o Cassa edile, in caso di irregolarità, di invitare l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro 15 giorni, prima dell'emissione o annullamento del Durc, tale procedura pur se inserita tra le disposizioni inerenti gli appalti pubblici, deve applicarsi ad ogni diversa tipologia di verifica operata dagli enti previdenziali in sede di rilascio del Durc.
La validità del Durc di 120 giorni (estesa fino al 31.12.2014 ai lavori edili privati) si applica anche alle erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, compresi i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti da parte delle Pa, per le quali è prevista l'acquisizione del documento. Anche per tali erogazioni è prevista la trattenuta dal certificato di pagamento dell'importo corrispondente alla eventuale inadempienza evidenziata dal documento.
Analoghe disposizioni valgono per la fruizione dei benefici in materia di lavoro e legislazioni sociale e per finanziamenti previsti dalla normativa Ue, statale e regionale (articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2013).
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Durc più facile. Ma da rifare. La validità di 120 giorni si applica solo dal 21 agosto. Per il ministero del lavoro non sono riutilizzabili i documenti emessi in base al dl Fare.
La semplificazione del Durc decorre dal 21 agosto. Infatti, la validità quadrimestrale (120 giorni) si applica solo ai certificati emessi da tale data, mentre su quelli emessi prima opera la vecchia validità di 90 giorni. Di conseguenza anche il riutilizzo dei Durc da parte delle p.a. (la vera semplificazione) è possibile solo con i documenti emessi dalla predetta data.
Lo precisa il ministero del lavoro nella circolare n. 36/2013, illustrando le novità sul documento unico di regolarità contributiva introdotte dal dl n. 69/2013 (decreto Fare), convertito dalla legge n. 98/2013.
La nuova validità. La mini-riforma è opera del dl n. 69/2013, in vigore dal 21 giugno, in relazione ai contratti pubblici al fine di velocizzare l'attività delle p.a. Diverse le novità alcune modificate in sede di conversione in legge n. 98/2013, in vigore dal 21 agosto, tra cui quella relativa alla nuova e più lunga validità del Durc. Il dl n. 69/2013 infatti l'aveva fissata a 180 giorni, ma è stata ridotta a 120 giorni dalla legge di conversione.
Inoltre sempre il dl n. 69/2013 ha stabilito (novità non modificata dalla legge di conversione) che, durante la nuova e lunga validità, con lo stesso Durc la p.a. può verificare tutte le fasi dell'appalto, fatta eccezione per il saldo finale (pagamento ultima fattura). La nuova durata, spiega il ministero, si applica esclusivamente ai Durc rilasciati dopo il 21 agosto (entrata in vigore legge n. 98/2013), poiché si tratta di norma introdotta in sede di conversione. I Durc rilasciati prima invece, aggiunge il ministero, «godranno di una validità di 90 giorni, così come previsto dalla disciplina previgente», non essendo stata convertita in legge la norma che fissava la validità di 180 giorni.
Durc da rifare. Secondo il ministero la nuova validità vale con riferimento alle fasi individuate dal dl n. 69/2013 (si veda tabella) per le quali legittima il riutilizzo del Durc. La precisazione, evidentemente, annulla i benefici di semplificazione relativamente ai Durc emessi in vigenza del dl n. 69/2013, cioè emessi dal 21 giugno al 20 agosto, revocandone la validità di 180 giorni (ridotta a 90) nonché (peggio) dichiarando di conseguenza impraticabile il riutilizzo. Quindi costringendo le p.a. a chiedere un nuovo Durc, al fine di ricavarne i benefici della più lunga validità e, soprattutto, del riutilizzo.
Infatti, dopo aver suddiviso le fasi in due «raggruppamenti» (il primo contenente le fasi a, b e c; il secondo le fasi d ed e, tranne il saldo finale), sul primo raggruppamento il ministero spiega che, in pratica, le p.a. tenute ad acquisire il Durc «devono utilizzare il medesimo documento –in corso di validità, ossia nell'ambito di 120 giorni dalla data del suo rilascio– ai fini dell'attestazione della regolarità contributiva anche per le ipotesi di cui alle lettere b e c e quindi fino alla stipula del contratto».
Professionisti e Pec in campo. Tra le altre novità, il ministero evidenzia il coinvolgimento dei professionisti (consulenti del lavoro e altri abilitati alla consulenza del lavoro, ex lege n. 12/1979) nella sistemazione dei Durc negativi. In questi casi infatti è previsto il loro intervento, tramite Posta elettronica certificata (Pec), al fine di accelerare la regolarizzazione dei requisiti con i diversi enti (Inps, Inail, casse edili).
Il ministero precisa che, anche se la nuova previsione è inserita tra le norme attinenti specificamente ai contratti pubblici, essa opera con ogni tipologia di verifica operata dagli enti previdenziali in sede di rilascio del Durc. Quindi, anche nel settore privato dove, peraltro, l'estensione a 120 giorni della validità del Durc resterà vigente fino al 31.12.2014 e soltanto per i lavori edili (articolo ItaliaOggi del 07.09.2013).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Decreto Ministeriale per la compensazione dei prezzi dei materiali da costruzione negli appalti pubblici - anno 2012 limitato al bitume (ANCE Bergamo, circolare 02.09.2013 n. 194).

ENTI LOCALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO-LEGGE 31.08.2013, n. 101 - Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni - NOTA DI LETTURA LE DISPOSIZIONI DI INTERESSE PER I COMUNI (ANCI, settembre 2013).

APPALTI - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: D.L. n. 76/2013 (conv. da L. n. 99/2013) recante “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti” – indicazioni operative per il personale ispettivo (Ministero del Lavoro  e delle Politiche Sociali, circolare 29.08.2013 n. 35/2013).
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Di interesse, si leggano i seguenti paragrafi:
Solidarietà negli appalti (art. 9, comma 1) (a pag. 16);
Rivalutazione sanzioni in materia salute e sicurezza sul lavoro (art. 9, comma 2) (a pag. 17).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: D.L. 21.06.2013 n. 69 (c.d. “Decreto Del Fare”) - Commento alle norme di interesse per il settore privato Aggiornato con le modifiche e integrazioni apportate dalla Legge di conversione 09.08.2013 n. 98 (ANCE, agosto 2013).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAImmobili. Il cambio di destinazione d'uso del fabbricato non impedisce di applicare il bonus del 36-50%.
Sconti «flessibili» in edilizia. Detrazioni utilizzabili anche se è diversa la sagoma dell'edificio.

Dal 21.08.2013, le detrazioni del 36-50% sulle ristrutturazioni edilizie e del 55-65% sul risparmio energetico possono essere utilizzate anche per la demolizione di un fabbricato, seguita dalla sua ricostruzione con stessa volumetria, senza che sia necessario rispettare la stessa sagoma preesistente.
In questi casi, però, se la nuova abitazione ha i requisiti prima casa, non è più possibile applicare l'Iva del 4% sulle prestazioni di ricostruzione, ma scatta l'aliquota del 10 per cento. Un aumento di spesa del 6% che comunque è ampiamente compensato dalla riduzione, in 10 anni, dell'Irpef.
Nuova definizione edilizia
Fino al 20.08.2013, tra gli «interventi di ristrutturazione edilizia» erano compresi «quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica» (articolo 3, comma 1, lettera d, Dpr 06.06.2001, n. 380). Dal 21.08.2013 (data di entrata in vigore della legge che ha convertito il decreto del «Fare») sono state soppresse le parole «e sagoma» dalla precedente norma, quindi, «nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente», senza che sia necessario ricostruire l'immobile con la stessa sagoma. Sono compresi nella ristrutturazione anche gli interventi «volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Nell'ambito della ristrutturazione, dal 21.08.2013 si può quindi abbattere una vecchia abitazione e ricostruirla con sagoma differente. Questo intervento non è più una nuova costruzione, dunque, è sufficiente la Scia, al posto permesso di costruire o della Dia.
Gli sconti del 36-50%
La modifica del Testo unico dell'edilizia comporta conseguenze importanti anche da un punto di vista fiscale, in quanto la detrazione Irpef del 36% (50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 31.12.2013) agevola, oltre al restauro e risanamento conservativo e alla manutenzione straordinaria (ordinaria, solo per le parti comuni condominiali), anche la ristrutturazione edilizia di abitazioni, come definita proprio dall'articolo 3, comma 1, lettera d), del Dpr 380/2001, modificato dal decreto del «Fare» (risoluzione 04.01.2011, n. 4/E).
Dal 21.08.2013, quindi, può essere agevolata al 36-50% anche la ricostruzione di una nuova abitazione con sagoma diversa rispetto a quella che è stata demolita. Il bonus fiscale del 36-50% spetta anche se l'edificio demolito aveva una destinazione d'uso diversa da quella residenziale, a patto che l'uso residenziale sia rispettato dal nuovo edificio ricostruito (risoluzione 08.02.2005, n. 14/E).
Con la risoluzione 14/E, ad esempio, le Entrate hanno chiarito che lo sconto Irpef del 36-50% spetta nei casi di ristrutturazione di fabbricati strumentali rurali (quindi a uso non residenziale, come magazzini o depositi) che, solo al termine dei lavori, assumono la destinazione d'uso abitativa, a patto che il mutamento della destinazione sia presente nel provvedimento urbanistico autorizzativo. Gli altri casi in cui l'agevolazione del 36-50% riguarda le nuove costruzioni sono la realizzazione di box pertinenziali e la ricostruzione di immobili danneggiati a seguito di eventi calamitosi.
Demolizione e ricostruzione
Per la detrazione Irpef ed Ires del 55% (65% per le spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2013 o al 30.06.2014 per i condomini) sul risparmio energetico, la circolare 36/E, paragrafo 2, aveva già chiarito che potevano accedere all'incentivo anche le demolizioni e le fedeli ricostruzioni, in quanto le «altre fattispecie» (ricostruzione con sagoma o volumetria diversa) erano considerate nuove costruzioni. Dal 21.08.2013, però, la nuova definizione di «ristrutturazione edilizia» comprende anche la demolizione e l'infedele ricostruzione (sagoma diversa, ma «con la stessa volumetria di quello preesistente»), quindi anche in questi casi è possibile beneficiare della detrazione Irpef ed Ires del 55-65 per cento.
Comprendendo l'infedele ricostruzione nella ristrutturazione edilizia, quindi, si può ora ottenere l'incentivo per i lavori (pannelli solari termici, cappotti, caldaie a condensazione, ecc.) che nell'ambito della ricostruzione rispetteranno i requisiti verdi. In caso di
«demolizione e ricostruzione con ampliamento non spetta la detrazione in quanto l'intervento si considera nuova costruzione» (circolari 01.07.2010, n. 39/E, risposta 4.1 e 16.02.2007, n. 11/E; risoluzione 11.07.2008, 295/E) e non spetta il bonus del 55-65% agli «interventi relativi ai lavori di ampliamento» (circolare 31.05.2007, n. 36/E, paragrafo 2, punto 3).
È agevolata la demolizione, seguita dall'infedele ricostruzione dell'edificio esistente, ma con la «stessa volumetria» preesistente, anche nel caso in cui il «permesso a costruire» autorizzi il cambio di destinazione d'uso, da magazzino a civile abitazione (risoluzione agenzia delle Entrate 11.07.2008, 295/E).
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Ma l'Iva sale al 10 per cento.
Dal 21.08.2013, per la demolizione e la ricostruzione di prima casa con la stessa volumetria di quella preesistente, ma con sagoma diversa, l'Iva sui lavori è del 10% e non più del 4 per cento.
Per la «fedele» ricostruzione di un edificio demolito (stessa volumetria e sagoma di quello preesistente), non si è mai potuta applicare l'aliquota Iva del 4% alle prestazioni relative al contratto di appalto, neanche se ricorrevano gli altri requisiti previsti per l'agevolazione prima casa. Questi interventi, infatti, «non possono essere ricondotti alle ipotesi di nuova costruzione, bensì concretizzano interventi di recupero di edifici preesistenti» (circolare agenzia delle Entrate 16.02.2007, n. 11/E, risposta 3.1). Alle relative «prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto», quindi, è sempre stata applicata l'aliquota Iva del 10%, prevista dalla voce n. 127-quaterdecies, parte III, Tabella A, allegata al Dpr 633/1972.
Fino al 20.08.2013, però, se il nuovo «immobile realizzato», prima casa, non era «perfettamente identico a quello preesistente» (ad esempio, per «la necessità di rispettare determinati vincoli urbanistici imposti dal Comune») si poteva applicare alle «prestazioni dipendenti dal relativo contratto d'appalto» l'aliquota ridotta del 4%, prevista per la prima casa della voce n. 39, parte II, Tabella A, allegata al Dpr 633/1972. In questo caso, infatti, l'intervento non poteva «essere qualificato come semplice recupero di un patrimonio edilizio già esistente», ma si trattava della «realizzazione di un fabbricato nuovo» (risoluzione 30.10.1998, n. 164/E).
Invece, dal 21.08.2013 (data di entrata in vigore della legge che ha convertito il decreto del Fare ed in particolare gli articoli 30, commi 1, lettera a) e 6, decreto legge 21.06.2013, n. 69), anche in questi casi (demolizione e ricostruzione di prima casa con la stessa volumetria di quella preesistente, ma con sagoma diversa), l'Iva sui lavori è del 10% (nuovo articolo 3, comma 1, lettera d, Dpr 380/2001) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2013).

ENTI LOCALI: Le linee guida dell'Agenzia per l'Italia digitale. Tutti a regime entro due anni. Tasse e multe con il bonifico. In arrivo pagamenti elettronici verso le p.a. e le utility.
Pagamenti elettronici verso la p.a. e i gestori di servizi pubblici. Tutte le tasse, multe, bollette e ticket sanitari si potranno saldare con un bonifico via web, utilizzando computer, tablet o smartphone, come pure con carta di credito agli sportelli bancomat o ai Pos appositamente predisposti. Nessuna commissione aggiuntiva per il debitore. La ricevuta del versamento sarà scaricabile dal sito dell'ente creditore oppure arriverà direttamente sulla propria Pec. Uno scenario forse ancora difficile da immaginare per molti cittadini e imprese abituati a mettersi in coda agli sportelli e a conservare le ricevute nei faldoni, ma ora un po' più vicino.

L'Agenzia per l'Italia digitale ha infatti diffuso le linee guida sui pagamenti elettronici della p.a., sulle quali nei giorni scorsi la Banca d'Italia ha dato il proprio parere favorevole.
Il documento si muove sulla strada tracciata dall'articolo 15 del dl n. 179/2012, che ha introdotto l'obbligo per le p.a. di accettare i pagamenti a qualsiasi titolo dovuti anche con l'uso delle nuove tecnologie. La guida diffusa dall'Agenzia (ex DigitPA) è ancora in fase di consultazione pubblica: fino al prossimo 30 settembre gli operatori potranno inviare le proprie osservazioni all'indirizzo lineeguidapagamenti@agid.gov.it.
L'identikit del pagamento. In tale contesto è stato definito il ciclo di vita tipico di un pagamento che intercorre tra un utilizzatore finale (cittadino, professionista, impresa) e un soggetto pubblico di qualsiasi genere. Il processo standard si articola in sei fasi: nascita della debenza, generazione delle informazioni necessarie per dar corso al pagamento, pagamento, riversamento degli importi, riconciliazione del pagamento, emissione della quietanza al privato. Tutti e sei i passaggi saranno fondati sull'identificativo unico di versamento (Iuv), che consentirà sia al debitore di assolvere l'obbligazione sia all'intermediario finanziaria di pagamento di inoltrare all'ente il dovuto.
Cosa servirà sapere. Le amministrazioni dovranno mettere a disposizione dell'utente finale alcune informazioni minime: denominazione dell'ente creditore, identificativo dell'obbligato (codice fiscale o partita Iva), importo dovuto, codice Iuv e causale del versamento, conto sul quale versare le somme (Iban o c/c postale, che dovrà essere pubblicato anche sul sito), scadenza. Per i micro-pagamenti i dati potranno essere semplificati, ma toccherà all'Agenzia per l'Italia digitale stabilire la soglia di riferimento.
Una piattaforma condivisa. Quest'ultima metterà a disposizione degli operatori anche il Nodo dei pagamenti-Spc, ossia un sistema informatico di ultima generazione che consentirà il dialogo telematico tra i diversi soggetti della «filiera» dell'e-payment. Le p.a. e i gestori di pubblici servizi (questi ultimi su base volontaria) dovranno sottoscrivere con l'Agenzia apposite lettere di adesione all'infrastruttura. Dopodiché, dal punto di vista operativo, non serviranno ulteriori convenzioni o atti negoziali tra enti creditori e prestatori di servizi di pagamento. Sia il riversamento alla banca tesoriera dell'ente sia il rilascio della quietanza al debitore saranno garantiti dall'unicità del codice Iuv. L'utente riceverà una ricevuta virtuale, che dovrà essere conservata ed esibita su supporto cartaceo solo in caso di eventuali controlli.
Tempistica. Per quanto riguarda la decorrenza delle misure, il decreto «crescita-bis» prevedeva l'entrata in funzione del meccanismo già dal 01.06.2013. Tuttavia, visti i tempi tecnici per l'approvazione definitiva delle linee guida e i successivi step attuativi, è verosimile che si parta su scala diffusa nel 2014. L'Agenzia puntualizza infatti che l'adesione al nodo dei pagamenti «costituisce di per sé il rispetto dell'articolo 5 del Codice dell'amministrazione digitale (dlgs n. 82/2005, ndr)», ma solo a condizione che l'ente «definisca un piano di attivazione che individui in dettaglio le attività da compiere e i tempi di realizzazione, da terminare entro il 31.12.2015». Possibile anche l'implementazione graduale delle procedure, cioè limitando inizialmente solo ad alcuni servizi la possibilità di pagare con strumenti elettronici.
Accordi «pionieri» in salvo. L'Agenzia precisa che laddove tra una p.a. e uno o più prestatori di servizi di pagamento risulti già in essere una convenzione o un contratto per l'incasso dei corrispettivi tramite circuiti elettronici, questi resteranno operativi. Le regole fissate dalla linee guida si applicheranno infatti solo a decorrere dalla naturale scadenza dell'accordo.
Regole ad hoc per l'erario. Un'ultima indicazione riguarda l'amministrazione finanziaria. Tenuto conto «delle peculiarità della riscossione dei versamenti gestiti dall'Agenzia delle entrate», puntualizza il documento, «rispetto all'ambito di applicazione dell'articolo 5 del Cad la stessa definirà, sentita l'Agenzia per l'Italia digitale, tempi e modalità per implementare le proprie procedure telematiche di incasso». Pur nel rispetto dei criteri generali vigenti per tutte le p.a., infatti, non potrà essere pregiudicata «la primaria esigenza di assicurare un efficace ed efficiente processo di gestione delle entrate» (articolo ItaliaOggi del 07.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'impatto del decreto 101/2013. Pubblico e privato sono più lontani.
Si allarga la distanza tra regolamentazione del lavoro pubblico e quello privato. Il decreto 101/2013 assesta un ulteriore colpo alla cosiddetta «privatizzazione del lavoro pubblico», che all'inizio degli anni 2000 si pensava potesse essere lo strumento per il rilancio dell'efficienza della pubblica amministrazione.
Tra il 1998 e il 2001 si verificò un processo di avvicinamento tra lavoro pubblico e privato, col via alla fase della contrattualizzazione del lavoro pubblico: si trattò del principio secondo il quale fonte principale della regolazione del lavoro pubblico, considerato assimilabile all'organizzazione di impresa, dovessero essere i contratti collettivi ed aziendali.
Oltre dieci anni dopo, tra blocchi delle assunzioni, assestamenti giurisprudenziali sulla portata della contrattualizzazione e la permanenza della specialità di molte norme del dlgs 165/2001, fortemente derogatorie rispetto alla normativa del lavoro nell'impresa (si pensi al reclutamento solo per concorso o al divieto di consolidamento delle mansioni superiori), ma soprattutto l'eccessiva rapidità dell'aumento del costo del lavoro pubblico, cresciuto di 40 miliardi tra il 2001 e il 2010, hanno portato nella direzione opposta. Il dlgs 150/2009 ha comportato una ri-pubblicizzazione del rapporto, relegando la contrattazione collettiva alla sola fattispecie economica. Il decreto recentemente approvato dal governo allontana il lavoro pubblico da quello privato con particolare riferimento agli strumenti di lavoro flessibile.
Il nuovo comma 5-ter dell'articolo 36 del dlgs 165/2001 da un lato conferma l'applicazione al lavoro pubblico del dlgs 368/2001, testo unico sul lavoro a tempo determinato, ma precisa le deroghe proprie del sistema pubblicistico. In particolare, l'obbligo delle pubbliche amministrazioni di considerare il lavoro a tempo indeterminato come il contratto tipico e unico per l'accesso all'impiego pubblico. Di conseguenza, il tempo determinato e gli altri lavori flessibili, che nel settore privato ormai rappresentano quasi la regola, sono determinati a esigenze solo temporanee o eccezionali. E si conferma e rende maggiormente intenso il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, con la previsione della nullità dei contratti flessibili, stipulati per fare fronte ad esigenze, invece, stabili.
La nullità di tali contratti impedirà in futuro ad ogni giudice del lavoro di realizzare quei voli pindarici che negli anni recenti li hanno portati ad applicare anche nel lavoro pubblico la tutela «reale» che, a ben vedere, già il precedente testo dell'articolo 36 del dlgs 165/2001, non permetteva. Se, infatti, i contratti flessibili stipulati in luogo di quelli a tempo indeterminato sono nulli, non è possibile considerarli sin dall'origine come contratti a tempo indeterminato, per la semplice ragione che non esiste un'origine: la nullità del rapporto lo rende di fatto come inesistente, mai lecitamente sorto sul piano giuridico.
Si tratta di un distanziamento molto forte dal lavoro privato che, accanto al blocco della contrattazione di parte economica sino al 31/12/2014 rende nuovamente la disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche un mondo speciale e particolare, fortemente derogatorio rispetto alle regole generali del lavoro nell'impresa. Anche a causa delle forti influenze che il costo complessivo del lavoro ha sulla spesa pubblica, le quali richiedono misure di controllo e contenimento piuttosto drastiche (articolo ItaliaOggi del 07.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARII tutor d'impresa online. In arrivo la riforma telematica della Conferenza dei servizi.
Pubblicazione online dell'elenco dei tutor per la costruzione di una impresa; revisione della disciplina della conferenza dei servizi che, dal prossimo anno, opererà soltanto con modalità telematica e istituzione di un apposito portale nazionale dell'offerta di servizi reali e finanziari pubblici e privati alle imprese.
Sono questi i più importanti elementi di novità per l'avvio dell'attività di impresa contenuti all'articolo 20 dello schema di decreto legge Fare bis, in corso di approvazione da parte del governo.
Secondo l'esecutivo, le critiche principali che da più parti vengono rivolte alla pubblica amministrazione per quanto riguarda l'efficienza e l'efficacia dei processi amministrativi devono trovare un'adeguata risposta solutiva. Ciò in quanto non possono più essere tollerati l'incertezza degli iter procedimentali, la lunghezza dei tempi e l'assenza di trasparenza. Per raggiungere l'obiettivo il governo ha deciso di intervenire modificando, ancora una volta, la legge 241/1990, rendendo obbligatoria la conferenza dei servizi telematica, che si dovrà svolgere secondo le modalità individuate dal Cad.
Attraverso questo strumento, in pratica, sarà possibile giungere ad un procedimento uniforme e standardizzato che garantisca la necessaria certezza giuridica degli operatori. Ma anche elevare la trasparenza dei processi perché è prevista non solo la partecipazione di tutti gli interessati, ma anche i cosiddetti contro interessati, ovvero coloro i quali sono titolari di un interesse contrapposto. La velocizzare delle procedure dell'intervento di attuazione sarà assicurata dalla messa a disposizione, online, della domanda e di tutta la documentazione connessa che potrà essere consultata direttamente dai soggetti che, per legge, dovranno partecipare alla conferenza dei servizi, ma anche, come detto, degli altri soggetti titolari di un interesse pubblico o diffuso.
Una password per i dati sensibili. L'Amministrazione competente, a tal fine, sottoporrà a password l'accesso alle sole parti che comporteranno profili di tutela della privacy o di privativa industriale e contestualmente invierà un messaggio di posta elettronica alle amministrazioni partecipanti, comunicando i codici di accesso alle informazioni riservate. Una mail sarà inviata anche a tutti i soggetti contro interessati. Con le nuove norme in materia di trasparenza, sarà imposto alla p.a. l'obbligo di rendere evidente nella propria home-page del sito web istituzionale, l'avvenuto inserimento della domanda e dei relativi documenti collegati. E ciò al fine di consentire l'accesso a tutti i soggetti potenzialmente interessati.
Trasparenza totale. In tal modo, secondo il governo, saranno «abbattuti radicalmente tutti i costi operativi sia delle imprese che delle amministrazioni (che in tal modo potranno esplicare le proprie attività di amministrazione attiva e di controllo sul territorio) e messa a disposizione una interattività continua tra pp.aa., cittadini e imprese che possa anche ridurre l'attuale contenzioso». In pratica, l'obiettivo è quello di elevare la qualità e la rapidità dei processi decisionali garantendo al tempo stesso la massima partecipazione.
Un tutor per l'impresa. Elemento di novità è quello che prevede la possibilità di consentire all'impresa di avvalersi delle sinergie disponibili quali agenzie per le imprese o altri «tutor» sia nella fase istruttoria, sia nella successiva fase di realizzazione del progetto nonché di semplificare e rendere immediatamente operative le attività di collaudo, permettendo in tal modo l'immediata operatività degli impianti (articolo ItaliaOggi del 07.09.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Trasparenza con regolamento. Accesso civico e un responsabile del procedimento. Il modello messo a punto dal Garante privacy adattabile anche dagli enti locali.
Garante privacy più trasparente. Grazie al regolamento del garante (provvedimento 01.08.2013 n. 380, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 193 del 19.08.2013) sugli obblighi di pubblicità e trasparenza relativi all'organizzazione e all'attività, attuativo del decreto legislativo 33/2013.
Il regolamento formula la disciplina interna dando attuazione alle norme sull'accesso civico e sul responsabile della trasparenza. Il garante, a tutela della riservatezza delle persone coinvolte nei procedimenti, si è riservato di rinviare la pubblicazione degli atti e di pubblicarli con omissis.
Ma vediamo le disposizioni più significative (il regolamento può costituire un ottimo modello anche per gli enti locali).
DATI SENSIBILI. Nei casi in cui è prevista la pubblicazione di atti o documenti, il Garante provvede a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione.
PUBBLICAZIONE. I documenti contenenti atti oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblicati, sul sito istituzionale del Garante, tempestivamente e in ogni caso non oltre i tre mesi decorrenti dalla formazione dell'atto. Il termine finale di pubblicazione di dati, informazioni e documenti, oggetto di pubblicazione obbligatoria, sarà indicato con apposita delibera, anche per categorie di dati e tenuto conto delle specifiche finalità di pubblicazione. Tali periodi decorreranno, in ogni caso, dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello di pubblicazione e, comunque, perdurano fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti.
TRASPARENZA. Per ogni componente del collegio il garante pubblica il curriculum vitae e il compenso. Per i titolari di incarichi amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, e anche per i titolari di incarichi di collaborazione o consulenza si pubblicano gli estremi dell'atto di conferimento dell'incarico, il curriculum vitae, i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro, di consulenza o di collaborazione, e gli altri eventuali incarichi con oneri a carico di enti pubblici o privati e l'indicazione dei compensi spettanti.
Il garante si è riservata la facoltà di pubblicare in forma aggregata le informazioni relative alle posizioni di minore rilievo. Il regolamento ribadisce che senza pubblicazione non è efficace l'atto di conferimento dell'incarico e la relativa liquidazione dei compensi e che in caso di omessa pubblicazione, il pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente che l'ha disposto, sottoposto a procedimento disciplinare, e comporta il pagamento di una sanzione pari alla somma corrisposta, fatto salvo il risarcimento del danno del destinatario.
APPALTI. La pubblicazione riguarda informazioni, documenti e dati relativi alle procedure di scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi di valore superiore a 20 mila euro. In particolare, e in aggiunta agli obblighi di pubblicità previsti dal codice dei contratti pubblici, il Garante pubblica, per ciascuna procedura di affidamento, una scheda sintetica nella quale sono riportati l'oggetto del lotto, la procedura di scelta del contraente, l'elenco degli operatori che partecipano alle procedure, l'indicazione degli operatori aggiudicatari, l'importo della aggiudicazione, i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura, l'importo delle somme liquidate.
PROVVEDIMENTI. Nel sito istituzionale (www.gpdp.it) sono pubblicati i provvedimenti aventi rilevanza esterna con l'indicazione degli strumenti di tutela, amministrativa e giurisdizionale, riconosciuti dalla legge in favore dei soggetti interessati al procedimento, e anche gli atti e i documenti di cui si ritiene opportuna la pubblicità e le risposte di interesse generale date ai quesiti pervenuti. Peraltro, su richiesta dell'interessato o qualora risulti comunque opportuno, possono essere omesse le sue generalità e anche la stessa pubblicazione del provvedimento.
MODULI. Sul sito istituzionale sono pubblicate le indicazioni da seguire per la presentazione al Garante dei ricorsi, dei reclami, delle segnalazioni, delle notificazioni o di ogni altro atto previsto dalla legge, con i moduli e i formulari eventualmente adottati. In base alla legge, il Garante non può richiedere l'uso di moduli e formulari che non siano stati previamente pubblicati sul sito istituzionale, né respingere l'istanza adducendo il mancato utilizzo dei moduli o formulari non pubblicati.
ACCESSO CIVICO. Il regolamento in esame da attuazione alle nuove norme sull'accesso civico e sul responsabile della trasparenza. In particolare la richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza
PUBBLICAZIONE DIFFERITA. Il regolamento prevede che in presenza di motivate esigenze di riservatezza o di segreto istruttorio, il Garante può differire, totalmente o parzialmente, ma con provvedimento motivato, la pubblicazione di documenti, informazioni e dati (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

URBANISTICA: Piani urbanistici, più tempo. Ancora tre anni per l'ultimazione degli immobili. La misura contenuta nel decreto legge sull'abolizione dell'Imu (102 del 2013).
I soggetti che hanno posto in essere un acquisto di immobili ricadenti in piani urbanistici particolareggiati (c.d. Pup), diretti all'attuazione dei programmi di edilizia residenziale comunque denominati, e hanno scontato l'aliquota agevolata dell'imposta di registro nella misura ridotta dell' 1%, potranno godere della proroga di altri tre anni per la ultimazione degli immobili stessi previsti dal piano; ciò senza perdere il beneficio dell'imposta ridotta.

Questo è il senso della disposizione di legge dell'art. 6, comma VI, del decreto legge 31.08.2013 n. 102, pubblicato appena qualche giorno fa sulla Gazzetta Ufficiale, che concede l'ennesima proroga per l'ultimazione degli interventi riguardanti tali immobili.
La vicenda di tale agevolazione è stata interessata, riguardo al limite temporale di ultimazione delle opere previste, da varie disposizioni normative di proroga, susseguitesi nel tempo che hanno esteso fino al nuovo limite di 11 anni (finora erano otto anni), il periodo nel quale si poteva usufruire dell'aliquota di registro con tale particolare agevolazione.
Nel caso delle imposte ipotecarie e catastali, come si ricorderà, per esse erano state originariamente previste le aliquote rispettivamente del 3 e dell'1%, che invece, non erano state oggetto di agevolazione, e che quindi non hanno subito variazioni nella nuova normativa. Vale la pena di ripercorre le passate vicende normative in merito al lasso di tempo consentito per i lavori sugli immobili ricadenti nei piani particolareggiati.
L'art. 1, undicesimo periodo della tariffa parte I dell'imposta di registro, prevedeva l'imposta agevolata dell'1%, in luogo di quella ordinaria, per i piani realizzati entro cinque anni dall'acquisto dell'immobile mediante atto notarile.
La legge n. 10/2011, convertita con modificazioni rispetto al previgente decreto c.d. milleproroghe del decreto legge 225/2010, prevedeva il maggior termine di otto anni, rispetto ai cinque anni della normativa previgente costituita dall'art. 1, comma 25 e seguenti della legge 24.12.2007 n. 244.
Da adesso con il dl 102/2013, che modifica direttamente l'art. 2, comma 23, primo periodo del decreto legge 29.12.2010 n. 225, chi acquista immobili ricadenti in tali piani urbanistici avrà un ampio termine (11 anni) per la realizzazione e la ultimazione di tali immobili, godendo dell'aliquota agevolata: tale disposizione può essere letta come un ulteriore incentivo, accanto a quelli già previsti recentemente, alla ripresa dell'attività edilizia e, quindi al settore immobiliare; tanto è vero che l'articolo della nuova norma in cui si trova tale disposizione (art. 6) porta il titolo «misure di sostegno all'accesso all'abitazione e al settore immobiliare».
Questa disposizione sta destando qualche perplessità, in merito all'attuazione retroattiva della vigente norma agevolativa, nei confronti della sua applicazione per i soggetti i quali abbiano acquistato prima del 31.08.2013, ma dopo la vigenza della norma della legge n. 10 del 2011 o che comunque avevano ancora in corso, a tale data, i lavori di completamento. Il motivo del dubbio in merito a tale retroattività è suscitato dal fatto che la norma novella non interviene direttamente nel citato art. 1 della tariffa dell'imposta di registro, lasciandolo immutato, così come era in precedenza.
Ma si tenga presente che l'art. 2 comma 23 del dl 225/2010, così recita: «Il termine di cinque anni di cui all'articolo 1, comma 25, della legge 24.12.2007, n. 244, è prorogato di tre anni. All'articolo 1, comma 28, della legge 24.12.2007, n. 244, il termine di riferimento degli atti pubblici formati, degli atti giudiziari pubblicati o emanati e delle scritture private autenticate a cui si applicano le disposizioni di cui ai commi 25, 26 e 27 dell'articolo 1 della legge 24.12.2007, n. 244, decorre dall'anno 2005».
Pertanto retrodatando gli effetti dell'agevolazione al 2005, come si è visto dal testo appena citato, è lecito pensare che la proroga suddetta, abbia valenza da tale termine e quindi, si debba estendere, avendo riferimento ad un totale di 11 anni dalla data del rogito, almeno fino al 2016.
È molto probabile che sul punto non mancherà di pronunciarsi una prossima circolare illustrativa della nuova norma che peraltro è in fase di conversione in legge. Pertanto, al momento, sembrerebbero rientrare nella proroga concessa dal dl 103/2013 appena emanato, tutti gli interventi che hanno interessato acquisti di immobili soggetti a piani urbanistici particolareggiati effettuati dal 2005 ad oggi (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

LAVORI PUBBLICI: Rilancio delle infrastrutture. Coinvolgendo i privati. Il "dl del fare" modifica la disciplina in materia di concessioni di costruzione e gestione di opere.
Nuovi impulsi da parte del governo per il rilancio del settore delle infrastrutture da realizzarsi con il coinvolgimento dei partner privati. Il «decreto del Fare» modifica la disciplina in materia di concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche.

L'articolo 19, infatti, del comma del dl 69/2013, convertito con modificazioni dalla legge 09/08/2013 n. 98, tra i diversi aspetti trattati, va, in particolare, ad introdurre alcune specificazioni agli articoli 143 e 144 del Codice degli appalti (dlgs 163/2006) relativi alle concessioni di lavori pubblici e alle procedure di affidamento delle stesse.
La prima integrazione vede interessato il comma 5 dell'articolo 143 che disciplina la fattispecie del contributo immobiliare riconosciuto dal concedente a titolo di prezzo per la realizzazione delle opere, in aggiunta allo sfruttamento economico delle stesse, consistente nel trasferimento al concessionario della proprietà o del diritto di godimento di beni immobili di propria disponibilità, la cui utilizzazione o valorizzazione, con modalità da definire al momento di approvazione del progetto, è necessaria per il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario della concessione.
Considerato, quindi, che tale contributo costituisce un presupposto essenziale per l'equilibrio economico-finanziario della concessione, il nuovo decreto va ad aggiungere in tale comma un nuovo periodo in cui è precisato, a garanzia del concessionario stesso, che, in relazione al progetto di utilizzazione e valorizzazione degli immobili in questione, il soggetto concedente dichiari all'atto di consegna dei lavori «di disporre di tutte le autorizzazioni, licenze, abilitazioni, nulla osta, permessi o altri atti di consenso comunque denominati previsti dalla normativa vigente e che detti atti sono legittimi, efficaci e validi».
Un'ulteriore modifica all'articolo 143 riguarda i casi di revisione della concessione per effetto di modifiche normative e regolamentari che comportino variazioni alle condizioni base e ai presupposti dell'equilibrio economico-finanziario, laddove al comma 8 è prevista la sostituzione della sola formulazione che faceva riferimento a modifiche implicanti «nuove condizioni per l'esercizio delle attività previste nella concessione», con il riferimento generale a norme legislative e regolamentari «che comunque incidono sull'equilibrio del piano economico finanziario, previa verifica del Cipe sentito il Nucleo di consulenza per l'attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità (Nars)».
Sempre sul tema dell'alterazione dell'equilibrio economico-finanziario della concessione e dell'attivazione delle procedure di revisione, il nuovo provvedimento legislativo introduce a completamento del citato comma 8, il nuovo comma 8-bis che dispone che le convenzioni devono definire «i presupposti e le condizioni di base del piano economico-finanziario le cui variazioni non imputabili al concessionario, qualora determinino una modifica dell'equilibrio del piano, comportano la sua revisione».
In aggiunta, sempre nel nuovo comma, si prevede che le convenzioni definiscano espressamente l'equilibrio economico-finanziario della concessione facendo riferimento agli indicatori di redditività del progetto e di sostenibilità finanziaria intesa come capacità di rimborso del debito accesso per la realizzazione degli investimenti. Altresì, dovranno contenere le modalità e i termini con cui procedere alla verifica dell'equilibrio economico-finanziario e avviare, se necessario, la revisione della stesse.
Tra le nuove disposizioni il decreto in esame va ad integrare anche l'articolo 144 al comma 3-bis delineando, nell'ottica di attivare progetti infrastrutturali «bancabili», cioè che possano essere finanziati dagli istituti di credito, la possibilità, per le concessioni da affidarsi con procedura ristretta, di attivare, se appositamente previsto nel bando di gara, una consultazione preliminare con i concorrenti invitati a presentare offerte, mirata a verificare l'eventuale sussistenza di criticità del progetto posto a base di gara tali da incidere sulla finanziabilità dello stesso e a procedere a una conseguente modifica della documentazione di gara con differimento del termine originario di presentazione delle offerte. È precisato, tuttavia, che non potrà essere oggetto di consultazione preliminare l'importo delle misure di defiscalizzazione e dei contributi pubblici da riconoscere al concessionario.
Il tema del finanziamento dei progetti è poi anche alla base dei nuovi commi 3-ter e 3-quater aggiunti sempre nell'articolo 144. Nel comma 3-ter si prevede la facoltà per le amministrazioni aggiudicatrici di richiedere nel bando di gara che l'offerta possa essere anche corredata da una manifestazione di interesse di uno o più istituti finanziatori disposti a finanziare l'operazione, anche in considerazione dei contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario.
Il nuovo comma 4-ter dispone, inoltre, che il bando di gara indichi un congruo termine, non superiore a 24 mesi, decorrenti dalla data di approvazione del progetto definitivo, entro i quali il concessionario dovrà reperire le risorse finanziarie per la realizzazione degli interventi attraverso la sottoscrizione del contratto di finanziamento con gli istituti di credito o la sottoscrizione e il collocamento dei project bond ex art. 157 del dlgs 163/2006. Il mancato reperimento delle risorse finanziarie di cui sopra entro il termine prestabilito dal bando costituisce caso di risoluzione, da prevedere espressamente nel contratto, della concessione senza diritto a rimborso delle spese sostenute inclusi anche i costi per la progettazione definitiva.
Il concessionario potrà liberamente reperire risorse finanziarie secondo altre forme di finanziamento previste dall'ordinamento vigente purché nello stesso termine previsto dal bando. Il bando di gara potrà, inoltre, prevedere che in caso di parziale finanziamento del progetto e, comunque, per uno stralcio tecnicamente ed economicamente funzionale, che il contratto di concessione possa rimanere valido limitatamente alla parte che regola la realizzazione e gestione di tale stralcio del progetto.
Infine, è precisato che le disposizioni di cui sopra non si applicano alle procedure di finanza di progetto con bando già pubblicato alla data di entrata in vigore del decreto o alle procedure per le quali sia già intervenuta, alla stessa data, la dichiarazione di pubblico interesse delle proposte presentate (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

URBANISTICAEdilizia, più tempo agli sconti. Raddoppiata la proroga per i «piani urbanistici particolareggiati». Fisco e immobili. L'imposta di registro all'1% sugli acquisti resta se l'intervento si completa in undici anni.
IL CALCOLO/ La nuova previsione estende da tre a sei anni la proroga del 2010 e si somma ai cinque anni della disciplina originaria.

Concessi altri tre anni per portare a completamento gli interventi edilizi «diretti all'attuazione dei programmi di edilizia residenziale» che siano effettuati nel contesto di «piani urbanistici particolareggiati» (Pup) e, con ciò, per evitare di perdere l'imposta di registro agevolata all'1 per cento, prevista per l'acquisto di aree o edifici siti nel contesto di Pup (dalla quale si decade se l'edificazione non sia appunto completata entro un certo termine dalla data d'acquisto): è quanto disposto dal sesto (e ultimo) comma del Dl 03.08.2013, n. 102, cioè quello che ha cancellato la prima rata dell'Imu.
La norma in questione non è di facile lettura (e solleva pure qualche problema interpretativo) e, per comprenderla bene, occorre risalire alla disciplina "originaria", poi fatta oggetto di proroga, e cioè all'articolo 1, comma 1, decimo periodo, della Tariffa parte prima allegata al Dpr 26.04.1986, n. 131, che reca il Testo unico dell'imposta di registro. Questa norma venne introdotta dall'articolo 1, comma 25, legge 244/2007; con essa il legislatore volle agevolare le imprese di costruzione degradando, a determinate condizioni, l'aliquota dell'imposta di registro sugli acquisti immobiliari dal 7 o 8 per cento (a seconda dei casi) all'1 per cento.
Sennonché la crisi ha inciso sui piani industriali delle imprese che avevano comprato questi terreni (o edifici) compresi nei Pup, rendendo troppo breve il termine di cinque anni per completare l'intervento di edificazione (o di ristrutturazione). Di ciò si è fatto interprete il legislatore che, con l'articolo 2, comma 23, dl 29.12.2010, n. 225, dispose:
a) la proroga «di tre anni» del termine di cinque anni previsto dall'articolo 1, comma 25, legge 244/2007;
b) l'applicazione di questo termine di cinque anni, prorogato «di tre anni», ai rogiti stipulati a partire non più dal 01.01.2008, ma dal 2005 in avanti (per comprendere questo passaggio occorre considerare che, anteriormente alla legge 244/2007, già vigeva un'altra norma sui Pup, analoga a quella attuale, introdotta dalla legge 388/2000, come successivamente modificata dal dl 223/2006 e dalla legge 296/2006).
Ora dunque, con il Dl 102/2013 (per il quale dunque diventano «sei» i «tre anni» previsti dall'articolo 1, comma 25, legge 244/2007), il complesso panorama normativo appena descritto deve essere letto come segue:
a) per completare gli interventi nei Pup di edilizia residenziale c'è tempo cinque anni;
b) il quinquennio è prorogato «di sei anni».
Insomma, cinque più sei fa undici, cosicché se oggi si acquista (con un contratto Iva esente o fuori campo Iva) un terreno o un edificio posizionato in un Pup, al fine di realizzare un intervento di edilizia residenziale, c'è tempo undici anni per completarlo, senza decadere dall'agevolazione consistente nell'applicazione dell'1 per cento di imposta di registro (le imposte ipotecaria e catastale sono invece dovute in misura non agevolata, rispettivamente con le aliquote del 3 e dell'1 per cento).
Se per i nuovi acquisti dunque non ci sono problemi interpretativi (salvo sapersi districare tra il groviglio delle norme appena riportate), più complicata potrebbe apparire l'estensione del "periodo di grazia" di undici anni, disposta dal dl 102/2013, anche agli acquisti del passato e, in particolare, a quelli compiuti tra il 2005 e il 2008. Si tratta però, una volta tanto, di una retroattività favorevole al contribuente: infatti, come visto, il legislatore ha agito non sostituendo un termine (più breve con uno più lungo) ma disponendo una proroga (prima di tre e poi di sei anni) al termine quinquennale contenuto nel Testo Unico del registro, cosicché non appare dubbio che, ad esempio, essendosi comprata un'area il 30.04.2006, ci sia tempo fino al 01.05.2017 per completare i lavori (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2013).

VARIComodato, rinnovo tacito gratuito.
L'INDICAZIONE/ Il prolungamento annuale non comporta l'obbligo di registrazione con versamento dell'imposta fissa.
Il contratto di comodato di un bene immobile, se redatto per iscritto, è soggetto a registrazione in termine fisso e sconta l'imposta di registro nella misura di 168 euro, sulla base di quanto viene previsto dall'articolo 5, comma 4, della prima parte della Tariffa allegata al Dpr 131/1986. Il termine per l'adempimento è di venti giorni dalla data dell'atto se quest'ultimo viene formato in Italia ovvero sessanta giorni se formato all'ester
o.
Come correttamente sostenuto dal lettore Angelo Galfano, che ha inviato una sollecitazione di chiarimento alla casella di posta del Sole 24 Ore dedicata ai dubbi dei lettori, se il contratto prevede una durata annuale con clausola di tacito rinnovo, non è necessario ogni anno effettuare una nuova registrazione del medesimo atto e pagare conseguentemente la relativa imposta di registro in misura fissa. A differenza del contratto di locazione, infatti, il comodato è caratterizzato dalla totale gratuità, vale a dire dall'assenza di un corrispettivo a fronte della consegna di una cosa tra due soggetti.
Per la locazione e l'affitto di beni immobili, è lo stesso articolo 17 del Tur che prevede in caso di cessione, risoluzione e proroga, anche tacita, del contratto, la liquidazione e il versamento dell'imposta di registro entro trenta giorni, con il conseguente obbligo di presentare all'ufficio l'attestato di versamento nei successivi venti giorni.
L'imposta in misura fissa, invece, applicabile alla registrazione di un contratto di comodato di beni immobili redatto per iscritto, è stata prevista dal legislatore proprio in considerazione del carattere essenzialmente gratuito dell'atto, indipendentemente dalla forma in cui è redatto (atto pubblico, scrittura privata autenticata o non autenticata).
L'obbligo della registrazione, infatti, discende direttamente dalla natura dei beni che sono oggetto di comodato (gli immobili), salvo si tratti di contratto verbale, nel qual caso non sussiste alcun obbligo di registrazione, come è stato precisato dalla stessa agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 14/E datata 06.02.2001.
È possibile ritenere, infine, che la previsione contrattuale di una durata prestabilita con rinnovo tacito non sia illegittima, bensì rientri nella libera determinazione delle parti.
Il Codice civile che disciplina il contratto di comodato agli articoli che vanno dal 1803 al 1812 non prescrive alcun vincolo di forma né di durata. È espressamente prevista, invero, anche la possibilità di stipulare un contratto di comodato senza determinazione di durata, quindi a tempo indeterminato. In questo caso il comodatario è tenuto a restituire la cosa non appena il comodante la richiede (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2013).

LAVORI PUBBLICICorte Ue. Le indicazioni dell'avvocato generale. Tariffe minime più salde per le «Soa» negli appalti.
IL PROBLEMA/ Non convince la possibilità di moltiplicare l'importo in caso di più gare in assenza di oneri aggiuntivi per la valutazione
Le tariffe minime obbligatorie previste per le società organismi di certificazione (Soa) che si occupano dell'idoneità delle imprese che partecipano alle procedure di appalti pubblici sono compatibili con il diritto Ue. Questo perché servono a salvaguardare la qualità del servizio e l'indipendenza degli organismi di certificazione. A patto, però, che la formula di calcolo delle tariffe non produca un aumento automatico degli importi per il solo fatto che un'impresa partecipi a più gare di appalto.
È la posizione dell'avvocato generale Cruz Villalón che, nelle conclusioni depositate oggi (causa C-327/12), ha salvato il sistema delle tariffe per l'attività di attestazione delle Soa previsto in Italia, aprendo la strada, però, ad alcuni cambiamenti rilevanti nella quantificazione degli importi. Adesso la parola passa alla Corte di giustizia, non vincolata dalle conclusioni.
È la prima volta che la questione del regime legale italiano dei minimi tariffari viene affrontato dalla Corte di giustizia nel contesto delle Soa, ossia in rapporto a organismi che hanno una funzione giuridica ed economica di rilievo pubblico. La vicenda approdata a Lussemburgo ha preso il via dal ricorso al Tar Lazio dalla Soa nazionale costruttori secondo la quale il decreto Bersani, nella parte relativa all'abrogazione dei minimi tariffari obbligatori, doveva essere applicato anche alle Soa. Di diverso avviso sia l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici dei lavori sia il ministero dello Sviluppo economico secondo i quali l'abolizione delle tariffe minime non riguardava le Soa.
Il Tar aveva dato ragione all'organismo di certificazione costruttori, ma il Consiglio di Stato, prima di decidere, si è rivolto agli eurogiudici. In base alla legge 34/2000, modificata dal Dpr 207/2010, le Soa, società per azioni di diritto privato che operano sul mercato con autorizzazione dell'Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, previa verifica dei requisiti di autonomia e di indipendenza, con competenza esclusiva nella certificazione delle imprese che partecipano a procedure di aggiudicazione di lavori pubblici, devono ricevere un corrispettivo secondo criteri fissi stabiliti dalla legge.
La previsione di queste tariffe minime, per l'avvocato generale, è compatibile con il diritto Ue e, in particolare con la libertà di stabilimento (articolo 49 del Trattato) perché serve a salvaguardare un motivo imperativo di interesse generale ossia la qualità del servizio. Senza dimenticare la necessità di assicurare l'indipendenza delle Soa nell'esercizio delle funzioni. Le tariffe obbligatorie, quindi, svolgono una «funzione di garanzia dell'integrità finanziaria delle Soa».
Detto questo, però, non convince l'avvocato generale e la Commissione il metodo di calcolo stabilito dalla legge italiana perché una Soa può moltiplicare automaticamente l'importo della tariffa se un'impresa partecipa a più appalti e questo malgrado la valutazione sulla stessa impresa non comporti oneri aggiuntivi. Di qui, la necessità di una modifica per lo meno con l'introduzione di un criterio moderatore (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCategorie protette. Nel Dl sul pubblico impiego la deroga al divieto di nuove assunzioni.
Nella «Pa» nessun limite per i disabili.
Le amministrazioni pubbliche devono rideterminare il numero delle assunzioni obbligatorie delle categorie protette in base alla dotazione organica rivista a seguito delle misure di contenimento della spesa e procedere all'assunzione di disabili che consentano di colmare il divario fra il numero così rideterminato e quello dei lavoratori soggetti al collocamento obbligatorio già in forza.

La disposizione, introdotta dall'articolo 7 del Dl 101/2013, deroga agli attuali divieti di nuove assunzioni anche nel caso in cui l'amministrazione interessata sia in soprannumero.
L'articolo 9, comma 4-ter, del Dl 76/2013 inserisce a sua volta nell'articolo 3 del Dlgs 216/03 il comma 3-bis, secondo cui i datori di lavoro privati e pubblici sono tenuti ad introdurre misure "ragionevoli" per garantire ai disabili la parità rispetto agli altri lavoratori impiegati in azienda. I datori di lavoro potranno contare sull'aumento della dotazione del fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui all'articolo 13, comma 4, della legge 68/1999, pari a 10 milioni per il 2013 e a 20 per il 2014, prevista dal comma 4-ter dello stesso articolo 9.
Si ricorda che la Corte di giustizia europea ha condannato il 04.07.2013 il nostro Paese (C-312/11) perché le norme nazionali sul diritto al lavoro delle persone disabili non rispettano l'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000, la quale stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia d'occupazione e condizioni di lavoro. Il nostro Paese è stato condannato perché non ha imposto «a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili».
Secondo la Corte la nozione di "handicap" si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Secondo la direttiva 2000/78/CE , recepita con il Dlgs 216/2003, la messa a punto di misure che tengano conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nella lotta alla discriminazione fondata sull'handicap.
La direttiva sancisce pertanto, l'obbligo di mettere in atto misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o d'inquadramento.
Sull'argomento la Corte di giustizia europea è intervenuta anche con la sentenza dell'11.04.2013 (C 335/2011) sottolineando la prevalenza degli accordi internazionali, conclusi dall'Unione, sulle norme di diritto derivato e la conseguente interpretazione di queste ultime in maniera per quanto possibile conforme a detti accordi. Avendo la Ue approvato, con la decisione 2010/48 la Convenzione dell'Onu, la direttiva 2000/78 nonché la norma nazionale di recepimento devono essere oggetto di un'interpretazione conforme a tale Convenzione.
L'inserimento del comma 3-bis nel contesto del Dlgs 216/2003 fa si che l'inosservanza dell'obbligo di adottare «accomodamenti ragionevoli» nei luoghi di lavoro può comportare l'applicazione della tutela giurisdizionale di cui all'articolo 4 dello stesso decreto, che può essere delegata anche alle organizzazioni sindacali e alle associazioni e alle organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione (articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Esuberi p.a. da licenziare per mandarli in pensione. La disposizione è contenuta nel decreto legge 101/2013.
A casa i soprannumerari delle pubbliche amministrazioni (pa). Se in possesso dei requisiti per avere la pensione entro il 31.12.2014 (con la vecchia finestra inclusa), infatti, vanno licenziati. Non si tratta di una facoltà per la pa ma di un obbligo vero e proprio da osservare nei limiti degli esuberi.
Lo precisa il dl n. 101/2013, con una norma d'interpretazione autentica del dl n. 95/2012 (spending review) con cui sembra mettere le mani avanti a probabile contenzioso. Contenzioso al quale invece già pone rimedio relativamente a un'altra norma ma che prevede sempre l'anticipo della pensione ai pubblici dipendenti: l'art. 24 del dl n. 201/2011, la riforma delle pensioni Fornero, bloccato dal Tar Lazio. In tal caso, dunque, con il dl n. 101/2013 la pensione torna a farsi più vicina e più magra per via dell'abrogazione dell'incentivo della permanenza al lavoro fino a 70 anni.
Spending review. La prima novità riguarda la spending review. Il citato dl n. 95/2012, nel prevedere la riduzione degli organici alle p.a (almeno il 20% per i dirigenti e 10% negli altri casi), ha stabilito che, relativamente al personale risultante in esubero, possano applicarsi i vecchi requisiti di età e contribuzione per la pensione, ossia quelli in vigore prima della riforma Fornero.
La deroga si applica al personale che risulta in esubero e a cui la «decorrenza» della pensione, in applicazione dei vecchi requisiti di pensionamento (prima della riforma Fornero, cioè vigenti al 31.12.2011) si venga a fissare non oltre il 31.12.2014. Poiché il riferimento è alla decorrenza della pensione e si applicano i vecchi requisiti, si deve tener conto anche della vecchia finestra: in linea teorica, perciò, poiché la finestra è pari a 12 mesi (trattandosi di dipendenti), i lavoratori in esubero che possono accedere all'esodo sono quelli che maturano i requisiti per la pensione entro fine anno, così da avere la decorrenza» della pensione entro il termine prefissato (31.12.2014).
Il dl n. 101/2013, al comma 6 dell'art. 2, precisa che la disposizione del citato dl n. 95/2012 (si tratta dell'art. 2, comma 11, lett. a) «s'interpreta nel senso che l'amministrazione, nei limiti del soprannumero, procede alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti indicati nella disposizione». In altre parole s'interpreta come «obbligo» per la p.a. di procedere al licenziamento dei lavoratori in esubero e in possesso dei requisiti per la pensione.
Stop (di nuovo) agli incentivi della permanenza in servizio. La seconda novità, dello stesso tenore della prima, riguarda la riforma Fornero delle pensioni. Riforma che, con riferimento al settore pubblico, ha previsto una deroga stabilendo che si continua ad applicare la vecchia disciplina e i vecchi requisiti di pensione a quei dipendenti che li maturano entro il 31.12.2011.
Da tale deroga la circolare n. 2/2012 della Funzione pubblica (condivisa dal ministero del lavoro e da quello dell'economia) aveva tratto un vincolo per le p.a.: l'obbligo di collocare a riposo, a partire dall'anno 2012, al compimento di 65 anni (limite ordinamentale), i dipendenti che nell'anno 2011 possedevano la massima anzianità contributiva (40 anni) o la quota 96 o comunque i requisiti per una pensione. In tal modo pertanto era implicitamente abrogata la possibilità della permanenza in servizio fino a 70 anni (si veda ItaliaOggi del 9 e 10.03.2012).
Successivamente però la circolare della Funzione pubblica è stata annullata dal Tar del Lazio che con la sentenza n. 2446/2013 ha ribaltato l'indirizzo interpretativo dato alla riforma Fornero per il settore pubblico e riabilitato la possibilità, ai dipendenti pubblici, di rimanere in servizio fino a 70 anni per migliorare la pensione (si veda ItaliaOggi del 25.06.2013).
Ma il dl n. 101/2013 riabilita le indicazioni della Funzione pubblica, stabilendo che la riforma Fornero s'interpreta nel senso che «per i lavoratori dipendenti delle p.a. il limite ordinamentale (_) costituisce limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata al raggiungimento del quale l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione» (articolo ItaliaOggi del 04.09.2013).

TRIBUTIAnziani e disabili, il comune decide sulla prima rata Imu. Stop al versamento se gli enti non hanno revocato il trattamento agevolato del 2012.
Abolita la prima rata Imu anche per anziani, disabili e residenti all'estero se i comuni non hanno revocato per l'anno in corso il trattamento agevolato riconosciuto nel 2012 per gli immobili da loro destinati ad abitazione principale o intendono concederlo per il 2103.
Il nuovo dl sull'imposizione immobiliare e la finanza locale, infatti, prevedono l'abolizione della prima rata Imu per tutti gli immobili per i quali a giugno era stata disposta la sospensione del pagamento dell'acconto. Quindi, la cancellazione del pagamento si estende agli immobili assimilati all'abitazione principale.
Tuttavia, è escluso che il beneficio possa essere applicato a due o più immobili, anche se utilizzati di fatto come abitazione principale, se non accorpati catastalmente. Così come non è consentito che, quantomeno nello stesso comune, uno dei coniugi trasferisca la propria residenza o dimora abituale per non pagare l'imposta. Le agevolazioni sono rivolte al nucleo familiare.
Anziani, disabili e residenti all'estero. Chi fruisce del trattamento agevolato, anche se a seguito dell'assimilazione degli immobili all'abitazione principale operata dai comuni, non è tenuto a pagare l'Imu. E gli immobili posseduti da anziani, disabili e residenti all'estero possono essere assimilati. Per il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (circolare 2/2013), considerata la finalità del legislatore di assicurare un regime di favore per l'abitazione principale e relative pertinenze, sia nel caso che l'assimilazione venga disposta per il 2013 «sia in quello in cui la stessa è stata effettuata nel 2012 e non è stata modificata nel 2013, l'assimilazione in questione determina l'applicazione delle agevolazioni». Compresa l'abolizione del pagamento della prima rata Imu.
I comuni, in effetti, possono estendere o ampliare i benefici per la prima casa. Non scontano l'Imu come seconda casa gli immobili posseduti da anziani o disabili e residenti all'estero se il comune li ha assimilati o li assimila all'abitazione principale. L'articolo 13 del dl 201/2011 prevede che il trattamento agevolato possa essere concesso per le unità immobiliari possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, da anziani o disabili che spostano la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, nonché per quelle possedute, a titolo di proprietà o usufrutto, in Italia dai cittadini italiani non residenti nel territorio dello stato, a condizione che non risultino locate. Va posto in rilievo che, come per l'Ici, il nudo proprietario non è tenuto a pagare l'Imu. Soggetti passivi sono sempre l'usufruttuario, i titolari dei diritti di uso, abitazione e così via.
Esenzione solo per un immobile. Secondo il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (circolare 3/2012) l'abolizione del pagamento vale solo per un immobile, in quanto per abitazione principale s'intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Il contribuente può fruire delle agevolazioni «prima casa» per un solo immobile, anche se utilizzi di fatto più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, a meno che non abbia provveduto al loro accatastamento unitario. I singoli fabbricati vanno assoggettati separatamente a imposizione, ciascuno per la propria rendita. È il contribuente a scegliere quale destinare a abitazione principale.
Si ritiene non corretta la tesi ministeriale, poiché anche per l'Imu, come per l'Ici, il contribuente dovrebbe avere diritto al trattamento agevolato qualora utilizzi contemporaneamente diversi fabbricati come abitazione principale, visto che l'articolo 13 richiede che si tratti di un'unica unità immobiliare iscritta o «iscrivibile» come tale in catasto. Dovrebbero essere sufficienti due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo. Nello specifico, le diverse unità immobiliari devono essere possedute da un unico titolare e devono essere contigue. Del resto, la Cassazione più volte ha affermato che ciò che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali.
Peraltro, per i giudici di legittimità, gli immobili distintamente iscritti in catasto non importa che siano di proprietà di un solo coniuge o di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono. Secondo la Cassazione, una interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico fiscale sugli immobili adibiti a «prima casa». La tesi della Cassazione, però, si pone in contrasto con quanto affermato anche in passato dal ministero delle finanze (risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire del trattamento agevolato Ici.
Il ministero ha infatti precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Solo una dovrebbe essere considerata anche per l'Imu come abitazione principale. Il contribuente, per usufruire dell'agevolazione, dovrebbe richiedere l'accatastamento unitario degli immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta rendita, presentando all'ente una denuncia di variazione.
Agevolazioni per il nucleo familiare. L'esenzione Ici per l'abitazione principale spettava per l'immobile adibito a dimora abituale del contribuente e dei suoi familiari. Non a caso la Corte di cassazione, con la sentenza 14389 del 15.06.2010, aveva affermato che nel caso in cui un coniuge avesse trasferito la propria residenza in un altro immobile non avrebbe avuto più diritto all'agevolazione fiscale, a meno che non avesse dimostrato di essersi separato legalmente.
In realtà, anche se la questione del comportamento elusivo eventualmente posto in essere da uno dei coniugi ha formato oggetto di contrastanti pronunce giurisprudenziali, l'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992 limitava il beneficio fiscale alla dimora abituale della famiglia. Secondo la Cassazione, infatti, l'ubicazione della casa coniugale «individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famiglia», «salvo che» (si aggiunge opportunamente) «tale presunzione sia superata dalla prova» che lo «dello spostamento... della propria dimora abituale» sia stata causata dal «verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza».
Lo stesso concetto di «nucleo familiare» viene riproposto per l'Imu, anche se le modifiche apportate alla norma istitutiva dell'imposta suscitano dei dubbi sugli effetti antielusivi che la Cassazione aveva riconosciuto alla disciplina Ici. L'articolo 13 del dl Monti (201/2011) stabilisce che per abitazione principale si intende l'immobile «nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente». Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano fissato la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nello stesso territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale, e relative pertinenze, si applicano per un solo immobile. La formulazione un po' contorta di questa disposizione lascia aperta la porta a possibili comportamenti elusivi, in quanto esclude che due coniugi possano fruire di una doppia esenzione solo se gli immobili sono ubicati nello stesso comune.
Quindi, se il trasferimento formale della residenza da parte di uno dei coniugi avviene in una seconda casa, ubicata in una località di mare o di montagna diversa da quella di residenza dell'altro coniuge, non vi sarebbe alcun impedimento a fruire due volte dello stesso beneficio fiscale: entrambi non pagherebbero la prima rata Imu. In questo caso i comuni potrebbero contestare la sussistenza di uno dei requisiti richiesti dalla legge, qualora possano dimostrare che la seconda casa non viene utilizzata di fatto come dimora abituale (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

TRIBUTIMacchine self service. Fototessere, niente imposta sulle affissioni.
Le affissioni presenti sulle macchine per fototessere self service che riportano informazioni sul costo del servizio e sulle modalità di fruizione non scontano l'imposta sulla pubblicità. Tali manifesti non possono considerarsi alla stregua di un mezzo pubblicitario qualunque, poiché informano il pubblico circa le caratteristiche del servizio, peraltro non acquistabile altrove, bensì fruibile adoperando la stessa macchina sul quale sono apposti.

In base a tali considerazioni, la sentenza n. 65/01/13 della Ctp di Lodi ha concluso per l'esenzione della fattispecie dall'imposta pubblicitaria vantata dall'amministrazione comunale.
Il caso riguarda le macchinette automatiche per fare le fototessere che si trovano solitamente nei pressi di luoghi pubblici, quali stazioni, municipi o aeroporti. Sulla struttura stessa dell'apparecchio elettronico, vengono di norma apposte delle illustrazioni, contenenti slogan e informazioni circa il costo del servizio, i tempi di erogazione e quant'altro. Su tali affissioni, alcuni comuni ritengono dovuta l'imposta per la pubblicità.
La Ctp di Lodi si è pronunciata in senso contrario. «Anche se di grande formato», si legge in motivazione, «queste illustrazioni hanno lo scopo prevalente di informare il pubblico delle caratteristiche dell'offerta, più che di pubblicizzare il servizio, che peraltro non è acquistabile altrove, essendo fornito dalla stessa macchina sulla quale sono apposte».
Per cui, non essendo prevalente lo scopo pubblicitario, che costituisce il presupposto dell'imposta, la Ctp ha accolto il ricorso del contribuente e concluso per l'esenzione (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl Durc ora arriva via email. Le imprese possono indicare l'indirizzo del consulente. Dal 2 settembre Casse edili, Inps e Inail rilasciano il documento solo tramite Pec.
Addio al Durc su carta. Dal 2 settembre infatti le casse edili, l'Inps e l'Inail rilasciano il documento unico di regolarità contributiva esclusivamente per Posta elettronica certificata (Pec) all'indirizzo obbligatoriamente da indicare sul modulo telematico di richiesta. I professionisti in prima linea: le imprese, anziché il proprio, possono indicare l'indirizzo Pec di un loro consulente a cui il Durc sarà successivamente recapitato.
Il Durc. Il Durc è un certificato che attesta contestualmente la regolarità di un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi, nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente nei confronti di Inps, Inail e casse edili verificati sulla base delle rispettive norme di riferimento (come verrà detto, più avanti, a proposito dei requisiti regolarità).
Rispetto al passato, quando era necessario effettuare tre richieste a cui corrispondevano altrettante certificazioni relative alla regolarità (una per ciascuno degli entri coinvolti: Inps, Inail e casse edili; quest'ultima, ovvio, solo in caso di aziende edili), con il Durc le imprese (e loro consulenti) effettuano un'unica richiesta per il rilascio della regolarità contributiva «complessiva». Il Durc attesa la regolarità contributiva ma non produce effetti liberatori per l'impresa; in altre parole, nonostante l'attestazione di regolarità da parte degli enti (Inps, Inail e cassa edile), a loro (enti) resta sempre e comunque possibile attivare azioni per l'accertamento e il recupero di eventuali somme che dovessero successivamente risultare dovute dall'impresa certificata come regolare.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva si intende la correntezza nei pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi per tutti gli obblighi previsti dalla normativa vigente riferiti all'intera situazione aziendale.
Requisiti di regolarità. L'Inps, l'Inail e la cassa edile sono ciascuno tenuti ad accertare la regolarità dell'impresa sulla base della rispettiva normativa di riferimento. Regolarità che deve sussistere alla data indicata nella richiesta di rilascio del Durc o alla data di conclusione dell'istruttoria (a seconda dei casi per i quali è richiesto). I requisiti generali per la verifica della regolarità sono indicati nel decreto ministeriale 24/10/2007 rispetto ai quali, ogni ente ha provveduto con proprie circolari a fornire chiarimenti e informazioni di dettaglio in relazione alla propria normativa di riferimento.
Se successivamente al rilascio del Durc emergono circostanze tali da modificare sostanzialmente la situazione di regolarità già attestata, l'ente deve darne immediata comunicazione al richiedente (con emissione di un Durc che annulla e sostituisce il precedente) e, nel caso di appalti pubblici sempre alla stazione appaltante, assumendo nel contempo le necessarie iniziative per il recupero di quanto dovuto. Il Durc, per esempio, viene richiesto ai fini della verifica di una dichiarazione sostitutiva (in cui sia stata autocertificata la regolarità contributiva); in tal caso, la data che va indicata nella richiesta del Durc deve essere la medesima della presentazione dell'autocertificazione, in quanto la regolarità deve sussistere al «momento» in cui l'azienda ha dichiarato la propria situazione, essendo irrilevanti eventuali regolarizzazioni successive.
L'invito alla regolarizzazione. A eccezione dell'ipotesi appena vista (richiesta di Durc per verifica della dichiarazione sostitutiva), in ogni altra richiesta di Durc qualora manchi la sussistenza dei requisiti di regolarità contributiva, l'istituto che ha rilevato tale mancanza (Inps, Inail o cassa edile), prima di attestare l'irregolarità, è tenuto a invitare l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine di massimo 15 giorni.
Come si richiede. La richiesta del Durc avviene su internet all'indirizzo http://www.sportellounicoprevidenziale.it/ al quale si accede tramite autenticazione e dove è disponibile anche il manuale utente. La procedura, in seguito ad automatica verifica formale delle informazioni inserite, attesta l'inoltro della richiesta del Durc e comunica l'assegnazione di un CIP (codice identificativo pratica) e di un numero di protocollo di richiesta. Il CIP vale come «ricevuta» e deve essere stampato e conservato dall'utente come prova del corretto invio della richiesta.
Nel caso di contratti pubblici, il CIP viene rilasciato solo a inoltro della prima richiesta e deve essere indicato dall'utente per ogni richiesta, relativa allo stesso appalto/subappalto, successiva alla prima (pertanto, per uno stesso appalto/subappalto, si avranno più «ricevute» tutte aventi lo stesso numero CIP ma numero e data di protocollo diversi). Attraverso il CIP è possibile verificare in qualunque momento lo stato di avanzamento della propria pratica, accedendo in modalità di consultazione alla specifica procedura informatica o richiedendo a una qualunque struttura territoriale degli enti di effettuare tale controllo.
Pec obbligatoria. A decorrere dal 2 settembre l'inoltro della richiesta di Durc è consentito soltanto se il sistema rileva l'avvenuta registrazione, nell'apposito campo del modulo di richiesta, di un indirizzo Pec (la Pec può essere della stazione appaltante/amministrazione procedente, delle Soa e dell'impresa). Dalla stessa data, sia per le pubbliche amministrazioni che per le imprese, i Durc saranno recapitati dall'Inail, dalle casse Edili e dall'Inps, esclusivamente tramite Pec, agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta.
Le novità del decreto Fare. La novità, ha spiegato l'Inps (messaggio n. 13414/2013), deriva dalle ultime riforme in materia di semplificazione volte a favorire la riduzione dei costi amministrativi alle imprese, valorizzando l'utilizzo dei nuovi canali informatici come strumento di interazione tra pubbliche amministrazioni, cittadini, imprese e professionisti. Ma è anche figlia delle semplificazioni (al Durc) introdotte dal dl n. 69/2013 (decreto Fare, convertito in legge n. 98/2013 in vigore dal 21 agosto). Semplificazioni che sono evidenziate dalla Cnce (comunicazione n. 521/2013) come riguardanti proprio il rilascio del documento di regolarità.
È stato confermato prima di tutto l'obbligo per stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori di acquisire d'ufficio il Durc, in particolare ai fini del pagamento dei lavori all'impresa affidataria e alle subappaltatrici. È stato confermato, inoltre, l'intervento sostitutivo di stazioni appaltanti ed altri enti aggiudicatori con il pagamento diretto agli enti di previdenza e alla cassa edile nei casi di Durc, richiesti per stati di avanzamento lavori, che segnalino inadempienze contributive.
Ancora, nel ribadire che il Durc va richiesto d'ufficio in tutte le fasi riguardanti lo svolgimento dell'appalto (verifica autodichiarazione, aggiudicazione, stipula contratto, sal e liquidazione finale), il dl Fare ne ha fissata la validità di 180 giorni dall'emissione consentendone l'utilizzo, nello stesso periodo, anche per finalità diverse. Secondo la Cnce la maggiore innovazione riguarda l'obbligo per le stazioni appaltanti di acquisire il Durc, dopo la stipula del contratto, ogni 180 giorni e di utilizzarlo per pagare i sal che ricadono nel periodo di validità di ciascun documento.
Durc via Pec. Dal 2 settembre, sia alle pubbliche amministrazioni che alle imprese, i Durc vengono recapitati solo via Pec all'indirizzo indicato nella richiesta. La Cnce ha precisato che l'obbligo riguarda non solo le richieste presentate da stazioni appaltanti, enti aggiudicatori o Soa, ma anche quelle delle imprese, con la particolarità che a queste ultime è data facoltà di indicare il loro indirizzo Pec oppure quello di un loro consulente. Infine, la Cnce ha evidenziato che l'eventuale necessità di ritrasmettere il Durc, ricevuto via Pec dall'impresa, a soggetti non tenuti all'utilizzo di tale strumento (per esempio committenti privati o amministrazioni di altri Paesi) è superata dalla possibilità stampare il documento allegato alla mail certificata. Infatti, l'apposizione sul Durc del cosiddetto «glifo» (è il contrassegno generato elettronicamente), consente di assicurare la provenienza e la conformità all'originale del documento cartaceo.
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Regolarità anche per omissioni fino a 100.
La regolarità contributiva è dichiarata anche in presenza di un cosiddetto «scostamento non grave» tra somme dovute e somme versate. Lo scostamento s'intende «non grave» quando «con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione» c'è una differenza tra dovuto e versato che è inferiore o pari al 5%, o un debito inferiore a 100 euro (qualora lo scostamento sia superiore al 5%). In caso di certificato di regolarità rilasciato in presenza di «scostamento non grave», il soggetto (operatore economico titolare del Durc) è obbligato a versare l'importo (lo scostamento) entro i 30 giorni successivi all'emissione del Durc; se non provvede l'irregolarità sarà dichiarata nei Durc successivamente rilasciati.
Attenzione: questa possibilità dell'emissione del Durc in presenza di «scostamento non grave» è applicabile esclusivamente alla regolarità contributiva richiesta ai fini della verifica della dichiarazione sostitutiva in fase di selezione pubblica del contraente. In tutti gli altri casi di richiesta di Durc, la presenza di una scopertura, anche se inferiore ai limiti sopra indicati di «scostamento grave», comporta sempre e comunque la dichiarazione di irregolarità dell'azienda, con sospensione dell'istruttoria e invito a regolarizzare la posizione entro 15 giorni (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ape allegato a pena di nullità. Attestato prestazione energetica col contratto di vendita. Nota interpretativa del Consiglio nazionale del notariato sulle novità del dl 63 convertito.
L'attestato di prestazione energetica (Ape) deve essere allegato al contratto di vendita, agli atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito o ai nuovi contratti di locazione, pena la nullità degli stessi contratti.
Il Senato ha definitivamente approvato la legge di conversione del dl n. 63/2013, introducendo una nuova disposizione (il comma 3-bis dell'art. 6 del dlgs n. 192/2005) di grande rilevanza per l'attività notarile, e il Consiglio nazionale del notariato ha fornito uno studio interpretativo (del 07.08.2013) dettagliato ed illuminante, chiarendo dubbi e fornendo una lettura che si rivela utilissima per il notaio e per il cittadino.
L'Ape non si allega solo alla compravendita. Secondo la lettura del Cnn, il termine «vendita» può essere stato utilizzato in senso lato, quale sinonimo di «alienazione», comprensivo, pertanto, di ogni atto traslativo a titolo oneroso. Pertanto l'Ape si allega in occasione della stipula di tutti gli atti inter vivos comportanti il trasferimento, a titolo «oneroso», di edifici.
L'obbligo riguarda tutti gli atti a titolo gratuito. In base alla nuova norma sono soggetti all'obbligo di allegazione gli atti a titolo gratuito che comportino «il trasferimento di immobili». Dal generico riferimento «agli atti a titolo gratuito», consegue, secondo il Cnn, che la disciplina in esame dovrà intendersi riferita non solo alla fattispecie negoziale disciplinata dagli articoli 769 ss. cod. civ., ma anche ad ogni altro negozio nel quale vi sia trasferimento di immobile a titolo gratuito.
I contratti di nuova locazione. Secondo il Cnn, poi, la disciplina si applica in presenza di una nuova locazione (ad esempio, un contratto che rinnova, proroga o reitera un precedente rapporto di locazione) e ai seguenti contratti, per affinità con la figura della locazione (e sempreché si tratti di nuovi contratti): il leasing (avente per oggetto un edificio comportante consumo energetico); l'affitto di azienda (qualora il relativo contratto comprenda anche l'affitto di edifici comportanti consumo energetico).
Preliminare di vendita e Ape. In caso, poi, di contratto preliminare di vendita (come per altre fattispecie contrattuali che possano considerarsi conclusive di una trattativa, ma non traslative dell'immobile) sorge certamente l'obbligo per il proprietario di consegnare al promissario acquirente l'Ape, ma non vi è certamente l'obbligo di allegazione, né sono previste sanzioni relative alla validità del contratto. La nuova disciplina in tema di allegazione si applica anche nelle regioni dotate di propria disciplina Per quanto, poi riguarda, la specifica disciplina in tema di allegazione, deve ritenersi comunque applicabile su tutto il territorio nazionale e quindi anche in quelle Regioni che abbiano recepito nella loro legislazione la direttiva 2010/31/Ue.
Attestati di certificazione rilasciati prima del 06.06.2013. Inoltre si può procedere all'allegazione di attestati di certificazione rilasciati prima del 06.06.2013 e può procedersi all'allegazione di copia conforme di un attestato già allegato a precedente atto.
I controlli del notaio. Per quanto riguarda l'attività notarile, il notaio non è tenuto a fare alcun accertamento sulla abilitazione del tecnico redattore dell'attestato, bensì spetta al proprietario del bene (alienante) verificare che il tecnico, al quale intende affidare l'incarico, sia in possesso dei requisiti prescritti dalla vigente normativa.
La sanzione: nullità assoluta. La norma in commento stabilisce che l'obbligo di allegazione è posto a pena di nullità. Si tratta di una nullità assoluta, con la conseguenza che: la nullità può essere fatta valere da chiunque e può essere rilevata d'ufficio dal giudice; l'azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione; il contratto nullo non può essere convalidato (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAEfficienza e ristrutturazioni. Cresce il ruolo dei professionisti dopo l'introduzione dei maxi-sconti.
Doppia verifica sull'ecobonus. Da valutare la spesa ancora agevolabile e l'incentivo più adatto.
LO SCOMPUTO/ Solo l'effettivo avvio di un nuovo intervento permette di far ripartire da zero il plafond di 96mila euro.

Le detrazioni del 50% sul recupero edilizio e del 65% sul risparmio energetico richiedono una valutazione preliminare da parte dei professionisti. In particolare, due aspetti vanno esaminati con cura:
- i tetti di spesa massima su cui calcolare la detrazione, che potrebbero essere già stati erosi da pagamenti effettuati in precedenza per beneficiare del 36% o del 55%;
- la possibilità di scegliere l'una o l'altra detrazione per alcuni tipi di lavori "al confine" e l'alternativa del conto termico (nuova agevolazione che non consiste in uno sconto dall'imposta lorda ma in un'erogazione monetaria per un periodo variabile da due a cinque anni).
Senza trascurare la variabile della capienza fiscale, per scongiurare il rischio che la detrazione si riveli superiore all'imposta lorda (aspetto che potrebbe essere difficile da stimare nell'arco del decennio in cui va suddiviso lo sconto).
Ma andiamo con ordine. Per le ristrutturazioni edilizie e gli altri interventi indicati all'articolo 16-bis del Tuir è possibile detrarre il 50% calcolato su una spesa massima di 96mila euro per le spese sostenute dal 26 giugno 2012 al 31 dicembre di quest'anno.
Per gli incentivi finalizzati al risparmio energetico, invece, l'importo massimo non è dettato in funzione della spesa massima, ma della detrazione massima, ed è differenziato in base a quattro tipologie di lavori.
Per la riqualificazione globale degli edifici esistenti la detrazione massima è di 100mila euro, che corrispondono a una spesa massima di 153.846 euro. Per la coibentazione di pareti e coperture –oltre che per la sostituzione di finestre– il limite di detrazione è 60mila euro (92.307 euro). Stesso importo anche per l'installazione di pannelli solari termici per la produzione di acqua calda. Infine, nel caso della sostituzione di impianti di climatizzazione invernale.
Fermo restando che una singola opera non può concorrere a più agevolazioni, si tratterà di incastrare, come in una sorta di puzzle, la fattura nel giusto incentivo per ottenere il massimo beneficio.
Si pensi ad esempio a una spesa per la sostituzione di infissi e finestre che per loro caratteristiche rientrino nei requisiti di isolamento dettati dal Dm 26.01.2010, necessari a ottenere il 65 per cento. L'opera potrebbe ottenere anche il 50% sulle ristrutturazioni, in quanto costituisce manutenzione straordinaria. Tuttavia, il contribuente che decide di farla concorrere al "bonus energia" potrà detrarre il 50% fino a 96mila euro delle altre spese sostenute (opere murarie, impiantistiche e così via). La scelta, evidentemente, dipenderà dal totale complessivamente speso per l'opera principale, oltre che da altre considerazioni "economiche" in senso lato: infissi più performanti costano di più, ma hanno un effetto diverso sulla bolletta dei consumi e sulla riqualificazione del fabbricato (compreso in confort acustico). La pratica per il 65%, inoltre, include anche l'invio telematico della documentazione all'Enea, che però per gli infissi può essere risolto anche con il fai-da-te e incide per poche centinaia di euro.
I limiti di spesa –siano essi per le ristrutturazioni, per la riqualificazione energetica– sono riferiti a unità immobiliare. Vale a dire che a nulla conta il numero dei proprietari o la durata delle opere, conseguendone che per ciascun immobile la parte di spesa detraibile va divisa per il numero dei partecipanti.
Inoltre, il limite va in ogni caso rapportato all'intero intervento a prescindere dalla durata che questo possa avere, dovendo così considerare anche le detrazioni fruite in anni precedenti o, comunque, in corso d'anno prima dell'entrata in vigore dei bonus (il 65% si applica alle spese sostenute dal 06.06.2013 e scade il 31 dicembre, tranne gli interventi sulle parti comuni condominiali o che interessino tutte le unità immobiliari dell'edificio, agevolati fino al 30.06.2014).
Tuttavia, interpretando estensivamente la disposizione, opere non direttamente collegate tra loro ed effettuate a distanza (anche breve) di tempo, possono "moltiplicare" il beneficio.
Si pensi ad un contribuente che decide di ristrutturare integralmente gli interni della propria abitazione. L'opera termina nel corso di due mesi dall'avvio. Decorso un breve arco temporale, decide di eseguire la manutenzione straordinaria dei muri esterni, modificandone l'isolamento termico, il colore e gli infissi. Di fatto, si tratta di due interventi, caratterizzati da un inizio ed una fine, per i quali sarà possibile considerare distinti tetti massimi di spesa.
Per ciò che non rientra nel bonus energetico, sarà così possibile beneficiare del 50% fino a 96mila euro per tutte le opere comprese nella ristrutturazione interna e un altro 50% fino a 96mila euro per le opere di manutenzione straordinaria. Tuttavia è fondamentale che i due interventi non siano in alcun modo collegati (medesima pratica edilizia, prosecuzione, medesimo contratto di appalto, eccetera) in quanto in caso contrario, sarebbero considerati unico lavoro "complesso" di ristrutturazione di edificio (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIPoteri dei sindaci. L'accesso dei consiglieri ai documenti va garantito.
Un sindaco aveva ordinato ai responsabili dei servizi e al segretario comunale di consentire ai consiglieri di entrare negli uffici comunali solo il lunedì (dalle 9 alle 13) e il mercoledì (dalle 16 alle 18) per accedere agli atti, esclusi gli argomenti all'ordine del giorno delle sedute del Consiglio. Alcuni consiglieri hanno impugnato l'ordine al Tar, sostenendo che non era motivato e che contrastava con l'articolo 43, comma 2, del Testo unico degli enti locali, con lo statuto e con il regolamento comunale.
Il Tar ha accolto il ricorso, considerando che: l'articolo 43, comma 2 del Testo unico riconosce ai consiglieri, senza limitazioni, il diritto di accedere e prendere visione degli atti del Comune; l'ampiezza del diritto di accesso dei consiglieri è confermato dallo statuto e dal regolamento comunale; solo il Consiglio potrebbe disciplinare in via generale l'accesso dei consiglieri; il provvedimento del sindaco è quindi viziato per incompetenza, e deve essere annullato.
Il sindaco, dunque, non può comprimere l'esercizio del diritto dei consiglieri di accedere agli atti (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIPrivatizzazioni, consulenze libere.
Le consulenze relative a processi di privatizzazione sono escluse dai limiti di spesa previsti per gli incarichi. Gli enti locali le possono quindi utilizzare per razionalizzare le proprie società partecipate.

L'articolo 1, comma 5, del Dl sul pubblico impiego ha infatti ridotto la spesa annua per studi e incarichi di consulenza (inclusi quelli conferiti a pubblici dipendenti) sostenuta dalle amministrazioni pubbliche, ma ha contestualmente escluso dal limite gli incarichi connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario.
La disposizione si pone in stretta correlazione con l'articolo 6, comma 7, della legge 122/2010, di cui replica i contenuti e che richiama, stabilendo che la riduzione va computata applicando la vecchia norma. Tuttavia, è evidente il rafforzamento della previsione rispetto al 2010. La nuova disposizione esclude in modo esplicito dalla riduzione sia le consulenze alle università e alle istituzioni di ricerca sia quelle affidate per sviluppare i processi di privatizzazione. La ratio della norma è chiara: le risorse orientate su incarichi finalizzati a facilitare le particolari operazioni permettono alle amministrazioni di conseguire risultati che potenzialmente incidono in modo positivo sulle proprie dinamiche economico-finanziarie.
Ma l'esclusione dal limite di spesa non determina altre deroghe alla disciplina delle consulenze. Pertanto, le amministrazioni locali dovranno conferire gli incarichi nel rispetto dei presupposti e degli elementi procedurali stabiliti dall'articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001 e del proprio regolamento sulle collaborazioni autonome. Inoltre, la spesa deve essere ricondotta al programma annuale degli incarichi.
Rientrano nella deroga disposta dalla Dl sul pubblico impiego le consulenze relative a processi per la cessione totale delle partecipazioni, per la costituzione di società miste con socio privato operativo o per la cessione a privati di quote societarie con finalizzazioni diverse. In termini estensivi, la disposizione può essere riferita a tutti i percorsi finalizzati a concretizzare forme di partenariato pubblico-privato di lunga durata, come le gare per l'affidamento di servizi pubblici locali che comportino una traslazione della titolarità al gestore (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODl pubblico impiego. Verso l'addio alle aziende nei Comuni sotto 30mila abitanti. Con i tagli, dipendenti in mobilità tra partecipate.
Addetti trasferibili senza che occorra il loro consenso.

La prima scadenza per intervenire sulle società partecipate si avvicina, ma il decreto legge sul pubblico impiego, approvato il 26 agosto dal Consiglio dei ministri, offre agli enti soci hanno nuovi strumenti per salvaguardare il personale.
Entro il 30 settembre i Comuni con meno di 30mila abitanti devono liquidare le società costituite o cederne le partecipazioni, secondo quanto previsto dal l'articolo 14, comma 32, della legge 122/2010 in combinazione con l'ultima norma di proroga (articolo 29, comma 11-bis, del decreto legge 216/2011). Il termine non è stato oggetto di nessuna ulteriore dilazione, quindi le amministrazioni che non possono fruire delle deroghe stabilite dalla norma (vale a dire, il raggiungimento del limite dimensionale con altri Comuni soci oppure l'avere gli ultimi tre bilanci in utile) devono attivarsi tempestivamente per almeno avviare la procedura di liquidazione o di cessione delle partecipazioni.
Per dar corso all'obbligo può essere sufficiente la deliberazione del consiglio comunale di avvio della procedura di liquidazione (che andrà a costituire atto di indirizzo ineludibile per l'assemblea della società) oppure del percorso di dismissione delle quote o delle azioni (con la precisa specificazione che, se non si conclude positivamente, l'ente si impegna a procedere a conseguente e immediata liquidazione).
Il mancato rispetto dell'obbligo comporta un intervento di verifica ed eventualmente sostitutivo da parte del prefetto. Quest'ultimo, infatti, in base all'articolo 16, comma 28, della legge 148/2011, accerta che i Comuni interessati abbiano attuato, entro il termine stabilito, quanto previsto dall'articolo 14, comma 32, della legge 122/2010. Se accerta la mancata attuazione dell'adempimento, il prefetto assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere e, qualora decorra inutilmente anche tale termine, esercita il potere sostitutivo. Se invece sussistono le condizioni per consentire il mantenimento della società partecipata, è necessario che il consiglio comunale formalizzi con un atto ricognitivo la situazione, in modo tale da evidenziarla anche di fronte all'organo di controllo.
In relazione ai procedimenti di liquidazione delle società partecipate, i problemi di maggior rilievo riguardano la situazione debitoria e la gestione delle risorse umane. Se il primo aspetto può trovare soluzione nell'attivo liquidatorio (soprattutto quando la società è ben patrimonializzata), per il personale è ora disponibile una nuova via, data da alcune disposizioni del decreto legge sul pubblico impiego.
L'articolo 3, infatti, prevede che le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni possono, sulla base di un accordo tra di esse e senza necessità del consenso del lavoratore, realizzare processi di mobilità di personale, anche in servizio alla data di entrata in vigore del decreto, in relazione al proprio fabbisogno e per finalità di riorganizzazione dei servizi, di razionalizzazione delle spese o di risanamento economico. Questo percorso comporta l'informativa alle rappresentanze sindacali operanti presso la società e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo e si applica l'articolo 2112, commi 1 e 3, del Codice civile (che disciplina il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda), mentre non può essere attuato tra le società partecipate e le pubbliche amministrazioni.
È possibile utilizzare il nuovo strumento anche nei processi di razionalizzazione delle partecipazioni che i Comuni con popolazione tra 30mila e 50mila abitanti devono realizzare entro il 31 dicembre di quest'anno, nonché nelle operazioni di totale privatizzazione o di scioglimento per le società che gestiscono servizi strumentali, che devono essere poste in essere sempre entro lo stesso termine.
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I punti chiave
01 | LA RIDUZIONE
Il Dl 78/2010 (convertito nella legge 12/2010) ha stabilito che i Comuni con meno di 30mila abitanti non possono costituire società e che quelle già esistenti devono essere liquidate. Il termine fissato dal Dl 78, vale a dire il 31.12.2012, è stato poi prorogato al 30.09.2013 dal Dl 2016/2011. Invece, sempre in base al Dl 78, i Comuni con popolazione compresa tra 30mila e 50mila abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società.
02 | I DIPENDENTI
Il Dl sul pubblico impiego ha previsto che le società controllate dalle amministrazioni pubbliche (escluse quelle quotate) possono, sulla base di un accordo tra di esse e senza necessità di acquisire il consenso del lavoratore, realizzare processi di mobilità di personale, anche già in servizio alla data di entrata in vigore del Dl. Occorre però informare i sindacati. La mobilità non può comunque avvenire tra le società partecipate e la pubblica amministrazione. (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

APPALTIAppalti, così si disinnesca la solidarietà. Anche dopo l'esclusione dell'Iva resta invariato l'iter dei controlli per evitare la responsabilità.
Le ultime modifiche confermano il regime sulle ritenute e lo estendono agli autonomi, limitando i margini riservati alla negoziazione.
Novità in chiaroscuro per le regole sulla responsabilità solidale negli appalti, il vincolo che obbliga l'appaltatore e il subappaltatore (e sul piano degli obblighi lavoristici anche il committente imprenditore), negli appalti di opere o di servizi, a rispondere in solido dei versamenti dovuti sul piano fiscale e contributivo: è l'effetto delle novità introdotte dai recenti provvedimenti legislativi, i decreti legge 69/2013 del 22 giugno (convertito dalla legge 98/2013) e 76/2013 (convertito dalla legge 99/2013).
Da un lato, infatti, l'articolo 50 del Dl 69 (il decreto del fare), ha modificato il Dl 223/2006 (articolo 35, comma 28), semplificando il regime della responsabilità solidale in campo fiscale, con la cancellazione parziale della solidarietà per quanto riguarda l'Iva a carico del subappaltatore e dell'appaltatore.
Dall'altro, invece, il Dl 76/2013 ha incluso nel vincolo solidaristico i lavoratori autonomi e ha limitato il potere regolatorio affidato dalla legge 92/2012 ai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Restando in campo fiscale, dal 22.06.2013 è previsto che, in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore risponda in solido con il subappaltatore –nei limiti dell'ammontare del corrispettivo– del versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute, ma non più del versamento dell'Iva.
La "facilitazione", sebbene abbia in parte ristretto i confini della responsabilità, non ha però cambiato il sistema dei controlli disposto dal Dl 83/2012 (convertito dalla legge 134/2012), con le misure previste dall'articolo 35, commi 28, 28-bis e 28-ter, del Dl 223/2006. I soggetti coinvolti nella filiera degli appalti devono quindi continuare ad attenersi al sistema di verifica già in vigore, mettendo in piedi tutti i rimedi a loro disposizione.
La normativa sulla solidarietà passiva tributaria negli appalti e subappalti è entrata in vigore il 12.08.2012, coinvolgendo i soggetti che avevano sottoscritto o rinnovato un contratto di appalto a partire da quella data, in aggiunta alla solidarietà retributiva e contributiva prevista dall'articolo 29 della legge Biagi.
Il Dl 223/2006 prevede un diverso grado di responsabilità e di rischio economico rispettivamente per committente e appaltatore nei confronti del subappaltatore. Nel quadro attuale, l'appaltatore si trova nella posizione di coobbligato in solido con il subappaltatore –che è il debitore principale– per le ritenute sui redditi da lavoro dipendente dovute da quest'ultimo, in relazione alle prestazioni effettuate nell'ambito del rapporto di subappalto e nel limite del corrispettivo dovuto, che non può quindi eccedere l'importo che l'appaltatore deve corrispondere al subappaltatore.
Il committente, dal canto suo, pur non essendo chiamato a rispondere per il debito erariale, deve pagare il corrispettivo all'appaltatore solo dopo aver verificato che gli adempimenti degli obblighi tributari già scaduti, relativi al versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente a carico dall'intera filiera dell'appalto, sono stati eseguiti correttamente. Nel caso in cui questi paghi il compenso senza aver prima controllato la regolarità dei versamenti, è soggetto a una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila euro.
Ma come devono procedere appaltatore e committente per verificare il puntuale pagamento degli obblighi tributari? Senza dimenticare i risvolti nell'alveo lavoristico, entrambi devono farsi rilasciare un'asseverazione predisposta dai soggetti abilitati, che attesti il corretto versamento delle ritenute fiscali inerenti il lavoro dipendente. In alternativa, l'agenzia delle Entrate ritiene valida anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (circolare 40/E/2012), resa in base al Dpr 445/2000, con cui l'appaltatore-subappaltatore attesta l'effettivo adempimento dei versamenti.
La circolare 2/E/2013 ha precisato che –in caso di più contratti tra le stesse parti– la certificazione può essere rilasciata in modo unitario e può essere fornita anche con cadenza periodica, purché, al momento del pagamento, si attesti la regolarità dei versamenti delle ritenute.
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La tutela si estende ai collaboratori.
Sul fronte lavoristico, la responsabilità solidale negli appalti è stata ritoccata dal decreto sull'occupazione, il Dl 76/2013. L'articolo 9 estende la solidarietà prevista dall'articolo 29 del Dlgs 276/2003 anche ai compensi e agli obblighi di natura contributiva e assicurativa in favore di lavoratori con contratti di natura autonoma, fatta eccezione per gli appalti stipulati dalla pubblica amministrazione.
È un intervento che va –di fatto– a dare una veste normativa a quanto già affermato dalla prassi. La circolare 5/2011 del ministero del Lavoro, infatti, facendo riferimento allo stesso articolo 29 della legge Biagi (che usava genericamente il termine «lavoratori») aveva indicato come beneficiari delle tutele poste dal regime della responsabilità solidale non soltanto i lavoratori subordinati ma anche gli altri soggetti impiegati nell'appalto con diverse tipologie contrattuali, come i collaboratori a progetto e gli associati in partecipazione. Anche l'Inps, nella circolare 106/2012, aveva ribadito lo stesso principio.
Questo consiste nell'obbligazione in solido che il committente imprenditore o datore di lavoro ha con l'appaltatore, e con gli eventuali subappaltatori, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e contributivi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del lavoro, entro due anni dalla cessazione dell'appalto.
Il decreto 76/2013, dal 28 giugno scorso, fa scattare la solidarietà anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori autonomi. Con la circolare 35/2013, il ministero del Lavoro ha chiarito che il riferimento della norma si limita ai collaboratori coordinati e continuativi e ai collaboratori a progetto impiegati nell'appalto, e non anche ai lavoratori autonomi che sono tenuti in via esclusiva ad assolvere i relativi oneri.
Anche questi soggetti godono dunque delle tutele già previste per i lavoratori dipendenti: la prima riguarda il compenso, l'altra è di natura contributiva. Quest'ultima, nell'ipotesi dei lavoratori cosiddetti parasubordinati, si traduce nell'obbligo di versare la contribuzione alla gestione separata, laddove sia dovuta.
Chi appalta deve quindi rispettare i presupposti di legge, anche per evitare rivendicazioni dai lavoratori impiegati nell'appalto: questi, infatti, possono proporre azione diretta nei confronti del committente perché risponda in solido con l'appaltatore, e con gli eventuali subappaltatori, dei trattamenti retributivi e previdenziali dovuti (sia contributivi e assistenziali, sia assicurativi).
Il limite temporale di due anni per far valere la responsabilità solidale per il pagamento dei debiti è un termine di decadenza per l'esercizio dei relativi diritti, sia per i lavoratori, sia per gli enti previdenziali. Sulle somme per le quali il committente è chiamato a rispondere in solido, il ministero del Lavoro (circolare 2/2012) ha precisato che, in seguito alla modifica apportata dal Dl 5/2012, il regime di solidarietà non si applica alle sanzioni civili.
Per cercare di evitare la corresponsabilità, bisogna adottare tutte le verifiche possibili sulla regolarità dei soggetti coinvolti nella filiera: ad esempio, richiedendo il Durc ma anche attraverso altre verifiche formali (l'iscrizione al registro imprese, il modello di comunicazione preventiva obbligatoria, e così via).
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Spazio ai Ccnl solo sul fronte retributivo.
Il decreto 76/2013 (articolo 9) opera una vera e propria compressione dell'autonomia negoziale sugli appalti, in virtù della quale la legge 92/2012 aveva affidato ai contratti collettivi nazionali di lavoro la possibilità di individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti.
Il Dl 76/2013, infatti, ha limitato il raggio d'azione dei Ccnl, rispetto a quanto disciplinato dalla riforma del lavoro, che era intervenuta sull'articolo 29 del Dlgs 276/2003 introducendo una «clausola di riserva»: seguendo un orientamento già espresso dal ministero del Lavoro con la lettera circolare del 22.04.2013, le eventuali disposizioni contrattuali potranno disporre la propria efficacia esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto (o nel subappalto), con l'esclusione di qualsiasi conseguenza sul regime di solidarietà sui contributi previdenziali e assicurativi.
In pratica, dall'entrata in vigore del decreto Lavoro, l'obbligazione solidale tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori può essere inibita (esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto/subappalto) se i contratti collettivi nazionali di lavoro -sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore- dispongano diversamente, individuando metodi e procedure di controllo della regolarità degli appalti, senza poter però incidere sul regime della contribuzione dovuta per il periodo di esecuzione del contratto.
Peraltro, tenendo conto che spesso le imprese della filiera non applicano lo stesso contratto collettivo, non è chiaro se il Ccnl che preveda regole ad hoc debba essere quello applicato dall'appaltante o dall'appaltatore.
Nell'attribuzione ai Ccnl del compito di individuare procedure specifiche di verifica della regolarità rientra anche la disciplina del coinvolgimento dei soggetti della filiera per incapienza dei beni di chi esegue l'opera, in caso di contenzioso nella materia.
In base a quest'ultima disposizione, il debitore solidale (committente imprenditore o datore di lavoro), chiamato a rispondere in sede giudiziale del pagamento insieme con l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori, può proporre un'eccezione con la quale chiede che sia preventivamente escusso il patrimonio di questi ultimi. In queste ipotesi, sebbene il giudice accerti la responsabilità solidale, l'azione esecutiva può essere promossa nei confronti del committente solo dopo che l'esecuzione verso il patrimonio del responsabile abbia dato esito infruttuoso. Inoltre, la norma conferma una procedura già esperibile nei casi di responsabilità solidale, che consiste nella possibilità da parte del committente, chiamato a rispondere al posto del responsabile, di richiedere la restituzione di quanto pagato attraverso l'azione di regresso (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 11, comma secondo, L. n. 10/1977 (il cui contenuto risulta trasfuso nell’articolo 16, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001), infatti, <<la quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del rilascio della concessione>>.
Alla luce di tale inequivoca disposizione, pertanto, la disciplina normativa applicabile per la determinazione degli oneri di urbanizzazione non può essere quella vigente all’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio, ma quella vigente alla data di rilascio della concessione in sanatoria.
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Non sussiste la dedotta censura di incompetenza, né che si faccia riferimento alla disciplina generale di cui all’articolo 32 della legge n. 142/1990, né a quella particolare in materia di determinazione degli oneri concessori (di cui all’art. 7 della legge n. 537/1993).
In relazione alla prima norma, si deve infatti evidenziare che la stessa attribuisce alla competenza del consiglio comunale una serie di atti fondamentali, riservando alla competenza residuale della giunta municipale tutti quelli non espressamente attribuiti al primo.
Orbene, a prescindere da ogni questione sulla natura tributaria o meno degli oneri di urbanizzazione (che peraltro non è assolutamente pacifica né in dottrina, né giurisprudenza, laddove gli stessi vengono configurati come <<corrispettivi di diritto pubblico, di natura non tributaria>>, si deve osservare che comunque, ai sensi dell’articolo 32, comma secondo, lett. g), L. n. 142/1990, il semplice aggiornamento tariffario non rientra tra le competenze del consiglio comunale, per cui deve ritenersi attribuito alla competenza della giunta municipale.
In relazione alla seconda norma (riguardante specificamente la materia dell’aggiornamento ed adeguamento dei contributi concessori), si deve parimenti rilevare che la stessa non riproduce la previsione di cui all’art. 10, comma primo, L. n. 10/1977 (che attribuisce alla competenza del consiglio comunale la determinazione di tali oneri, in base a parametri stabiliti dalla Regione), ma si limita ad affermare che gli oneri di urbanizzazione <<sono aggiornati ogni quinquennio dai comuni ….>>, senza alcuna ulteriore specificazione circa l’organo comunale competente, per cui si deve ritenere che (coerentemente con la previsione di carattere generale di cui all’art. 32 L. n. 142/1990), tale funzione spetti alla competenza (residuale) della giunta municipale.

1. Il ricorso, come già ritenuto da questo Tribunale in sede cautelare, è fondato nei soli limiti in cui è diretto a contestare la legittimità della richiesta, contenuta nei provvedimenti impugnati, di pagamento del costo di costruzione, per la somma di lire 2.899.000.
È invece infondato, e deve essere respinto, nella residua parte (concernente gli oneri di urbanizzazione nell’importo richiesto di lire 4.412.000).
In relazione alla illegittimità della richiesta di pagamento del costo di costruzione, si deve infatti osservare che, nella specie, si tratta pacificamente di manufatto avente destinazione industriale, per il quale sono quindi dovuti i soli oneri di urbanizzazione.
Al riguardo, non può sussistere alcun dubbio, alla luce del chiaro tenore testuale dell’invocata disposizione normativa di cui all’articolo 10, comma primo, L. n. 10/1977 (il cui contenuto risulta ora trasfuso nell’articolo 19, comma primo, D.P.R. n. 380/2001), secondo cui <<La concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla presentazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. …>>.
In tal senso, del resto, depone il convergente orientamento della giurisprudenza di questa Sezione (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 07/01/2010, n. 9), nonché del Supremo Consesso della giustizia amministrativa (cfr. C.d.S., Sez. V, 19/06/2012, n. 3561).
Per quanto riguarda invece il pagamento degli oneri di urbanizzazione, si deve osservare che l’intimata amministrazione comunale, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte ricorrente, ha fatto correttamente riferimento alle applicate delibere di aggiornamento del Commissario Prefettizio e della Giunta Municipale (rispettivamente, n. 7/94 e n. 91/95) e non alla deliberazione del Consiglio Regionale n. 119/1 del 28.07.1977.
Ai sensi dell’art. 11, comma secondo, L. n. 10/1977 (il cui contenuto risulta trasfuso nell’articolo 16, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001), infatti, <<la quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del rilascio della concessione>>.
Alla luce di tale inequivoca disposizione, pertanto, la disciplina normativa applicabile per la determinazione degli oneri di urbanizzazione non può essere quella vigente all’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio, ma quella vigente alla data di rilascio della concessione in sanatoria (cfr., in tali sensi, C.G.A.R.S., 21.03.2007, n. 244, secondo cui <<Il contributo di urbanizzazione ex art. 11, comma 2, l. 28.01.1977 n. 10, deve essere determinato al momento del rilascio della concessione ed è quindi a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione dell'entità del contributo facendo perciò applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del provvedimento concessorio>>).
Correttamente, pertanto, il Comune di Brusciano ha fatto riferimento alla normativa vigente alla data della richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione di cui alla nota sindacale n. 9318 del 30.06.1998 (vale a dire, per l’appunto, alla delibera del commissario prefettizio n. 7/94 ed alla delibera della giunta municipale n. 91/95).
Tali delibere non sono state dunque applicate retroattivamente ad una fattispecie pregressa (come dedotto con la terza e la quarta censura), ma ad una situazione determinatasi successivamente alla loro adozione, per cui non vi è alcuna violazione del principio di irretroattività degli atti amministrativi.
Inoltre, contrariamente a quanto denunciato con la seconda censura, l’amministrazione ha esplicitato i parametri utilizzati per la quantificazione degli oneri concessori, individuandoli nelle tabelle parametriche regionali ed in quelli indicati dalla delibera di Giunta Comunale n. 91/95 (cfr. nota prot. n. 14343 del 07/10/1998, in atti), ed ha altresì chiarito che si è tenuto conto degli acconti eventualmente versati (laddove la richiesta di pagamento risulta effettuata <<a saldo>> degli oneri dovuti, come espressamente indicato nell’impugnata nota sindacale n. 9318 del 30.06.1998).
Non sussiste, infine, la dedotta censura di incompetenza (di cui al quinto ed ultimo motivo di ricorso), né che si faccia riferimento alla disciplina generale di cui all’articolo 32 della legge n. 142/1990, né a quella particolare in materia di determinazione degli oneri concessori (di cui all’art. 7 della legge n. 537/1993).
In relazione alla prima norma, si deve infatti evidenziare che la stessa attribuisce alla competenza del consiglio comunale una serie di atti fondamentali, riservando alla competenza residuale della giunta municipale tutti quelli non espressamente attribuiti al primo.
Orbene, a prescindere da ogni questione sulla natura tributaria o meno degli oneri di urbanizzazione (che peraltro non è assolutamente pacifica né in dottrina, né giurisprudenza, laddove gli stessi vengono configurati come <<corrispettivi di diritto pubblico, di natura non tributaria>>: cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 02.03.2012, n. 355; TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 700/2011; TAR Puglia, Bari, sez. III, 10.02.2011, n. 243), si deve osservare che comunque, ai sensi dell’articolo 32, comma secondo, lett. g), L. n. 142/1990, il semplice aggiornamento tariffario non rientra tra le competenze del consiglio comunale, per cui deve ritenersi attribuito alla competenza della giunta municipale (cfr. C.d.S., sez. V, 13.03.2002, n. 1491).
In relazione alla seconda norma (riguardante specificamente la materia dell’aggiornamento ed adeguamento dei contributi concessori), si deve parimenti rilevare che la stessa non riproduce la previsione di cui all’art. 10, comma primo, L. n. 10/1977 (che attribuisce alla competenza del consiglio comunale la determinazione di tali oneri, in base a parametri stabiliti dalla Regione), ma si limita ad affermare che gli oneri di urbanizzazione <<sono aggiornati ogni quinquennio dai comuni ….>>, senza alcuna ulteriore specificazione circa l’organo comunale competente, per cui si deve ritenere che (coerentemente con la previsione di carattere generale di cui all’art. 32 L. n. 142/1990), tale funzione spetti alla competenza (residuale) della giunta municipale.
In conclusione, il ricorso in esame è fondato nei soli suindicati limiti (concernenti la richiesta di pagamento del costo di costruzione per la somma di lire 2.899.000) ed entro tali limiti deve essere accolto, con conseguente annullamento, in parte qua, dell’impugnata nota sindacale prot. n. 9318 del 30.06.1998 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.09.2013 n. 4206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe controversie relative al pagamento di contributi per il rilascio delle concessioni edilizie riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario e non interessi legittimi: esse non sottostanno, pertanto, ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione che, nel caso di contributi di concessione, risultano essere decennali.
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Il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.

... per l'accertamento del diritto delle Società ricorrenti alla restituzione degli importi dalle stesse corrisposti al Comune di Cattolica per oneri di urbanizzazione e monetizzazione di due posti auto per il rilascio del permesso di costruire per il cambio di destinazione d'uso da "commercio al dettaglio" - B 2.1- ad “artigianato dei servizi alla persona" B3.1 di n. 2 unità immobiliari ubicate in Cattolica;
...
Le società ricorrenti, rispettivamente proprietaria del fabbricato e conduttrice dell’immobile, presentavano una richiesta di rilascio di permesso di costruzione per ottenere il cambio di destinazione d’uso da “negozio” a “centro benessere-solarium”.
Su richiesta del Comune provvedevano al pagamento della somma quantificata dallo stesso per “monetizzazione” di numero due posti auto “P3”.
Ritenendo non dovuto il pagamento dei suddetti oneri con il presente ricorso hanno chiesto la restituzione delle somme pagate, oltre agli interessi legali.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato che ha controdedotto alle avverse doglianze, ed ha eccepito l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili e, comunque, concluso per il rigetto dello stesso.
La causa è stata trattenuta in decisione all’odierna udienza.
Va, preliminarmente, respinta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, sulla quale insiste il comune con la memoria di costituzione in quanto il pagamento non sarebbe stato effettuato dagli attuali ricorrenti.
Va, infatti, rilevato che la richiesta del permesso di costruzione è stata avanzata dall’attuale ricorrente così come il titolo edilizio è stato alla stessa rilasciato.
Anche il pagamento degli oneri quantificati dal Comune, quale condizione per il rilascio del titolo edilizio, è stato richiesto all’attuale ricorrente.
La circostanza che il pagamento sia avvenuto, su incarico dei ricorrenti e, quindi, quale pagamento riferibile alle società ricorrenti (quindi in nome e per conto), accettato dal Comune, da parte di una terza società (che le ricorrenti indicano quale conduttrice) non significa che il pagamento non sia riferibile, quale pagamento rappresentativo, ai titolare del permesso di costruzione ai quali, quindi, spetta l’azione per la restituzione di quanto eventualmente indebitamente corrisposto.
Va, altresì, respinta l’eccezione di tardività dell’azione proposta. Infatti, le controversie relative al pagamento di contributi per il rilascio delle concessioni edilizie riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e non interessi legittimi: esse non sottostanno, pertanto, ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione (Cons. di Stato, Sez. IV, 04.11.2011, n. 5852 e Sez. V, 06.12.1999, n. 2056) che, nel caso di contributi di concessione, risultano essere decennali (Consiglio di Stato, sez. VI, 31.05.2013, n. 2996).
A tal fine, pertanto, è perfettamente ammissibile l’utilizzo dello strumento processuale dell’azione di accertamento (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e della conseguente condanna la restituzione degli importi eventualmente dovuti perché indebitamente pagati.
Nel merito in linea di diritto va osservato che, per costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; TAR Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.
Nel caso concreto, come previsto nel titolo edilizio, il cambio di destinazione è avvenuto dalla categoria B2.1. “Commercio al dettaglio”, alla categoria B3.1. “Artigianato dei servizi alla persona” per i quali è prevista la dotazione di parcheggi pertinenziali (P2 e P3).
L’articolo 3.3. delle Norme di Attuazione del PRG, prodotte in giudizio dal Comune, per quanto concerne la tabella di parcheggi pertinenziali, oggetto del presente giudizio, non prevede alcun incremento del carico urbanistico essendo previsto “1 p.a. ogni 40 mq. Di SC, tutti di tipo P3” per entrambi gli usi.
E’, infatti, lo stesso titolo edilizio che richiede la monetizzazione di due posti auto P3 per il cambio di destinazione d’uso in parola.
Come rilevato dalla giurisprudenza (TAR Bologna, sez. I, 239/2012), al cambio di destinazione d’uso segue la corresponsione di un contributo di urbanizzazione pari alla differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli eventualmente più elevati della nuova destinazione d’uso, risolvendosi altrimenti la riscossione di una somma maggiore in un pagamento privo di causa.
Poiché nel caso in esame tale presupposto non ricorre, non essendo previsti per i parcheggi P3, per il cambio di destinazione in parola, alcun incremento di carico urbanistico, sussiste l’obbligo di restituzione ai ricorrenti di quanto versato a tale titolo.
Detta somma andrà, poi, incrementata degli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.12.2006 n. 2901) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 06.09.2013 n. 601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa tesi della ricorrente, che peraltro trova supporto in talune pronunce risalenti dei giudici amministrativi, ritiene che la mancata immediata escussione del fideiussore da parte del Comune integri la fattispecie di sottrazione del creditore all'obbligo di cui all'art. 1227 Cod. Civ., che impone a questa parte contrattuale di non aggravare la posizione debitoria della controparte. Secondo tale tesi, quindi, il Comune non può irrogare le sanzioni ex art. 3 della L. n. 47 del 1985, senza prima avere prontamente esercitato -relativamente a ciascun versamento di contributi non effettuato nel termine previsto- la relativa garanzia fideiussoria, in modo da limitare il danno per il titolare del permesso di costruire e soprattutto consentire all'amministrazione comunale procedente il pronto soddisfacimento del proprio credito mediante l'immediata attivazione della fideiussione "a prima richiesta".
Al suddetto orientamento giurisprudenziale si oppone, però, un contrapposto e altrettanto consistente indirizzo, che si è ormai consolidato, a cui il Collegio aderisce, ritenendolo logicamente e giuridicamente più persuasivo e, quindi, maggiormente condivisibile, secondo il quale l'obbligo di collaborazione di cui all'art. 1227 Cod. Civ. deve ritenersi estraneo all'ambito sanzionatorio amministrativo, con la conseguenza che anche la prestazione di garanzia "a prima richiesta", da parte del debitore principale, oltre a non vincolare in alcun modo l'amministrazione comunale ad escutere immediatamente dal fideiussore il credito o la singola rata appena dopo la scadenza, tanto meno esime il debitore dal tenere un comportamento contrattuale diligente nell'estinguere tempestivamente il proprio debito "portabile" presso il domicilio del creditore, senza che il medesimo possa pertanto giovarsi del mero comportamento inerte tenuto dall'amministrazione. Sotto altro profilo della stessa questione, si deve rilevare che detto dovere di diligenza non risulta in alcun modo attenuato dalla prestazione della fideiussione, in quanto tale strumento giuridico non è oggettivamente diretto ad agevolare l'adempimento del debitore, bensì a costituire un'ulteriore garanzia personale in favore e nell'esclusivo interesse del creditore.
Tale orientamento è ormai condiviso anche dal Consiglio di Stato il quale ha sottolineato che tale dovere non può farsi discendere dal richiamo all'art. 1227 cod. civ., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria.

La società ricorrente riferisce di essere proprietaria di un’antica stazione di posta e di aver chiesto una concessione edilizia per il restauro conservativo e per il risanamento del fabbricato effettuando il versamento del 50% degli oneri concessori pretesi e garantendo il pagamento del residuo con un’apposita fideiussione.
Nel corso dell’intervento veniva richiesta una variante in relazione alla quale venivano determinati i nuovi oneri concessori e venivano pagati nella misura del 50% garantendo anche in questo caso il pagamento del residuo con un’apposita fideiussione bancaria.
La società omise il versamento del 50% degli oneri concessori garantiti con la fideiussione ed il comune con il provvedimento in epigrafe indicato ne ha preteso il pagamento nonché l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 3 della legge numero 47 del 1985, comportante raddoppio del dovuto.
La società ricorrente ha adito il Tar impugnando il provvedimento in epigrafe indicato e contestando l’applicazione delle sanzioni.
L’amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.
Il ricorrente ha sviluppato le proprie difese con separata memoria e la causa è stata trattenuta in decisione all’odierna udienza.
Il ricorso è infondato.
La tesi della ricorrente, che peraltro trova supporto in talune pronunce risalenti dei giudici amministrativi, ritiene che la mancata immediata escussione del fideiussore da parte del Comune integri la fattispecie di sottrazione del creditore all'obbligo di cui all'art. 1227 Cod. Civ., che impone a questa parte contrattuale di non aggravare la posizione debitoria della controparte.
Secondo tale tesi, quindi, il Comune non può irrogare le sanzioni ex art. 3 della L. n. 47 del 1985, senza prima avere prontamente esercitato -relativamente a ciascun versamento di contributi non effettuato nel termine previsto- la relativa garanzia fideiussoria, in modo da limitare il danno per il titolare del permesso di costruire e soprattutto consentire all'amministrazione comunale procedente il pronto soddisfacimento del proprio credito mediante l'immediata attivazione della fideiussione "a prima richiesta" (v. in termini: Cons. Stato., sez. V, 03/07/1995 n. 1001).
Al suddetto orientamento giurisprudenziale si oppone, però, un contrapposto e altrettanto consistente indirizzo, che si è ormai consolidato, a cui il Collegio aderisce (TAR Bologna Emilia Romagna sez. II, 26.02.2010, n. 1666), ritenendolo logicamente e giuridicamente più persuasivo e, quindi, maggiormente condivisibile, secondo il quale l'obbligo di collaborazione di cui all'art. 1227 Cod. Civ. deve ritenersi estraneo all'ambito sanzionatorio amministrativo, con la conseguenza che anche la prestazione di garanzia "a prima richiesta", da parte del debitore principale, oltre a non vincolare in alcun modo l'amministrazione comunale ad escutere immediatamente dal fideiussore il credito o la singola rata appena dopo la scadenza, tanto meno esime il debitore dal tenere un comportamento contrattuale diligente nell'estinguere tempestivamente il proprio debito "portabile" presso il domicilio del creditore, senza che il medesimo possa pertanto giovarsi del mero comportamento inerte tenuto dall'amministrazione. Sotto altro profilo della stessa questione, si deve rilevare che detto dovere di diligenza non risulta in alcun modo attenuato dalla prestazione della fideiussione, in quanto tale strumento giuridico non è oggettivamente diretto ad agevolare l'adempimento del debitore, bensì a costituire un'ulteriore garanzia personale in favore e nell'esclusivo interesse del creditore (Cons. Stato, sez. V, 16/07/2007, n. 4025; sez. V, 24/03/2005 n. 1250; TAR Lombardia -BS- 11/09/2009 n. 1688; TAR Campania -SA- sez. II, 14/04/2008 n. 721; TAR Emilia Romagna -BO- Sez. II, 12/05/2004 n. 645; TAR Abruzzo -PE- 19/06/2003 n. 586).
Tale orientamento è ormai condiviso anche dal Consiglio di Stato il quale ha sottolineato che tale dovere non può farsi discendere dal richiamo all'art. 1227 cod. civ., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2012, nr. 4320; Cons. Stato, sez. V, 24.03.2005, nr. 1250; id., 11.11.2005, nr. 6345; id., 16.07.2007, nr. 4025, Consiglio di Stato sez. IV, 19.11.2012, n. 5818) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 06.09.2013 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Cassazione. Scattano le sanzioni per gli incidenti se il proprietario della casa sovraintende alle operazioni.
Lavori, responsabilità divisa. Determinante verificare chi dirige gli interventi di ristrutturazione.
Il proprietario dell'appartamento che chiama una ditta per ristrutturarlo non è corresponsabile per la morte dell'operaio, se non ha interferito nella direzione dei lavori, limitando l'autonomia della società edile.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 05.09.2013 n. 36398, fa chiarezza sulle responsabilità che il Dlgs 494/1996 addossa al committente. E la fa in favore dei ricorrenti, condannati per omicidio colposo nei primi due gradi di giudizio.
I giudici di merito avevano inflitto una pena pesante ai proprietari contestandogli la violazione delle norme anti infortunistiche. A farne le spese era stato un operaio morto dopo essere caduto, mentre trasportava una tavola di legno, dalle scale, prive di parapetto. Per il tribunale di prima istanza e per la Corte i committenti avrebbero omesso una serie di azioni di loro competenza. A cominciare dalla verifica della corretta applicazione delle norme di sicurezza, dovevano poi: non consentire l'utilizzo di un ponteggio non a norma, nominare un coordinatore alla sicurezza e verificare l'idoneità della ditta. Per la Cassazione si tratta di oneri eccessivi non richiesti dalla norma di riferimento.
I giudici della quarta sezione penale ricordano che la figura del committente è stata considerata solo con il Dlgs 494/1996.
Il committente deve essere considerato corresponsabile per omicidio colposo, con l'appaltatore e il direttore dei lavori, se c'è una relazione tra la sua azione od omissione e l'evento mortale. Questo avviene quando dà direttive o chiede la realizzazione di progetti pericolosi o consente l'inizio dei lavori in situazioni di rischio. C'è responsabilità anche quando il cantiere è gestito dall'appaltante o se la ditta utilizza strutture di supporto e strumenti di proprietà del committente e l'infortunio è determinato dall'inefficienza dell'attrezzatura.
Nel caso specifico la Cassazione rinvia alla Corte d'Appello per chiedergli di chiarire quali di questi obblighi siano venuti meno. Secondo i giudici non c'era, ad esempio, il dovere di nominare un coordinatore per la progettazione, previsto solo in caso di cantieri di grandi dimensioni o di affidamento di lavori a più imprese. Non c'è un obbligo neppure di indicare un direttore dei lavori, essendo una facoltà concessa al committente che vuole sottrarsi agli obblighi di legge.
Per finire la Cassazione esclude anche l'incidenza nel verificarsi dell'evento, di una mancata previsione sulla durata e le fasi dei lavori. Per quello che riguarda l'omesso rispetto dell'articolo 3 della legge 626/1994 sulla sicurezza lavoro, nella fase di progettazione dell'opera, la Cassazione specifica che «la norma persegue l'obiettivo di far adottare scelte progettuali più sicure e non può confondersi con l'adozione di misure "speciali" quali la dotazione dei ponteggi di tavole fermapiede e parapetti».
A parere dei giudici nulla fa supporre che i proprietari dell'appartamento abbiano interferito nell'organizzazione del cantiere o nell'esecuzione dei lavori. Con una sentenza 14207 del 5 giugno scorso la Cassazione ha affermato la responsabilità del committente, per non aver adottato le misure necessarie a tutelare l'integrità del lavoratore morto, anche se dipendente dell'impresa appaltatrice (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAL’attività di autonoleggio va ascritta a quelle attività di produzione di servizi per la mobilità privata: la quale, come accade per la società appellante, operante sull’intero territorio nazionale, si realizza attraverso una complessa organizzazione imprenditoriale di mezzi e di personale con la quale si consente agli utenti di disporre di mezzi di trasporto, con o senza conducente, sulla base di un articolato tariffario giornaliero e/o chilometrico.
Circa la natura dell’attività esercitata, l’attività di autonoleggio, così come riconosciuto da condivisa giurisprudenza, va ascritta a quelle attività di produzione di servizi per la mobilità privata: la quale, come accade per la società appellante, operante sull’intero territorio nazionale, si realizza attraverso una complessa organizzazione imprenditoriale di mezzi e di personale con la quale si consente agli utenti di disporre di mezzi di trasporto, con o senza conducente, sulla base di un articolato tariffario giornaliero e/o chilometrico.
Diversamente dall’attività c.d. commerciale, dunque, la posizione dell’organizzazione imprenditoriale de qua rileva non per agevolare esclusivamente o prevalentemente la semplice circolazione e/o distribuzione di beni già individuati quanto a tipologia merceologica, ma determina la produzione di un nuovo bene, risultante dalla specificazione del complesso di attività materiali ed immateriali organizzate dall’impresa per la sua elaborazione, che l’utente acquista e può utilizzare al “servizio” del proprio bisogno di trasporto (personale, di rappresentanza, ecc.), unitamente con il complesso di utilità che solitamente fanno da corredo alla messa a disposizione dell’autoveicolo (conducente, tipologia di vettura, possibilità di sostituzione in caso di incidente, ecc.), senza che abbia rilievo, come sembra credere il primo Giudice, che la stessa impresa possa procedere periodicamente alla cessione (vendita, permuta, o altra formula di dismissione), dei veicoli ritenuti ormai non più adatti allo svolgimento ottimale dei servizi di trasporto per i quali sono stati acquisiti: sicché, senza prova alcuna che trattasi di attività prevalente, diversamente da quanto sembra opinare il primo Giudice, anche l’attività di dismissione così esercitata finisce per corroborare i tratti fisionomici dell’attività esercitata dalla Sicily by Car s.p.a. come attività industriale produttrice di servizi: in linea, così, con la definizione tipologica fornita dall’art. 2195 c.c., nonché correttamente rappresentato nello statuto della società e dal certificato rilasciato dall’Associa-zione industriali.
Dai superiori rilievi consegue, allora, che l’edificio autorizzato con la concessione edilizia n. 20/2007, per il fatto di essere destinato ad “uffici della Sicily by Car s.p.a.”, secondo la richiesta avanzata dalla stessa impresa, in considerazione della tipologia di attività esercitata doveva essere correttamente incluso, ai fini dell’applicazione dell’aliquota per il calcolo del contributo dovuto, nella categoria degli “insediamenti industriali” prevista dall’art. 45 della legge reg. n. 71/1978, e non già in quello delle attività commerciali, come erroneamente ritenuto dal primo Giudice: il quale, per il calcolo degli oneri di urbanizzazione sembra aver considerato -impregiudicata ogni altra considerazione sulla effettiva corrispondenza con quanto stabilito per le aree “C 4” dallo stesso PRG del Comune di Carini- piuttosto la destinazione dell’area, e non già, come avrebbe dovuto, la destinazione dell’edificio, così come determinata dalla tipologia industriale dell’attività esercitata dall’impresa (CGARS, sentenza 05.09.2013 n. 741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe informazioni prefettizie antimafia possono essere ricondotte alle seguenti tre tipologie:
a) quelle ricognitive di cause di per sé interdittive, di cui all'art. 4, comma 4, D.L.vo 08.08.1994 n. 490;
b) quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del Prefetto ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998;
c) quelle supplementari (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell'Amministrazione destinataria dell'informativa, prevista dall'art. 1-septies D.L. 06.09.1982 n. 629.
Come è noto, l’informativa atipica non ha carattere interdittivo ma –atteggiandosi quale atto endoprocedimentale- consente l'attivazione da parte dell'Amministrazione che ne è destinataria degli ordinari strumenti di discrezionalità, al fine di valutare l'avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali in atto in relazione all'idoneità morale del privato, con il quale ha intrattenuto o intende intrattenere rapporti che introducano oneri a carico delle risorse pubbliche.
Diversamente, l’informativa tipica -una volta accertati da parte del Prefetto i presupposti previsti dall'art. 4, comma 4, D.L.vo 08.08.1994 n. 490 ed in particolare la sussistenza di tentativi di infiltrazioni criminali tendenti a condizionare le scelte della società o dell'impresa– ha un effetto sostanzialmente preclusivo di ulteriori rapporti negoziali con le Amministrazioni appaltanti ed in pratica determina in capo all’impresa una situazione generale di incapacità a contrarre nei confronti di qualsivoglia stazione appaltante.
Dal momento che l’informativa tipica induce dunque a carico dell’impresa prevenuta una sorta di status negativo, non è ragionevolmente ipotizzabile che il Prefetto possa formulare una informativa positiva nei confronti di un soggetto imprenditoriale tuttora gravato aliunde da una informativa negativa valida ed efficace.
In sostanza, non è giuridicamente ipotizzabile che il Prefetto possa consentire ad una impresa, già gravata da informativa tipica in relazione ad un appalto, di conseguire nel prosieguo un diverso appalto.
Quindi, dal punto di vista ordinamentale, l’adozione di una informativa favorevole nei confronti di una impresa assorbe ogni precedente valutazione prefettizia tipica di stampo negativo riferita allo stesso soggetto.

Come ha da tempo chiarito la giurisprudenza anche di questo Consiglio le informazioni prefettizie antimafia possono essere ricondotte alle seguenti tre tipologie:
a) quelle ricognitive di cause di per sé interdittive, di cui all'art. 4, comma 4, D.L.vo 08.08.1994 n. 490;
b) quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del Prefetto ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998;
c) quelle supplementari (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell'Amministrazione destinataria dell'informativa, prevista dall'art. 1-septies D.L. 06.09.1982 n. 629 (cfr. ex multis CGA n. 227 del 2012).
Come è noto, l’informativa atipica non ha carattere interdittivo ma –atteggiandosi quale atto endoprocedimentale- consente l'attivazione da parte dell'Amministrazione che ne è destinataria degli ordinari strumenti di discrezionalità, al fine di valutare l'avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali in atto in relazione all'idoneità morale del privato, con il quale ha intrattenuto o intende intrattenere rapporti che introducano oneri a carico delle risorse pubbliche.
Diversamente, l’informativa tipica -una volta accertati da parte del Prefetto i presupposti previsti dall'art. 4, comma 4, D.L.vo 08.08.1994 n. 490 ed in particolare la sussistenza di tentativi di infiltrazioni criminali tendenti a condizionare le scelte della società o dell'impresa– ha un effetto sostanzialmente preclusivo di ulteriori rapporti negoziali con le Amministrazioni appaltanti ed in pratica determina in capo all’impresa una situazione generale di incapacità a contrarre nei confronti di qualsivoglia stazione appaltante.
Dal momento che l’informativa tipica induce dunque a carico dell’impresa prevenuta una sorta di status negativo, non è ragionevolmente ipotizzabile che il Prefetto possa formulare una informativa positiva nei confronti di un soggetto imprenditoriale tuttora gravato aliunde da una informativa negativa valida ed efficace.
In sostanza, come efficacemente nota l’Azienda, non è giuridicamente ipotizzabile che il Prefetto possa consentire ad una impresa, già gravata da informativa tipica in relazione ad un appalto, di conseguire nel prosieguo un diverso appalto.
Quindi, dal punto di vista ordinamentale, l’adozione di una informativa favorevole nei confronti di una impresa assorbe ogni precedente valutazione prefettizia tipica di stampo negativo riferita allo stesso soggetto.
Di talché, venendo al caso all’esame, non è rilevante la circostanza che il Prefetto nel rendere l’informativa finale favorevole abbia fatto riferimento soltanto all’informativa negativa del 2009, in quanto in chiave sistematica il rilascio della informativa favorevole non può che assorbire e superare, come si è detto, ogni precedente valutazione pregiudizievole formulata nei confronti dello stesso soggetto imprenditoriale.
Tanto chiarito sul punto nodale dell’odierna controversia, non sembra poi a questo Collegio che la nuova (e favorevole) determinazione prefettizia esibisca quei profili disfunzionali che l’impresa appellante tenta di lumeggiare.
In sostanza, secondo la Difesa dell’appellante, il provvedimento sarebbe intrinsecamente contraddittorio in quanto l’Autorità prefettizia avrebbe modificato il proprio precedente orientamento senza che medio tempore fossero intervenuti fatti nuovi o risultanze investigative ulteriori rispetto a quelle che avevano fondato il precedente negativo giudizio nei confronti dell’impresa appellata.
In proposito conviene innanzi tutto ricordare che, come posto in luce dalla univoca giurisprudenza anche di questo Consiglio, la discrezionalità delle valutazioni attribuita al Prefetto in sede di emissione dell'informativa antimafia è particolarmente ampia ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità, con riferimento al significato attribuito agli elementi di fatto e all'iter seguito per pervenire a certe conclusioni (cfr. CGA n. 130 del 2012) (CGARS, sentenza 05.09.2013 n. 740 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Requisiti di moralità professionale, con meno di quattro soci maggioranza a chi ha il 50+1 economico.
L'obbligo di rendere la dichiarazione circa il ossesso del requisito della moralità professionale da parte del socio di maggioranza in ipotesi di società con meno di quattro soci, da Codice dei contratti pubblici, incombe in via esclusiva su quel socio che detenga la maggioranza del capitale sociale inteso come valore economico assoluto (ossia 50% + 1).

Il TAR di Puglia-Bari, Sez. I, con la sentenza 27.08.2013 n. 1256, ha chiarito che è illegittima l'esclusione di una ditta da una gara d'appalto, motivata con riferimento all'omessa presentazione della dichiarazione del possesso del requisito della moralità professionale relativamente al socio di maggioranza (peraltro erroneamente indicato), nel caso in cui il capitale sociale sia suddiviso rispettivamente in due partecipazioni al 40% e una al 20%: in ipotesi, infatti, non si profila alcuna possibilità di condizionamento in concreto delle determinazioni societarie da parte di nessuno dei soci.
Analisi del caso
La ricorrente, partecipante a una gara mediante procedura aperta per la fornitura di materiale chirurgico a un'A.s.l., era stata esclusa dalla medesima selezione pubblica sul presupposto che non fosse stata presentata la dichiarazione ex art. 38, comma I, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006, in relazione all'indicato socio di maggioranza.
A seguito di richiesta di riammissione, con cui l'istante aveva precisato di aver indicato un socio di maggioranza per mero errore materiale –avendo compilato un modello prestampato fornito dall'Amministrazione aggiudicatrice– atteso che il capitale sociale era, invece, ripartito effettivamente tra due soci al 40% e un terzo, legale rappresentante e amministratore unico, al 20%, la Commissione giudicatrice aveva confermato l'esclusione, considerando mancante la prescritta dichiarazione con riferimento a entrambi i soci di maggioranza “relativa”.
La società esclusa ha così compulsato il G.A. di Bari per l'annullamento, previa disposizione della sospensione cautelare, del provvedimento escludente, oltre che di ogni altro atto connesso, presupposto e/o consequenziale, in quanto viziato da violazione di legge per errata applicazione degli artt. 38, comma i, lett. b) e 46, D.Lgs. n. 163/2006, poiché, come rilevato da parte ricorrente, nessuno dei soci avrebbe potuto realmente qualificarsi come socio “di maggioranza” e perché, in ogni caso, l'Amministrazione non avrebbe esercitato il c.d. “potere di soccorso” mettendo la concorrente in condizione di integrare la documentazione asseritamente incompleta; in subordine ha avanzato richiesta di risarcimento, per equivalente, del danno da illegittima esclusione.
La soluzione
Il Collegio, dopo aver accolto la domanda cautelare, ha esaminato le censure sollevate, ritenendole meritevoli di accoglimento.
Ha infatti precisato che la disposizione di cui all'ultimo periodo del citato art. 38, comma I, lett. b) debba riferirsi in via esclusiva a quel socio che detenga la maggioranza del capitale sociale inteso come valore assoluto: in favore del proprio orientamento, ha ricordato, sussistono ragioni di ordine testuale, nonché logico-sistematico. In primo luogo, ha evidenziato la Sezione, la stessa espressione “socio di maggioranza” usata dal legislatore, in assenza di alcuna specifica previsione che fissi di una soglia minima di valore da cui potersi desumere una “maggioranza”, esclude che possa aversi riguardo a una possibile ripartizione del capitale sociale diversa da quella in cui vi sia un unico soggetto titolare del 50%+1 della società; ogni diversa accezione che si allontani dal dato testuale, ha proseguito, estenderebbe oltremodo l'ambito di operatività della norma inibitoria della partecipazione, in aperto contrasto con il principio della tassatività delle cause di esclusione, positivizzato nell'art. 46, D.Lgs. n. 163/2006, come novellato dal D.L. n. 70/2011.
Inoltre, ha ricordato il Giudice barese, la ratio della disposizione in questione sottende la presunzione –iuris et de iure– di identità, in compagini sociali con meno di quattro soci, tra il socio di maggioranza e quel soggetto che di fatto eserciti il controllo sulle determinazioni societarie, avendo, attraverso la concreta possibilità di condizionarle, la sostanziale capacità di gestione della società (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.04.2012, n. 1624).
Nella fattispecie al medesimo sottoposta, il TAR ha evidenziato come non sussistesse alcuna possibilità di diretto condizionamento delle decisioni societarie da parte di uno dei soci, non soltanto perché nessuno possedeva una quota di maggioranza in termini assoluti, ma anche in considerazione della specifica regolamentazione statutaria societaria che imponeva, all'art 17 dello Statuto, la maggioranza qualificata dei due terzi del capitale sociale per l'approvazione di ogni decisione e ha, pertanto, escluso l'obbligo di dichiarazione ai sensi del ridetto art. 38, comma I, lett. b), dichiarando l'illegittimità dell'impugnata esclusione.
Nell'accogliere il ricorso nella parte impugnatoria, stante anche la tutela diretta e specifica accordata in sede cautelare, il G.A. non ha delibato sulla domanda risarcitoria per equivalente avanzata in via subordinata dalla ricorrente.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
La giurisprudenza sul punto è ampia e controversa: recentemente il principio recepito in massima dal TAR di Bari era stato ribadito dalla Sez. III del TAR Lecce con la sentenza 01.08.2012, n. 1449; sul tema è poi intervenuto il Consiglio di Stato, Sez. VI che, con la decisione 28.01.2013, n. 513 ha, in termini contrari, specificato come la disposizione non vada intesa nel senso che si riferisca al solo socio detentore di una partecipazione superiore alla metà del capitale sociale e ha dato applicazione alla norma con riferimento a entrambi i soci “paritari” di una società partecipante a una gara pubblica.
Invero, la pronuncia di Palazzo Spada testé citata riguardava un caso diverso –società con due soli soci al 50%- e, comunque, non ha dimenticato di far riferimento alla ratio autentica della disposizione di cui all'art. 38, comma I, lett. b), D.Lgs. n. 163/2006, ossia quella di portare a conoscenza della stazione appaltante la moralità professionale di tutti –e soltanto- quei soggetti suscettibili, in ragione della loro quota sociale, di esercitare un'influenza determinante sulle scelte strategiche del concorrente cui eventualmente affidare lavori, servizi o forniture e con il quale stipulare il relativo contratto d'appalto: d’altra parte, l’impostazione così stringente della sentenza segnalata rischia di evolversi sino al punto da non imporre l’onere della relativa dichiarazione ad alcuno dei soci –neppure a quello di maggioranza “assoluta”, ove previsioni statutarie richiedano quorum decisionali superiori alla partecipazione detenuta– potendo compromettere il principio di trasparenza che ispira l’intera disciplina dei contratti pubblici (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlterare volumi e sagome non è una ristrutturazione.
Non è classificabile come ristrutturazione un intervento edilizio di demolizione e ricostruzione che alteri i volumi e la sagoma dell'edificio preesistente.

Lo ha stabilito la I Sez. del TAR Liguria con sentenza 23.08.2013 n. 1149.
Nel caso di sopraelevazione e mutamento di volumetria e sagoma dell'edificio preesistente, pertanto non potrà che parlarsi di nuova costruzione, secondo la disposizione di principio di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del dpr n. 380/2001, secondo cui gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione sono ricompresi nell'ambito della ristrutturazione edilizia soltanto ove sia assicurato il rispetto della stessa volumetria e sagoma dell'edificio preesistente.
Quanto affermato dai giudici del Tar fornisce una sorta di criterio guida al fine di agevolare i comportamenti amministrativi delle pubbliche amministrazioni, cercando di evitare possibili assunzioni di atti illegittimi ed assicurare, mediante una certezza interpretativa, tutela ai professionisti in considerazione delle notevoli responsabilità affidate agli stessi.
Il Tribunale ha, poi, sottolineato come la violazione del parametro edilizio di altezza massima sussista anche qualora voglia qualificarsi l'intervento in termini di ristrutturazione.
Secondo i giudici liguri, infatti, un certo grado di omogeneità degli edifici per dimensioni e caratteristiche, e il loro corretto inquadramento, dal punto di vista tipologico, nel tessuto urbanistico circostante sono infatti valori che trascendono la classificazione delle singole zone urbanistiche, per riguardare l'insediamento nel suo complesso.
Circa poi il tema dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi sempre sono intrinsecamente prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati (così Cons. di St., IV, 27.11.2010, n. 8291), i giudici amministrativi hanno sottolineato che si tratta di una valutazione ampiamente discrezionale, attinente al merito amministrativo e, come tale, riservata alla p.a. e insindacabile da parte del giudice, in quanto esente da palesi vizi logici (si veda Cons. di St., VI, 15.05.2012, n. 2774) (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: L'amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sull’adozione dell'atto di decadenza del permesso di costruire di cui all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001 in quanto non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia della decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di fatto.
Ai fini dell'impedimento della decadenza l’avvio dei lavori può senz'altro ritenersi sussistente quando le opere intraprese ed oggetto del permesso di costruire siano tali da manifestare l'univoca intenzione del titolare di realizzare il manufatto assentito.

Per costante e condivisibile giurisprudenza l’'amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sull’adozione dell'atto di decadenza del permesso di costruire di cui all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001 in quanto non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia della decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di fatto (cfr. Cons. Stato, IV, 07.09.2011, n. 5028).
Tanto premesso ritiene il Collegio che non sussistessero i presupposti di fatto per la declaratoria della decadenza dal titolo edilizio in quanto la giurisprudenza ha costantemente affermato il principio per cui ai fini dell'impedimento della decadenza l’avvio dei lavori può senz'altro ritenersi sussistente quando le opere intraprese ed oggetto del permesso di costruire siano tali da manifestare l'univoca intenzione del titolare di realizzare il manufatto assentito (TAR Basilicata, sentenza 21.08.2013 n. 526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Niente appalti ai morosi. È fuori gara chi non ha il placet del fisco. L'adunanza plenaria del Cds sulla rateizzazione delle imposte.
Resta fuori dalla gara d'appalto l'azienda che al momento in cui scade il termine per partecipare alla procedura non ha ancora ottenuto il placet dell'amministrazione finanziaria per saldare a rate il suo debito tributario.

Lo ribadisce l'adunanza plenaria del Consiglio di stato con la sentenza 20.08.2013 n. 20, che torna a occuparsi del requisito di regolarità fiscale di cui all'articolo 38, comma 1, lett. g), del codice dei contratti pubblici.
Non c'è verso: l'impresa che vuole candidarsi nella procedura a evidenza pubblica deve aver conseguito da Equitalia il provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione al momento in cui spira termine di presentazione della domanda di partecipazione.
Novazione oggettiva. Il beneficio di poter pagare un tanto al mese il debito con il Fisco costituisce una novazione dell'obbligazione originaria, che risulta sostituita con una nuova e diversa, secondo un meccanismo che Palazzo Spada definisce «di stampo estintivo-costitutivo». Le conseguenze sono tutt'altro che trascurabili: con il via libera dell'agente della riscossione al pagamento dilazionato da parte della società contribuente la scadenza dei debiti tributari risulta rimodulata e l'esigibilità differita, configurando così la novazione oggettiva disciplinata dagli articoli 1230 cc e seguenti.
Il risultato è la nascita di una nuova obbligazione tributaria, caratterizzata da un preciso piano di ammortamento e soggetta a una specifica disciplina per il caso di mancato pagamento delle varie tranche.
Rischio-autodenuncia. Il punto è che prima del provvedimento di accoglimento, allora, resta in piedi il vecchio debito ed è lo stesso contribuente ad ammetterlo quando fa la domanda di pagamento rateale, istanza che dunque costituisce «un'autodenuncia». L'obbligazione tributaria risulta scaduta ed esigibile in base al comma 2 dell'articolo 38 del codice dei contratti pubblici e l'impresa non può dirsi in regola con il fisco.
La rateizzazione del debito verso il fisco, ragionano i giudici, è l'espressione del favore legislativo verso i contribuenti che si trovano in temporanea difficoltà economica, ai quali è offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza.
La condizione per la concessione del beneficio è la dimostrazione dell'obiettiva situazione di crisi in cui versa il debitore impossibilitato a pagare in un'unica soluzione il debito iscritto a ruolo e, tuttavia, in grado di sopportare l'onere finanziario derivante dalla ripartizione dello stesso debito in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni patrimoniali. Insomma: chi non ha chiuso la partita col Fisco non può partecipare alla procedura pubblica. Appello rigettato e spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 07.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAMani legate all'Anas sulla fascia di rispetto.
La c.d. «fascia di rispetto», essendo esterna al confine stradale, e dunque oltre il limite della proprietà stradale, non rientra nella sede stradale, e il suo uso o attraversamento non è suscettibile di essere oggetto di concessione da parte dell'ente proprietario della strada.

Lo ha stabilito la I Sez. del TAR Umbria con sentenza 12.08.2013 n. 448.
I giudici amministrativi hanno sottolineato come non possa essere condiviso, in quanto privo di base legale, l'avviso espresso dalla circolare del ministero delle Infrastrutture n. 2876 del 18.05.2011, che assoggetta anche il passaggio dei sottoservizi realizzati nella fascia di rispetto alla preventiva e specifica autorizzazione da parte dell'ente gestore stradale (artt. 65 e 66 del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada, di cui al dpr 16.12.1992, n. 495).
L'art. 25, comma 1, del dlgs 30.04.1992, n. 285, dispone che «non possono essere effettuati, senza preventiva concessione dell'ente proprietario, attraversamenti od uso della sede stradale e relative pertinenze con corsi d'acqua, condutture idriche, linee elettriche e di telecomunicazione, sia aeree che in cavo sotterraneo, sottopassi e sovrappassi, teleferiche di qualsiasi specie, gasdotti, serbatoi di combustibili liquidi, o con altri impianti e opere, che possono comunque interessare la proprietà stradale. Le opere di cui sopra devono, per quanto possibile, essere realizzate in modo tale che il loro uso e la loro manutenzione non intralci la circolazione dei veicoli sulle strade, garantendo l'accessibilità delle fasce di pertinenza della strada».
Secondo i giudici umbri la norma prevede chiaramente che la concessione, da richiedere, in caso di strade statali, all'Anas, secondo quanto precisato dall'art. 27 dello stesso codice della strada, occorre per gli attraversamenti e l'uso della sede stradale e relative pertinenze; in tale ambito nozionale non rientra la «fascia di rispetto», qualificata quale striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili evince, pertanto, l'inesistenza del potere concessorio dell'Anas sulla fascia di rispetto (articolo ItaliaOggi Sette del 02.09.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Nelle more della classificazione del territorio comunale ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. «assoluti» di rumorosità ma non anche quelli c.d. «differenziali», e ciò in ragione dell’univoca formulazione dell’art. 8, comma 1, del D.P.C.M. 14.11.1997 (“In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all’art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991”), norma da cui si evince che, ove si fosse voluto far sopravvivere integralmente il regime transitorio di cui all’art. 6 del decreto del 1991 (primo comma relativo ai c.d. limiti «assoluti» e secondo comma relativo ai c.d. limiti «differenziali»), sarebbe stato evidentemente necessario operare il rinvio ad ambedue le fattispecie e quindi non al solo primo comma.
Peraltro questo Tribunale ha già ritenuto che il rinvio operato dall’art. 8 citato al solo primo comma dell’art. 6 depone inequivocabilmente per una scelta normativa che ha voluto subordinare, a partire dal 1997, l’applicabilità del criterio «differenziale» all’introduzione della disciplina a regime, e cioè all’adozione del piano comunale di zonizzazione acustica.

Il ricorso deve essere accolto in quanto fondato.
Vanno infatti accolte le doglianze contenute nei primi quattro motivi di ricorso con riferimento alle prescrizioni impugnate, inerenti le emissioni acustiche derivanti dalle opere edili finalizzate alla esecuzione del progetto di ampliamento dell’opificio della ricorrente.
Come da questa evidenziato, la giurisprudenza ha costantemente affermato che, nelle more della classificazione del territorio comunale ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. «assoluti» di rumorosità ma non anche quelli c.d. «differenziali», e ciò in ragione dell’univoca formulazione dell’art. 8, comma 1, del D.P.C.M. 14.11.1997 (“In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all’art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991”), norma da cui si evince che, ove si fosse voluto far sopravvivere integralmente il regime transitorio di cui all’art. 6 del decreto del 1991 (primo comma relativo ai c.d. limiti «assoluti» e secondo comma relativo ai c.d. limiti «differenziali»), sarebbe stato evidentemente necessario operare il rinvio ad ambedue le fattispecie e quindi non al solo primo comma (TAR Emilia Romagna, Parma, 12.01.2012, n. 7; TAR Friuli - Venezia Giulia 08.04.2011 n. 183).
Peraltro questo Tribunale ha già ritenuto che il rinvio operato dall’art. 8 citato al solo primo comma dell’art. 6 depone inequivocabilmente per una scelta normativa che ha voluto subordinare, a partire dal 1997, l’applicabilità del criterio «differenziale» all’introduzione della disciplina a regime, e cioè all’adozione del piano comunale di zonizzazione acustica (TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.05.2010 n. 1896)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.08.2013 n. 1237 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola, posta dalla L. 10/1977 in linea con la Legge Urbanistica, della onerosità della concessione edilizia, comporta che il concessionario è tenuto al pagamento di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. Il proprietario, infatti, deve assumere gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relativa alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi, in proporzione all’entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni.
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Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente o meno delle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.

Vanno quindi esaminate le censure riguardanti il contributo richiesto a titolo di “oneri di trasformazione territoriale”.
Al riguardo va premesso che la regola, posta dalla L. 10/1977 in linea con la Legge Urbanistica, della onerosità della concessione edilizia, comporta che il concessionario è tenuto al pagamento di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. Il proprietario, infatti, deve assumere gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relativa alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi, in proporzione all’entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni (Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2009, n. 4330; Sez. V, 30.09.1998, n. 1348; Sez. V, 10.06.1998, n. 807).
Analoga disciplina prevede l’art. 19 D.P.R. 380/2001 per le opere o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi, per le quali la norma impone “la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a parametri che la regione definisce con i criteri di cui al comma 4, lettere a) e b) dell'articolo 16, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva”.
Secondo l’art. 30 della L.R. 6/1979 “Per determinare l'incidenza delle opere di urbanizzazione inerenti gli insediamenti industriali ed artigianali, il Comune assume il costo-base di urbanizzazione stabilito nella tabella H) e riferito a metro quadro di superficie utile calcolato al piano (…). Il costo-base di urbanizzazione dedotto dalla suddetta tabella H) viene successivamente moltiplicato per i coefficienti stabiliti nella tabella D) e per quelli della tabella I) relativa al tipo di intervento ed al tipo di attività produttiva”.
Gli enti locali devono quantificare il costo di urbanizzazione secondo i principi posti dalla normativa statale e regionale, nell’ambito delle rispettive competenze, vigendo in materia la riserva di legge posta dall’art. 23 Cost. con riferimento alle prestazioni patrimoniali imposte, quale quelle in esame.
Per pacifica giurisprudenza, infatti, il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente o meno delle singole opere di urbanizzazione, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.12.2005, nr. 7140; id., 06.05.1997, nr. 462)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.08.2013 n. 1237 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Piano Territoriale del Parco è uno strumento urbanistico di valenza ambientale, idoneo ad esplicare un’immediata efficacia precettiva di carattere prevalente sia nei confronti di singoli soggetti privati interessati all'edificazione, e sia rispetto alle stesse competenze dei Comuni in materia urbanistico-edilizia impongono un immediato ed inderogabile regime di tutela dell'area interessata.
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In linea di principio, il potere di pianificazione, al pari di ogni potere discrezionale, non è affatto sottratto al vaglio giurisdizionale,in quanto il giudice ben può –alla luce degli interessi pubblici e privati coinvolti- sindacare la logicità intrinseca ed estrinseca ed altresì la coerenza tra le scelte e gli obiettivi dichiarati in sede di pianificazione.

L’assunto è privo di fondamento.
L’art. 4, comma 5, lett. d), della L.R. Marche n. 22/2009 (come modificato dall’art. 4, comma 7, L.R. n. 19/2010) esclude -in linea di principi – la possibilità di far luogo agli ampliamenti di cui al Piano casa ”… per gli immobili ricadenti nelle zone di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2 dell’articolo 12 della legge 06.12.1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) dei parchi e delle riserve naturali, ad eccezione di quelli per i quali i piani dei parchi prevedono interventi di recupero mediante ristrutturazione edilizia o demolizione e ricostruzione. In tal caso l'ampliamento consentito dalla presente legge non si somma a quello eventualmente previsto dai suddetti piani”.
Pertanto deve assolutamente condividersi l’assunto logico del TAR per cui se l’art. 4, comma 5, lett. d), della cit. L.R. Marche n. 22 non esclude in assoluto dai benefici del c.d. piano casa gli immobili ricadenti nel territorio di parchi nazionali o regionali, ma li consente solo nei casi in cui la normativa speciale contenuta nel Piano del Parco consentisse possibilità di ampliamenti.
Ciò in considerazione del profilo teleologico della normativa stessa sui Parchi che, alla luce delle priorità che l’art. 9 della Costituzione dà alla tutela dell'ambiente, deve essere ritenuta preminente rispetto alle altre disposizioni di legge sopravvenute.
Il Piano Territoriale del Parco è infatti uno strumento urbanistico di valenza ambientale, idoneo ad esplicare un’immediata efficacia precettiva di carattere prevalente sia nei confronti di singoli soggetti privati interessati all'edificazione, e sia rispetto alle stesse competenze dei Comuni in materia urbanistico-edilizia impongono un immediato ed inderogabile regime di tutela dell'area interessata (cfr. Consiglio Stato sez. VI 16.12.2008 n. 6214).
In altre parole le superiori finalità della tutela paesaggistica ed ambientale fanno sì che, proprio al fine di tutelare effettivamente il territorio delle aree protette ex L. n. 394/1991, le norme del c.d. Piano Casa -disciplina di natura straordinaria e congiunturale- debbano essere di stretta interpretazione proprio perché costituiscono un’espressa “… deroga ai regolamenti edilizi ed alle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali. …” (art. 4, 1° comma, L.R. Marche n. 22/2009).
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Si deve rilevare che la Sezione è da tempo orientata a ritenere che, in linea di principio, il potere di pianificazione, al pari di ogni potere discrezionale, non è affatto sottratto al vaglio giurisdizionale,in quanto il giudice ben può –alla luce degli interessi pubblici e privati coinvolti- sindacare la logicità intrinseca ed estrinseca ed altresì la coerenza tra le scelte e gli obiettivi dichiarati in sede di pianificazione (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 06.05.2013 n. 2427; Consiglio di Stato Sez. IV 26.02.2013 n. 1187) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante per insediamento di impianti produttivi – Art. 5 D.P.R. n. 447/1998 – Conferenza di servizi - Potestà pianificatoria del Comune –Affidamento dell’istante.
La speciale procedura semplificata di cui all’art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 non comporta abdicazione della istituzionale potestà pianificatoria del Comune, tale da rendere la proposta della Conferenza di servizi come obbligatoria, ma lascia integra la possibilità per l’Ente territoriale di discostarsene, sulla base di valutazioni urbanistiche (Cons. St. Sez. Vi, n. 2170/2012; n. 4498/2012; n. 5471/2007).
Tuttavia, quando la stessa amministrazione comunale abbia, con una seria univoca di atti, considerato procedibile il ricorso allo strumento dell’approvazione della variante per l’insediamento di impianti produttivi ex art. 5 cit., e nel corso del procedimento siano stati espressi i favorevoli pareri culminati nella proposta di tutte le autorità pubbliche e dei soggetti interessati, compreso lo stesso Comune, riuniti in conferenza di servizi, vanno valutate attentamente, e con particolare pregnanza sul versante motivazione, le scelte del Comune, richiedendosi, nell’ambito delle valutazioni urbanistiche, anche una ponderazione degli opposti interessi, in considerazione delle aspettative sorte in capo agli istanti e delle particolari situazioni di affidamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: VIA, VAS E AIA – VAS – Nozione.
La valutazione ambientale strategica (VAS) è lo strumento volto a garantire gli effetti sull’ambiente dei piani e dei programmi, così da anticipare la valutazione della compatibilità ambientale ad un momento anteriore alla loro elaborazione ed adozione, in una prospettiva globale di sviluppo sostenibile idonea a conciliare, anche attraverso soluzioni alternativa, l’utilizzazione del territorio e la localizzazione degli impianti con la tutela dei valori ambientali (Cons. St. Sez. IV, 06.05.2013, n. 2446; 13.11.2012, n. 5715).
La valutazione favorevole compiuta in sede di VAS non può, quindi, (nella specie: in sede di esame della proposta di variante al piano regolatore) essere rimessa in discussione per i profili attinenti alla compatibilità con l’ambiente del piano (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Fresato d’asfalto – Nozione di sottoprodotto ex art. 184 bis d.lgs. n. 152/2006 – Classificazione CER.
Pur essendo il fresato d’asfalto generalmente classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 05.02.1998 e contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti, nondimeno può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto, quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito.
Data, infatti, la novità della classificazione del sottoprodotto (ex art. 184-bis d.lgs. n. 152/2006, aggiunto dal c. 1 dell’art. 12 d.lgs. n. 205/2010), va considerata non vincolante la classificazione recata dal codice CER anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua dei criteri sostanziali dell’art. 184-bis (cfr. Cons. St. Sez. IV, 28.02.2013, n. 1230, con riferimento alla pollina) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2013 n. 4151 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’obbligazione di pagamento degli oneri di urbanizzazione ha, infatti, natura causale, essendo strettamente connessa all’attività di trasformazione del territorio ed alle spese che gravano sulla comunità per la realizzazione delle infrastrutture e dei servizi resi necessari da tale attività, al punto che l’Amministrazione comunale è tenuta alla restituzione delle somme percepite a tale titolo nel caso di rinuncia o di inutilizzazione della concessione edilizia e che gli impegni di pagamento si concretizzano proprio nel momento in cui il permesso di costruire viene rilasciato.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria, l’obbligazione di pagamento degli oneri di urbanizzazione ha, infatti, natura causale, essendo strettamente connessa all’attività di trasformazione del territorio ed alle spese che gravano sulla comunità per la realizzazione delle infrastrutture e dei servizi resi necessari da tale attività (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 12.01.2012, n. 108; TAR Piemonte, Sez. I, 01.02.2006 n. 711), al punto che l’Amministrazione comunale è tenuta alla restituzione delle somme percepite a tale titolo nel caso di rinuncia o di inutilizzazione della concessione edilizia (cfr. Cons. St., Sez. V, 23.06.2003 n. 3714) e che gli impegni di pagamento si concretizzano proprio nel momento in cui il permesso di costruire viene rilasciato (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 28.03.2012 n. 617) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 06.08.2013 n. 980 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTISentenza del Tar puglia. Vecchi affidamenti non validi per Imu e Tares.
Imu e Tares sono due tributi diversi dall'Ici e dalla Tarsu. Quindi, sono privi di effetti i contratti di affidamento delle attività di accertamento e riscossione Ici e Tarsu in seguito alla loro abolizione. Il concessionario non può pretendere di mantenere in vita il rapporto con il comune per gestire i nuovi tributi che li hanno sostituiti. Le norme sopravvenute, che hanno istituito Imu e Tares, hanno abolito l'oggetto delle precedenti concessioni.
Lo ha stabilito il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con la sentenza 05.08.2013 n. 1771.
In effetti, gli articolo 13 e 14 del dl Monti (201/2011) hanno istituito l'Imu e la Tares in sostituzione di Ici, Tarsu e Tia. Per il giudice amministrativo, le norme sopravvenute hanno «abolito» e non meramente «modificato» l'oggetto delle precedenti concessioni. Quindi, l'affidamento in concessione del servizio «deve intendersi decaduto “ipso iure” in ragione dei nuovi provvedimenti legislativi statali» che hanno abolito l'Ici e la Tarsu. Per i nuovi affidamenti è necessaria la gara a evidenza pubblica.
Le attività di accertamento e riscossione delle entrate locali, infatti, possono essere affidate solo con gara. Peraltro è stata cancellata la norma della Finanziaria 2002 che consentiva ai concessionari dell'imposta sulla pubblicità di aggirare le regole sulle gare, rinegoziando i contratti in corso con gli enti locali. L'articolo 10 della legge europea n. 97 del 06.08.2013 ha abrogato l'articolo 10 della legge 448/2001, che dava ai comuni la facoltà di prorogare i contratti in corso al 01.01.2002. La norma europea dispone la cessazione di tutti gli incarichi conferiti in base alla norma abrogata l'ultimo giorno del terzo mese successivo alla data della sua entrata in vigore (4 settembre), a meno che non siano già scaduti prima.
Solo per i rapporti pendenti al 01.10.2006, in seguito alla riforma della riscossione, è ancora oggi prevista la proroga dei contratti in corso dei comuni con Equitalia e gli altri concessionari iscritti nell'albo ministeriale. Alla società pubblica, che ex lege avrebbe dovuto chiudere i rapporti con i comuni il 30 giugno scorso, per le attività di accertamento e riscossione delle entrate di questi enti, è stata concesso un ulteriore differimento in sede di conversione del decreto legge 35/2013 (legge 64/2013).
L'articolo 10 del citato decreto stabilisce che le convenzioni in corso tra comuni e Equitalia, nonché con le società da questa partecipate, sono prorogate fino alla fine del 2013. Il differimento fino alla fine dell'anno è stato fissato anche per le altre società concessionarie (articolo ItaliaOggi del 06.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003, le infrastrutture di reti di telecomunicazioni sono assimilate, ad ogni effetto, alle opere di urbanizzazione primaria, per cui risultano compatibili con qualsiasi zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti (così da essere installabili anche in zona di rispetto cimiteriale).
E’ fondata e assorbente la censura con la quale parte ricorrente deduce l’illegittimità del diniego impugnato poiché essendo gli impianti di telefonia mobile equiparati alle opere di urbanizzazione primaria ex art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 sono installabili anche in zona sottoposta a vincolo cimiteriale.
E, infatti, in ordine alla sussistenza di un contrasto con le prescrizioni del P.R.G., posto a base del diniego e ribadito dalla difesa dell’Ente, va ribadito che, ai sensi dell'art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003, le infrastrutture di reti di telecomunicazioni sono assimilate, ad ogni effetto, alle opere di urbanizzazione primaria, per cui risultano compatibili con qualsiasi zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti (così da essere installabili anche in zona di rispetto cimiteriale), e che perciò non può non concordarsi con le pronunce giurisprudenziali amministrative richiamate da parte ricorrente, secondo cui la ratio sottesa alla previsione di una fascia di rispetto cimiteriale non risulta in alcun modo compromessa da una scelta localizzativa ivi delle stesse infrastrutture (cfr. TAR Campania, Napoli, VII, 25.10.2012, n. 4223; Consiglio Stato, VI, 28.02.2006 n. 894; TAR Toscana 05.05.2010, n. 1239; TAR Lazio, II-bis, 19.04.2007 n. 4367) (TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento abilitativo tacito costituito per effetto del silenzio-assenso si può formare soltanto se la domanda presentata possiede i presupposti per essere accolta, perché il difetto di taluno dei presupposti sostanziali per poter accedere al condono impedisce che possa avviarsi il procedimento disciplinato dall'art. 35 della legge n. 47/1985 in cui il decorso del tempo è coelemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Al riguardo, infatti, è stato puntualmente osservato che:
a) in linea generale il tacito accoglimento della domanda di condono si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale;
b) conseguentemente il silenzio-assenso non si perfeziona per il solo fatto dell'inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria e del pagamento dell'oblazione, se non sopravviene la risposta del comune, occorrendo altresì l'acquisizione della prova, da parte del comune medesimo, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore, da verificarsi all'interno del relativo procedimento;
c) la domanda di condono deve, pertanto, essere corredata dalla prescritta documentazione indicata dalla legge essendo la produzione di tale documentazione indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi;
d) in particolare, sul piano oggettivo, la formazione del silenzio–assenso richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione comunale;
e) del pari, sotto il profilo soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva del richiedente il condono.

Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.02.2012, n. 585), il provvedimento abilitativo tacito costituito per effetto del silenzio-assenso si può formare soltanto se la domanda presentata possiede i presupposti per essere accolta, perché il difetto di taluno dei presupposti sostanziali per poter accedere al condono impedisce che possa avviarsi il procedimento disciplinato dall'art. 35 della legge n. 47/1985 in cui il decorso del tempo è coelemento costitutivo della fattispecie autorizzativa (ex multis, cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 18.09.2012, n. 951; TAR Puglia, Bari, sez. III, 19.04.2012, n. 743).
Al riguardo, infatti, è stato puntualmente osservato che:
a) in linea generale il tacito accoglimento della domanda di condono si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale;
b) conseguentemente il silenzio-assenso non si perfeziona per il solo fatto dell'inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria e del pagamento dell'oblazione, se non sopravviene la risposta del comune, occorrendo altresì l'acquisizione della prova, da parte del comune medesimo, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore, da verificarsi all'interno del relativo procedimento;
c) la domanda di condono deve, pertanto, essere corredata dalla prescritta documentazione indicata dalla legge essendo la produzione di tale documentazione indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi;
d) in particolare, sul piano oggettivo, la formazione del silenzio–assenso richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli ulteriori requisiti sostanziali relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione comunale;
e) del pari, sotto il profilo soggettivo, deve essere dimostrata la legittimazione attiva del richiedente il condono (in tal senso, da ultimo, C.d.S., sez. V, 08.11.2011, n. 5894) (TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un’attività di comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e degli eventuali controinteressati; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza condiviso dal Collegio, il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un’attività di comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e degli eventuali controinteressati; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione (TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 487 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il requisito della regolarità fiscale, richiesto per la partecipazione alle gare di appalto dall’art. 38, comma 1, lett. g), del codice dei contratti pubblici, sussiste quando, alternativamente, a carico dell'impresa non risultino contestate violazioni tributarie mediante atti ormai definitivi per decorso del termine di impugnazione ovvero, in caso d'impugnazione, la relativa pronuncia giurisdizionale sia passata in giudicato e, in caso di violazioni tributarie accertate, la pretesa dell'Amministrazione finanziaria risulti, alla data di richiesta della certificazione, integralmente soddisfatta, anche mediante definizione agevolata.
Inoltre, non può essere considerata irregolare la posizione dell'impresa partecipante qualora sia ancora pendente il termine di sessanta giorni per l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, non sia passata ancora in giudicato la pronuncia giurisdizionale.

A questo riguardo il collegio condivide la giurisprudenza (cfr. Cons. St., V, 17/01/2013 n. 261; TAR Lombardia, Milano, I, 14/06/2013 n. 1552) che ritiene che il requisito della regolarità fiscale, richiesto per la partecipazione alle gare di appalto dall’art. 38, comma 1, lett. g), del codice dei contratti pubblici, sussiste quando, alternativamente, a carico dell'impresa non risultino contestate violazioni tributarie mediante atti ormai definitivi per decorso del termine di impugnazione ovvero, in caso d'impugnazione, la relativa pronuncia giurisdizionale sia passata in giudicato e, in caso di violazioni tributarie accertate, la pretesa dell'Amministrazione finanziaria risulti, alla data di richiesta della certificazione, integralmente soddisfatta, anche mediante definizione agevolata.
Inoltre, non può essere considerata irregolare la posizione dell'impresa partecipante qualora sia ancora pendente il termine di sessanta giorni per l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, non sia passata ancora in giudicato la pronuncia giurisdizionale
(TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nella materia del risarcimento per il mancato affidamento delle gare d'appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice. La domanda va anzitutto riferita al mancato guadagno derivato a carico della ricorrente dalla mancata effettuazione dei lavori e servizi dedotti nel cottimo fiduciario (ed eseguiti dalla controinteressata) dal momento in cui gli stessi sono stati conferiti alla seconda classificata.
Poiché nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente a lucro cessante (cioè al mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto) non va calcolato utilizzando il criterio forfetario del 10% del prezzo a base d'asta (cfr. Cons. St. cit.) il collegio ritiene che la percentuale di utile su cui detto risarcimento dovrà essere calcolato deve essere quella che l’impresa ricorrente ha indicato nelle proprie giustificazioni, presentate ai fini della verifica di non anomalia, a sostegno dell’offerta economica presentata in sede di procedura aperta (attesa la riconducibilità dei lavori dati a cottimo all’oggetto dell’appalto principale); ove tale dato fosse assente negli atti di gara, si indica come criterio da osservare da parte dell’amministrazione quello della prova rigorosa che l'impresa deve dare dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria.
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Il mancato svolgimento dei lavori eseguiti dalla controinteressata a titolo di cottimo fiduciario e quelli, viceversa rimasti ineseguiti, dell’appalto principale, determinano anche danni cd. curriculari.
In tema di gara d'appalto, l'esistenza del danno curriculare può essere pragmaticamente ritenuta in re ipsa, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell'impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall'esecuzione dell'appalto in controversia nell'ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare, con la precisazione che il soggetto economico non può dirsi gravato, a questo proposito, da alcun particolare onere probatorio, che condizionerebbe soltanto l'accesso per la stessa voce ad un risarcimento più elevato.
Detti danni, ad avviso del collegio, ciascuno in relazione al rispettivo titolo giustificativo, possono essere determinati, in via equitativa, nella misura del 3% di ciascun lucro cessante che verrà liquidato dall’Azienda. Anche in questo caso, la sorte capitale dovrà essere ridotta del 40% avuto riguardo al concorso colposo del ricorrente nella determinazione dei danni per effetto della richiamata omessa contestazione della revoca della SOA per le categorie di lavori necessarie per l’esecuzione dell’appalto. Gli importi così determinati dovranno comunque essere liquidati solo previo calcolo di interessi e rivalutazione monetaria.

Come è noto, nella materia del risarcimento per il mancato affidamento delle gare d'appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice (cfr. fra le recenti Cons. St., V, 21/06/2013 n. 3397). La domanda va anzitutto riferita al mancato guadagno derivato a carico della ricorrente dalla mancata effettuazione dei lavori e servizi dedotti nel cottimo fiduciario (ed eseguiti dalla controinteressata) dal momento in cui gli stessi sono stati conferiti alla seconda classificata.
Poiché nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente a lucro cessante (cioè al mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto) non va calcolato utilizzando il criterio forfetario del 10% del prezzo a base d'asta (cfr. Cons. St. cit.) il collegio ritiene che la percentuale di utile su cui detto risarcimento dovrà essere calcolato deve essere quella che l’impresa ricorrente ha indicato nelle proprie giustificazioni, presentate ai fini della verifica di non anomalia, a sostegno dell’offerta economica presentata in sede di procedura aperta (attesa la riconducibilità dei lavori dati a cottimo all’oggetto dell’appalto principale); ove tale dato fosse assente negli atti di gara, si indica come criterio da osservare da parte dell’amministrazione quello della prova rigorosa che l'impresa deve dare dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria.
Tale prova, nell’eventualità di cui sopra, dovrà essere resa dalla ricorrente all’ATER su richiesta di quest’ultima. L’importo, una volta determinato, in applicazione dei principi di cui agli artt. 30, co. 3, c.p.a. e 1227 c.c., va poi tuttavia ridotto del 40% atteso che la ricorrente ha omesso di promuovere qualsiasi azione giurisdizionale avverso la disposta statuizione di revoca della SOA benché fin dal maggio 2012 fosse intervenuta la tutela cautelare da parte del Consiglio di Stato. In ogni caso la somma da risarcire dovrà essere aumentata di interessi e rivalutazione.
I criteri fin qui esposti vanno applicati -a fortiori- anche per il computo del risarcimento del mancato guadagno con riferimento all’appalto principale di cui la ricorrente era risultata aggiudicataria e che per effetto dell’illegittimo atto di autotutela adottato dall’ATER non le è più possibile eseguire.
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Il mancato svolgimento dei lavori eseguiti dalla controinteressata a titolo di cottimo fiduciario e quelli, viceversa rimasti ineseguiti, dell’appalto principale, determinano anche danni cd. curriculari. In tema di gara d'appalto, l'esistenza del danno curriculare può essere pragmaticamente ritenuta in re ipsa, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell'impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall'esecuzione dell'appalto in controversia nell'ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare, con la precisazione che il soggetto economico non può dirsi gravato, a questo proposito, da alcun particolare onere probatorio, che condizionerebbe soltanto l'accesso per la stessa voce ad un risarcimento più elevato (cfr. Cons. St., V, 5846 - 19.11.2012).
Detti danni, ad avviso del collegio, ciascuno in relazione al rispettivo titolo giustificativo, possono essere determinati, in via equitativa, nella misura del 3% di ciascun lucro cessante che verrà liquidato dall’Azienda. Anche in questo caso, la sorte capitale dovrà essere ridotta del 40% avuto riguardo al concorso colposo del ricorrente nella determinazione dei danni per effetto della richiamata omessa contestazione della revoca della SOA per le categorie di lavori necessarie per l’esecuzione dell’appalto. Gli importi così determinati dovranno comunque essere liquidati solo previo calcolo di interessi e rivalutazione monetaria
(TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: L'art. 70, co. 6°, del D.Lgs. n. 165 del 31/03/2001, nel reiterare l'art. 45, co. 1°, del D.L.vo n. 80/1998, abrogato dall'art. 72, co. 1°, lett. b), del citato D.L.vo n. 165/2001, ha disposto che, a decorrere dal 23.04.1998 le disposizioni che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti.
Oltretutto, il T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (D.L.vo 18/08/2000 n. 267), al comma 5° dell'art. 107 (funzioni e responsabilità della dirigenza) ha anch'esso previsto che a "decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti e provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti...".

E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso, riferito all’ordinanza sindacale di revoca dell’autorizzazione, con riguardo al dedotto profilo dell’incompetenza.
L'art. 70, co. 6°, del D.Lgs. n. 165 del 31/03/2001, nel reiterare l'art. 45, co. 1°, del D.L.vo n. 80/1998, abrogato dall'art. 72, co. 1°, lett. b), del citato D.L.vo n. 165/2001, ha disposto che, a decorrere dal 23.04.1998 le disposizioni che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti.
Oltretutto, il T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (D.L.vo 18/08/2000 n. 267), al comma 5° dell'art. 107 (funzioni e responsabilità della dirigenza) ha anch'esso previsto che a "decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti e provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti..." (cfr. TAR Basilicata, 18.09.2003 n. 878 e n. 457/2007).
Nella specie, ad avviso del collegio è evidente che la disposta revoca costituisce atto di gestione, come tale di competenza del dirigente di settore e non del Sindaco. Ne consegue l’annullamento dell’atto impugnato (ordinanza sindacale) che, ripetesi, appartiene alla competenza del dirigente (o responsabile) di settore (TAR Basilicata, sentenza 03.08.2013 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Cassazione in tema di opere stagionali e permesso di costruire.
Hanno affermato i giudici che
il permesso di costruire è senz’altro richiesto anche per l’esecuzione di opere stagionali, le quali si differenziano da quelle precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
Diversamente da quella precaria, non è finalizzata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell’anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire (tra i precedenti v. Sez. 3^ n. 34763, 26.09.2011; Sez. 3^ n. 23645, 13.06.2011; Sez. 3^ n. 22868, 13.06.2007; Sez. 3^ n. 13705, 19.04.2006; Sez. 3^ n. 11880, 12.03.2004).
Ciò detto, la sua mancata rimozione allo spirare del termine stagionale configura il reato ex art. 44 del T.U. Edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) giacché, in siffatta ipotesi, la responsabilità discende dal combinato del medesimo art. 44 e art. 40, comma 2, c.p., per la mancata ottemperanza all’obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo (Sez. 3^ n. 23645/2011, cit. Sez. 3^ n. 42190, 29.11.2010; Sez. 3^ n. 29871, 11.09.2006).
In conclusione, la mancata rimozione –conclude la Corte– accertata in fatto configura, di per sé, il reato urbanistico, così come questo sarebbe configurabile nel caso in cui le opere realizzate consistessero in strutture permanenti, incompatibili con il ricordato concetto di “stagionalità” (né potrebbe ritenersi valido, a tale proposito, il riferimento, effettuato in ricorso, a strutture amovibili –ombrelloni, sdraio etc.– che per la loro natura e consistenza non richiederebbero alcun titolo abilitativo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.07.2013 n. 32966 - tratto da e link a www.giurisprudenzapenale.com).

CONDOMINIO: Condominio. I complessi con più edifici. Spese per il decoro a carico di tutti.
IL PRINCIPIO/ Agli elementi ornamentali non si applica il criterio secondo cui il costo è addossato soltanto a chi ne trae utilità
Devono essere divise tra tutti i condomini le spese che riguardano il decoro architettonico del complesso, anche se gli interventi sono fatti su un solo edificio.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 23.07.2013 n. 17875, ha confermato la decisione della Corte d'appello che ha annullato due delibere condominiali riguardanti l'esecuzione di lavori di manutenzione di più edifici (un immobile principale e due palazzine poste sul fondo del cortile interno) facenti parte del medesimo condominio.
In particolare, un condomino, proprietario di unità immobiliari in uno dei due edifici separati, aveva impugnato le delibere contestando la ripartizione delle spese su base millesimale perché –aveva sostenuto– in contrasto con la legge e con il regolamento condominiale.
Il tribunale aveva respinto le domande, che invece sono state poi accolte dalla Corte d'appello. I giudici di secondo grado hanno infatti sottolineato che le due palazzine si devono considerare del tutto separate e autonome, sia strutturalmente che funzionalmente, dal corpo di fabbrica principale. Quindi, si deve escludere il carattere comune per le spese concernenti la conservazione di muri e coperture, la posa dei portoni, il rifacimento dei pluviali riguardanti l'edificio principale, che non hanno alcun riflesso diretto sulla porzione autonoma costituita dalle due palazzine, che costituiscono un condominio parziale. Si applica, quindi, il criterio indicato dall'articolo 1123, comma 3, del Codice civile: le spese sono a carico solo dei condomini che ne traggono utilità.
Ma lo stesso principio, secondo i giudici, non vale per le spese riguardanti il decoro architettonico (fregi ornamentali, targhette citofoniche, lampade a braccio) della facciata o dello stabile principale, perché si tratta di "bene comune" a tutto il complesso condominiale. Quindi, le spese devono essere ripartite tra tutti i condomini, inclusi i proprietari delle unità immobiliari che si trovano nelle due palazzine separate.
Tra l'altro, proprio il rispetto del decoro architettonico, inteso come "bene comune" da tutelare, alla stregua di qualunque altro bene comune, sia sotto il profilo estetico, sia, soprattutto, sotto il profilo economico (si veda la sentenza della Cassazione 3436/97) è stato posto come limite dalla riforma del condominio (legge 220/2012) a varie forme di intervento. Si tratta delle modificazioni delle destinazioni di uso (articolo 1117-ter), delle innovazioni (articolo 1120), delle opere su parti di proprietà privata (articolo 1122), dell'installazione, non centralizzata, di impianti di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (articolo 1122-bis) (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

APPALTITar Lombardia. Prevale il principio di conservazione degli atti. Commissario escluso, appalto ok.
LA MOTIVAZIONE/ Il rinnovo dell'intero procedimento comprometterebbe la concorrenza tra i partecipanti
Uno dei componenti di una commissione giudicatrice di un appalto pubblico aveva svolto consulenze per la redazione del capitolato e degli atti di una gara, in violazione dell'articolo 84, commi 4 e 10 del Codice dei contratti pubblici. In seguito a questo fatto, con sentenza del giudice amministrativo, la sua nomina è stata annullata. È sorto il problema se, per concludere la gara, fosse necessario rinnovare l'intero procedimento o fosse sufficiente sostituire il componente della commissione.

Secondo l'ordinanza 03.07.2013 n. 246 del TAR Lombardia-Brescia, è possibile rinnovare soltanto l'atto viziato.
I giudici hanno seguìto l'orientamento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 12/2012, che -su un caso simile- aveva valorizzato il principio di conservazione e di economicità degli atti pubblici, e aveva sostenuto che la rinnovazione dell'intero procedimento avrebbe alterato la concorrenza, perché le nuove offerte «sarebbero state formulate da concorrenti che erano a conoscenza delle originarie offerte degli altri partecipanti alla gara».
Non hanno seguìto, invece, l'orientamento di un'altra e più recente pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 13/2013, che ha ritenuto necessario rinnovare l'intero procedimento. L'ordinanza del Tar della Lombardia-Brescia è da condividere. Il vizio di un segmento di un procedimento amministrativo comporta conseguenze diverse dal vizio di un elemento essenziale di un contratto privato, e, nel caso considerato, è determinante il principio di conservazione degli atti. Il problema del rinnovo totale o parziale di un procedimento viziato in un solo punto presenta diverse sfaccettature, e questo giustifica i diversi orientamenti dell'Adunanza plenaria.
Sarebbe opportuno, comunque, che questi orientamenti confluissero in una soluzione unitaria, perché –in tempi di incertezze legislative– la giurisprudenza rappresenta una vera e propria bussola, sul piano giuridico, per gli operatori negli appalti pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2013).

AGGIORNAMENTO AL 02.09.2013

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IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIL'osservanza dell'orario di lavoro costituisce un obbligo del dipendente pubblico, anche del personale con qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della prestazione retribuita dalla Amministrazione Pubblica. L'orario di lavoro, comunque articolato, deve essere documentato ed accertato mediante controlli di tipo automatici ed obiettivi, come disposto dalle vigenti normative in materia.
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I sistemi automatizzati di rilevazione dell'orario di lavoro devono essere utilizzati per determinare direttamente la retribuzione principale e quella accessoria, da corrispondere a ciascun dipendente, per cui “ciò comporta che ad ogni eventuale assenza, totale o parziale dal posto di lavoro (che non sia giustificata dalla vigente normativa in materia) consegue -oltre alla proporzionale automatica riduzione della retribuzione- anche l'attivazione, da parte dei Dirigenti responsabili, delle procedure disciplinari previste dalla normativa vigente”.
In proposito, -sottolineato che anche “i permessi brevi fruiti dai dipendenti pubblici per esigenze personali” (tra i quali rientrano certamente anche le consumazioni al bar fuori dell'edificio presso il quale i dipendenti pubblici sono in servizio) devono essere autorizzati e recuperati successivamente secondo modalità definite dal Dirigente, e sottolineato che, ai sensi delle Direttive/Circolari più volte citate, “i Dirigenti sono responsabili dell'osservanza dell'orario di lavoro da parte del personale dipendente”- va, infine messo in evidenza che -ai sensi delle medesime Direttive/Circolari- “eventuali violazioni dei dirigenti responsabili e del personale dipendente, conseguenti a dolo o colpa grave, che comportano una mancata prestazione, con relativo danno erariale, concretano una violazione penale, oltre che responsabilità disciplinare e contabile”.
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In presenza di accertata dolosa o colposa inadempienza nella dovuta prestazione lavorativa da parte dei pubblici dipendenti, è pacifica e consolidata la giurisprudenza della Corte dei Conti nel riconoscere la responsabilità amministrativa contabile dei predetti dipendenti pubblici, ritenendo che il danno è, in questi casi, quanto meno pari alla spesa sostenuta dall'Amministrazione Pubblica datrice di lavoro per la retribuzione complessivamente erogata a favore dei dipendenti pubblici in questione nel periodo in cui essi non hanno reso la dovuta prestazione lavorativa, fatti salvi comunque gli ulteriori danni che possono essere stati causati a motivo della assenza arbitraria nella gestione dei servizi ai quali i predetti dipendenti pubblici erano addetti o preposti.
Si deve convenire con la Procura Regionale sulla irregolare ed eticamente riprovevole condotta tenuta, nella circostanza, dalla Sig.ra P., la quale si è assentata dal suo ufficio durante l'orario di servizio, senza autorizzazione, senza timbratura del cartellino magnetico e senza alcuna giustificazione, per essersi recata a fare colazione al bar al di fuori dell'edificio comunale.
In sostanza, nella fattispecie che ci occupa, la convenuta è venuta meno, con colpa grave, ai suoi precisi obblighi di servizio, allorché -senza la prescritta autorizzazione, senza timbratura del cartellino magnetico e senza alcuna giustificazione- si è assentata dal suo ufficio per i motivi innanzi detti, sottraendo un certo periodo di tempo all'orario di lavoro ed al tempo di lavoro contrattualmente definito.
Nella vicenda in esame il danno patrimoniale sussiste ed è chiaramente da imputare alla violazione del sinallagma prestazione/retribuzione contrattualmente definito, non essendo stato recuperato da parte della convenuta il tempo di lavoro arbitrariamente e colposamente sottratto all'Amministrazione Pubblica datore di lavoro, pur in presenza di regolare percezione della intera retribuzione.
Né può essere condivisa anche l'altra argomentazione della difesa della convenuta circa l'abitudine diffusa dei pubblici dipendenti del c.d. “cappuccino” di metà mattinata, normalmente tollerata e, perciò, non antigiuridica e non lesiva, considerato che il limitato periodo di tempo in questione è chiaramente usufruibile con l'utilizzo dei c.d. “permessi brevi” da recuperare successivamente con le modalità disposte dal Dirigente.
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Il “danno all'immagine ed al prestigio della P.A.”
rientra nella connotazione del “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c., in collegamento con l'art. 2 Cost., e “non si correla necessariamente ad un comportamento causativo di reato penale”, non rientrando nell'ambito di applicabilità dell'art. 2059 c.c. (fermo restando, in ogni caso, il principio della separatezza del giudizio per responsabilità amministrativa contabile rispetto a quello penale, come rilevabile dal novellato art. 3 c.p.p.), ma può ben discendere anche “da un comportamento gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito extrapenale”.
Non tutti gli atti o comportamenti genericamente illegittimi o illeciti compiuti da un amministratore, da un dipendente (anche di fatto), o da un agente pubblico (che pure non giovano certamente al prestigio ed all'immagine della P.A.) sono causalmente idonei a determinare una menomazione di detta immagine e di detto prestigio”, venendo in rilievo -a questi fini (e, perciò, rilevanti nel giudizio di responsabilità amministrativa contabile)- “solo i comportamenti gravemente illegittimi ovvero gravemente illeciti (anche di carattere extrapenale)”, purché idonei -nella loro consistenza fenomenica- a produrre quella “grave perdita di prestigio e della immagine” e quel “grave detrimento della personalità pubblica.
Va, inoltre, fatto rilevare che
il “danno all'immagine ed al prestigio della P.A.” compiuto da parte di un soggetto legato alla P.A. da un rapporto di lavoro, di impiego o di servizio (anche di fatto) viene in rilievo unitamente ad altri fondamentali e necessari concomitanti elementi, quali il necessario “clamor” e la risonanza e l'amplificazione della notizia da parte dei vari mezzi di informazione, che “non integrano (però) la lesione, ma ne indicano la dimensione”, stando ad evidenziare gli “indici di dimensione via via maggiori che il medesimo evento lesivo può assumere a seconda delle circostanze”.
Come indicato anche nelle precedenti citate Sentenze della Corte dei Conti,
tale forma di danno erariale va inquadrato:
a) nell'ambito della categoria del “danno patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica”, rapportandolo, quindi, -come già evidenziato- al “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 2 Cost.;
b) nell'ambito della fattispecie del “danno esistenziale”, inteso quale “tutela della propria identità, del proprio nome, della propria reputazione e credibilità”;
c) nell'ambito della categoria del “danno/evento” (e non del “danno/conseguenza”), considerato che, poiché l'“oggetto del risarcimento non può che essere una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi se non a perdite, a questi limiti soggiace anche la tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali causati dalla lesione di diritti od interessi costituzionalmente protetti, quali il diritto all'immagine, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento, senza la diminuzione o la privazione di valori inerenti al bene protetto”;
d) nell'ambito delle fattispecie per le quali -non essendo richiesta la prova delle spese necessarie al recupero del bene giuridico leso- si può fare affidamento -per la concreta determinazione dell'ammontare del danno erariale- sulla “valutazione equitativa del Giudice”, ai sensi dell'art. 1226 c.c., sulla base dei “parametri di tipo oggettivo, soggettivo e sociale” come definiti dalla giurisprudenza maggioritaria e prevalente della Corte dei Conti di cui si è detto ed, in particolare, da diverse Sentenze della Sez. Giurisd. Reg. dell'Umbria;
e) nell'ambito delle fattispecie per le quali sussiste in ogni caso “l'onere per l'attore di indicare le presunzioni, gli indizi e gli altri parametri che intende utilizzare sul piano probatorio”.

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IIa - DANNO PATRIMONIALE IN SENSO STRETTO
Il Procuratore Regionale ha sostenuto, sostanzialmente, che l'impiegata, Sig.ra D.P., durante l'orario di servizio sarebbe stata trovata più volte (ed, in particolare, in data 24.04.2003) assente dal suo ufficio, senza autorizzazione, senza timbratura del cartellino magnetico e senza alcuna giustificazione, per essersi recata a fare colazione al di fuori dell'edificio comunale.
Le ingiustificate assenze dal servizio costituirebbero -a giudizio dell'attore- il fatto colposo, da cui sarebbe scaturito il danno erariale in senso stretto per indebita percezione di emolumenti non dovuti in relazione ai periodi di assenze ingiustificate dal servizio.
In ordine alla vicenda in causa il primo e più importante aspetto da considerare è quello relativo alla determinazione dell'orario di servizio e dell'orario di lavoro (o del tempo di lavoro) che il dipendente pubblico è tenuto a rendere all'Amministrazione di appartenenza, e le modalità del relativo controllo, per la fondamentale ragione che l'orario ed il tempo di lavoro servono, da un lato, per definire la misura della prestazione dovuta dal dipendente pubblico, e, dall'altro lato, per commisurare la retribuzione ad esso spettante in relazione all'orario ed al tempo di lavoro prestato, costituendo tali elementi il sinallagma contrattuale prestazione/retribuzione, che caratterizza il rapporto di lavoro.
Con la contrattualizzazione a regime di diritto privato del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (c.d. “privatizzazione”) la materia dell'orario di servizio e dell'orario di lavoro è stata disciplinata dall'art. 60 del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, che ha anche risolto una serie di incertezze normative e giurisprudenziali riscontrate da tempo in tale materia.
Questa norma è stata, poi, abrogata dall'art. 22 della legge 23.12.1994, n. 724, che ha nuovamente disciplinato la materia (rimasta affidata alla contrattazione collettiva), fissando regole e criteri per l'articolazione dell'orario di servizio nelle Amministrazioni Pubbliche, per la determinazione dell'orario mensile e settimanale di lavoro ordinario da rendere nell'ambito dell'orario di servizio e dell'orario d'obbligo contrattuale, introducendo e definendo i concetti dell'orario di servizio, dell'orario di apertura al pubblico e dell'orario di lavoro (e relative articolazioni) dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche, e precisando anche i conseguenti controlli da operare (il comma 3 di tale norma ha stabilito, a tale ultimo riguardo, che “l'orario di lavoro, comunque articolato, è accertato mediante forme di controllo obiettivo e di tipo automatizzato”).
A seguito delle riferite disposizioni legislative, la disciplina dell'orario di servizio e dell'orario di lavoro nelle Amministrazioni Pubbliche, e dei relativi criteri organizzativi, è stata illustrata dalla Presidenza del Consiglio/Dipartimento della Funzione Pubblica con le Direttive/Circolari n. 8/93 del 09.03.1993 (G.U. n. 60 del 13.03.1993), n. 3/94 del 16.02.1994 (G.U. n. 43 del 22.02.1994), n. 7/95 del 24.02.1995 (Suppl. Ord. n. 36 alla G.U. n. 73 del 28.03.1995) e n. 21/95 dell'08.11.1995 (G.U. n. 270 del 18.11.1995), sottolineando più volte -per quello che interessa in questa sede- che
"l'osservanza dell'orario di lavoro costituisce un obbligo del dipendente pubblico, anche del personale con qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della prestazione retribuita dalla Amministrazione Pubblica” e che “l'orario di lavoro, comunque articolato, deve essere documentato ed accertato mediante controlli di tipo automatici ed obiettivi, come disposto dalle vigenti normative in materia.
A quest'ultimo riguardo le predette Direttive/Circolari hanno precisato che
i sistemi automatizzati di rilevazione dell'orario di lavoro dovranno… essere utilizzati per determinare direttamente la retribuzione principale e quella accessoria, da corrispondere a ciascun dipendente”, per cui “ciò comporta che ad ogni eventuale assenza, totale o parziale dal posto di lavoro (che non sia giustificata dalla vigente normativa in materia) consegue -oltre alla proporzionale automatica riduzione della retribuzione- anche l'attivazione, da parte dei Dirigenti responsabili, delle procedure disciplinari previste dalla normativa vigente.
In proposito,
-sottolineato che anche “i permessi brevi fruiti dai dipendenti pubblici per esigenze personali” (tra i quali rientrano certamente anche le consumazioni al bar fuori dell'edificio presso il quale i dipendenti pubblici sono in servizio) devono essere autorizzati e recuperati successivamente secondo modalità definite dal Dirigente, e sottolineato che, ai sensi delle Direttive/Circolari più volte citate, “i Dirigenti sono responsabili dell'osservanza dell'orario di lavoro da parte del personale dipendente”- va, infine messo in evidenza che -ai sensi delle medesime Direttive/Circolari- “eventuali violazioni dei dirigenti responsabili e del personale dipendente, conseguenti a dolo o colpa grave, che comportano una mancata prestazione, con relativo danno erariale, concretano una violazione penale, oltre che responsabilità disciplinare e contabile.
In materia di orario di lavoro, -dopo varie ed ulteriori disposizioni intervenute in sede di contrattazione collettiva- recentemente è stata emanata la Direttiva/Circolare n. 8/2005 del 03.03.2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (redatta d'intesa con il Dipartimento della Funzione Pubblica “per le parti riguardanti anche il personale dipendente dalle Pubbliche Amministrazioni”), con la quale è stato illustrato il D.Lgs. 08.04.2003, n. 66, integrato e modificato dal D.Lgs. 19.07.2004, n. 213, adottati ai fini del recepimento pieno anche nel nostro Ordinamento della Direttiva dell'Unione Europea n. 93/104/CE del 23.11.1993, e successive modificazioni ed integrazioni, con l'obiettivo di dare un assetto organico alla disciplina del tempo di lavoro e dei riposi, “garantendo un ampio spazio di intervento all'autonomia collettiva per ciò che riguarda la modulazione dei tempi di lavoro (orario normale multiperiodale, gestione degli straordinari, limiti di orario massimo, ecc.) in rapporto alle esigenze produttive ed organizzative”.
Richiamato quanto sopra, si mette in rilievo che
in presenza di accertata dolosa o colposa inadempienza nella dovuta prestazione lavorativa da parte dei pubblici dipendenti, è pacifica e consolidata la giurisprudenza della Corte dei Conti nel riconoscere la responsabilità amministrativa contabile dei predetti dipendenti pubblici, ritenendo che il danno è, in questi casi, quanto meno pari alla spesa sostenuta dall'Amministrazione Pubblica datrice di lavoro per la retribuzione complessivamente erogata a favore dei dipendenti pubblici in questione nel periodo in cui essi non hanno reso la dovuta prestazione lavorativa, fatti salvi comunque gli ulteriori danni che possono essere stati causati a motivo della assenza arbitraria nella gestione dei servizi ai quali i predetti dipendenti pubblici erano addetti o preposti (cfr., fra le tante, Sez. Giurisd. Reg. Molise, Sent. n. 226 del 22.11.1996; Sez. Giurisd. Reg. Toscana, Sent. n. 275 del 20.05.1996; Sez. Giurisd. Reg. Veneto, Sent. n. 238 del 29.11.2000; Sez. Giurisd. Reg. Marche, Sent. n. 807 del 28.10.2003; Sez. Giurisd. Reg. Sicilia, Sent. n. 2375 del 23.08.2004; Sez. Giurisd. Reg. Liguria, Sent. n. 704 del 19.05.2005; e di questa Sezione Giurisdizionale Regionale dell'Umbria, tra le varie, Sent. n. 50/E.L./96 del 17.01.1996; Sent. n. 152/R/96 dell'11.03.1996; Sent. n. 290/E.L./97 del 21.07.1997; Sent. n. 831/R/98 del 02.10.1998; Sent. n. 52/R/99 dell'08.02.1999; Sent. n. 379/E.L./99 dell'01.07.1999; Sent. n. 424/R/2000 del 31.07.2000; Sent. n. 2/E.L./2004 del 09.01.2004, ecc.).
Facendo applicazione al caso di specie del richiamato e condiviso indirizzo giurisprudenziale,
si deve convenire con la Procura Regionale sulla irregolare ed eticamente riprovevole condotta tenuta, nella circostanza, dalla Sig.ra P., la quale -quantomeno il 24.04.2003 (data del controllo formale)- si è assentata dal suo ufficio durante l'orario di servizio, senza autorizzazione, senza timbratura del cartellino magnetico e senza alcuna giustificazione, per essersi recata a fare colazione al bar al di fuori dell'edificio comunale.
In sostanza, nella fattispecie che ci occupa,
la convenuta è venuta meno, con colpa grave, ai suoi precisi obblighi di servizio, allorché -senza la prescritta autorizzazione, senza timbratura del cartellino magnetico e senza alcuna giustificazione- si è assentata dal suo ufficio per i motivi innanzi detti, sottraendo un certo periodo di tempo all'orario di lavoro ed al tempo di lavoro contrattualmente definito.
Nella vicenda in esame
il danno patrimoniale sussiste ed è chiaramente da imputare alla violazione del sinallagma prestazione/retribuzione contrattualmente definito, non essendo stato recuperato da parte della convenuta il tempo di lavoro arbitrariamente e colposamente sottratto all'Amministrazione Pubblica datore di lavoro, pur in presenza di regolare percezione della intera retribuzione.
Né, al riguardo, si rende possibile accedere alle argomentazioni della difesa della convenuta in ordine ad una eventuale compensazione del tempo di lavoro sottratto, di cui si discute, con ore di lavoro straordinario prestate e non retribuite, sia perché non si rinviene in proposito alcuna possibilità giuridica di pervenire a tale compensazione, (essendo stata del tutto arbitrario e non autorizzato l'allontanamento della dipendente pubblica dal posto di lavoro), e sia perché le ore di lavoro straordinario alle quali si fa cenno sono del tutto ipotetiche e non precisate, e senza alcuna traccia negli atti del fascicolo processuale.
Né può essere condivisa anche l'altra argomentazione della difesa della convenuta circa l'abitudine diffusa dei pubblici dipendenti del c.d. “cappuccino” di metà mattinata, normalmente tollerata e, perciò, non antigiuridica e non lesiva, considerato che il limitato periodo di tempo in questione è chiaramente usufruibile con l'utilizzo dei c.d. “permessi brevi” da recuperare successivamente con le modalità disposte dal Dirigente.
Il Collegio deve, peraltro, osservare che nel caso di specie la Procura Regionale non ha fornito una esatta e corretta quantificazione dell'ipotizzato danno patrimoniale in senso stretto, in ordine al quale deve dirsi che è certamente provato il fenomeno, ma non la durata nel tempo né la durata delle singole assenze.
In sostanza, partendo da una rilevazione di un fatto accertato (quello dell'assenza arbitraria del 24.04.2003 di 1 ora e 5 minuti rilevata a seguito di formale controllo, in ordine alla quale si suppone che non tutto l'indicato periodo di tempo sia stato dedicato alla colazione di metà mattinata), si deve ritenere che non è certamente ipotizzabile che possa essere calcolata -ai fini della quantificazione del danno erariale- “un'assenza di 45 minuti giornalieri a partire da 5 anni antecedenti alla data del fatto accertato, tenuto, a tal proposito, conto del termine quinquennale di prescrizione”.
Il metodo utilizzato per la quantificazione del danno patrimoniale operato dalla Procura Regionale, se non è propriamente “stravagante” -come è stato definito dalla difesa della convenuta nella Udienza dibattimentale-, non è certamente corretto ed affidabile, perché non è sorretto da alcuna prova, essendo esso soltanto deduttivo e non basato su alcun atto o rilevazione (tranne quella del 24.04.2003) che possa in qualche modo giustificare la ipotizzata durata delle singole assenze giornaliere (tutte di 45 minuti) e la ipotizzata durata nel tempo (tutti i giorni per 5 anni!).
Ebbene, -considerato che, oltre alla assenza rilevata il 24.04.2003, alcune assenze arbitrarie dal lavoro da parte della Sig.ra P. per fare colazione al bar al di fuori dell'edificio comunale si sono certamente verificate (perché ciò, senza indicarne il numero esatto, è stato ammesso dalla stessa convenuta, sia nelle Note controdeduttive all'Invito a dedurre, e sia nella Comparsa di costituzione in giudizio)- si deve ritenere che sembra più verosimile e più credibile che le assenze arbitrarie e non autorizzate in questione si siano verificate con saltuarietà per una durata di 15/20 minuti, e non risalenti inevitabilmente a 5 anni addietro, come, peraltro, ammesso dalla stessa convenuta, sia pure giustificando ciò con una prassi generalizzata (sconfessata -però- dagli organi ufficiali del Comune di Gubbio).
Sulla base di tali considerazioni e valutazioni, e tenuto conto che allo stato degli atti non vi è assoluta certezza sul numero e sulla durata delle indicate assenze non autorizzate -che, come sopra detto, si sono certamente verificate in un numero non definito-, si deve concludere che la quantificazione del danno patrimoniale in senso stretto da assenze ingiustificate, di cui al presente giudizio, non può che essere definita in via equitativa ex art. 1226 c.c.. Per tali motivi, il Collegio determina il predetto danno patrimoniale in senso stretto nella somma globale di 500,00 Euro, comprensiva di interessi legali e rivalutazione monetaria.
A completamento di quanto sopra argomentato, va anche fatto presente che ben più grave e diversa sarebbe stata la valutazione del Collegio nel caso in cui fosse stata provata e documentata adeguatamente l'assenza arbitraria e non autorizzata dall'Ufficio o nel caso in cui l'impiegato assentatosi senza autorizzazione fosse stato adibito a servizi in diretto contatto con il pubblico, o, comunque, ad altri servizi e settori più rilevanti, con conseguenti riflessi anche su altre tipologie di danno (quale, in particolare, il danno da disservizio).
IIb - DANNO ALL'IMMAGINE ED AL PRESTIGIO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
La Procura Regionale ha contestato, inoltre, alla Sig.ra P. il “danno all'immagine ed al prestigio” del Comune di Gubbio, quantificando tale partita di danno in via equitativa ex art. 1226 c.c. in Euro 6.000,00.
La difesa della convenuta ha contrastato anche tale richiesta attorea, chiedendone il rigetto.
Per quanto attiene il “danno all'immagine ed al prestigio della P.A.” è ben nota, ormai, la posizione e la impostazione concettuale assunta in merito a tale forma di danno erariale da questa Sez. Giurisd. Reg. dell'Umbria (si citano, tra le tante, Sent. n. 501/E.L./1998; Sent. n. 1087/R/1998; Sent. n. 147/R/1999; Sent. n. 582/E.L./1999; Sent. n. 622/E.L./1999; Sent. n. 505/R/2000; Sent. n. 557/R/2000; Sent. n. 620/E.L./2000; Sent. n. 98/E.L./2001; Sent. n. 511/R/2001; Sent. n. 275/E.L./2004; Sent. n. 278/E.L./2004; Sent. n. 49/E.L./2005; ecc.; tutte perfettamente in linea con la giurisprudenza prevalente e maggioritaria in materia, come definita anche in sede di Appello -vedasi al riguardo, in particolare, Sez. Centr. Giurisd. d'Appello, Sent. n. 78/2003/A e Sent. n. 340/2003/A- e dalle Sezioni Riunite in sede Giurisd. della Corte dei Conti con la Sentenza n. 10/Q.M./2003).
In questa sede si ritiene, peraltro, di dover ribadire che
il “danno all'immagine ed al prestigio della P.A. -contrariamente a quanto fatto presente dalla difesa della convenuta- rientra nella connotazione del “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c., in collegamento con l'art. 2 Cost., e “non si correla necessariamente ad un comportamento causativo di reato penale”, non rientrando nell'ambito di applicabilità dell'art. 2059 c.c. (fermo restando, in ogni caso, il principio della separatezza del giudizio per responsabilità amministrativa contabile rispetto a quello penale, come rilevabile dal novellato art. 3 c.p.p.), ma può ben discendere anche “da un comportamento gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito extrapenale”.
A quest'ultimo riguardo, è stato, inoltre, precisato che -ove non si tratti di fattispecie derivante da reati penali-
non tutti gli atti o comportamenti genericamente illegittimi o illeciti compiuti da un amministratore, da un dipendente (anche di fatto), o da un agente pubblico (che pure non giovano certamente al prestigio ed all'immagine della P.A.) sono causalmente idonei a determinare una menomazione di detta immagine e di detto prestigio”, venendo in rilievo -a questi fini (e, perciò, rilevanti nel giudizio di responsabilità amministrativa contabile)- “solo i comportamenti gravemente illegittimi ovvero gravemente illeciti (anche di carattere extrapenale)”, purché idonei -nella loro consistenza fenomenica- a produrre quella “grave perdita di prestigio e della immagine” e quel “grave detrimento della personalità pubblica”.
Va, inoltre, fatto rilevare che
il “danno all'immagine ed al prestigio della P.A.” compiuto da parte di un soggetto legato alla P.A. da un rapporto di lavoro, di impiego o di servizio (anche di fatto) viene in rilievo unitamente ad altri fondamentali e necessari concomitanti elementi, quali il necessario “clamor” e la risonanza e l'amplificazione della notizia da parte dei vari mezzi di informazione, che “non integrano (però) la lesione, ma ne indicano la dimensione”, stando ad evidenziare gli “indici di dimensione via via maggiori che il medesimo evento lesivo può assumere a seconda delle circostanze”.
Come indicato anche nelle precedenti citate Sentenze della Corte dei Conti,
tale forma di danno erariale va inquadrato:
a) nell'ambito della categoria del “danno patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica”, rapportandolo, quindi, -come già evidenziato- al “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 2 Cost.;
b) nell'ambito della fattispecie del “danno esistenziale”, inteso quale “tutela della propria identità, del proprio nome, della propria reputazione e credibilità”;
c) nell'ambito della categoria del “danno/evento” (e non del “danno/conseguenza”), considerato che, poiché l'“oggetto del risarcimento non può che essere una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva e la liquidazione del danno non può riferirsi se non a perdite, a questi limiti soggiace anche la tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali causati dalla lesione di diritti od interessi costituzionalmente protetti, quali il diritto all'immagine, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento, senza la diminuzione o la privazione di valori inerenti al bene protetto”;
d) nell'ambito delle fattispecie per le quali -non essendo richiesta la prova delle spese necessarie al recupero del bene giuridico leso- si può fare affidamento -per la concreta determinazione dell'ammontare del danno erariale- sulla “valutazione equitativa del Giudice”, ai sensi dell'art. 1226 c.c., sulla base dei “parametri di tipo oggettivo, soggettivo e sociale” come definiti dalla giurisprudenza maggioritaria e prevalente della Corte dei Conti di cui si è detto ed, in particolare, da diverse Sentenze della Sez. Giurisd. Reg. dell'Umbria;
e) nell'ambito delle fattispecie per le quali sussiste in ogni caso “l'onere per l'attore di indicare le presunzioni, gli indizi e gli altri parametri che intende utilizzare sul piano probatorio”.

Precisato ciò in termini generali, nella fattispecie concreta del caso di specie occorre tenere presente che -in relazione alla ricostruzione dei fatti ed agli elementi probatori forniti dalla Procura Regionale per tale specifica partita di danno- non sembra che possa essere concretamente individuato un “danno all'immagine ed al prestigio del Comune di Gubbio”, non rinvenendosi negli atti di causa elementi di prova veramente concreti e veramente efficaci che possano utilmente dimostrare la sussistenza di tale danno erariale.
Al riguardo, occorre considerare che la Procura Regionale ha configurato tale danno soprattutto in ragione del discredito che avrebbe colpito il Comune di Gubbio a seguito della diffusione di notizie sulla vicenda in questione ed, in particolare, a seguito della pubblicazione di due articoli della stampa locale riguardanti detta vicenda.
Convenendo in ciò con la difesa della convenuta, va osservato che i due articoli di stampa posti a base della contestata partita di danno (l'uno sulla “Nazione” dell'08.06.2003 e l'altro sul “Corriere dell'Umbria” del 10.06.2003) non attengono ai fatti di cui è causa (solo in uno, in una parentesi, si accenna al “cappuccino” senza alcun altro collegamento), e non fanno alcun riferimento alla convenuta (che non viene mai nominata).
Infatti, il primo brevissimo articolo (dal titolo “Trasferimento che sa di mobbing”) si occupa del trasferimento di un dipendente da un Ufficio ad un altro Ufficio del Comune di Gubbio, che avrebbe procurato un notevole stress al soggetto interessato (non indicato), “intenzionata a presentare formale denuncia”, ed il secondo articolo, anche esso brevissimo, (dal titolo “Due dipendenti puntano i piedi”) si occupa di due dipendenti (anche essi non indicati) che avrebbero meditato di far causa per mobbing al Comune di Gubbio (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria, sentenza 23.08.2005 n. 313).

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier CONDIZIONATORE D'ARIA

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Qualifica di sottoprodotto del fresato di asfalto (ANCE Bergamo, circolare 30.08.2013 n. 192).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedure semplificate per il riutilizzo delle terre e rocce da scavo (ANCE Bergamo, circolare 30.08.2013 n. 191).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC. Recapito esclusivamente via PEC (INAIL, nota 28.08.2013 n. 5299 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Oggetto: interpello ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. n. 124/2004 – fruizione del congedo parentale su base oraria (art. 1, comma 339, L. n. 228/2012) (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 22.07.2013 n. 25/2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - TRIBUTI: G.U. 31.08.2013 n. 204, suppl. ord. n. 66/L, "Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di trattamenti pensionistici" (D.L. 31.08.2013 n. 102).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 31.08.2013 n. 204 "Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni" (D.L. 31.08.2013 n. 101).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G. Musolino Il riconoscimento dei vizi dell'opera nel contratto di appalto (Rivista Trimestrale degli Appalti n. 4/2012).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico con detrazione Irpef.
Domanda
È possibile fruire della detrazione Irpef del 36-50% per l'installazione sul tetto di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica? Mi sono informata ma ho ricevuto risposte dubbiose o discordanti.
Risposta
La risposta è affermativa. I dubbi –che effettivamente esistevano– sono stati risolti solo di recente dall'Agenzia delle entrate, previa consultazione del Ministero dello sviluppo, con una importante nota in data 14/03/2013 che, in sintesi, ha chiarito quanto segue con riferimento ai pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte solare:
1) la detrazione del 36/50 per cento (la percentuale del 50% è applicabile fino al 30.6.2013) è compatibile con il meccanismo dello «scambio sul posto» (che realizza la riduzione dell'assorbimento dell'energia dalla rete), mentre è incompatibile con la richiesta delle tariffe incentivanti del «conto energia»;
2) agli impianti fotovoltaici elettrici non può applicarsi la detrazione del 55% (anche essa prevista fino al 30.06.2013;
3) la realizzazione dell'impianto a fonte rinnovabile comporta automaticamente la riduzione della prestazione energetica, non occorrono quindi attestazioni ma è necessario conservare la documentazione comprovante l'avvenuto acquisto e installazione a servizio di un edificio residenziale e le abilitazioni amministrative eventualmente richieste dalla normativa edilizia. Se queste ultime non occorrono, il contribuente deve predisporre una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà che lo attesti, come da Provvedimento del direttore dell'Ag. entrate 02/11/2011;
4) l'installazione di un impianto fotovoltaico per la produzione di energia elettrica, per beneficiare della detrazione Irpef del 36/50 per cento –applicabile a immobili residenziali e alle condizioni tutte previste dalla relativa disciplina fiscale– deve avvenire per fare fronte ai bisogni energetici dell'abitazione (usi domestici, di illuminazione, alimentazione di apparecchi elettrici ecc.) e quindi deve essere posto direttamente al servizio dell'abitazione dell'utente.
Pertanto, la detrazione Irpef è esclusa se la cessione dell'energia prodotta in eccesso configura esercizio di attività commerciale, ossia per impianti di potenza superiore a 20 kw o di potenza non superiore ma che non siano posti a servizio dell'abitazione (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATALa fattispecie di esonero dal contributo di costruzione ricorre quando l’opera non solo è conforme agli strumenti urbanistici bensì è anche espressamente contemplata come tale nello strumento urbanistico”.
Si annette efficacia dirimente ai fini dell’esenzione al nesso che deve intercorrere tra l’opera e lo strumento urbanistico atteso che “affinché possa trovare applicazione la disposizione invocata non è sufficiente la generica sussumibilità degli interventi nell’ambito delle opere di urbanizzazione” essendo esenti dal contributo, per espressa previsione normativa, solo quelle eseguite “in attuazione di strumenti urbanistici”. Ciò in quanto “la ratio della gratuità in termini di contributi di costruzione è quella di incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste dall’Autorità comunale”.
Ne consegue che “
affinché un intervento possa qualificarsi come opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici è necessario che, oltre a potersi qualificare opera di urbanizzazione, sia specificamente indicata nello strumento urbanistico corrispondendo ad una precisa indicazione dello stesso”.
Pertanto, è rimesso, se del caso mediante previa adozione di norme regolamentari, alla competenza ed alla discrezionalità dello stesso Ente –peraltro in possesso della necessaria conoscenza circa gli strumenti urbanistici vigenti– la verifica del se ed in che misura il singolo intervento sia ascrivibile al genu
s della opera di urbanizzazione e soddisfi compiutamente i presupposti rilevanti al fine dell’esenzione come dianzi ricostruiti.
Il Comune di Grottammare con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta individuazione dell’ambito di applicabilità del disposto di cui all’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. 380/2001 a mente del quale “il contributo di costruzione non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
Evidenziate le due distinte ipotesi tratteggiate dalla norma e, richiamato l’orientamento pressoché pacifico della giurisprudenza in merito ai presupposti –oggettivo e soggettivo– in costanza dei quali possa ritenersi integrata la prima fattispecie (impianti, attrezzature, opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti), il Comune istante chiede di conoscere il motivato avviso della Sezione in relazione alla diversa categoria delle “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
Prospetta, in particolare, un dubbio interpretativo circa la sussumibilità nella anzidetta categoria di opere “dimensionate per soddisfare bacini di utenza più ampi di quelli locali (grandi attrezzature culturali)” nonché in ordine alla necessità, ai fini dell’esenzione, che “dette strutture restino nella proprietà del privato esecutore pur con specifico vincolo di destinazione ad uso pubblico.
...
La questione prospettata dall’Ente istante evoca una problematica su cui la giurisprudenza, non solo contabile, si è, a più riprese e sotto diversi profili prospettici, pronunciata fissando principi che la Sezione ritiene di non disattendere.
Rileva, a tal riguardo, tra gli altri il
parere 18.01.2012 n. 5 con il quale la Sezione Regionale di controllo per la Lombardia –nell’operare una minuziosa ricostruzione ermeneutica del disposto di cui all’art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. 380/2001 nella sua duplice articolazione– con specifico riguardo alla ipotesi che ne occupa (quella relativa alle opere di urbanizzazione eseguite anche da privati in attuazione di strumenti urbanistici) ha evidenziato come “secondo giurisprudenza amministrativa consolidata la fattispecie di esonero dal contributo di costruzione ricorre quando l’opera non solo è conforme agli strumenti urbanistici bensì è anche espressamente contemplata come tale nello strumento urbanistico”.
Valorizzando il portato letterale della norma e le coordinate interpretative rese dalla giurisprudenza amministrativa
si annette, dunque, efficacia dirimente ai fini dell’esenzione al nesso che deve intercorrere tra l’opera e lo strumento urbanistico atteso che “affinché possa trovare applicazione la disposizione invocata non è sufficiente la generica sussumibilità degli interventi nell’ambito delle opere di urbanizzazione” essendo esenti dal contributo, per espressa previsione normativa, solo quelle eseguite “in attuazione di strumenti urbanistici”.
Ciò in quanto “la ratio della gratuità in termini di contributi di costruzione è quella di incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste dall’Autorità comunale (Tar Lombardia – Sez. Brescia, n. 163/2005).
Ne consegue che “
affinché un intervento possa qualificarsi come opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici è necessario che, oltre a potersi qualificare opera di urbanizzazione, sia specificamente indicata nello strumento urbanistico corrispondendo ad una precisa indicazione dello stesso” (Tar Lombardia – Sez. Brescia, citata).
Ciò premesso, venendo agli specifici quesiti posti dal Comune richiedente, appare di tutta evidenza che
è rimesso, se del caso mediante previa adozione di norme regolamentari, alla competenza ed alla discrezionalità dello stesso Ente –peraltro in possesso della necessaria conoscenza circa gli strumenti urbanistici vigenti– la verifica del se ed in che misura il singolo intervento sia ascrivibile al genus della opera di urbanizzazione e soddisfi compiutamente i presupposti rilevanti al fine dell’esenzione come dianzi ricostruiti (in tal senso cfr. anche Sezione Regionale di controllo per la Lombardia, 5/PAR/2012 cit.) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 07.08.2013 n. 60).

ENTI LOCALI: Risorse umane. La portata dei vincoli. Tetto al personale ad ampio raggio.
I vincoli di spesa del personale previsti per gli enti sottoposti al Patto di stabilità interno trovano immediata e uniforme applicazione anche nei piccoli Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, per i quali si applicano a decorrere da quest'anno le regole di finanza pubblica previste dall'articolo 16, comma 31, Dl 138/11 (convertito dalla legge 148/2011).

Con il parere 29.07.2013 n. 256, la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Toscana, richiamando un parere precedentemente espresso dalla Sezione autonomie, sostiene che l'assenza di specifiche disposizioni di diritto intertemporale in ordine all'applicazione dei nuovi vincoli di spesa di personale «non consente di legittimare interpretazioni additive o derogatorie dell'articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008».
I vincoli pubblicistici imposti agli enti soggetti al patto di stabilità si applicano dunque dal 2013 anche ai Comuni con popolazione compresa fra 1.001 e 5mila abitanti, indipendentemente dall'esistenza di eventuali procedure concorsuali perfezionate nell' esercizio precedente.
Anche i piccoli Comuni sono pertanto tenuti a osservare le regole dell'articolo 1, comma 557, della legge Finanziaria 2007, che impongono la riduzione della spesa di personale rispetto all'esercizio precedente, nonché l'articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008 che fissa il tetto massimo per le assunzioni a tempo indeterminato nel 40% della spesa corrispondente alle cessazioni intervenute l'anno prima.
L'orientamento espresso dai magistrati contabili si contrappone all'interpretazione della Ragioneria generale dello Stato (nota del 26.02.2013, n. 927), con la quale si legittimava l'assunzione di personale all'esito di concorsi avviati nel 2012, nell'ambito di atti programmatori sul fabbisogno di personale, conclusi con l'approvazione della graduatoria finale nello stesso anno.
Secondo la Corte, le ragioni di contenimento della spesa pubblica devono essere considerate prioritarie rispetto a valutazioni di merito riferite alla fase di prima applicazione della nuova disciplina in capo ai piccoli enti.
L'estensione delle regole del Patto ai piccoli Comuni è infatti avvenuta, sostengono i giudici, assicurando comunque un congruo arco temporale durante il quale gli stessi enti hanno potuto riprogrammare i livelli di spesa e le procedure di reclutamento del personale (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

ENTI LOCALI: Patto di stabilità 2013: stretta dalla Corte dei Conti sulle assunzioni di personale.
Il Patto di stabilità 2013, in tema di limitazione alle assunzioni di personale, vincola i Comuni anche se l'assunzione discende da una procedura concorsuale già avviata, in stato avanzato e di cui addirittura è stata pubblicata la graduatoria. Infatti, non si rinvengono ragioni per sottrarre i Comuni all'immediata e uniforme applicazione dei limiti di spesa che, dall'anno 2013, impongono il contenimento delle assunzioni di personale.

A fornire queste precisazione è la Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per la Toscana, con il parere 29.07.2013 n. 256.
IL CASO
Il Consiglio delle autonomie locali inoltrava alla Sezione Regionale di controllo per la Toscana della Corte dei Conti richiesta di parere formulata dal Sindaco di un Comune toscano, compreso tra i 1.001 e i 5.000 abitanti e sottoposto al patto di stabilità dal 2013, in materia di spesa di personale.
Nello specifico, il Sindaco chiedeva alla sezione contabile preposta al controllo se l’ente, impossibilitato dall’applicazione della nuova disciplina ad effettuare una nuova assunzione, potesse procedervi laddove essa conseguisse ad una procedura concorsuale già avviata, terminata con graduatoria pubblicata nel 2012 e rientrante nella pregressa programmazione.
LA NORMATIVA
La Legge 12.11.2011, n. 183, così come modificata dalla Legge 24.12.2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013) disciplina le modalità operative del patto di stabilità, oltre che per il 2012, anche per le annualità dal 2013 al 2016.
Occorre sottolineare che tra gli enti locali sottoposti al patto, a partire dal 2013, sono compresi per la prima volta anche i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti.
In tema di limitazione della spesa di personale il legislatore ha dettato una disciplina specifica per gli enti in ragione della loro sottoposizione al patto di stabilità interno, stabilendo che per essi trova applicazione l’art. 1, comma 557, della L. n. 296/2006 (Legge finanziaria per il 2007) che impone una riduzione di spesa rispetto all’esercizio finanziario precedente, oltre che l’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112/2008 (conv. con L. n. 133/2008) che consente nuove assunzioni a tempo indeterminato solo ove il relativo onere sia contenuto entro il 40% della spesa corrispondente alle cessazioni intervenute nell’anno precedente.
LA NOTA DEL M.E.F.
L’ente richiedente, dando preliminarmente atto che sulla scorta della nuova disciplina esso nel 2013 non avrebbe potuto effettuare alcuna assunzione a tempo indeterminato, chiedeva di poter comunque assumere all’esito di procedura concorsuale legittimamente avviata nel 2012 -in conformità alla programmazione dell’ente stesso in tema di fabbisogno di personale- conclusasi con l’approvazione della graduatoria entro il medesimo anno.
A conforto di tale tesi, il Comune citava la nota n. 927 del 26.02.2013 del M.E.F. con cui, in riferimento al transito dalla pregressa alla nuova disciplina, si afferma che “Tenuto conto, dunque, da un lato, che il nuovo regime assunzionale è in una fase di prima applicazione e, dall’altro, della necessità per gli Enti locali di acquisire in organico figure professionali necessarie al corretto svolgimento delle proprie funzioni istituzionali, si ritiene che, coerentemente con la tempistica che la legge impone per l’adeguamento agli obblighi in parola (ovvero come sopra evidenziato, 01.01.2013, cfr. art. 16, comma 31, d.l. 138/2011), le medesime procedure potranno essere fatte salve soltanto laddove si trovino ad uno stadio avanzato di svolgimento, che può dirsi verosimilmente coincidente con l’avvenuta pubblicazione, al 31.12.2012, del calendario delle relative prove d’esame”.
IL PARERE DELLA CORTE DEI CONTI
Nonostante la nota del M.E.F., la Corte dei Conti, con la delibera n. 256/2013/PAR del 29.07.2013, ha fornito parere negativo.
La Sezione controllo per la Toscana cita, a tal proposito, una pronuncia della Sezione Autonomie della Corte (deliberazione n. 6/2012) che, pronunciandosi sulle sanzioni per la violazione del patto di stabilità interno e di spesa di personale, ha affermato che l’assenza di specifiche disposizioni di diritto intertemporale in ordine all’applicazione dei nuovi vincoli di spesa, non consente di legittimare interpretazioni additive o derogatorie dell’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112/2008.
La legge di stabilità è volta ad una riduzione della spesa pubblica anche in forza della grave crisi finanziaria in cui versa il Paese e, sebbene non siano state previste specifiche disposizioni di diritto intertemporale volte a regolare il passaggio tra i due assetti normativi, l’estensione della disciplina del Patto ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti è avvenuta assicurando, comunque, un congruo arco temporale durante il quale gli stessi enti potranno provvedere a riprogrammare non soltanto le procedure di reclutamento, in linea con il preannunciato regime vincolistico, ma anche i livelli complessivi di spesa.
La Corte cita, inoltre, un precedente parere della Sezione controllo (n. 190/2013 del 18.06.2013) con cui i giudici, in un caso analogo, dando risposta negativa al quesito posto dall’ente, avevano ritento di non poter escludere i comuni dall’immediata e uniforme applicazione dei vincoli di contenimento della spesa che, dall’anno 2013, impongono il contenimento della spesa di personale.
Ora la nuova delibera (n. 256 del 2013) con la quale la Corte formula un nuovo parere negativo sulla possibilità di procedere all’assunzione di personale, anche sulla base di una procedura concorsuale già in stato avanzato e conclusasi con la pubblicazione della graduatoria.
Ciò anche in ragione del fatto che l’art. 12 delle Preleggi stabilisce che “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” e che la norma in esame –secondo la Corte- non offre all’interprete alcun appiglio testuale che consenta di accedere ad una interpretazione, quale quella operata dal M.E.F., che è conseguentemente contra legem (commento tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO: LAVORO PUBBLICO/ Le stabilizzazioni a ostacoli. Limiti finanziari e programmazione da aggiornare. Un'applicazione tortuosa per il decreto antiprecariato.
La strada per la stabilizzazione dei dipendenti pubblici precari è piuttosto tortuosa. I decreto legge sul pubblico impiego approvato venerdì scorso dal governo prevede, infatti, una serie di adempimenti e vincoli, trai quali non è semplice districarsi.
Limiti finanziari. In primo luogo, le amministrazioni non possono destinare alle stabilizzazioni tutte le risorse a disposizione per assumere. Occorre, infatti, rispettare quanto prevede l'articolo 35, comma 3-bis, del dlgs 165/2001 che impone il «limite massimo complessivo del 50% delle risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di assunzioni ovvero di contenimento della spesa di personale».
Insomma, per garantire che le procedure concorsuali coinvolgano anche coloro che non sono qualificabili come «precari (garanzia dell'adeguato accesso dall'esterno), solo il 50% delle risorse disponibili potrà essere impiegato per la stabilizzazione. Le risorse disponibili sono quelle risultanti dalla normativa vigente, che impone annualmente di ridurre il tetto complessivo della spesa di personale e lega la possibilità di avviare i concorsi a specifici limiti al turnover: per gli enti locali, il 40% del costo delle cessazioni dell'anno precedente.
Programmazione. Le stabilizzazioni, come sempre, sono solo una facoltà e non un obbligo per le amministrazioni. Occorre, pertanto, formalizzare la decisione di effettuarle, mediante l'aggiornamento alla programmazione triennale delle assunzioni, sede nella quale stabilire di effettuare i le assunzioni.
Monitoraggio. Il decreto legge assegna al Dipartimento della Funzione pubblica il compito di realizzare, a partire dal 30 settembre (ma non è indicata la data di chiusura) un monitoraggio, allo scopo di «individuare quantitivamente, tenuto anche conto dei profili professionali di riferimento, i vincitori e gli idonei collocati in graduatorie concorsuali vigenti per assunzioni a tempo indeterminato, coloro che dispongano dei requisiti per la stabilizzazione: segno che, in effetti, quanti siano ancora non è ben chiaro. Ebbene, le amministrazioni intenzionate a stabilizzare i precari dovranno obbligatoriamente conferire i dati sui contratti a termine gestiti nel monitoraggio telematico, a pena di non poter realizzare le assunzioni programmate».
Termine per procedere. La nuova ondata di stabilizzazioni può essere svolta entro il 31.12.2015.
Procedure selettive. Contrariamente a quanto affermato dal governo, il sistema di selezione dei precari non sarà particolarmente meritocratico. Infatti, il decreto legge non mette in concorso precari e ogni altro cittadino potenzialmente interessato ad un'assunzione, ma solo i precari tra loro, dal momento che permette alle amministrazioni di indire procedure concorsuali «riservate esclusivamente» ai precari.
Requisiti soggettivi. Le stabilizzazioni coinvolgeranno una serie di soggetti. In primo luogo i soggetti indicati dall'articolo 1, commi 519 e 558, della legge 296/2006, cioè coloro che erano in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che abbiano conseguito tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29.09.2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della legge 296/2006. In secondo luogo, i soggetti indicati dall'articolo 3, comma 90, della legge 244/2007 e, cioè, chi abbia maturato i requisiti di anzianità di servizio previsti dalla legge 296/2009 alla data del 28.09.2007.
Infine, coloro che, alla data di entrata in vigore del dl abbiano hanno maturato, negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze dell'amministrazione che emana il bando. Le stabilizzazioni non varranno per i dirigenti assunti a tempo determinato e per gli addetti agli uffici di diretta collaborazione degli organi politici: gli anni di servizio svolti in questi uffici non potranno essere computati ai fini dell'anzianità richiesta.
Proroga. Il dl, infine, contiene l'ennesima proroga ai contratti in corso. Il decreto legge permette alle amministrazioni di prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato dei soggetti che hanno maturato, alla data di entrata in vigore, almeno tre anni di servizio alle proprie dipendenze. Condizione per la proroga sono la verifica dell'effettivo fabbisogno, il rispetto delle risorse finanziarie disponibili e la coerenza con i requisiti relativi alle tipologie di professionalità da assumere a tempo indeterminato, indicati nella programmazione triennale. La proroga può essere disposta fino al completamento delle procedure concorsuali e comunque non oltre il 31.12.2015 (articolo ItaliaOggi del 31.08.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Social housing coi privati limitato in poche aree.
Nonostante qualche caso d'eccellenza e qualche sperimentazione innovativa, il sistema dell'edilizia pubblica o il social housing, nell'accezione oggi diffusa, resta cronicamente in affanno.

Questo spiega l'intervento del governo, che con il decreto Imu ha anche voluto alleviare il carico fiscale sugli edifici a destinazione sociale (promossi da ex Iacp, coop e soggetti provati) e sostenere le famiglie in difficoltà. Ma le criticità restano.
Prima di tutto nel soddisfacimento della domanda: Federcasa, l'associazione dei 99 ex-Iacp variamente denominati, conferma il numero di 600mila famiglie in lista per ottenere un alloggio. Parliamo di alloggi popolari a basso canone, sovvenzionati interamente con fondi pubblici.
Anche sul fronte della gestione, il settore fa acqua. È complessivamente incapace di spendere le risorse assegnate. Un esempio? Per realizzare interventi di edilizia sovvenzionata, cioè gli alloggi per i più poveri, c'è ancora un bel gruzzolo di risorse non spese. Si tratta di circa 1,6 miliardi di fondi cosiddetti ex-Gescal, dal 2001 nella disponibilità delle Regioni. E che le regioni spendono con il contagocce, secondo quanto si evince dai report della Cassa depositi e prestiti, che custodisce questi soldi. Più precisamente sul conto corrente n. 20128/1208 di Cdp figurano 1,646 miliardi (risorse di competenza, di cui 961 milioni di cassa). Il fatto che da 12 anni le Regioni hanno ancora in cassa tutti questi soldi significa che è mancata la capacità di spesa e di programmazione.
Peraltro le Regioni sono già state convocate, questo settembre, dal ministero delle Infrastrutture per «una verifica di tutto lo stato di avanzamento e di attuazione dei programmi finanziati dallo Stato», come spiega Costanza Pera, direttore delle Politiche abitative di Porta Pia. Un redde rationem che non riguarderà tanto i fondi ex Gescal (di pertinenza regionale) ma quelli dello Stato e che potrebbe preludere a una rivisitazione del sistema delle politiche abitative.
L'ultimo scricchiolio "di sistema" proviene da Milano, dove è esplosa la questione delle disastrate finanze dell'Aler (che è anche il più grosso ex-Iacp d'Italia, seguito dallo quello di Roma). Per ammissione dello stesso assessore lombardo Paola Bulbarelli, i debiti cumulati hanno superato il mezzo miliardo di euro, e la Regione deve mettere mano al portafoglio per scongiurare il collasso dell'ente.
Non solo le aziende casa non riescono a fare fronte all'emergenza, ma ora la crisi aggrava mali antichi, come l'incremento della morosità e l'occupazione indebita degli alloggi, anche da parte della criminalità.
Un solo dato, che riguarda Roma basta a rendere l'idea: gli alloggi occupati abusivamente nel 2012 sono stati 5.010; nello stesso anno lo Iacp della Capitale è stato in grado di liberarne solo 10. A Roma oltre il 10% di alloggi è occupato da abusivi, a Napoli siamo 7,2% e a Milano al 3,55% (fonte Federcasa).
Poi c'è la zona grigia del cosiddetto social housing, che, in via residuale include tutti coloro che non sono così poveri da rientrare nelle liste d'attesa per un alloggio popolare, ma non hanno neanche i soldi per acquistare o affittare alloggi a prezzo di mercato. È una fascia che la crisi sta ingrossando ogni giorno. Una risposta è stata data cinque anni fa, con il cosiddetto piano casa nazionale, varato nel giugno del 2008.
La novità stava nel meccanismo finanziario imperniato su un "fondo di fondi" per sostenere iniziative promosse a livello locale. Il perno di tutto è Cdp Investimenti Sgr, la società della Cassa depositi e prestiti che gestisce un fondo da 2 miliardi, che finora a impegnato 833 milioni, ma solo in minima parte con delibere definitive. Dall'impegno finanziario alle case però ce ne passa, e dei circa 11.135 alloggi stimati da Cdp quelli realizzati sono pochissimi. Inoltre il Mezzogiorno è praticamente assente.
La sfida del piano Cdp era di coinvolgere i privati in attività redditizie ma rivolte a fasce deboli. Risultati? «Le realizzazioni sono veramente poche rispetto alle proiezioni – dice l'imprenditore torinese Alessandro Cherio, vicepresidente dell'Ance –. È il caso di rivedere quello che è stato pensato». L'obiettivo iniziale del maxi fondo era soprattutto dare una risposta all'affitto. «Ma le iniziative realizzate –obietta Cherio– sono più forme di vendita che di affitto».
Anche il neo assessore all'Urbanistica di Roma, Giovanni Caudo, che conosce bene il meccanismo dei fondi per averlo studiato come tecnico dell'Anci, evidenzia i limiti dello strumento. «A distanza di qualche anno dall'avvio dell'iniziativa i risultati sono deludenti, se confrontati con le aspettative. Manca la figura del gestore sociale, che nelle esperienze positive di altri paesi assicura l'utilità sociale» (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2013).

ENTI LOCALIL'ABOLIZIONE DELL'IMU/ Bilanci rinviati al 30 novembre. Aliquote e regolamenti efficaci appena pubblicati online. Con il decreto si viene incontro alle incertezze degli enti.
I bilanci degli enti locali slittano ancora, questa volta al 30 novembre. La nuova proroga, dopo quella al 30 settembre disposta dal decreto «sblocca pagamenti», è contenuta nella bozza del decreto Imu approvato mercoledì dal governo.

Si tratta quasi di un record, dato che la dead-line viene collocata ben undici mesi dopo la scadenza naturale del 31 dicembre.
L'ennesimo rinvio è motivato soprattutto dalle incertezze che riguardano i conti dei comuni: a beneficiarne, tuttavia, potranno essere anche le province, oltre agli altri enti locali, come, ad esempio, le unioni di comuni.
Ma, come detto, sono i sindaci ad avere le maggiori difficoltà nel chiudere i preventivi 2013.
Oltre ovviamente al restyling dell'imposta municipale propria (con gli annessi dubbi relativi ai tempi ed alle modalità di erogazione dei rimborsi per il mancato gettito), in ballo c'è ancora il destino della Tares (su cui il decreto introduce nuove modifiche), ma soprattutto quello del fondo di solidarietà comunale.
Quest'ultimo, istituito dalla scorsa legge di stabilità (l 228/2013) al posto del fondo sperimentale di riequilibrio, avrebbe dovuto essere reso operativo entro la metà dello scorso mese di maggio, sulla base di un accordo fra le amministrazioni locali, ovvero, in mancanza, dallo Stato in via unilaterale.
Il prescritto dpcm, però, non ha ancora visto la luce.
Nel frattempo, la legge 64/2013 (di conversione del dl 35 sullo sblocco dei debiti della pa) ha parzialmente modificato, semplificandoli, i criteri di riparto. Ma ciò non è stato finora sufficiente a sciogliere l'impasse.
L'ostacolo principale è rappresentato dalla mancata distribuzione dei tagli previsti dalla «spending review» (dl 95/2012), che per i comuni quest'anno valgono 2250 milioni. In base alla disciplina originaria, a guidare le sforbiciate (sempre salvo diverso accordo fra i sindaci) avrebbero dovuto essere i consumi intermedi rilevati dal Siope nel 2011.
Successivamente, però, la legge 64 ha cambiato le carte in tavola, spostando il riferimento al triennio 2010-2012 e introducendo una clausola di salvaguardia articolata per fasce demografiche. Ma anche in tal caso, la modifica non è bastata, costringendo i ragionieri a scrivere in bilancio dati stimati sulla base di formule (talora) arcane.
Il risultato è che lo Stato, dopo l'acconto pagato a fine febbraio (pari al 20% del fondo 2012) non ha più versato un euro ai comuni, causando diffuse difficoltà di cassa che il rinvio (ora trasformato in abolizione definitiva) dell'acconto Imu ha ulteriormente accentuato.
Ora il decreto ci mette una pezza, prevedendo che, nelle more della definizione del fondo di solidarietà, il ministero dell'interno eroghi, entro il prossimo 5 settembre, un ulteriore anticipo di 2.500 milioni di euro.
Per chi non ha ancora approvato il bilancio, quindi, ci sono ora altri tre mesi di tempo per farlo. Chi taglierà il traguardo dopo il 30 settembre, non dovrà ovviamente adottare la deliberazione consiliare sulla salvaguardia degli equilibri di cui all'art. 193 del Tuel, mentre per chi licenzierà il preventivo dopo il 1 settembre tale adempimento continua ad essere facoltativo. Per quest'anno, infine, le deliberazioni di approvazione delle aliquote e delle detrazioni, nonché i regolamenti dell'Imu, acquistano efficacia a decorrere dalla data di pubblicazione nel sito istituzionale di ciascun comune (articolo ItaliaOggi del 30.08.2013).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, con il dl Fare la certezza di ricorsi ai Tar. Parla Leonardo Piochi, avvocato amministrativista.
Le norme in materia di edilizia del decreto del Fare daranno luogo certamente a ricorsi al Tar. E costringeranno i comuni a riprendere in mano i propri strumenti urbanistici per verificare la loro compatibilità con le nuove disposizioni.
A spiegarlo a ItaliaOggi è Leonardo Piochi, avvocato di Siena specializzato nel diritto amministrativo, secondo cui le semplificazioni varate con l'articolo 30 del dl n. 69/2013 sono tutt'altro che immuni da controindicazioni.
* * *
Domanda. Per effetto del dl Fare, gli interventi di demolizione e ricostruzione che comportano la modifica della sagoma dell'edificio preesistente (purché non vincolato) saranno eseguibili presentando la Scia. Non è una semplificazione questa?
Risposta. Senz'altro la misura può dare impulso all'edilizia, che notoriamente è il motore dell'economia. Ma allo stesso tempo l'inserimento di una norma di questo genere può avere effetti dirompenti sugli strumenti urbanistici generali. Finora i comuni hanno parametrato le proprie decisioni su un concetto di ristrutturazione basato sull'identità di volumi e sagoma. La possibilità di ricostruire con identità di volume ma diversa sagoma è suscettibile di creare problematiche, prima di tutto con riguardo alle distanze da rispettare (sia riferite ai confini di proprietà sia tra fabbricati).
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D. Senza più la necessità di attendere il permesso di costruire, però, i lavori potranno partire più rapidamente.
R. È vero, ma allo stesso tempo se non verrà meglio precisata la portata di questa novità c'è il pericolo di un fiorire di contenziosi anche tra vicini.
* * *
D. E per quanto riguarda la norma che consente con le stesse modalità il recupero di fabbricati crollati o demoliti, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza?
R. Anche qui la novità è significativa. Sia il Consiglio di stato sia la Cassazione hanno da tempo stabilito che la ricostruzione su ruderi non costituisce ristrutturazione edilizia ma nuova costruzione. Ora si dispone il contrario. Con la sicura problematica costituita dai mezzi idonei per accertare la preesistente consistenza del manufatto crollato o demolito. In Toscana molti fabbricati appartengono al catasto leopoldino (datato 1765, ndr), nel quale solitamente è riportata la mappa, ma non altezze e cubature. Potranno probabilmente essere usate fotografie, mentre escludo la possibilità di ricorrere a prove testimoniali.
* * *
D. Pure su questo fronte, quindi, si potrebbero aprire delle liti?
R. Direi proprio di sì. Pensiamo a tutti quei casi in cui un soggetto pretenda di recuperare ruderi in aree rurali. Con le norme antecedenti al dl Fare questi erano considerati diruti e quindi comportavano un'attività di nuova edificazione (nella maggior parte dei casi vietata, a meno di non essere funzionale all'attività agricola). Oggi, trattandosi di ristrutturazione, l'intervento potrebbe essere possibile.
* * *
D. Cosa ne pensa dell'indennizzo contro la p.a. «lumaca» (30 euro per ogni giorno di ritardo rispetto alla scadenza per la conclusione del procedimento, fino a un massimo di 2.000 euro)?
R. Mi sembra una misura in linea teorica condivisibile, in concreto poco incisiva. Che la p.a. possa, spesso, non essere tempestiva nella conclusione dei procedimenti è ormai quasi inevitabile tenuto conto della complessità della normativa in vigore. Gli importi sono stati ridimensionati rispetto alle previsioni iniziali. Tuttavia, anche considerato il diritto al risarcimento del danno da mero ritardo, la lentezza nella conclusione dei procedimenti può cominciare a costare caro alle amministrazioni e di riflesso ai suoi funzionari, spesso incolpevoli in quanto oberati di pratiche molto complesse.
* * *
D. Quali i possibili rimedi?
R. Senza dubbio una semplificazione vera, che consenta di passare da un controllo ex ante della p.a. a un controllo ex post, lasciando agire nel frattempo il privato senza troppi lacci e lacciuoli.
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D. In tema di varianti non essenziali dal permesso di costruire il ddl semplificazioni (al debutto in senato) prevede proprio una soluzione del genere.
R. Vedremo i tempi di approvazione del disegno di legge. Lascia comunque perplessi la scelta di intervenire in maniera così frammentata e poco organica sul Testo unico dell'Edilizia.
* * *
D. Qualche giorno fa Romano Prodi ha detto che se si abolissero i Tar e il Consiglio di stato il pil aumenterebbe immediatamente (si veda ItaliaOggi del 13.08.2013). Questo a causa dei frequenti contenziosi amministrativi che, bloccando concorsi o opere pubbliche, «legano le gambe all'Italia». Come giudica questa proposta?
R. Francamente mi sembra un'opinione fuori luogo e penso che sia stata una provocazione. Ogni ordinamento ha bisogno di una giustizia amministrativa competente ed efficiente. Quella italiana lo è. Se molto spesso si trova un cavillo per bloccare un procedimento o annullare un provvedimento la colpa è dell'eccessiva complessità della normativa, non certo dei giudici chiamati ad applicarla (articolo ItaliaOggi del 30.08.2013).

ENTI LOCALIPolizia, no ad accessi free per le targhe e le patenti.
I comuni e la polizia locale devono continuare a pagare per consultare gli archivi della motorizzazione e del pubblico registro automobilistico. Il codice dell'amministrazione digitale non può infatti intervenire su questa normativa speciale che resta preminente.

È questa in sintesi la posizione del ministero dei trasporti che contraddice il precedente parere della presidenza del consiglio dei ministri con la nota 26.07.2013 n. 19540 di prot. (si veda ItaliaOggi del 19/08/2013).
Da sempre i comuni e gli utenti pagano importi elevati per accedere alle banche dati necessarie ai vigili urbani per elaborare e gestire i processi sanzionatori. Tutto questo nonostante già con la legge 340/2000 fosse stato stabilito che le pubbliche amministrazioni hanno accesso gratuito ai dati contenuti nei pubblici registri. Stante la resistenza del Pra e della motorizzazione ad accettare la novella in questi anni le casse comunali hanno dovuto continuare a sopportare il pesante balzello peraltro non dovuto, almeno a parere della presidenza.
Specificava infatti il capo dell'ufficio legislativo del ministro per la pubblica amministrazione con la nota del 24.06.2013 indirizzata al comune di Ferrara che non risultano norme speciali che prevedono l'accesso a titolo oneroso della polizia municipale alle banche dati dei veicoli e delle patenti e pertanto il comune non deve pagare nulla per consultare questi archivi anche alla luce del nuovo codice dell'amministrazione digitale. Nulla di più sbagliato, chiarisce ora il ministero dei trasporti. Il dpr 28.09.1994, n. 634 che disciplina l'accesso dell'utenza al ced della motorizzazione è ancora attuale. Questa disposizione speciale, specifica la nota centrale, non è stata superata da nessuna norma successiva e anzi il codice dell'amministrazione digitale ha rafforzato la previsione.
In buona sostanza, conclude il lungo parere ministeriale, se i comuni decidono di interrompere i pagamenti lo fanno a loro rischio e pericolo. Del resto anche la polizia locale per accedere al servizio ha dovuto versare una cauzione e non vorrà certo correre il rischio di perderla per manifesta inadempienza contrattuale (articolo ItaliaOggi del 30.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Manutenzione ordinaria senza oneri burocratici.
A seguito della conversione in legge del decreto 69/2013 del Fare (legge 98/2013) è stato rivisto il quadro dei titoli e delle procedure per la realizzazione degli interventi edilizi.
Le novità del testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) non interessano direttamente le opere "minori", ossia quelle che possono realizzarsi liberamente o attraverso comunicazione d'inizio lavori (Cil) asseverata o meno, la cui disciplina rimane quella fissata con il Dl 83 del 22.06.2012, convertito con la legge 134 del 07.08.2012.
Attività edilizia libera
Nel novero dell'attività edilizia libera ricadono le opere di manutenzione ordinaria (vale a dire gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti), gli interventi per l'eliminazione di barriere architettoniche che non alterino la sagoma dell'edificio, le opere temporanee per ricerca nel sottosuolo, i movimenti di terra pertinenti all'attività agricola e alle pratiche agro-silvo-pastorali e, infine, le serre mobili stagionali non in muratura. Per questi interventi non serve alcun titolo abilitativo ma se si vuole usufruire, nei casi ammessi, delle detrazioni del 36-50%va presentata al Fisco la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà in cui si indica l'inizio lavori e si attesta che gli interventi realizzati rientrano tra quelli agevolati.
Attività soggette a Cil
Sono, invece, soggetti a Cil:
a) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a 90 giorni;
b) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;
c) l'installazione di pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al Dm 1444 del 02.04.1968;
d) le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
Mentre per l'edilizia libera non è necessaria alcuna comunicazione e tanto meno titolo comunale, rispetto agli interventi soggetti a Cil l'interessato deve semplicemente segnalare al Comune, anche per via telematica, l'inizio dei lavori. Resta comunque obbligatorio rispettare le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia (tra cui le norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie), di quelle relative all'efficienza energetica, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 42 del 22.01.2004.
Discorso leggermente diverso per gli interventi soggetti a Cil asseverata, con riferimento ai quali l'interessato, unitamente alla comunicazione di inizio dei lavori, deve trasmette al Comune i dati identificativi dell'impresa alla quale intende affidare la realizzazione dei lavori e una relazione tecnica provvista di data certa e corredata degli opportuni elaborati progettuali, a firma di un tecnico abilitato, che assevera la conformità dei lavori agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo.
Attività soggette a Cil asseverata
I lavori soggetti a Cil asseverata sono:
a) gli interventi di manutenzione straordinaria (ossia le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici;
b) le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa.
Tutti gli interventi edilizi minori sono comunque sottoposti ove necessario alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale (articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTII ruderi in catasto. Vanno iscritti, ma senza rendita. Le Entrate: la denuncia solo per mera identificazione.
Nessuna attribuzione di rendita catastale se il degrado dei ruderi è tale da non produrre reddito e non ci sono collegamenti a gas, luce e acqua. I ruderi possono essere iscritti al catasto solo per l'identificazione, con l'indicazione dei caratteri specifici e della destinazione d'uso, ma non viene loro attribuita nessuna rendita. Alla denuncia al catasto di unità collabente o rudere deve essere allegata apposita autocertificazione attestante l'assenza di allacciamento alle reti dei servizi pubblici dell'energia elettrica, dell'acqua potabile e del gas. Per questi immobili sussiste la possibilità e non l'obbligo dell'aggiornamento dei dati catastali.
Questa è la precisazione contenuta nella nota 30.07.2013 n. 29440 di prot. emanata dalla direzione centrale catasto e cartografia dell'Agenzia delle entrate.
I tecnici di prassi sottolineano innanzitutto che i ruderi, classificati come unità collabenti nella categoria F/2, sono tali se privi della copertura e della struttura portante, ma anche se delimitati da muri che non abbiano almeno l'altezza di un metro. Le condizioni di degrado devono inoltre essere tali da renderli incapaci di produrre reddito. Secondo i tecnici del fisco questi immobili possono essere iscritti al catasto solo per l'identificazione, con l'indicazione dei caratteri specifici e della destinazione d'uso, ma non viene loro attribuita nessuna rendita.
Ai fini delle dichiarazioni di unità collabenti è pertanto necessario che il professionista che predispone la dichiarazione su incarico della committenza: rediga una specifica relazione, datata e firmata, riportante lo stato dei luoghi, con particolare riferimento alle strutture e alla conservazione del manufatto, che deve essere debitamente rappresentato mediante documentazione fotografica e alleghi l'autocertificazione, resa dall'intestatario dichiarante, ai sensi degli articoli 47 e 76 del dpr 28.12.2000 n. 445, attestante l'assenza di allacciamento delle unità alle reti dei servizi pubblici, dell'energia elettrica e del gas.
I tecnici ribadiscono inoltre che l'iscrizione nella categoria F/2 prevede la presenza di un fabbricato che abbia perso del tutto la sua capacità reddituale. Ne consegue che la stessa categoria non è ammissibile, ad esempio, quando l'unità immobiliare che si vuole censire, risulta ascrivibile in altra categoria catastale, ovvero, non è individuabile e/o perimetrabile.
Le Entrate infine ricordano che l'attribuzione della categoria F/2 a tali ruderi è regolamentata dall'articolo 3, 2 comma, del decreto del ministero delle finanze del 02.01.1998 n. 28. I ruderi per essere tali devono essere caratterizzati da un notevole degrado che ne determina una notevole perdita della capacità reddituale (articolo ItaliaOggi del 29.08.2013).

APPALTI: Aste elettroniche, ricorso in Europa. L'Autorità va in Corte di giustizia Ue.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti impugna davanti alla Corte di giustizia la disciplina nazionale sulle aste elettroniche per contrasto delle norme in materia di trasparenza e parità di trattamento della direttiva appalti pubblici; sarebbe illegittimo l'articolo 292 del dpr 207/2010 che consente, negli appalti dei «settori speciali», di impedire durante la fase dell'ultimo rilancio che i concorrenti conoscano la propria posizione in classifica.

La richiesta «pregiudiziale» viene posta dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nell'ambito di una procedura di «precontenzioso» presentata all'organismo di vigilanza da un concorrente che aveva partecipato a una procedura ristretta per un appalto di forniture di macchinari, esperita mediante asta elettronica. In particolare oggetto della contestazione era la clausola della lettera di invito in cui si prevedeva che, in caso di offerte migliorative durante la fase dell'ultimo rilancio, i concorrenti non sarebbero stati in grado, per cinque minuti prima del termine dell'asta, di visualizzare la propria posizione in classifica e le offerte degli altri operatori economici.
Rispetto a questa clausola veniva posta sia un'eccezione di contrasto con il principio generale di trasparenza e pubblicità del diritto comunitario, sia di violazione dell' articolo 56, sesto comma, della direttiva 2004/17/Ce che stabilisce che «nel corso di ogni fase dell'asta elettronica, gli enti aggiudicatori comunicano in tempo reale a tutti gli offerenti almeno le informazioni che consentono loro di conoscere in ogni momento la rispettiva classificazione».
Un primo profilo di interesse consiste nel fatto che l'Autorità, per la prima volta, rinvia una questione alla Corte di giustizia qualificandosi come «organo giurisdizionale» in virtù della sua indipendenza e terzietà, dell'obbligatorietà della sua giurisdizione, della natura contraddittoria del procedimento, e del fatto che l'organo applichi norme giuridiche per la risoluzione di controversie.
Il secondo profilo di interesse riguarda l'eccepita illegittimità comunitaria, da parte dell'organismo di vigilanza, di una norma del regolamento del Codice dei contratti pubblici, l'art. 292, quarto comma, del dpr 207 /2010 che, integrando la norma primaria dell'art. 85 del Codice, consente alle stazioni appaltanti operanti nei «settori speciali» (acqua, trasporti e telecomunicazioni), di impedire «durante la fase dell'ultimo rilancio» che i concorrenti conoscano la propria posizione in classifica.
Per l'Autorità, infatti, la previsione di un black-out di cinque minuti nella fase finale dell'asta elettronica, ossia nella fase solitamente decisiva per l'aggiudicazione dell'appalto al migliore offerente, «sembra porsi altresì in contrasto con i principi di trasparenza e parità di trattamento, dai quali discende l'esigenza che vi sia un'effettiva competizione tra i concorrenti, i quali tutti dovrebbero essere messi a conoscenza dell'effettivo valore del contratto attraverso l'osservazione dei comportamenti degli altri concorrenti, e in particolare degli ultimi rilanci, fino alla conclusione dell'asta elettronica» (articolo ItaliaOggi del 29.08.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAStesso Durc per commesse diverse. Irregolarità sanabili dall'azienda entro 15 giorni dalla segnalazione di Inps, Inail o Cassa edile.
Appalti. Il Dl del Fare estende la validità del documento di regolarità contributiva da 90 a 120 giorni - Per il saldo occorre un nuovo certificato.

Il Documento unico di regolarità contributiva (Durc) ha una validità uniforme e raggiunge ora i 120 giorni dalla data del rilascio. La validità è riferita solo al tempo e non anche allo scopo per cui è stato richiesto e rilasciato. Il documento non ha carattere di definitività, per cui eventuali irregolarità potranno essere sanate entro 15 giorni senza che compromettere la regolarità del pagamento dell'appalto.
Sono, queste, le principali novità introdotte in materia dal Decreto del fare 69/2013 (convertito nella legge 98/2013), il quale ha ancora una volta modificato il quadro normativo che disciplina il rilascio, l'esercizio e la validità del Durc, istituito originariamente, in materia di appalti, dall'articolo 86, comma 10 del Dlgs 276/2003.
Acquisizione del Durc
Nell'ambito delle procedure d'appalto di opere, servizi e forniture, il Durc segue due strade, a seconda che si tratti di contratti pubblici o privati (per questi ultimi si legga l'altro articolo in pagina). Soffermando l'attenzione sulla prima ipotesi, il legislatore, in applicazione dell'articolo 16-bis del Dl 185/2009, aveva già posto direttamente a carico delle stazioni appaltanti pubbliche l'onere di acquisire d'ufficio il Durc dagli istituti tramite sistemi informatici. Tale procedura si estende ora in caso di pagamento delle prestazioni rese, oltre che nell'ambito dell'appalto, anche in caso di subappalti.
Attività pubbliche soggette
In caso di appalti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, ai fini della verifica amministrativo-contabile, i titoli di pagamento devono essere corredati del Durc anche in formato elettronico. Tale obbligo viene esteso ai fini del rilascio dell'autorizzazione che l'affidatario dei lavori, il quale intenda avvalersi del subappalto o del cottimo, deve chiedere in base all'articolo 118, comma 8, del Dlgs 163/2006 (Codice appalti pubblici), al soggetto aggiudicatore dell'appalto. Anche in questo caso sarà onere della stazione appaltante, in presenza di tale istanza, chiedere all'istituto o ente la certificazione di regolarità contributiva riguardante il subappaltatore o cottimista interessato.
Validità del Durc
Sposando la decisione del Consiglio di Stato (ordinanza del 23.04.2013), l'articolo 31 del decreto del fare stabilisce che il documento possa essere utilizzato per l'intero periodo della sua validità quadrimestrale, riguardante le varie fasi dell'appalto per contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, anche se diverse da quelle per cui è stato espressamente acquisito.
Il Durc può venire utilizzato così anche per: verificare il possesso dei requisiti ai fini dell'affidamento (articolo 38, comma 1, lettera i, del Dlgs 163/2006); per stabilire la sua aggiudicazione (articolo 11, comma 8); per effettuare la stipula del contratto e il pagamento degli stati di avanzamento dei lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture; per rilasciare il certificato di regolare esecuzione, quello di verifica di conformità e quello di regolare esecuzione. Solo per il pagamento del saldo finale sarà necessario un nuovo Durc indipendentemente dalla presenza di quelli precedenti ancora in corso di validità.
Situazioni di irregolarità
La situazione di accertata irregolarità segnalata dagli istituti competenti (per il settore dell'edilizia la competenza è della cassa edile) in sede di richiesta del Durc da parte di amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti (ex articolo 3, comma 1, lettera b, del Dlgs 207/2010), in ambito di contratti pubblici dei lavori, servizi e forniture e in occasione delle varie fasi a cui si è fatto sopra cenno, determina il cosiddetto principio di sostituzione.
In tal caso, viene ora stabilito che i soggetti appaltanti sopra indicati trattengono dal certificato di pagamento l'importo corrispondente a quello risultante dall'inadempienza. L'ammontare così quantificato viene versato, in nome e per conto dell'impresa esecutrice, appaltatrice e/o subappaltatrice in posizione di irregolarità, direttamente all'istituto e/o alla cassa edile creditrice dei contributi dovuti e non versati.
Il decreto del fare stabilisce, tuttavia, che l'istituto o ente, prima di segnalare l'irregolarità, ha l'obbligo di informare l'interessato o il suo consulente del lavoro, mediante posta certificata, sul motivo e l'entità della irregolarità, invitandolo a regolarizzare la sua posizione entro 15 giorni, trascorsi inutilmente i quali segnalerà l'inadempienza all'appaltante.
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Edilizia privata. Esenzione solo per la manutenzione svolta dal proprietario con lavoratori autonomi.
Lavori in economia senza attestato.
IDONEITÀ PROFESSIONALE/ Nei cantieri con meno di 200 uomini-giorno o con lavori senza rischi bastano l'iscrizione alla Cdc e l'autocertificazione.

La legge 98/2013 interviene con procedure di deroga e semplificazione ai fini del Durc anche in presenza di appalti con committenti privati. Secondo le nuove disposizioni, negli appalti conferiti da committenti privati il documento unico di regolarità contributiva (Durc), previsto dall'articolo 90, comma 9, lettere a) e b), del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro), non è richiesto in caso di lavori privati di manutenzione in edilizia realizzati, senza ricorso a imprese, direttamente in economia dal proprietario dell'immobile. Per lavori in economia si intendono quelli in cui il committente privato ricorre a maestranze o lavoratori autonomi senza la presenza di aziende edili per ristrutturare o apportare piccole modifiche alla sua proprietà. In tal caso il proprietario è esonerato dal chiedere il Durc all'istituto o alla cassa edile.
Deve trattarsi, secondo la legge 98/2013, di lavori di manutenzione, non della realizzazione di un nuovo manufatto, seppure di modeste dimensioni. Non rientra nel termine di manutenzione l'ampliamento, ovvero la demolizione e conseguente ricostruzione del fabbricato sullo stesso sito. Se così è, l'ipotesi di legge è più riduttiva rispetto all'interpretazione data dal ministero del Lavoro, con lettera circolare 848/2004, sulla portata dell'articolo 86, comma 10, del Dlgs 276/2003 (ora trasfuso nell'articolo 90, comma 8, del Testo unico sulla sicurezza), il quale impone l'obbligo di Durc.
Nell'articolo 86 il legislatore fa sempre riferimento alle imprese affidatarie ed esecutrici o a lavoratori autonomi. Tali indicazioni avevano indotto il ministero a concludere che l'ambito d'attività che esula dall'applicazione del Durc fosse quella dei lavori in economia realizzati direttamente da privati (con ausilio di manodopera o di lavoratori autonomi) indipendente dall'attività di manutenzione.
Ora si tratta di stabilire se il comma 1-bis dell'articolo 31 della legge 98, allorché individua i lavori privati di manutenzione, abbia modificato il comma 10 dell'articolo 86 nella parte in cui si rivolge alle opere delle imprese.
Fuori dall'eccezione, per gli appalti privati, il committente o responsabile dei lavori verifica l'idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare, con le modalità di cui all'allegato XVII del Testo unico, il quale, tra gli altri elementi, prevede anche il possesso del Durc in corso di validità. Nei cantieri la cui entità presunta sia inferiore a 200 uomini-giorno (per esempio, nove giorni di lavoro per 20 operai) e in cui i lavori non comportino rischi particolari individuati nell'allegato XI del Testo unico sulla sicurezza, il requisito di idoneità tecnico-professionale, invece, potrà essere soddisfatto mediante produzione delle imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi del certificato di iscrizione alla Cdc, corredato di autocertificazione in ordine al possesso degli altri requisiti previsti dal richiamato allegato XVII e quindi in sostituzione anche del Durc.
Secondo il rinvio fatto dal comma 8-bis dell'articolo 31 e fino al 31.12.2014, anche negli appalti privati il Durc nei 120 giorni dalla data dell'emissione conserva tutta la sua validità ed efficacia nelle varie fasi dell'appalto, a cui conseguono anche eventuali pagamenti, salvo che nel saldo, per il quale, conformemente a quanto avviene nell'appalto pubblico, dovrà essere chiesto un nuovo Durc. In caso di inadempienze contributive dell'appaltatore nei confronti degli istituti o della cassa edile, si ritiene che questi abbiano l'obbligo di invitare l'interessato a regolarizzare la posizione entro 15 giorni, il che permetterà la regolare emissione del Durc (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni. Più semplice ricostruire senza rispettare la sagoma.
Le «Semplificazioni in materia edilizia» contenute all'articolo 30 del decreto del fare (Dl 69/2013, convertito nella legge 98), con la possibilità di demolire e ricostruire senza rispetto di sagoma con semplice Scia, proseguono sulla strada intrapresa dal legislatore dal 1996, con la nascita della Dia (dichiarazione di inizio attività): ampliare il campo dell'edilizia privata realizzabile con autocertificazione asseverata, e dunque non più soggetta a provvedimento preventivo espresso (il permesso di costruire). Invece di attendere mesi che il Comune si pronunci sul progetto, si possono avviare subito i lavori sulla base della dichiarazione "responsabile" (cioè soggetta a sanzione) del progettista abilitato (ingegnere, architetto, geometra), che dichiara l'intervento compatibile con le normative edilizio-urbanistiche.
Negli ultimi anni le principali innovazioni sono state l'allargamento nel 2010 dell'edilizia libera, soggetta a Comunicazione inizio lavori "asseverata" (Cil) (ad esempio per installare pannelli solari) e l'introduzione (Dl 70/2011) della Scia in edilizia, la Segnalazione certificata di inizio attività, che rispetto alla Dia consente di avviare subito i lavori anziché aspettare 30 giorni. Poi, sempre col Dl 70/2011, l'introduzione del silenzio-assenso sul permesso di costruire.
Ora il decreto del fare prosegue la "marcia" dell'autocertificazione, togliendo il paletto del rispetto della sagoma agli interventi di demolizione e ricostruzione. Mentre prima la definizione di ristrutturazione edilizia comprendeva anche la demolizione e ricostruzione solo se l'edificio ricostruito non modificava né volume né sagoma di quello preesistente, ora invece basta rispettare il volume, potendo dunque cambiare la sagoma. Questo comporta che mentre prima la demolizione e ricostruzione "fuori sagoma" era nuova costruzione, e dunque soggetta a permesso di costruire, ora si può realizzare con semplice Scia.
Ma nell'intervento del Governo Letta c'è molto di più. Intanto si alleggeriscono gli oneri per il privato . Sparisce infatti, per gli interventi fuori sagoma che restano nella ristrutturazione edilizia "leggera" (ossia che non comportano aumento di unità immobiliari, modifica dei prospetti, delle superfici e delle destinazioni d'uso in zona A), il contributo costo di costruzione, che è dovuto solo sul permesso di costruire. Dovrebbero invece rimanere gli oneri di urbanizzazione se, come prima, ci sarà un aumento di carico urbanistico.
Ma la vera novità è che con questa modifica normativa si potranno fare molti interventi di trasformazione urbana prima impossibili. Visto infatti che la demolizione e ricostruzione (D&R) fuori sagoma era, nel vecchio regime, «nuova costruzione», doveva rispettare le regole dei piani urbanistici. Se ad esempio in quell'area era sopravvenuto una inedificabilità assoluta, non si poteva fare nulla (cioè: solo la D&R con la stessa sagoma e volume). E comunque si dovevano rispettare tutte le nuove regole su indici di edificabilità, destinazioni, altezze, distanze.
Ora la D&R fuori sagoma (ma con lo stesso volume) è una semplice ristrutturazione edilizia, e la giurisprudenza è univoca nel dire che in questi casi il proprietario ha diritto di conservare volumi, superfici, destinazioni, altezze e distanze preesistenti, anche se in contrasto con il Prg vigente. Si potranno allora demolire vecchi edifici e ricostruirli tutti diversi, anche modificando la sagoma, in deroga al Prg, purché si rispettino le caratteristiche preesistenti su volume, destinazione d'uso (non si potrà dunque trasformare capannoni in case), superfici, altezze. Sulla stessa sagoma, se modificata, bisognerà tuttavia non sforare i parametri precedenti, ad esempio l'altezza o le distanze, sennò si ricade nella nuova costruzione.
Il Parlamento ha inserito qualche paletto per frenare la liberalizzazione nei centri storici, ma l'ha fatto un po' maldestramente: spetterà infatti ai Comuni stabilire, entro il 30.06.2014, in quali aree dentro le «zone A» la D&R fuori sagoma è soggetta sempre a permesso, anziché Scia.
Ma l'intervento resterà sempre «ristrutturazione edilizia», con la conseguenza che potrà comunque beneficiare dell'interpretazione giurisprudenziale, con il solo paletto di dover passare per un ok esplicito degli uffici comunali.
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DOMANDE
La sagoma liberalizzata non supera le regole del Prg
Con la "liberalizzazione della sagoma", cioè le demolizioni e ricostruzioni realizzabili con semplice Scia anche senza rispetto della sagoma dell'edificio originario, si può fare "di tutto" purché non si superi il volume?
Nonostante il Dl 69/2013 abbia previsto che la ristrutturazione con demolizione e ricostruzione possa essere realizzata senza il necessario rispetto della sagoma (salvo per gli immobili vincolati ai sensi del 42 del 2004 e quelli individuati nelle zone A o assimilate) anche con la Scia , rimane pur sempre il necessario rispetto del Piano regolatore generale. La nuova sagoma deve cioè comunque rispettare le norme urbanistiche vigenti al tempo in cui si procede con l'intervento.
Sicuramente però, con la possibilità di utilizzo anche della Scia per tali interventi, è stata introdotta una notevole semplificazione.
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Interventi con Scia, il privato non paga oneri
Se la demolizione e ricostruzione (purché si rispetti il volume) si può fare con Scia anziché con permesso, comporta che si pagano meno oneri di urbanizzazione?
La risposta è affermativa. Nel caso di ristrutturazione edilizia "pesante" (permesso di costruire), gli oneri di urbanizzazione sono dovuti solo nel caso in cui vengano modificati i parametri urbanistici che incidono sul carico urbanistico (volume, superficie e destinazione d'uso), mentre il contributo sul costo di costruzione è sempre dovuto.
Nei casi in cui è ammesso l'utilizzo della Scia (e dunque anche nella demolizione e ricostruzione, anche fuori sagoma) non sono dovuti né oneri né contributo sul costo di costruzione, vista la gratuità del titolo.
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Silenzio-assenso o commissario ad acta
L'utilizzo dello strumento del silenzio-assenso (per gli interventi edilizi più rilevanti) se scade il termine per l'emanazione dell'atto è una cosa automatica o l'interessato deve fare qualcosa?
Il silenzio assenso si produce automaticamente in presenza di una domanda di permesso di costruire legittima e completa dopo il decorso di un certo tempo fissato per legge. Il richiedente deve solo comunicare al Comune l'intenzione di avvalersi degli effetti del provvedimento tacito che si è formato. In alternativa, in caso di inerzia del Comune, è possibile utilizzare lo strumento ordinario del commissario ad acta previsto dall'articolo 2 della legge 24/1990. In tal caso, il richiedente può rivolgere un'istanza alla figura preventivamente individuata dal Comune per intervenire con i poteri sostitutivi in caso di inerzia dell'amministrazione stessa.
Il commissario ad acta interviene con gli stessi poteri dello sportello unico e rilascia, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento espresso, dando così maggiore certezza all'operatore rispetto a quanto può darne il silenzio assenso (articolo Il Sole 24 Ore del 27.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO DEL FARE/ Multe scontate, si parte in salita. La disciplina poco chiara rischia di vanificare il beneficio. I punti controversi della norma: modulistica da aggiornare a penna e precisione assoluta.
Partenza in salita per lo sconto sulle multe tra modulistica da aggiornare a penna e scarse informazioni agli utenti. Di certo intanto per chi si sbaglierà a versare anche pochi centesimi l'effetto boomerang è assicurato. Intanto a gennaio potrà partire definitivamente la notifica delle multe tramite posta elettronica certificata.

Sono queste le importanti novità introdotte dalla legge n. 98 del 09.08.2013, recante la conversione del decreto legge del fare n. 69/2013, in vigore dal 21.08.2013.
Sulle modifiche dell'art. 202 del codice della strada il Ministero dell'interno ha diramato varie circolari. Da mercoledì 21 agosto, data di entrata in vigore della legge n. 98/2013, la somma da pagare per le violazioni è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione. Lo sconto spetta anche nei casi di pagamento immediato obbligatorio previsti dall'art. 202, comma 2-bis, Cds, per le violazioni commesse da un conducente titolare di patente di guida di categoria C, C+E, D o D+E nell'esercizio dell'attività di autotrasporto di persone o cose, nonché dall'art. 207 per il conducente di un veicolo immatricolato all'estero o munito di targa EE.
La riduzione spetta anche in caso di riattivazione della copertura assicurativa nei tempi indicati dall'art. 193 (ovvero già ridotta del 75%) e nelle fattispecie di violazione elencate nell'art. 195, comma 2-bis, le cui sanzioni pecuniarie sono aumentate di un terzo se l'illecito è commesso dopo le ore 22 e prima delle ore 7. Invece, la riduzione non si applica alle infrazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura ridotta, alle violazioni per cui è prevista la sanzione accessoria della confisca del veicolo o della sospensione della patente di guida e alle violazioni stradali non incluse nel codice della strada, ma previste dalla legislazione complementare. L'espressa indicazione dell'importo scontato del 30% dovrà essere riportata su tutti i verbali utilizzati dalle pattuglie della polizia stradale. Gli agenti dovranno integrare i verbali già in dotazione prima della novella.
I trasgressori dovranno fare attenzione all'uso dei bollettini di c.c.p. allegati ai verbali ma anche alla compilazione degli stessi e a agli importi esatti da versare. Se il pagamento sarà insufficiente la differenza costituirà infatti acconto in sede di riscossione mediante iscrizione a ruolo. Con l'aggiunta di un nuovo comma all'art. 202 del Codice della strada se l'agente accertatore è munito di idonea apparecchiatura il trasgressore conducente potrà effettuare immediatamente, nelle mani dello stesso agente, il pagamento mediante strumenti di pagamento elettronico. Questa facoltà è concessa anche agli autotrasportatori che commettono alcune violazioni, specificamente elencate dal comma 2-bis dell'art. 202 cds, con un'ulteriore novità: se il conducente non intende pagare, deve versare una cauzione pari non più alla metà del massimo edittale, ma al minimo.
Il Ministero dell'interno, però, va controcorrente: fino a diversa disposizione, per ricevere il pagamento con la riduzione del 30% le pattuglie e gli uffici della polizia di stato non potranno utilizzare l'eventuale terminale pos in dotazione. Interessanti le precisazioni del Ministero dell'interno sul computo dei termini per effettuare il pagamento con lo sconto. Il termine di cinque giorni va calcolato a decorrere dal giorno successivo alla contestazione su strada; se il termine ultimo cade in giorno festivo, si scorre al giorno feriale successivo. Per esemplificare, se il verbale è stato contestato subito al conducente il 21 agosto, il termine utile di pagamento è il 26 agosto.
Invece, in caso di notificazione del verbale con emissione della comunicazione di avvenuto deposito il termine decorre dall'undicesimo giorno dalla data di spedizione del Cad, salvo che l'interessato ritiri l'atto prima del termine di dieci giorni del deposito. In caso di notificazione tramite esposizione presso la Casa comunale, i giorni previsti per il pagamento con la riduzione del 30% decorrono dopo dieci giorni dalla spedizione della raccomandata di avviso, o dalla data di ritiro del plico se anteriore, quando il verbale è depositato ai sensi dell'art. 140 cpc, ovvero dopo 20 giorni se depositato ai sensi dell'art. 143 cpc.
Entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione il Ministro dell'interno, di concerto con i ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'economia e delle finanze e per la pubblica amministrazione e la semplificazione, dovrà disciplinare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le procedure per la notificazione delle multe stradali tramite posta elettronica certificata nei confronti dei soggetti abilitati all'utilizzo della Pec, senza addebito delle spese di notificazione.
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Divieto di sosta, l'orientamento dei comandi dei vigili urbani.
Il beneficio del pagamento scontato del 30% della sanzione amministrativa pecuniaria spetta anche nel caso del tradizionale tagliando di divieto di sosta lasciato sul parabrezza del veicolo anche se di fatto non si tratta ancora di una multa notificata o contestata.

Questo è l'orientamento prevalente nei comandi dei vigili all'indomani dell'entrata in vigore dello sconto sulle multe. La questione però è molto dibattuta a livello dottrinale. Letteralmente il nuovo testo dell'art. 202, comma 1, del Codice della strada dispone che la somma da pagare sia ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione. Al momento l'orientamento prevalente propende per considerare legittimo accettare il pagamento del preavviso con lo sconto. Così come finora per i preavvisi si è sempre accettato il pagamento del minimo edittale, senza spese di notificazione e procedimento.
D'altronde già con la circolare n. 21 del 11.02.1995 il Ministero dell'interno aveva avuto modo di chiarire che «il pagamento in misura ridotta effettuato a seguito di preavviso di violazione presuppone il riconoscimento del debito del contravventore nei confronti della pubblica amministrazione, sicché non può ad esso negarsi efficacia estintiva della obbligazione di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione pecuniaria».
Una corrente dottrinaria minoritaria ritiene che, attenendosi al tenore letterale del nuovo testo dell'art. 202, comma 1, del Codice della strada, lo sconto del 30% non possa essere applicato ai preavvisi di accertamento. Con la conseguenza che chi intende pagare subito il preavviso dovrebbe pagare l'intero importo della sanzione oppure attendere la notificazione postale della multa o rivolgersi al comando per la notifica immediata. Questa tesi però contrasta con i principi di semplificazione contenuti nella norma.
Non è da escludere che alcuni organi accertatori decidano di non utilizzare più i preavvisi di violazione, ricorrendo unicamente ai verbali di contestazione. Ciò in considerazione della delicatezza della questione, cui si collegano importanti questioni di responsabilità contabile (articolo ItaliaOggi Sette del del 26.08.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: DECRETO DEL FARE/ Imprese, la velocità è un diritto. Con la nuova legge effetto deterrenza sui dipendenti p.a.. In G.U. la legge 98. In vigore le disposizioni sull'indennizzo da ritardo dell'amministrazione.
Chance per le imprese contro la p.a. lumaca. Non tanto per la possibilità di avere un indennizzo (di valore minimo e con un tetto di 2 mila euro). Quanto per l'effetto deterrente che potrà determinare nei confronti degli uffici pubblici.
Il decreto del «Fare» (dl n. 69 del 21.06.2013, convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98, pubblicata sulla G.U. n. 194 del 20/08/2013) da un lato introduce un istituto sulla carta rivoluzionario (risarcimento per il solo fatto del ritardo, anche in assenza di dolo o colpa della p.a.), ma, dall'altro lato, costruisce un procedimento con molti punti deboli, tali da ridimensionare l'impatto della novità.
Gli indennizzi (che pure sono già qualcosa), infatti, partono in sordina sia perché interessano solo una parte dell'utenza della pubblica amministrazione (solo le imprese e non i cittadini) sia perché è una disposizione precaria (destinata a riesame tra un anno e mezzo e con possibilità di cancellazione integrale).
Potrebbe comunque avere successo per gli effetti negativi che determina sul singolo dipendente pubblico, che si vede esposto a sanzioni, nel caso in cui emerga la sua responsabilità nel ritardo.
Insomma si tratta di una norma, i cui effetti positivi non dipendono direttamente dalla sua applicazione, ma paradossalmente dalla sua non applicazione, nel senso che le imprese trarranno maggiore beneficio dal rispetto dei termini di conclusione del procedimento (si spera indotti dalla norma) piuttosto che dalla possibilità di ricevere un indennizzo, prevedibilmente di scarso valore rispetto agli interessi economici in gioco. Peraltro il rodaggio deve iniziare subito, considerato che l'anno e mezzo potrebbe essere un periodo di osservazione relativamente ristretto.
Ma vediamo le novità.
Il principio. L'impresa ha diritto a una rapida risposta alle proprie istanze relative a un procedimento amministrativo. La p.a. deve concludere il procedimento senza lungaggini, accogliendo o respingendo l'istanza, mentre l'inerzia è sanzionata.
Il diritto di avere una risposta tempestiva a prescindere dall'accoglibilità della richiesta, che pure aveva trovato affermazione in qualche sentenza del Consiglio di stato, diventa legge. Tale diritto si traduce per l'impresa nella possibilità di avere risposte in tempi certi sulla possibilità di sviluppo di un progetto o di meritevolezza di un investimento.
Si potrebbe dire che fin qui non c'è nulla di nuovo. In effetti la novità vera sta nell'avere individuato meccanismi sanzionatori, che si presumono tali da assicurare nel maggior numero possibile dei casi l'effettività del principio.
L'indennizzo, per i casi in cui è richiedibile, come spiegano i lavori parlamentari, è per il ritardo determinato dalla pubblica amministrazione di esso responsabile (l'amministrazione che ha dato avvio al procedimento ovvero altra amministrazione che intervenga nel corso del procedimento e che abbia causato il ritardo, ad esempio nel rendere un parere) o dai soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative.
Il decreto precisa che per procedimenti in cui intervengano più amministrazioni, l'istanza per l'indennizzo debba essere presentata all'amministrazione responsabile del procedimento, la quale provvede a trasmetterla al titolare del potere sostitutivo dell'amministrazione responsabile del ritardo.
Durata ragionevole del procedimento. L'impresa, vittima di una lungaggine burocratica, deve, velocemente, attivarsi per chiedere l'indennizzo. In realtà il sollecito dell'impresa, rivolto a un funzionario pubblico appositamente incaricato di gestire le situazioni critiche, ha un doppio oggetto: l'indennizzo, da una parte, e il provvedimento finale dall'altro lato. Dopo il sollecito, che è necessario altrimenti la lungaggine rimane tale e non c'è nessun indennizzo, parte un tempo supplementare per l'ente pubblico, che ha ancora una chance di rimediare al ritardo. Avere il provvedimento (anche negativo) potrebbe essere sempre meglio che avere un indennizzo di scarso valore.
Il sistema è, quindi, orientato a impedire che il fattore tempo diventi una variabile lasciata all'arbitrio della p.a. e, quindi, a introdurre un elemento essenziale del giusto procedimento amministrativo, che deve concludersi in un termine ragionevole.
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Modalità, termini e potere sostitutivo da segnalare obbligatoriamente.
Il decreto legge vuole facilitare il compito alle imprese e prevede che nella comunicazione di avvio del procedimento e nelle informazioni sul procedimento deve essere segnalato il diritto all'indennizzo, le modalità e i termini per conseguirlo e deve anche essere indicato il soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo (di adozione del provvedimento finale in caso di inerzia del responsabile di area) e i termini a questo assegnati per la conclusione del procedimento.
Il decreto in commento prescrive che le pubbliche amministrazioni individuino, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell'amministrazione è pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l'indicazione del soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo, cui l'interessato possa rivolgersi.
Peraltro, come si sottolinea nei lavori parlamentari, l'articolo 35 del citato decreto legislativo n. 33 del 2013 già prevede (al comma 1, lettera m), la pubblicazione del nome del soggetto a cui è attribuito, in caso di inerzia, il potere sostitutivo, nonché le modalità per attivare tale potere, con indicazione dei recapiti telefonici e delle caselle di posta elettronica istituzionale. Con il decreto legislativo n. 33 il legislatore ha inteso raccogliere e riordinare tutte le disposizioni relative agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni: la nuova disposizione ora prevista non modifica il decreto legislativo n. 33/2013.
Data di scadenza. La novità è partita il 21.08.2013. E riguarda solo i procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa iniziati successivamente alla data di entrata in vigore. Nessuna applicazione ai rapporto pendenti (avviati prima del 21.08.2013) e tanto meno ai rapporti già chiusi (quindi nessuna retroattività).
Ma si tratta di una opportunità che ha una data di scadenza, si spera, solo intermedia. Tra 18 mesi e, quindi, a febbraio 2015, si farà il tagliando, con tutte le porte aperte: conferma così come è, mantenimento con modifiche oppure cancellazione integrale.
Al termine, è prevista l'adozione (sulla base del monitoraggio circa l'applicazione intervenuta) di un regolamento di delegificazione, con il quale stabilire la conferma o la rimodulazione (anche con riferimento ai procedimenti esclusi) o la cessazione di efficacia o la ridefinizione della decorrenza, delle disposizioni sull'indennizzo
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Un indennizzo che ristora poco.
Un indennizzo con tanti talloni di Achille. Se ne contano almeno cinque che possono pregiudicare la fattibilità dell'istituto.
L'importo dell'indennizzo è forfettizzato; non si prevede una progressività degli importi; la norma disegna un percorso a ostacoli per ottenerlo; esclude le persone fisiche, che non possono beneficiarne ed esclude i procedimenti di ufficio e i concorsi; l'ente pubblico potrebbe manovrare a proprio favore il termine di conclusione del procedimento. Vediamo, dunque, le criticità una per una.
I punti deboli/1: forfettizzazione dell'importo. L'indennità è forfettizzata in una cifra molto bassa. La norma esclude che possa essere chiesta una cifra superiore, in quanto qualifica il beneficio come «indennizzo» e non come «risarcimento». In sostanza l'indennizzo è garantito, ma se un'impresa ha subito un danno ben superiore dalla cifra massima stabilita dalla legge, l'unica possibilità è l'azione per il risarcimento, che ha una difficoltà probatoria: spetta solo se la p.a. ha agito con dolo o colpa.
Per avere l'indennizzo, in sostanza, è sufficiente indicare il superamento del termine di conclusione del procedimento e nessuna indagine deve essere svolta sull'elemento soggettivo della condotta ritardataria. Per avere di più bisogna dimostrare la colpa o il dolo della p.a.
I punti deboli/2: p.a. lenta, impresa sprinter. L'impresa deve segnarsi in agenda la data finale a disposizione delle p.a., perché entro e non oltre venti giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento bisogna mandare un sollecito formale all'ufficio. Se non lo si fa, l'indennizzo sfuma. Anche se rimane la possibilità di agire per il risarcimento del danno (assorbente dell'indennizzo da ritardo).
Salta agli occhi l'asimmetria delle posizioni: la p.a. può essere lenta, ma per essere indennizzati dalla amministrazione lenta, l'impresa deve correre. Entro 20 giorni si deve scrivere una richiesta alla p.a. interessata e si chiede l'intervento sostitutivo e cioè che qualcuno si sostituisca al funzionario inerte e risponda o liquidi l'indennizzo.
In ogni caso l'impresa o il suo consulente deve premurarsi di segnare in agenda quel termine, recuperandolo dalla comunicazione che la p.a. è tenuta a fare all'inizio del procedimento (comunicazione di avvio del procedimento). E se la p.a. è negligente e non fa la comunicazione di avvio, meglio essere prudenti e recuperare il termine massimo dalla legge o dai regolamenti dell'ente, oppure chiedendolo espressamente all'ente procedente.
I punti deboli/3: solo per pochi. L'indennizzo spetta solo per i procedimenti a istanza di parte, per cui la legge prevede l'obbligo di pronunciarsi: devono essere procedimenti regolati da una norma che prevede un atto finale da parte dell'ente competente. Sono esclusi i casi di procedimenti attivati di ufficio, e tra quelli ad istanza di parte i casi di silenzio-assenso o silenzio-rigetto e i concorsi pubblici.
Non vi è ragione giuridica per la discriminazione relativa a concorsi e procedimenti d'ufficio (a rischio di illegittimità costituzionale, a meno che non la si ritenga giustificata dalla sperimentalità dell'istituto): l'unica ragione è evidentemente economica (evitare emorragie per l'erario pubblico).
I punti deboli/4: termine finale. Una possibile strategia dell'ente pubblico potrebbe essere agire sul termine finale per la conclusione del procedimento, dal cui differimento (comunque congruo con la sostenibilità amministrativa e non arbitrario) deriva l'allontanamento dell'indennizzo.
I punti deboli/5: niente progressività. L'indennizzo per il mero ritardo è stabilito in una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2 mila euro. Questo significa che dal sessantasettesimo giorno di ritardo la p.a. non paga niente.
Anche qui l'unica contromossa che rimane all'impresa è il contenzioso per il risarcimento del danno, che presuppone la prova del dolo o colpa dell'amministrazione e comunque i costi del contenzioso.
Come confermano i lavori parlamentari la richiesta di indennizzo da ritardo non esclude, ricorrendone i presupposti, la richiesta del risarcimento del danno da ritardo. In tale ipotesi, il risarcimento è però dovuto solo per la misura eccedente la cifra corrisposta o da corrispondere a titolo di indennizzo.
Peraltro la valutazione costi/benefici del contenzioso, da valutare per un'impresa nell'ambito dei propri business plan, potrebbe comunque disincentivare la proposizione di un'azione.
Così come tecnicamente elaborata, quindi, la norma paradossalmente favorisce i ritardi lunghi. Meglio sarebbe stato individuare una somma crescente con il dilatarsi del ritardo. Come scritta non si disincentivano affatto i ritardi, li si rende solo un po' costosi.
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Possibile rivolgersi al Tar.
L'impresa, trascorso il termine finale del procedimento, deve sollecitare l'intervento sostitutivo. Il responsabile potrà, a sua volta, essere rispettoso dei tempi oppure una lumaca.
Nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo sia lento e non adotti, attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario, il provvedimento nel termine (pari alla metà di quello massimo) o non liquidi l'indennizzo maturato a tale data, l'impresa potrà rivolgersi al Tribunale amministrativo regionale per ottenere giustizia. Sia per chiedere l'atto sia per chiedere l'indennizzo, oltre che, in caso di dolo o colpa della p.a., anche per chiedere il risarcimento. Val la pena di sottolineare che lo stato comunque ci guadagna le spese di giustizia, anche se il contributo unificato è ridotto alla metà. Per il ricorso per indennizzo da ritardo, il contributo dovuto è, dunque, di 150 euro. La riduzione del contributo unificato si applica anche ai giudizi di opposizione e a quelli di appello conseguenti al ricorso principale.
E anzi l'introito per l'erario pubblico potrebbe essere ancora più cospicuo.
Se l'impresa perde la causa per infondatezza dell'istanza iniziale (se manifesta), il giudice condanna a pagare in favore dell'ente pubblico una somma da due volte a quattro volte il contributo unificato.
Nel dettaglio se il ricorso è dichiarato inammissibile o è respinto in relazione all'inammissibilità o alla manifesta infondatezza dell'istanza che ha dato avvio al procedimento, il giudice, con pronuncia immediatamente esecutiva, condanna il ricorrente a pagare in favore del resistente una somma da due volte a quattro volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione che vuole disincentivare chi crede di poter sfruttare le norme, facendo raffiche di istanze al solo fine di lucrare sui ritardi: se le istanze sono fasulle, non solo si rischia di non prendere nulla, ma se il Tar ritiene che l'istanza sia manifestamente infondata, si rischia di sborsare quattrini alla p.a.
L'interessato, dunque, può proporre ricorso dinanzi al giudice amministrativo ai sensi dell'articolo 117 del codice del processo amministrativo, seguendo il rito contro il silenzio della pubblica amministrazione oppure ai sensi dell'articolo 118 dello stesso codice: cioè con ricorso per decreto ingiuntivo, ammesso nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale.
Il ricorso giurisdizionale previsto dal citato articolo 117 del codice del processo amministrativo è volto ad accertare la legittimità o meno del silenzio dell'amministrazione, in relazione all'obbligo di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso.
L'articolo 117, al comma 6 prevede che, qualora assieme all'azione avverso il silenzio sia proposta l'azione di risarcimento del danno per inosservanza dolosa o colposa del termine per provvedere, il giudice possa definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio, e fissare l'udienza pubblica per la trattazione della domanda risarcitoria.
Tale previsione è confermata dal decreto legge, il quale specifica possa proporsi congiuntamente al ricorso avverso il silenzio, anche la domanda per ottenere l'indennizzo. In questa ipotesi, anche tale domanda è trattata con rito camerale e decisa con sentenza in forma semplificata.
Se invece il Tar pronuncia condanna a carico dell'amministrazione, questa deve essere comunicata dalla segreteria del giudice: alla Corte dei conti, al fine del controllo di gestione sulla pubblica amministrazione; al procuratore regionale della Corte dei conti, per le valutazioni di competenza; al titolare dell'azione disciplinare verso i dipendenti pubblici interessati dal procedimento amministrativo.
Il rischio concreto è che partano dunque procedimenti disciplinari e azioni di responsabilità erariale. Anche su queste sanzioni indirette la legge punta per accelerare i procedimenti amministrativi (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: LEGGE EUROPEA 2013/ Rifiuti, l'Italia esegue l'upgrade. Subito operative le norme su Raee, pile, danni ambientali. Con la pubblicazione in G.U. delle Comunitarie un nuovo calendario di ecoadempimenti.
Entreranno in vigore già il prossimo 4 settembre le nuove norme su gestione di rifiuti elettronici, riciclo di pile a fine vita e risarcimento del danno ambientale.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 20 agosto (la n. 194) della «Legge europea 2013» (legge 97/2013), parte a stretto giro l'upgrade delle regole nazionali alle ultime norme ambientali, aggiornamento che sarà seguito nel medio termine da quello previsto dalla parallela «Legge di delegazione europea 2013» (n. 96/13, stessa G.U. e data di vigenza) che farà entrare nell'ordinamento italiano tramite futuri decreti governativi la nuova disciplina comunitaria sul controllo di emissioni e incidenti industriali a elevato impatto ambientale.
Rifiuti elettronici. La «Legge europea 2013» allarga l'attuale disciplina sui Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) prevista dal dlgs 151/2005 a tutti gli elettrodomestici di grandi dimensioni, ai condizionatori d'aria, ai test di fecondazione. Il tutto prevedendo, però, una parallela espansione delle attuali regole ex decreto ministeriale 65/2010 sulla gestione semplificata dei Raee, garantendo a venditori di nuove Aee maggiori volumi di rifiuti depositabili e trasportabili in regime burocratico «light». Ancora, la realizzazione e la gestione dei centri di raccolta dei rifiuti sarà possibile anche in base alle sole regole generali ex dlgs 152/2006 in luogo di quelle specifiche ex dm 8 aprile 2008.
Riciclaggio pile. Sempre con l'operatività della Legge europea 2013 scatterà la spinta su riciclo di pile ed accumulatori a fine vita: con la riscrittura del dlgs 188/2008 da un lato si prevede la possibilità del loro trattamento fuori dal territorio nazionale o comunitario (purché nel rispetto del regolamento Ce n. 1013/2006 sul trasporto internazionale di rifiuti), dall'altro si limita il conferimento in discarica ai soli residui sottoposti a preventivo riciclaggio.
Danno ambientale. Con l'entrata in vigore della Legge europea 2013, scatterà anche la nuova disciplina sul danno ambientale: in base al riformulato dlgs 152/2006 si avrà per chi svolge attività ad alto rischio una «presunzione» di responsabilità basata sul semplice nesso di causalità tra condotta e danno cagionato, così come la persistenza dell'obbligo di ripristino ambientale in luogo del semplice risarcimento per equivalente patrimoniale anche in caso di avviata bonifica dei luoghi inquinati.
La Legge di delegazione europea. Come accennato in apertura, ulteriori regole verdi comunitarie arriveranno per il tramite dei decreti legislativi previsti dalla seconda delle «Leggi europee». Tramite l'attuazione delle ultime direttive Ue entreranno infatti nell'ordinamento nazionale: l'obbligo per i venditori di nuove apparecchiature elettriche («Aee») di ritirare l'usato del consumatore anche senza acquisto di prodotto equivalente; l'espansione della disciplina sulle emissioni industriali (c.d. «Ippc») mediante applicazione delle regole a nuove tipologie di impianti; l'allargamento della disciplina sul controllo degli incidenti industriali rilevanti mediante inclusione di 14 nuove sostanze nell'elenco di quelle che fanno scattare obblighi di prevenzione.
Le altre novità ambientali. Quelle previste dalle «Leggi europee» sono solo le ultime delle numerose novità che hanno nel mese in corso interessato la gestione dei rifiuti. Ricordiamo innanzitutto che il Minambiente ha con circolare 06.08.2013 di fatto bandito lo smaltimento in discarica dei rifiuti «tal quali».
Incalzato dalla procedura di infrazione avviata dall'Ue per violazione delle norme comunitarie sul trattamento dei rifiuti, il dicastero ha infatti stabilito che la semplice tritovagliatura dei rifiuti non soddisfa gli standard di trattamento imposti dal dlgs 36/2003 (attuativo della direttiva 1999/31/Ce) per il loro conferimento in discarica.
Per il ministero, il trattamento preventivo deve normalmente includere un'adeguata selezione delle diverse frazioni dei rifiuti e la stabilizzazione della frazione organica.
Altra novità d'agosto è l'istituzione delle nuove liste prefettizie previste dalla legge 190/2012 cui fornitori e prestatori di servizi nel settore dei rifiuti non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa possono iscriversi.
Con l'entrata in vigore il 14.08.2013 del dpcm 18.04.2013 (adottato in attuazione della citata legge e pubblicato sulla G.U. del 15.07.2013) le imprese di trasporto di materiali in discarica, di trasporto e smaltimento di rifiuti, di estrazione, fornitura e movimentazione di terra e materiali inerti «mafia free» possono chiedere alla prefettura competente per territorio l'inserimento negli elenchi pubblici che certificano la loro estraneità a fenomeni di criminalità organizzata. In tal modo ottenendo (oltre ad un considerevole ritorno di immagine) una notevole semplificazione a livello burocratico, poiché con l'iscrizione nelle «White list» (all'esito di un severo controllo preventivo degli enti pubblici citati) per dette imprese saranno considerati già soddisfatti gli obblighi previsti dalla normativa sulla cosiddetta «informativa antimafia» ex dpr 252/1998, obblighi normalmente coincidenti con l'acquisizione della certificazione di estraneità a fenomeni di criminalità organizzata da parte degli enti pubblici che con loro stipulano contratti di fornitura.
Infine, con l'entrata in vigore della legge di conversione del «dl Fare» (legge 98/2013), dal 21.08.2013 ha assunto maggior chiarezza la disciplina che le imprese devono, in base alla loro natura, seguire per gestire come sottoprodotti le terre e rocce da scavo (si veda l'articolo pubblicato a pagina 19) (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

TRIBUTI: Pertinenze esenti. Senza autonomia niente Ici-Imu. Per Ctr Roma non rileva la mancata dichiarazione.
Le aree edificabili non sono autonomamente soggette al pagamento dell'Ici e dell'Imu se sono pertinenze dei fabbricati, anche se il contribuente non ha indicato questa destinazione degli immobili nella dichiarazione.
La Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza n. 163/2013) va oltre quanto sostenuto dalla Cassazione, perché riconosce l'intassabilità del bene anche nel caso in cui il contribuente non abbia esposto nella dichiarazione la natura pertinenziale dell'area.
Tuttavia, il titolare dell'immobile non è tenuto a pagare l'imposta comunale su un'area edificabile che sia pertinenza di un fabbricato, anche se non lo ha indicato nella dichiarazione, purché invii una comunicazione all'ente con lettera raccomandata con la quale lo informi della destinazione del bene, prima che venga emanato l'atto di accertamento.
Naturalmente, è richiesto che il rapporto pertinenziale emerga dallo stato dei luoghi.
Per esempio, l'esistenza di un pozzo artesiano sul terreno dal quale è possibile attingere l'acqua dal fabbricato oppure un marciapiede o un cornicione ubicati oltre la linea di confine del manufatto.
La sezione tributaria della Corte di cassazione (sentenza 19638/2009), invece, ha riconosciuto il beneficio solo nei casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di variazione. I giudici di legittimità, infatti, per eliminare il contenzioso che dura da anni sull'assoggettamento a Ici delle aree o giardini pertinenziali, hanno modellato l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 che dà la definizione di pertinenza. Mentre questa norma si limita a stabilire che è parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza, la Cassazione va oltre e, dando una chiave di lettura «di conio giurisprudenziale», ha aggiunto che per non essere assoggettata a imposizione occorre un'apposita denuncia del contribuente sull'uso dell'area nel momento in cui avviene la destinazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, è irrilevante la circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione principale siano censite catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico bene o di usufruire delle agevolazioni. Come precisato dalla commissione regionale, però, il vincolo pertinenziale deve essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili sono soggetti a imposizione autonomamente.
Le stesse regole valgono per l'Imu. Infatti, nulla cambia per l'imposizione delle aree edificabili con la disciplina della nuova imposta locale rispetto all'Ici. Anche per l'Imu vengono richiamate le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla normativa Ici.
Per definire gli aspetti controversi della nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto due volte con norme di interpretazione autentica. L'imposta è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla regione. L'articolo 36, comma 2, del decreto-legge legge 223/2006 ha stabilito che un'area sia da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi.
La tesi della Cassazione. Secondo la Cassazione (sentenza 5755/2005) per la pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze catastali, ma la destinazione di fatto.
Il terreno che costituisce pertinenza di un fabbricato non è soggetto a Ici e Imu come area edificabile, anche se iscritto autonomamente al catasto. Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, ha chiarito che per le aree edificabili non si introduce alcuna particolare e nuova accezione di pertinenza ai fini Ici ma, semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817 c.c. Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa. Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione. Accertare la sussistenza di questo vincolo comporta un apprezzamento di fatto.
Il tributo comunale non può essere richiesto per l'assenza di accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al contiguo fabbricato, ancorché costituenti unità catastali separate. L'autonomo accatastamento non rende irrilevante l'uso di fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno rileva la presenza o meno di segni grafici, che sono inconsistenti sul piano probatorio. Tuttavia, nonostante vengano ribaditi questi principi e la rilevanza della destinazione «di fatto» di un bene come pertinenza, non ci si può sottrarre all'obbligo di denuncia ogni volta che nella situazione possessoria del contribuente s'introduca una modificazione. Se l'interessato non ha affermato la sua pertinenzialità in via di specialità, vuol dire che ha voluto lasciare il bene nella sua condizione di area fabbricabile.
Pertanto, qualora voglia fruire dell'intassabilità dell'area, è tenuto a comunicare all'ente che è destinata a pertinenza del fabbricato sia nella denuncia originaria sia, qualora abbia omesso questa indicazione, in una successiva dichiarazione di variazione, che può essere presentata in qualsiasi momento (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza lavoro senza sconti. A regime la cartella sanitaria con tutte le informazioni. Il 24 agosto è finito il periodo sperimentale. E scattano anche le sanzioni sulle violazioni.
A regime la cartella sanitaria con le comunicazioni dei dati rilevanti per la sicurezza sul lavoro, obbligo di cui rispondono i medici competenti. Al 24 agosto è fissata infatti la fine della sperimentazione durata un anno (12 mesi dal 25.08.2012), durante il quale i nuovi adempimenti hanno operato in regime di prova e soprattutto senza applicazione del relativo regime sanzionatorio. Dal 25 agosto dunque medici a rischio: il persistente mancato invio dei dati relativi all'anno 2012 comporta il pagamento della multa da 1.096 e 4.384 euro.
La cartella sanitaria. L'adempimento è stato introdotto dal decreto 09.07.2012 che ha individuato i contenuti della cartella sanitaria e di rischio, nonché le modalità per la trasmissione annuale al servizio sanitario degli stessi contenuti, obbligo a cui è tenuto il medico competente (o di fabbrica) per effetto dell'art. 40 del T.u. sicurezza (approvato dal dlgs n. 81/2008). Il decreto precisa che la cartella sanitaria deve essere tenuta sia su supporto cartaceo che informatico. Si tratta di dati relativi all'anagrafica di lavoratore e datore di lavoro; alla visita preventiva; ai contenuti minimi della comunicazione scritta su giudizio d'idoneità alla mansione (informazioni minime, quindi inevitabili).
Quanto alle responsabilità, il decreto ribadisce che il medico competente risponde della raccolta, aggiornamento e custodia delle informazioni; mentre, per la mancata fornitura da parte del datore di lavoro di dati e informazioni di propria esclusiva pertinenza non può essere imputata alcuna responsabilità al medico competente che le abbia richieste.
Più «statistici» sono le informazioni che il medico deve comunicare (per esempio, dati sull'occupazione in azienda al 30 giugno e al 31 dicembre). Il decreto stabilisce che la trasmissione di tali dati deve essere effettuata dal medico competente entro il primo trimestre (cioè 31 marzo) dell'anno successivo a quello di riferimento, esclusivamente in via telematica. Il decreto è entrato in vigore il 25.08.2012 (30 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale); per il primo anno prevede un periodo transitorio (appunto di mesi 12 dall'entrata in vigore, cioè fino al 24.08.2013) per la sperimentazione delle nuove norme. Unicamente in relazione a tale periodo di sperimentazione, il termine per la trasmissione dei dati, quella relativa all'anno 2012, è stato prorogato dal 31.03.2013 che rappresenta la scadenza ordinaria annuale (così sarà dall'anno 2014 in avanti) al 30.06.2013 con lo stop alla sanzione a carico dei medici per le inadempienze.
Disciplina a regime. Dal 25 agosto pertanto la disciplina deve ritenersi a regime. È stato in considerazione della probabilità di possibili criticità nella fase di prima attuazione che il decreto aveva previsto la fase transitoria, della durata di 12 mesi peraltro al fine di effettuare un'adeguata sperimentazione del nuovo obbligo a carico dei medici. Il ministero della salute in merito ha spiegato che il periodo transitorio era finalizzato ad evidenziare eventuali necessità sia di modifiche delle procedure telematiche previste inizialmente in via sperimentale, ove le stesse si dimostrassero non pienamente rispondenti ai previsti criteri di semplicità, e sia anche dei dati richiesti con l'allegato 3 B, per renderli meglio fruibili e utilizzabili a fini epidemiologici (nota prot. 13313/2013).
Relativamente alla sospensione della sanzione a carico dei medici in caso di inottemperanza all'obbligo di trasmissione dei dati, il ministero della salute precisava che, stante la formulazione letterale della norma (art. 4 del decreto 09.07.2012), che può prestarsi a generare possibili dubbi interpretativi, «si chiarisce che “fino al termine della sperimentazione di cui al comma che precede” non va inteso come una temporanea sospensione dell'accertabilità di eventuale inosservanza dell'obbligo di trasmissione entro il 30 giugno, che duri “fino al 24.08.2013”, per cui solo successivamente a tale data l'eventuale violazione può essere accertata e sanzionata, ma nel senso che, ove ricorrano i presupposti richiamati all'articolo 4 del decreto ministeriale 9 luglio 2012, la omessa trasmissione dei dati relativi all'anno 2012 entro il termine fissato non è soggetto a sanzione in quanto tale periodo di sperimentazione risulta coperto dalla condizione di sospensione dell'applicazione della sanzione prevista».
Peraltro, il ministero aggiungeva che le possibili difficoltà operative non sarebbero mai state, in ogni caso, tali da ostacolare l'utile acquisizione delle informazioni richieste dall'allegato 3 B, anche successivamente al termine del 30.06.2013, atteso che la procedura telematica dell'Inail prevede, per la fase sperimentale in funzione di questa evenienza tale ulteriore possibilità (cioè l'invio anche dopo il 30.06.2013).
Evidentemente però, sia il periodo transitorio (un anno, fino al 25.08.2013) e sia la possibilità di inviare i dati oltre il termine (30.06.2013, in deroga per il solo anno 2012) non possono costituire una esimente generalizzata all'obbligo stesso di comunicazione delle informazioni. Con la conseguenza che, a partire dal 26 agosto, i medici ancora inottemperanti corrono il serio rischio di incappare nella sanzione da 1.096 e 4.384 euro (trattandosi di inadempienze effettuare successivamente al 01.07.2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Congedo parentale anche a ore. Serve, però, un accordo sindacale che preveda la possibilità. Lo ha chiarito il ministero del lavoro illustrando le novità della legge di stabilità 2013.
Sì alla frazionabilità ad ore del congedo parentale, ma serve un accordo sindacale che la disciplini. Un accordo, tuttavia, non necessariamente nazionale (il Ccnl) ma anche solo territoriale o addirittura aziendale.
Il via libera è arrivato dal ministero del lavoro (interpello 22.07.2013 n. 25/2013) che, nell'illustrare la novità della legge di stabilità per il 2013, ha precisato che essa ha delegato la contrattazione collettiva al compito di fissare modalità e criteri per il computo su base oraria del congedo parentale, senza però circoscriverne la competenza a uno specifico livello.
Il congedo parentale è il diritto di astenersi dal lavoro che spetta a ciascun genitore, per ogni bimbo, nei suoi primi otto anni di vita. Il periodo di astensione, tra i due genitori, non può superare i dieci mesi, fermo restando che alla madre spetta un periodo massimo di sei mesi e al papà di sette. Ne hanno diritto i lavoratrici/lavoratori dipendenti a condizione che il rapporto di lavoro sia in essere; non spetta ai genitori disoccupati o sospesi, ai genitori lavoratori domestici, ai genitori lavoratori a domicilio.
Nel caso in cui il rapporto cessi all'inizio o durante il periodo di fruizione del congedo, il diritto al congedo viene meno dal momento in cui è cessato il rapporto di lavoro. Il congedo compete ai genitori naturali entro i primi otto anni di vita del bambino per un periodo complessivo tra i due non superiore a dieci mesi, aumentabili a 11 qualora il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi. Nell'ambito del predetto limite, il diritto compete:
• alla madre lavoratrice dipendente, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;
• al padre lavoratore dipendente, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette, dalla nascita del figlio, se lo stesso si astiene dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi
• al padre lavoratore dipendente, anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre (a decorrere dal giorno successivo al parto), e anche se la stessa non lavora;
• al genitore solo (padre o madre), per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi;
• ai lavoratori dipendenti, genitori adottivi o affidatari, il congedo parentale spetta, con le stesse modalità dei genitori naturali, e cioè entro i primi otto anni dall'ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall'età del bambino all'atto dell'adozione o affidamento, e non oltre il compimento della maggiore età dello stesso.
I genitori naturali possono usufruire del congedo:
• entro i primi tre anni di età del bambino per un periodo massimo complessivo (madre e/o padre) di sei mesi percependo un importo di indennità pari al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata considerando la retribuzione del mese precedente l'inizio del periodo indennizzabile;
• dai tre anni e un giorno agli otto anni di età del bambino, nel caso in cui i genitori non ne abbiano fruito nei primi tre anni, o per la parte non fruita, il congedo verrà retribuito al 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente risulti inferiore a 2,5 volte l'importo annuo del trattamento minimo di pensione (euro 16.101 nel 2013);
• genitori adottivi o affidatari, possono usufruire dell'indennità per congedo parentale al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata considerando la retribuzione del mese precedente l'inizio del periodo indennizzabile: entro i tre anni dall'ingresso in famiglia del minore, indipendentemente dalle condizioni di reddito del richiedente, per un periodo di congedo complessivo di sei mesi tra i due genitori; dai tre anni e un giorno agli otto anni dall'ingresso in famiglia del bambino nel caso in cui i genitori non ne abbiano fruito nei primi tre anni dall'ingresso in famiglia, o per la parte non fruita, il congedo verrà retribuito al 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente risulti inferiore a 2,5 volte l'importo annuo del trattamento minimo di pensione (euro 16.101 nel 2013).
La frazionabilità a ore. Il congedo è disciplinato dal T.u. maternità approvato dal dlgs n. 151/2001, innovato dal 1° gennaio dalla legge di stabilità 2013. L'art. 1, comma 339 della legge n. 228/2012, in particolare, con l'inserimento del comma 1-bis all'articolo 32, ha previsto che la contrattazione collettiva di settore stabilisce le modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.
In realtà si tratta di una novità che era già stata prevista dal dl n. 216/2012 che però non è mai stato convertito in legge. Inoltre, con l'introduzione del comma 4-bis allo stesso articolo 32, la legge di stabilità 2013 ha previsto pure che durante il periodo di congedo il lavoratore e il datore di lavoro concordano, ove necessario, adeguate misure di ripresa dell'attività lavorativa, tenendo conto di quanto eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva.
Sufficiente l'accordo aziendale. Riguardo alla possibilità di frazionare a ore, la triplice sindacale (Cgil, Cisl e Uil) ha avanzato istanza d'interpello al ministero per sapere se sia possibile per la contrattazione collettiva di secondo livello intervenire a disciplinare le modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria ai sensi della richiamata norma della legge stabilità.
Il ministero ha risposto affermativamente facendo presente che, a differenza di quanto previsto da altre discipline, e in particolare a differenza del dlgs n. 66/2003 in materia di orario di lavoro in cui è richiesto il livello «nazionale» della contrattazione, il dlgs n. 151/2001, all'art. 32, fa semplicemente riferimento alla contrattazione «di settore». Il ministero fa notare che, nello stesso dlgs n. 151 il «settore» è più volte utilizzato, da un lato, per distinguere l'applicabilità degli istituti relativi ai riposi, permessi e congedi per ciò che attiene al settore pubblico e privato; dall'altro per individuare l'ambito di appartenenza dell'impresa a un determinato «settore produttivo»: per esempio, così avviene nel caso dell'art. 78, comma 2 (pubblici servizi di trasporto e settore elettrico), dell'art. 79, comma 1, lett. a) (settore dell'industria, del credito e assicurazioni, dell'artigianato, marittimi, spettacolo).
In virtù di tanto, conclude il ministero, stante l'assenza di un esplicito riferimento al livello «nazionale» della contrattazione, non vi sono motivi ostativi a una interpretazione in virtù della quale i contratti collettivi abilitati a disciplinare «le modalità di fruizione del congedo parentale di cui al comma 1 (dell'art. 32, dlgs n. 151/2001) su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa» possano essere anche i contratti collettivi di secondo livello (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rocce da scavo, due chance. Procedura greve o semplificata in base al tipo di cantiere. Terzo intervento normativo in due mesi per razionalizzare le norme sui sottoprodotti.
Con il terzo intervento legislativo nell'arco di due mesi viene nuovamente ridisegnata, razionalizzandola, la disciplina per la gestione come sottoprodotti delle terre e rocce da scavo.
In base al nuovo assetto dato alla materia dalla legge 98/2013 di conversione dell'ormai noto «dl del Fare» (dl 69/2013) per utilizzare come veri e propri beni (invece che come rifiuti) i materiali provenienti da scavi, le strade percorribili dal 21.08.2013 sono solo due (in luogo delle tre precedenti):
- per i residui provenienti da attività soggette a «Via» o «Aia», occorre il rispetto delle regole dettate dal dm 161/2012;
- per i residui derivanti da tutte le altre attività è invece necessario il rispetto delle norme recate dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 (Codice ambientale) unitamente a quelle di dettaglio aggiunte dalla citata legge di conversione.
Materiali da piccoli e medi cantieri. È proprio il secondo dei regimi descritti a costituire la vera novità introdotta dal provvedimento di consolidamento del decreto d'urgenza 69/2013 (in vigore nella sua originaria formulazione dal 02.06.2013).
La legge di conversione del «Fare» (G.U. del 20 agosto, in vigore dal giorno successivo) stabilisce infatti che i residui provenienti dai piccoli cantieri (ossia quelli che, in base alla definizione datane dall'articolo 266 del dlgs 152/2006, non ne producono oltre i 6 mila metri cubi) così come quelli provenienti da cantieri anche più grandi ma non sottoposti a valutazione di impatto ambientale o autorizzazione ambientale unica possono essere gestiti come sottoprodotti ai sensi della generale disciplina in materia dettata dall'articolo 184-bis del Codice ambientale ma a condizione che siano rispettate delle ulteriori e specifiche prescrizioni.
Prescrizioni che la nuova legge individua nelle seguenti: destinazione dei residui all'utilizzo diretto presso altro sito o altro ciclo produttivo senza alcun preventivo trattamento diverso dalla normale pratica industriale o di cantiere; rispetto (in caso di destinazione a recuperi, ripristini, rimodellamenti, riempimenti ambientali, altri utilizzi sul suolo) dei valori massimi di contaminazione dettati dal dlgs 152/2006 in tema di rifiuti; assenza (in caso utilizzo in successivo ciclo produttivo) di rischi per la salute e di emissioni superiori a quelle proprie dei beni; avvio delle operazioni di gestione previa autodichiarazione all'Arpa competente e loro conclusione entro un anno (salvo eccezioni, e comunque con relativa comunicazione dell'avvenuto riutilizzo allo stesso Ente); utilizzo della scheda prevista dal dlgs 286/2005 per il trasporto dei residui.
Disposizioni, queste, che declinano, in modo da renderle operativamente applicabili, parte delle più astratte condizioni generali sui sottoprodotti dettate dall'articolo 184-ter del dlgs 152/2006; condizioni comunque da rispettare, in quanto espressamente richiamate dalla legge di conversione, e in base alle quali (lo ricordiamo) la deroga al regime dei rifiuti è ammessa solo se: i residui sono originati da un processo di produzione di cui costituiscono parte integrante ed il cui scopo primario non sia la loro fabbricazione; i residui sono destinati a un riutilizzo certo nel corso dello stesso o di successivo processo di produzione o utilizzazione; le sostanze o gli oggetti devono essere riutilizzabili direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla «normale pratica industriale» (alla quale la citata legge aggiunge ora quella «di cantiere»); il riutilizzo sia «legale», nel senso che i residui soddisfano i requisiti dei prodotti e non comportano impatti negativi per ambiente e salute umana.
Materiali da grandi cantieri. Viene invece confermata dalla conversione del dl 69/2013, come accennato, l'originaria previsione del decreto d'urgenza che limitava ai soli grandi cantieri (quelli sottoposti dal dlgs 152/2006 a valutazione di impatto ambientale o autorizzazione ambientale unica) l'obbligo del rispetto delle più grevi condizioni dettate dal dm Ambiente 161/2012 per gestire come sottoprodotti le relative terre e rocce da scavo.
Il dm Ambiente 161/2012, lo ricordiamo, dal 06.10.2012 (data della sua entrata in vigore) al 21.06.2013 (giorno precedente all'intervento del dl 69/2013, che ne ha limitata la portata) ha costituito l'unica disciplina di riferimento per le tutte le imprese che volevano invocare il regime dei sottoprodotti per i propri materiali da scavo.
La cancellazione della «terza via». Con la legge di conversione del dl 69/2013 è stata altresì espressamente abrogata la discussa disposizione del dl 43/2013 («Emergenze») che aveva riportato in vita, dal 26.06.2013 (giorno della sua entrata in vigore) e solo per i piccoli cantieri, l'articolo 186 del dlgs 152/2006 recante la vecchia e specifica disciplina per la gestione come sottoprodotti di tutte le terre da scavo, articolo superato già nel 2012 mediante il citato dm Ambiente 161/2012.
Ed è proprio in virtù di tale abrogazione che, tecnicamente, si torna ora, come accennato in apertura, alla dicotomia normativa in materia: decreto ministeriale Ambiente 161/2012 per i cantieri «Via» e «Aia»; combinato disposto delle norme ex 184-bis del dlgs 152/2006 ed ex lege di conversione del dl 69/2013 per tutti gli altri (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

ENTI LOCALI - VARIMediatori pure i non iscritti. L'avvocato opera anche se non fa parte di organismi. È quanto desumibile dal decreto del Fare, la cui legge di conversione è andata in G.U.
L'avvocato può fare il mediatore, anche senza essere iscritto a un organismo di mediazione.

È quanto desumibile dal decreto-legge cosiddetto del «fare», 69, del 2013, convertito in legge 98 del 2013, che ha riscritto le norme sulla mediazione civile e commerciale, modificando e integrando il decreto legislativo 28/2010.
In particolare l'articolo 16 del decreto legislativo, dopo le modifiche, prevede che gli avvocati iscritti all'albo sono di diritto mediatori.
Questo significa che gli avvocati per il solo fatto di essere iscritti a un albo sono legittimati a prestare l'attività di mediatore, senza necessità di uno specifico percorso formativo per l'accesso allo svolgimento di tale servizio.
Le competenze del legale relative alla transazione e alla conciliazione delle controversie, infatti, possono ritenersi acquisite nel percorso formativo e professionale dell'avvocato.
Il legale, tra l'altro, è chiamato a verificare le opzioni conciliative e transattive anche all'interno della procedura ordinaria e nell'ambito della attività stragiudiziale.
Il decreto del fare, dopo avere assegnato all'avvocato il ruolo automatico di conciliatore, aggiunge, poi, che gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 55-bis del codice deontologico forense.
Non è ben chiaro se la disposizione possa essere letta nel senso di distinguere avvocati «iscritti» a organismi di mediazione, rispetto ad avvocati «non iscritti» agli stessi.
Nei dossier dei lavori parlamentari, non a caso, si sottolinea l'ambiguità della disposizione, sottolineando potrebbe essere ritenuto opportuno chiarire se l'avvocato possa svolgere la funzione di mediatore esclusivamente attraverso «l'iscrizione a organismi di mediazione» ovvero anche autonomamente. Tra l'altro gli stessi lavori parlamentari evidenziano l'improprietà linguistica del testo: si segnala, in fatti, che l'iscrizione e l'atto che deve compiere l'organismo di mediazione per essere inserito nell'apposito registro tenuto dal Ministero, che abilita alla mediazione; nel caso specifico, invece, il termine pare essere usato per indicare un professionista che chiede di poter svolgere la funzione di mediatore all'interno di un organismo già costituito.
Ovviamente nel caso in cui prevalesse l'impostazione che consente all'avvocato, che non fa parte di un organismo di mediazione, di svolgere l'attività di mediazione, occorrerebbe una regolamentazione attuativa del procedimento (dalla domanda ai verbali all'esito del procedimento).
In ogni caso l'avvocato mediatore deve rispettare l'articolo 55-bis del codice deontologico di categoria. In base a questa norma l'avvocato non deve assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza.
Inoltre, a scanso di possibili conflitti di interessi, non può assumere la funzione di mediatore l'avvocato: che abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti; quando una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali.
In ogni caso costituisce condizione ostativa all'assunzione dell'incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di incompatibilità all'attività di arbitro (articolo 815, primo comma, del codice di procedura civile).
Inoltre l'avvocato che ha svolto l'incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti: se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento; se l'oggetto dell'attività non sia diverso da quello del procedimento stesso.
Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali.
Infine è fatto divieto all'avvocato consentire che l'organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest'ultimo abbia sede presso l'organismo di mediazione (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

VARI: Bonus mobili. Detrazione sugli arredi solo con bonifico parlante.
Finalmente potrete buttare via il vecchio divano martoriato dalle unghie del gatto, che non potete più vedere. O sostituire la scrivania dei ragazzi, che negli ultimi anni sono cresciuti parecchio e con le gambe non ci stanno proprio più. O aggiungere una bella libreria in entrata. Decisioni che avete sempre rimandato perché la crisi morde, le incertezze sul futuro sono tante, e prima di acquistare nuovi mobili era necessario avviare qualche intervento di ristrutturazione in casa, approfittando magari degli incentivi fiscali sulle ristrutturazioni edilizie al 36-50% per cento.
Ebbene, grazie all'estensione degli sgravi Irpef del 50% anche agli arredi e ai grandi elettrodomestici in classe non inferiore alla A+, ora potrete concedervi anche qualche spesa per l'arredamento, purché sia destinato alla stessa abitazione in cui avete avviato i lavori e che questi godano a loro volta delle detrazioni del 36-50 per cento. Una semplice tinteggiatura dell'appartamento, quindi, non sarebbe sufficiente, perché la manutenzione ordinaria non è agevolata nelle singole unità immobiliari residenziali.
La tempistica
Per approfittare di questa opportunità (introdotta dall'articolo 16, comma 2, del Dl 63/2013, convertito nella legge 90/2013) occorre prestare attenzione a tutti i passaggi burocratici necessari per accedere ai bonus. La finestra concessa dal Governo è limitata alle spese «documentate e sostenute dalla data di entrata in vigore del decreto» (ovvero il il 6 giugno scorso): la norma non cita una scadenza, ma siccome il bonus sui mobili è legato a quello edilizio –che scade il 31 dicembre di quest'anno– è meglio effettuare i pagamenti per gli arredi entro la stessa data, almeno finché non ci saranno aperture ufficiali da parte delle Entrate.
Più ampia è invece la tempistica che riguarda l'inizio dei lavori ai quali legare l'acquisto di mobili: un emendamento presentato al Senato (dove il Dl 63/2013 è stato approvato lo scorso 4 luglio) ha infatti stabilito che si può ottenere il bonus anche in caso di interventi iniziati prima del 06.06.2013, ma ancora in corso durante quella data. Più incerta l'applicazione per lavori che hanno beneficiato del 50%, ma che il 6 giugno erano già finiti.
La spesa rimborsabile
Il tetto di spesa su cui calcolare l'agevolazione è stato fissato a 10mila euro –aggiuntivi rispetto al plafond di 96mila euro del bonus edilizio– per un massimo dunque di 5mila euro di detrazione, da dividere in dieci quote annuali di sconto fiscale, da 500 euro ciascuna, in sede di dichiarazione dei redditi.
Il bonus è cumulabile con l'agevolazione principale sulle ristrutturazioni e riguarda qualunque tipologia di arredo, anche se non direttamente collegato all'intervento di ristrutturazione.
Arredi e interventi concessi
Se in casa sono stati avviati lavori per rinnovare il bagno, sarà possibile detrarre al 50% la spesa anche per l'acquisto, ad esempio, di un armadio per la camera da letto o di un tavolo per la cucina.
L'intervento di ristrutturazione, inoltre, non richiede per forza opere murarie di grande entità: è manutenzione straordinaria anche la sostituzione di una finestra o il rifacimento dell'impianto elettrico. Inoltre, secondo l'interpretazione più favorevole al contribuente potrebbe bastare anche uno di quegli interventi che l'articolo 16-bis del Tuir (norma base per la detrazione del 36%) agevola a prescindere dall'inquadramento edilizio: come la riparazione di impianti domestici insicuri (ad esempio, la sostituzione anche di una singola presa) o le opere per la sicurezza domestica (l'installazione di una porta blindata, tra gli altri).
Più stretta la maglia per gli elettrodomestici, inclusi nelle agevolazioni soltanto in sede di approvazione del testo al Senato. Il bonus del 50% è ammesso solo per i «grandi elettrodomestici», come lavatrici, frigoriferi e congelatori, e per apparecchi in classe superiore alla A+ (classe A per i forni), quindi macchine di ultima generazione e a ridotto consumo energetico.
Il pagamento
La detrazione è concessa soltanto per spese «documentate»: è fondamentale dunque conservare tutte le fatture ma soprattutto –come precisato dall'agenzia delle Entrate lo scorso 4 luglio– tenere a mente che l'unico mezzo di pagamento accettato è il bonifico bancario o postale «parlante», sul modello di quelli già richiesti per le ristrutturazioni edilizie del 36-50%, con la stessa causale (articolo 16-bis del Tuir).
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DOMANDE
Tutte le tipologie di arredo rientrano nelle detrazioni
Sto ristrutturando la cucina del mio appartamento e l'intervento rientra tra quelli agevolati al 50 per cento. Vorrei approfittarne per cambiare anche gli arredi della stanza: il bonus al 50% riguarda soltanto i mobili fissi oppure anche quelli da arredamento?
La definizione di «mobili» non è stata precisata nel Dl 63/2013 perciò –in attesa di ulteriori chiarimenti– si ritiene di poter considerare tutte le tipologie di arredo come idonee a ottenere gli sgravi fiscali. Resta il dubbio –ma dovrebbero essere esclusi– su prodotti come lampade, lampadari, complementi d'arredo, tende. In attesa di chiarimenti, il consiglio è pagare con bonifico parlante anche le voci dubbie: poi, in sede di dichiarazione dei redditi, nel 2014, si potranno detrarre solo le spese effettivamente agevolate.
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La chance della ripetizione per chi ha pagato con assegno
Ho acquistato alcuni mobili per la mia casa in corso di ristrutturazione. Avrei tutti i requisiti per ottenere la detrazione del 50% sugli arredi, tuttavia ho pagato i nuovi mobili con assegno bancario anziché con bonifico. Vorrei sapere se esiste una possibilità di accedere ugualmente agli sgravi Irpef.
L'agenzia delle Entrate, con un comunicato del 4 luglio, ha chiarito che il pagamento di mobili ed elettrodomestici, per ottenere il bonus fiscale deve avvenire tramite bonifico «parlante», bancario o postale. Un caso come questo si potrebbe risolvere ripetendo il pagamento attraverso bonifico e accordandosi con il rivenditore per avere indietro l'importo.
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Il rimborso per gli arredi si somma a quello per i lavori
Non mi è chiaro se i 10mila euro stabiliti come spesa massima rimborsabile al 50% sono compresi nel massimale di 96mila euro per le opere di ristrutturazione oppure vanno considerati in aggiunta a tale massimale.
Il bonus su mobili ed elettrodomestici è cumulabile con l'agevolazione principale sulle ristrutturazioni, quindi in aggiunta ai 96mila euro.
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I documenti da presentare e le voci da inserire in fattura
Potete spiegarmi quali voci devono essere indicate nella fattura e quali documenti occorre presentare per accedere alla detrazione del 50% sull'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici?
La fattura deve contenere la normale indicazione dei prodotti acquistati. Al momento della dichiarazione dei redditi, fatture e ricevute dei bonifici «parlanti» sono i documenti necessari per indicare la detrazione. Peraltro, questi documenti non vanno presentati agli uffici, ma solo conservati in caso di eventuali controlli futuri delle Entrate, come accade per i bonus edilizi. Nel caso la dicitura in fattura fosse criptica o molto sintetica, potrebbe essere utile anche conservare i depliant o le schede tecniche dei mobili ed elettrodomestici.
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TRA LE PIEGHE DEL DECRETO
Ok allo sconto a un solo contitolare - Agevolazioni abbinate
La detrazione del 50% sui mobili è abbinata a quella per il recupero edilizio. I contribuenti che vogliono beneficiarne, quindi, devono avere anche il bonus edilizio, in relazione –secondo la lettura prevalente– a lavori che alla data del 6 giugno scorso non fossero ancora conclusi. In caso di immobile in comproprietà, il tetto di spesa massima di 10mila euro –su cui calcolare la detrazione per mobili ed elettrodomestici– va diviso tra i contitolari. Per analogia con il bonus edilizio, comunque, si ritiene che uno solo dei comproprietari possa sostenere tutta la spesa per gli arredi e portarla in detrazione (a patto, naturalmente, che benefici anche del bonus edilizio).
Esclusi computer e televisori - Gli elettrodomestici ammessi
Il testo del Dl 63/2013 uscito dalla discussione in Senato ha esteso la possibilità di ottenere il bonus del 50% anche ai «grandi elettrodomestici», ovvero lavatrici, lavastoviglie, forni, frigoriferi, congelatori eccetera. Inoltre, gli sgravi sono ammessi soltanto per i grandi elettrodomestici (non, per intendersi, i televisori) che siano dotati di etichetta di efficienza energetica. Sono ammessi apparecchi a partire dalla classe A+, con l'eccezione dei forni, per i quali vale come riferimento la classe A (e quelle superiori).
L'edizione 2009 del bonus mobili, invece, citava espressamente anche i televisori e i computer fin dalla norma di legge istitutiva.
Tre elementi nel versamento - Il metodo di pagamento
Lo scorso 4 luglio l'agenzia delle Entrate ha precisato che, per ottenere la detrazione sugli arredi e i grandi elettrodomestici, l'unico mezzo di pagamento accettato è il bonifico «parlante», bancario o postale (anche online), sul modello di quelli già richiesti per ottenere il 50% edilizio.
Il bonifico deve contenere:
- il codice fiscale del beneficiario della detrazione;
- il numero di partita Iva ovvero il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato;
- la causale del versamento attualmente utilizzata dalle banche e da Poste italiane (articolo 16-bis del Tuir).
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IL VADEMECUM
A chi si rivolge e cosa prevede il Dl 63/2013 per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici
I BENI AGEVOLATI
Il bonus riguarda le spese sostenute per l'acquisto di mobili (non necessariamente legati ai lavori in corso o realizzati) e grandi elettrodomestici, purché destinati all'arredo di un immobile oggetto di ristrutturazione agevolata al 50%
LA SPESA MASSIMA
Il bonus del 50% è cumulabile con l'agevolazione principale sulle ristrutturazioni e copre una spesa complessiva (mobili + elettrodomestici) fino a 10mila euro, per un massimo di detrazione di 5mila euro
TEMPI DEL RIMBORSO
La detrazione, sull'importo massimo di 10mila euro di spesa complessiva, avviene in dieci quote annuali di pari importo, cioè di 500 euro ciascuna. In caso di più comproprietari, la spesa massima si divide tra tutti coloro che beneficiano del bonus
I DOCUMENTI
Una volta presenti gli altri requisiti fissati dalla legge, la detrazione è riservata ai contribuenti che hanno «sostenuto le spese», vale ai dire agli intestatari delle fatture che abbiano anche eseguito un bonifico parlante (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici. Il decreto del fare aumenta le garanzie finanziarie per realizzare le infrastrutture con la partecipazione dei soggetti privati.
Appalti, rafforzato il ruolo delle banche. Istituti coinvolti fin da subito per verificare la fattibilità dei piani economici nelle concessioni.
L'ANTICIPAZIONE/ Dal 21 agosto tutti i bandi devono prevedere di versare all'impresa il 10% del contratto all'apertura del cantiere.

Banche e istituti finanziatori devono essere coinvolti in anticipo nelle scelte sulle opere pubbliche da realizzare con capitali privati. Anche il Dl 69 –convertito nella legge 98/2013 dal Parlamento– con alcune modifiche agli articoli 143 e 144 del Codice degli appalti pubblici introduce una serie di importanti novità volte a creare le condizioni concrete per favorire la "bancabilità" e quindi il closing finanziario (ovvero il contratto di finanziamento) delle iniziative realizzate in concessione di lavori pubblici.
La principale novità consiste nel richiedere un costruttivo coinvolgimento degli istituti di credito, già dall'avvio della procedura di gara lanciata per affidare la concessione: lo scopo è quello di arrivare –diversamente da quanto è avvenuto sino a oggi– al closing finanziario a breve distanza dalla sottoscrizione del contratto di concessione con la stazione appaltante, in linea con le best practice europee.
Per la prima volta l'istituto finanziatore diventa anche formalmente uno degli attori con cui le amministrazioni pubbliche dovranno dialogare per poter impostare da subito l'operazione in modo che essa sia bancabile. Infatti il decreto "del fare" prevede che, se la concessione viene affidata con la procedura ristretta, la stazione appaltante può indire –prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte– una consultazione preliminare con gli operatori economici invitati a presentare offerte al fine di verificare le eventuali criticità del progetto sotto il profilo della finanziabilità. In questo modo l'amministrazione può adeguare già gli atti di gara in funzione delle indicazioni ricevute e garantire l'effettiva coerenza dell'iniziativa con gli attuali parametri di bancabilità.
Anche in caso di procedura aperta, il bando di gara può prevedere che l'offerta sia corredata da una dichiarazione sottoscritta da uno o più istituti finanziatori con cui essi manifestano l'interesse a finanziare l'operazione. Non si tratta a rigore di un impegno vincolante da parte della banca, ma in ogni caso si creano anche concrete aspettative che poi quell'istituto di credito finanzierà l'iniziativa, dal momento che la manifestazione di interesse deve essere prestata tenendo conto dei contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario, e quindi all'esito –si suppone– di una approfondita valutazione della disciplina di concessione e della relativa matrice dei rischi.
Sempre nella prospettiva di agevolare il reperimento di capitale di debito, il Dl 69 ritorna sul tema cruciale dell'equilibrio economico-finanziario e chiarisce in modo fermo che quando per qualsiasi motivo indipendente dal concessionario, dovuto principalmente a un evento di cambiamento nella normativa, la sostenibilità dell'iniziativa è alterata, sorge sempre il diritto del privato a rivedere la concessione al fine di ristabilirne l'equilibrio. A ciò si lega la necessità, introdotta con il decreto, di:
- definire nella convenzione i presupposti e le condizioni su cui si basa l'equilibrio economico-finanziario dell'operazione;
- ancorare la definizione di equilibrio economico-finanziario a puntuali indicatori di redditività e di sostenibilità del debito;
- disciplinare in modo puntuale modalità e tempistiche di verifica dell'equilibrio.
Le banche, chiamate a intervenire in sede di consultazione preliminare e a manifestare il proprio interesse a finanziare l'operazione, avranno per l'appunto un ruolo decisivo nel dare alla stazione appaltante da subito indicazioni su come scrivere proprio queste previsioni della convenzione, che sono cruciali per la bancabilità dell'iniziativa.
Da adesso in poi la palla passa alle stazioni appaltanti chiamate a implementare le novità del decreto nel contesto concreto della gara e delle sue regole di trasparenza, imparzialità e par condicio. Anche se il legislatore è stato chiaro sul fronte del rischio finanziario: esso rimane a carico del concessionario e se entro un congruo termine fissato dal bando di gara –e comunque non superiore a 24 mesi dall'approvazione del progetto definitivo– il contratto di finanziamento non viene sottoscritto, la concessione va risolta e al privato non è dovuto alcun rimborso per le spese sostenute, neppure per quelle di progettazione.
Altra novità di rilievo per i lavori pubblici destinata a trovare l'ampio consenso delle imprese colpite dalla crisi economica riguarda la reintroduzione dell'anticipazione del prezzo d'appalto nella misura del 10%, in deroga al divieto già previsto dai tempi della legge Merloni.
Con la versione finale del decreto legge, l'anticipazione del prezzo prima prevista come una facoltà della stazione appaltante, è diventata obbligatoria per la Pa che la dovrà pubblicizzare nel bando. È questa una misura concreta che potrà dare ossigeno alle imprese di costruzione fino al 31.12.2014 e varrà per i lavori oggetto di bandi pubblicati dopo mercoledì 21 agosto, data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. La norma (articolo 26-ter) specifica che nel caso di contratti di appalto relativi a lavori di durata pluriennale l'anticipazione andrà compensata fino alla concorrenza dell'importo sui pagamenti effettuati nel corso del primo anno contabile.
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Le misure
LE AUTORIZZAZIONI - La dichiarazione
A rafforzamento del principio di bancabilità dell'opera pubblica il Dl 69 specifica che all'atto della consegna dei lavori il concedente deve dichiarare di disporre di tutte le autorizzazioni previste dalla normativa e che esse sono legittime, efficaci e valide.
Tra le cause più frequenti di ritardo e di incertezza nella realizzazione di questi interventi c'è proprio l'indisponibilità di tutte le autorizzazioni. In particolare, quando il prezzo è rappresentato dalla cessione di beni immobili il beneficio per il concessionario dipende dalla loro adeguata valorizzazione che però presuppone un quadro autorizzatorio completo, certo e coerente con le destinazioni dal punto di vista urbanistico.
LE BANCHE - La consultazione preliminare
Viene promosso un più tempestivo e concreto coinvolgimento degli istituti finanziatori già a partire dalla procedura di affidamento della concessione di lavori pubblici. In un mercato del credito che ha serie difficoltà ad erogare prestiti alle imprese, la bancabilità delle iniziative in finanza di progetto per essere migliorata richiede che i soggetti finanziatori vengano coinvolti dall'inizio: questo avviene attraverso il meccanismo della consultazione preliminare prima della presentazione delle offerte e attraverso la manifestazione di interesse a finanziare l'operazione, acquisita anche questa prima della conclusione della gara con cui si individua il partner privato.
LE CONSULTAZIONI - La procedura a inviti
Nelle concessioni affidate con la procedura ristretta (a inviti) la stazione appaltante può indire, prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, una consultazione preliminare con gli operatori economici invitati a presentare offerta al fine di verificare le eventuali criticità del progetto sotto il profilo della finanziabilità. Alla fine della consultazione l'amministrazione adeguerà gli atti di gara in funzione delle indicazioni ricevute in modo da garantire l'effettiva coerenza dell'iniziativa con i correnti parametri di bancabilità. Il nuovo termine di presentazione delle offerte non può essere inferiore a 30 giorni decorrenti dalla comunicazione agli interessati.
L'INTERESSE - L'impegno della banca
Nelle procedure aperte il bando di gara può prevedere che l'offerta sia corredata da una dichiarazione sottoscritta da uno o più istituti finanziatori che manifestano l'interesse a finanziare l'operazione. Per rendere la manifestazione di interesse il più possibile effettiva –e comunque più incisiva del mero «preliminare coinvolgimento» delle banche previsto dalla normativa precedente– viene richiesto che la manifestazione di interesse venga prestata in considerazione anche dei contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario e quindi sulla base di una approfondita valutazione della disciplina di concessione e della matrice dei rischi dell'iniziativa.
LA RISOLUZIONE - La mancata sottoscrizione
I contratti di concessione prevedono la risoluzione del rapporto nel caso in cui entro un congruo termine fissato dal bando di gara e comunque non superiore a 24 mesi dall'approvazione del progetto definitivo non dovesse venire sottoscritto il contratto di finanziamento o sottoscritti o collocati i project bond previsti dall'articolo 157 del Codice degli appalti. Dato che il finanziamento è un rischio che rimane comunque a carico del concessionario, in caso di risoluzione per mancato raggiungimento del financial closing dell'iniziativa, al privato non è dovuto alcun rimborso per le spese sostenute, comprese quelle di progettazione.
I LOTTI - Il finanziamento parziale
Nel caso in cui l'opera oggetto del contratto di concessione riesca a ottenere sul mercato un finanziamento solo parziale –corrispondente però a uno stralcio tecnicamente ed economicamente funzionale– la risoluzione del contratto è solo parziale. In un'ottica di conservazione del contratto, la concessione prosegue infatti per la parte coperta dal finanziamento. Questo consente di salvaguardare l'obiettivo di realizzazione anche parziale ma comunque utilizzabile dell'opera pubblica, ma al tempo stesso, è in linea con la novità introdotta dal decreto del fare a favore delle piccole e medie imprese, per cui gli appalti vanno di regola suddivisi e affidati per lotti funzionali.
L'ANTICIPAZIONE - Subito il 10%
Il Dl 69 ha ripristinato in via temporanea fino al 31.12.2014 l'anticipazione finanziaria sui lavori pubblici, abolita dall'epoca della legge Merloni.
Per bandi pubblicati dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione –21 agosto– la stazione appaltante deve prevedere di erogare all' inizio dei lavori una somma pari al 10% dell'importo contrattuale. Ma all'impresa di costruzioni è richiesta una fideiussione bancaria o assicurativa progressivamente svincolata di pari importo. Nel caso di lavori pluriennali l'anticipazione va compensata in modo progressivo con i pagamenti effettuati nel corso del primo anno contabile (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

LAVORI PUBBLICIQualificazione da rifare per i lavori specialistici.
Sui lavori specialistici rischia di avere effetti a catena il ricorso straordinario dell'Agi (associazione grandi imprese di costruzione) al Presidente della Repubblica per ottenere l'annullamento di un ampio ventaglio di previsioni contenute nel Regolamento di attuazione del Codice dei contratti pubblici (Dpr 207/2010) considerate fortemente penalizzanti per queste imprese.

Il Consiglio di Stato, il 26 luglio scorso, attraverso una commissione speciale ha dato ragione alle obiezioni dell'Agi in tema di accesso delle imprese alle gare di lavori e ha espresso così parere positivo all'annullamento degli articoli 109, comma 2 e 107, comma 2, del Regolamento. Queste norme infatti hanno trasformato in eccezione la regola generale per cui l'impresa generale in possesso della qualificazione nella categoria prevalente di lavori da appaltare indicata nel bando, e cioè quella di importo più elevato, può qualificarsi ed eseguire anche tutti i restanti lavori di cui si compone l'opera (i cosiddetti lavori scorporabili), anche se non ha le qualificazioni specialistiche.
Di fatto questa regola è rimasta di marginale applicazione: se infatti i lavori scorporabili rientrano in una delle 46 categorie a qualificazione obbligatoria (su 52 totali) l'impresa generalista che intende partecipare alla gara deve subappaltare i lavori ad altri soggetti qualificati nelle categorie specialistiche. Oppure nel caso di opere «super-specialistiche» (in 24 categorie) di importo superiore al 15% dell'importo totale dei lavori, solo il 30% potrà essere subappaltato, mentre per la restante parte va costituita un'associazione tra impresa generale e specialistica.
Ora il Consiglio di Stato ha detto che la regola deve ritornare ad essere tale: la qualificazione in una categoria generale già comprende nella normalità dei casi l'idoneità a eseguire una serie di opere specialistiche accessorie.
Ma quali saranno le conseguenze? Da quando la nuova disciplina dovrà essere applicata? L'annullamento effettivo delle disposizioni del Regolamento dovrà attendere il decreto del Presidente della Repubblica, a cui è stato indirizzato il ricorso da parte dell'Agi e che recepirà il parere del Consiglio di Stato. Fino a quel momento il Regolamento rimarrà in vita e quindi le stazioni appaltanti dovrebbero continuare ad applicarlo integralmente. Non si possono tuttavia escludere contenziosi da parte di singoli operatori che non vorranno perdere l'occasione di giocarsi questa carta. Il parere rilasciato dal Consiglio di Stato infatti riconosce che il Regolamento ben potrebbe essere oggetto comunque di contestazione da parte dell'impresa al momento della pubblicazione del bando di gara e cioè quando la lesione si concretizza con l'atto applicativo: le disposizioni regolamentari in questione, se in violazione di norme di livello superiore potranno essere disapplicate dal giudice amministrativo.
Inoltre l'annullamento delle previsioni del Regolamento aprirà un vuoto da colmare al più presto: senza un'integrazione e un coordinamento delle norme si rischia un caos normativo che, mettendo a rischio la stessa esistenza delle categorie a qualificazione obbligatoria, porterebbe a una situazione di eccesso opposta a quella lamentata dall'Agi. Infatti le imprese generali qualificate nella categoria prevalente sarebbero sempre ammesse a partecipare alle gare di lavori anche in presenza di lavorazioni scorporabili riconducibili alle categorie a qualificazione «ex obbligatoria». All'opposto, le imprese qualificate nelle categorie a qualificazione «ex obbligatoria» entrerebbero in gara solo nella misura in cui l'impresa generale per propria strategia commerciale intenda subappaltare una parte dei lavori o comunque allargare l'iniziativa costituendo un'associazione temporanea.
Una volta che verranno annullate le previsioni censurate del Regolamento dovrà quindi intervenire il legislatore a ridefinire, in funzione del livello di complessità tecnica e del contenuto tecnologico, l'ambito delle categorie a qualificazione obbligatoria e di quelle super-specialistiche «al fine di realizzare un più equilibrato contemperamento» tra le opposte esigenze delle imprese generali e di quelle specialistiche, così come suggerito dal Consiglio di Stato. Certo questo è un iter lungo ed articolato. Nel frattempo le stazioni appaltanti nei loro bandi di gara potranno indicare solo categorie di lavori scorporabili che, seppure specialistiche o anche super-specialistiche, saranno a qualificazione non obbligatoria ai fini della gara e della successiva esecuzione dei lavori. Con la conseguenza ulteriore che solo nel caso in cui il concorrente decidesse di subappaltare questi lavori, le relative qualificazioni andranno richieste alle imprese subappaltatrici.
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In sintesi
01| IL PARERE
Il 26 luglio il Consiglio di Stato ha espresso parere positivo su un ricorso dell'Agi che chiedeva l'annullamento delle norme del Regolamento appalti che impongono alle imprese generali di subappaltare gran parte dei lavori specialistici alle imprese qualificate nella singola specializzazione oppure di costituire un'associazione temporanea di impresa
02|IL PRINCIPIO
Per i giudici di Palazzo Spada la qualificazione generale è talmente ampia da ricomprendere anche i lavori specializzati
03|LA DECORRENZA
L'annullamento dell'obbligo scatterà solo quando arriverà in «Gazzetta» il decreto con cui il Presidente della Repubblica accoglierà il parere del Consiglio di Stato. Ma intanto non sono esclusi contenziosi
04|LE CONSEGUENZE
In attesa di un intervento normativo le amministrazioni dovranno indicare nei bandi le categorie specialistiche senza obbligo di subappalto o di associazione temporanea e sarà l'impresa generale a decidere se eseguirle direttamente o subappaltarle (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

APPALTIAddio al Durc usa e getta: l'atto è valido per più gare. I controlli. Il certificato può essere utilizzato per 120 giorni.
L'obiettivo della semplificazione amministrativa perseguito ad ampio raggio dal Dl 69/2013 (convertito nella legge 98/2013) riguarda anche il Durc negli appalti pubblici. L'articolo 31 sposta solo sulle stazioni appaltanti, comprese quelle diverse dalle pubbliche amministrazioni, l'obbligo di provvedere d'ufficio all'acquisizione del documento unico di regolarità contributiva, esonerando le imprese dal presentare il certificato per accertare quanto auto-dichiarato in fase di ammissione alla gara e per consentire i pagamenti agli appaltatori ed ai subappaltatori.
L'agevolazione per le imprese è di ampio impatto se si considera che l'onere dell'acquisizione d'ufficio del certificato viene esteso a tutte le stazioni appaltanti –anche diverse dalle amministrazioni aggiudicatrici– e ai soggetti privati comunque chiamati ad applicare le disposizioni del Codice dei contratti pubblici.
Il riutilizzo
Il decreto "del fare" incide anche su una semplificazione interna. Si consente infatti l'utilizzo dello stesso Durc in corso di validità (passata a 120 giorni) che, acquisito d'ufficio per la verifica delle dichiarazioni sostitutive presentate in gara, può essere utilizzato anche ai fini dell'aggiudicazione e della stipula del contratto.
Inoltre, a ulteriore snellimento degli oneri procedurali, si prevede che la stazione appaltante può utilizzare nell'ambito di altri appalti pubblici il Durc acquisito in occasione di altri contratti. Nella fase successiva di esecuzione dell'appalto il Durc acquisito ogni 120 giorni verrà impiegato per i pagamenti degli stati di avanzamento lavori e delle prestazioni relative a servizi e forniture, oltre che per il certificato di collaudo e di regolare esecuzione. Solo per il pagamento del saldo finale la stazione appaltante dovrà acquisire un nuovo Durc.
La difficile congiuntura economica e la carenza di liquidità delle imprese spiegano però l'adozione anche di ulteriori misure: nel caso in cui gli enti competenti riscontrino la mancanza dei requisiti per il rilascio del Durc, ne informano l'interessato o il suo consulente del lavoro mediante posta elettronica e lo invitano a regolarizzare la propria posizione entro un massimo di 15 giorni. In ogni caso se il Durc segnala un inadempimento contributivo le stazioni appaltanti pagano comunque l'appaltatore, trattenendo dal certificato di pagamento il debito contributivo e provvedendo poi direttamente al relativo versamento agli enti previdenziali.
Infine il meccanismo di compensazione previsto dal l'articolo 13-bis del Dl 52/2012 (convertito nella legge n. 94/2012), che consente il rilascio del Durc in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza di crediti certi, liquidi ed esigibili nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte di uno stesso soggetto, ha trovato finalmente la propria disciplina di dettaglio nel decreto del ministero dell'Economia pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» dello scorso 16 luglio.
Il Durc così rilasciato può essere utilizzato dall'impresa per ottenere il pagamento di stati di avanzamento lavori e delle prestazioni relative a servizi e forniture oggetto d'appalto. Scatta poi l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

TRIBUTILa Tares va pagata entro fine 2013. L'Economia boccia le rateazioni.
Tares 2013 va pagata dai contribuenti entro fine anno senza alcuna possibilità per i Comuni di differire il versamento nei primi mesi del 2014.

Lo ha chiarito il ministero dell'Economia e delle finanze con una nota del 9 agosto scorso emessa in sede di esame di una delibera comunale che fissava il termine per il pagamento delle ultime due rate nel 2014 (31 gennaio e 28 febbraio).
Il Mef evidenzia che i Comuni, nel disciplinare il numero e la scadenza delle rate Tares 2013, incontrano il vincolo costituito dalla riserva allo Stato della maggiorazione sui servizi indivisibili (0,30 euro al metro quadro), il cui gettito deve essere in ogni caso assicurato all'Erario entro l'anno in corso. Ciò anche al fine di pervenire a un'esatta determinazione del fondo di solidarietà comunale, del fondo perequativo e dei trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna.
A decorrere dal 2014, infatti, la possibilità di quantificare con precisione l'entità della maggiorazione standard è pregiudicata dal riconoscimento della facoltà per i Comuni sia di elevare la misura della maggiorazione sino a 0,40 euro, sia di riscuotere la Tares anche mediante «le altre modalità di pagamento offerte dai servizi elettronici di incasso e di pagamento interbancari», uscendo così dall'unico canale (F24 o bollettino postale centralizzato) che consente di individuare i flussi relativi alla maggiorazione in questione.
La chiusura del Mef è quindi dettata da esigenze di tracciabilità della maggiorazione Tares, anche per consentire allo Stato di introitare entro l'anno l'importo previsto di un miliardo di euro, cifra destinata a ridursi se i Comuni decidessero di differire il pagamento nel 2014.
Per ovviare a tale problema l'Ifel –con nota del 10.05.2013– ha ritenuto possibile stabilire l'ultima scadenza anche nel 2014, purché il versamento della maggiorazione avvenga in ogni caso entro la fine del 2013. Soluzione in realtà non del tutto conforme alla normativa, che collega il versamento della maggiorazione all'ultima rata del tributo, ma dettata dal buon senso di dilazionare maggiormente il pagamento della Tares, vista la partenza travagliata del nuovo tributo e considerato che molti comuni stanno ancora riscuotendo la Tarsu del 2012.
Tuttavia il Mef sembra escludere anche tale opzione in quanto contrasterebbe con le regole sulla contabilità ed in particolare con l'articolo 179 del Tuel: in tal senso si sarebbe peraltro espresso il Viminale.
Diversi Comuni dovranno quindi mettersi in regola e rivedere le scelte già effettuate. Senza considerare che nel frattempo il Governo potrebbe sostituire la maggiorazione Tares con la service tax, eliminando così il principale impedimento a riscuotere una parte del tributo di quest'anno nel 2014 (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

ENTI LOCALIGestioni associate, l'ostacolo del Patto. Piccoli Comuni. Il ruolo dei capofila.
C'è una mina sul cammino delle gestioni associate dei piccoli Comuni, obbligatorie da gennaio prossimo. L'interpretazione letterale della norma contenuta nell'articolo 31, comma 2, della legge 183/2011, secondo la quale ai fini della determinazione dell'obiettivo di Patto di stabilità i Comuni devono prendere a base la spesa corrente registrata nei conti consuntivi senza alcuna esclusione (esplicitata nella circolare del ministero dell'Economia n. 5/2013), provoca consistenti difficoltà all'attuazione delle forme associative.
L'articolo 19 del Dl 95/2012 dispone che i Comuni fino a 5mila abitanti, ovvero fino a 3mila abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esercitano, dal 01.01.2014, in forma associata, mediante unione di Comuni o convenzioni, tutte le funzioni fondamentali, con la sola eccezione dei servizi di stato civile, di anagrafe, elettorali e statistici.
Il criterio dettato da questa normativa sul Patto di stabilità mostra, nella prospettiva della costituzione delle convenzioni due principali inconvenienti:
- la spesa corrente sostenuta dai Comuni capofila anche per conto degli altri aderenti alle convenzioni non rappresenta il reale carico di questa categoria di spesa in quanto non tiene conto dei rimborsi effettuati a loro favore dagli altri Comuni;
- agli effetti del calcolo complessivo del comparto comuni la spesa di cui al punto precedente viene conteggiata due volte: una volta dai Comuni capofila e una seconda volta dai Comuni aderenti alle convenzioni sotto forma di rimborso innalzando, in tal modo, artificiosamente l'obiettivo di patto di stabilità dell'intero comparto.
Emerge ora una difficoltà nella formazione delle convenzioni poiché, a causa del meccanismo di calcolo prima illustrato, molti Comuni si rifiutano di assumere la funzione di enti capofila.
Come rimediare a questa situazione? A parere di chi scrive si potrebbe modificare l'interpretazione della norma con un provvedimento, anche non regolamentare, da parte del Mef, che autorizzi l'imputazione a bilancio da parte dei Comuni capofila di queste spese, ed in conseguenza delle correlative entrate, ai servizi per conto terzi; soluzione questa che non appare in contrasto con la vigente classificazione di bilancio di cui al Dpr 194/1996.
In alternativa, se non si ritenesse percorribile questa strada occorrerebbe intervenire con norma di livello legislativo. Ma occorre farlo con urgenza, stante gli stretti tempi a disposizione (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri, il cemento armato solo dal 2010.
Il geometra può progettare delle modeste abitazioni civili con l'impiego di strutture in cemento armato solo dopo la riforma attuata dal legislatore con il dlgs 212 del 2010. Per le opere fatte prima in violazione delle norme allora vigenti il professionista non ha diritto al compenso anche in caso di assoluzione, nel processo penale, dalle accuse di esercizio abusivo della professione.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 30.08.2013 n. 19989, ha respinto il ricorso di un geometra che chiedeva il pagamento del compenso per la progettazione di una villa che aveva richiesto anche l'impiego di opere in cemento armato. Insomma per la seconda sezione civile del Palazzaccio è del tutto irrilevante che l'uomo sia stato assolto dalle accuse di esercizio abusivo della professione. E soprattutto che l'intervento di un ingegnere successivo alla sua iniziale progettazione dell'abitazione non sana la sua posizione e non fa scattare il diritto al compenso.
In proposito il Collegio di legittimità, interpretando le norme precedenti la riforma classe 2010, ha ribadito che ai tecnici solo diplomati (geometri e periti in edilizia) è consentita soltanto la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione in ogni caso di opere che prevedano l'impiego di strutture in cemento armato a meno che non si tratti di piccoli manufatti accessori, trattandosi di una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, i limitati margini di discrezionalità attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo.
In ogni caso -dice ancora la Corte- resta esclusa (fino al 2010) la competenza del geometra per le modeste costruzioni civili che siano anche in cemento armato. In definitiva la Cassazione ha escluso il diritto al compenso del professionista anche perché, spiegano i Supremi giudici, il negozio giuridico nullo, all'epoca della sua perfezione, perché contrario a norme imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia per effetto della semplice abrogazione di tali. In altri termini la riforma non può incidere in alcun modo sulle cause già pendenti. Alla stessa conclusione è giunta la Procura generale di Piazza Cavour (articolo ItaliaOggi del 31.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: L’obbligo di versamento degli importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione è correlato all’aggravamento del carico urbanistico determinato dalla realizzazione di interventi edilizi sul territorio; quindi, la realizzazione di opere aventi superficie e volumetria minore rispetto a quelle già assentite, determinando esse un carico urbanistico minore, non costituisce titolo per richiedere un supplemento degli importi già versati dalla parte.
In questo senso depone anche quella giurisprudenza che ritiene parzialmente ripetibili le somme versate dall’operatore a titolo di contributo di costruzione qualora le opere realizzate abbiano consistenza volumetrica inferiore rispetto a quella assentita.

Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato.
Va invero osservato, in punto di fatto, che la domanda di accertamento di conformità che ha dato origine ai fatti di causa riguarda opere (un capannone industriale ed una abitazione) realizzate in difformità da concessione edilizia; e che tale difformità consiste nella realizzazione di superficie e volume inferiori rispetto a quelli originariamente assentiti.
Si tratta pertanto di interventi che, nella loro consistenza reale, hanno determinato la produzione di un carico urbanistico inferiore rispetto a quello che sarebbe conseguito dalle opere previste dal titolo rilasciato; per le quali peraltro erano stati regolarmente versati dall’interessata gli importi dovuti a titolo di oneri urbanizzazione primaria e secondaria e smaltimento rifiuti.
Ciò precisato, va rilevata, in punto di diritto, l’illegittimità della richiesta formulata dal Comune di versamento di ulteriori importi, sempre a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e smaltimento rifiuti, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985.
Va invero osservato che l’obbligo di versamento degli importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione è correlato all’aggravamento del carico urbanistico determinato dalla realizzazione di interventi edilizi sul territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.06.2009 n. 3847); e che quindi la realizzazione di opere aventi superficie e volumetria minore rispetto a quelle già assentite, determinando esse un carico urbanistico minore, non costituisce titolo per richiedere un supplemento degli importi già versati dalla parte .
In questo senso depone anche quella giurisprudenza che ritiene parzialmente ripetibili le somme versate dall’operatore a titolo di contributo di costruzione qualora le opere realizzate abbiano consistenza volumetrica inferiore rispetto a quella assentita (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. I, 13.01.2011 n. 188; TAR Lombardia Milano, sez. II, 24.04.2010 n. 728).
Per queste ragioni, la domanda della ricorrente deve essere accolta e per l’effetto il Comune di Castano Primo va condannato alla restituzione della somma indebitamente percepita, pari ad € 9.991,67 alla quale vanno aggiunti, ai sensi dell’art. 2033 c.c., gli interessi legali da calcolarsi a decorrere dal giorno di versamento (il Comune deve invero considerarsi in mala fede, avendo la ricorrente adeguatamente esposto, prima del pagamento, le ragioni per le quali la richiesta di supplemento doveva considerarsi infondata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.08.2013 n. 2092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, pur non essendo immediatamente operante nei rapporti fra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali di strumenti urbanistici con esso contrastanti, comporta l'obbligo, per il giudice, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione in esso recata, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Va invero rilevato che in giurisprudenza è risalente e consolidato il principio secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, pur non essendo immediatamente operante nei rapporti fra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali di strumenti urbanistici con esso contrastanti, comporta l'obbligo, per il giudice, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione in esso recata, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cass. Civ., sez. II, 30.03.2006 n. 7563; id. 29.01.1999 n. 811; id. 11.01.1992 n. 249) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.08.2013 n. 2087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROGETTUALI: Le ricorrenti chiedono congiuntamente il ristoro economico per la mancata (e dovuta) aggiudicazione e il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara.
La prima voce fatta valere è funzionale alla reintegrazione dell’interesse positivo, il quale consiste nel mancato conseguimento delle utilità economiche che gli aspiranti progettisti avrebbero ricavato dall’esecuzione del contratto posto a gara. Viceversa le spese sostenute per partecipare a quest’ultima costituiscono poste risarcibili nell’ambito del c.d. interesse negativo, azionabile in ipotesi di responsabilità precontrattuale dell’amministrazione aggiudicatrice (ad es. in caso di illegittima revoca dell’aggiudicazione o di ingiustificato rifiuto di stipulare il contratto).
Le predette poste sono tra loro alternative, poiché qualora sia riconosciuto un danno da mancata aggiudicazione, la misura corrisponde al risultato netto patrimoniale che il soggetto danneggiato avrebbe conseguito per effetto dell’affidamento illegittimamente negato, con detrazione delle spese sostenute dal concorrente per accedere alla selezione, poiché queste sarebbero state definitivamente a carico dello stesso anche in caso di aggiudicazione.
La partecipazione alle gare di appalto comporta per le imprese dei costi che, ordinariamente, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di vittoria, sia in caso di mancata aggiudicazione: il costo in questione sarebbe comunque stato sostenuto dall’impresa anche in caso di affidamento, per cui lo stesso deve ritenersi incorporato nella differenza tra ricavi e costi all’esito della quale si ottiene l’utile ritraibile dal servizio medesimo.
La medesima incompatibilità con il risarcimento del mancato utile ritraibile dall’esecuzione dell’appalto va registrata anche rispetto alla perdita di chance potenzialmente correlabile al risarcimento della lesione dell’interesse contrattuale negativo, in quanto dette chances riguardano le favorevoli occasioni contrattuali di segno alternativo alla partecipazione alla procedura di appalto della quale si tratti: il soggetto che domanda il ristoro per il mancato conseguimento dell’utile connesso ad una determinata procedura selettiva non può agire per cumulare un ulteriore risarcimento inteso a tenerlo indenne dalla contestuale perdita di occasioni alternative alla procedura stessa.

Le ricorrenti avanzano la pretesa risarcitoria per la mancata aggiudicazione dell’appalto di progettazione dell’intervento di riqualificazione di Piazza della Libertà, affidato ad altro raggruppamento di professionisti illegittimamente collocato al primo posto della graduatoria.
Sotto un primo versante, va sottolineato che le ricorrenti chiedono congiuntamente il ristoro economico per la mancata (e dovuta) aggiudicazione e il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara. La prima voce fatta valere è funzionale alla reintegrazione dell’interesse positivo, il quale consiste nel mancato conseguimento delle utilità economiche che gli aspiranti progettisti avrebbero ricavato dall’esecuzione del contratto posto a gara. Viceversa le spese sostenute per partecipare a quest’ultima costituiscono poste risarcibili nell’ambito del c.d. interesse negativo, azionabile in ipotesi di responsabilità precontrattuale dell’amministrazione aggiudicatrice (ad es. in caso di illegittima revoca dell’aggiudicazione o di ingiustificato rifiuto di stipulare il contratto). Le predette poste sono tra loro alternative, poiché qualora sia riconosciuto un danno da mancata aggiudicazione, la misura corrisponde al risultato netto patrimoniale che il soggetto danneggiato avrebbe conseguito per effetto dell’affidamento illegittimamente negato, con detrazione delle spese sostenute dal concorrente per accedere alla selezione, poiché queste sarebbero state definitivamente a carico dello stesso anche in caso di aggiudicazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 12/02/2013 n. 799).
La partecipazione alle gare di appalto comporta per le imprese dei costi che, ordinariamente, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di vittoria, sia in caso di mancata aggiudicazione: il costo in questione sarebbe comunque stato sostenuto dall’impresa anche in caso di affidamento, per cui lo stesso deve ritenersi incorporato nella differenza tra ricavi e costi all’esito della quale si ottiene l’utile ritraibile dal servizio medesimo (Consiglio di Stato, sez. V – 18/04/2012 n. 2258).
La medesima incompatibilità con il risarcimento del mancato utile ritraibile dall’esecuzione dell’appalto va registrata anche rispetto alla perdita di chance potenzialmente correlabile al risarcimento della lesione dell’interesse contrattuale negativo, in quanto dette chances riguardano le favorevoli occasioni contrattuali di segno alternativo alla partecipazione alla procedura di appalto della quale si tratti: il soggetto che domanda il ristoro per il mancato conseguimento dell’utile connesso ad una determinata procedura selettiva non può agire per cumulare un ulteriore risarcimento inteso a tenerlo indenne dalla contestuale perdita di occasioni alternative alla procedura stessa (Consiglio di Stato, sez. V – 06/07/2012 n. 3966)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.08.2013 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Può essere richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di jus poenitendi dell’amministrazione che –dopo l’avvio della procedura di scelta del contraente– mantiene il potere di revoca per documentate e motivate esigenze di interesse pubblico, anche consistenti in un diverso apprezzamento dei medesimi presupposti già considerati, in ragione delle quali sia evidente l’inopportunità o comunque l’inutilità della prosecuzione della gara stessa: è sufficiente al riguardo che non risulti illogica né illegittima per manifesta abnormità o travisamento dei presupposti di fatto la decisione di perseguire una strada diversa.
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Nel caso di pur legittima revoca di una procedura di gara, può residuare una responsabilità per violazione degli obblighi di buona fede prima della stipulazione del contratto, quando il comportamento tenuto dall’amministrazione risulti contrastante con le regole di lealtà e diligenza di cui all’art. 1337 del c.c. (ove abbia generato un danno).
Con il provvedimento di rimozione degli atti di gara l’amministrazione si orienta al miglior perseguimento dell’interesse pubblico, e tuttavia sussiste una responsabilità per culpa in contrahendo per la lesione dell’affidamento in capo all’impresa suscitato dagli atti della procedura di evidenza pubblica e perdurato fino alla comunicazione dell’avvenuto ripensamento. In sostanza, l’orientamento descritto ha operato una scissione fra la legittima determinazione di revocare l'aggiudicazione della gara e il complessivo tenore del comportamento tenuto dalla medesima amministrazione nella sua veste di controparte negoziale, non informato alle generali regole di correttezza e buona fede che devono essere osservate dall'amministrazione anche nella fase precontrattuale.
In concreto, il Collegio ravvisa un danno ingiusto determinato dalla violazione delle regole di correttezza amministrativa (evidenziate nella sentenza passata in giudicato), che ha provocato l’annullamento parziale della procedura di gara, con lesione dell’interesse giuridicamente rilevante del titolare dell’aspirante all’affidamento dell’appalto. Le censure accolte nella sentenza 1692/2002 –che hanno evidenziato un comportamento della Commissione di gara contrario ad elementari regole di svolgimento delle operazioni di valutazione delle offerte– integrano la “culpa in contraendo” dell’amministrazione, essendo mancato un corretto svolgimento delle operazioni valutative che avrebbero condotto all’individuazione del contraente, in contrasto con gli ordinari canoni di correttezza. L'obbligo appena evocato di buona fede nella conduzione degli affari negoziali va inteso infatti in senso "oggettivo", nel senso che non si richiede un particolare comportamento soggettivo di malafede, ma è sufficiente anche la condotta non intenzionale o meramente colposa della parte che, senza giustificato motivo, ha eluso le aspettative della controparte.
Quanto al danno che ne consegue, esso in astratto è risarcibile relativamente alle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto, nonché alla perdita, a causa della trattativa inutilmente intercorsa, di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso, con onere della prova dell’ammontare del danno in capo al danneggiato in base ai principi generali.

E’ evidente, peraltro, che il giudicato formatosi sulla gara incisa dalla sentenza di questo TAR ha contemplato semplicemente l’annullamento dell’aggiudicazione alla controinteressata, mentre la stazione appaltante ha esercitato la facoltà di esplorare soluzioni alternative che risultassero maggiormente convenienti.
In quest’ottica può essere richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di jus poenitendi dell’amministrazione che –dopo l’avvio della procedura di scelta del contraente– mantiene il potere di revoca per documentate e motivate esigenze di interesse pubblico, anche consistenti in un diverso apprezzamento dei medesimi presupposti già considerati, in ragione delle quali sia evidente l’inopportunità o comunque l’inutilità della prosecuzione della gara stessa: è sufficiente al riguardo che non risulti illogica né illegittima per manifesta abnormità o travisamento dei presupposti di fatto la decisione di perseguire una strada diversa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 05/09/2011 n. 5002; TAR Puglia Lecce, sez. III – 25/01/2012 n. 139; sentenza Sezione 05/03/2013 n. 214, che risulta appellata).
Ebbene, le ragioni di opportunità (ossia le sopravvenienze giurisprudenziali e normative evocate nella motivazione del provvedimento di revoca) hanno indotto il Comune a non proseguire nella riedizione del confronto comparativo (consistente nel riprendere la gara dal segmento non intaccato dalla pronuncia di questo Tribunale), senza che sia stata censurata in sede giurisdizionale la coerenza e la ragionevolezza di tale condotta.
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A questo punto, si può ulteriormente dedurre che –nel caso di pur legittima revoca di una procedura di gara– può residuare una responsabilità per violazione degli obblighi di buona fede prima della stipulazione del contratto, quando il comportamento tenuto dall’amministrazione risulti contrastante con le regole di lealtà e diligenza di cui all’art. 1337 del c.c. (ove abbia generato un danno).
Con il provvedimento di rimozione degli atti di gara l’amministrazione si orienta al miglior perseguimento dell’interesse pubblico, e tuttavia sussiste una responsabilità per culpa in contrahendo per la lesione dell’affidamento in capo all’impresa suscitato dagli atti della procedura di evidenza pubblica e perdurato fino alla comunicazione dell’avvenuto ripensamento (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. – 05/09/2005 n. 6). In sostanza, l’orientamento descritto ha operato una scissione fra la legittima determinazione di revocare l'aggiudicazione della gara e il complessivo tenore del comportamento tenuto dalla medesima amministrazione nella sua veste di controparte negoziale, non informato alle generali regole di correttezza e buona fede che devono essere osservate dall'amministrazione anche nella fase precontrattuale (in tal senso: Cons. Stato, Ad. Plen., n. 6 cit.; Cons. Stato Sez. V, 30.11.2007, n. 6137; id., Sez. V, 14.03.2007, n. 1248).
In concreto, il Collegio ravvisa un danno ingiusto determinato dalla violazione delle regole di correttezza amministrativa (evidenziate nella sentenza passata in giudicato), che ha provocato l’annullamento parziale della procedura di gara, con lesione dell’interesse giuridicamente rilevante del titolare dell’aspirante all’affidamento dell’appalto. Le censure accolte nella sentenza 1692/2002 –che hanno evidenziato un comportamento della Commissione di gara contrario ad elementari regole di svolgimento delle operazioni di valutazione delle offerte– integrano la “culpa in contraendo” dell’amministrazione, essendo mancato un corretto svolgimento delle operazioni valutative che avrebbero condotto all’individuazione del contraente, in contrasto con gli ordinari canoni di correttezza. L'obbligo appena evocato di buona fede nella conduzione degli affari negoziali va inteso infatti in senso "oggettivo", nel senso che non si richiede un particolare comportamento soggettivo di malafede, ma è sufficiente anche la condotta non intenzionale o meramente colposa della parte che, senza giustificato motivo, ha eluso le aspettative della controparte (Consiglio di Stato, sez. III – 18/01/2013 n. 279).
Quanto al danno che ne consegue, esso in astratto è risarcibile relativamente alle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto, nonché alla perdita, a causa della trattativa inutilmente intercorsa, di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso, con onere della prova dell’ammontare del danno in capo al danneggiato in base ai principi generali (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 14/01/2013 n. 156; TAR Campania Napoli, sez. II – 04/02/2013 n. 704)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.08.2013 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONell’ambito del pubblico impiego l’erogazione del compenso per lavoro straordinario presuppone, in via generale, una concreta verifica della sussistenza di ragioni di pubblico interesse, così da giustificare tale forma di prestazione eccedente il normale orario di servizio, nel rispetto anche dei limiti di spesa, fissati dal bilancio di previsione.
L’assunto non è condivisibile, atteso che nell’ambito del pubblico impiego l’erogazione del compenso per lavoro straordinario presuppone, in via generale, una concreta verifica della sussistenza di ragioni di pubblico interesse, così da giustificare tale forma di prestazione eccedente il normale orario di servizio, nel rispetto anche dei limiti di spesa, fissati dal bilancio di previsione (Consiglio di Stato, sez. VI, 01.09.2009, n. 5112) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.08.2013 n. 4268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANessuna norma preclude all’imprenditore del settore sanitario di perseguire il profitto, né può influire al riguardo la presenza di incisivi controlli pubblici sull’attività esercitata.
E’ corretto, pertanto, affermare che l’attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente dovuto, presenta i caratteri oggettivi dell’industrialità e, quindi, deve essere assoggettata al relativo trattamento più favorevole.
Invero, alla concessione edilizia relativa ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista dall’articolo 10 della legge 28.01.1977 n. 10, per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
Tanto dal momento che “l’attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un’attività industriale, giusta la definizione di attività industriale che si ricava dall’art. 2195 cod. civ.”.

L’appellante lamenta, quindi, violazione dell’art. 37 della legge n. 45/1985, in relazione agli artt. 3 e 10 della legge n. 10/1977, laddove la norma prevede che “il versamento dell’oblazione non esime i soggetti di cui all’art. 31, primo e terzo comma, dalla corresponsione al Comune, ai fini del rilascio della concessione, del contributo previsto dall’art. 3 della legge n. 10/1977…”.
L’appellante assume che, ai sensi della richiamata normativa, l’autore di un abuso edilizio sarebbe obbligato a versare il contributo di costruzione nella sua totalità e insiste nel sostenere che chiunque gestisca attività imprenditoriali in materia sanitaria o, comunque, in un settore in cui entri in campo, in modo diretto o indiretto, la salute del cittadino, solo per questo egli non debba essere ascritto alla categoria degli imprenditori, e assumerne i relativi diritti, oneri e doveri.
La tesi risulta non condivisibile e, come già evidenziato, alquanto originale nella ritenuta applicabilità per le case di cura private.
L’art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 presenta, invero, un dettato chiaro e la sua applicabilità alle case di cura private non richiede esegesi particolari né interpretazioni analogiche, essendo sufficiente soffermarsi sul dettato letterale, nella considerazione che nessuna norma preclude all’imprenditore del settore sanitario di perseguire il profitto, né può influire al riguardo la presenza di incisivi controlli pubblici sull’attività esercitata.
E’ corretto, pertanto, affermare che l’attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente dovuto, presenta i caratteri oggettivi dell’industrialità e, quindi, deve essere assoggettata al relativo trattamento più favorevole.
Al riguardo, è utile anche richiamare l’orientamento di questa Sezione, secondo cui alla concessione edilizia relativa ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista dall’articolo 10 della legge 28.01.1977 n. 10, per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
Tanto dal momento che “l’attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un’attività industriale, giusta la definizione di attività industriale che si ricava dall’art. 2195 cod. civ.” (Consiglio di Stato, Sez. V, 16.01.1992, n. 46 e 12.06.2007, n. 6328) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.08.2013 n. 4267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a creare nuovo volume e perciò richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
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Per l'identificazione della nozione di volume tecnico, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, occorre fare riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo negativi ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa) e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa.
In virtù di tale ricostruzione, quindi, i volumi tecnici degli edifici per essere esclusi dal calcolo della volumetria non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità.

Considerato in particolare che:
- in limine, è destituita di giuridico fondamento la censura che si appunta sulla mancata valutazione delle osservazioni rese dal ricorrente in seguito alla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 07.08.1990 n. 241: in senso contrario, rileva il Collegio che il diniego di sanatoria dà conto dell’esame delle deduzioni di parte e del parere contrario espresso dalla commissione edilizia e tanto è sufficiente per ribadire la legittimità dell’azione amministrativa, giacché l'obbligo di esame delle memorie di parte non impone all’amministrazione un’analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione dell'amministrazione alle deduzioni difensive del privato (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.01.2008 n. 17);
- l’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 si fonda legittimamente sulla natura e caratteristiche dell’opera abusiva (veranda) che, contrariamente alle deduzioni del ricorrente, non può essere qualificato come volume tecnico (serra solare);
- con tutta evidenza, assecondando l’ardita tesi dell’istante, qualsivoglia accorpamento di balcone, attuato mediante chiusura con profili di alluminio e vetrate trasparenti, consentirebbe di ottenere surrettiziamente benefici volumetrici;
- viceversa, secondo condivisibile giurisprudenza, la realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a creare nuovo volume e perciò richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania Napoli, Sez. III, 18.01.2011 n. 281);
- per l'identificazione della nozione di volume tecnico, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, occorre fare riferimento a tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo ed il terzo negativi ricollegati, rispettivamente, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa) e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale stessa;
- in virtù di tale ricostruzione, quindi, i volumi tecnici degli edifici per essere esclusi dal calcolo della volumetria non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità;
- non appare sostenibile l'affermata funzione di “serra solare” della veranda che, da un lato, si limita ad una mera petizione di principio sfornita di ogni dato in ordine alla prestazione energetica e, dall’altro, non appare coerente con le caratteristiche del vano chiuso con la veranda che risulta autonomamente utilizzabile a fini abitativi (cfr. annotazione di servizio della Stazione Carabinieri di Mignano Monte Lungo del 15.11.2012 che accertava la presenza di caldaia a gas e di una cucina dismessa, contatore del gas e lavabo) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.08.2013 n. 4132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni acustiche non investe alcun provvedimento amministrativo, essendo, d'altra parte, la p.a. priva di qualsiasi potere di affievolimento del diritto alla salute, garantito dall'art. 32 Cost., come da ultimo affermato da Cass. Sez. Un., 27.02.2013 n. 4848, su una domanda volta ad ottenere l'accertamento dell'illiceità delle immissioni causate da un parco giochi sulla confinante proprietà, nonché la rimozione delle relative opere poste in essere dall'amministrazione comunale.
L'ordinanza contingibile ed urgente adottabile ai sensi dell'art. 9 della citata L. n. 447/1985, ed invocata dal ricorrente, dando luogo ad una speciale forma di contenimento e riduzione delle emissioni sonore, è preordinata a tutelare la salute della collettività, e deve essere motivata da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica, non potendo in ogni caso sostenersi che il presupposto della stessa ricorra laddove, come nel caso di specie, un privato lamenti emissioni fastidiose e rumori, essendo tali situazioni devolute alla giurisdizione del g.o..

... per la dichiarazione di illegittimità del silenzio serbato da parte dell’Amministrazione del Comune di Melzo sulle istanze del ricorrente, volte ad ottenere un provvedimento finalizzato all’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti provenienti dal campo polifunzionale sito in Melzo, Via Aldo Moro;
...
Il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione.
Come già evidenziato nella citata ordinanza collegiale n. 1631/2013, il ricorrente intende ottenere un provvedimento finalizzato all’abbattimento delle emissioni sonore provenienti dal campo polifunzionale adiacente alla propria abitazione.
In particolare, il ricorrente individua il provvedimento amministrativo oggetto delle proprie richieste con riferimento alle finalità che il medesimo dovrebbe soddisfare, e pertanto rispetto alla necessità di “rimuovere ogni ostacolo alla quiete ed alla riservatezza della vita”.
Ritiene pertanto il Collegio che l'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, ossia il petitum sostanziale della presente controversia, non consista tanto nell’accertamento dell’illegittimità del silenzio dall’Amministrazione, a fronte dell’obbligo di emanare un determinato provvedimento amministrativo imposto dalla legge, ma più direttamente nella pretesa alla tutela del diritto alla salute del ricorrente, minacciato dalle immissioni acustiche provenienti dall’adiacente struttura comunale.
Tuttavia, in base alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni acustiche non investe alcun provvedimento amministrativo, essendo, d'altra parte, la p.a. priva di qualsiasi potere di affievolimento del diritto alla salute, garantito dall'art. 32 Cost., come da ultimo affermato da Cass. Sez. Un., 27.02.2013 n. 4848, su una domanda volta ad ottenere l'accertamento dell'illiceità delle immissioni causate da un parco giochi sulla confinante proprietà, nonché la rimozione delle relative opere poste in essere dall'amministrazione comunale.
L'ordinanza contingibile ed urgente adottabile ai sensi dell'art. 9 della citata L. n. 447/1985, ed invocata dal ricorrente, dando luogo ad una speciale forma di contenimento e riduzione delle emissioni sonore, è preordinata a tutelare la salute della collettività, e deve essere motivata da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica, non potendo in ogni caso sostenersi che il presupposto della stessa ricorra laddove, come nel caso di specie, un privato lamenti emissioni fastidiose e rumori, essendo tali situazioni devolute alla giurisdizione del g.o. (TAR Piemonte, Sez. II, 15.04.2010 n. 1931).
Né, infine, assume rilievo il richiamo operato dal ricorrente alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6181/2013, in quanto riferita all’obbligo di provvedere a fronte di una segnalazione di abuso edilizio, essendo estraneo a tale fattispecie la tutela del diritto alla salute, posta invece a fondamento del presente giudizio.
Deve pertanto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice adito in favore del giudice ordinario, nonché -in virtù del principio della cd. translatio iudicii, codificato dall’articolo 11 c.p.a.- indicare alla parte ricorrente il termine di tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato della presente sentenza per riassumere il giudizio innanzi al giudice ordinario al fine di salvaguardare gli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta in questa sede (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.08.2013 n. 2075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: La competenza in materia di approvazione degli strumenti di attuazione del piano regolatore, tra i quali rientrano anche i piani di recupero, appartiene certamente al Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 32, comma 3, lett. b, l. 08.06.1990 n. 142, che assegna al consiglio comunale la competenza in materia di piani territoriali e urbanistici, nonché di piani finanziari e di programmi di opere pubbliche.
Il procedimento avviato con la presentazione di un piano di recupero di iniziativa privata deve pertanto chiudersi con un provvedimento espresso, di approvazione o di diniego, da parte del consiglio comunale, laddove il parere della commissione edilizia non può sostituire il necessariamente espresso e formale provvedimento terminale del procedimento, che solo il consiglio comunale è deputato ad emettere.
Tuttavia, qualora il procedimento, dopo l’espressione di un parere negativo da parte della Commissione Edilizia, non prosegua oltre, tale atto infraprocedimentale ha sostanziale natura di diniego di approvazione, di tal che i ricorrenti hanno tutto l’interesse a rimuoverlo. La giurisprudenza ha infatti ritenuto che, in tali casi, l’atto assume efficacia di interruzione procedimentale, e sotto questo aspetto è sicuramente lesivo, oltre che illegittimo, quanto meno per contrasto con l’art. 2, c. 1, L. 07.08.1990 n. 241, che impone all’Amministrazione di concludere il procedimento, ove lo stesso consegua obbligatoriamente ad un’istanza del privato, mediante l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero esso ha valore proprio del provvedimento di diniego di approvazione del proposto Piano di Recupero, ovviamente impugnabile e parimenti illegittimo perché emesso da un organo palesemente incompetente.
Invero, i provvedimenti emanati da commissioni tecniche, che preannunciano il tenore della decisione amministrativa, e che sono destinati ad essere sostituiti da un provvedimento definitivo emesso dall’organo ordinariamente competente ad impegnare definitivamente la volontà dell’amministrazione, possono essere impugnati immediatamente, quale mera facoltà, a cui comunque deve seguire nel corso del giudizio l’impugnazione del provvedimento definitivo, e che in mancanza di tale atto, l’impugnazione avverso il provvedimento provvisorio non soddisfa di per sé i requisiti di lesività presupposti dall’azione demolitoria, con conseguente inammissibilità della stessa (nella fattispecie oggetto del giudizio si è dichiarata l’inammissibilità dell’impugnativa di un parere tecnico di un dirigente comunale, in ordine ad una proposta di lottizzazione).

Osserva il Collegio che la competenza in materia di approvazione degli strumenti di attuazione del piano regolatore, tra i quali rientrano anche i piani di recupero, appartiene certamente al Consiglio comunale (TAR Umbria, sez. I, 21.06.2011, n. 176), ai sensi dell’art. 32, comma 3, lett. b, l. 08.06.1990 n. 142, che assegna al consiglio comunale la competenza in materia di piani territoriali e urbanistici, nonché di piani finanziari e di programmi di opere pubbliche.
Il procedimento avviato con la presentazione di un piano di recupero di iniziativa privata deve pertanto chiudersi con un provvedimento espresso, di approvazione o di diniego, da parte del consiglio comunale, laddove il parere della commissione edilizia non può sostituire il necessariamente espresso e formale provvedimento terminale del procedimento, che solo il consiglio comunale è deputato ad emettere.
Tuttavia, come avvenuto nel caso di specie, qualora il procedimento, dopo l’espressione di un parere negativo da parte della Commissione Edilizia, non prosegua oltre, tale atto infraprocedimentale ha sostanziale natura di diniego di approvazione, di tal che i ricorrenti hanno tutto l’interesse a rimuoverlo. La giurisprudenza ha infatti ritenuto che, in tali casi, l’atto assume efficacia di interruzione procedimentale, e sotto questo aspetto è sicuramente lesivo, oltre che illegittimo, quanto meno per contrasto con l’art. 2, c. 1, L. 07.08.1990 n. 241, che impone all’Amministrazione di concludere il procedimento, ove lo stesso consegua obbligatoriamente ad un’istanza del privato, mediante l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero esso ha valore proprio del provvedimento di diniego di approvazione del proposto Piano di Recupero, ovviamente impugnabile e parimenti illegittimo perché emesso da un organo palesemente incompetente (TAR Veneto, Sez. I, 15.04.1998 n. 443).
Osserva peraltro il Collegio che C.S., Sez. IV, 09.05.2013, n. 2511 ha recentemente affermato che i provvedimenti emanati da commissioni tecniche, che preannunciano il tenore della decisione amministrativa, e che sono destinati ad essere sostituiti da un provvedimento definitivo emesso dall’organo ordinariamente competente ad impegnare definitivamente la volontà dell’amministrazione, possono essere impugnati immediatamente, quale mera facoltà, a cui comunque deve seguire nel corso del giudizio l’impugnazione del provvedimento definitivo, e che in mancanza di tale atto, l’impugnazione avverso il provvedimento provvisorio non soddisfa di per sé i requisiti di lesività presupposti dall’azione demolitoria, con conseguente inammissibilità della stessa (nella fattispecie oggetto del giudizio si è dichiarata l’inammissibilità dell’impugnativa di un parere tecnico di un dirigente comunale, in ordine ad una proposta di lottizzazione).
Con tale pronuncia il Consiglio di Stato si è espressamente discostato dalla giurisprudenza risalente, ritenendo la stessa “giustificata dalla storica, ma ormai superata, concentrazione delle prospettive di tutela unicamente nell’azione di annullamento, restando al tempo quella sul silenzio, utile ad accertare, sullo sfondo di un’amministrazione totalmente inerte, ed in una logica puramente attizia, l’esistenza di un obbligo di provvedere e l’attualità di tale obbligo, talché l’esistenza di un atto anche se soprassessorio conduceva ad una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’azione. Il varo del codice del processo amministrativo, ma, ancor prima, la configurazione di poteri speciali del giudice per l’ipotesi di azione avverso l’inerzia, estesi in via eccezionale alla cognizione dell’eventuale fondatezza dell’istanza (già previsti dall’art. 6-bis della legge n. 80/2005), ha fatto venir meno la necessità di accomunare le due fattispecie, rendendo possibile anche in presenza di un atto soprassessorio l’azione sul silenzio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.08.2013 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale, e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e specificamente a ciascuna osservazione ed opposizione.
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Non è consentito sindacare in sede giurisdizionale le scelte urbanistiche operate dall’Amministrazione, in quanto espressione di un apprezzamento di merito, sottratto al sindacato di legittimità, a meno che non risultino evidenti illogicità od abnormità.

In linea generale, l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale, e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e specificamente a ciascuna osservazione ed opposizione (C.S., Sez. IV, 06.05.2013 n. 2427).
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In via preliminare, occorre darsi atto che non è consentito sindacare in sede giurisdizionale le scelte urbanistiche operate dall’Amministrazione, in quanto espressione di un apprezzamento di merito, sottratto al sindacato di legittimità, a meno che non risultino evidenti illogicità od abnormità (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.09.2012 n. 3746), che il Collegio non ritiene tuttavia configurabili nel caso di specie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.08.2013 n. 2073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso in materia ambientale e tutela della riservatezza.
L'ampio e generalizzato diritto di accesso ai documenti amministrativi in materia ambientale deve essere bilanciato e conseguentemente cedere dinanzi alla tutela di un legittimo interesse economico, nonché dei diritti di proprietà industriale.

Con questo principio la sentenza 20.08.2013 n. 4181 del Consiglio di Stato, Sez. V, ha confermato la pronuncia emessa in primo grado dai Giudici amministrativi del Tar Lazio, su un ricorso avente ad oggetto il diniego di accesso opposto da un ente regionale ad una società operante nel settore ambientale.
La decisione dei Giudici di Palazzo Spada si incentra sull'interpretazione del D.Lgs. 19.08.2005, n. 195, che, "garantisce il più ampio diritto di accesso nella massima trasparenza possibile per l'intera materia dell'informazione ambientale, definendo questa qualsiasi informazione detenuta dalle pubbliche autorità e disponibile in qualunque forma materiale esistente, concernente lo stato degli elementi costitutivi dell'ambiente inteso in senso generale, i fattori esterni quali energia, rumore, radiazioni, rifiuti o qualsiasi altro rilascio che possano incidere sull'ambiente stesso, le misure politiche ed amministrative che incidono o che possono incidere sugli elementi sopraddetti, le relazioni sull'attuazione della legislazione ambientale, le analisi costi-benefici usate nell'ambito delle misure adottate, lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare – art. 2 D.Lgs. 195/2005.".
La sentenza ha altresì osservato che, "Il successivo art. 5, nell'elencare i casi di esclusione dal diritto di accesso, indica al comma 2, n. 5), la divulgazione di informazioni che arrechino pregiudizio alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali, secondo quanto stabilito dalle disposizioni vigenti in materia, della tutela di un legittimo interesse economico (…), nonché ai diritti di proprietà industriale, di cui al D.Lgs. 10.02.2005 n. 30.".
Il diritto di accesso in materia ambientale incontra, pertanto, un limite insuperabile nel know how aziendale. Tali informazioni sono, infatti, riservate e devono essere ricomprese nella generale tutela della libera iniziativa economica e della riservatezza cui deve godere ogni impresa (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, l'istanza di rateizzazione del debito fiscale in '"stand-by"' vale per partecipare alla gara?
Il Consiglio di Stato si è occupato della finalità del requisito della regolarità fiscale nelle gare di appalto e della sussistenza, o meno, del requisito stesso nel caso in cui, all'atto dell'offerta, l'impresa abbia presentato ai competenti uffici fiscali istanza di rateizzazione del debito tributario, ma essa non sia stata ancora accolta.
Il consolidato e condivisibile principio giurisprudenziale che richiede la permanenza del possesso del requisito della regolarità fiscale nelle gare di appalto nel corso di tutta la procedura di gara, dimostra l’infondatezza degli argomenti difensivi della SRL ricorrente;
non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del D.Lgs. 163/2006, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione dei debiti fiscali.
La vicenda
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è stata chiamata a pronunciarsi su un caso che riguardava una SRL che aveva partecipato alla procedura ristretta bandita da una stazione appaltante per l’affidamento quinquennale dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani e assimilati, di raccolta differenziata e nettezza urbana, procedura da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La SRL nella propria domanda di partecipazione, dichiarava di avvalersi dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale di un'altra società; quest’ultima società rendeva, quale impresa ausiliaria, la dichiarazione circa la sussistenza dei requisiti generali di cui all’art. 38 del D.Lgs. 163/2006 (cd. Codice degli Appalti Pubblici) dichiarando, tra l’altro, di non aver commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse.
All’esito della procedura di gara, la stazione appaltante adottava il provvedimento che disponeva l’aggiudicazione provvisoria in favore della SRL.
Dopo un paio di settimane, tuttavia, la stazione appaltante comunicava all’aggiudicataria l’avvio del procedimento di revoca dell’aggiudicazione provvisoria a seguito della verifica dei requisiti dichiarati dall’impresa ausiliaria.
Segnatamente, da informazioni assunte presso l’Agenzia delle Entrate, era risultata l’esistenza a carico della predetta società di debiti tributari definitivamente accertati e non ancora pagati.
Secondo la comunicazione dell’Agenzia delle Entrate del giugno 2011, risultavano a quella data insolute alcune cartelle esattoriali.
La difesa della SRL
La SRL, nell’ambito del procedimento di revoca da parte della stazione appaltante dell’aggiudicazione, affermava che le prime due cartelle esattoriali erano già state oggetto di un accordo di rateazione con l’Amministrazione finanziaria, intervenuto prima della pubblicazione del bando di gara e prima della dichiarazione ex art. 38 del Codice degli Appalti Pubblici resa dall’impresa ausiliaria, la quale, allo stato, era in regola con il pagamento dei ratei.
Un'altra cartella era stata notificata all’impresa ausiliaria in corso di gara, dopo che l’impresa aveva presentato la dichiarazione ex art. 38 (la quale, pertanto, non poteva essere ritenuta non veritiera); la stessa cartella, inoltre, aveva formato oggetto di una richiesta di rateazione formulata dall’interessata nel marzo 2011 e accolta da Equitalia in data 04.07.2011, con accordo di rateazione perfezionatosi prima dell’aggiudicazione definitiva.
La stazione appaltante, tuttavia, disponeva la revoca dell’aggiudicazione provvisoria in favore della SRL e aggiudicava definitivamente la gara ad una società concorrente.
Il TAR ha respinto il ricorso e la SRL si è appellata al Consiglio di Stato; ai fini della soluzione della questione di diritto relativa alla portata dell’art. 38, comma 1, lett. g), del Codice degli Appalti Pubblici il Consiglio di Stato ha deferito, con apposita ordinanza, la soluzione della controversia al vaglio dell’ Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo.
La pronuncia dell’Adunanza Plenaria
La questione rimessa all’Adunanza Plenaria riguarda l’individuazione dell’esatta portata del concetto di definitività dell’accertamento della violazione tributaria, ex art. 38, comma 1, lett. g, del Codice degli Appalti Pubblici, laddove vengano in rilievo meccanismi di rateizzazione o dilazione del debito tributario ai sensi dell’art. 19 del DPR 602/1973 e di norme analoghe.
L’articolo 38, comma 1, lettera g, del Codice degli Appalti Pubblici stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti (…..) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.
Il D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106, ha dettato un parametro quantitativo cui ancorare l’elemento della gravità della violazione (“si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602”).
Su altro fronte, il D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito in legge 26.04.2012, n. 44, è intervenuto fornendo una definizione normativa di “definitività” dell’accertamento (art. 1, comma 5, modificativo del comma 2 dell’art. 38 cit.: “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”), e, al contempo, regolando le situazioni poste in essere precedentemente all’entrata in vigore dello stesso decreto (art. 1, comma 6 : “Sono fatti salvi i comportamenti già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto dalle stazioni appaltanti in coerenza con la previsione contenuta nel comma 5”).
La giurisprudenza comunitaria e quella nazionale, al pari dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (cfr. determinazione 16.05.2012, n. 1; determinazione 12.01.2010, n. 1; parere 12.02.2009, n. 23; deliberazione 18.04.2007, n. 120), hanno anche di recente ribadito, sulla scorta di argomentazioni suscettibili di condivisione, l’adesione alla tesi più rigorosa secondo cui il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente solo qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Per i giudici di Palazzo Spada si è a tale misura subordinata l’ammissione alla procedura alla condizione che “l'istanza di rateizzazione sia stata accolta prima della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara e preceda l'autodichiarazione circa il possesso della regolarità, essendo inammissibile una dichiarazione che attesti il possesso di un requisito in data futura”.
La correttezza della tesi sposata dalla giurisprudenza pressoché univoca di questo Consiglio trova riscontro nella conformazione nella disciplina dell’istituto della rateizzazione fiscale ex art. 19, del DPR n. 602/1973.
L’ammissione alla rateizzazione, rimodulando la scadenza dei debiti tributari e differendone l’esigibilità, implica quindi la sostituzione dell’originaria obbligazione a seguito dell’insorgenza di un nuovo rapporto obbligatorio secondo i canoni della novazione oggettiva di cui agli artt. 1230 e seguenti del codice civile.
Il risultato è la nascita di una nuova obbligazione tributaria, caratterizzata da un preciso piano di ammortamento e soggetta a una specifica disciplina per il caso di mancato pagamento delle rate.
La configurazione del meccanismo novativo fa sì che, nell’arco di tempo che precede l’accoglimento della domanda, resta in vita il debito originario, la cui esistenza è ammessa dallo stesso contribuente con la presentazione della domanda di dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo.
Il debito che grava sul contribuente prima dell’accoglimento dell’istanza, in caso di istanza di rateizzazione non ancora accolta all’atto della scadenza dei termini di presentazione delle domande di partecipazione, è quindi unicamente quello originario, in quanto tale certo (tanto nella sua esistenza quanto nel suo ammontare), scaduto ed esigibile nei sensi richiesti dal comma 2, dell’art. 38 del Codice degli Appalti Pubblici.
Va, inoltre, affermato che l’inidoneità della semplice presentazione dell’istanza di dilazione a soddisfare il requisito della regolarità contributiva è rinforzata dalla considerazione che l’ammissione alla rateazione non costituisce, di norma, atto dovuto, in quanto l’art. 19 del DPR n. 602/1973 conferisce all’Amministrazione il potere discrezionale di valutare quell’"obiettiva difficoltà economica" che si è in precedenza visto essere presupposto per la concessione del beneficio.
Ne deriva che l’ammissione alla procedura del concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento favorevole, oltre a stabilire una deroga atipica al principio secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno verificati al momento della scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande, innesterebbe nello svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore di incertezza legato all’accertamento di un requisito, collegato alla variabile della valutazione discrezionale dell’amministrazione tributaria.
Le conclusioni dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ritiene che debba trovare conferma l’indirizzo ermeneutico secondo cui non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del Codice degli Appalti Pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione.
Per i giudici amministrativi del Consiglio di Stato, pertanto, l’appello deve essere, in definitiva, respinto (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.08.2013 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARICorte dei conti. L'uso di fondi pubblici. Danno erariale, responsabilità estesa ai privati.
La giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale può coinvolgere anche i privati che mal utilizzino le risorse pubbliche.

Con questo principio la Corte di Cassazione (sentenza 19.07.2013 n. 17660 a Sezioni Unite) condanna un amministratore di società che aveva ricevuto un contributo a fondo perduto a fronte del quale non ha realizzato l'opera promessa. Così la Cassazione formalizza i presupposti necessari per il riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale.
Nel merito, la Cassazione conferma che rientra nella giurisdizione dei magistrati contabili ogni soggetto che gestisce denaro pubblico, anche privato, in ragione del danno e degli scopi perseguiti con l'assegnazione di risorse finanziarie (Cassazione sezioni unite n. 1774/2013).
Nella sentenza si ribadisce anche (così come Cassazione sezioni unite n. 295/2013) che la responsabilità non è solo della persona giuridica coinvolta ma anche degli amministratori della stessa perché la responsabilità erariale (e quindi la giurisdizione contabile) si fonda sulla natura delle risorse (pubbliche) e ne risponde chi le gestisce. Questa sentenza conferma quindi un consolidato orientamento della Cassazione, qui ribadito a Sezioni unite.
Le società controllate
In materia di responsabilità contabile è utile menzionare, per il mondo degli enti locali e delle società partecipate, anche il tema delle competenze e delle rispettive responsabilità degli amministratori dei Comuni e dei consiglieri di amministrazione delle aziende controllate. Infatti, le decisioni della Cassazione in materia di giurisdizione della Corte dei conti sono di grande rilievo pratico per gli amministratori di Comuni e Province così come, ai sensi delle sentenze ora ricordate, per i soggetti che operano con le pubbliche amministrazioni, siano essi pubblici o privati.
Si ricorda, in proposito, la altrettanto consolidata giurisprudenza che, a partire dalla sentenza di Cassazione a sezioni unite del 19.12.2009, n. 26906 (e confermata da molte sentenze successive, tra cui da ultimo Cassazione sezioni unite n. 10299/2013) attribuisce al giudice ordinario la giurisdizione sull'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto della condotta degli amministratori o dei dipendenti, quando questa danneggi il patrimonio della società e non direttamente il bilancio pubblico. In sostanza per la Corte ha rilievo la personalità giuridica, di natura privata, delle società di capitali, che non trova nella normativa, secondo la Cassazione, sufficienti elementi che possano portare all'individuazione di una forma speciale di società "pubblica", distinta da quella regolamentata dal Codice civile. Non basta la proprietà della società, e le norme dedicate alle aziende pubbliche, a qualificarne la "peculiarità" giuridica.
Pertanto, in linea di principio, la giurisdizione della Corte dei conti non si esercita sugli organi societari che abbiano appunto recato un danno al patrimonio della società ma non a quello dell'ente controllante. In tal caso devono semmai ritenersi responsabili di danno erariale gli amministratori dell'ente pubblico che abbiano omesso di esercitare correttamente i diritti e doveri di socio, determinando così una perdita di valore della partecipazione. In sostanza, sono gli amministratori del Comune che rischiano di dover rispondere alla Corte dei conti di danno erariale e non i consiglieri di amministrazione della società, verso i quali l'ente pubblico ha il dovere di attivarsi secondo le azioni proprie previste dal Codice, prima tra tutte l'azione sociale di responsabilità ex articolo 2393 del Codice civile.
Va ricordato, per inciso, che la natura delle varie azioni è assai diversa: l'azione contabile è fondamentalmente sanzionatoria e richiede pertanto la verifica del dolo o della colpa grave; l'azione sociale di responsabilità ha scopo ripristinatorio ed è sufficiente la colpa lieve.
Gli amministratori di società, però, non per questo possono dormire sonni tranquilli, visto che, nel caso di gestione di denaro pubblico, possono appunto essere chiamati a risponderne ai sensi della sentenza n. 17660/2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2013).

TRIBUTI: Tarsu, le stanze d'albergo come quelle di casa.
Ai fini della Tarsu le stanze di albergo contano come quelle delle civili abitazioni. È irragionevole, infatti, ritenere che un nucleo familiare in vacanza produca maggiori rifiuti di quelli generati ordinariamente nelle proprie case.

È quanto ha affermato la Ctp Lecce con la sentenza 09.07.2013 n. 227/02/13.
Il caso vedeva una società immobiliare ricorrere contro un comune per una rettifica Tarsu in relazione a una struttura alberghiera di sua proprietà. Secondo la ricorrente il municipio aveva erroneamente applicato una tariffa più elevata rispetto a quanto avviene, a parità di superficie, per le abitazioni. L'articolo 68 del dlgs n. 507/1993 stabilisce che i comuni, per l'applicazione della tassa rifiuti, devono dotarsi di un apposito regolamento. Quest'ultimo deve contenere la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie dei locali: ognuna sconta la sua misura impositiva.
La disposizione, al comma 2, fornisce «in via di massima» un primo elenco esemplificativo delle classi. Ma l'ente locale chiamato in giudizio si era discostato dalle previsioni del dlgs, che accorpa in un unico gruppo sia i «locali ed aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze» sia gli «esercizi alberghieri». Ciò, secondo i giudici salentini, provoca un pregiudizio a danno del contribuente, ossia il titolare dell'hotel. A parità di occupanti e di metri quadrati utilizzati, non c'è ragione per ritenere che i villeggianti producano maggiori rifiuti (giustificando così un prelievo più elevato) di quanto non facciano a casa propria. «Tale discorso non vale per le altre superfici aperte al pubblico», prosegue la Ctp leccese, «alle quali hanno accesso numerose persone e quindi hanno una potenzialità di creare maggiori rifiuti».
Respinta, invece, la doglianza del ricorrente finalizzata a ottenere un'ulteriore riduzione legata alla natura stagionale dell'attività. Come prescritto dall'articolo 66 del dlgs n. 507/1993, per ottenere lo sconto di un terzo della tariffa la discontinuità temporale deve risultare esplicitamente dalla licenza o autorizzazione rilasciata dagli organi competenti. Nella fattispecie in esame, però, la licenza aveva validità annuale. L'accertamento viene quindi annullato solo in parte: spetterà ora al comune rideterminare la Tarsu dovuta (articolo ItaliaOggi del 31.08.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ente deve spiegare come calcola i premi.
Fuori le carte.
L'amministrazione non può rifiutarsi di esibire al lavoratore i documenti relativi alle questioni retributive, comprese quelle che riguardano i colleghi. E ciò anche se il rapporto rientra nel pubblico impiego privatizzato e il richiedente vuole in pratica sapere quanto hanno guadagnato i suoi vicini di scrivania nello stesso periodo in cui è stato escluso da un'indennità «premiale» alla quale egli ritiene di avere diritto. Risultato: l'ente datore entro un mese dovrà mostrare al dipendente i conteggi con i criteri di calcolo, sbianchettando tuttavia i nomi degli altri lavoratori che hanno percepito le relative somme.

È quanto emerge dalla sentenza 27.05.2013 n. 2894, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Criteri e conteggi
Accolto il ricorso del lavoratore che vanta un diritto di ostensione ai documenti relativi all'indennità di risultato versata dall'Asl ai suoi dirigenti. Vuole capire perché è stato pretermesso nel trattamento economico riconosciuto agli altri e quanti soldi ha perso. Sbaglia il Tar a confermare il diniego opposto al dipendente dall'azienda sanitaria, sostenendo che il lavoratore non può avere diritto a un controllo generalizzato sull'operato dell'amministrazione. Il dipendente della pubblica amministrazione è comunque portatore di un interesse qualificato alla conoscenza degli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa.
E la regola non può che valere anche quando, per la natura del contratto che lo lega al datore, le relative controversie vanno al giudice ordinario invece che a quello amministrativo. Inutile per l'Asl rifiutare l'accesso alle carte sul rilievo che fra l'amministrazione e il lavoratore possono essere poste in essere compensazioni reciproche sui crediti e debiti: in tal caso a maggior ragione l'istante ha interesse a conoscere criteri adottati e conteggi effettuati.
Vittoria totale, insomma, per il dirigente dell'azienda sanitaria locale: è un interesse «puntuale ed attuale» a caratterizzare l'istanza di tutela rispetto al pagamento della retribuzione di risultato che risale al 2011 e riguarda circa venti manager nel periodo incriminato. L'Asl ha 30 giorni per adempiere e intanto paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 31.08.2013).

EDILIZIA PRIVATARISTRUTTURAZIONI/ Dia salva dai rincari. L'urbanizzazione alla data dell'istanza.
Se il Comune aumenta gli oneri di urbanizzazione per gli interventi edilizi, non può farne le spese chi ha già presentato la Dia per ristrutturare l'immobile.

È quanto emerge dalla sentenza 13.05.2013 n. 2593, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di Stato, che rovescia la sentenza del Tar Lombardia.
Tempus regit actum
L'amministrazione deve restituire la somma cautelativamente versata dall'azienda «a seguito di illegittima richiesta», ma evita il risarcimento del danno grazie alla buona fede: l'ente locale ha aderito all'orientamento interpretativo prevalente al momento in cui il consiglio comunale ha deliberato il rincaro.
Il punto è che la Dia costituisce in pratica un'autocertificazione con cui il privato attesta che al momento della dichiarazione sussistono le condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell'intervento: sulla denuncia la pubblica amministrazione svolge poi un'eventuale attività di controllo; si può allora ben comprendere come l'attività di verifica dell'ente debba avere come esclusivo riferimento la normativa vigente al momento della presentazione dell'istanza e non la normativa sopravvenuta. Che dunque diventa irrilevante, compreso il caso del rincaro degli oneri.
Legittimo affidamento
Va detto poi che deve essere tutelato il legittimo affidamento del privato che deve poter programmare la sua attività economica con un minimo di certezza: passa dunque la tesi dell'azienda che fa i lavori all'immobile laddove sostiene che la determinazione dei contributi urbanistici da parte dell'amministrazione costituisce un'attività di tipo «paritetico e non autoritativo»; insomma: è evidente che in caso di rideterminazione o modifica unilaterale dell'onere dovuto la pubblica amministrazione non può limitarsi ad emettere un atto sostitutivo.
L'amministrazione può avere titolo a rideterminare l'importo soltanto se il precedente conteggio è stato frutto di un errore essenziale e riconoscibile ai sensi dell'articolo 1427 cc e seguenti. Pesa a favore dell'impresa il principio generale di tutela dell'affidamento dei privati, che è considerato un canone incluso nell'ordinamento giuridico comunitario. Spese compensate dei due gradi di giudizio a causa della giurisprudenza oscillante (articolo ItaliaOggi Sette del 26.08.2013).

TRIBUTI: Il marchio di fabbrica paga l'imposta sulla pubblicità.
Il marchio di fabbrica in cima alle gru fa scattare l'imposta di pubblicità. Non è, invece, soggetto al prelievo il pannello recante la scritta Postamat situato sugli sportelli automatici del circuito postale.

È quanto ha affermato la 3° sezione della Ctp Reggio Emilia con le sentenze 03.03.2013 nn. 122 e 141.
Le gru. Nel primo caso una società contestava l'imposta di pubblicità applicata dalla locale concessionaria incaricata dal comune. Per il ricorrente, attivo nella commercializzazione di gru, mancavano i presupposti soggettivi per l'applicazione del tributo. I segnali distintivi del produttore, infatti, vengono apposti sugli impianti senza conoscere le località nelle quali saranno poi installati, né potendo sapere in anticipo se sarà poi apposta altra pubblicità dei terzi utilizzatori.
La tesi però, non ha convinto i giudici reggiani. Secondo la Ctp «si rilevano segni grafici di notevoli dimensioni», che sì rappresentano il logo distintivo dell'impresa costruttrice delle stesse attrezzature, «ma anche, senza dubbio, un chiaro e autonomo messaggio pubblicitario verso il pubblico, idoneo a rendere nota alla massa indeterminata di eventuali possibili acquirenti il nome e il prodotto dell'azienda». Da qui il rigetto del ricorso.
Postamat. La seconda vicenda vedeva, invece, protagoniste le Poste italiane. La concessionaria per la riscossione dell'imposta pubblicitaria aveva notificato la pretesa di 132 euro in relazione al pannello recante la scritta Postamat installato su uno sportello presente nel territorio comunale. Per dirimere la questione i giudici hanno richiamato l'art. 17, comma 1, lett. b), del dlgs 507/1993, che esenta dal prelievo gli avvisi al pubblico con superfici inferiori a mezzo metro quadrato.
«Al di là del presupposto oggettivo», ha sottolineato il collegio, «gli strumenti in esame non possono essere certamente classificati come portatori di messaggi pubblicitari, ma devono più correttamente essere classificati come strumento di informazione per facilitare la fruizione di un determinato servizio». Ricorso accolto e accertamento annullato (articolo ItaliaOggi del 29.08.2013).

EDILIZIA PRIVATA: I condizionatori de quibus sono stati stabilmente ancorati ai prospetti dell’edificio, alterandone la sagoma: essi non integrano, dunque, un intervento di manutenzione ordinaria esente dal rilascio di titolo abilitativo.
Con il primo motivo la società ricorrente deduce che l’installazione di impianti tecnologici non comportanti l’esecuzione di opere murarie all’esterno degli edifici è ascrivibile –ex art. 6, comma 2, lettera i), L.R. n. 16/2008– agli interventi di manutenzione ordinaria, non soggetti a titolo edilizio “purché effettuati nel rispetto delle normative di settore” (art. 21 L.R. n. 16/2008).
Nel caso di specie, la disposizione dell’art. 10.1 delle N.T.A. dello studio organico di insieme, che vieta la messa in opera di impianti a vista sui prospetti degli edifici del centro storico, sarebbe derogata dalla speciale disciplina urbanistico-edilizia delle strutture ricettive, che ammetterebbe l’installazione dei condizionatori (doc. 2 delle produzioni 23.6.2011 di parte comunale, p. 4).
Il motivo è infondato.
Sulla base della disciplina regionale, si definiscono interventi di manutenzione ordinaria, non soggetti a titolo abilitativo –tra gli altri- le opere necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, “purché non comportino alterazioni all'aspetto esterno del fabbricato e delle sue pertinenze” (art. 6, comma 1, L.R. n. 16/2008).
Cosa debba intendersi per “aspetto esterno del fabbricato” è fatto palese dalla stessa elencazione contenuta nell’art. 6 della L.R. n. 16/2008, che, con riguardo all’esterno degli edifici, prescrive indefettibilmente, per tutti gli interventi di manutenzione, il mantenimento delle stesse caratteristiche e finanche degli stessi materiali preesistenti, cioè il rispetto della sagoma dell’edificio, come definita dall’art. 82 della medesima legge (“si intende per sagoma il contorno della parte emergente di un edificio sia in pianta che in elevazione, comprensivo di tutti gli elementi aggettanti. La sagoma di un edificio è quindi costituita dai vari profili complessivi con i quali il medesimo può essere descritto”).
Tant’è che, con specifico riferimento agli impianti tecnologici, la disposizione chiarisce che la loro installazione all’esterno degli edifici integra un intervento di manutenzione ordinaria soltanto quando avvenga senza l’esecuzione di opere edilizie (lettera i), cioè mediante semplice posa su di una superficie piana senza stabile ancoraggio all’edificio, ovvero, ancorché mediante l’esecuzione di opere murarie (relative al loro ancoraggio), purché “entro la sagoma dell’edificio” (lettera m), cioè all’interno dello spazio delimitato dai parapetti dei balconi o di appositi vani o rientranze delle pareti perimetrali (nello stesso senso cfr. la risposta della regione Liguria al quesito n. 95, cfr. doc. 5 delle produzioni 14.6.2011 di parte ricorrente, p. 3 e ss.).
Nel caso di specie, è pacifico che i condizionatori de quibus sono stati stabilmente ancorati ai prospetti dell’edificio (cfr. la documentazione fotografica allegata al verbale del corpo di polizia locale, doc. 3 delle produzioni 23.06.2011 di parte comunale), alterandone la sagoma: essi non integrano dunque un intervento di manutenzione ordinaria esente dal rilascio di titolo abilitativo.
In ogni caso, è dirimente il rilievo che anche gli interventi non soggetti a titolo abilitativo (e -tra questi- quelli di manutenzione ordinaria disciplinati dall’art. 6 L.R. n. 16/2008) postulano comunque il rispetto della normativa urbanistico edilizia comunale (art. 21, comma 1, L.R. n. 16/2008).
Nel caso di specie, assumono rilevanza gli artt. 51 del regolamento edilizio comunale e 10.1 delle N.T.A. dello studio organico di insieme del centro storico di Varazze, i quali non ammettono la messa in opera di corpi sporgenti o di impianti a vista.
E’ poi è appena il caso di sottolineare come l’espressione “a vista” evochi proprio la collocazione sui prospetti dell’edificio, a prescindere dalla visibilità dalle strade pubbliche, e come non sussista un contrasto, suscettibile di essere composto a mezzo del principio di specialità, tra le disposizioni sopra citate e la disciplina urbanistico-edilizia delle strutture ricettive (doc. 2 delle produzioni 23.06.2011 di parte comunale, p. 4), che invero si limita a stabilire che i manufatti relativi all’impianto di condizionamento non costituiscono volumetria ai fini del rispetto degli indici edificatori
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.06.2012 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
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L'ordinanza di demolizione può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata da lavori edilizi abusivi.
Infatti, l'estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi commessi sulla cosa locata e affittata dal conduttore, locatario o affittuario non implica illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa ai sensi dell'art. 7 l. n. 28 del 1985 nei confronti del responsabile dell'abuso, ma –se del caso- la sola insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.

Per costante giurisprudenza, anche della Sezione, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. di St., V, 11.01.2011, n. 79; TAR Liguria, I, 14.01.2011, n. 43).
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Anche a prescindere dal difetto dell’interesse a dedurre il motivo, si osserva che l'ordinanza di demolizione può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata da lavori edilizi abusivi.
Infatti, l'estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi commessi sulla cosa locata e affittata dal conduttore, locatario o affittuario non implica illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa ai sensi dell'art. 7 l. n. 28 del 1985 nei confronti del responsabile dell'abuso, ma –se del caso- la sola insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (TAR Lazio-Roma, I-quater, 07.03.2011, n. 2031)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 25.06.2012 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istallazione dei condizionatori è soggetta a d.i.a.. L’articolo 3, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 380/2001 include tra gli interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”, e che per tali interventi l’articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 richiede una semplice D.I.A..
Dunque, “anche l’installazione dei pannelli solari, del serbatoio in acciaio e delle tre unità esterne per condizionatori rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi di opere finalizzate a integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, che non alterano i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportano modifiche delle destinazioni di uso. Del resto, proprio con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, questa Sezione ha recentemente avuto modo di chiarire che l’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A.. Pertanto l’Amministrazione -invece di ordinarne ai sensi dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere in questione, per le quali non risulta presentata alcuna D.I.A.- avrebbe dovuto semmai applicare la sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001”.

Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Infatti, come stabilito da Tar Campania Napoli VII n. 5245/2008 e n. 16203/2007 l’istallazione dei condizionatori è soggetta a d.i.a.. L’articolo 3, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 380/2001 include tra gli interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”, e che per tali interventi l’articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 richiede una semplice D.I.A..
Dunque, “anche l’installazione dei pannelli solari, del serbatoio in acciaio e delle tre unità esterne per condizionatori rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi di opere finalizzate a integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, che non alterano i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportano modifiche delle destinazioni di uso. Del resto, proprio con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, questa Sezione ha recentemente avuto modo di chiarire che l’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A. (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 12.12.2007, n. 16203). Pertanto l’Amministrazione -invece di ordinarne ai sensi dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere in questione, per le quali non risulta presentata alcuna D.I.A.- avrebbe dovuto semmai applicare la sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001” (Tar Campania, Napoli, VII, n. 5245/2008) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.04.2011 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli illeciti in materia edilizia consistenti nella realizzazione di opere senza autorizzazione hanno carattere di illecito permanente, sicché il dies a quo del termine di prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza.
Pertanto, finché permane l’illecito, l’Amministrazione può agire senza limiti di tempo e senza dover motivare sul perché il potere sanzionatorio è stato esercitato in ritardo. Né serve una motivazione, trattandosi di atto vincolato.

Quanto alla prescrizione, vanno condivise le osservazioni dell’Amministrazione, in forza delle quali gli illeciti in materia edilizia consistenti nella realizzazione di opere senza autorizzazione hanno carattere di illecito permanente, sicché il dies a quo del termine di prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza.
Pertanto, finché permane l’illecito, l’Amministrazione può agire senza limiti di tempo e senza dover motivare sul perché il potere sanzionatorio è stato esercitato in ritardo. Né serve una motivazione, trattandosi di atto vincolato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.04.2011 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di condizionatori, per la loro natura, non rientra tra gli interventi che, ai sensi degli artt. 6 e 10 DPR n. 380/2001 necessitano di permesso di costruire ma, semmai, soggiace alla d.i.a..
Giova innanzi tutto premettere, in punto di fatto:
- che l’installazione dei condizionatori è intervenuta nell’ambito di lavori di manutenzione straordinaria per i quali era stata presentata d.i.a.;
- che gli stessi (come dimostrato con perizia tecnica ed allegato servizio fotografico, in atti), sono ubicati “in un anfratto sottoposto ad uno sporto verandato e gravitanti sulla copertura dei vani terranei ... ubicati in area implusa, retrostante l’ampio atrio del fabbricato ed il cortile condominiale”;
- che per gli stessi la competente Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Napoli, ha espresso parere favorevole ai fini della compatibilità paesaggistica ex l. n. 308/2004 (v. atto 07.11.2008 n. 23324/08, in atti).
A fronte di ciò, il provvedimento impugnato si fonda sul presupposto del difetto di permesso di costruire, e su quanto risultante dalla relazione 20.02.2008 della Polizia Municipale di Sorrento (anch’essa impugnata), che situa i tre condizionatori “sul prospetto della facciata esterna del fabbricato”.
Alla luce di quanto esposto, appaiono fondate le doglianze della ricorrente, sia in quanto il luogo di ubicazione dei condizionatori è erroneamente riportato, in modo tale da suggerire una (non esistente) alterazione della facciata principale del fabbricato, così palesandosi il lamentato vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria (e quindi di motivazione); sia in quanto, l’installazione in esame, per la sua natura, non rientra tra gli interventi che, ai sensi degli artt. 6 e 10 DPR n. 380/2001 necessitano di permesso di costruire, come già rilevato da questo stesso Tribunale con la propria ordinanza cautelare.
Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 02.07.2009 n. 3633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione dei pannelli solari, del serbatoio in acciaio e delle tre unità esterne per condizionatori rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi di opere finalizzate a integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, che non alterano i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportano modifiche delle destinazioni di uso.
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L’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A..
Pertanto l’Amministrazione -invece di ordinarne ai sensi dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere in questione, per le quali non risulta presentata alcuna D.I.A.- deve semmai applicare la sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001.

Quanto alle restanti opere, occorre evidenziare che anche l’installazione dei pannelli solari, del serbatoio in acciaio e delle tre unità esterne per condizionatori rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, trattandosi di opere finalizzate a integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, che non alterano i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportano modifiche delle destinazioni di uso.
Del resto, proprio con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, questa Sezione ha recentemente avuto modo di chiarire che l’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A. (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 12.12.2007, n. 16203).
Pertanto l’Amministrazione -invece di ordinarne ai sensi dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere in questione, per le quali non risulta presentata alcuna D.I.A.- avrebbe dovuto semmai applicare la sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.06.2008 n. 5245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di manutenzione straordinaria, previsti dall’art. 31, lett. b), della legge 05.08.1978, n. 457, sono caratterizzati da un duplice limite, uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l'altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione.
Secondo una consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2007, n. 1388) gli interventi di manutenzione straordinaria, previsti dall’art. 31, lett. b), della legge 05.08.1978, n. 457, sono caratterizzati da un duplice limite, uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell’edificio, e l'altro di ordine strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 12.12.2007 n. 16203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A..
Con riferimento alle opere indicate al punto n. 5) (ndr: istallazione, sulla parete esterna del terrazzo, di due unità eterne per condizionatore, che non risultano visibili dalla strada) si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. I, 17.04.2007, n. 3323) l’istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili) è sottoposta al regime della D.I.A. (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 12.12.2007 n. 16203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può parlarsi di abuso edilizio nei confronti di un'attività consistente nell’installazione (su parete esterna) di condizionatore d'aria, trattandosi di attività di impianto di uno strumento assolutamente coerente con l'uso normale dell'immobile.
- CONSIDERATO che il ricorso (proposto avverso l’ordinanza n. 941 del 25.03.1994, con la quale il Comune di Palermo ha disposto la rimozione di un condizionatore d’aria collocato sulla parete esterna del fabbricato sito in via ...) si appalesa fondato sotto l’assorbente profilo di censura dedotto con il secondo motivo d’impugnazione (eccesso di potere per carenza dei presupposti).
Ed invero, la collocazione del suddetto condizionatore non rientra in alcuna delle ipotesi in cui l’art. 3 del regolamento edilizio del Comune di Palermo (richiamato nell’atto impugnato ed allegato al ricorso) prescrive il rilascio della “preventiva licenza del Sindaco”.
Al riguardo, va osservato che non può parlarsi di abuso edilizio nei confronti di un'attività consistente nell’installazione di condizionatore d'aria, trattandosi di attività di impianto di uno strumento assolutamente coerente con l'uso normale dell'immobile (in tal senso, TAR Lazio, sez. II, 13.01.1984, n. 34) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 26.10.2005 n. 4101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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